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italiana sta nella sua ricchezza di parole, nella mobilità della sua
sintassi, nella particolarità della sua storia. Con garbo, ironia e
precisione scientifica Mariangela Galatea Vaglio ci guida a
conoscerne le avventure nel corso dei secoli, dalle oscure origini
all’esplosione dantesca, dal dominio culturale nell’Europa
rinascimentale e barocca fino alla modernità e all’attuale lotta per
adeguarsi senza snaturarsi a un mondo popolato da inspirational
manager, babysitter e personal trainer.
Completa il libro un sintetico e divertito “ripasso” dei fondamenti
di ortografia e grammatica: tanto per non dimenticare che tra i
messaggini, le chiacchiere in chat e il congiuntivo non deve
esserci guerra, ma positiva alleanza. Se è vero che viviamo
nell’era della comunicazione, è importante essere capaci di una
scrittura non solo brillante ed efficace ma anche corretta e
dignitosa.
L’italiano è bello
Una passeggiata tra storia, regole e bizzarrie
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Copertina
Abstract - Autrice
Frontespizio
Copyright
Esergo
Introduzione
Storie di parole
«Petaloso», ovvero le parole si inventano quando servono
Radici di famiglia
Storia sociale delle parole. Le parole raccontano mondi
Sindaca, presidenta, pilota e altre questioni di genere
Come le parole entrano nel dizionario: prestiti, dialetti
Testi consultati
Ringraziamenti
Introduzione
[So che quelle terre con quei confini che qua sono indicati, le possedette per
trent’anni la parte di San Benedetto.]
Il “miracolo” Dante
Dante Alighieri è uno di quei miracoli della natura che lasciano
senza fiato. Un po’ come le Montagne Rocciose o la Cappella
Sistina; quando le vedi la prima cosa che ti chiedi è: «Ma come
diavolo sono riuscite a venire fuori così?»
Ecco, con Dante l’effetto è lo stesso. Apparentemente aveva
tutto contro. Era un uomo di famiglia piuttosto oscura e con
scarse risorse economiche, che nel corso della vita ha avuto sotto
mano pochi libri ed è stato per giunta coinvolto in una serie di
eventi tanto drammatici da strappargli anche le poche sicurezze e
gli affetti più cari. Nonostante questo ha scritto quel capolavoro
che è la Commedia.
La Commedia non è un poema, è una di quelle opere che
rivoltano come un pedalino la storia della letteratura mondiale.
Non c’è posto, nell’Europa e nel mondo, dove non sia stata e non
sia ancora oggi letta, studiata, ammirata. Da Milton a Eliot a
Pound è stata fonte di ispirazione per generazioni di autori nei
secoli successivi. Fa parte del ristretto novero dei capisaldi
dell’umanità: dà il braccetto e qualche volta surclassa perfino
Iliade e Odissea. Più che un’opera letteraria, è un mondo. E lo è
perché è scritta in una lingua che è essa stessa un miracolo:
matura, innovativa, corposa, potente. Un linguaggio così duttile e
sapido che pare avere alle spalle una tradizione lunghissima e
stratificata, mentre in molti casi ha dietro solo l’inventiva di un
uomo: Dante. È lui che tesse, taglia, cuce; è lui che ripesca o
riadatta termini dal latino, dal siciliano, dal provenzale, dal
francese, dai vari dialetti d’Italia, o ne forgia di nuovi; è lui che li
amalgama e li assembla. Crea così qualcosa che è vitale e
moderno, anche se è squisitamente medievale. La Commedia è
davvero sorella delle grandi cattedrali d’Europa, quelle che sono
state tirate su a occhio con maestria ineguagliabile da muratori
che lavoravano la pietra con strumenti spesso primitivi e
imprecisi. Come quelle, la lingua dantesca è in grado di
rappresentare tutti gli aspetti della società, dai più alti ai più bassi
e grevi: l’amore spirituale e la passione carnale, le vette della
filosofia e della teologia, l’ira più rovinosa e la serenità che si
raggiunge solo con il perfetto distacco dalle miserie del mondo.
Quando si definisce Dante “il padre della lingua italiana” si usa un
luogo comune. In realtà più che padre lo si dovrebbe definire “la
madre”. L’ha concepita, nutrita, protetta, alimentata e infine
partorita, svezzata e mandata per il mondo. Prima di lui l’italiano
non c’era, e dopo di lui invece decisamente sì, pronto a prendere
il suo posto nella storia della cultura. Un vero genitore di
successo.
L’italiano, la lingua nata per le donne
Il giovane Dante non pareva destinato alla gloria. Tutto
congiurava contro di lui. Proveniva da una famiglia che vantava
nobili ascendenze, ma alquanto dubbie e fumose. Gli Alighieri si
dicevano parenti degli Elisei, discendenti di tal Eliseo, cavaliere di
Carlo Magno, che sarebbe stato fra i rifondatori della città di
Firenze dopo le devastazioni longobarde, ma nulla confermava
questa storia. Se le parentele erano incerte, certissimo era invece
il fatto che non navigassero nell’oro al tempo della nascita di
Dante. Se anche avevano fondato Firenze, la città si era poi
sviluppata senza alcun loro fondamentale contributo. Ci tenevano
però a dare al loro rampollo una buona educazione e fargli
frequentare le migliori compagnie. Dante divenne allievo di
Brunetto Latini, l’intellettuale fiorentino più famoso in quel
periodo, e soprattutto amico di uno dei giovani più in vista della
città, Guido Cavalcanti.
I Cavalcanti erano mercanti ricchissimi e guelfi, e perciò
tenevano per il papa, ma per pararsi in ogni evenienza s’erano
anche imparentati con Farinata degli Uberti, che era stato il gran
capo della fazione ghibellina. Guido infatti ne aveva sposato la
figlia. Bello, elegante, colto e con una certa aria da intellettuale
trasgressivo che si diverte a flirtare con le nuove correnti
filosofiche in odore di eresia, Guido era l’animatore di un cenacolo
di poeti che propugnavano un nuovo stile nella letteratura.
Passarono alla storia con il nome di Stilnovisti.
Componevano raffinate poesie d’amore e le dedicavano alle
loro belle, che non erano volgari amanti, ma più muse ispiratrici,
angeli circonfusi di luce che ispiravano e nobilitavano gli spiriti
dei loro amati. Non che disdegnassero poi qualche avventura più
carnale. Guido era molto sensibile alle grazie di pastorelle
incontrate per caso nei boschi e donzelle francesi incrociate
durante serissimi pellegrinaggi a Tolosa, e Dante stesso ebbe una
storia con tal Violetta, che gli aveva incendiato la mente e non
solo.
La lingua volgare e l’amore in ogni sua forma per gli Stilnovisti
erano strettamente legati. La lingua volgare infatti è strumento e
veicolo di seduzione fin dalla sua nascita, anzi sedurre è proprio il
fine per cui è stata usata per la prima volta in poesia:
Il primo che cominciò a dire siccome poeta volgare, si mosse però che volle far
intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole di intendere i versi
latini.
