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Tutte le lingue hanno la loro bellezza: la bellezza della lingua

italiana sta nella sua ricchezza di parole, nella mobilità della sua
sintassi, nella particolarità della sua storia. Con garbo, ironia e
precisione scientifica Mariangela Galatea Vaglio ci guida a
conoscerne le avventure nel corso dei secoli, dalle oscure origini
all’esplosione dantesca, dal dominio culturale nell’Europa
rinascimentale e barocca fino alla modernità e all’attuale lotta per
adeguarsi senza snaturarsi a un mondo popolato da inspirational
manager, babysitter e personal trainer.
Completa il libro un sintetico e divertito “ripasso” dei fondamenti
di ortografia e grammatica: tanto per non dimenticare che tra i
messaggini, le chiacchiere in chat e il congiuntivo non deve
esserci guerra, ma positiva alleanza. Se è vero che viviamo
nell’era della comunicazione, è importante essere capaci di una
scrittura non solo brillante ed efficace ma anche corretta e
dignitosa.

MARIANGELA GALATEA VAGLIO, laureata in Lettere classiche


all’Università Ca’ Foscari di Venezia e dottore in Storia antica alla
Sapienza di Roma, è un’insegnante, una giornalista e una blogger.
Ha collaborato con «Il Gazzettino», «Il Sole 24 ore» e
«l’Espresso». Ha pubblicato: Piccolo alfabeto della scuola
moderna (40k Unofficial 2012), Didone, per esempio. Nuove storie
dal passato (Ultra 2014) e Socrate, per esempio. Altre storie dal
passato (Ultra 2015).
Mariangela Galatea Vaglio

L’italiano è bello
Una passeggiata tra storia, regole e bizzarrie

con i Suggerimenti di lettura di Giulio Mozzi


Published by arrangement with Walkabout Literary Agency
Design e lettering di copertina: tapiro.
© 2017 by Sonzogno di Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Prima edizione digitale 2017
ISBN 978-88-454-9728-5
www.sonzognoeditori.it
ebook@marsilioeditori.it
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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L’ITALIANO È BELLO
Questo potere di suggestione è una delle proprietà più
misteriose che hanno le parole. Chiunque abbia mai scritto
una frase deve essere cosciente di questo. Le parole […] sono
per loro stessa natura piene di echi, di ricordi, di associazioni.
Per tanti secoli sono uscite e sono passate per le labbra della
gente, nelle nostre case, nelle strade, tra i campi. Il fatto che
siano così dense di significato e di ricordi; che abbiano
contratto tanti matrimoni famosi è una delle maggiori
difficoltà per chi scrive oggi.
VIRGINIA WOOLF, Voltando pagina
Indice

Copertina
Abstract - Autrice
Frontespizio
Copyright
Esergo

Introduzione

Storia di una lingua – L’italiano, una storia complicata


Il figlio bastardo del latino? Come cade un impero e bisogna inventarsi una lingua
Tutto quello che dobbiamo agli “altri”
La nascita dell’italiano e il meraviglioso caos del Medioevo: fratelli traditori, copisti
annoiati, preti scocciati, mariti gelosi e vicini che litigano
Il volgare diventa italiano: Dante
Petrarca e l’orologino
Boccaccio e la vita spericolata dei mercanti e dei banchieri
Dal Quattrocento a oggi: il problema dell’italiano standard

Storie di parole
«Petaloso», ovvero le parole si inventano quando servono
Radici di famiglia
Storia sociale delle parole. Le parole raccontano mondi
Sindaca, presidenta, pilota e altre questioni di genere
Come le parole entrano nel dizionario: prestiti, dialetti

Croci e delizie dell’italiano scritto


Anche Dante sbagliava l’ortografia?
L’ortografia: piccole storie horror
La punteggiatura, i segni del destino
La grammatica non serve a nulla
Morfologia e sintassi, i due cavalieri dell’apocalisse
La morfologia, ovvero dimmi cosa sei e ti dirò a cosa servi
La sintassi, ovvero come si tengono in piedi le frasi e i testi

Il testo e i suoi stratagemmi, piccolo manuale di retorica


Il testo e i suoi stratagemmi
Figure di parola/suono
Figure di costruzione
Figure di senso
Figure di pensiero
Suggerimenti di lettura di Giulio Mozzi

Testi consultati

Ringraziamenti
Introduzione

Quando chiedevano a Sacha Guitry perché facesse il baciamano


alle signore, rispondeva: «Perché da qualche parte bisogna
cominciare.»
Questo libro vuol essere un baciamano. Non è né una
grammatica, né una storia della lingua, né un manuale di
letteratura. È un racconto su come l’italiano è diventato quello
che parliamo oggi, su quali siano le regole più importanti per
scrivere correttamente e quali figure retoriche si possano usare
per essere più efficaci quando vogliamo comunicare.
Oggi saper comunicare è importantissimo, ancora più che in
passato. Chi parla bene ha una marcia in più in tutti i campi,
anche in quelli che non sono direttamente collegati con la
scrittura o con la comunicazione. Per conquistare un nuovo
cliente, ottenere una promozione, diventare un punto di
riferimento per i colleghi nell’ambito del lavoro e muoversi sui
social, esprimersi bene e padroneggiare le mille sfumature della
lingua sono abilità fondamentali. Chi non sa fare queste due cose
è tagliato fuori da una marea di opportunità. Conoscere bene la
propria lingua, in questa era apparentemente così dominata dalla
tecnica, è una delle chiavi che possono portare al successo.
Noi italiani dal punto di vista della lingua siamo fortunatissimi.
Quando pensiamo alle cause per cui siamo famosi nel resto del
mondo ci vengono subito in mente la pasta, la pizza e (purtroppo)
la mafia. Pochi sanno invece che uno dei motivi che ci rendono
molto noti è l’italiano. Il nostro italiano, sì: quello che parliamo
tutti i giorni e che in alcune università si è addirittura proposto di
abolire a lezione per sostituirlo con l’inglese. Ecco, quell’italiano
lì, invece, è adorato dagli stranieri. Nel mondo è la quarta lingua
più studiata, immediatamente dopo inglese, spagnolo e cinese.
Perché? Rispetto ai milioni di persone che usano le altre tre
lingue (Inghilterra e Spagna sono state due grandi potenze
coloniali che hanno governato mezzo mondo e i cinesi sono
tantissimi anche senza aver conquistato nulla al di fuori della
Cina), noi italiani siamo un pugnetto, che politicamente ha sempre
contato poco, persino in Europa. L’ultimo impero fondato dalle
nostre parti era quello romano, dove però si parlava latino, e i
successivi millenni in Italia sono passati cercando di sopravvivere
a invasioni straniere, combattendo furiosamente fra noi o
emigrando altrove spinti dalla fame e dalla miseria. Eppure
abbiamo inventato e perfezionato una lingua con cui abbiamo
scritto opere fondamentali per la cultura occidentale. Non si può
capire il Medioevo senza leggere la Commedia di Dante Alighieri,
non si può pensare alla lirica d’amore europea se non si conosce
Petrarca, non si possono immaginare la prosa e il racconto e
nemmeno il successivo romanzo se non si è approfondito il
Decameron di Boccaccio, non si riesce a comprendere davvero il
Settecento se non si è mai vista una commedia di Goldoni e
l’Ottocento non si può studiare senza ascoltare le nostre grandi
opere liriche. Shakespeare e Chaucer copiano a man bassa dai
nostri autori, Molière in Francia non sarebbe concepibile senza il
teatro italiano rinascimentale e la Commedia dell’Arte.
Nell’ambito della musica, l’austriaco Mozart scrisse i suoi tre
capolavori operistici (Le Nozze di Figaro, il Don Giovanni e Così
fan tutte) commissionando i libretti all’italiano Lorenzo da Ponte,
e Wagner dovette sudare sette camicie per far accettare l’idea che
le opere potessero essere scritte anche in tedesco. Persino nel
Novecento, quando eravamo una nazione appena nata, povera e
del tutto priva di influenza politica, i Futuristi conquistarono
adepti da Parigi alla Russia, Ezra Pound tradusse Cavalcanti e citò
continuamente Dante nelle sue poesie, Hemingway e Stravinskij
subirono il fascino e il richiamo dell’Italia in maniera così forte da
viverci a lungo o da voler essere sepolti qui. Per tutto il mondo
l’Italia è arte, bellezza e cultura, e questa cultura è inscindibile
dalla nostra lingua.
Noi italiani abbiamo spesso con tutto ciò un rapporto
conflittuale, quasi di amore e odio.
La storia del nostro paese è molto complessa. Tutte le storie di
popoli lo sono, ma la nostra ha davvero un livello di complicazione
in più. «Noi siamo da secoli / calpesti, derisi, / perché non siam
popolo, / perché siam divisi» recitano i versi del nostro inno
nazionale. Versi bruttini, per altro, come bruttino è tutto l’inno di
Mameli, ragazzo simpatico, generoso e sfortunato, ma come poeta
non certo sommo. Nella sua ingenuità dice però una cosa vera: dai
tempi dell’impero romano noi italiani non siamo più stati un
popolo unito. Ci siamo sviluppati in tanti staterelli indipendenti,
spesso in guerra fra loro e sempre animati da grande rivalità. Non
c’è mai stato un solo centro, ma mille, ognuno dei quali produceva
la “sua” cultura, diversa da quella prodotta a qualche miglio di
distanza.
Questa è stata però una incredibile ricchezza. Se solo chi ha il
caos dentro di sé può generare stelle danzanti, noi abbiamo
generato intere costellazioni. Ma come per gli ammassi stellari, si
trattava di agglomerati sfavillanti e caotici. Per creare un minimo
d’ordine c’è voluto un immenso lavorio diplomatico. Il primo vero
compromesso storico, in Italia, è stato l’italiano.
Gli intellettuali della penisola furono costretti a inventare una
lingua che per forza di cose fu frutto di una sintesi, una sorta di
“esperimento di laboratorio”, un linguaggio che nessuno parlava
in una nazione che non esisteva, mentre nel resto d’Europa si
formavano invece gli stati e le lingue nazionali. Quella che sembra
una debolezza fatale, fu invece un punto di forza: l’italiano,
proprio perché non era parlato ma scritto, e per di più solo da una
élite colta, fu molto meno esposto a cambiamenti e all’usura del
tempo. Se i francesi e gli inglesi trovano gran difficoltà a leggere
oggi i loro testi del Cinquecento e del Seicento, noi con
pochissimo sforzo leggiamo Dante e Petrarca e Boccaccio e
Bembo proprio perché la nostra lingua, che era solo scritta,
mutava molto meno delle altre, e forse per questo era ammirata
all’estero. Era la più simile al latino: elegante e fissa. Rappresentò
quasi un sostituto dell’identità nazionale, una base comune in cui
riconoscersi. L’Italia non esisteva come nazione, ma l’italiano sì.
Come sempre, quando si deve mediare, qualcuno resta
scontento. Alcune bizzarrie della nostra lingua, sia grammaticali
sia sintattiche, che sembrano senza senso e senza logica, derivano
da questo. Appaiono difficili perché spesso non si sa come siano
state costruite o perché si sia deciso di adottarle. Anche la fissità
con cui alcune regole o stili sono stati imposti è dovuta alla
necessità di adottare un ordine per evitare di precipitare nel caos
e ha generato grande insofferenza. L’italiano, da molti, è stato
sentito come una lingua calata a forza dall’alto, da un gruppo di
intellettuali a una massa di persone che parlavano il dialetto,
spesso con grande competenza e vivacità.
Un tempo si diceva che il Risorgimento italiano era stato un
«eroico sopruso». Anche l’imposizione di “un” italiano lo fu, e per
questo ancora oggi in molti resta una sorta di diffidenza di fondo.
Il ventennio fascista, con le sue smanie di autarchia linguistica e
la retorica patriottarda che voleva far credere agli italiani di
vivere nel migliore dei regimi possibili, ha fatto il resto. Per anni
chi amava l’italiano e la sua tradizione ha dovuto difendersi
dall’accusa di essere un passatista, un provinciale chiuso al
nuovo, un retrivo piccolo erudito che coltiva il suo orticello senza
accorgersi di quello che avviene nel resto del mondo. Così mentre
il mondo studiava ammirato l’italiano, noi spesso no.
I risultati si vedono. Oggi la maggioranza degli italiani parla
una lingua molto povera, conosce pochissime parole, quasi
sempre elementari, e quindi alla fine riesce a produrre solo frasi
altrettanto elementari e concetti banali. Se ti mancano le parole,
anche il pensiero fa fatica ad articolarsi. Secondo un famoso
studio, pubblicato nel 2010 del linguista Tullio de Mauro, il 47 per
cento dei nostri connazionali, pur sapendo apparentemente
leggere, non capisce quasi nulla. Sono analfabeti funzionali
perché “funzionano” come se fossero analfabeti. È una
menomazione seria, forse peggio che non avere una gamba o un
braccio. Vuol dire che tutto ciò che sta loro attorno (giornali,
programmi televisivi, siti internet) è come se fosse scritto in una
lingua straniera di cui appena appena capiscono qualche parola
base. Avete presente quando si va in Inghilterra sapendo dire a
stento Good morning e How are you? Ecco, loro vivono tutta la
vita così, con la differenza che stanno in Italia.
Possiamo uscirne? Certo. Siamo i discendenti di mercanti
pratici ma spesso ignorantissimi, che dopo il tracollo dell’impero
hanno saputo ricostruire un mondo ricco e creato opere di
immortale bellezza. Come dicono i cinesi, in ogni crisi si intravede
il barlume di nuove possibilità. Ecco, questo libro è una
possibilità. Di riflettere e iniziare a conoscere la nostra lingua, per
poterla usare meglio per costruire un futuro. Da qualche parte
bisogna cominciare. Cominciamo da qui.
Storia di una lingua

L’italiano, una storia complicata

Il figlio bastardo del latino?


Come cade un impero e bisogna inventarsi una lingua

Ravenna, 476 d.C. Un drappello di soldati fa irruzione nella


lussuosa residenza del generale Flavio Oreste. Sono dei mercenari
di origine mista: Eruli, forse anche qualche Unno e Goto. Li
comanda Odoacre, un barbaro spiccio e violento, che ha fatto
carriera nell’esercito romano fino a diventare capo dei pretoriani,
la guardia personale dell’imperatore. Infuriati perché Flavio non
ha mantenuto le promesse di assegnare loro terre in Italia in
cambio dell’appoggio ricevuto per far diventare imperatore il
figlio, Romolo Augusto, che è poco più di un bambino, la
soldataglia fa una strage. Flavio Oreste e la moglie vengono
trucidati, mentre il giovanissimo imperatore Romolo viene preso
prigioniero, costretto ad abdicare e poi inviato a trascorrere il
resto della sua esistenza in una villa sul Golfo di Napoli. Non
potendosi proclamare lui stesso imperatore, perché è pur sempre
un barbaro, Odoacre invia a Costantinopoli dall’imperatore
d’Oriente Zenone le insegne simbolo del potere in Occidente, e
regge l’Italia con il titolo di re e semplice patrizio romano. Da
questo momento in poi nei libri di Storia si è soliti dire che inizia il
Medioevo.
La mattina dopo la deposizione di Romolo Augusto
probabilmente nessuno pensò che fosse cambiato qualcosa. Erano
almeno cent’anni che capi barbari spadroneggiavano a corte. Gli
imperatori duravano meno di una bollicina in un bicchiere di
Coca-Cola: salivano al trono e dopo pochi giorni o mesi
evaporavano. Venivano fatti fuori da congiure di palazzo, altri
pretendenti, guardie del corpo intriganti, parenti ambiziosi.
L’impero romano d’Occidente si considera finito in questa data e
da qui si fa convenzionalmente iniziare il Medioevo. Ma lo stato
che collassa ormai era la pallida ombra di un tempo. Roma non
era più capitale, Milano neppure, Ravenna era stata scelta
unicamente perché, attorniata da paludi, era più facile da
difendere quando arrivava qualche scorreria di barbari, che con
l’acqua avevano poca dimestichezza. Intere regioni si erano rese
indipendenti, erano state addirittura cedute a tribù germaniche,
come la Gallia data ai Franchi, o abbandonate a se stesse, come la
Britannia, per manifesta incapacità di difenderle con le poche
forze a disposizione.
Che lingua si parlava in queste terre impoverite e insicure,
percorse da bande che si dedicavano a razzie? Il latino. Almeno
dal punto di vista formale il latino era la lingua ufficiale
dell’impero, e quella in cui ancora per secoli sarebbero stati stilati
tutti i documenti politici o legali. In pratica però a parlare e forse
persino a capire perfettamente la lingua che era stata di Cesare e
di Cicerone erano solo le classi ricche e colte, i discendenti delle
grandi famiglie senatorie e i funzionari che lavoravano a corte. Gli
altri, i contadini e i soldati spersi nelle varie e lontane province
dell’impero, il latino lo avevano sempre saputo un po’ così, alla
carlona. Sbagliavano gli accenti, non capivano bene i casi in cui
declinare le parole, e di tanto in tanto ci infilavano qualche
termine del dialetto che si parlava là dove vivevano.
Poi il crollo, il disastro, che ha anche ripercussioni pesanti sulla
cultura. Quando passi la vita a evitare di essere ammazzato dal
predone di turno o a tentare di far fruttare un campo fra una
razzia e l’altra, hai poco tempo per dedicarti allo studio della
grammatica. Se in età romana molti avevano almeno appreso i
rudimenti delle lettere, se non altro perché in città c’erano
maestri e scuole aperte, nei primi secoli del Medioevo solo pochi
fortunati imparavano a leggere e a scrivere, e i più ormai erano
capaci di parlare solo il dialetto del luogo in cui erano nati.
In Italia Odoacre dura al potere poco meno di una ventina
d’anni, quindi Zenone invia nella penisola il goto Teodorico, che
parla latino e greco perché è stato persino console a
Costantinopoli, ma si porta dietro un’orda di gente sua che
conosce ben poco le lettere. Poi i Goti vengono scacciati dai
Bizantini, mandati a riprendere le terre italiche dall’imperatore
Giustiniano. Chiamano se stessi “Romani”, ma in realtà fra loro
parlano già quasi soltanto greco. Dopo arrivano i Longobardi, che
sono però barbari duri e puri. Vengono giù dalla Scandinavia, e
mentre i Goti con i Romani avevano avuto parecchio a che fare e
s’erano un pochino sgrezzati, i Longobardi no. Calano giù e si
prendono la terra e il potere. Parlano una lingua germanica e
capirli è un bel problema, ma bisogna imparare qualche parola
perché i nuovi padroni sono loro. Poi arrivano i Franchi, che
parlano sì un dialetto in origine germanico, ma, stanziatisi in
Gallia già ai tempi dei Romani, sono molto latinizzati, anche grazie
alla mediazione del cattolicesimo a cui si sono convertiti, perché
ascoltano messe in latino.
I Franchi scacciano i Longobardi dai posti di comando e
rifondano l’impero, che presto viene però affidato a dinastie
tedesche. Intanto, al Sud, Arabi e Saraceni conquistano grandi
fette di territorio, che vengono poi loro tolte da altri uomini scesi
dal Nord, i Normanni, ovvero i Vichinghi che s’erano appena
appena ingentiliti un po’ passando per la Francia. Infine l’ultima
discendente dei Normanni sposa l’imperatore tedesco, e il figlio,
Federico II di Svevia, diviene signore di tutto, Nord Europa e Sud
Italia, ma ama talmente il Sud – dove è nato – che fissa lì la
capitale e la sua sede principale.
Succede di tutto in quei secoli, ma la gente, persino nei periodi
più bui, ha bisogno di comunicare. Lo fa oralmente, perché ormai
a scrivere sono capaci solo i monaci, e nemmeno tutti. Nei
conventi e nelle abbazie, che nascono un po’ ovunque in Europa, i
religiosi non cantano solo le lodi di Dio. Ricopiano anche e
mettono in salvo le opere letterarie del passato. Ma persino lì
soltanto gli amanuensi sono abituati a leggere e scrivere davvero.
Gli altri si limitano a saper compitare sul messale qualche lettera,
per rispondere a tono alle preghiere.
Quando una lingua non è scritta, è molto più instabile e
variabile. Le parole entrano ed escono dal lessico, vengono
storpiate e dimenticate in fretta, o sostituite con altre prese di
peso o a orecchio dal linguaggio dei nuovi invasori di turno.
L’Italia è frammentata in ducati, marche, città, vescovadi, abbazie,
che possono avere dominatori di origine diversa e abitanti che
hanno antenati di etnie differenti. L’uniformità che aveva regnato
in epoca romana va in frantumi, ma questo libera anche una
incredibile creatività. Vale tutto. I nomi, sia comuni che propri,
possono avere qualunque origine e si frullano assieme, scalzando
spesso i termini latini più antichi.
L’italiano nascerà pian piano da questo meraviglioso caos, che
però, nei primi secoli, sembra solo un enorme, incomprensibile
pastrocchio senza capo né coda.

Tutto quello che dobbiamo agli “altri”

Fin dai tempi degli antichi Romani alcune parole germaniche


erano già entrate nel lessico latino. I linguisti le chiamano
«paleogermanismi», ossia parole adottate ancora prima delle
invasioni barbariche. Vanga (dal gotico wange), alce, bruno, borgo
fanno parte di questa categoria. Poi ci sono invece quelle che ci
hanno lasciato in eredità le varie tribù di barbari, e sono una bella
schiera (dall’antico Franco: skara).
Dal Gotico, e comunque dall’antico germanico, derivano la
guardia, la banda e l’elmo; l’albergo (inteso come luogo dove
l’esercito sostava provvisoriamente), alcune parole del lessico
quotidiano come spola, nastro, rocca e il verbo arredare. A
giudicare dalle parole che dobbiamo a loro, le donne gote
dovevano essere padrone di casa attente alla moda e al design.
Dai Longobardi arrivano alcuni termini militari, come la guerra
(dall’antico germanico werra), ovvero la mischia dove tutti danno
botte da orbi, che sostituisce il sempre violento ma più ordinato
bellum romano. I luoghi come Gualdo Tadino (in provincia di
Perugia), Fara San Martino (vicino a Chieti) o Santa Maria di Sala
(fra Padova e Venezia) devono le loro origini a insediamenti
longobardi: wald era il bosco, fara la famiglia allargata che si
stanziava in una terra, sala il luogo dove si tenevano adunanze
(ampio come la hall dei moderni alberghi). Sono di origine
longobarda anche tutta una serie di altri termini di uso
abbastanza comune: bara, balcone, biacca, federa, scaffale,
scranno, gruccia, sguattero, ricco, russare, schermire, zuffa,
schiena, stinco, milza, anca, guancia, staffa.
I Franchi, invece, apparentemente non hanno lasciato molte
tracce del loro passaggio. Arrivarono in Italia dopo anni di
permanenza in Gallia, l’antica Francia, dove si erano molto
romanizzati perché era una terra che parlava latino sin dai tempi
di Giulio Cesare. Tuttavia i termini banco/banca sembrano
derivare da loro. In realtà in Italia all’epoca esistevano già i nomi
panca/panco, perché entrambi i gruppi di parole derivano dal
germanico panch, che indicava un sedile di legno molto rustico. I
Longobardi avevano importato per primi il termine in Italia, ma lo
pronunciavano con la p iniziale, quindi panca. I Franchi invece
pronunciavano il suono iniziale come una b. Né i Longobardi né i
Franchi collegavano le panche/banche al denaro in prestito e ai
mutui, come noi facciamo oggi. Per loro al massimo chi era seduto
sulla banca aveva il compito di registrare gli uomini in grado di
far parte dell’esercito. Il significato moderno nasce nell’Italia del
tardo Medioevo, dopo l’anno Mille. A Venezia e a Palermo, città di
commercianti e di speculatori, i magistrati giudicavano e
presiedevano alle operazioni finanziarie seduti appunto su delle
banche. Il capo di banca era il presidente della commissione,
quello che decideva a chi dare i soldi o da chi prelevarli. Da qui al
ruolo di amministratore delegato di un istituto di credito la
passeggiata è in discesa.
Altro popolo che ci ha lasciato una consistente eredità
linguistica sono gli Arabi. In Italia sono stati di casa dal IX all’XI
secolo, un periodo che per altro coincise con il momento in cui la
società islamica era la più avanzata anche dal punto di vista
scientifico, per cui molti termini tecnici, matematici e astronomici
sono di origine araba. Alchimia, chimica, alambicco, amalgama,
algebra, cifra, elisir, zenit e nadir testimoniano ancora oggi
quanto la scienza islamica in quel periodo fosse all’avanguardia
rispetto a noi ignoranti europei. Grandi navigatori, dobbiamo a
loro il cassero, l’ammiraglio e la darsena. Erano anche mercanti e
amministratori attenti. Derivano dall’arabo infatti la gabella (cioè
l’imposta sulle merci) e la tariffa. Quanto alle merci importate,
hanno nomi arabi lo zucchero, le albicocche, le pesche, i limoni,
l’arancia, gli spinaci e lo zafferano. Non ditelo agli amici
meneghini, ma senza l’arabo non si saprebbe come chiamare il
piatto milanese più tradizionale, che è anche un esempio
antichissimo di cucina fusion. Del resto, mangiando assieme, i
popoli hanno sempre scoperto di essere fratelli e dagli incroci di
ingredienti sono nate le cose migliori.
La pizza, per esempio, molto probabilmente è un lascito dei
Longobardi. L’etimologia è incerta e anche i linguisti non si
sentono sicuri, ma potrebbe aver avuto origine da bizzo/a, pezzo
di pane, morso (tedesco bissen). La parola, che indicava allora una
focaccia bianca, si diffonde a partire dai domini longobardi del
Sud, anche se è solo nell’Ottocento, con l’invenzione della pizza
margherita, così chiamata per omaggiare la regina Margherita di
Savoia consorte di Umberto I, che la pizza diverrà famosa e
mangiata in tutto il mondo. Non si può escludere insomma che nel
gran caos del Medioevo dei barbari tedeschi abbiano inventato il
più mediterraneo dei nostri piatti.