[Il primo che cominciò a scrivere versi in volgare era mosso dall’intento di farsi
capire da una donna, che non era in grado di comprendere una poesia scritta in
latino.]
Petrarca e l’orologino
Nel 1304, mentre Dante si trovava esule in quel di Bologna per
studiare il volgare “perfetto”, ad Arezzo nasceva Francesco
Petrarca.
Verrà considerato il poeta lirico più famoso d’Europa e nei
secoli successivi il suo volgare fiorentino fu ritenuto lo strumento
perfetto per comporre versi. Il che è curioso, visto che visse un
po’ ovunque in Italia e in giro per l’Europa tranne che, in pratica,
a Firenze.
Anche il padre di Petrarca faceva parte a Firenze dei Guelfi
Bianchi, ed era stato condannato all’esilio proprio assieme a
Dante, ma le somiglianze nella condizione dei due finiscono qua.
Ser Pietro Petracco (questo il nome del padre del poeta) era
notaio affermato e ben ammanicato con la Curia romana, il che
rese l’esilio della famiglia ben più comodo di quello di Alighieri.
Dopo qualche anno trascorso in Toscana, dove per altro il
giovanissimo Francesco e Dante si incrociano forse a Pisa,
fuggevolmente e senza che fra i due sia scoccata alcuna scintilla,
ser Pietro porta la famiglia ad Avignone, sede della corte papale.
Il padre sogna per Francesco una carriera giuridica, e infatti il
ragazzo studia legge a Montpellier, e viene poi inviato a
perfezionarsi a Bologna, che ancora una volta si dimostra una
sorta di accogliente nursery per la letteratura italiana.
Nella capitale emiliana Francesco non diviene avvocato, ma
studia i classici latini e legge molta, anzi moltissima poesia
volgare, compresa probabilmente la Commedia, anche se poi il
nostro sarà sempre molto reticente sull’influenza che Dante ha
avuto su di lui. Oltre alla letteratura, cura soprattutto le pubbliche
relazioni. Se c’è una cosa in cui Petrarca batte Dante è la sua
capacità di stringere legami duraturi e proficui con i politici che
contano. I suoi primi protettori e sponsor saranno i Colonna,
potentissima famiglia romana, ma nel corso della sua vita se ne
succederanno altre, come i Visconti, e non mancherà la
fascinazione breve ma intensa per una meteora rivoluzionaria,
Cola di Rienzo.
Petrarca riuscirà a raggiungere tutto ciò che Dante non ottenne
mai: sarà ricco, osannato dai potenti, coccolato come un vip,
ricercato come consulente ed esperto. Nel 1341 il senato della
città di Roma lo onora laureandolo come poeta con una corona
d’oro in Campidoglio, con una cerimonia pubblica, solenne e
sfarzosa che riprende quella del poeta latino Stazio e sancisce così
il suo successo internazionale, accreditandolo come erede diretto
degli antichi letterati latini.
Avrà schiere di discepoli e di ammiratori, lancerà mode
culturali, verrà lodato e preso a modello in tutta Europa.
Alle volte viene da chiedersi se tutto questo successo non gli
abbia in parte nuociuto, perché Petrarca, ancorché considerato un
grande, viene però percepito spesso come un opportunista e un
poeta “freddo”. Se Dante conquista per il suo vigore sanguigno,
per le sue violente prese di posizione e per la grande capacità di
rischiare, in tutti i sensi, anche nelle scelte linguistiche, Petrarca
no. Le sue poesie scorrono come le «chiare, fresche e dolci acque»
che descrisse in una delle sue più celebri canzoni. I versi
scivolano senza un intoppo, eleganti, privi di sbavature, perfetti.
Anche se raccontano di grandi tormenti interiori, questa angoscia
non lascia tracce nella forma, che è sempre sorvegliatissima e
limpida.
Petrarca, al contrario di Dante, era un vero uomo d’ordine. In
tutti i sensi, nella vita come nella letteratura. Gli piacciono le
regole chiare, enunciate con precisione e seguite con scrupolo.
Ama i classici ed è il primo dopo tanti secoli a capirne appieno la
lezione. L’intero mondo greco e romano aspirava al
raggiungimento dell’armonia, che era la capacità di vivere fino in
fondo le passioni senza però diventarne schiavi. Questo è l’ideale
anche linguistico di Petrarca.
Nelle sue opere tutti i termini usati sono scelti con maniacale
attenzione e posizionati con altrettanta cura: nei versi da lui
scritti non si può cambiare una parola né spostarla, perché le
poesie di Petrarca sono un sofisticato meccanismo che è pensato
come un orologino. Non inventa nulla, perché ogni parola è stata
già usata da qualcun altro in precedenza, e ogni metro e verso
pure. Ma lui riesce a servirsene come nessun altro mai prima.
Petrarca è per la poesia quello che Coco Chanel è stata per la
moda: non ha disegnato dei vestiti, ha creato un immortale
canone di eleganza.
Ciò che racconta si fonde perfettamente con il modo in cui
racconta, si trasfigura, diviene letteratura, cioè rielaborazione,
omaggio o ripresa della tradizione precedente.
Sia che scriva una poesia d’amore come «Benedetto sia il
giorno»:
Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno,
e la stagione, e ’l tempo, e l’ora, e ’l punto,
e ’l bel paese, e ’l loco ov’io fui giunto
da’ duo begli occhi che legato m’hanno;
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto.
Ma nel cuore
nessuna croce manca.
È il mio cuore
il paese più straziato.
GIUSEPPE UNGARETTI, San Martino del Carso (1916)
Gli intellettuali e la tv
Gli intellettuali hanno avuto negli anni con la televisione un
rapporto controverso, ma stretto. Ennio Flaiano fu autore di
diversi programmi e documentari per la Rai, oltre a scrivere
spettacoli teatrali e le rispettive riduzioni per la radio. Leone
Piccioni curò il programma di letteratura L’approdo, andato in
onda dal 1963 al 1972 con uno staff di collaboratori tra cui
c’erano Riccardo Bacchelli, Carlo Bo, Emilio Cecchi, Roberto
Longhi e Giuseppe Ungaretti. Riccardo Bacchelli curò anche la
prima riduzione televisiva dei Promessi sposi.
Chi invece si schierò contro la televisione e la sua capacità di
“normalizzare” e appiattire la cultura e perciò anche la lingua fu
Pier Paolo Pasolini.
Per chi come lui era affascinato dall’antica civiltà contadina e
cercava di recuperare, anche linguisticamente, l’enorme varietà e
spontaneità della lingua degli strati più bassi della società, come
le borgate romane, le immense semibaraccopoli sorte alle porte
della Capitale, la televisione con il suo livellamento e la sua
proposta di modelli trasversali e stereotipati, anche linguistici, era
il peggior incubo che si potesse immaginare.
Il 9 dicembre del 1973 scriveva sul Corriere della Sera:
Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della
civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e
monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari
(contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai
loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a
parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e
incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può
dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo
potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta
esercitare tale repressione? […] Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è
stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha
assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di
culture originali.
Radici di famiglia
Il lessico di internet
Su Facebook ho un sacco di amici! I miei status vanno alla grande! Su Instagram i
miei followers laicano di continuo tutti i miei selfie! Ogni volta che twitto mi
retwitta mezzo mondo! E sono anche uno Youtuber. Sono un vero influencer, una
webstar! Purtroppo ogni tanto arriva anche qualche troll che fa scoppiare un
flame. Questi haters sono davvero odiosi, si facessero una vita! Odio i
grammarnazi che ti correggono ogni errore nei post. Quasi quasi meglio gli
webeti che condividono bufale, guarda! Almeno quando li scoprono, lolli!
Il punto e virgola
Di tutti i segni di interpunzione, il punto e virgola è quello che
lascia più spiazzati. In effetti il suo uso è talmente personale che
alcuni possono passare una vita a scrivere senza usarlo
praticamente mai. Pare uno di quegli strani aggeggi che ti ritrovi
in casa e non sai bene come utilizzare: quando lo hai visto
reclamizzato in una televendita hai pensato che dovevi
assolutamente averlo, ma una volta a casa non sai cosa fartene di
preciso.
Per capire esattamente come vada usato, è necessario pensare
alla pagina scritta come a un pentagramma. Come sullo spartito ci
sono note e pause, perché nella musica è necessario che ci siano
dei momenti di silenzio, anche quando si scrive i punti, le virgole e
gli altri segni di punteggiatura servono a segnalare i momenti in
cui ci si deve fermare o rallentare un po’. I musicisti, quando
devono fare le pause, contano.
Anche con la punteggiatura possiamo utilizzare lo stesso
metodo empirico. Il punto è una pausa lunga. Se è un punto-e-
basta, quello che mettiamo alla fine di un paragrafo o di un
capitolo, diciamo che dopo di lui contiamo fino a quattro prima di
ricominciare a leggere. Il punto che invece separa le frasi nel
mezzo di un paragrafo dovrebbe essere giusto giusto un pochino
più breve, quindi diciamo che dopo di lui contiamo fino a tre. La
virgola vale uno, perché abbiamo visto sopra che è solo una
piccola pausa fra due parole o frasi. Il nostro punto e virgola sta in
mezzo. In pratica è più lungo di una virgola ma più breve di un
punto. Diciamo che è una pausa in cui si conta fino a due e poi si
ricomincia.
Il punto e virgola sguazza nei periodi medio lunghi e lunghi. È
lì che dà il meglio di sé. Nell’Ottocento godeva di grande rispetto
e veniva usato da autori che erano dei virtuosi della
punteggiatura. Manzoni, per esempio, è un puntoevirgolista
provetto, e agli amanti della punteggiatura I promessi sposi
regala estasi di goduria:
Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la
giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente
aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la
mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l’indomani
sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte
angosciose.
I puntini di sospensione
Sono una specie di epidemia. Un morbo che si diffonde e
attacca anche chi pensavi ne fosse immune. Diplomati, laureati,
gente che ha passato anni e anni nelle aule scolastiche e quindi
dovrebbe avere ben chiari i fondamentali per scrivere un testo.
Invece no: riempiono i loro scritti di puntini di sospensione al
posto di punti o virgole.
I puntini di sospensione, in italiano, si usano quando si vuole
lasciare intendere che una lista o un discorso continuano, o
meglio potrebbero ancora continuare a lungo, ma l’autore prova
un moto di pietà nei confronti dell’uditorio, e mette quindi i
puntini per indicare che lascia il resto all’immaginazione del
lettore.
«Ho comprato ieri pane, latte, verdure, carne, yogurt…» e qua
pietosamente si tace sulle altre decine di cose che sono finite nel
nostro carrello dopo il consueto giro al supermercato.
Altra funzione dei puntini di sospensione è appunto sospendere
il racconto tenendo il lettore sul filo. Sono una specie di cartello to
be continued che viene lasciato alla fine di una frase, di un
periodo, o magari anche di un racconto o di un capitolo di
romanzo, per far intendere al lettore che si tratta di un finale
aperto, che qualcosa potrebbe ancora succedere se voltasse la
pagina, o che comunque la faccenda non è finita e può riservare
altre sorprese.
«Eh, se ne potrebbero ancora dire di cose…»
Ecco, questi sono i casi in cui si è autorizzati a usare i puntini
di sospensione. Invece l’Italia è invasa da una marea di puntini di
sospensione incomprensibili. Anzi, ci sono proprio delle tipologie
specifiche di seminatori di puntini:
Forme e modi
In italiano abbiamo tre forme del verbo: attiva, passiva e
riflessiva.
Se dico io mangio, sono io a compiere l’azione di mangiare, e
se il manicaretto è buono è un’azione certamente piacevole; se
invece scrivo io sono mangiato, l’azione non è per niente piacevole
per me che la subisco, e probabilmente vuol anche dire che ho
incrociato Hannibal the Cannibal sulla mia strada. Se invece
scrivo mi mangio (le mani, per esempio) l’azione che compio io
ricade su di me, e non è in questo caso comunque una cosa
piacevole, perché probabilmente sono infuriato con me stesso per
una qualche occasione che mi sono fatto scappare.
Abbiamo sette modi verbali: quattro (indicativo, congiuntivo,
condizionale e imperativo) sono detti modi finiti perché indicano
esplicitamente a quali persone l’azione si riferisce. Tre sono
invece chiamati modi indefiniti (participio, gerundio e infinito)
perché non indicano di preciso a quale persona l’azione si
riferisca.
L’indicativo si usa per le cose che succedono realmente:
«Mangio il panino», «Saltai la lezione», «Convincerò Massimo a
portarmi alla festa sabato sera». Il congiuntivo indica invece
un’azione che è una ipotesi, un augurio o un desiderio: «Penso che
sia un bravo ragazzo» (ma non ne sono certa, e con gli uomini non
si sa mai), «Magari arrivasse primo alla gara!», «Spero che trovi
finalmente l’amore della sua vita».
Se l’azione invece può accadere solo a patto che si verifichi una
qualche altra condizione, si usa il condizionale (i grammatici
hanno una fantasia limitata nello scegliere i nomi, come si nota).
Se avessi una mela (condizione) → me la mangerei (azione
espressa al condizionale).
Se invece do un ordine, allora uso l’imperativo (ve l’ho detto,
non hanno una gran fantasia con i nomi), e per essere sicuri che si
capisca che è un ordine, l’imperativo di solito viene usato con un
bel punto esclamativo dopo: «Portami una mela!»
L’imperativo negativo, ovvero quello che esprime un divieto,
viene costruito con l’infinito preceduto da non: «Non calpestare le
aiuole!»
Di solito la buona educazione consiglia di far precedere gli
imperativi da una qualche forma di cortesia quando si è in un
contesto in cui è brutto dare ordini secchi: «Per piacere, passami
il sale!», «Ti prego, non urlare!». Ma non lasciatevi ingannare,
sempre comandi restano.