La nascita dell’italiano e il meraviglioso caos del Medioevo:


fratelli traditori, copisti annoiati, preti scocciati, mariti gelosi e
vicini che litigano

Le baruffe alla corte di Carlo Magno


Diventare imperatore nel Medioevo non era una passeggiata,
tanto più se, come capitò a Carlo Magno (742-814), l’impero,
almeno dal punto formale, era considerato estinto da più di
trecento anni. La testardaggine però era una delle più spiccate
caratteristiche del nostro. Sfruttò la crisi in cui l’impero bizantino
versava in quegli anni, perché il trono era occupato da Irene, che
era donna e per di più considerata usurpatrice, e guadagnò
l’appoggio del papa, a cui forzò anche un po’ la mano, dato che i
rapporti tra i due furono assai meno idilliaci di quanto la
tradizione lasci intendere. Riuscì quindi, da sagace politico qual
era, a farsi incoronare imperatore nel Natale dell’800.
Carlo tutto era, fuorché un uomo colto. Da bambino non
avevano neppure ritenuto necessario insegnargli a leggere e a
scrivere: per un principe franco menare fendenti con la spada e
cavalcare erano abilità più che sufficienti per ascendere al trono.
Solo in età adulta e incaponendosi parecchio riuscì a vergare le
lettere e sillabare qualche parola. Il suo biografo Eginardo
racconta che teneva sotto al cuscino dei fogli sui quali ogni sera,
prima di addormentarsi, si allenava a scrivere. Ma persino il suo
cortigiano e amico dovette ammettere che lo sforzo non produsse
grandi risultati.
Era tuttavia molto intelligente, e capì subito che i grandi
imperi, se vogliono durare nel tempo, hanno bisogno tanto di
cultura quanto di eserciti efficienti. Chiamò così alla sua corte i
più famosi intellettuali del tempo, come Alcuino di York, che già in
Inghilterra aveva fondato scuole e riformato i corsi di studi. Lo
mise quindi a capo di una istituzione che fu chiamata Schola
Palatina e aveva il compito di formare la nuova classe dirigente
dell’impero. Vi avrebbero studiato i ragazzi destinati a diventare
comandanti dell’esercito e nobili feudatari.
Questo momento in cui a corte rifiorirono gli studi classici
viene chiamato dagli studiosi Rinascita carolina. Fu un periodo di
grande fermento intellettuale. Si inventò una grafia elegante, la
minuscola carolina, che permetteva di leggere in maniera molto
più chiara i manoscritti, e a corte si formò un cenacolo di
intellettuali in cui c’erano il longobardo Paolo Diacono (che era
una sorta di ospite/prigioniero politico e fu autore appunto della
Storia dei Longobardi) e il già citato Eginardo, diplomatico,
biografo di Carlo Magno e poi consigliere privilegiato dei suoi
eredi.
Ecco, gli eredi saranno il gran cruccio di Carlo. Il figlio
Ludovico il Pio e poi i nipoti Lotario, Ludovico il Germanico e
Carlo il Calvo si riveleranno del tutto incapaci di mantenere in
piedi quel vasto dominio che Carlo aveva conquistato e cominciato
a organizzare. Ed è interessante vedere come le questioni
linguistiche andranno di pari passo con i problemi politici relativi
alla successione.
Carlo Magno, oltre che un gran combattente, era un grande
comunicatore. Uno di quegli uomini in grado di imporsi come
leggendari mentre sono ancora in vita, e divenire protagonisti di
storie fantastiche e avventurose. In pratica, un mito. Ma i miti, e
Carlo lo sapeva bene, hanno bisogno di essere raccontati in una
lingua compresa da tutti. Oggi gli strateghi del marketing
direbbero che la vision e la mission del brand vanno comunicati
con uno storytelling efficace. Detto in soldoni significa che, se vuoi
essere adorato, bisogna che racconti la tua storia bene e in una
lingua comprensibile. Il che è una grossa rogna in un impero in
cui ogni dieci chilometri ognuno ormai parla un dialetto suo.
L’impero si basava sulla fede cristiana cattolica, e lì Carlo
decise di intervenire. Per questo nell’813, giusto un anno prima di
morire, al concilio di Tours, convocato apposta, fece pressioni
perché i vescovi e i preti fossero obbligati a tradurre le loro
prediche e omelie, fino ad allora rigorosamente in latino classico,
nella lingua romana rustica (che sembra una espressione italiana,
e invece è latino: rusticus significa “proprio dei contadini”).
È la prima volta in cui in un documento ufficiale fa capolino un
nome che si riferisce a qualcosa di molto simile ai volgari, cioè
alle diverse lingue parlate dai sudditi (il vulgus, popolo) di quel
vasto assieme di territori che erano sotto il dominio dei Carolingi.
Trent’anni dopo i tre nipoti di Carlo sono ai ferri corti. Lotario,
Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo cercano di farsi
reciprocamente fuori per salire al potere, senza esclusione di
colpi. Ludovico e Carlo il Calvo, nell’842, si ritrovano a
Strasburgo, dove pronunciano pubblicamente un solenne
giuramento di alleanza, con il dichiarato intento di combattere
Lotario. Il documento, detto Giuramento di Strasburgo, è scritto in
latino come era norma per gli atti ufficiali. Ma riporta al suo
interno le esatte parole che i due fratellastri pronunciano.
Entrambi parlano in volgare, germanico e francese antico, perché
quello che promettono deve essere ben comprensibile ai loro
rispettivi eserciti.
Il Giuramento di Strasburgo manda in frantumi la pace della
famiglia dei Carolingi e in subbuglio l’impero, ma permette ai
volgari di irrompere nella storia e di essere riportati per la prima
volta in forma scritta. Del resto è dai tempi di Caino e Abele e di
Romolo e Remo che le lotte fratricide e i tradimenti in famiglia
fanno prendere inaspettate svolte alle civiltà.

L’indovinello del copista annoiato


Verona, fine dell’VIII o inizio del IX secolo. Nel grande
scriptorium pieno di volumi, un giovane, forse un monaco,
consulta un pesante manoscritto rilegato. È un «orazionale
mozarabico», cioè un libro di preghiere (orazioni) che proviene
dalla Spagna, forse dalla zona di Toledo, detta appunto
Mozarabia. Prima di arrivare a Verona ha fatto un lungo viaggio
costellato di tappe: è passato per Cagliari e per Pisa, e a dircelo
sono alcune notazioni lasciate sul manoscritto da Sergio,
visdomino della Chiesa cagliaritana, e da Maurizio, funzionario
toscano agli ordini del re longobardo Liutprando negli anni 731-
732, che sono stati identificati grazie alle loro firme.
Il testo è difficile da leggere, perché antico e scritto in caratteri
visigoti, e poi l’ora è tarda e il ragazzo è stanco: si perde e si
distrae a seguire i ghirigori delle lettere. D’un tratto gli vengono
in mente alcuni versiciattoli, delle rime che ha sentito recitare per
strada, da ragazzi più grandi. Ride: erano così buffe! Se le deve
proprio ricordare, per ripeterle alla prossima occasione e fare un
figurone con gli amici… Come facevano, già? Ah, sì: «se pareba
boves / alba pratalia araba / et albo versorio teneba / et negro
semen seminaba.»
Deve, deve, deve assolutamente appuntarsele! Con la beata
incoscienza della gioventù, scrive in fretta, senza preoccuparsi
che il volume non sia suo e che sia un serissimo libro di preghiere:
prende nota dei versi scarabocchiandoli sul margine della pagina
che ha sotto mano.
Così è giunto a noi il cosiddetto “Indovinello veronese”. In che
lingua è scritto? Non è italiano, ma non è più latino di sicuro: i
casi e le desinenze sono stati tutti semplificati e modificati e
neppure siamo in grado di capire esattamente che funzione
grammaticale svolga il se all’inizio: pronome personale di terza
persona? O forse un sic semplificato? Non esistono più gli -um
dell’accusativo e del neutro, e i verbi finiscono in -ba invece che
nel classico -bat o -bant. Si tratta di un volgare veneto, cioè della
lingua parlata dal vulgus, il popolo, in quell’epoca.
Il giovane probabilmente la passò liscia per la sua marachella,
che invece secoli dopo diede il via a una complicata storia di
interpretazioni e polemiche fra paleografi, ovvero gli studiosi che
si occupano di decrittare le antiche grafie presenti nei
manoscritti.
Nessuno si accorse del suo scarabocchio fino al 1924, quando il
paleografo Luigi Schiaparelli ricostruì la storia del manoscritto e
si accorse di questa strana postilla. Subito altri due paleografi,
Nino Tamassia e Michele Scherillo, la studiarono, pensando che si
trattasse di un antico canto contadino medievale che raccontava
le fatiche quotidiane dell’agricoltore. Il testo tradotto infatti
recita: «Mandava avanti a sé (o così) i buoi, arava prati bianchi, e
teneva un aratro bianco, e seminava un seme nero.»
Qualcosa non tornava, però, se non altro nei colori. Infatti nel
1927 un quarto paleografo, Vincenzo de Bartholomaeis, intuì che
il testo fosse in realtà uno scherzoso indovinello sulle azioni che si
compiono per scrivere: i buoi “mandati avanti” sono le dita, che
arano il campo bianco del foglio con una penna d’oca, bianca
anch’essa. Il seme nero è invece l’inchiostro.
La storia di questa metafora in sé è un romanzo. Si tratta di
uno scherzo antichissimo, che già altre volte era stato messo per
iscritto nel corso della storia della letteratura. Isidoro di Siviglia
aveva citato la metafora penna/aratro nelle sue Etimologie (I, 9),
attribuendola al poeta latino Quintilio Atta, morto nell’80 a.C.
Paolo Diacono la riprese poi nelle sue lettere in versi (Carmina
XVIII, 1-2), pochi anni prima che il nostro copista annoiato la
segnasse sul suo manoscritto. Dalla letteratura colta, la metafora
passò ai detti popolari e tornò poi incredibilmente alle pagine
letterarie. Giovanni Pascoli pubblicò nella raccolta Myricae un
componimento intitolato Il piccolo aratore:
Scrive… (la nonna ammira): ara bel bello,
guida l’aratro con la mano lenta
semina col suo piccolo marrello:
il campo è bianco, nera la sementa.

D’inverno egli ara: la sementa nera


d’inverno spunta, sfronza a primavera;

fiorisce, ed ecco il primo tuon di Marzo


rotola in aria, e il serpe esce dal balzo.

[marrello: piccola zappa; sfronza: mette le prime foglie]

La poesia è del 1903, vent’anni prima che l’indovinello venisse


scoperto sul margine del manoscritto a Verona. Le parole, a volte,
fanno dei giri immensi e poi ritornano. O riemergono dai flutti del
tempo, quando meno te lo aspetti.

Vicini litigiosi e questioni di confini


È il marzo del 960 e il giudice Arechi si trova davanti una bella
grana da risolvere. Siamo a Capua, nel principato longobardo di
Benevento, retto da Pandolfo I detto Capodiferro, uomo
determinato e poco incline alla pazienza. Nei territori governati
da Pandolfo si trova la celeberrima abbazia di Montecassino,
fondata nel 529 da Benedetto di Norcia: è il centro da cui hanno
avuto origine tutti i conventi benedettini d’Europa e non è solo un
fulcro religioso, ma anche un insediamento economico di capitale
importanza. I territori del monastero si estendono per intere
giornate di cammino e centinaia di contadini vivono alle
dipendenze dell’abate Aligerno, alla cui elezione, avvenuta proprio
a Capua nel 949, il giudice Arechi aveva partecipato.
Ora però un certo Rodelgrimo d’Aquino, possidente terriero, ha
deciso di far causa all’abbazia, sostenendo che i pii monaci, quatti
quatti, si sono impossessati di alcune terre che invece sono sue e
le coltivano abusivamente. È una faccenda spinosa che va trattata
con cautela, perché entrambe le parti in causa sono agguerrite e
godono di un certo prestigio, perciò la sentenza deve essere
motivata e inappuntabile. Il giudice Arechi e il notaio Adenolfo
vanno dunque a cercare dei testimoni, ovvero i contadini delle
vicinanze, e ne trovano tre – Mari, Teodemondo e Gariperto –
disposti a giurare che i monaci sono innocenti perché il campo fa
parte dei possedimenti del monastero ormai da decenni. I due
giuristi hanno però un problema: i tre sono gente del popolo,
l’atto è scritto invece in latino, lingua che i testimoni non parlano.
Che fare? Arechi si scervella. Tradurre le loro parole in latino è
rischioso, perché espone a possibili contestazioni; far imparare
loro una formuletta latina anche, perché si rischia l’accusa di aver
imbeccato i testimoni. Bisogna trascrivere le loro parole nella
lingua in cui sono pronunciate, e cioè in volgare. Quindi Arechi e
Adenolfo approntano una formula chiara nella lingua parlata dai
tre, che probabilmente è quella che a casa e in famiglia parlano
anche loro, e la trascrivono sul documento, che prende il nome di
Placito Cassinese. La testimonianza suona alla fine così:
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte
sancti Benedicti.

[So che quelle terre con quei confini che qua sono indicati, le possedette per
trent’anni la parte di San Benedetto.]

La formula non è né ingenua né spontanea. Arechi e il fido


Adenolfo hanno sudato sette camicie per infilare in queste due
righe una serie di precisi e inappellabili riferimenti giuridici, come
i trent’anni, lasso di tempo che per il diritto romano garantisce
l’usucapione, ovvero il diritto di considerare come propria una
cosa che si è sempre usata senza che il proprietario legittimo
l’abbia mai rivendicata. Anche l’idea di riportare la dichiarazione
in volgare è una decisione politica: citando le parole chiave in
volgare, rende comprensibile il documento anche a coloro che non
sanno il latino. Rende quindi manifesta a tutti la sconfitta di
Rodelgrimo e mette al sicuro il monastero da possibili altre cause
da parte di proprietari terrieri prepotenti.
Dal punto di vista linguistico, invece, alcune caratteristiche del
volgare si vedono bene. Il classico sapio si è ridotto e semplificato
in un sao, antenato del nostro so. La c era evidentemente già
sentita come dolce, perché per indicare la c dura/q si usa il segno
k. I casi latini sono andati quasi del tutto perduti, anche se resiste
il genitivo singolare sancti Benedicti. Come secoli dopo per il
latinorum di Renzo Tramaglino, il genitivo è l’ultimo a morire.

Mariti gelosi e parolacce in chiesa


«Tirate, figli di puttana!»
Per quanto uno sia di mentalità aperta, una frase del genere si
aspetta di sentirla dappertutto, salvo che in una chiesa. Men che
mai di trovarla scritta in bella vista, al centro di un affresco.
Ma il Medioevo è un periodo decisamente pieno di sorprese.
Nel 1076 Rainero Raineri, monaco benedettino di origine
emiliana, viene nominato cardinale della chiesa di San Clemente a
Roma. Decide di festeggiare commissionando un ciclo di affreschi
che raccontino le storie di San Clemente I, cui l’edificio è
dedicato. Il santo è stato uno dei primi papi, in un periodo in cui
ancora il cristianesimo non era ben visto dalle autorità romane.
Era riuscito però a guadagnarsi la fiducia della patrizia Teodora,
che per lui si era convertita alla nuova religione. Il marito di
questa, Sisinnio, non l’aveva presa bene. Sospettando forse che
fra la moglie e Clemente vi fosse qualcosa di più che un’intesa
spirituale, si presentò in chiesa assieme ai suoi sgherri e tentò di
incatenare il santo per trascinarlo in tribunale. E qui il miracolo: i
servi, che nell’affresco si chiamano Albertel, Gosmari e
Carvoncello, pensano di aver agguantato il prete, ma si ritrovano
a trascinare una pesantissima colonna, mentre Clemente ghigna,
in latino: «Duritiam cordis vestris trahere saxa meruistis!» («Per
la durezza del vostro cuore, avete meritato di trascinare dei
sassi!»)
Sisinnio, accecato dall’ira, non si rende conto di quanto accade
e ordina di continuare a tirare, sbottando in un: «Fili de le pute,
traite!» Cavoncello interviene per esortare i due compagni,
dicendo: «Albertel, Gosmari, traite!» mentre Albertel e Gosmari,
ansimanti e stanchi, urlano a Cavoncello: «Falite deretro co lo
palo!» per invitarlo a usare un bastone, forse per fare leva.
A noi moderni sembra una specie di fumetto, ma i messaggi
che veicola sono molteplici, e di certo usati assai consapevolmente
da Rainero, che di politica masticava parecchio, dato che qualche
anno dopo divenne papa con il nome di Pasquale II. I benedettini
si aprono alla lingua del popolo, il volgare, che viene scritto in un
luogo sacro, come una chiesa. Ma una certa differenza di classe si
mantiene: Clemente, papa, parla in latino corretto, e il volgare
viene invece lasciato a Sisinnio e ai suoi servi, pagani e poco colti.
Il latino è la lingua di Dio, il volgare degli uomini. E la Chiesa
parla quindi latino, anche se sa benissimo usare il volgare per
farsi capire, quando le serve.

L’italiano al bivio: quando “comincia” l’italiano letterario


A questo punto voi vi chiederete: bene, ma è nato allora
l’italiano? Anche se sembra ridicolo, l’unica risposta
scientificamente corretta è ni. Le testimonianze che abbiamo
scorso assicurano che nella nostra penisola, nei secoli successivi
alla caduta dell’impero romano d’Occidente, si sono cominciati a
parlare dei volgari, e che questi volgari avevano parecchi tratti
simili. Quando Dante nel suo De vulgari eloquentia (opera di cui
parleremo nel prossimo capitolo) vorrà identificare un particolare
comune a tutti questi linguaggi sceglierà il famoso sì, che è parola
derivata dal latino sic e significa “così” (se ci si pensa, è
l’equivalente di un Ok). L’Italia sarà infatti detta da lui il «bel
paese dove il sì suona». Ma quella di Dante in realtà è una
forzatura. A voler essere precisi, anche i cugini spagnoli usavano
all’epoca il sì per assentire, quindi nella pratica tutto, anche le
distinzioni fra quelle che oggi sono lingue separate e diverse
(come il francese, lo spagnolo e l’italiano), era molto fluido,
magmatico e confuso.
Altro problema è che finora le testimonianze di questo volgare
italiano che abbiamo elencato sono tutte “casuali”. Le frasi
tramandate lo sono state per motivi accidentali: serviva riportare
le parole di alcuni testimoni in un processo, sono pensate come
didascalie per affreschi, sono appunti presi di nascosto a margine
di un manoscritto noioso. Non c’è nessun progetto articolato alle
spalle e quasi nessuna consapevolezza. Non sono opere
pianificate, e, nel caso dell’indovinello veronese, non c’è neppure
il desiderio specifico di scrivere qualcosa che resti per i posteri.
Sono testi scritti, ma di certo non sono letteratura. C’è bisogno
invece di questo salto. Che qualcuno non si limiti a usare la lingua
spontaneamente per comunicare, ma decida di servirsene per
raccontare, scrivere, in prosa e in poesia.
Nelle altre regioni dell’ex impero romano si sviluppano prima
che in Italia componimenti letterari nel volgare locale. In Francia
esistevano poemi e liriche scritti in lingua d’oïl (l’antico francese)
e d’oc (il provenzale). Hanno un tale successo che anche alcuni
poeti nati in Italia finiscono col comporre opere in queste lingue,
che garantiscono ai loro versi una circolazione “europea”.
Da noi c’erano poesie scritte in volgare italico da giullari o
menestrelli e recitate nelle piazze e nei mercati, o in qualche
corte di signori.
Ma è solo ai tempi di Federico di Svevia (1194-1250),
imperatore tedesco della casa di Hohenstaufen, ma anche re di
Sicilia in quanto figlio della regina normanna Costanza d’Altavilla,
che si compie il salto di qualità. Si forma la prima scuola poetica
che usa un volgare italiano, il siciliano colto usato dai notabili
della corte. I Siciliani compongono centinaia di poesie, usano versi
disparati, inventano il sonetto e sono veramente un punto di svolta
per la vita letteraria della penisola.
Dal punto di vista della lingua, però, pongono tantissimi
problemi di interpretazione. I testi che sono giunti a noi infatti
non sono certo autografi, cioè scritti dalla mano di chi li ha
composti, e non sono stati trascritti nemmeno nella stessa epoca e
nella stessa regione in cui vissero gli autori. La gran parte dei
manoscritti sono arrivati a noi dalla Toscana. Siccome all’epoca
questi componimenti erano considerati testi leggeri, divertenti, di
moda, ma a cui certo non si doveva un gran rispetto, i copisti non
si facevano scrupolo di ritoccarli, anche pesantemente. Le parole
potevano essere cambiate o adattate, saltavano apostrofi,
venivano “aggiustate” le stesse rime. Detto in soldoni, cercare di
capire quale sia il testo originale di queste poesie è un’impresa. I
filologi, ovvero gli studiosi che per mestiere cercano di ristabilire i
testi antichi, sono costretti a fare spesso e volentieri congetture e
qualche volta veri e propri salti nel buio. I testi giuntici attraverso
manoscritti prodotti in Toscana hanno infatti la cosiddetta patina
toscana. In pratica i copisti hanno “toscanizzato” i testi, per
renderli più facilmente comprensibili al loro pubblico. Negli anni
Sessanta Gianfranco Contini pubblicò una edizione critica dei testi
dei poeti siciliani, che è ancora oggi un punto di riferimento. Ma
resta pur sempre il problema di fondo che si tratta di testi
ricostruiti spesso a posteriori e in cui c’è un margine di
insicurezza.
Il pregio fondamentale dei Siciliani, al di là persino dei loro
risultati poetici, è che fornirono l’ispirazione ad altri autori,
soprattutto bolognesi e toscani, i quali crearono cerchie poetiche
nelle loro regioni d’origine. Quando crollò la dinastia degli Svevi
nel Sud, uno dei figli di Federico, Enzo, finì la sua vita prigioniero
a Bologna, e nella città emiliana fiorì una nuova e interessante
scuola poetica. Questa fu una fonte di ispirazione e un punto di
riferimento per una cerchia di giovani poeti fiorentini. È proprio
fra questi che troviamo un ragazzo con un gran talento e una gran
voglia di mettersi in mostra. Si chiamava Dante Alighieri.

Il volgare diventa italiano: Dante

Il “miracolo” Dante
Dante Alighieri è uno di quei miracoli della natura che lasciano
senza fiato. Un po’ come le Montagne Rocciose o la Cappella
Sistina; quando le vedi la prima cosa che ti chiedi è: «Ma come
diavolo sono riuscite a venire fuori così?»
Ecco, con Dante l’effetto è lo stesso. Apparentemente aveva
tutto contro. Era un uomo di famiglia piuttosto oscura e con
scarse risorse economiche, che nel corso della vita ha avuto sotto
mano pochi libri ed è stato per giunta coinvolto in una serie di
eventi tanto drammatici da strappargli anche le poche sicurezze e
gli affetti più cari. Nonostante questo ha scritto quel capolavoro
che è la Commedia.
La Commedia non è un poema, è una di quelle opere che
rivoltano come un pedalino la storia della letteratura mondiale.
Non c’è posto, nell’Europa e nel mondo, dove non sia stata e non
sia ancora oggi letta, studiata, ammirata. Da Milton a Eliot a
Pound è stata fonte di ispirazione per generazioni di autori nei
secoli successivi. Fa parte del ristretto novero dei capisaldi
dell’umanità: dà il braccetto e qualche volta surclassa perfino
Iliade e Odissea. Più che un’opera letteraria, è un mondo. E lo è
perché è scritta in una lingua che è essa stessa un miracolo:
matura, innovativa, corposa, potente. Un linguaggio così duttile e
sapido che pare avere alle spalle una tradizione lunghissima e
stratificata, mentre in molti casi ha dietro solo l’inventiva di un
uomo: Dante. È lui che tesse, taglia, cuce; è lui che ripesca o
riadatta termini dal latino, dal siciliano, dal provenzale, dal
francese, dai vari dialetti d’Italia, o ne forgia di nuovi; è lui che li
amalgama e li assembla. Crea così qualcosa che è vitale e
moderno, anche se è squisitamente medievale. La Commedia è
davvero sorella delle grandi cattedrali d’Europa, quelle che sono
state tirate su a occhio con maestria ineguagliabile da muratori
che lavoravano la pietra con strumenti spesso primitivi e
imprecisi. Come quelle, la lingua dantesca è in grado di
rappresentare tutti gli aspetti della società, dai più alti ai più bassi
e grevi: l’amore spirituale e la passione carnale, le vette della
filosofia e della teologia, l’ira più rovinosa e la serenità che si
raggiunge solo con il perfetto distacco dalle miserie del mondo.
Quando si definisce Dante “il padre della lingua italiana” si usa un
luogo comune. In realtà più che padre lo si dovrebbe definire “la
madre”. L’ha concepita, nutrita, protetta, alimentata e infine
partorita, svezzata e mandata per il mondo. Prima di lui l’italiano
non c’era, e dopo di lui invece decisamente sì, pronto a prendere
il suo posto nella storia della cultura. Un vero genitore di
successo.
L’italiano, la lingua nata per le donne
Il giovane Dante non pareva destinato alla gloria. Tutto
congiurava contro di lui. Proveniva da una famiglia che vantava
nobili ascendenze, ma alquanto dubbie e fumose. Gli Alighieri si
dicevano parenti degli Elisei, discendenti di tal Eliseo, cavaliere di
Carlo Magno, che sarebbe stato fra i rifondatori della città di
Firenze dopo le devastazioni longobarde, ma nulla confermava
questa storia. Se le parentele erano incerte, certissimo era invece
il fatto che non navigassero nell’oro al tempo della nascita di
Dante. Se anche avevano fondato Firenze, la città si era poi
sviluppata senza alcun loro fondamentale contributo. Ci tenevano
però a dare al loro rampollo una buona educazione e fargli
frequentare le migliori compagnie. Dante divenne allievo di
Brunetto Latini, l’intellettuale fiorentino più famoso in quel
periodo, e soprattutto amico di uno dei giovani più in vista della
città, Guido Cavalcanti.
I Cavalcanti erano mercanti ricchissimi e guelfi, e perciò
tenevano per il papa, ma per pararsi in ogni evenienza s’erano
anche imparentati con Farinata degli Uberti, che era stato il gran
capo della fazione ghibellina. Guido infatti ne aveva sposato la
figlia. Bello, elegante, colto e con una certa aria da intellettuale
trasgressivo che si diverte a flirtare con le nuove correnti
filosofiche in odore di eresia, Guido era l’animatore di un cenacolo
di poeti che propugnavano un nuovo stile nella letteratura.
Passarono alla storia con il nome di Stilnovisti.
Componevano raffinate poesie d’amore e le dedicavano alle
loro belle, che non erano volgari amanti, ma più muse ispiratrici,
angeli circonfusi di luce che ispiravano e nobilitavano gli spiriti
dei loro amati. Non che disdegnassero poi qualche avventura più
carnale. Guido era molto sensibile alle grazie di pastorelle
incontrate per caso nei boschi e donzelle francesi incrociate
durante serissimi pellegrinaggi a Tolosa, e Dante stesso ebbe una
storia con tal Violetta, che gli aveva incendiato la mente e non
solo.
La lingua volgare e l’amore in ogni sua forma per gli Stilnovisti
erano strettamente legati. La lingua volgare infatti è strumento e
veicolo di seduzione fin dalla sua nascita, anzi sedurre è proprio il
fine per cui è stata usata per la prima volta in poesia:
Il primo che cominciò a dire siccome poeta volgare, si mosse però che volle far
intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole di intendere i versi
latini.