Gerundi, participi e infiniti, invece, non hanno una persona
precisa di riferimento. Se dico andando non è chiaro in quanti
vanno, e posso capirlo solo dal contesto: «Andando a casa ho
incontrato Anna», «Andando in giro conobbero tanta gente
nuova»; il participio invece può essere concordato al singolare e al
plurale: «Vista la mala parata, Andrea fu costretto a retrocedere»,
«Considerati i risultati, dovresti essere felice».
I pronomi personali
I pronomi sono servizievoli e discreti. Appaiono, svolgono il loro
compito e tornano nell’ombra. Prendiamo Emma. «Emma è una
donna impegnatissima: Emma lavora tutto il giorno. Quando
chiamano Emma, Emma è sempre disponibile, Emma risponde al
telefono subito.»
Come vedete, Emma è una cara ragazza, ma un po’ invadente.
Sta troppo al centro dell’attenzione e finisce per farsi odiare.
Basta però sostituire il suo nome con un pronome e già il suo
iperattivismo risulta più tollerabile: «Emma è una donna
impegnatissima: lei lavora tutto il giorno. Quando la chiamano, lei,
che è sempre disponibile, risponde al telefono subito.»
Un tempo, lo dico subito per i puristi, questa frase sarebbe
stata considerata scorretta. Lei infatti non era il pronome
personale soggetto: avremmo dovuto usare ella. Ma ella oggi fa
subito Ottocento: se lo dite, nella mente di chi ascolta Emma viene
subito immaginata come una dama in crinolina. Anche il maschile
egli non gode di ottima salute. Si preferisce usare lui.
I pronomi personali soggetto sono io, tu, egli, ella (ma abbiamo
visto ormai si preferisce usare lei e lui), noi, voi, essi (anche qua,
ormai si preferisce usare loro). Questi pronomi si usano quando
sono, appunto, il soggetto della frase (lo avevamo detto, no? I
grammatici hanno poca fantasia), cioè quando compiono o
subiscono l’azione raccontata dal verbo. Se invece devo indicare
una persona che non è il soggetto della frase, devo usare i
pronomi personali complemento.
In italiano sono di due tipi: tonici e atoni. Quelli atoni sono una
serie di monosillabi che si appoggiano al verbo vicino e si fanno
quasi fagocitare da lui. Quelli tonici sono me, te, sé, lei, lui, loro,
che hanno un accento proprio. Svolgono la funzione di
complementi, ma non per questo devono essere per forza
considerati dei comprimari senza carattere. Se uno dice agli
amici: «Mi piace Laura» può trattarsi anche di una generica
simpatia verso una amica. Se invece qualcuno chiarisce: «Ti piace
Laura? A me piace Lucia!» il me è ben sottolineato e centrale.
Il sottinteso lampante è che se qualcun altro prova a fare il
cascamorto con Lucia sono guai.
I pronomi atoni, invece, sono più timidi e insicuri. Hanno
bisogno di una spalla a cui appoggiarsi, perché non hanno un
accento e se abbandonati nella frase si sentono spersi. Se
precedono il verbo, sono scritti staccati, ma è come se fossero
appoggiati a lui comunque: quando si scrive mi piaci in realtà si
pronuncia mipiàci, come se fosse un’unica parola. Se invece
vengono dopo il verbo, sono addirittura scritti come se fossero
una sola parola: «Legalo!», «Dammi!».
Lo e la sono le forme atone di lui e lei. Come per il me/mi le
due forme vengono usate anche per aumentare l’intensità
dell’azione. Se dico lo guardo, probabilmente voglio dire che un
ragazzo mi è passato davanti e io gli ho dedicato una occhiata
abbastanza distratta, o veloce, senza soffermarmi più di tanto su
di lui. Ma se scrivo guardo lui, il lui in questione calamita la mia
attenzione come se avesse un faro puntato addosso. Non lo sto
solo guardando, lo punto proprio. Quindi attenzione a non
esagerare con lui/lei, o vi scambieranno per stalker.
Il pronome relativo
Nelle grammatiche serie, vi diranno che il pronome relativo
serve a mettere in relazione due frasi, una principale e una
subordinata.
Se dico per esempio: «Il libro è sul tavolo e il libro l’ho
comprato ieri», ho due frasi piuttosto bruttine da leggere assieme.
Ma se uso il pronome relativo che tutto diventa subito più
scorrevole: «Il libro che ho comprato ieri è sul tavolo.»
In realtà il pronome relativo è come un gancio o un piccolo
arpione. Acchiappa una parola che sta nella frase prima e ci si
avvinghia come certi cagnetti alle caviglie altrui.
I pronomi relativi in italiano sono che, cui e il quale/la quale/i
quali/le quali. Che e cui sono i più usati. Derivano dal latino qui,
quae, quod che al genitivo (cioè il caso del complemento di
specificazione) facevano cuius e al dativo (cioè il caso del
complemento di termine) cui, mentre all’accusativo (cioè il caso
del complemento oggetto) qui faceva quem, da cui il nostro che
discende.
L’antica declinazione latina ha lasciato tracce nell’uso di questo
pronome: che si usa nei casi in cui il pronome è soggetto o
complemento oggetto. In tutti gli altri casi, cioè quando è un
complemento indiretto, si usa cui, che può essere preceduto da
una preposizione (di cui, per cui, a cui…).
Come il lazo del cowboy, quando il pronome relativo si
avvinghia a qualcosa, non lo molla più. Per cui bisogna fare molta
attenzione quando si decide di usarlo. In genere in italiano il
pronome relativo si riferisce al termine più vicino. Se scrivo «il
libro che è sul tavolo è giallo», il che si riferisce a libro, ed è il
libro a stare sul tavolo e a essere giallo. Ma se scrivo «il libro è sul
tavolo che è giallo», il che si riferisce al tavolo, e il tavolo risulterà
di un bel color canarino. Non lasciate vagare per le vostre frasi i
che incustoditi: come i cagnetti randagi seguono il primo
sconosciuto che incontrano, e gli effetti possono essere piuttosto
buffi.
Spesso che e cui vengono scambiati come se fossero
equivalenti. Orecchiando pezzi di conversazioni è facile sentire
frasi come «è successo il giorno che ti ho incontrato» oppure «non
capisco le cose che parlano». Se la prima frase è più accettabile
(anche se sempre errata) appena pronunciate la seconda sentirete
un tonfo alle vostre spalle: è il nostro povero accademico della
Crusca che è svenuto, lì, sul pavimento. Si dice «il giorno in cui ti
ho incontrato» e soprattutto «le cose di cui parlano». Le cose,
infatti, parlano solo nelle favole o nei romanzi di Harry Potter. In
ogni caso, se potessero parlare davvero, pure loro vi
consiglierebbero di ripassare i pronomi relativi.