Vita Nova, XXV, 6

[Il primo che cominciò a scrivere versi in volgare era mosso dall’intento di farsi
capire da una donna, che non era in grado di comprendere una poesia scritta in
latino.]

A differenza dei colleghi, però, Dante non resterà vincolato a


questo uso limitato e circoscritto. La vita lo porterà a occuparsi
seriamente di politica e questo aprirà nella sua mente nuove
prospettive. Invece che limitarsi a sedurre graziose fanciulle o a
farsi platonicamente ispirare da loro, Dante vedrà nel volgare una
lingua adatta a trattare anche temi politici, letterari, filosofici, a
essere usata nelle corti, nelle università e nei tribunali. Il volgare
di Dante è una lingua stratificata e complessa, con alle spalle una
grande tradizione. Come, direte voi, ma non lo inventa in pratica
lui? Già. Solo che Dante, per un errore di prospettiva, non si rende
conto di essere lui a farlo: è convintissimo invece di essere sul
punto di recuperare e riportare alla luce una lingua assai più
antica e usata da secoli. Come mai? Cerchiamo di spiegarlo.

Il volgare che Dante (non) inventò


Dall’universale al particolare: il Medioevo ragionava così. Dopo
il gran caos dei secoli bui, delle invasioni e dei continui scontri fra
papato e impero, il mondo di Dante finalmente tirava un po’ il
fiato e aveva una grande ansia di rimettere ordine, come quelle
massaie che per dare un’aria nuova a casa decidono di risistemare
gli armadi, inserendo ogni cosa dentro scatole e contenitori. Il
Medioevo, non avendo l’Ikea, decise che il miglior produttore di
contenitori per il pensiero era il vecchio caro Aristotele, e che era
stato preso come faro da un altro grande intellettuale dell’epoca,
Tommaso D’Aquino.
Dante, che era sempre molto attento alle mode culturali e agli
argomenti caldi, decise dunque di affidarsi ad Aristotele e
affrontare con il suo metodo il problema della lingua volgare.
Iniziò dunque a scrivere in latino un trattatello specifico, il De
vulgari eloquentia, che fu cominciato negli anni immediatamente
successivi al suo esilio da Firenze, quindi verso il 1305.
Perché si mette a scrivere un’opera “pesa” di retorica
affrontando per giunta un problema linguistico così complesso?
Perché il nostro in quel momento aveva un gran bisogno di
acquisire credibilità a livello scientifico e di recuperare visibilità a
livello personale. Si trovava solo, in esilio dalla sua città natale
per ritorsioni politiche che nel resto d’Italia risultavano assai
nebulose e venivano archiviate fra le tante beghe cittadine. La sua
fama giovanile era legata a componimenti poetici amorosi
considerati divertimenti, bagatelle di poco conto. Se voleva
divenire un intellettuale serio e di spicco doveva dimostrare di
avere una solida preparazione e argomentazioni dirompenti da
giocarsi per tentare la scalata all’empireo dei dotti, quelli che
venivano consultati dall’imperatore stesso quando c’erano da
prendere decisioni ponderate sull’avvenire d’Italia. Questo era il
grande obiettivo che perseguì tutta la vita, senza peraltro
realizzarlo mai.
Quando si parla di Dante bisogna tenere conto che era un uomo
in qualche modo intossicato dalla politica. Non ne poteva fare a
meno. Era la sua grande passione e la sua ragione di vita. Anche
quando parla apparentemente d’altro – e sembra farlo spesso – in
realtà il suo pensiero torna sempre lì. La lingua c’entra con la
politica? Parecchio. È il mezzo con cui si analizza il mondo e lo si
racconta. Non c’è nulla di più politico di ciò, e Dante lo sapeva
bene. Quindi capire come fosse costruita la lingua e come andasse
usata era il primo passo per analizzare la società e capire come
andasse il mondo.
Dall’universale al particolare, abbiamo detto. Nell’immaginare
come le lingue nascano e si evolvano nel tempo, Dante prende
l’idea aristotelica come guida. Quindi pensa che all’inizio dovesse
esistere una lingua universale compresa da tutti, che poi con il
tempo si è frammentata e suddivisa. Era una ricostruzione che già
la Bibbia proponeva, con la storia della Torre di Babele. La lingua
originale si pensava che fosse stata quella parlata da Adamo, poi
corrottasi nel tempo per i peccati degli uomini. Perduto questo
linguaggio antico, i dotti avevano sempre ritenuto che le due
lingue più perfette fossero greco e latino, le uniche adatte a
trattare di argomenti alti e importanti perché erano state
cristallizzate in regole grammaticali fisse e certe, e che i volgari
invece fossero lingue più recenti, derivate dalla corruzione del
latino parlato dagli antichi. È qui che Dante si inserisce e “svisa”,
come si direbbe nel jazz. Per lui il volgare è invece sempre
esistito, già ai tempi degli antichi romani, che usavano il latino fra
dotti o con l’imperatore, per parlare di cose importanti, e poi
invece, con i figli e le mogli o i vicini di casa, si servivano di una
lingua diversa, più semplice ma anche più viva ed espressiva. Il
volgare, appunto. Ed era questo che Dante voleva ricostruire
come nuova lingua d’Italia.
Detta così sembra un’assurdità, ma in realtà Dante non ha del
tutto torto. Abbiamo visto che già ai tempi dell’antica Roma il
latino che noi leggiamo nei testi era parlato da pochissimi, giusto
da Cicerone e dai suoi pari quando discutevano animatamente
nella Curia. Il latino parlato dal popolo di Roma e ancor di più
dalla gente che viveva nelle province ai margini dell’impero era
molto più semplice e vicino ai volgari che si svilupperanno in età
medievale. Era la lingua rustica (o sermo rusticus) cui abbiamo
accennato in precedenza. L’intuizione di base quindi era più che
corretta, ma poi Dante è il genio che è: come ogni artista ci
ricama su, e da un semplice schizzo a carboncino tira fuori una
cosa che è simile per complessità a una ricostruzione in 3D
dell’universo.
Il compito che si assegna come intellettuale di spicco
dell’impero sarà questo: ricostruire il volgare primigenio e
riproporlo come nuova lingua d’uso per la società contemporanea.
È un’impresa titanica: non si tratta di prendere un dialetto
esistente e scriverci qualche verso. Si tratta di andare in giro
come un segugio per tutta Italia, studiare parole di provenienza
diversa, organizzarle in un enorme puzzle che raffigura un mondo
intero. Dante è assieme un Michelangelo e uno Sherlock Holmes,
un attento codificatore di quanto c’è e un geniale creatore di
qualcosa che ancora non è stato codificato. Studia e sperimenta
assieme, e quando si rende conto che la teoria non basta, passa
alla pratica. Così nasce la Commedia, una dimostrazione sul
campo che la nuova lingua da lui “ricostruita” può davvero
raccontare tutto, dal più fetido buco dell’abiezione infernale alle
vertiginose altezze dell’empireo di Dio.

La lingua composita di Dante (o del perché non esistono


“dantiani”)
La cosa divertente è che per Dante il migliore dei volgari non
era quello fiorentino, ma il bolognese. Lo aveva studiato così
profondamente che riusciva addirittura a cogliere le differenze fra
i vari quartieri della città e lo considerava una specie di perfetto
baricentro fra i volgari parlati nella penisola (Dve I, 9, 4-5).
Bologna era una città chiave nell’equilibro dell’Italia di allora.
Era la sede della più antica università italiana ed europea e un
centro di studio internazionale, specializzato nel diritto. L’Alma
Mater Studiorum (è il nome dell’Università di Bologna) formava i
giuristi che finivano a fare da consulenti nelle corti italiane e
soprattutto in quella imperiale. Aveva inoltre ospitato una vivace
scuola poetica a cui gli Stilnovisti si erano ispirati.
Bologna, però, oltre che un crocevia linguistico, era anche un
crocevia “sociale”, molto più della stessa Firenze. Per le sue
strade si sfioravano passeggiando poeti d’amore influenzati da
Provenzali e Siciliani, cioè la scuola poetica fiorita alla corte
dell’imperatore Federico di Svevia che aveva iniziato in Italia a
comporre liriche d’amore in volgare. Re Enzo, figlio
dell’imperatore e poeta, aveva finito i suoi giorni proprio
prigioniero a Bologna. Ma qui si trovavano anche giuristi ed
esperti di dottrina, predicatori, nobili guelfi e ghibellini,
diplomatici, ecclesiastici, mercanti. Era un vero e proprio melting
pot in cui si intersecavano anche le più distanti classi sociali: il
popolo, la borghesia in ascesa, la nobiltà di spada e di toga, i
dignitari imperiali e i feudatari, ognuna con il proprio lessico e
gergo specifico. Dante dovette studiare con attenzione questo
crogiolo di influenze diverse. Probabilmente pensò che la lingua
parlata nella città emiliana dovesse essere la più simile a quel
“volgare arcaico” di cui lui presupponeva l’esistenza, quello da cui
poi sarebbero derivati tutti i volgari italici, più poveri, circoscritti
e settoriali.
Il tentativo di Dante era dunque quello di ricostruire questo
volgare arcaico perduto, fondendo insieme parole di diversa
provenienza. Era una lingua ricca e stratificata, complessa. Man
mano che Dante invecchia, nei suoi scritti entrano termini delle
più diverse provenienze. Se da giovane orecchiava soprattutto dai
trovatori provenzali, autori di liriche d’amore, via via aggiunge
termini latini provenienti dal lessico religioso o giuridico, e parole
che trae da ogni dialetto della penisola.
La lingua di Dante risulta straordinariamente potente per
questo, ma sempre per questo poco “replicabile”. La Commedia è
una sorta di laboratorio continuo, in cui Dante prova, monta,
rimonta, tenta, ritenta, corregge.
Come gli antichi alchimisti, raggiunge dei risultati, ma non
riesce a individuare una formula applicabile da tutti.
Il motivo per cui Dante crea una lingua ma non una scuola è
questo: mette assieme qualcosa di meraviglioso ma che non è mai
standard. Solo Dante riesce a scrivere come Dante. Non ha allievi
e difficilmente può avere imitatori, perché è imprevedibile. Il suo
poema è incredibilmente organizzato e ordinato, basato su ferrei
richiami matematici, teologici e giochi di rimandi complessi e
incrociati. Ma rimane un unicum che nessun altro può nemmeno
usare come modello. E la sua lingua è identica. È
meravigliosamente complessa, matura, duttile. Ma non potrà mai
essere riprodotta in toto da qualche altro suo seguace. Resta solo
sua.

Petrarca e l’orologino
Nel 1304, mentre Dante si trovava esule in quel di Bologna per
studiare il volgare “perfetto”, ad Arezzo nasceva Francesco
Petrarca.
Verrà considerato il poeta lirico più famoso d’Europa e nei
secoli successivi il suo volgare fiorentino fu ritenuto lo strumento
perfetto per comporre versi. Il che è curioso, visto che visse un
po’ ovunque in Italia e in giro per l’Europa tranne che, in pratica,
a Firenze.
Anche il padre di Petrarca faceva parte a Firenze dei Guelfi
Bianchi, ed era stato condannato all’esilio proprio assieme a
Dante, ma le somiglianze nella condizione dei due finiscono qua.
Ser Pietro Petracco (questo il nome del padre del poeta) era
notaio affermato e ben ammanicato con la Curia romana, il che
rese l’esilio della famiglia ben più comodo di quello di Alighieri.
Dopo qualche anno trascorso in Toscana, dove per altro il
giovanissimo Francesco e Dante si incrociano forse a Pisa,
fuggevolmente e senza che fra i due sia scoccata alcuna scintilla,
ser Pietro porta la famiglia ad Avignone, sede della corte papale.
Il padre sogna per Francesco una carriera giuridica, e infatti il
ragazzo studia legge a Montpellier, e viene poi inviato a
perfezionarsi a Bologna, che ancora una volta si dimostra una
sorta di accogliente nursery per la letteratura italiana.
Nella capitale emiliana Francesco non diviene avvocato, ma
studia i classici latini e legge molta, anzi moltissima poesia
volgare, compresa probabilmente la Commedia, anche se poi il
nostro sarà sempre molto reticente sull’influenza che Dante ha
avuto su di lui. Oltre alla letteratura, cura soprattutto le pubbliche
relazioni. Se c’è una cosa in cui Petrarca batte Dante è la sua
capacità di stringere legami duraturi e proficui con i politici che
contano. I suoi primi protettori e sponsor saranno i Colonna,
potentissima famiglia romana, ma nel corso della sua vita se ne
succederanno altre, come i Visconti, e non mancherà la
fascinazione breve ma intensa per una meteora rivoluzionaria,
Cola di Rienzo.
Petrarca riuscirà a raggiungere tutto ciò che Dante non ottenne
mai: sarà ricco, osannato dai potenti, coccolato come un vip,
ricercato come consulente ed esperto. Nel 1341 il senato della
città di Roma lo onora laureandolo come poeta con una corona
d’oro in Campidoglio, con una cerimonia pubblica, solenne e
sfarzosa che riprende quella del poeta latino Stazio e sancisce così
il suo successo internazionale, accreditandolo come erede diretto
degli antichi letterati latini.
Avrà schiere di discepoli e di ammiratori, lancerà mode
culturali, verrà lodato e preso a modello in tutta Europa.
Alle volte viene da chiedersi se tutto questo successo non gli
abbia in parte nuociuto, perché Petrarca, ancorché considerato un
grande, viene però percepito spesso come un opportunista e un
poeta “freddo”. Se Dante conquista per il suo vigore sanguigno,
per le sue violente prese di posizione e per la grande capacità di
rischiare, in tutti i sensi, anche nelle scelte linguistiche, Petrarca
no. Le sue poesie scorrono come le «chiare, fresche e dolci acque»
che descrisse in una delle sue più celebri canzoni. I versi
scivolano senza un intoppo, eleganti, privi di sbavature, perfetti.
Anche se raccontano di grandi tormenti interiori, questa angoscia
non lascia tracce nella forma, che è sempre sorvegliatissima e
limpida.
Petrarca, al contrario di Dante, era un vero uomo d’ordine. In
tutti i sensi, nella vita come nella letteratura. Gli piacciono le
regole chiare, enunciate con precisione e seguite con scrupolo.
Ama i classici ed è il primo dopo tanti secoli a capirne appieno la
lezione. L’intero mondo greco e romano aspirava al
raggiungimento dell’armonia, che era la capacità di vivere fino in
fondo le passioni senza però diventarne schiavi. Questo è l’ideale
anche linguistico di Petrarca.
Nelle sue opere tutti i termini usati sono scelti con maniacale
attenzione e posizionati con altrettanta cura: nei versi da lui
scritti non si può cambiare una parola né spostarla, perché le
poesie di Petrarca sono un sofisticato meccanismo che è pensato
come un orologino. Non inventa nulla, perché ogni parola è stata
già usata da qualcun altro in precedenza, e ogni metro e verso
pure. Ma lui riesce a servirsene come nessun altro mai prima.
Petrarca è per la poesia quello che Coco Chanel è stata per la
moda: non ha disegnato dei vestiti, ha creato un immortale
canone di eleganza.
Ciò che racconta si fonde perfettamente con il modo in cui
racconta, si trasfigura, diviene letteratura, cioè rielaborazione,
omaggio o ripresa della tradizione precedente.
Sia che scriva una poesia d’amore come «Benedetto sia il
giorno»:
Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno,
e la stagione, e ’l tempo, e l’ora, e ’l punto,
e ’l bel paese, e ’l loco ov’io fui giunto
da’ duo begli occhi che legato m’hanno;

e benedetto il primo dolce affanno


ch’i’ebbi ad esser con Amor congiunto,
e l’arco, e le saette ond’i’ fui punto,
e le piaghe che ’nfin al cor mi vanno.

Sia che canti il dolore per un collega e amico scomparso come


era Cino da Pistoia, non può far a meno di rielaborare il cordoglio
e tramutarlo, per esempio, in una raffinata citazione degli antichi:
Piangete, donne, et con voi pianga Amore;
piangete, amanti, per ciascun paese,
poi ch’è morto collui che tutto intese
in farvi, mentre visse, al mondo honore.

Io per me prego il mio acerbo dolore,


non sian da lui le lagrime contese,
et mi sia di sospir tanto cortese,
quanto bisogna a disfogare il core.

Piangan le rime anchor, piangano i versi,


perché ’l nostro amoroso messer Cino
novellamente s’è da noi partito.

Pianga Pistoia, e i citadin perversi


che perduto ànno sí dolce vicino;
et rallegresi il cielo, ov’ello è gito.

Dietro a quello che pare un sincero ed estemporaneo elogio di


un amico defunto, c’è il modello classico di una lirica del poeta
romano Catullo («Piangete, Veneri e amori, e voi amanti del bello /
è morto il passero della mia fanciulla, il passero che era la delizia
della mia fanciulla», Catullo, 3).
Petrarca è sempre misurato, elegante, fino. Studia e lima ogni
verso, non si distrae e non si affanna, tanto che alla fine la poesia
sembra magnificamente naturale, come l’acqua che sgorga dalla
sorgente senza fatica. È così perfetto che quasi non te ne rendi
conto. Rispetto alle liriche di Petrarca, tutte quelle precedenti
sembrano quasi balbettii, e quelle dopo vuote imitazioni.
Ovviamente non c’è nulla di casuale in quello che scrive, e
nulla di naturale in come organizza i suoi versi, ma solo un lungo
e maniacale lavoro di cesello.
Dell’enorme e spesso caotico cumulo di idee, parole e costrutti
linguistici e metrici che eredita dai poeti precedenti, Petrarca
cerca di trarre in salvo solo quello che a suo avviso vale la pena
traghettare nel futuro. Non inventa, discerne. Dante è un mulino
che macina, Petrarca un setaccio.

Boccaccio e la vita spericolata dei mercanti e dei banchieri

Non so se ve ne siete accorti, ma finora la storia della lingua


italiana è stata fatta dappertutto tranne che a Firenze. E anche il
terzo dei grandi della nostra letteratura, pur essendo anche lui
fiorentino, in realtà a Firenze ci stette poco e persino
malvolentieri.
Giovanni Boccaccio era il figlio naturale di un mercante di
notevole successo, Boccaccino da Chiellino, agente della potente
banca dei Bardi. Fu inviato da loro a Napoli per gestire gli affari e
tenere i rapporti con la corte angioina, all’epoca una delle più
ricche d’Europa.
Il padre di Boccaccio sognava il figlio banchiere o canonico. Per
gli studi, ahimè, Giovanni dimostrò scarsa inclinazione. Siccome i
soldi in famiglia allora non scarseggiavano, Boccaccio divenne
uno dei tanti giovani bene che amavano la vita di Michelazzo, cioè
bere, mangiare e andare a spasso. La corte angioina era il suo
luogo ideale, Boccaccio iniziò a scrivere poesie per intrattenere le
festose brigate di amici che si era fatto. Il suo mito letterario fu fin
dall’adolescenza Dante, e lo resterà per tutta la vita, anche se mai
due personalità appaiono più distanti, sia dal punto di vista del
carattere sia da quello degli argomenti trattati.
Sugli argomenti, però, bisogna aprire una parentesi, perché
nessun altro autore più di Boccaccio è stato frainteso.
Nell’immaginario odierno viene ritenuto un autore licenzioso,
capostipite di un genere di letteratura bassa che indulge nel
raccontare scherzi triviali e avventure erotiche volgari. Sembra il
diretto antesignano dei cinepanettoni natalizi con Boldi e De Sica.
L’aggettivo boccaccesco indica infatti una situazione
scollacciata, al limite talvolta del pornografico. A scorrere le cento
novelle del Decameron, in realtà, tutti questi scandali non si
vedono, le novelle licenziose sono poche, e soprattutto Boccaccio
è un autore certo non casto, ma elegantissimo, che mai scade nel
volgare anche quando racconta le storie più sapide e di
ambientazione popolaresca.
L’accezione pruriginosa del termine boccaccesco che tutti
conosciamo infatti è dovuta in gran parte all’immaginario del
cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta.
Nel 1962 usciva nelle sale Boccaccio ’70, un film a episodi
girato da quattro mostri sacri come Vittorio De Sica, Mario
Monicelli, Federico Fellini e Luchino Visconti. La pellicola era
ambientata nel mondo contemporaneo e prendeva solo vagamente
spunto da racconti del Decamerone. Metteva in scena invece
alcuni episodi che denunciavano l’ipocrisia della società italiana di
quell’epoca, in cui il boom economico e il perbenismo imperavano
e la morale cattolica censurava pesantemente ogni accenno al
sesso, che diventava così un pensiero ossessivo e nascosto. Il film
suscitò grande scalpore e un interesse, anche un po’ morboso,
verso l’opera dell’autore citato nel titolo. Erano gli anni in cui il
cinema, con una serie di pellicole comiche come L’armata
Brancaleone (1966) e Brancaleone alle crociate (1970), proponeva
una lettura ironica e ludica del Medioevo, divertendosi a
scardinare l’immagine di periodo buio ossessionato dal peccato, e
proponendone invece una visione allegra, comica e burlona.
Qualche tempo dopo, nel 1971, Pier Paolo Pasolini girò il suo
Decameron. Presentava una scelta di novelle in cui il tema erotico
veniva enfatizzato dove era presente nell’originale o addirittura
inserito esplicitamente dove non c’era o era solo accennato di
sfuggita. Lo scandalo fu enorme e i produttori fiutarono l’affare.
Il cinema di cassetta sfornò in pochi anni tutta una serie di
pellicole ambientate nel Medioevo, che perdevano quasi del tutto
ogni velleità di denuncia dell’ipocrisia sociale e si limitavano a
presentare trame andanti, piene di ammiccamenti erotici al limite
del pornografico, come Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e
tutta calda, uscito nelle sale nel 1972. Erano film, appunto,
boccacceschi, anche se con il buon Boccaccio non avevano nulla a
che fare.
Boccaccio in realtà è autore colto, che sposa i valori e le
abitudini dell’aristocrazia in mezzo alla quale ha trascorso la sua
gioventù. Tornato malvolentieri a Firenze forse a seguito di un
tracollo delle fortune di famiglia, continuò a poetare, ma
inserendo sempre più parentesi in prosa in mezzo ai versi. Era la
prosa la grande vocazione di Boccaccio. Come poeta era elegante,
ma non memorabile, come scrittore invece era geniale. Sapeva
coniugare il fiuto per scovare una buona storia alla capacità di
raccontarla con lo stile più adatto. Aveva studiato in modo
approfondito i grandi prosatori latini: per lui la costruzione della
frase e del periodo non aveva segreti. Sapeva cogliere e rendere
sulla pagina tutte le sfumature di un ambiente, di un personaggio
o di una conversazione.
Anche lui, come Dante, crea una lingua adatta a descrivere un
mondo. Che è quello dell’autunno del Medioevo, fatto di mercanti
spregiudicati, frati corrotti, monache con scarsa vocazione,
truffatori che smerciano false reliquie, servi e cuochi furbi più dei
loro padroni, ma anche di nobili cavalieri in bolletta, ricchi
borghesi che menano vita da aristocratici senza riuscire a
diventarlo, giovani signore e signori annoiati che passano il tempo
leggendo libri alla moda e ispirandosi ai grandi esempi del
passato. Boccaccio, a ben vedere, non parla tanto di sesso: parla
assai più spesso di soldi. Dei suoi protagonisti conosciamo quanto
guadagnano o quanto possiedono. Spesso il denaro che hanno o
che non hanno o che spendono per nobili cause o sperperano per
vanità è il metro con cui vengono misurati e valutati.
La società che descrive è colta e internazionale, una sorta di jet
set del Medioevo, costituito da gente che gira il mondo per affari,
riceve ospiti nelle sue grandi case, organizza feste e banchetti,
frequenta nobili, prelati, imperatori, ed è circondata da un nugolo
di servi, famigli, segretari, fantesche, governanti, cameriere,
cuochi, e da un sottobosco di altri personaggi dai mestieri incerti
e ambigui, che possono essere buffi o pericolosi a seconda delle
circostanze. La lingua è variegata, come il mondo che descrive, e
come è varia la vita dell’autore. Se infatti quando crea il
Decameron usa uno stile diretto e vivace, adatto a dei racconti,
man mano che Boccaccio intraprende la strada che lo porta a
diventare un serio studioso di letteratura, la sua lingua diviene
perfetta per il saggio filosofico e filologico. Non è fiorentino, come
non era fiorentino la lingua usata da Dante nella Commedia. È
qualcosa di molto più composito, che copia costruzioni
grammaticali dal latino e termini da altri dialetti, ma anche alle
volte oscilla fra le desinenze da usare per coniugare i verbi e
formare le parole. Boccaccio, che pare così amabile e bonario,
persino talvolta superficiale, è uno che studia e sperimenta, un
letterato “secchione”. Nell’ultima parte della sua vita si
trasformerà anzi in un vero erudito a tempo pieno.
Chiosa manoscritti, cura edizioni critiche, commenta tutto
Dante di cui in fondo è il vero erede. Sente più affinità con lui che
con Petrarca, di cui fu amico e discepolo. Dante è il suo maestro,
anche se per motivi cronologici non si incrociarono mai. Pur se
vissuti in due Medioevi profondamente diversi, seppure distanti
solo pochi anni l’uno dall’altro, hanno tanto in comune. Entrambi
hanno dovuto inventarsi una lingua per raccontare il loro tempo.
Per questo sono simili: nulla affratella di più che sconfiggere gli
stessi mostri e combattere gli stessi nemici.