L’articolo determinativo
L’articolo determinativo è quello che deriva dal latino ille/illa e
indica una cosa in maniera precisa. Se dico «prendi il libro!» vuol
dire che siamo in un contesto in cui entrambi sappiamo
perfettamente quale sia il libro desiderato, o perché ne abbiamo
già parlato in precedenza o perché siamo in una stanza in cui di
libro ce n’è solo uno e non è quindi possibile fare confusione. Gli
articoli determinativi sono anche gli unici ad avere sia il singolare
che il plurale. Sono il, lo, la, i, gli, le.
Vanno usati con una certa attenzione: l’articolo infatti si sceglie
tenendo conto della lettera con cui comincia la parola a cui si
riferisce.
Il e i si usano in generale davanti a tutti i nomi maschili che
cominciano per consonante: il cane, il foglio, i cani, i fogli.
Lo e gli invece si usano davanti a tutti i nomi maschili che
cominciano per vocale, e in questo caso si può anche elidere la -o
sostituendola con un apostrofo: lo uomo → l’uomo.
Si usa lo e gli anche davanti a tre consonanti particolari, cioè z,
y, x. Si tratta di tre lettere “straniere”. Ora, direte voi, passi per la
y e la x, ma la zeta è straniera? Sì. Nel latino classico non
esisteva, è un suono che veniva dal greco ed è stato adottato tardi
dai Romani fra le lettere usate nella penisola. Ma oggi, come
vedete, è perfettamente inserita nella lingua e nella società.
Lo e gli si mettono anche davanti a parole che iniziano per
gruppi di consonanti, come per esempio la s seguita da un’altra
consonante: lo strafalcione, lo scafo e gli strafalcioni, gli scafi; e
davanti a gn-, pn-, ps-: si dice infatti lo gnocco, lo psicologo e gli
gnocchi, gli psicologi.
Il gruppo pn- è forse l’unico che crea qualche grattacapo. In
italiano le parole che iniziano con pn- sono relativamente poche e
sono collegate quasi tutte al greco pneuma, che significa “soffio”.
Si tratta quindi di parole tipiche della medicina, per esempio,
come pneumotorace, pneumologo, pneumococco. Siccome le
usano i dottori, che sono laureati e quindi hanno tutti fatto un
lungo percorso di studi, è difficile che sbaglino l’articolo. C’è però
una parola che deriva da pneuma ed è entrata nel linguaggio
comune, e cioè pneumatico, ovvero la gomma della macchina.
Siccome è usata da tutti, anche da chi non ha lauree e diplomi,
non è un caso sia anche l’unica spesso abbinata all’articolo
sbagliato. Se andate dal vostro meccanico, a meno che non sia un
fine cultore della lingua, vi dirà che lui controlla i pneumatici (o
che dovete cambiare il pneumatico, se vi si è squarciata una
gomma). A questo punto il nostro amico accademico della Crusca
che fa? Cambia meccanico? No. Gli accademici della Crusca sono
persone di gran buon senso e abituate a vivere nel mondo:
ammettono quindi, nel linguaggio colloquiale, che davanti a
pneumatici, quando indicano le gomme della macchina, si usi il/i.
Se invece state facendo una discussione filosofico-religiosa e
intendete usare pneumatici per indicare, fra gli gnostici, coloro
che si ritenevano perfetti e ispirati dal Pneuma, ovvero dal soffio
divino, allora lì, come suggeriva Umberto Eco, è meglio che usiate
l’articolo corretto gli. Altrimenti, nonostante tutte le citazioni
colte, passare per fini intellettuali sarà difficile.
Articoli indeterminativi
In latino, dicevamo, non esisteva l’articolo. Quindi quando i
contadini del Medioevo vollero indicare un oggetto non meglio
distinto fra tanti altri ricorsero al numerale unus, una, unum. Da lì
deriva il nostro articolo indeterminativo, che indica uno fra tanti
possibili, un qualsiasi rappresentante di una categoria: «ho
incontrato per strada un amico di mio figlio» dice il genitore
dell’adolescente tipo. Quale sia, fra i tanti che periodicamente
trova accampati sul divano o intenti a svaligiargli il frigo, non gli è
chiaro.
Una si usa per tutti i nomi femminili. Davanti a vocale, la
vocale terminale -a si elide, quindi va inserito l’apostrofo.
Un va usato davanti a tutti i nomi maschili che iniziano per
consonante e per vocale: un bagno, un gioco, un inserviente, un
orco. Come abbiamo visto non è un’elisione, è proprio una parola
a sé, quindi non va aggiunto nessun apostrofo.
Uno è in pratica speculare a lo: si usa davanti ai nomi maschili
singolari che iniziano per x, y, z e per i gruppi consonantici pn-,
ps-, gn-. Ovviamente anche qua si dirà uno pneumatico e non un
pneumatico, e la tolleranza per la forma errata è minore. Avvertite
il meccanico.
Pronome o aggettivo?
A ciascuno il suo recitava il titolo di un romanzo di Sciascia. Ma
in questa frase ciascuno e suo cosa sono? Aggettivi, direte voi, che
avete letto i precedenti capitoli. In realtà no: sono due pronomi,
uno indefinito e l’altro possessivo.
Concordo con voi, l’italiano alle volte è una lingua che fa girare
i santissimi. Infatti, come se non fosse già abbastanza difficile
riconoscere verbi, avverbi, aggettivi e pronomi, ha ulteriormente
complicato la faccenda perché esistono aggettivi e pronomi
omografi, cioè che si scrivono allo stesso modo, anche se
ricoprono funzioni differenti. Avete presente le due Hepburn,
Audrey e Katharine? Erano attrici diverse fra loro, anzi per molti
versi opposte, pur avendo entrambe lo stesso cognome. Ecco, con
alcuni aggettivi e pronomi succede una cosa simile. Gli aggettivi
determinativi infatti sono assolutamente identici ai pronomi
corrispondenti: mio, tuo, suo, questo, quello, alcuno, nessuno,
ciascuno sono a prima vista indistinguibili. Per capire se in una
frase una parola è un pronome o un aggettivo bisogna guardare il
contesto: l’aggettivo, come abbiamo detto, è sempre riferito a un
nome che si trova nelle vicinanze. Nella frase «ciascun uomo è
solo» il ciascun è un aggettivo, perché è riferito a uomo. Nel titolo
di Sciascia, invece, A ciascuno il suo, non esiste nessun nome,
pertanto ciascuno è pronome indefinito. Quindi devo ragionare di
volta in volta e frase per frase? Sì. La grammatica tutti pensano
che sia una questione di memoria, invece è una questione di
logica e di pazienza. Tanta, tanta pazienza, eh.
Dire cose sensate nella vita è difficile. Alle volte però non è solo
una questione di contenuto, ma anche di forma. Il problema molto
spesso non è avere idee o trovare argomenti, ma è riuscire a
spiegarli a chi ci ascolta. Anche l’intuizione più geniale del mondo
se non viene comunicata in maniera comprensibile perde qualsiasi
fascino. Il successo spesso è legato alla capacità di farsi capire.