Dal Quattrocento a oggi: il problema dell’italiano standard


Lorenzo, il signore della lingua toscana
Firenze nel Trecento aveva prodotto sopraffini letterati,
accomunati però dalla tendenza a finire a vivere lontano dalla loro
città, spesso per problemi politici. Nel Quattrocento produsse
invece un grande politico, ovvero Lorenzo de’ Medici.
Lorenzo fu più che un signore rinascimentale munifico
protettore delle arti. Era piuttosto un grande genio del marketing,
oggi diremmo un campione dello storytelling, l’equivalente di un
Obama dei nostri tempi. Dagli antichi greci, come Erodoto e
Tucidide, aveva infatti imparato una lezione fondamentale: le cose
non sono come sono, sono come si raccontano. E lui decise di
raccontare la sua Firenze come la più grande potenza politica e
culturale del secolo.
Era anche un buon poeta, forse non eccelso, ma di ottimo
livello. Si circondò, come era abitudine nella sua famiglia fin dai
tempi di nonno Cosimo, che lo aveva allevato, di artisti fra cui si
contavano Angelo Poliziano, Leonardo e Michelangelo (questi
ultimi due, anche se spesso la cosa viene dimenticata, non erano
solo scultori e pittori, ma anche letterati). Il mecenatismo non era
esclusivamente un modo per avere accanto delle belle menti con
cui conversare e discettare nei momenti di svago, ma un preciso
piano per far nascere il “mito” di una Firenze patrona delle arti e
delle scienze, erede diretta dell’antica Atene e di Roma, così come
Lorenzo era un epigono dei grandi del passato, come Pericle e
Augusto.
Se Firenze rivaleggiava direttamente con le grandi città del
mondo classico, anche il suo volgare poteva stare in pari alle
lingue degli antichi. Non era più nemmeno da considerarsi un
“volgare”, come i tanti altri parlati in Italia, ma una lingua con la
stessa dignità del greco e del latino, e Lorenzo era il suo custode,
così come era protettore degli artisti più in voga, quelli in grado di
confrontarsi direttamente con i grandi dell’età classica. Questo è
un passaggio politico di grande importanza, un cambio di
prospettiva per la lettura e per la nostra lingua.
Fino ad allora il volgare comune era nato in qualche modo “dal
basso”, o meglio dagli sforzi, testardi ma non coordinati e
programmati, di tutta una serie di poeti, prosatori e scrittori
indipendenti da un centro di potere, come lo erano stati Dante,
Petrarca e Boccaccio. Avevano creato una lingua composita, senza
in realtà pensare o trovare un vero referente politico preciso.
Lorenzo, invece, sul volgare vuole metterci il cappello, anzi lo
stemma di casa Medici e di Firenze. Il fiorentino è la lingua a cui
tutta Italia deve guardare, è l’ideale a cui ispirarsi come Firenze è
la città che tutte le altre città italiane devono considerare il loro
modello.
Tutto ciò viene detto da Lorenzo in una lettera (scritta in realtà
da Angelo Poliziano, vero intellettuale organico della corte dei
Medici) inviata al re di Napoli, Ferdinando d’Aragona, nel 1477 e
che accompagna un gentile dono del Medici al sovrano. Si tratta
di un manoscritto, passato alla storia con il nome di Raccolta
Aragonese, che contiene 499 componimenti di poeti e scrittori
toscani dal Duecento al Quattrocento, da Dante a Guittone
d’Arezzo a Lorenzo stesso.
Una antologia non è mai una scelta neutra, anzi. Chi la
compone dice tantissimo su quale sia la sua visione del mondo, sia
attraverso ciò che sceglie sia attraverso ciò che taglia, e anche
attraverso l’ordine dei passi scelti.
Costruendo la Raccolta Aragonese, Lorenzo vuole far passare
l’idea (che è poi rimasta vincente fino ai nostri tempi) che ormai
l’unico volgare possibile per la penisola sia quello che parte dai
Siciliani e poi si sviluppa in Toscana, e a Firenze in particolare, e
che questa evoluzione sia così naturale da non consentire altri
sbocchi o svolte. I poeti fiorentini, fra cui lui stesso, sono i soli
eredi “legittimi” dei grandi del passato. Non c’è altra lingua se
non quella che si usa a Firenze, e in fiorentino deve scrivere chi in
Italia vuole da ora in poi fare letteratura. Che abiti a Napoli o a
Milano non fa alcuna differenza.
È un’affermazione molto forte, che usa in modo spregiudicato
la cultura per perseguire un fine politico: affermare la supremazia
dei Medici sul resto d’Italia.
Finché il Magnifico rimane in vita il gioco bene o male riesce.
Lorenzo viene considerato “l’ago della bilancia” della politica
italiana e tutti, sia i signori delle altre città sia imperatori e papi,
fanno riferimento a lui come un elemento imprescindibile di cui
tenere conto. Ma alla sua morte, nel 1492, anche la questione
della lingua torna a riaprirsi, come molti altri problemi politici
della penisola.

Il toscano alla riscossa


La storia della nostra lingua è simile a un thriller, pieno di colpi
di scena e di svolte imprevedibili, anche perché siamo un paese in
cui, come diceva Flaiano, la linea più breve fra due punti è
l’arabesco. Visto che fino a quel momento la scena era stata
tenuta da fiorentini che non avevano come loro punto di
riferimento il solo volgare fiorentino, per stabilire che il fiorentino
dovesse diventare il volgare usato in tutta la penisola era
necessario che scoppiasse una baruffa fra due veneti.
Pietro Bembo e Gian Giorgio Trissino erano entrambi nobili
discendenti di ricche famiglie della Repubblica di Venezia,
umanisti coltissimi e ammiratori di Dante. Fin da giovani avevano
vissuto in giro per l’Italia, frequentando le corti e il bel mondo
dell’epoca. Bembo, figlio di Bernardo, ambasciatore della
Serenissima, crebbe a Firenze e studiò greco a Messina. Nella
casa del padre a Venezia si incrociavano i migliori umanisti
dell’epoca, come Angelo Poliziano e Giovanni Pontano. Il giovane
Pietro era quindi immerso in un ambiente in cui letteratura e
politica erano un tutt’uno. Quando era stato podestà a Ravenna, il
padre Bernardo aveva fatto restaurare la tomba di Dante, e Pietro
curò per l’editore Manuzio di Venezia la prima edizione a stampa
della Commedia, confrontando fra loro manoscritti diversi e
usando le tecniche filologiche fino ad allora usate per i testi greci
e latini, per ottenere un testo che ancora oggi è alla base delle
edizioni che leggiamo noi. Più che alla diplomazia, come
avrebbero voluto le tradizioni familiari, Bembo si dedicò alla
letteratura. A Venezia questa scelta non era particolarmente ben
vista, perché la Repubblica pretendeva dai giovani di buona
famiglia un costante impegno per lo stato. Bembo quindi preferì
vivere defilato prima sui colli asolani, ospite della corte di
Caterina Cornaro, nobildonna veneziana ex regina di Cipro, e poi
per qualche tempo a Ferrara, dove era duchessa Lucrezia Borgia,
di cui divenne amante. Infine Giovanni de’ Medici, divenuto papa
col nome di Leone X, lo scelse come suo segretario e se lo portò a
Roma, dove lo fece cardinale.
Studioso della Commedia, ammiratore ed epigono di Petrarca,
cresciuto a Firenze e per tutta la vita legato a fiorentini, Bembo
sposò la linea che era stata di Lorenzo il Magnifico, anzi la rese
ancor più precisa e fissa. Non solo il fiorentino era il volgare
principe che doveva essere adottato in tutta Italia, ma il modello a
cui fare riferimento non era neppure il fiorentino parlato ai tempi
di Lorenzo e di Bembo, bensì quello del Trecento, ovvero la lingua
usata da Boccaccio per la prosa e da Petrarca per la poesia.
Rifarsi a un linguaggio scritto di ben due secoli prima può
sembrare assurdo, ma bisogna capire anche quali fossero i
problemi a cui Bembo si trovava di fronte. Da letterato e da
curatore di testi, sentiva la necessità di un punto di riferimento
certo e preciso a cui rifarsi per stabilire la correttezza
dell’ortografia e le regole di sintassi per la costruzione delle frasi
e la coniugazione dei verbi. Bembo aveva bisogno di modelli, e gli
unici che si potessero usare per trarre delle regole e una
grammatica erano Petrarca e Boccaccio, i due grandi fiorentini.
Già Dante creava problemi, per tutta quella serie di
caratteristiche che abbiamo citato in precedenza anche qui: la sua
lingua era troppo composita e creativa per essere replicabile.
Impossibile invece ridurre a una logica e tirare fuori delle regole
generali da tutta l’infinita produzione di testi non in fiorentino. I
volgari della penisola erano troppo difformi ormai tra loro, e non
avevano prodotto nessun corpus di opere abbastanza lungo o
vario per essere analizzato. Il toscano trecentesco, alla fin fine,
era l’unico candidato a diventare un punto di riferimento e Bembo
quindi lo propone come lingua di tutti, o per lo meno come lingua
in cui tutti devono scrivere se vogliono garantire alle loro opere
un pubblico abbastanza vasto. Non dimentichiamo che Bembo è
anche il primo consulente editoriale. Non siamo più nei secoli in
cui un manoscritto veniva copiato a mano in due o tre esemplari: i
libri del Cinquecento si stampano e gli editori sono imprenditori e
vogliono proporre opere che possano essere vendute a molti.
Il toscano di Bembo non è più, come ai tempi di Dante, una
lingua per sedurre le donne. È una lingua pensata per scrivere
bestseller.

Trissino e i centri del potere


Delle corti rinascimentali abbiamo spesso una idea vaga e poco
aderente alla realtà. Ci immaginiamo luoghi frequentati da nobili
perditempo e intellettuali nullafacenti, che passano le giornate a
chiacchierare con il signore, a organizzare feste o banchetti,
trascorrendo le nottate a discettare di poesia o letteratura,
assistendo a qualche rappresentazione teatrale o musicale. In
realtà la corte era il centro burocratico, politico e amministrativo
del regno.
In ogni reggia laica o palazzo vescovile ogni giorno erano
prodotti, scritti, ricevuti, letti, analizzati centinaia di documenti,
leggi, trattati, atti amministrativi, missive diplomatiche. Le corti
negli anni avevano dovuto per forza inventare una loro lingua, non
solo per redigere gli atti interni, ma anche per comporre quelli
destinati ad altre città italiane in cui si parlavano volgari
differenti. Per capirsi avevano pescato da più tradizioni e da più
volgari e costruito una base linguistica comune, comprensibile a
tutti.
Gian Giorgio Trissino era un diplomatico internazionale. Nato a
Vicenza, aveva passato la vita a viaggiare fra la Serenissima,
Roma, Milano, Ferrara e altre città italiane, per venire a capo dei
mille scontri e beghe che sempre tormentavano la nostra penisola.
Era persino finito in esilio perché Venezia lo sospettava di
eccessive simpatie per l’imperatore.
La lingua delle corti era quella che usava quotidianamente nel
suo lavoro e nella sua visione avrebbe davvero potuto unire il
nostro paese. Fu il primo a chiamarlo “italiano”, perché
effettivamente era l’unico linguaggio comune alle corti di tutta
Italia, anzi, per essere precisi, era l’unica lingua effettivamente
parlata, visto che il volgare di Bembo era una costruzione
esclusivamente letteraria e scritta.
Provò a sostenere questa sua idea sfoderando come supporter
un inaspettato testimonial sottratto al campo avversario: Dante.
Trissino infatti trovò, editò, tradusse e fece stampare il De vulgari
eloquentia, cioè l’opera in cui l’Alighieri aveva teorizzato che la
lingua perfetta doveva essere un mix di vari dialetti e tradizioni.
La lotta con il partito dei bembisti fu dura e senza esclusione di
colpi, ma alla fine Trissino ebbe la peggio. La lingua cortigiana
infatti esisteva, ma era tanto, tanto, tanto faticosa.
Partorita da legulei e burocrati, appena poteva sostituiva alla
parola comprensibile a tutti quella più altisonante e astrusa, per
dare una patina di autorevolezza al discorso. La grafia era spesso
incerta e altalenante, legata alle scelte del singolo estensore del
documento. Grondava di et al posto di e, di facto al posto di fatto,
homo al posto di omo/uomo, di nomi astratti usati al posto di
quelli concreti, di locuzioni contorte. Era l’antenata diretta,
insomma, di quel linguaggio a mezzo fra l’inutilmente arcaico e il
fumoso che ancora adesso fa annunciare sui treni che «è in atto
l’attività di controlleria da parte del personale addetto al riscontro
della validità del titolo di viaggio» per dire che sta passando per i
vagoni il controllore a vedere se tutti hanno timbrato il biglietto.
Se gli scritti di Bembo facevano l’effetto di sentir parlare il
fantasma del bisnonno toscano, quelli di Trissino sembravano
scritti dal cugino dirigente all’anagrafe.
Alla fine poeti e prosatori preferirono affidarsi al Bembo. Se
così non fosse stato, l’inizio dell’Orlando furioso di Ariosto (uno
dei primi a ritoccare alcuni passi del suo poema per seguire le
regole del toscano enunciate da Bembo) invece che «Le donne, i
cavalier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto»
avrebbe potuto suonare come: «Le rappresentanti del genere
femminile, gli appartenenti al ceto equestre della classe
aristocratica dell’impero e gli strumenti atti a procurare ferite in
un contesto di guerra e/o contesa militare intrapresa da singoli o
in gruppo seppure normata da condivise regole di buona creanza
sono al centro del mio specifico interesse poetico in un’opera
all’uopo composta in versi.»
Insomma, ci è andata bene.

Vocabolari cruscanti e scienziati divulgatori


Oggi è una cosa scontata. Quando qualcuno non sa il significato
di una parola o vuole controllarlo va a guardare sul vocabolario.
Ma fino agli inizi del Seicento i vocabolari di italiano non
esistevano; anche perché, non esistendo in pratica ancora una
lingua comune, era impossibile compilarli.
Alla fine del Cinquecento, quando apparve chiaro che la fazione
del Bembo aveva avuto la meglio, ci si pose il problema di scrivere
grammatiche del fiorentino. Già a questo punto la proposta del
Bembo cominciò a mostrare i suoi limiti. La lingua bembesca, cioè
il fiorentino del Trecento, era, come abbiamo detto, una lingua
scritta. Il problema era che le lingue vengono anche parlate. Cosa
si poteva prendere a modello per le conversazioni? Benedetto
Varchi, fiorentino lui stesso e quindi abituato a parlare il volgare
oltre che a scriverlo, sostenne quindi la necessità di trarre regole
anche dal fiorentino parlato, al fine di costruire una lingua meno
imbalsamata e immobile, capace di adattarsi meglio alle esigenze
nuove e di evolversi nel tempo. L’idea ovviamente piacque
soprattutto in Toscana. Nel 1583 venne fondata a Firenze
l’Accademia della Crusca, una specie di club esclusivo i cui soci si
riunivano di tanto in tanto in simpatiche occasioni conviviali per
parlare di letteratura e problemi linguistici. Grande animatore
dell’Accademia era Leonardo Salviati, allievo del Varchi. Ancora
più estremista del Bembo e del suo maestro, sosteneva che il
fiorentino fosse il più bello dei volgari e che per questo motivo
non solo dovessero essere considerati esempi di riferimento per
prosa e poesia Petrarca e Boccaccio, ma anche tutti i poeti e gli
scrittori fiorentini, per quanto minori. Lanciò quindi l’idea di
creare il primo vocabolario, ovvero una raccolta sistematica in
ordine alfabetico di tutte le parole del fiorentino attestate nel
tempo.
Era un progetto ambizioso e mai tentato in precedenza. Prima
del Vocabolario degli Accademici della Crusca in nessuna nazione
europea esistevano dizionari delle lingue volgari, ma solo dei
glossari (spesso relativi ad argomenti specifici) in cui erano
spiegati i significati delle parole più strane o desuete. La
consultazione di questi tomi era per giunta complicatissima,
perché non sempre le parole erano in ordine alfabetico ma
organizzate per argomenti, e ogni voce poi era compilata in modo
parziale o differente dalle altre. Il Vocabolario invece venne
stampato nel 1612 in un solo volume, e fu subito un bestseller,
anche per quello che oggi chiameremmo il concept, ovvero il
modo in cui era scritto e impaginato: i lemmi erano in ordine
alfabetico, quindi consultabili e rintracciabili facilmente, e per
ogni parola erano poi citati esempi tratti da opere letterarie che
ne chiarivano il senso e il modo d’uso. Il Vocabolario ebbe
numerose ristampe e persino “edizioni pirata”, a testimonianza
dell’incredibile successo dell’idea. L’impaginazione del testo e il
metodo usato dai Cruscanti, cioè i membri dell’Accademia, per
redigere il volume furono copiati presto in tutta Europa.
Il Seicento tuttavia portò l’italiano ad affrontare nuove sfide.
Nacque infatti anche la prosa scientifica. Galileo Galilei fu un
innovatore anche in questo campo, infatti scelse di scrivere non in
latino, come fino ad allora avevano fatto gli scienziati, ma in
italiano. Inventò inoltre numerosi termini per indicare i nuovi
concetti e le più recenti scoperte scientifiche, e siccome la scienza
si basa sui dati e sull’osservazione di eventi, portò nella lingua
italiana una ventata di concretezza.
Fu anche un eccellente saggista. Era capace di scrivere in una
prosa molto chiara, elegante, mettendosi sullo stesso piano del
pubblico e spiegando i concetti più difficili con maestria. Da buon
toscano, aveva anche un certo gusto per il tono scherzoso, e visto
che illustrava le sue scoperte attraverso dei dialoghi, scrisse
scambi di battute folgoranti, degne di un’opera teatrale o di un
moderno telefilm.
La Controriforma non apprezzò né il suo fervore divulgativo né
la sottile ironia dei suoi scritti. Particolarmente offensiva venne
considerata una sua scelta “letteraria”: quella di aver chiamato
Simplicio il personaggio che nel Dialogo dei massimi sistemi
difende le ragioni del sistema tolemaico. Finì condannato
dall’Inquisizione e, per aver salva la vita, fu costretto a ritrattare.
La leggenda vuole che si sia lasciato scappare la celebre frase:
«Eppur si muove!» Se è sua, è così incisiva e sottilmente
sarcastica che conferma il suo talento per la scrittura.

Il Settecento e la lingua dei caffè


E arrivò quindi il secolo dei Lumi.
Il Settecento, di solito, a scuola è snobbato. Capita di studiarlo,
ahimè, sempre a ridosso delle vacanze, quando già gli alunni sono
con il cervello mezzo spento e i docenti sono assediati da relazioni
e scrutini. Inoltre c’è questa idea che sia stato un periodo senza
grandi autori, perché i lumi della ragione brillavano in Francia e
in Inghilterra, e da noi in Italia solo di riflesso. C’è la diffusa
percezione che in Italia il XVIII secolo sia un periodo divertente
ma vanesio, superficiale, che ha prodotto una marea di poesiole
eleganti buone per essere musicate in qualche opera, o commedie
di Goldoni, a torto giudicate intrattenimento leggero. Così, se per
quanto riguarda l’Ottocento, complice la ventata di orgoglio patrio
risorgimentale, anche letterati decisamente meritevoli dell’oblio
sono stati esaltati e spiegati per anni nelle aule scolastiche, ottimi
autori settecenteschi invece restano materia studiata solo dagli
specialisti e al grande pubblico non dicono granché.
Peccato, perché invece la lingua italiana di questo periodo è
interessante, si pone problemi e trova soluzioni incredibilmente
moderne. È diretta, molto più semplice e comprensibile di quella
che verrà usata nel secolo successivo, vivace e spontanea. Ma il
Settecento ha il gran difetto di essere un secolo che dice le cose,
anche le più gravi, in modo molto leggero e ironico, e si sa che
raccontare con il sorriso sulle labbra in Italia non paga mai: non ti
prendono sul serio.
Le due grandi innovazioni del secolo sono i giornali e il caffè,
inteso non solo come bevanda ma anche come luogo. Il rituale
mattutino dell’uomo moderno nasce in questo periodo. Ancora
oggi, quando alla mattina andiamo al bar per fare colazione e
scambiare quattro chiacchiere con gli avventori leggendo e
commentando le notizie del giorno, stiamo facendo qualcosa di
profondamente settecentesco. I caffè nel XVIII secolo diventano
luoghi di discussione e anche redazioni: lì i letterati sensibili alle
nuove idee leggono gli scritti dei loro colleghi europei, li
commentano fra loro, decidono di scriverne di simili o di
rispondere a quelli letti. È un secolo ottimista, e come tutti gli
ottimisti crede fortemente nel valore della divulgazione. Fino ad
ora, in Italia, i letterati si erano parlati e scritti fra loro. Ora per la
prima volta si pongono il problema fondamentale di farsi capire
anche da chi non è del mestiere. Filosofi, scrittori e giornalisti
devono riuscire a spiegare le loro idee alla gente. Persino i poeti
non sono più solo ed esclusivamente poeti di corte, ma diventano
librettisti di melodrammi, cioè opere che vengono rappresentate
nei teatri, e quindi devono essere comprensibili da tutti. Il
Settecento è un secolo molto teatrale, il che vuol dire che chi
scrive si deve interrogare sul modo più adatto a comunicare con il
suo pubblico.
Quando Pietro Verri compone il primo editoriale del Caffè, il
giornale degli illuministi lombardi, così si spiega:
Cosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose
inedite, cose fatte da diversi Autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va
bene: ma con quale stile saranno scritti questi fogli? Con ogni stile, che non
annoi.

Stupisce, leggendo queste righe, quanto siano moderne, vivaci,


dirette. Sono frasi del 1764, ma sembrano scritte adesso, mentre
tanti editoriali che troviamo sui giornali di oggi fanno l’effetto
“lettera della bisnonna”.
Gli Illuministi provengono da ogni parte d’Italia. Sono milanesi,
ma anche napoletani, siciliani, veneti. Soprattutto, sono
cosmopoliti. Intrattengono relazioni con studiosi di ogni parte
d’Europa. Parlano francese come seconda lingua, il che permette
loro di leggere appena uscite opere innovative, e sono poi in
grado di tradurle e di divulgarle. Viaggiano. Il Settecento è il
secolo dei primi grandi spostamenti “turistici”. Gli intellettuali
europei prendono l’abitudine di dedicare alcuni mesi o un anno
della loro vita a un viaggio in Italia, il cosiddetto Grand Tour, che
serviva a visitare i luoghi culturali più famosi del nostro paese,
cioè almeno Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli e Palermo,
ma che poi si allargava anche a centri “minori”. Questo
permetteva anche ai letterati italiani più sedentari o provinciali di
essere spesso inseriti in una rete di contatti internazionali vasta e
aggiornata.
Non erano solo i rappresentanti della aristocrazia colta e della
nascente borghesia ricca a viaggiare per diletto. Sempre in giro
erano le compagnie di teatranti e musicisti. I comici dell’arte
andavano in scena nelle corti straniere e nelle città, e parlavano
italiano, o almeno un grammelot di vari dialetti italici. E l’italiano
era l’unica lingua del melodramma e della musica in generale. Se
politicamente l’Italia non contava nulla, dal punto di vista
letterario era considerata ancora un faro. Metastasio, Goldoni e
più tardi il miglior librettista mozartiano, Lorenzo da Ponte, erano
gente in grado di riempire i teatri, e di portare in platea qualsiasi
classe sociale. Se la filosofia parlava francese e inglese, i successi
di cassetta parlavano italiano.
Già, ma quale “italiano”? Non certo quello trecentesco di
Bembo, e nemmeno la lingua di Varchi e della Crusca. Alessandro
Verri, assieme al fratello Pietro fondatore del Caffè, con i
Cruscanti aveva un vero e proprio conto aperto, e arrivò a
scrivere una sarcastica Rinuncia avanti notaio al Vocabolario della
Crusca, accusato di eccessiva pedanteria e della inutile difesa di
termini arcaici e desueti, troppo legati alla tradizione toscana e
ormai decisamente provinciali.
L’italiano del Settecento è aperto alle influenze straniere, copia
parole dal francese e dall’inglese, soprattutto per quanto riguarda
il lessico tecnico della divulgazione scientifica ed economica.
Commerciare, contabilità, analisi, conto corrente sono tutti
termini importati da Oltralpe nel Settecento e ancora oggi in uso,
come anche civilizzazione, trattato, progresso, tolleranza e
ottimismo. Già solo l’elenco di questi termini ci dice come la
società dell’epoca fosse composta di borghesi attenti sì al soldo
ma decisamente proiettati verso un roseo futuro. Dopo la lingua
delle corti e la lingua dei letterati, finalmente nasce una lingua
adatta agli intellettuali curiosi del mondo.