La sintassi in questo è un formidabile alleato. Diciamo che
funziona sia “in uscita” che “in entrata”. Si crede quasi sempre
che il punto fondamentale sia spiegare le nostre idee agli altri. Ma
prima è necessario che le spieghiamo a noi stessi. Un’intuizione
resta tale se non riusciamo a organizzarla e strutturarla bene. In
questo senso la sintassi è una mano santa. Costringe a mettere le
idee in ordine, decidere cosa è importante o secondario, obbliga a
chiarire i nessi che legano le varie parti di un discorso.
In un suo film Nanni Moretti, assediato da una giornalista che
continua a fargli domande formulate malissimo, sbotta infuriato:
«Chi parla male, pensa male!» È una grande verità. Chi formula
male le frasi, chi le appiccica le une alle altre non seguendo un
filo logico, chi non cura il lessico in maniera precisa o ripete
termini e frasi orecchiate senza saperne bene il senso, rivela di
non avere per nulla le idee chiare in testa e risulta vago e poco
incisivo.
La prima operazione da fare, quindi, è iniziare da una domanda
semplice ma fondamentale: qual è l’argomento di cui vogliamo
parlare? Che sia una semplice frase, un biglietto di auguri, un
tema scolastico, un racconto, un romanzo o la scena di un film
decidere qual è il tema che davvero ci interessa descrivere è il
punto da cui si parte. Tutto il resto viene di conseguenza. Se non
riuscite nemmeno a determinare con certezza che cosa volete
raccontare, meglio che vi prendiate ancora un po’ di tempo per
riflettere. Ne avete bisogno.
La frase semplice
Ogni frase in sé è un piccolo racconto, più o meno ricco di
particolari. Se scrivo «Emma ride» o «è buio» in qualche modo ho
raccontato già due storie, anche se brevissime. Abbiamo già detto
che l’elemento più importante di una frase è il verbo, e tutti gli
altri elementi devono essere in linea con quanto ci dice lui. Se
scrivessi «Emma ridono» la frase non avrebbe senso, perché
«ridono» implica che l’azione sia svolta da un gruppo di persone,
ed Emma è una sola. Chi legge la frase si accorge che nel nostro
microracconto qualcosa non va.
In una frase semplice, cioè la frase-base, di solito il verbo c’è
ed è di modo finito, perché deve indicare la persona a cui si fa
riferimento e il tempo in cui l’azione raccontata accade. Per
questo motivo anche una frase come «Emma ridere» non ha
senso, a meno che non sia pronunciata da Mami in Via col vento, e
venga scritta apposta per descrivere un personaggio poco colto e
che non parla bene la lingua.
Gli altri elementi della frase sono come i pezzetti di un puzzle
che si incastrano fra loro: per usare un termine grammaticale,
concordano. Concordare vuol dire che hanno genere o numero o
entrambi uguali all’elemento a cui sono legati.
Se scrivo «il focoso muratore Carlo ama la bella panettiera
Marina», focoso e muratore concordano con Carlo, e bella e
panettiera con Marina; ama concorda con Carlo perché l’azione è
compiuta da lui. Se continuo dicendo: «La bella Marina lo
ricambia», bella e ricambia concordano con Marina e lo con quel
Carlo nominato in precedenza.
Il soggetto della frase concorda dunque con il verbo per
numero, gli aggettivi/pronomi che si riferiscono al soggetto o a un
nome presente nella frase concorderanno per genere e numero
con lui, i nomi che si riferiscono ad altri nomi concorderanno solo
per numero e così via.
La frase in questione ci dà ancora poche informazioni sulla
storia: chi compie l’azione (Carlo), chi ne è oggetto (Marina), il
mestiere di Carlo e Marina (muratore e panettiera, che sono
particolari apposti vicino, cioè messi accanto con un nome che
indica una professione, per cui si chiamano apposizioni) e cita una
qualità fisica o caratteriale (focoso e bella, che sono invece qualità
attribuite ai due personaggi con un aggettivo e quindi si chiamano
attributi).
Abbiamo appena delineato il nostro protagonista (Carlo) e
abbozzato i fatti, ma si può fare di meglio, chiarendo per esempio
dove si svolge la storia e quando. Tutte queste informazioni
accessorie che completano il racconto sono detti complementi. I
complementi di solito rispondono a delle domande specifiche.
(per quanto tempo?) Da mesi
(dove?) in paese
il focoso muratore Carlo ama
(come?) appassionatamente
(per che causa?) per il suo carattere dolce
(chi?) la bella panettiera Marina, figlia
(di chi?) del fornaio Gianni.
Le congiunzioni
Quando uno decide di costruire un muro, oltre ai mattoni deve
procurarsi la malta. Se vuole fabbricare un mobile, oltre alle assi
di legno dovrà avere i chiodi e magari anche il mastice. Bene, se si
vuole costruire un periodo, oltre alle parole, ai verbi e alle frasi si
devono saper usare e scegliere bene la punteggiatura e
soprattutto le congiunzioni.
La punteggiatura alle volte basta a legare fra loro le frasi, anzi
questa è la principale delle sue funzioni. È un modo veloce e senza
sbavature, adattissimo se si vuole raccontare qualcosa in maniera
spiccia.
Le frasi unite tramite la sola punteggiatura si chiamano
coordinate per asindeto, perché in greco asindeto vuol dire
“mancanza di legami”; quelle unite tramite congiunzione si
chiamano per polisindeto, perché polisindeto significa “con molti
legami”, e infatti le congiunzioni sono legami forti, talmente
stretti che sono segnalati da parole apposite.
Rispetto a quelle unite solo dalla punteggiatura, le frasi unite
attraverso le congiunzioni vanno invece lette con un tono meno
concitato, sono frasi di più ampio respiro.
Giulio Cesare, per narrare il successo delle sue campagne
militari, si limita a un «venni, vidi, vinsi», legato da tre virgole.
Del resto era un generale e non aveva tempo da perdere: doveva
conquistare Roma e il mondo.
Se invece «Giorgio sta andando in ufficio e si ferma al bar a
prendere un caffè e poi dal giornalaio per comprare una rivista»
siamo autorizzati a pensare che se la stia prendendo molto
comoda e non aspiri a conquistare nulla, nemmeno una
promozione.
Le congiunzioni sono parole invariabili, che possono essere
usate anche per accostare due termini all’interno di una frase. Se
dico di un ragazzo che è «buono ma testardo» o «intelligente e
simpatico» la congiunzione unisce due aggettivi riferiti alla stessa
persona. Se cito il verso dantesco «parlar e lagrimar vedrai
assieme» la «e» unisce due infiniti di verbi, e quindi sta tenendo
assieme due frasi.
Le congiunzioni possono essere semplici quando sono una sola
parola (e, o, ma, se), composte se sono il risultato di una fusione
fra due o più parole (sebbene, oppure, infatti, affinché,
nondimeno) o addirittura derivare da una intera frase (nonostante
= non ostante, participio presente del verbo ostare = che si
oppone, che impedisce).