Un veneziano alla conquista dell’Europa: Goldoni


Eh, Venezia. Quando si pronuncia il suo nome nella mente dei
più l’immagine è quella di una città piena di damine vezzose e
gentiluomini in baùta, e l’idea diffusa è che fosse in questi anni
una sorta di Disneyland per adulti a cielo aperto, dove maschere e
feste erano di casa tutto l’anno. C’è del vero, ma dietro questa
raffigurazione di maniera la Venezia del Settecento è invece una
città tormentata e piena di zone d’ombra. Perso tutto il suo peso
politico, è attanagliata da una forte crisi economica, e la
borghesia, esclusa dalla scena politica perché Venezia è uno stato
governato solo da nobili, non riesce a far accettare le nuove idee e
le riforme necessarie all’aristocrazia al potere. Circoli
semiclandestini di massoni e illuministi sono guardati a vista e
tollerati a stento, mentre apparentemente la città accetta che in
pubblico si tengano comportamenti libertini e sessualmente
promiscui, salvo poi dare zampate improvvise per punire i
trasgressori.
Carlo Goldoni di quella Venezia settecentesca fu il figlio più
famoso, e anche un po’ bistrattato, visto che finì la sua vita a
Parigi. Autore di gran successo, era in grado con le sue commedie
di riempire i teatri di tutta Europa. Gran parte del pubblico è
ancora oggi convinto che sia uno scrittore divertente che racconta
in maniera scapricciata storie di baruffe fra popolani veneziani o
angosce di piccoli borghesi che vogliono far crepare di invidia i
vicini di casa. In realtà Goldoni fotografa la crisi di un’epoca della
Repubblica, ma ancora di più di un mondo. È leggero di quella
leggerezza che descriveva come propria della grande letteratura
un altro amante del Settecento, Italo Calvino. Ma dietro questa
apparente lievità c’è il tragico, c’è una società percorsa da forti
tensioni sociali e che si dibatte, si arrovella e si tormenta,
cercando soluzioni che non trova. I personaggi goldoniani sono
tutto fuorché macchiette comiche superficiali. Anche i più buffi
hanno una grazia pensosa e malinconica, o sfumature di ferocia e
avidità, e svelano profondità insospettate, di cui loro stessi sono
inconsapevoli. L’autore riesce a tratteggiare tutte queste
sfumature del carattere giocando proprio sulle infinite variazioni
della lingua, sulle ripetizioni di frasi fatte, tic, modi di dire del
parlato che connotano i singoli personaggi. Ma il linguaggio che
usa non è ovviamente quello del Trecento o della tradizione
letteraria di Bembo.
Goldoni parte dal veneziano a lui contemporaneo, che è una
lingua vivida e stratificata. Era un dialetto parlato da tutte le
classi sociali, come anche ora a Venezia, e questo lo aveva reso
molto espressivo e variegato. Quando decide di scrivere
commedie in lingua, replica anche in italiano la stessa varietà di
toni e di accenti, e ricrea una lingua trasversale, interclassista,
vivace e svelta, adatta a dialoghi fulminanti ma anche a monologhi
più ragionati e pensosi.
Un esempio perfetto di scrittura goldoniana è la prima scena
de La putta onorata, quella in cui il marchese Ottavio sta dettando
una lettera commerciale mentre la marchesa Beatrice, sua moglie,
lo interrompe di continuo:
OTT. Sì signora, v’ho inteso; lasciatemi scrivere questa lettera.
BEAT. Questa sera vi è la conversazione in casa della Contessa.
OTT. Ho piacere. Amico carissimo. (scrivendo)
BEAT. Spero che verrete anche voi.
OTT. Non posso. Se non ho risposto alla vostra lettera…
BEAT. Ma a casa chi mi accompagnerà?
OTT. Manderò la gondola. Vi prego perdonarmi, perché…
BEAT. E volete ch’io torni a casa sola?
OTT. Fatevi accompagnare. Vi prego perdonarmi, perché gli affari miei…
BEAT. Ma da chi mi ho da far accompagnare?
OTT. Dal diavolo che vi porti. Gli affari miei me l’hanno impedito.
BEAT. Andate là, marito mio, siete una gran bestia.

Spesso nelle commedie veneziano e italiano si intersecano, e si


arriva a forme di bilinguismo, con parti interamente scritte in
veneziano e altre in lingua, ma accomunate dal medesimo stile
vivace e scattante. Quello di Goldoni non era un italiano forbito
che rispecchiava le forme letterarie prestabilite; ma è stato di
certo il primo italiano vivo della nostra letteratura, adatto a
descrivere in modo realistico la società del tempo. Una lingua
scorrevolissima e duttile che incantava il pubblico perché
comunicava in maniera veloce, precisa e anche elegante.
La lezione di Goldoni non fece scuola solo a teatro. Un suo
insospettato, e alle volte insospettabile, discepolo sarà il più
grande prosatore italiano dell’Ottocento: Alessandro Manzoni.

Manzoni e la lingua dei borghesi che fecero l’Italia


Alessandro Manzoni è considerato noioso. No, siamo più
precisi: Manzoni viene considerato da chi è passato per la scuola
italiana una sorta di distillato di noia, un’apoteosi di sonno, un
compendio universale di sbadigli. In pratica alla voce «coma
profondo» sulle enciclopedie potrebbero mettere un suo ritratto, e
finita là.
Perché ha questa fama terribile? Perché il suo romanzo, ovvero
I promessi sposi, per almeno 150 anni non è stato letto per quello
che è: un romanzo. Ci si sono incrostate sopra tutta una serie di
altre cose: la retorica patriottica del Risorgimento, quella
patriottarda degli anni successivi, le polemiche dei romantici
contro i classicisti, le diatribe e gli scontri dei linguisti e dei
puristi sulla lingua, e infine, a completare il disastro, la scelta
della scuola italiana unitaria di proporlo come modello di
riferimento insuperabile per la prosa (senza contare che fu l’unico
romanzo che la Chiesa tollerò e approvò). Intendiamoci, tutto
questo dentro c’era, e per volere dello stesso Manzoni. Ma alla
fine il peso delle varie interpretazioni ha schiacciato tutto il resto.
I promessi sposi sono stati analizzati, spiegati, citati ad esempio,
sezionati e commentati, stroncati e attaccati senza pietà o magari
completamente ignorati, ma letti, semplicemente letti, quasi mai.
È un peccato, perché si tratta di un romanzo pieno di humor,
dialoghi scintillanti, scene, anche e soprattutto comiche, di grande
impatto. Manzoni sarebbe stato probabilmente un autore teatrale
comico di grande talento. Nel suo romanzo riversò tutta la sua,
fino a quel momento quasi insospettata, goldoniana bravura nel
descrivere caratteri e situazioni.
I promessi sposi sono l’opera della vita del Manzoni, se non
altro perché ci mise davvero una vita a scriverli. Cominciò nel
1821 a buttare giù la prima stesura di un romanzo che si
chiamava Fermo e Lucia, che terminò nel 1823, ma non pubblicò.
Ci rimise mano nel 1825, pubblicandolo nel 1827 completamente
rivisto e con un nuovo titolo, I promessi sposi. Ma poi per i
decenni successivi rimaneggiò e corresse soprattutto la veste
linguistica, e nel 1840-42 pubblicò in fascicoli illustrati una nuova
versione, che è detta «quarantana», che è quella che ancora
leggiamo oggi.
Oggi facciamo fatica a capire la furia con cui i letterati di allora
dibattevano su questioni linguistiche, ma il problema era
sentitissimo. Si poteva arrivare a fare l’Italia tramite rivoluzioni e
guerre, ma per fare gli italiani ci voleva l’italiano, che invece era
una lingua ancora quasi tutta da inventare. Ma perché Manzoni
decide di risolvere il problema scrivendo un romanzo? Lo
capiremo presto.

«L’Italia è una espressione geografica»


Quando nell’Ottocento si volevano aizzare gli animi dei patrioti
contro il giogo dello straniero, immancabilmente veniva citata
questa frase di Klemens von Metternich, per ricordare il disprezzo
che gli austriaci riservavano alla nostra Italia divisa in staterelli.
Non è proprio un falso storico, ma quasi. In realtà, quando si va
a recuperare la dichiarazione esatta del ministro austriaco, si
scopre che Metternich aveva detto qualcosa di assai meno
offensivo e più preciso, da politico sottile qual era: «La parola
Italia è una espressione geografica, una qualificazione che
riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi
degli ideologi rivoluzionari tendono a imprimerle.»
Letta nella sua interezza, la frase è persino troppo ottimista. In
realtà la lingua italiana fino alla metà dell’Ottocento non solo era
poco diffusa, ma tecnicamente non si sapeva neppure a cosa di
preciso corrispondesse.
A distanza di ben trecento anni, c’era ancora chi, come il
veronese Antonio Cesari, riproponeva pari pari le idee di Bembo, e
anzi voleva che anche il parlato si conformasse a una lingua che
ormai pochi avrebbero capito persino a Firenze. I puristi della sua
corrente rifiutavano ogni nuova parola e commistione,
considerandole una pericolosa degenerazione e un tradimento. I
classicisti come Vincenzo Monti erano più aperti, in quanto
ammettevano – anche perché ce n’era bisogno – che si potessero
formare nuove parole, a patto che queste derivassero da altre già
attestate. Giacomo Leopardi e Pietro Giordani accettavano le
parole derivate anche da altre lingue, ma per la sintassi e la
costruzione della frase e il rapporto con i dialetti sostenevano che
bisognasse guardare neanche al latino, ma addirittura al greco.
Immaginatevi quanto questa soluzione potesse essere praticabile
in un paese dove più del 75 per cento della popolazione non
andava neppure a scuola a imparare l’alfabeto. Tutti, tranne i
puristi, sollevavano forti dubbi sull’impostazione del Vocabolario
della Crusca, che a furia di registrare senza filtro qualsiasi voce
attestata in scrittori toscani antichi aveva finito per accreditare
come “di uso comune” parole ormai defunte, o che gli stessi
toscani non avevano nessuna idea di cosa volessero dire.
Manzoni si trovò in mezzo a questo ginepraio, e la sua scelta fu
di scrivere un romanzo, cioè un’opera trasversale destinata a
essere letta da tutte le classi sociali e in particolare dalla
borghesia, che era la classe su cui politicamente scommetteva.
Il padre della prosa italiana nella vita parlava, come tutti, il
dialetto (nel suo caso milanese) e, essendo un colto aristocratico,
il francese: del toscano aveva solo esperienza libresca. Il Fermo e
Lucia lo scrisse “a orecchio”, mischiando, come avveniva in tutte
le opere di quel periodo, la lingua parlata e quella che leggeva in
lessici, giornali, saggi, romanzi e altre opere di narrativa. Si rese
però ben presto conto che il metodo non funzionava. Ne era
venuta fuori una lingua che era un accrocchio, un minestrone mal
riuscito, in cui lombardismi, latinismi, frasi semidialettali e parole
toscane arcaiche erano frullate assieme senza una logica. Così,
testardo e umile come sanno essere i grandi, si mise a studiare.
Prima sui libri e poi sul posto, a Firenze, perché era consapevole
che i sottili distinguo e le sfumature fra le parole potevano essere
colti soltanto ascoltandoli in azione in una lingua viva. Studiare
una lingua sui vocabolari era come voler capire la natura umana
facendo autopsie.
La soluzione da lui scelta fu prendere a modello il fiorentino
parlato in quell’epoca dalla classe medio-alta e colta. Manzoni
pensò che la sua soluzione potesse essere “la” soluzione per tutta
Italia, e nel 1847 addirittura bacchettò chi, come il lessicografo
Giacinto Carena, ancora scriveva vocabolari in cui venivano
considerate lecite parole non usate in toscano. Arrivò addirittura,
nel 1868, una volta diventato senatore e messo a capo di una
Commissione per l’Unificazione della Lingua, a proporre
un’istruzione pubblica fatta da maestri fiorentini o istruiti per
qualche anno a Firenze, che avrebbero dovuto essere reclutati e
sguinzagliati nelle scuole di tutta Italia, con l’intento di diffondere
a macchia d’olio il toscano in ogni più lontana contrada.
Dovette invece accontentarsi del fatto che il suo romanzo
venisse adottato come testo obbligatorio (dal 1869 la lettura
integrale dei Promessi sposi venne imposta in tutte le scuole del
Regno). Ciò lo fece assumere come modello di riferimento per la
prosa e per la lingua, anche se poi non vi furono “discepoli” di
Manzoni precisi quanto lui. I “manzoniani” in realtà spesso
conoscevano il toscano poco e male, e continuarono a usare una
lingua ibrida e mal amalgamata, più simile a quella del giovane
Manzoni che a quella dell’edizione del 1842.
Anche i linguisti non erano soddisfattissimi dell’imposizione
manzoniana. Graziadio Isaia Ascoli, padre italiano della
glottologia e senatore del Regno come Manzoni, criticò assai
questa soluzione “fiorentina”. Anziché imporre modelli con un
diktat dall’alto, Ascoli era convinto che l’italiano si sarebbe
formato naturalmente aumentando il livello di istruzione del
popolo, e piuttosto che il toscano o il fiorentino avrebbe preferito
che venisse adottato l’italiano regionale di Roma, visto che
Firenze, nel frattempo, non era nemmeno più capitale del Regno.
Nel secolo successivo la diffusione dell’italiano “televisivo”,
influenzato dal romano perché lì erano realizzate gran parte delle
trasmissioni, avrebbe dimostrato che l’idea di Ascoli non era poi
così peregrina.

Verga e la lingua dei poveri


In tutti questi secoli di tentativi per creare l’italiano, i poveri
sono stati zitti. Non solo erano stati troppo occupati a tentare di
sopravvivere per intervenire nel dibattito, ma nemmeno erano
entrati spesso nella letteratura come personaggi. Da Dante a
Bembo, da Ariosto a Goldoni, sia gli scrittori che i protagonisti
delle opere erano stati quasi sempre membri delle classi dirigenti,
nobili o borghesi. Anche quando si dice che con I promessi sposi i
poveri divengono protagonisti si dimenticano due cose. Renzo,
tanto per cominciare, non è un “povero”. È un operaio
specializzato di una filanda e proprietario di un piccolo podere, e
Lucia è sì un’operaia, ma anche lei è specializzata e con una casa
di proprietà. Pur nei turbolenti anni della peste e della carestia, i
due fidanzati soffrono di tutto, ma non certo la fame o la miseria.
Inoltre Manzoni, quando li fa parlare e pensare, usa il lessico e
anche la mentalità di due piccolo-borghesi dei tempi suoi. Per
quanto si esprima in maniera semplice, Lucia non ha niente della
ruspante contadina lombarda: non sbaglia un congiuntivo né si
lascia scappare una parola fuori posto. Ogni tanto l’autore mette
in bocca a uno dei personaggi più popolari del romanzo un
anacoluto («Noi altre monache ci piace di sentire le storie»), ma è
cosa di un attimo, per caratterizzare meglio l’ambiente. Subito si
ritorna a un lessico sorvegliatissimo: nei Promessi sposi persino i
bravi parlano come se avessero conseguito il diploma in un buon
liceo classico.
Il primo a rendersi conto che raccontare così i poveri era
ridicolo fu Giovanni Verga. Possidente siculo, non era povero di
suo, ma, quando decise di scrivere novelle e romanzi ambientati
nella sua Sicilia e che raccontavano le vicende di pescatori e
contadini o borghesi di paese, capì che non poteva farlo nell’aulico
fiorentino manzoniano.
Per percepire la differenza fra i due autori, basta confrontare
l’incipit dei Malavoglia con quello celeberrimo dei Promessi sposi.
In Manzoni c’è una lunghissima descrizione del paesaggio
lacustre che poi va a zoomare sul curato. Pare pensata per
descrivere a dei borghesi in gita un luogo pittoresco. In Verga
l’inizio è secco e sbrigativo, e butta i protagonisti in pasto al
lettore con una lingua scarna e semplice, come una fiaba
popolare:
Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di
Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente
di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come
dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma
questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a
Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in
figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole.

In Verga l’anacoluto non è l’eccezione, è un’abitudine. I suoi


personaggi non riescono a parlare seguendo le regole
grammaticali dei signori, non è roba loro. Discutono e pensano
per proverbi e detti popolari, che hanno ereditato dagli antenati e
hanno la cadenza di sentenze bibliche. Verga diceva che i suoi
personaggi vivevano come le ostriche attaccate allo scoglio,
cercando di superare le tempeste solo con la tigna di resistere a
tutto. Sono immersi in un mondo arcaico e spietato.
L’italiano stesso di Verga nei Malavoglia è scarno. Alle volte è
un siciliano appena appena tradotto. Quando lo si confronta con
Manzoni o con la lingua usata dai manzoniani sembra davvero
provenire da un altro pianeta.
Dal pubblico Verga fu apprezzato a fasi alterne, anche se non
ebbe mai un successo clamoroso, anzi I Malavoglia fu un vero e
proprio disastro commerciale. Non ebbe neppure molti seguaci. In
vecchiaia, scrivendo alla nipote, si lamentò di non riuscire a
trovare un solo libro di qualche nuovo autore che valesse la pena
di consigliarle. In effetti la letteratura italiana di fine Ottocento si
stava già allontanando dal verismo e si lasciava ammaliare da un
grande seduttore della parola: Gabriele D’Annunzio.
D’Annunzio, l’uomo che fu “anche” un buon poeta
Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie […]
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera […]
«La sera fiesolana», in Alcyone (1903)

Se I promessi sposi sono un romanzo considerato


insopportabile perché incrostato da tutto ciò che la tradizione ci
ha messo sopra, le opere di D’Annunzio sono incrostate e quasi
sepolte da tutto ciò che D’Annunzio fu. Gran seduttore e amante
di dive famose, aviatore spericolato, politico, avventuriero,
polemista, gran seminatore di debiti, vate della patria, D’Annunzio
ha una personalità così preponderante che se non ci si sta attenti
è impossibile giudicare in maniera imparziale ciò che ha prodotto.
Si finisce per apprezzare le poesie o i romanzi in base alla
simpatia o all’antipatia che si provano per lui, e la sua scrittura
passa in secondo piano. Invece, è uno dei poeti più raffinati e
tecnicamente preparati della nostra letteratura. Costruisce versi e
frasi con una tale abilità da raggiungere talvolta le vette di un
Petrarca, e non è poco. Ha una sensibilità unica e rara per la
musicalità dei termini, e come pochi, pochissimi sa suscitare
emozioni e fremiti sfruttando la sensualità propria della parola.
Scrive poesie come partiture, usa le sillabe come note, la lingua
come un’orchestra.
Ciò che rende però D’Annunzio pesante e datato è la sua
incapacità di tenere a freno il suo carattere esuberante, che crea
una lingua altrettanto eccessiva. Alle volte è semplicemente
troppo. Troppo barocco, troppo lungo, troppo carico di figure
retoriche, di metafore, di allitterazioni, di orpelli, di citazioni, di
sensualità. Erano lo spirito e la moda dell’epoca a spingerlo a ciò,
ma lui li ha assecondati e amplificati, e spesso si è lasciato
prendere la mano. La sua lingua è un po’ come l’arredamento del
Vittoriale, la villa dove si ritirò in vecchiaia: un cumulo di cose.
Per quanto i singoli pezzi siano bellissimi, si perdono dentro al
totale. D’Annunzio è un autore che avrebbe avuto bisogno di un
editor di polso. Non lo trovò perché erano anni in cui il
sovrabbondante era apprezzato, e si amavano i caratteri, i
personaggi e le vite sopra le righe. L’eccesso veniva sentito come
un modo per affrancarsi dalla seria e noiosa banalità borghese. La
società esaltava la trasgressione, sognava il superuomo,
applaudiva l’eroe estremo, disprezzava il debole e chi si
accontentava del poco.
Proprio per questo, D’Annunzio fu un vero divo del suo tempo,
un modello di lingua, di stile e di vita. Per quarant’anni fu
impossibile non essere dannunziani o antidannunziani.
Giganteggiò.

I Futuristi, gli Ermetici e la lingua della modernità


28 giugno 1914, Sarajevo: un colpo di pistola uccide l’arciduca
Francesco Ferdinando, erede al trono di Austria-Ungheria. Un
mese dopo scoppia la Prima guerra mondiale.
L’anno successivo, in ritardo rispetto al resto d’Europa, dopo un
balletto di alleanze politiche e trattative segrete abbastanza
imbarazzante, l’Italia entra in guerra a fianco di inglesi e francesi.
Interventisti e nazionalisti, che avevano fatto pressioni per
scendere in battaglia, a suon di proclami, appelli sui giornali,
manifestazioni di piazza, si arruolano entusiasti. I Futuristi, che
già da tempo inneggiavano alla guerra come igiene del mondo,
auspicabile strage di inetti e di inutile zavorra, ci si buttano a
capofitto, con l’entusiasmo di chi vede finalmente esaudire le
proprie preghiere dagli dèi; D’Annunzio anche, per provare quel
brivido del pericolo che è necessario al superuomo per sentirsi
vivo.
Chi a quella guerra ci si ritrova dentro, forse senza neanche
capire bene come, è la generazione nata nell’ultimo scorcio
dell’Ottocento. Erano ragazzi cresciuti in tempo di pace, dato che
dal 1870 non si erano più consumati conflitti in Europa, almeno
fra le grandi potenze. Si erano formati in un’epoca di pace e
prosperità, in cui le scienze e la tecnica avevano promesso di
diffondere benessere a tutte le classi sociali. Avevano frequentato
scuole in cui i maestri declamavano gli altisonanti valori della
Patria e della Virtù, e presentato loro la guerra come una giostra
cortese di nobili cavalieri o uno sport per ufficiali gentiluomini.
Non avevano idea di cosa li aspettasse, o ne avevano solo una
romanzesca e vaga. Furono buttati allo sbaraglio in mezzo a un
orribile e insensato macello senza gloria, senza onore, senza
pietà.
Bisogna capire questo immane senso di stordimento per
leggere nella giusta prospettiva la poesia di quegli anni. La vita
che conoscevano prima sembrava essersi dissolta come neve al
sole: un attimo c’era e l’attimo dopo non c’era più. Il presente era
orrore, fango, sporcizia, morte, che non aveva nemmeno il pregio
di arrivare improvvisa. Il fronte era una lunga agonia che non
concedeva neanche il colpo di grazia.
Persino i Futuristi, cantori delle mitragliatrici e delle bombe,
quando si trovano davvero in mezzo alle granate, ai gas, al sibilo
delle pallottole cominciano a non vedere più nella violenza tanta
bellezza e poesia. Molti di loro tornano dal fronte (quelli che
tornano, beninteso) profondamente cambiati e pentiti. Per gli altri
la guerra fa giustizia di tante cose, anche di un certo modo di
scrivere. D’improvviso la lingua pesante, piena di metafore colte e
sofisticate, di giochi di parole, di rimandi e richiami che era stata
propria di D’Annunzio e dei suoi seguaci sembra vecchia, vuota,
inutile. Quei ragazzi che stanno nelle trincee, e persino lì vogliono
fare letteratura per continuare anche in quei momenti a sentirsi
parte della civiltà, non riescono più a scrivere frasi complicate e
barocche. Vogliono l’essenziale, non hanno più tempo per altro. La
poesia si scarnifica, come i corpi dei compagni caduti nel fango
fuori dalla trincea, come le case ridotte a brandelli. In guerra
bisogna dire molto, anzi tutto, con il poco che c’è.
L’emblema di quella generazione sarà Giuseppe Ungaretti. Si
era arruolato come volontario. Nessuno come lui riesce a
fotografare tutto il dramma che lo circonda:
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro.

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto.

Ma nel cuore
nessuna croce manca.

È il mio cuore
il paese più straziato.
GIUSEPPE UNGARETTI, San Martino del Carso (1916)

Ungaretti usa la lingua come un bisturi. Seziona la realtà.


Sceglie i termini a uno a uno e non ce n’è mai qualcuno di troppo.
Dai Futuristi impara a usare in maniera espressiva le pause, i
vuoti. Ma è la precisione del lessico a colpire. Nelle trincee ha
imparato a usare le parole come un cecchino.

L’italiano del Fascismo e della Repubblica


Dove non vi aspettereste mai di vedere un poeta? In tv, a
recitare nell’introduzione di una fiction di grande ascolto. Ma nel
1968 era possibile questo e altro. E infatti Giuseppe Ungaretti, il
poeta che avevamo lasciato in mezzo all’orrore della Grande
guerra, divenne da anziano un volto noto al grande pubblico
grazie a uno di quelli che allora venivano chiamati “sceneggiati”.
Si trattava dell’Odissea realizzata dalla Rai per la regia di Franco
Rossi, Piero Schivazappa e Mario Bava.
È un episodio (sul quale torneremo) che tuttavia ben si
inserisce nello sviluppo della lingua nel dopoguerra e
nell’operazione culturale e linguistica di cui fu promotrice la
televisione di quegli anni.
L’avvento del regime fascista nel 1922 aveva avuto contraccolpi
anche linguistici. Non solo perché necessariamente la lingua
riflette la società, ma soprattutto perché, al contrario di altri
dittatori, Mussolini era un giornalista e uno scrittore. Maestro
elementare per formazione, direttore dell’Avanti!, il quotidiano del
partito socialista che era il più diffuso fra gli operai, Mussolini era
stato anche autore di romanzi d’appendice in gioventù. Aveva
quindi una attenzione tutta particolare per gli usi della lingua, e
un istinto sviluppatissimo per capire come solleticare il consenso,
specie nelle masse popolari, attraverso i trucchi della retorica.
Oggi, quando si vedono filmati d’epoca in cui il duce, con voce
stentorea, arringa le folle oceaniche (per riprendere pari pari la
terminologia dell’epoca) a stento si riesce a trattenere il sorriso
per quanto il tono e il modo di costruire le frasi appaiano datati e
ridicoli. I cinegiornali del Ventennio, curati dall’Istituto Luce,
risultano straordinariamente comici per chi li ascolti oggi, pieni
come sono di parole altisonanti e di frasi sostanzialmente vuote.
Col senno e con l’orecchio di poi sembrano quasi delle parodie, e
infatti sono stati spesso poi imitati con intento satirico (si
ricordino gli esilaranti episodi di Fascisti su Marte di Corrado
Guzzanti). Erano tuttavia scritti in uno “stile” ben preciso che
identifica perfettamente l’epoca.
La retorica mussoliniana era zeppa di frasi a effetto, di termini
“alti” pescati spesso dal lessico dannunziano che si sposavano con
frasi sentenziose con l’andamento di antichi proverbi (esempio: «È
l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende»).
Destinata a un pubblico medio-basso e assai spesso incolto (non
dimentichiamoci che nell’Italia di allora il tasso di analfabetismo
era altissimo e solo una sparuta minoranza arrivava al diploma),
giocava moltissimo sulle ripetizioni e sui climax, specie costruiti a
gruppi di tre:
Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo
sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti.
Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.

BENITO MUSSOLINI, Discorso del Bivacco (1922)

Il climax tripartito torna anche negli slogan di regime:


«Credere, obbedire, combattere.»
Dal punto di vista culturale, il Fascismo aveva della lingua una
visione conservatrice. Il suo intento era l’epurazione delle parole
straniere o di origine straniera, che andavano sostituite con altre
di certa origine italica. Era una forma di autarchia linguistica,
parola non a caso inventata proprio dal regime. Furono vietate
circa cinquecento parole straniere, e sostituite con termini italiani
che si consideravano equivalenti, come tramezzino per sandwich,
rimessa per garage, sciacquone per water closet. La colazione fu
rivoluzionata: si mangiarono bomboloni e cornetti al posto di
krapfen e croissant. Invece gli amanti dei liquori opposero una
strenua resistenza: passata l’epoca fascista ricominciarono
immediatamente a bere whiskey al posto dell’acquavite, i cocktail
al posto dei coccotelli e a mettere sul gelato lo sherry anziché il
sangue morlacco.
La riforma Gentile era intervenuta pesantemente sulla scuola,
annullando ogni libertà di insegnamento. L’indottrinamento anche
linguistico partiva fin dalle elementari, dove il regime aveva fatto
adottare un testo unico. L’uso del dialetto veniva combattuto e
venne vietato quello delle altre lingue nelle regioni con
popolazione mista, come il Trentino e l’Alto Adige. Le minoranze
linguistiche ebbero vita grama, costrette a parlare le lingue
d’origine solo in casa e di nascosto.
L’intento fortemente pedagogico del Fascismo era evidente:
abbiamo prima ricordato l’Istituto Luce. Pochi sanno però che il
nome è un acronimo, e sta per L’Unione Cinematografica
Educativa.
Il Fascismo in fondo si pose per primo l’obiettivo di creare una
lingua standard di cui potessero servirsi tutti gli italiani. L’uso dei
nuovi mezzi di comunicazione di massa fu importantissimo. Il duce
e la sua agenzia di stampa, la potentissima Agenzia Stefani,
controllavano non solo ogni singola notizia, ma anche il modo in
cui questa veniva scritta e divulgata. Ai giornali venivano forniti
persino i criteri tipografici, come l’ordine, per esempio, di scrivere
sempre la parola “duce” con il maiuscolo o il grassetto, e il divieto
assoluto di usare termini stranieri negli articoli. Tutto veniva
controllato, dai discorsi alla radio ai testi più frivoli, come i
copioni teatrali, dei radiodrammi, dei film. Le pellicole del
cosiddetto filone dei “telefoni bianchi” furono importantissime per
diffondere sia un gusto estetico che uno stile linguistico. Le storie,
ambientate quasi sempre in città e con protagonisti della medio-
alta borghesia, presentavano personaggi che vivevano in belle
case arredate con mobili moderni e parlavano sempre italiano fra
loro, tranne rari casi in cui si volesse caratterizzare qualche
personaggio minore (in Gli uomini, che mascalzoni del 1932
l’unico a lasciarsi andare a qualche inflessione dialettale è il padre
della protagonista, un tassista, mentre la figlia commessa e
l’aspirante genero, autista, cioè il giovane Vittorio De Sica,
parlano un italiano standard perfetto).
Una generazione di italiani si formò imparando a scuola questa
lingua e questo modo di scrivere. Non stupisce che, caduto il
regime e riacquistata la libertà, volessero scrollarsi di dosso
anche quella retorica. Il testo della Costituzione, infatti, è scritto
in un italiano molto elegante e sorvegliato. Il 26 novembre del
1946 l’ordine del giorno della Commissione per la Costituzione
stilato dall’onorevole Bozzi stabiliva che «la Costituzione dovrà
essere il più possibile chiara e tale che tutto il popolo la possa
comprendere».
In realtà in alcuni passi la Costituzione non è chiarissima, come
nel famoso articolo 1: «L’Italia è una Repubblica fondata sul
lavoro.» Che tecnicamente non vuol dire nulla, essendo lavoro un
termine astratto. Ma frasi come queste sono frutto di un carattere
tipico della politica, ovvero l’arte del compromesso. Si temeva che
scrivere, come volevano i partiti di sinistra, «fondata sui
lavoratori» avrebbe rischiato di aprire le porte un domani a una
svolta “comunista”. Nel dubbio si scelse «lavoro», che era
abbastanza vago da accontentare tutti e non poteva essere letto
come prescrittivo di nulla.
Altro curioso compromesso è il fatto che mai, in tutta la
Costituzione, l’italiano venga indicato come lingua nazionale. Ma
non stupisce che uscendo da un periodo in cui l’obbligo di servirsi
dell’italiano era stato imposto con la violenza a numerose
comunità si volesse evitare di rivangare brutti ricordi legati a una
lingua che era stata sentita come una forma di oppressione.
Paradossalmente è proprio in questi accorgimenti sottili che
emerge tutta la preparazione linguistica dei padri costituenti.
Camminavano sulle uova, tentando di non urtare diverse
sensibilità esasperate da anni di dittatura. Ci riuscirono, spesso,
con la grazia consumata di indossatrici d’alta moda.

La Rai e la lingua televisiva


Ma torniamo all’Odissea presentata da Ungaretti. La vecchia
Eiar era stata una dei pilastri della propaganda del regime. Fu
trasformata in Rai e divenne una colonna portante della
Repubblica. Entrò nelle case di tutti gli italiani, prima con le
trasmissioni della radio e poi con quelle televisive. I suoi
conduttori erano considerati punti di riferimento e amici di
famiglia, nonché modelli da imitare sia per quanto riguardava il
gusto e la moda sia per lingua.
Fino agli anni Ottanta la televisione (allora era costituita dalla
sola Rai pubblica, perché le emittenti private erano di là da
venire) alfabetizzò gli italiani. Prima nelle case si parlava dialetto,
e così nelle strade, e persino sul lavoro. La maggioranza della
popolazione non si trovava in condizioni tanto differenti da quelle
di Manzoni del secolo precedente: sentiva parlare italiano solo
durante i (pochi) anni di scuola elementare, e poi in pratica mai
più. Con l’avvento della tv, ogni giorno, per parecchie ore, adulti,
vecchi, bambini erano sottoposti a discorsi in italiano. Se volevano
seguire i programmi più popolari, dovevano impegnarsi a capirlo,
persino a parlarlo, se desideravano assomigliare ai loro idoli.
L’italiano non era più una lingua straniera, era una presenza
costante e familiare. Fu una rivoluzione.
I puristi e gli intellettuali storcevano la bocca di fronte
all’italiano televisivo, che era molto semplice ed elementare, e via
via con il passare del tempo sempre più si apriva al parlare. Ma è
inutile e tocca accettarlo: per la diffusione della nostra lingua ha
fatto di più Mike Bongiorno che Manzoni.
C’è da dire che fino alla fine degli anni Sessanta i copioni dei
programmi Rai erano sorvegliatissimi, e non solo per motivi di
banale censura. I conduttori e gli attori provenivano quasi sempre
dal teatro e avevano frequentato severe scuole di dizione. Gli
autori avevano alle spalle una solidissima formazione letteraria. Il
primo a portare una ventata di novità fu proprio Mike Bongiorno,
che veniva dall’America e poteva contare su una esperienza molto
diversa e meno “regolare” rispetto agli standard del tempo.
Fu accusato di essere il campione di un certo livellamento
verso il basso, sintomo di una decadenza dei tempi. In realtà, ad
anni di distanza e con il senno di poi, viene da schierarsi con
Mike, che, a dire il vero, fu sempre molto meno ignorante e naïf di
quanto i suoi critici pensassero. Sicuramente fu capace di
interpretare le richieste, anche linguistiche, del pubblico, e di
capire come stessero evolvendo i tempi. Non a caso fu anche uno
dei primi conduttori famosi a passare alla televisione
commerciale, nell’allora nascente Canale 5 di Silvio Berlusconi.
Con l’avvento delle reti Mediaset anche dal punto di vista
linguistico cambiarono molte cose. La Rai era stata saldamente
“romana”. Se qualcosa del dialetto o dell’italiano regionale era
riuscito a passare attraverso i filtri strettissimi della censura, era
qualche coloritura romanesca o centro italica. Le tv commerciali
nascevano invece dal territorio, erano all’inizio locali, e
mobilitavano conduttori e attori molto meno rifiniti e sorvegliati.
Le reti di Berlusconi, poi, avevano la loro sede principale a
Milano, e anche il personale (autori, attori, comici) era quasi
sempre legato al Nord Italia. Introdussero modi di dire,
tormentoni comici, termini di italiano regionale o del milanese. La
dizione degli annunciatori e dei giornalisti, un tempo precisissima,
divenne sempre più simile al parlato quotidiano.

Gli intellettuali e la tv
Gli intellettuali hanno avuto negli anni con la televisione un
rapporto controverso, ma stretto. Ennio Flaiano fu autore di
diversi programmi e documentari per la Rai, oltre a scrivere
spettacoli teatrali e le rispettive riduzioni per la radio. Leone
Piccioni curò il programma di letteratura L’approdo, andato in
onda dal 1963 al 1972 con uno staff di collaboratori tra cui
c’erano Riccardo Bacchelli, Carlo Bo, Emilio Cecchi, Roberto
Longhi e Giuseppe Ungaretti. Riccardo Bacchelli curò anche la
prima riduzione televisiva dei Promessi sposi.
Chi invece si schierò contro la televisione e la sua capacità di
“normalizzare” e appiattire la cultura e perciò anche la lingua fu
Pier Paolo Pasolini.
Per chi come lui era affascinato dall’antica civiltà contadina e
cercava di recuperare, anche linguisticamente, l’enorme varietà e
spontaneità della lingua degli strati più bassi della società, come
le borgate romane, le immense semibaraccopoli sorte alle porte
della Capitale, la televisione con il suo livellamento e la sua
proposta di modelli trasversali e stereotipati, anche linguistici, era
il peggior incubo che si potesse immaginare.
Il 9 dicembre del 1973 scriveva sul Corriere della Sera:
Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della
civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e
monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari
(contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai
loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a
parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e
incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può
dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo
potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta
esercitare tale repressione? […] Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è
stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha
assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di
culture originali.

Pasolini aveva assieme torto e ragione. Sì, era vero che


l’enorme distanza fra gli strati sociali e le loro specifiche culture
spariva, perché ora tutti si ritrovavano alla sera a guardare
Rischiatutto. Sì, era vero che l’impiegata di Milano, la famosa
casalinga di Voghera e anche il bullo di Tor Bella Monaca ormai
compravano i loro abiti nello stesso grande magazzino o centro
commerciale e si rivolgevano alla commessa o alla cassiera
usando gli stessi modi di dire. Era ed è vero ancor più oggi che
l’alunno di Scampia e quello di Bellagio a scuola con i compagni
ripetono fino allo sfinimento lo stesso tormentone di un comico
milanese, e vanno a vedere a Natale al cinema il medesimo
cinepanettone con Massimo Boldi e Christian De Sica. Ed è
certamente vero che quando Bembo e Manzoni sognavano una
lingua condivisa non avevano di certo in mente l’italiano pieno di
svarioni, di termini regionali e gergali, alle volte molto povero di
inventiva e stereotipato che oggi è in bocca alla maggior parte dei
nostri connazionali.
Però è anche vero che oggi gli italiani in qualche modo sono
stati fatti e l’italiano pure. E una volta nato questo nuovo italiano
standard “piatto” e trasversale, anche gli intellettuali hanno
cominciato a giocarci, a reinventarlo, a sfruttare i suoi stereotipi o
a cercare di rivoltarli. Aldo Nove, Niccolò Ammaniti, Enrico Brizzi
hanno pasticciato con i gerghi e gli slang giovanili o
metropolitani, e ogni giorno l’italiano viene reinventato da tutti
noi, sui giornali, su internet, nei mercati rionali, nelle sale dei
parrucchieri, nei parchi giochi, nelle cucine, negli uffici. Nascono
nuove parole e nuovi modi di dire. Nessuno può sapere come si
evolverà, proprio perché è divenuto patrimonio di tutti e le
varianti possibili sono ormai infinite.
Oggi l’italiano non è bello o brutto, è vivo. In continua
trasformazione perché questo è il destino di ogni lingua che venga
parlata realmente da un popolo, e come quel popolo muta nel
tempo, si adatta, si rinnova. È una lingua che è nata sulle pagine e
ora è fuori, nelle strade, sulle piazze, nelle case, e serve a
raccontare la vita di ognuno di noi. È nostra, finalmente.
In fondo è un gran bel risultato.
Storie di parole

«Petaloso», ovvero le parole si inventano quando servono

Nel 2017 l’Italia è stata scossa da un brivido linguistico. Un


bimbo di una scuola primaria in un tema ha usato una parola,
«petaloso», inventata da lui. La sua maestra, dato che ovviamente
il termine non era presente in alcun dizionario, invece che
limitarsi a segnarlo come errore, ha invitato il piccolo a scrivere
all’Accademia della Crusca per chiedere se la parola fosse
corretta o no. L’Accademia ha risposto al piccino dicendo che
ovviamente «petaloso» non può essere ammesso seduta stante nei
dizionari (anche perché l’Accademia della Crusca non è un
supremo organo di controllo che dà direttive agli estensori di
vocabolari), ma che siccome rispetta le regole che in italiano
normano la formazione delle parole, un giorno, se avesse preso
piede, anche «petaloso» sarebbe potuto entrare nei dizionari a
fianco delle sue “sorelle”.
Seguire la vicenda, soprattutto sui social network e sui mezzi di
comunicazione di massa, è stato istruttivo. Il pubblico si è
spaccato in due partiti opposti: da un lato chi lodava il piccino per
l’inventiva e trovava il termine carino o buffo, dall’altro chi si
indignava scandalizzato che il termine proposto da un bimbo fosse
stato preso sul serio da una istituzione come la Crusca o che la
stessa Crusca avallasse con il suo appoggio una parola “brutta”
come «petaloso», in un delirio di «ai miei tempi» e «dove andremo
a finire, signora mia»!
I rappresentanti del secondo partito si consideravano dei severi
e strenui custodi dell’italiano e della sua tradizione. Non è ben
chiaro come costoro immaginino però il processo con cui si
formano le parole.
Vista la loro furente indignazione all’idea che persino un bimbo
possa inventare una parola, sembrerebbe quasi che secondo loro
da qualche parte, negli stati ben organizzati, ci sia una ristretta
cerchia di esperti pluridecorati che si riunisce in sedute
segretissime e lì conia nuovi vocaboli, diramando poi precisi
ordini perché la gente cominci a usarli.
No, non esiste nessun comitato segreto di intellettuali:
l’italiano, come tutte le lingue, è una gigantesca impresa
collettiva, una sorta di Wikipedia. Tutti, anche chi non sa
nemmeno leggere o scrivere, possono partecipare e provare il
brivido di creare un termine nuovo, perché la prima e
fondamentale caratteristica delle lingue vive è che le parole si
inventano. Continuamente. In taluni periodi, addirittura a rotta di
collo.
Pensiamo alla fine del XIX secolo e a tutto il XX: abbiamo
inventato il telefono, l’automobile, il grammofono e poi il
giradischi, la radio, il televisore, l’impianto stereo, l’aereo,
l’elicottero, il frigorifero, la lavatrice, la lavastoviglie, persino
ipotizzato l’astronave… gli indignati contro «petaloso»
dimenticano di vivere in case zeppe di oggetti che hanno nomi
coniati da pochissimo e spesso bruttarelli (ora, non dite che
asciugatrice ha un suono meraviglioso, via!).
Inoltre i nomi con il suffisso -oso esistono normalmente in
italiano: ci sono già grandioso, sussiegoso, goloso. Nel 1983
aggettivi formati con questo suffisso erano stati protagonisti di
una campagna pubblicitaria per il lancio della Fiat Uno pensata da
Giorgio Forattini. La nuova automobile veniva definita come
sciccosa, risparmiosa, comodosa e scattosa. Nessuno si
scandalizzò e dei quattro termini risparmioso e sciccoso ebbero
una certa diffusione nel linguaggio comune.
La lingua è sempre impegnata in una folle corsa per inseguire
la realtà e per descriverla nel modo più preciso e minuzioso
possibile. Ogni volta che un nuovo oggetto viene inventato
bisogna subito trovargli un nome, perché indicarlo come “coso, lì”
sarebbe non solo vago ma anche piuttosto scomodo, soprattutto
quando dovete chiedere che ve lo passino. E siccome capita anche
di dover cominciare a fare alcune azioni per la prima volta,
bisogna inventare persino nuovi verbi. Molto spesso non ci
rendiamo conto di considerare come brutte le parole a cui
semplicemente non siamo abituati: fotografare doveva suonare un
verbo molto ridicolo ai tempi dei primi scatti, mentre ora viviamo
addirittura nell’epoca del selfie. Nessuno si sognava di
bombardare prima che inventassero le bombarde e ai tempi in cui
fu inventata la scrittura, be’, probabilmente si dovette coniare il
verbo scrivere di gran carriera, suscitando le ire di qualche
benpensante alfiere della tradizione.

Radici di famiglia

Ma come si arriva a formare una nuova parola? Le parole,


innanzitutto, devono essere comprensibili. Anche quelle che sono
appena state inventate, quindi, devono avere per chi le ascolta
un’aria familiare, o riprodurre uno schema a cui si è abituati.
Anche se non le si è mai sentite prima, in qualche modo le
riconosciamo istintivamente, come quando incontriamo per la
prima volta per strada un tizio che non abbiamo mai visto, ma
grazie ai lineamenti o al modo di fare intuiamo subito subito che è
il figlio del nostro vicino di casa.
Per far questo ci possono essere diverse strade: la prima è
quella di usare per tutte le parole che in qualche modo si
riferiscono allo stesso argomento o ambito una radice comune. La
radice è un gruppo di lettere che ha un certo significato, anche se
abbastanza vasto. La radice è un po’ come la molecola in chimica:
è alla base di tutta la materia.
Le parole primitive, ovvero le più semplici e basilari, sono
formate solo dalla radice e dalla desinenza, che si attacca
direttamente alla radice. Le parole sono oggetti pensati per
passare a chi le ascolta una serie di informazioni. La radice
comunica il senso della parola; la desinenza, invece, informa se la
parola è maschile o femminile (cioè a che genere appartiene) e se
è singolare o plurale (cioè il numero).
In italiano i generi sono solo due, mentre altre lingue hanno
anche il neutro, cioè il genere asessuato che indica gli oggetti
inanimati, o possiedono un numero in più. In greco antico, oltre al
singolare e al plurale, c’era per esempio anche il duale, per
indicare le coppie. Infine alcune lingue, come il latino, il greco o il
tedesco, oltre al genere e al numero, hanno anche il caso, che
aiuta a capire la funzione che la parola svolge all’interno della
frase. Quando si dice che l’italiano ha una grammatica complicata,
ci si dimentica che in giro c’è molto di peggio.
Non si può vivere però di sole parole primitive. Più la società si
complica, più si sente il bisogno di creare parole sempre più
specifiche. Se all’inizio c’è solo una casa, poi si sente il bisogno di
abitare in un caseggiato e di avere in montagna una casetta per le
vacanze, e in campagna un casolare per il fine settimana, mentre
il ramo aristocratico della famiglia (è un nobile casato!) ha
addirittura un casino di caccia, il quale talvolta, visto che la sera
ci si gioca d’azzardo, può perfino sembrare un casinò. Chi entra in
famiglia sposando uno dei ricchi eredi si accasa bene, mentre chi
non fa parte di questo giro deve accontentarsi di una misera
casupola spersa chissà dove.
Da casa quindi, attraverso dei gruppi di lettere che vengono
aggiunti alla radice, otteniamo una intera famiglia di parole che si
riferiscono allo stesso ambito (un immobile dove abitare) ma che
precisano di volta in volta quanto questo immobile sia grande,
piccolo, lussuoso o misero.
I gruppi di lettere che aiutano a formare nuove parole da una
radice si chiamano suffissi (dal latino suffixus, attaccato sotto) se
si attaccano dopo la radice o prefissi (da praefixus, attaccato
prima) se si attaccano davanti alla radice.
La lingua funziona un po’ come i mattoncini Lego. Aggiungendo
alla radice altri pezzettini, si possono ottenere centinaia di parole
nuove.
Il mondo dei suffissi è molto divertente, anche se pochi se ne
rendono conto: siamo così abituati a parlare l’italiano che non
abbiamo spesso coscienza di quante informazioni sofisticate
riusciamo a passare combinando alcune semplici lettere. Creiamo
parole che descrivono esattamente un mestiere, o uno stato. Per
esempio il suffisso -ai- è tipico dei mestieri in cui si vende
qualcosa: da merce viene merci-ai-o, cioè chi vende passamanerie
(quindi ha una bottega di merceria), chi vende il formaggio è un
formaggi-ai-o, e il macell-ai-o è chi vende la carne macellata; più
in generale chi ha una attività commerciale o bottega è un botteg-
ai-o.
Alle volte sembra che il suffisso sia appiccicato a caso:
l’operaio, direte voi, mica vende qualcosa, semmai la produce. No,
in realtà l’operaio vende la sua manodopera (cioè un lavoro fatto
con le mani) per produrre degli oggetti, e l’italiano quindi forma il
suo nome con il suffisso -ai.
Con -eri- invece indichiamo il luogo dove si vende o si produce
una cosa: nascono così pizz-eri-a, distill-eri-a, salum-eri-a, panett-
eri-a.
Se l’attività ha qualche tratto di produzione industriale però è
più corretto attaccare il suffisso -fici-o, che non a caso è legato
alla radice di fare (dal latino facio: in questo caso la a si trasforma
in i per un fenomeno fonetico latino che si chiama apofonia, tipico
di tutte le lingue indoeuropee). Avremo quindi opificio, cotonificio,
lanificio, panificio, salumificio e anche il sarcastico diplomificio,
cioè una scuola dove gli attestati di diploma vengono in pratica
sfornati in quantità industriale come fossero sfilatini di pane e
distribuiti a tutti.
Il suffisso -ier- indica le persone che svolgono un lavoro con
uno strumento o con determinate categorie: barbiere (si occupa di
barbe), carabiniere (usava un tempo come arma la carabina),
infermiere (cura gli infermi), gondoliere (porta in giro i turisti
sulla gondola).
A seconda del suffisso che usiamo diamo alle parole sfumature
diverse: il giornale si chiama così perché esce ogni giorno, lo
scrive il giornalista, ma lo vende il giornalaio.
I prefissi funzionano alla stessa maniera dei suffissi, ma si
attaccano davanti alla radice. Dal verbo dire si possono creare in-
dire e pre-dire, da ordinare si possono formare pre-ordinare nel
senso di predisporre, sub-ordinare, cioè mettere in ordine
gerarchico uno sotto l’altro per creare, ad esempio, una catena di
comando, co-ordinare, nel senso di mettere assieme una serie di
cose o di persone in maniera ordinata perché funzionino bene.
Le parole insomma sono delle piccole scatole cinesi che
contengono altre scatoline. Si possono smontare e rimontare: le
regole grammaticali sono un po’ come le brugole dell’Ikea, che ci
permettono di assemblare i pezzi.
Alcune parole nuove possono essere formate non solo
aggiungendo suffissi alla radice, ma anche unendo due parole:
sono nati così il calzascarpe (composto dal verbo calzare e dal
nome scarpa), l’asciugamano (da asciugare e mano), il burrocacao
(dall’unione dei nomi burro e cacao) e la manomorta (dal nome
mano e dall’aggettivo morta).
La disciplina che studia l’origine e la storia delle parole si
chiama etimologia. È una scienza affascinante perché non solo ci
permette di radiografare le parole di oggi, ma ha la straordinaria
proprietà di farci fare persino dei viaggi indietro nel tempo. Le
parole, infatti, raccontano con la loro evoluzione la storia della
nostra società. Come? Scopriamolo.