Ci possono poi essere delle locuzioni congiuntive, ovvero dei
modi di dire che si comportano come se fossero delle congiunzioni
(anche se, dopo che, tranne che, dal momento che, visto che, ogni
volta che, dato che).
Come la colonna sonora anticipa le caratteristiche della scena
(avete presente nei thriller la musica ansiogena che precede un
omicidio?), le congiunzioni fanno anche capire che sfumatura ha
la frase che sta arrivando. Quindi studiarsi bene le congiunzioni
aiuta moltissimo a costruire bene i periodi.
Le congiunzioni coordinanti
Le congiunzioni coordinanti servono a introdurre delle frasi
coordinate. Si dividono in sottogruppi. Le copulative
semplicemente accostano due frasi in maniera molto neutra:
«Sono uscito e ho comprato il pane.» Le negative ovviamente
negano qualcosa che è stato detto: «Non ho intenzione di parlare
con lui né di telefonargli.» Le disgiuntive accostano due possibilità
fra cui è necessario scegliere: «O mangi questa minestra o salti
dalla finestra», «Prendi l’autobus oppure chiami il taxi?». Le
avversative invece sono una specie di sterzata nel discorso. Si
usano quando nella principale si è detta una cosa e nella
coordinata si vuole correggere il tiro o proprio cambiare
direzione: «Il suo curriculum è bellissimo, tuttavia lei non è il
candidato che fa per noi», o il famigerato «non sono
razzista/sessista/fascista ma…» che di solito preannuncia qualche
frase terribilmente razzista, sessista o fascista. Quando dopo un
incipit che sembrava promettere bene arriva un’avversativa,
aspettatevi qualche mazzata.
Le congiunzioni dichiarative sono diventate, loro malgrado, il
manifesto di un’epoca: è una dichiarativa il terribile cioè che negli
anni Settanta/Ottanta veniva usato come un intercalare, tanto da
essere addirittura scelto come titolo per una famosa rivista per
adolescenti. Suoi colleghi sono infatti e quindi, anche loro spesso
sparsi a caso nelle conversazioni. In realtà le dichiarative servono
a spiegare meglio un qualche termine o una frase: «Faccio il social
media manager, cioè gestisco i profili social dell’azienda per cui
lavoro», «Non ho sentito Enrico oggi, quindi non ti so dire dove
sia», «Sono intollerante al latte vaccino, infatti ho preso il
cappuccino con il latte di soia».
Una congiunzione molto bistrattata è dunque: dovrebbe servire
a tirare le somme perché è una conclusiva, ma spesso viene usata
invece all’inizio del discorso. L’Italia è piena di gente che inizia le
frasi con un «dunque volevo dirti che…» ed è la prima volta che
apre bocca. Dunque invece va usata alla fine, quando si tirano le
somme: «Ho esaminato tutte le possibilità, dunque mi sono deciso
a partire.» Se poi volete rimarcare il fatto che alcuni parlano per
ore senza però mai arrivare a una conclusione, aspettate che
stiano zitti un attimo e chiedete loro con il sopracciglio lievemente
alzato: «Dunque?» invitandoli a proporre finalmente una qualche
soluzione. Può essere un modo efficace per stroncarli con
eleganza.
Le congiunzioni subordinanti
La vera regina delle congiunzioni subordinanti è il che, da non
confondere con il pronome relativo.
Deriva dal latino quia, che era però una congiunzione causale
traducibile con il nostro perché. In italiano è diventata un vero
factotum, come il Figaro di Rossini. Tutti la chiamano, tutti la
vogliono e può introdurre molti tipi di subordinate.
In dipendenza da un verbo impersonale (come accade, succede,
capita, sembra) o da un predicato nominale impersonale (è bello,
è giusto, è necessario, è lecito…) introduce una subordinata
soggettiva, cioè una frase che tutta intera si comporta come se
fosse il soggetto della principale; in dipendenza da un verbo
normale come dico, affermo, penso, credo, giudico, ritengo, vieto,
concedo… introduce una subordinata oggettiva, cioè una frase
che fa da complemento oggetto.
Il che si usa anche nelle dichiarative, che sono frasi un po’
pedanti: infatti la subordinata chiarisce e specifica il senso di un
nome o di un pronome usato nella principale: «Mi fa soffrire il
pensiero che tu non stia bene», «Ho avuto l’impressione che ci
racconti tante bugie», «Sono certa del fatto che mi ami», «Questo
penso di te, che tu sia un uomo abbastanza stupido», «A questo
siamo arrivati, che credi di potermi prendere in giro
impunemente!».
Inoltre il che può anche introdurre delle frasi limitative, cioè
quelle frasi che limitano gli effetti o il campo d’azione: «Che io
sappia, non si può fare.»
Se nella principale poi c’è un così, tale, talmente o il più
arcaico siffatto e poi un che, siamo in presenza di una subordinata
consecutiva, cioè che spiega le conseguenze di un fatto: «È stato
così maleducato che l’ho piantato in asso al ristorante», «Lo
scoppio è stato talmente forte che sono rimasta sorda per
mezz’ora», «Mi ha fatto provare un tale spavento che non sono
riuscita a spiccicare parola», «È un uomo siffatto che lo puoi
chiamare vile marrano!».
Altra congiunzione che fa alle volte da jolly è perché. Può
infatti introdurre frasi causali («Ho preso l’autobus perché ero
stanco») ma anche finali («Ti spiego queste cose perché tu le
sappia») e interrogative («Dimmi perché ti comporti così»).
Le temporali vengono in genere introdotte da quando, mentre,
allora, dopo che, ogni volta che. Attenzione al mentre, che
introduce una temporale quando indica il momento in cui accade
l’azione («Mentre andavo al mercato ho visto Giorgio»), ma può
essere usato per una coordinata avversativa se invece imprime
una svolta inaspettata al racconto («L’ho visto darsi alla pazza
gioia in discoteca, mentre aveva giurato di essere impegnatissimo
con lo studio!»).
Le frasi concessive sono precedute da benché, sebbene, anche
se («Sono venuto a lavorare sebbene avessi la febbre»), mentre le
condizionali usano se, purché, a condizione che, a patto che («Se
prendi l’influenza, è meglio stare a casa»).
Una spiegazione un po’ più dettagliata meritano le
comparative, le quali introducono una comparazione in cui una
delle due frasi presenta un’azione che è preferibile a quella
contenuta nell’altra. Usano spesso il nostro vecchio amico che, in
unione con il piuttosto, a formare la coppia piuttosto che. Il
piuttosto che usato male è una delle iatture dell’italiano odierno,
perché molti, non è chiaro per quale motivo, pensano che sia
alternativo ed equivalente a una congiunzione disgiuntiva, e ne
infilano persino più di uno nella frase: «Vai in America piuttosto
che in Europa piuttosto che in Asia per le vacanze?», «Ami la
mamma piuttosto che il papà?». No, santa pazienza. Frasi come
queste fanno infuriare come una biscia l’accademico della Crusca,
anche se di suo è magari una persona di buon carattere. Piuttosto
che introduce una preferenza netta fra due termini in alternativa
(e solo due, non una lista). Quando chiedete al bimbo se ama la
mamma piuttosto che il papà, oltre a violare le regole della
grammatica, gli scatenate un dramma freudiano non da poco.