Storia sociale delle parole. Le parole raccontano mondi

L’Italia, si sa, è sempre stata terra di città. Piccole o grandi che


fossero, la vita si è sempre svolta, dall’antichità ai nostri giorni,
dentro le mura dei nostri borghi, e anche la nostra lingua porta i
segni di ciò, per esempio in una certa diffidenza verso gli abitanti
delle campagne e i loro modi di fare.
Nel migliore dei casi li considera rustici (da rus, campagna,
podere), ma basta un niente perché li si tacci di essere villani (da
villa, abitazione o fattoria di campagna). Al contrario l’abitante
della città è civile (dal latino civis, cittadino) e urbano (da urbs,
città).
Nel Medioevo, tuttavia, le città si spopolarono e furono ridotte
al lumicino. La civiltà e la buona educazione dove si erano
rifugiate? Nelle corti, ovvero nei castelli e nei palazzi, dove i
signori continuavano a ricevere ospiti, sovvenzionare menestrelli
e poeti, e cercavano di essere il più affascinanti possibile per
conquistare il cuore (e altro) delle damigelle. Da lì viene il nostro
cortese, aggettivo che nei secoli bui indicava un uomo educato e
di mondo.
Attenzione, però, a non confondere la cortesia con la
gentilezza: anche dal punto di vista etimologico c’è un abisso.
L’uomo cortese infatti è chi è abituato a vivere in un ambiente
aristocratico, ma la sua educazione è limitata spesso al rispetto
delle regole formali dell’etichetta; chi invece è gentile lo fa in
quanto appartenente a una gens, ovvero una nobile stirpe. La
gentilezza quindi è una inclinazione istintiva dell’animo, mentre la
cortesia è più esteriore e superficiale, e, in qualche caso, anche
molto ipocrita.
Anche se Roma era una civiltà urbana (nel senso di molto civile
ma anche nel senso di incentrata sulla vita di città) la
maggioranza della popolazione sopravviveva con i prodotti della
campagna, e dunque aveva un termine specifico per indicare chi
coltivava la terra. Era chiamato agricola (da ager /agri, campo, e
colĕre, coltivare). In italiano la radice si è conservata dando
origine a tutta una serie di termini colti, come agricoltura, cioè
l’arte di coltivare la terra, e l’aggettivo agricolo. Poi abbiamo
anche l’agrimensore (cioè chi misura e stabilisce i confini fra i
campi, dal latino mensura, misurazione) e l’agronomo (che è
invece un esperto specializzato nelle tecniche di coltivazione dei
terreni, dal greco νόμος regola, legge). Non si capisce perché mai,
visto che tutto quello che ha a che fare con la campagna dovrebbe
usare questa radice agr-, così nobilmente latina, poi nei campi, a
zappare la terra, troviamo invece il contadino. Da dove salta fuori
questo infiltrato?
Quando le parole cambiano è sempre perché è cambiata la
società che le inventa. Ai tempi degli antichi romani, quando il
mondo era pieno di agricolae, chi lavorava la terra era assai
spesso un piccolo proprietario terriero. Magari non era ricco, ma
era un cittadino romano, in molti casi un ex militare (un veterano)
che una volta andato in pensione riceveva un piccolo campo per
potersi mantenere e godersi la vecchiaia. L’agricola romano era un
uomo libero che non aveva bisogno di domandare favori a nessuno
per sopravvivere. Ma con la caduta dell’impero (anzi, a dire il vero
anche un po’ prima) di agricolae liberi ne restarono pochissimi: le
invasioni, le violenze continue resero assai insicuro vivere nei
piccoli appezzamenti isolati in campagna, in casette difficili da
difendere ed esposte a ogni razzia. Così gli agricolae si trovarono
costretti a cercare dei protettori, dei signori che li potessero
accogliere nei loro castelli o nei loro fortilizi quando calavano i
barbari o i nemici. I signori si chiamavano conti (dal latino
comites, ovvero compagni, nel senso di amici e compagni d’armi
dell’imperatore) e le terre sottoposte al loro dominio contadi. Gli
agricolae si ritrovarono così a diventare contadini, cioè abitanti
del contado e, sebbene ancora formalmente liberi, dovettero
cominciare a obbedire ai voleri del conte. Il mondo era
irrimediabilmente cambiato e anche la lingua si adattava al nuovo
corso della storia. Un successivo rivolgimento sociale fece sì che
anche i conti però perdessero il potere nelle campagne: oggi
infatti i contadi non esistono più e il termine è desueto. Il
contadino invece resiste, ma oggi preferisce chiamarsi
imprenditore agricolo. Ha ragione: è più simile al libero agricola
romano che al suo povero antenato medievale suddito di un
padrone capriccioso.

Sindaca, presidenta, pilota e altre questioni di genere

La lingua delle donne, ovvero le professioni femminili


Per fortuna non tutte le svolte della storia sono in peggio. Se
l’agricola perse qualcosa diventando contadino medievale, alle
volte invece le parole cambiano per segnare evoluzioni positive.
Uno dei casi più evidenti è quello delle professioni femminili.
L’Italia dei nostri bisnonni e nonni era un paese quasi tutto al
maschile. Le bisnonne e le nonne, infatti, avevano come unica
prospettiva (o quasi) quella di fare le massaie e occuparsi della
famiglia. La penisola era una terra popolata di analfabeti: se già i
maschietti andavano poco a scuola, figurarsi le femminucce.
Quindi era impossibile trovare una donna che facesse il medico, il
notaio o l’ingegnere e l’unica a sentirsi chiamare avvocata, però
nel senso di paladina, era la Madonna nel Salve, Regina. Vi
stupirà sapere che poco più di un secolo fa c’erano ancora
pochissime maestre e le segretarie erano ancora meno, persino
nelle grandi città: il maestro e il segretario erano mestieri
prevalentemente maschili, come l’infermiere e persino il
commesso. Il fatto è che le donne non lavoravano fuori casa,
quindi non si sentiva il bisogno di coniare parole al femminile per
certi mestieri perché, molto semplicemente, non esistevano
femmine che li esercitassero.
A dire il vero una professione che le donne esercitavano fuori
casa c’era, e fin dagli albori del mondo. Per indicare quella, infatti,
ci sono termini esclusivamente declinati al femminile: meretrice
(dal latino merere, guadagnare, visto che era l’unico mestiere con
cui una donna potesse racimolare dei soldi), prostituta (dal latino
prostituere, esporre in pubblico, si lascia immaginare cosa),
cortigiana (cioè donna che vive a corte e non se ne sta a casa da
brava moglie) o più volgarmente puttana (dispregiativo da putta,
quindi ragazzaccia), zoccola (perché pare che le prostitute
indossassero zoccoli dal tacco altissimo), bagascia (l’etimologia è
incerta, forse dal provenzale, dove indicava la serva di casa,
quella con cui i padroni si potevano prendere infinite libertà),
mignotta (forse dal francese mignon/mignotte, piccola, gattina).
La società quindi non si è mai fatta un gran problema per
trovare un nome alle donne che svolgevano una qualche
professione. Ha accettato tranquillamente che i nomi maschili
delle professioni fossero volti al femminile: ha creato operaia
quando le donne sono andate in fabbrica, sarta, commessa,
infermiera, segretaria, maestra, professoressa. Gli italiani dei
tempi andati si sono rapidamente adattati a chiamare le donne
direttrici quando sono arrivate a dirigere scuole o enti, dottoresse
quando si sono laureate, imprenditrici quando hanno iniziato a
fondare imprese, senatrici quando nel 1945 finalmente sono
arrivate nel senato della Repubblica. I nostri nonni e padri,
quando queste parole si sono affacciate alla ribalta della storia
assieme alle donne che svolgevano questi lavori, non hanno fatto
un piego, anzi.

La bellezza non c’entra con la grammatica


In italiano, come abbiamo visto sopra, le parole sono maschili o
femminili. In latino esisteva anche il genere neutro, che indicava
solitamente gli oggetti e talvolta i concetti astratti. In effetti, se ci
pensate, è illogico che gli oggetti in italiano siano considerati
maschi o femmine. Non c’è alcun reale motivo per cui il pane sia
maschio ma la pagnotta sia femmina.
Nel gran caos dei secoli bui, però, sono andate perdute molte
cose, come la toga e il latino, e la lingua parlata, cioè quello che
poi è diventato il nostro italiano, non ha conservato il neutro. Mai,
in nessun caso. Ne rimangono qua e là tracce, come per esempio
alcuni plurali in -a di termini che al singolare sono maschili, come
uova o ginocchia. Ma non sono neutri: la grammatica li considera
infatti femminili, e uovo e ginocchio due termini che al plurale
passano al genere femminile.
Se alcune parole erano un tempo solo maschili, perché, per
esempio, indicavano mestieri svolti unicamente da uomini, la
nostra lingua ha comunque già in sé le regole per costruire i
corrispettivi femminili tramite i normali suffissi, come si è visto
nel paragrafo precedente. La lingua di per sé non è “sessista”: il
sessismo, semmai, sta nel rifiuto di alcune persone di accettare
che vengano volti al femminile i nomi di talune professioni,
adducendo motivi abbastanza bizzarri, come il fatto che «suonano
male» o «non ce n’è alcun bisogno». Fra l’altro è interessante
notare che i nomi che ad alcuni danno fastidio sono tutti quelli che
riguardano professioni di alto profilo, come il sindaco o
l’assessore, l’ingegnere, il medico, il primario ospedaliero,
l’architetto, il direttore di giornale, il presidente del Consiglio.
Finché sono stati volti al femminile operaia, spazzina, commessa,
infermiera e segretaria nessuno ha mosso la minima protesta: che
una donna possa lavorare in fabbrica otto ore va bene, è quando
diventa assessora al Bilancio, ministra del Lavoro o dell’Economia
che alcuni cominciano a trovare la cosa inaccettabile.
Oggi, tuttavia tante donne spingono perché tutti i nomi di
professione, ove la grammatica lo permetta, siano volti al
femminile. Alcuni considerano questa richiesta come una
questione di lana caprina, un capriccio o un incaponimento. In
realtà non è proprio così. Fintanto che i nomi di talune professioni
resteranno solo ed esclusivamente declinati al maschile,
l’impressione che si avrà è che queste non siano professioni
adatte alle donne o che le poche donne che le praticano siano
delle eccezioni alla regola. Le bambine finiscono col pensare che
fare la commessa sia un lavoro “da femmina”, mentre il primario o
l’ingegnere siano cose “da maschietti”, esattamente come per i
bambini fare la ballerina classica è cosa da femminucce e invece
giocare a calcio e rugby no.
Al di là però di questo aspetto sociale e politico, sostenere che
alcuni nomi non possano essere volti al femminile perché sono
«brutti» o «suonano male», come abbiamo già detto, non ha alcun
senso. La lingua non è un esercizio estetico a sé stante e ai nuovi
termini dopo un po’ l’orecchio si abitua: spesso chi è contrario ai
nuovi nomi “al femminile” non si rende conto che è solo poco
abituato al loro suono e per questo li considera “strani”. Persino
maestra, se ci pensate, non ha poi questo suono così musicale, ma
nessuno se ne è mai fatto un problema: si dice così e basta.

Le regole per i nomi maschili e i femminili che non lo sono


Tutti i nomi che finiscono per -o al maschile, al femminile
prevedono una regolare desinenza in -a. Quindi il femminile
regolare di sindaco è sindaca, di avvocato è avvocata, di ministro
è ministra. Se finora abbiamo usato il sindaco anche per indicare
una donna che svolgeva quella funzione non è perché sindaco sia
neutro. Semplicemente veniva usato come apposizione, cioè come
nome aggiunto a un altro nome. L’apposizione non è necessario
che concordi per genere con il nome a cui si riferisce, per cui se
decido di scrivere: il sindaco Evelina Rossi, posso continuare a
usare il maschile, sempre che la signora Evelina Rossi sia
d’accordo. Mai e poi mai però posso scrivere la sindaco Evelina
Rossi, perché l’articolo determinativo in questo caso si riferisce a
sindaco e sindaco è maschile. Se voglio usare la devo scrivere la
sindaca.
Anche i nomi che fanno il singolare maschile in -e hanno il
singolare femminile in -a. Nessuno si è mai scandalizzato perché
da infermiere è venuto fuori infermiera, quindi sfugge il dramma
di chi non ammette assessora. Qualche problema pone il duo
direttore/direttrice quando si parla di direttore di un giornale o di
un direttore d’orchestra. Alcuni sostengono che direttrice si sia
specializzato a indicare donne che reggano istituzioni scolastiche,
mentre direttore indicherebbe specificamente chi dirige un
organo di stampa o un’orchestra, quindi un lavoro ben
identificabile. Qui più che un problema di femminile e maschile
sembra un problema di significato e uso del termine, come per la
coppia segretario/segretaria. Mentre il segretario può essere, ad
esempio, il capo di un partito o di un sindacato, la segretaria è
solo quella che fissa gli appuntamenti, risponde al telefono e porta
il caffè in riunione. Per ora, visto che siamo in una fase ancora
molto fluida non si esclude che direttrice possa essere usato
anche per indicare una donna che dirige un giornale, o
un’orchestra. Il problema è che sia sul podio che nelle redazioni di
donne così ce ne sono ancora pochissime.
Va invece assolutamente sfatata l’idea che basti la desinenza in
-a perché il termine sia un femminile o lo sia stato in origine. Ogni
tanto, quando si parla di sindaca e assessora salta subito fuori il
genio che ribatte: «Allora si dovrebbe dire anche piloto!»,
convinto di aver trovato l’argomento definitivo per chiudere la
questione. A dire il vero il termine piloto è registrato in italiano,
ma si tratta di una variante letteraria e minoritaria testimoniata
solo in Foscolo, con il senso di pilota di nave. Non ebbe alcun
successo nella lingua parlata, perché pilota è già maschile.
Esistono infatti in italiano (come esistevano in latino e in greco e
in talune lingue germaniche) anche dei nomi maschili che hanno
la desinenza in -a. Ne sono conferma i nomi maschili Andrea,
Enea, Elia e Luca.
Poeta e pilota non sono e non sono mai stati femminili, ma dei
maschili regolarissimi. I termini in -a semmai sono più facili da
volgere al femminile. Si dice il pilota (maschio) e la pilota
(femmina) quando chi guida l’auto da corsa o l’aereo è una
signora, tuttavia per poeta si usa il termine poetessa.
Resta il problema di capire perché sentinella, vedetta e guardia
in italiano siano invece femminili, anche se la guerra e le mansioni
militari sono sempre state svolte dagli uomini.
Guardia, derivato da guardare, è parola di origine germanica o
longobarda (forse da ipotetico wakjia = vigile, sveglio), per cui
non è escluso che, nelle nebbie del Medioevo, sia stata sentita
come un femminile solo perché terminava in -a, a orecchio.
Qualcosa di simile potrebbe essere accaduto anche per sentinella
(la cui derivazione dal latino sentire è solo probabile) e vedetta,
che deriva dallo spagnolo velar, guardare. Un militare maschio
potrebbe un giorno chiedere di essere chiamato guardio o
sentinello, per differenziarsi dalla collega femmina, visto che oggi
le donne sono entrate nell’esercito? Chissà, può darsi, e potrebbe
anche ottenerlo, se non dal suo comandante almeno da un
linguista. Invece un dentista o un giornalista non hanno motivo di
chiedere di essere chiamati dentisto o giornalisto. Si tengano il
loro maschile in -a, che non è per nulla effemminato.

Come le parole entrano nel dizionario: prestiti, dialetti

Parlare straniero: i prestiti e le lingue vive (non si prestano cose ai


morti)
Durante il Ventennio fascista, poiché l’Italia era stata colpita da
sanzioni internazionali, a un certo punto Mussolini decise che il
paese ce l’avrebbe fatta anche senza importare nulla dall’estero.
Avrebbe prodotto da solo tutto ciò di cui aveva bisogno e avrebbe
anche smesso di usare tutte le parole straniere che rischiavano di
inquinare la bellezza dell’italiano così come i matrimoni misti
rischiavano, nel pensiero del duce, di contaminare la “purezza
della razza”. Questa forma di autarchia ben presto si dimostrò
disastrosa e inapplicabile: non solo gli italiani non riuscirono ad
abituarsi al caffè fatto di cicoria, ma nemmeno alle parole italiane
sostitute di quelle straniere. Infatti, caduto il regime, quasi per
reazione, cominciarono a usare termini stranieri anche quando
non ce n’era un particolare bisogno, e ancora oggi questo malo
vezzo esterofilo non ci è passato. Alle volte questa abitudine
genera mostri, come ogni sonno e pisolino della ragione. Siamo
invasi da manager (dirigenti) che si proclamano digital evangelist
(divulgatori digitali?); forse per questo hanno la vision (una
visione, un’idea) e parlano di mission (scopo, missione)
dell’azienda. Vanno ai briefing (riunione) per fare planning
(pianificazione), meglio se strategic (relativa alla strategia
commerciale), e si confrontano con i colleghi solo tramite
conference call (videochiamata con i colleghi). Gran parte di
questi termini stranieri vengono per giunta pronunciati male
perché chi li usa non è mai stato più in là di Vattelappesca sul
Mincio. Ciò rende ancora più ridicola la situazione.
Sarebbe buona regola evitare di usare parole straniere solo per
moda o per impressionare l’uditorio. È però vero che le lingue
normalmente si scambiano parole. Se non avessimo adottato
termini stranieri per tutta la nostra storia, spesso modificandoli
appena appena, oggi l’italiano non esisterebbe.
Le parole straniere che vengono “adottate” dall’italiano si
chiamano prestiti. Non bisogna averne paura. In fondo si presta
qualcosa solo a chi è ancora vivo, e finché una lingua si appropria
di parole provenienti da altri luoghi testimonia di essere ancora
parlata e vitale. Latino e greco non si fanno prestare più parole da
secoli (anche se esistono dizionari di latino “moderno” che
introducono termini nuovi per indicare oggetti contemporanei,
come la televisione o il cellulare, ma questi dizionari sono pensati
solo ed esclusivamente per le esigenze della chiesa cattolica, che
ancora oggi usa il latino come lingua ufficiale), e restano immobili
e uguali a se stesse. Ma appunto per questo sono considerate
lingue morte.
I prestiti vanno a ondate: ora va per la maggiore il prestito
dall’inglese e dall’angloamericano, nell’Ottocento il francese era
la lingua considerata più chic. Ma oltre che la moda, i prestiti
seguono anche la politica. Oggi tutti sappiamo cosa vogliano dire
sharia e jihad, e addirittura abbiamo coniato il derivato jihadista,
per indicare un pericoloso terrorista che vuole diffondere il
fondamentalismo islamico. Le guerre in Afghanistan ci hanno fatto
conoscere i mujahidin e i talebani, come altre guerre in
precedenza ci avevano edotto sull’esistenza dei pasdaran. Per
fortuna dal Medioriente è arrivato anche nelle nostre città il più
pacifico e saporito kebab, che ci viene servito dal simpatico
kebabbaro. A fargli concorrenza sulla piazza c’è però il sushi bar,
originario del Giappone, da cui, inaspettatamente, arriva anche
purtroppo il kamikaze, tanto per tornare a parlare di guerre.
Anche noi italiani, beninteso, nel corso dei secoli abbiamo
prestato parole ad altri popoli. Pizza e pasta sono universalmente
note, e in qualsiasi parte del mondo i termini adagio, vivace,
allegro con brio, aria, opera lirica sono compresi dagli amanti
della musica. Il modo di dire dolce vita, legato al titolo del famoso
film di Federico Fellini, è internazionale. In fondo potremmo
essere orgogliosi: diffondiamo nel mondo parole che spiegano
come fare a godersi l’esistenza.

Stranieri che sono quasi oriundi: sport, computer, jeans e i figli


che tornano a casa
Una vecchia canzone di Antonello Venditti diceva: «Certi amori
non finiscono / fanno dei giri immensi e poi ritornano.» Anche con
le parole capita qualcosa di simile. Ci sono termini che arrivano in
Italia con il passaporto straniero, ma se poi si vanno a controllare
le ascendenze familiari si scopre che sono lontani cugini che
tornano a casa.
Prendiamo la grande passione nazionale, lo sport. Il termine è
inglese, e non ci piove, ma l’origine non è anglosassone. Sport
deriva dal latino sportula, piccola cesta o sporta, quella che
ancora oggi le massaie si portano dietro per mettere la spesa.
Nella antica Roma le gare sportive erano assai popolari e i
vincitori, oltre a una corona, si aggiudicavano anche la sportula,
ovvero un premio in beni o in denaro, che poteva essere anche
assai consistente. La sportula era regolarmente usata anche nella
Britannia conquistata dai romani, e da lì, secoli dopo, gli inglesi
trassero il loro termine.
Tante sono le parole inglesi, soprattutto colte, che derivano dal
latino. Computer è una di queste. Viene infatti dal latino computo,
calcolo. Per altro pochi ricordano che il primo vero personal
computer era italiano, dell’Olivetti, e veniva definito proprio
calcolatore elettronico, anche se poi il nome confidenziale era
Perottina, dal nome del suo inventore, l’ingegnere Pier Giorgio
Perotto. Ebbe un ruolo fondamentale nella missione Nasa che
riuscì a mandare l’uomo sulla luna. Il piccolo passo per un uomo e
grande passo per l’umanità fu fatto sì grazie al computer, ma era
un computer nostro.
Se i termini fino a ora esaminati sono derivati dal latino, veri e
propri oriundi sono invece i blue jeans. Il nome infatti deriva dalla
pronuncia inglese di blu di genoa, ossia Genova. Il blu di Genova
era la stoffa con cui i camalli, cioè gli scaricatori del porto, si
facevano le tute da lavoro, che erano resistenti a tutto e
indistruttibili. Come appunto i pantaloni jeans, che furono in
origine calzoni da lavoro per gli operai americani. Ah, a
testimoniare quanto i porti siano fucine di nuove parole e di
incroci imprevisti, camallo è una parola che deriva dall’arabo
hamal, facchino. I genovesi, oltre che mercanti di stoffe, sono
sempre stati anche grandi importatori di parole.

I dialetti, grandi serbatoi di nuove parole


Altro grande serbatoio da cui peschiamo parole sono i dialetti.
Il nostro paese ha una varietà incredibile di parlate: non solo ogni
regione, ma ogni piccolo borgo ha un suo dialetto, spesso anche
assai diverso da quello del paesello distante anche solo pochi
chilometri. Da duemila anni a casa nostra passa di tutto: Unni,
Goti, Longobardi, Franchi, Bizantini, Arabi, Ungari, Normanni,
spagnoli, francesi, tedeschi, inglesi e americani, senza contare le
invasioni e le scorrerie che già c’erano state in età romana,
quando Cimbri e Galli avevano scorrazzato allegramente per tutta
la penisola, unendosi alle popolazioni italiche, agli Etruschi e ai
Greci. Per questo motivo i nostri dialetti sono ricchissimi di
termini delle più svariate origini, e per altro sono dialetti che
hanno alle volte quasi la dignità di vere e proprie lingue, perché
non solo sono usati ancora adesso nelle comunicazioni quotidiane,
ma sono serviti in parte anche a scrivere comunicazioni ufficiali,
dispacci diplomatici, poesie e narrativa.
Le parole che entrano nell’italiano dalla “porta secondaria” del
dialetto spesso sono meravigliose perché concrete, vive,
allegramente popolaresche. Raccontano la vita così com’è, senza
tanti orpelli intellettuali. Sono una specie di fotografia in diretta.
Per esempio, quando si vuol indicare un momento di caos
scomposto ma simpaticamente disinvolto, a mezzo fra la sagra
paesana e la riunione di famiglia in cui tutti parlano assieme sotto
una pergola con appesi salami e caci, confusione non rende, e
cagnara neppure, mentre il romanesco caciara è perfetto. In
queste circostanze, quando tutti gridano, è facile che qualcuno si
prenda un cazziatone, accrescitivo del termine napoletano
cazziata, che significa rimprovero duro, una sgridata che resta
ben in mente. Se chi viene cazziato è un veneto, risponderà
mandando il brontolone a reméngo, cioè lo inviterà caldamente ad
aggirarsi ramingo e senza meta per le vie del mondo, cosa che
anche il finissimo Buzzati talvolta faceva (è lui che ha fatto
entrare il termine nel vocabolario italiano). Se è un siciliano
lettore di Camilleri, invece lo pregherà di non rompere i cabbasisi,
termine che designa il frutto dei capperi e per estensione i
genitali maschili. Non è ancora entrato ufficialmente nel
dizionario, ma visto il successo delle storie del commissario
Montalbano, ormai è compreso alla perfezione e persino usato
normalmente anche da chi non è originario della Sicilia.
Se è napoletano, può essere che al rimbrotto risponda con
cazzimma, ovvero rigiri abilmente il discorso, cercando di
scansare punizioni e rimproveri e accampando scuse speciose e
sottili.
Le parole che provengono dai dialetti sono così, dirette e
sanguigne. Descrivono il cibo, il sesso (minchia, altro termine
siciliano ormai adottato in tutta Italia, anche come esclamazione
di stupore: Minchia, che bello!), ma sono fenomenali anche nel
cogliere e ritrarre atteggiamenti e tipi umani.
Il guappo, in origine napoletano, è un ragazzotto presuntuoso e
talvolta violento, il picciotto è invece lo scherano di un boss
mafioso. Entrambi sono certo più pericolosi del milanese fighetto,
ragazzo frivolo e seguace della moda. Di solito tutti e tre perdono
la testa per un certo genere di ragazza, la gattamorta, che non è
termine dialettale anche perché è un tipo femminile umano diffuso
in tutte le regioni d’Italia e del mondo.
Anche le abitudini tipiche di alcune regioni fanno adottare
termini specifici dall’italiano. Non è un caso che una delle prime
attestazioni di sacramentare (cioè tirare giù bestemmie che
enumerano in fila tutti i sacramenti) venga attestato dal veneto
Ippolito Nievo, perché nel Nordest la bestemmia spesso si
sostituisce come pausa ai segni di interpunzione. Più
elegantemente Camilleri definisce questa azione santìare, forse
perché in Sicilia ci si limita a tirare giù solo i santi, lasciando stare
le più alte sfere.
Il clima specifico di una regione spesso viene ritratto da
folgoranti parole dialettali. Anche se non è ancora registrata nel
vocabolario, c’è un termine meraviglioso che in genovese indica
quel clima impastato d’umido e di scirocco tipico di certe afose
giornate estive, calde, piatte e senza scampo, che rischiano di
spingere la gente alla depressione e alla pazzia: è la «macaia,
scimmia di luce e di follia», come lo riassume Paolo Conte in un
verso di Genova per noi. E qui veramente tanto di cappello,
perché siamo in presenza di un vero genio.