Evitate, o preparatevi poi a pagargli a vita lo psicanalista.
Il testo e i suoi stratagemmi, piccolo manuale di retorica
Organizzare un discorso
La retorica è una tecnica dai risvolti molto pratici: serve a
governare gli stati. Per questo motivo, anche se è stata inventata
dai Greci e Aristotele stesso le dedicò un fondamentale trattato,
sono stati poi i Romani a studiarla a fondo per applicarla. I
Romani erano un popolo concreto e spiccio, con la vocazione a
organizzare il mondo per farlo funzionare speditamente. A
tutt’oggi i migliori trattati di retorica in circolazione sono ancora
quelli scritti da Cicerone, dall’anonimo autore della Retorica ad
Erennio e da Quintiliano: per quanto nel Novecento la retorica e
la linguistica siano state profondamente studiate anche con gli
apporti delle nuove scienze, le basi erano già state individuate e
analizzate a Roma nell’antichità.
I Romani individuarono cinque tappe fondamentali per parlare
in maniera efficace: inventio, dispositio, memoria, elocutio e actio.
Memoria e actio sono quelle che a noi interessano meno,
perché riguardano non tanto il testo scritto, ma il momento in cui
bisogna presentarlo in pubblico: studiano infatti le tecniche per
memorizzarlo (fondamentali nell’età antica, quando non esisteva il
gobbo elettronico per leggere) e il modo con cui l’oratore teneva il
palco e pronunciava il suo discorso. I suggerimenti degli antichi
sono spesso validi anche oggi, e vi stupirebbe quanto vengano
messi in pratica in contesti insospettabili: sia il buon Mastrota,
quando accarezza ispirato le pentole, che Obama, quando
coccolava infanti alla Casa Bianca o mangiava con gusto
hamburger al fast food, sono campioni di actio, per tacere del
vero e proprio rituale delle presentazioni Apple di Steve Jobs,
gran sacerdote in maglietta nera minimalista e signore del
Keynote.
Ma sono inventio, dispositio ed elocutio i punti su cui chi scrive
testi si deve concentrare.
Inventio in latino è un falso amico: non va tradotto a orecchio
come «invenzione». Viene da invenio, che significa “trovare,
reperire, ripescare”. L’inventio è la fase preliminare che oggi
potremmo assimilare al brainstorming: quella in cui cioè si
buttano sul foglio, persino un po’ alla rinfusa, tutte le idee che
riteniamo in qualche modo correlate all’argomento che vogliamo
trattare, o che ci sembrano valide per sostenerlo.
Una volta che abbiamo capito cosa dobbiamo dire, si passa alla
fase due, ovvero alla stesura di una scaletta. Questa è la
dispositio. È il momento in cui si incastrano gli argomenti e i fatti
in maniera da convincere o commuovere lo spettatore. Deve
quindi essere studiata attentamente per venire strutturata con
logica serrata o almeno apparire tale (spesso gli oratori infatti
giocano molto sul fatto che un discorso sembri logico all’uditorio,
anche se poi, magari, è basato su premesse fallaci o volutamente
traballanti). La dispositio era a sua volta suddivisa in parti:
l’exordium, cioè la parte introduttiva, spesso era strutturata come
una captatio benevolentiae, cioè una serie di frasi o di
affermazioni in cui l’oratore cercava di guadagnarsi la fiducia e la
simpatia dell’uditorio («Qui siamo fra amici!», «Non serve
spiegare le cose dettagliatamente, visto che siamo colleghi!», «Voi
siete intelligenti, avete già capito come va la faccenda!», «Fra
maschi ci si capisce!», «Qui siamo donne, non servono tante
parole!»). Poi veniva di solito la narratio, ovvero la parte in cui si
illustravano le prove (se si trattava di una arringa) o gli argomenti
a favore e contro. Quindi si passava alla argumentatio, nel corso
della quale gli argomenti venivano discussi per consolidare l’idea
che l’oratore sostenesse il giusto. Infine c’era la peroratio, cioè la
conclusione in cui si faceva appello ai sentimenti del pubblico, per
convincerlo a sposare le tesi sostenute.
La dispositio è una struttura portante, ma poi bisogna
cominciare a lavorare di cesello, ovvero frase per frase. Bisogna
decidere come dire le cose, come scriverle per ottenere l’effetto
migliore nella mente dell’uditorio e portare a casa il risultato.
Tutto questo rientrava nella fase che a noi interessa di più:
l’elocutio.
Le figure retoriche
La regola fondamentale della letteratura è che le belle storie
funzionano sempre. Se raccontate bene, ancora di più. Per
raccontare bene una storia bisogna che le frasi con cui viene
narrata siano precise, intriganti, piene di pathos. Devono essere
come una freccia che si pianta al centro del bersaglio e non la
togli più di lì. Le figure retoriche servono a creare frasi efficaci. In
greco si chiamano schemata, cioè schemi, e sono un po’ come le
app del cellulare: fanno una sola cosa, ma la fanno bene. Clicchi e
ti danno il risultato che vuoi.
Il latino figura è invece legata al verbo fingo, che anche in
questo caso vuol dire una cosa leggermente diversa dal suo
discendente italiano. Significa infatti “costruisco, manipolo”. Ecco,
le figure retoriche fanno questo: sono uno schema con cui si
costruisce una frase manipolando e giocando con l’ordine delle
parole, delle lettere o con i concetti e i significati.
«È del poeta il fin la meraviglia» diceva Giambattista Marino, e
aveva ragione. Non c’è niente di meglio per venire ricordati che
proporre al pubblico qualcosa, un’immagine, un pensiero, una
frase che non si aspetta, lo spiazza e lo colpisce: non la dimentica
più. Che poi è la forma specifica di immortalità che promette la
letteratura.
Figure di parola/suono
Figure di costruzione
Io ti amo
e se non ti basta
vuoterò il mare
e tutte le perle verrò a portare
davanti a te
e il mare non piangerà
di questo sgarbo
che onde a mille, e sirene
non hanno l’incanto
di un tuo solo sguardo
Io ti amo
e se non ti basta
solleverò i vulcani
e il loro fuoco metterò
nelle tue mani, e sarà ghiaccio
per il bruciare delle mie passioni
Io ti amo
e se non ti basta
anche le nuvole catturerò
e te le porterò domate
e su te piover dovranno
quando d’estate
per il caldo non dormi
E se non ti basta
perché il tempo si fermi
fermerò i pianeti in volo
e se non ti basta
vaffanculo
Figure di senso
Figure di pensiero
CICERONE, Catilinarie I, 1
di Giulio Mozzi1
Sitografia:
www.treccani.it
www.accademiadellacrusca.it
Ringraziamenti