I moderni canali per entrare nel dizionario: tv, pubblicità, internet


Come abbiamo visto, spesso alle persone non è ben chiaro
come le parole nascano e poi entrino nei dizionari. La lingua è una
delle poche cose veramente democratiche al mondo: nasce dal
basso e difficilmente si fa imbrigliare da ordini superiori. Se un
termine non piace, è difficile che entri nell’uso, e anche se un
regime riesce a imporlo per un certo periodo, appena il regime
vacilla e cade anche il termine entra nell’oblio. Il Fascismo cercò
di costringere gli italiani ad abbandonare l’uso del lei, e per tutto
il Ventennio nei discorsi pubblici e ufficiali e persino nei rapporti
interpersonali fu obbligatorio servirsi del voi. Ma appena caduto
Mussolini il lei è tornato tranquillamente al suo posto, con un
cortese e beffardo sogghigno.
L’adozione di una nuova parola nella lingua è molto simile a
quello che avviene quando due ragazzi cominciano a frequentarsi
e si mettono assieme. Prima i due escono da soli senza dire nulla a
nessuno, forse nemmeno a mamma e papà; poi cominciano a
uscire in coppia, ma solo in compagnia degli amici, a farsi vedere
al cinema e alle feste, o a passeggiare mano nella mano in
pubblico in piazza e per le vie del paese. Infine quando il rapporto
diventa ufficiale, il nuovo moroso o la nuova morosa vengono
presentati in famiglia ai genitori e ai parenti tutti, partecipano al
pranzo di Natale e Pasqua, vengono invitati ai matrimoni dei
cugini. A quel punto, è fatta: fanno parte della famiglia.
Alle parole succede qualcosa di simile: in un primo momento
vengono usate solo in cerchie ristrette di amici e confidenti, o fra
colleghi che fanno lo stesso mestiere. Poi, piano piano, la voce si
diffonde, il termine viene usato anche fuori dal ristretto ambito in
cui è nato, viene citato nei giornali e da qualche scrittore nei suoi
testi. Allora e solo allora la parola viene ufficializzata. Quando
ormai è chiaro che, come per il moroso, il rapporto è stabile e
consolidato, l’entrata nel dizionario è un po’ come il pranzo di
Natale con i nuovi parenti acquisiti.
Un tempo per entrare nei dizionari la strada maestra era quella
di sedurre un qualche intellettuale. Lo scrittore e il poeta avevano
il fascino e il peso necessario per presentare una parola in società,
anche se veniva dal nulla, dai bassifondi del gergo o del dialetto.
Gabriele D’annunzio, pioniere dell’aviazione, a un certo punto
decise di indicare la parte dell’aereo che alloggia l’equipaggio con
la parola fusoliera, che viene dal veneto, ma fino a quel momento
era stata usata solo per indicare una barca di forma stretta e
allungata, usata per la navigazione fluviale (l’aveva già citata
Benvenuto Cellini in questo senso). Fino ad allora, e talvolta
ancora adesso, questo pezzo di scafo di nave e di aereo veniva
indicato con il nome, meno elegante, di carlinga, un prestito dal
francese forse derivato dallo scandinavo, perché i vichinghi erano
stati grandi costruttori di navi.
Oggi le cose sono cambiate, e le parole entrano nella lingua
anche da canali meno nobili.
Molte parole nuove sono entrate dal gergo tecnico
dell’informatica, e sono prestiti o calchi dall’inglese. Si dice calco
una parola che ricalca il suono o la forma di una parola straniera.
Negli ultimi tempi abbiamo sentito usare uplodare, nel senso di
caricare un file in un sito internet; deriva dall’inglese upload.
Esiste anche il verbo contrario, cioè downlodare, anche se in
questo caso si preferisce usare la sua traduzione italiana,
scaricare, per indicare il processo con cui si salva sul proprio pc
un file disponibile in rete per poi leggerlo con calma.
La pubblicità è una gran fucina di neologismi, e dagli anni
Cinquanta in poi anche il mezzo più veloce per diffonderli presso il
pubblico. Abbiamo presto imparato che il telefono cellulare di
ultima generazione si chiama smartphone (il corrispettivo italiano
dovrebbe essere una cosa come furbofono, e no, non è il caso) e
funziona tramite le app (in realtà abbreviazione di applicazioni,
cioè piccoli programmi leggeri in grado di fare poche operazioni
ma in maniera velocissima). Nelle nostre borse, oltre al telefonino,
ormai c’è anche il tablet, ovvero il piccolo computer formato dal
solo schermo che però funziona con il tocco del dito, ovvero ha
uno schermo touch.
Altro canale potente per diffondere parole nuove sono i mezzi
di informazione, ovvero giornali e tg, o siti internet. Tantissimi
termini italiani, soprattutto relativi alla politica, vengono coniati
dai giornalisti ex novo (dal latino, significa “in maniera del tutto
nuova”) oppure usando parole già esistenti che vengono caricate
di significati prima non presenti (vi ricordate qua sopra
D’Annunzio con la fusoliera?). Nell’ultimo ventennio abbiamo
assistito alla nascita di termini come leghista (chi è iscritto o
simpatizza per la Lega Nord), grillino (aderente al Movimento
Cinque Stelle fondato da Beppe Grillo), piddino (che invece vota
per il Partito Democratico). Dopo una serie di riforme incrociate e
molti pasticci, la nostra legge elettorale sarà per qualche tempo il
cosiddetto mattarellum, termine falsamente latinizzante coniato
nel 1993 dal politologo Giovanni Sartori a partire dal nome del
nostro attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che
della legge fu relatore. Sostituirà una legge elettorale che era
stata scritta dall’onorevole leghista Roberto Calderoli, e che lo
stesso estensore battezzò ironicamente porcellum, ammettendo
fin da subito che si trattava di una porcata.
Altra operazione tipica del lessico politico/giornalistico è quella
di prendere dei termini dialettali e adottarli, imponendoli quindi
sulla ribalta nazionale. Un esempio è il termine napoletano
inciucio. In origine indicava il chiacchiericcio fra comari, oggi
invece designa un accordo politico truffaldino o contrattato con
poca trasparenza fra le parti.
Anche l’allargamento di significato di termini già in uso in
precedenza è molto praticato. Nei primi anni Novanta il lessico
politico si arricchì del termine sdoganare: si definì così
l’operazione che consentì a Silvio Berlusconi di far arrivare al
Governo e alla carica di ministro esponenti dell’antico Msi come
Gianfranco Fini, cioè gli eredi dell’antico partito fascista, che per i
quarant’anni precedenti erano stati esclusi dalla possibilità di
reggere le istituzioni. Berlusconi con il suo partito Forza Italia
provocò anche notevoli imbarazzi ai linguisti. I membri del partito
o i simpatizzanti come diavolo dovevano essere chiamati?
Forzaitalisti non prese mai piede. Berlusconi aveva proposto
azzurri, come i calciatori della nazionale, ma il grande pubblico
non apprezzò più di tanto. I nemici politici si divertirono a
chiamarli forzitalioti, che ha una connotazione fortemente
peggiorativa, le cronache parlamentari usarono forzisti per un po’,
ma poi nel linguaggio più comune furono indicati, semplicemente,
come berlusconiani, che finì col coprire anche tutti i componenti
della coalizione di cui Berlusconi era il leader, indipendentemente
dal partito di appartenenza od origine.
La tendenza più recente a identificare ormai il partito con il suo
leader crea continui neologismi politici. Abbiamo avuto i
dipietristi (seguaci dell’ex pubblico ministero Antonio Di Pietro e
dell’Italia dei Valori). Nella Lega Nord ci sono i salviniani, seguaci
di Salvini. Il Pd nel 2017 si è diviso fra renziani e bersaniani e non
si capisce in quante altre correnti interne, mentre fuori dal partito
ci sono i civatiani, dal nome di Pippo Civati. Anche qua la lingua
fotografa con le nuove parole la situazione della società: quella in
cui i leader politici sono ormai i capi di gruppi e cordate che
nascono e spesso muoiono velocemente, senza che il pubblico
capisca talvolta nemmeno chi siano e cosa propongano. Un caos
che si definisce anche una situazione balcanizzata (il termine è
nato all’inizio del Novecento), ovvero affine a quella dei Balcani,
in cui si sono alternate guerre civili, scontri fra etnie e lotte fra
bande. Per fortuna nel nostro parlamento, almeno per ora, si
ammazzano solo a parole.

Il lessico di internet
Su Facebook ho un sacco di amici! I miei status vanno alla grande! Su Instagram i
miei followers laicano di continuo tutti i miei selfie! Ogni volta che twitto mi
retwitta mezzo mondo! E sono anche uno Youtuber. Sono un vero influencer, una
webstar! Purtroppo ogni tanto arriva anche qualche troll che fa scoppiare un
flame. Questi haters sono davvero odiosi, si facessero una vita! Odio i
grammarnazi che ti correggono ogni errore nei post. Quasi quasi meglio gli
webeti che condividono bufale, guarda! Almeno quando li scoprono, lolli!

Per quanto ad alcuni lettori possa sembrare impossibile, il


passo qua sopra è scritto in italiano. Si tratta certo di un italiano
molto particolare: è un esempio di gergo di internet. Cita infatti
una serie di termini specifici (in gran parte prestiti e calchi
inglesi, ma anche neologismi) che sono usati abitualmente nella
cerchia di coloro che frequentano la rete. Solo che le cerchie che
usano gerghi di solito sono ristrette, mentre gli utenti della rete
sono ormai milioni: questo ha reso il gergo di internet
estremamente diffuso e pervasivo. Ne consegue che ormai chi non
conosce o non sa cosa vogliano dire alcune parole si trova in
pratica spiazzato come chi vaghi per una terra straniera senza
conoscerne la lingua, anche se è comodamente seduto davanti al
pc nel salotto di casa sua.
Analizziamo con calma. Già la parola amici, nella prima frase, è
insidiosa. Su Facebook il termine indica semplicemente la lista
delle persone con cui si è in contatto, ma da qui a dire che con
tutti si abbiano rapporti di vera amicizia ce ne corre.
Sui social gli amici si possono taggare, cioè citare con nome e
cognome in un piccolo testo o in una foto. L’amico riceverà una
notifica che gli permetterà di vedere il post e partecipare alla
discussione. Taggare le persone a tradimento o in post in cui non
c’entrano nulla è maleducazione: equivale a presentarsi sotto casa
di un tizio alle due della notte gridando il suo nome a voce alta
finché non apre la finestra.
Lo status, vocabolo di origine latina, indica la breve striscia di
testo che su Facebook viene usata per informare i lettori di come
ci si sente o di cosa si stia facendo. Oggi viene scritta in prima
persona, mentre agli esordi di Facebook era abitudine usare la
terza persona singolare, con il risultato anche un po’ ridicolo di
sembrare tutti dei piccoli Giulio Cesare.
Instagram è il nome di un altro social network, nato in maniera
indipendente e poi acquistato da Facebook, che serve a
condividere principalmente foto o brevissimi filmati. Il selfie
invece è il nome con cui viene indicato un autoscatto.
Laicare è un verbo formato sulla base dell’inglese to like,
mettere il «mi piace», ovvero cliccare sul piccolo tasto sotto allo
status (un pollice all’insù) per indicare che l’abbiamo gradito. Si
può anche cuorare qualcosa, cioè mettere sotto un piccolo cuore,
per indicare amore o apprezzamento. Un tempo questo cuore era
apposto mediante una emoticon, cioè una combinazione dei
caratteri della tastiera che componeva una specie di pittogramma
o disegnino. Quello del cuore era ricavato con i segni <3. Poi sono
arrivate le emoji, ovvero dei disegnini già predisposti dal social
che possono essere inseriti con un clic.
Il gergo di internet ormai ha anche una stratificazione storica.
Nei primi tempi del web, ancora prima delle emoticon, si usavano
degli acronimi (cioè delle parole nate scrivendo le sole iniziali
delle parole che componevano una frase) per comunicare
velocemente a chi leggeva gli stati d’animo di chi stava scrivendo.
La maggioranza di questi erano in inglese, ma erano usati anche
dagli utenti italiani. IMHO era l’abbreviazione per dire “secondo
me, a mio avviso” («In My Humble/Honest Opinion»), WTF è
«What The Fuck» (“Ma che cazzo?”), OMG è una esclamazione di
stupore («Oh My God!»). Sempre a questo primo periodo di
internet, quando ancora i social non esistevano e lo scambio di
opinioni avveniva nelle chat (conversazioni in tempo reale sul
web), risale il verbo chattare. Oggi si usano invece principalmente
le app di messaggi, e infatti il verbo messaggiare/messaggiarsi è
usatissimo.
Cuorare non va confuso con quotare (dal verbo to quote, citare)
che significa approvare quanto un utente ha scritto citando il suo
status o il suo post: «Ti quoto, fratello!» significa «approvo del
tutto quanto hai scritto e ti citerò come punto di riferimento!».
Anche l’uso dei termini fratello e sorella sulla rete ha delle
sfumature particolari. Rifacendosi all’uso di brother e sister nello
slang dei quartieri neri americani, vengono usati per indicare
persone con cui si ha grande familiarità o un rapporto molto
stretto, o con i quali ci si identifica sulla base di comuni
comportamenti. Se leggete uno scambio di questo tipo, in cui
un’utente scrive: «Ho la capacità di attirare i pazzi» e un’altra
utente commenta sotto: «Sorella!», il senso del commento è:
«Anche io, io pure»; non scambiatela per una riunione di famiglia.
Twittare indica l’azione di pubblicare un tweet (letteralmente:
cinguettio) su Twitter, il social network con il logo dell’uccellino.
Su Twitter i post raggiungono al massimo 140 caratteri. Quando
un tweet viene retwittato vuol dire che altri utenti hanno deciso di
diffonderlo, rilanciandolo. Twitter è un social network diverso da
Facebook, e quindi ha tutta una serie di termini che indicano
alcune specifiche caratteristiche. Quelli che su Facebook vengono
indicati come amici, su Twitter (ma anche su Instagram) sono
invece chiamati followers, cioè letteralmente seguaci. Quando
qualcuno si iscrive a Twitter l’immagine del suo profilo, finché non
carica una foto di suo gusto, è quella di un piccolo uovo che deve
ancora schiudersi. Alle volte gli utenti poco esperti o che usano
pochissimo il loro account lasciano la foto dell’ovetto per mesi o
anni. Per questo nel gergo di Twitter l’ovetto è un utente poco
esperto o appena arrivato nel social.
Su Twitter si pubblicano tweet, su Facebook status, se invece
qualcuno ha un blog pubblica dei post. Postare è il termine
tecnico che indica l’atto di pubblicare un contenuto sul proprio
blog o su una propria pagina.
I blog all’inizio erano siti creati dagli utenti che potevano
contenere scritti di ogni genere: nati come diari personali online,
erano delle sorte di zibaldoni in cui l’autore postava qualsiasi
cosa, dalla riflessione personale al commento politico sui fatti di
attualità. Alcuni preferirono in seguito aprire dei Vlog, ovvero dei
blog in cui pubblicavano dei loro interventi filmati. Da qui
nacquero gli YouTuber, che, senza nemmeno più avere un proprio
blog, hanno un canale su YouTube e pubblicano qui i propri video.
Influencer è il termine che indica un personaggio del web che
ha molti followers e quindi può influenzare con i suoi post i loro
gusti, spingerli a comprare determinati prodotti o votare certi
partiti. Gli influencers sono spesso invitati a partecipare a
programmi tv per twittare durante la trasmissione o vengono
pagati dalle aziende per pubblicizzare i nuovi prodotti tramite
tweet o post che contengano l’hashtag, cioè una parola o una sigla
scelte per la campagna pubblicitaria che vengono precedute dal
simbolo #. Queste parole sono scelte perché finiscano nei trend
topic (TT), ovvero la lista di argomenti che su Twitter sono più
discussi minuto per minuto. Ciò garantisce ai programmi o alle
trasmissioni una grande visibilità sulla rete, e quindi dovrebbe
portare a un aumento di ascolti o di vendite. Gli hashtag possono
essere inventati da singoli utenti e se hanno successo generano
milioni di tweet di persone che intervengono sullo stesso
argomento. Lanciare un hashtag significa usarlo per la prima volta
in un tweet.
Il troll in origine era una specie di orco della mitologia
scandinava, un demone dei boschi maligno e fastidioso. Su
internet è ancora più fastidioso e maligno. Il nome infatti designa
un utente che a bella posta voglia far scoppiare una baruffa (il
flame) nei commenti a un post. L’operazione è pianificata a
tavolino e consiste nello scrivere una serie di affermazioni
provocatorie che offendano più o meno velatamente i partecipanti
alla discussione (questa maniera di intervenire si chiama
trollaggio o trollare). Il troll ha come obiettivo quello di far
perdere le staffe ai partecipanti o al moderatore, ma non è per
forza maleducato o volgare e non sempre insulta esplicitamente.
Chi invece arriva a commentare con il solo intento di sfogare la
sua rabbia contro gli altri, insultando spesso senza nemmeno
preoccuparsi di argomentare, è l’hater (odiatore), che purtroppo
alle volte scambia la rete per un enorme water dove vomitare la
sua bile. Molto spesso quando un hater ti si appiccica come una
zecca non c’è molto da fare se non ignorarlo o bannarlo (cioè
bloccarlo impedendogli di leggere e di commentare i post) e
chiudere il discorso invitandolo a farsi una vita, traduzione
italiana dell’inglese get a life.
Il grammarnazi è un tipo del tutto particolare di hater, o di
troll. È un utente meticolosamente attento alle questioni formali,
che interviene commentando per segnalare nei post di altri utenti
errori veri o presunti di ortografia o sintassi. Si sente investito del
ruolo di sentinella della grammatica in servizio permanente e
continuo, ed è quasi sempre un oltranzista delle regole, per cui
non ammette nessun tipo di eccezione. Convinto che la
grammatica sia immutabile, la lingua intoccabile e la sua maestra
delle elementari avesse sempre ragione è in grado di questionare
per ore sull’uso di un termine o sulla costruzione di una frase. Il
grammarnazi, per quanto animato da buone intenzioni, spesso
finisce dalla parte del torto perché non ha nessuna elasticità
mentale e quasi sempre non accetta la visione che la lingua possa
evolversi, creare o adottare nuove parole, accettare costrutti
diversi rispetto a quelli più tradizionali. Il grammarnazi
probabilmente soffre tremendamente leggendo questo paragrafo
perché i termini cuorare, quotare, farsi una vita sono per lui
bestemmie, e offese mortali tutte le innovazioni che snaturano
secondo lui l’italiano forbito. Non resta che dirgli ciaone e
lasciarlo al suo paradiso fatto di vocabolari stantii.
L’ultimo arrivato fra i neologismi del web è invece webete,
recentemente coniato dal giornalista Enrico Mentana. Il webete è
un utente di internet che non è in grado di padroneggiare il
mezzo: abbocca alle bufale, ovvero alle notizie false create ad
arte, senza controllarle, le diffonde, è di una ignoranza
presuntuosa, ha comportamenti maleducati nei confronti degli
altri utenti, insulta e deride, non è in grado di capire il senso di un
articolo o di un post o fraintende le informazioni che gli vengono
fornite. È un analfabeta funzionale aggressivo che impesta spesso
siti e pagine web con i suoi commenti molesti. Va distinto dal più
anziano – linguisticamente parlando – utonto, termine che agli
albori della rete indicava un utente poco sveglio o maldestro, ma
anche molto naïf, che combinava pasticci e non capiva le cose per
ingenuità, non per cattiveria. L’utonto è in fondo tenero come sono
teneri certi anatroccoli spaesati appena usciti dall’uovo, anzi,
dall’ovetto di Twitter. Il webete invece fa molta meno tenerezza,
soprattutto al quarantesimo commento in cui cerchi di fargli
capire che la notizia che ha condiviso non è vera, ma è un post di
satira, e lui non se ne è accorto.
A quel punto scatta il LOL, anche detto lollone. Lollare significa
ridere a crepapelle, dall’acronimo L(augh) O(ut) L(oud), cioè
scoppio di risa. Il webete in genere non riconosce nemmeno
l’acronimo, o tira fuori la bufala che sia una parola inventata dai
satanisti americani (Lucifer Our Lord) e si infuria ancora di più,
mentre attorno si odono gli echi degli sghignazzi.
Croci e delizie dell’italiano scritto

Anche Dante sbagliava l’ortografia?

La scena si svolge in una classe delle medie, meglio se nelle


ultime ore della mattinata, per cui gli alunni, esausti, stanno quasi
zitti. La professoressa, approfittando dell’inaspettata calma, legge
con voce ispirata i versi di Dante: «Per me si va nella città dolente
/ per me si va nell’etterno dolore…»
«Prof!» La vocina del più attento della classe scatta con la
velocità del centometrista prossimo al traguardo o dell’animale
che ha fiutato la preda. «Ma non si scrive con due t!»
«Be’, sì, adesso si scrive eterno, con una t sola, ma ai tempi di
Dante l’ortografia non era ancora consolidata…»
Il più sveglio della classe non demorde: «Ma è un errore!»
sentenzia soddisfatto.
I ragazzini si riscuotono, bisbigliano fra loro, si danno di
gomito, sta quasi per partire la ola al grido di «Dante uno di noi!»,
perché l’idea che il riconosciuto padre della lingua italiana ogni
tanto cada in quei maledetti errori di ortografia che trasformano i
loro testi in un cimitero di croci e segnacci lo rende subito più
umano e simpatico, e abbatte la distanza fra lui e loro. Se pure
Dante sbagliava l’ortografia non è poi questo mostro sacro da
venerare.
Il fatto è che quando ci troviamo di fronte a uno scritto, la
prima cosa che guardiamo, per riflesso pavloviano, è l’ortografia.
Un romanzo, un racconto, persino una banale relazione di lavoro o
un curricolo che si presentino costellati di errori ispirano subito
nel lettore anche non coltissimo la voglia di cestinare senza
appello. Del resto, se uno non sa nemmeno come si scrivono le
singole parole, come diavolo può pretendere di scrivere delle frasi
sensate?
In realtà l’ortografia è una convenzione. Spesso è il tentativo,
non sempre facile e qualche volta non del tutto riuscito, di
rendere attraverso dei segni grafici, che sono le lettere, i suoni del
parlato. La prassi ortografica nasce dall’abitudine: una parola è
stata scritta per così tanto tempo o da così tanti in una certa
maniera che quella maniera viene accettata come il modo
“corretto” di scrivere la parola. Del resto tutto nella lingua
funziona così: l’uso alla fine la vince su tutto.
Molto spesso gli inghippi e gli errori ortografici nascono dal
fatto che i vocaboli vengono trascritti “a orecchio”.
Se un veneto decide di scrivere le parole italiane in base al
modo in cui lui le pronuncia, le doppie vengono di solito falcidiate:
avremo una marea di benedeto, afare, batuta, per tacere di
pultropo al posto di purtroppo e altri orrori. Un romano tenderà
invece a scrivere teribbile o machina. È lo stesso divertente
fenomeno che accade quando un italiano decide di scrivere in
inglese conoscendolo però in maniera approssimativa. Produrrà
dei mostri come fescion per fashion, o ficscion per fiction. Disastri
che per altro potrebbero essere evitati usando i nostrani moda e
sceneggiato, ma si sa che in Italia il termine straniero, persino se
errato, è considerato migliore del corrispondente italiano. Ho
detto alla moda? Scusate, dovevo dire cool.
L’ortografia italiana è frutto di secoli di compromessi: ci è
voluta la pazienza di Giobbe di generazioni di grammatici e di
editori per decidere con quante t o p andasse scritta una
determinata parola. Per rispetto dell’enorme fatica e del tempo
che i linguisti perdono per definire alcuni standard (le regole in
fondo servono a questo), quando si scrive è necessario rispettare
le convenzioni in uso. Altrimenti, soprattutto nel caso
dell’ortografia, non si appare trasgressivi e seducenti, ma
semplicemente inadeguati e inadatti al contesto in cui ci si vuole
muovere.

L’ortografia: piccole storie horror


Storie di accenti: non accentate quella lettera!
«Sono un uomo molto impegnato che fà tante cose» scrive
convinto in chat il tizio che aspira a colpire la fanciulla dall’altra
parte dello schermo. Ecco, fra le tante cose fatte, le scuole
elementari non devono essere contemplate. Se c’è una cosa che
internet ha reso difficile è millantare la preparazione che non si
ha. Noi donne siamo esigenti, soprattutto quando abbiamo un
minimo sindacale di cultura: tendiamo a riconoscere subito i
corteggiatori che affermano di avere alti titoli di studio, ma poi
cadono in banali erroracci. Gli aspiranti casanova di un tempo,
avevano, ammettiamolo, vita più facile, per lo meno dagli anni
Cinquanta in qua. Era infatti rarissimo che fossero costretti a
lasciare tracce scritte dei loro tentativi maldestri di seduzione.
Fino agli anni Novanta, in pratica, ci si parlava dal vivo, o ci si
telefonava, il che era un indubbio vantaggio per chi non aveva un
buon rapporto con l’ortografia. Se dici a una ragazza: «Stà con me
per sempre», lei non si può accorgere che hai pensato «sta» con
l’accento e non con l’apostrofo. Se lo scrivi in un messaggino su
WhatsApp sì, e il rischio di beccarsi un due di picche è dietro
l’angolo.
In italiano i casi in cui è obbligatorio scrivere l’accento non
sono nemmeno tanti, ma riusciamo a sbagliarli con ammirevole
frequenza.
Tanto per cominciare va sfatata una falsa credenza: tutte le
parole hanno un accento. L’accento, infatti, segnala la sillaba e la
vocale su cui la voce si appoggia per pronunciare la parola. Se
una parola non avesse accento, sarebbe impronunciabile.
Pensate ai versi di poesie o canzoni: suonano così bene alle
nostre orecchie proprio perché le parole sono scelte con accenti
adatti a creare il ritmo, e questo vale da Leopardi a Jovanotti,
passando per De André:
La donzellètta vièn dalla càmpagna / ìn sul calàr del sòle

La chiamàvano Bòcca di Ròsa / mettèva l’amòre sòpra ogni còsa

Casèlli d’autostràda tùtto il tèmpo si consùma / Ma Vénere riappàre sèmpre


frèsca dalla schiùma
L’accento ha bisogno di una vocale a cui appoggiarsi, perché le
lettere vocali sono quelle che hanno un suono proprio e
consentono un’emissione di voce. Infatti il nome vocale deriva dal
latino vocare, emettere suono con la voce, mentre consonante
deriva da consonare, suonare assieme, risuonare. Insomma, se
fossimo in un coro, le vocali sarebbero le soliste e le consonanti
farebbero da accompagnamento.
Vocali e consonanti formano sillabe, e la sillaba tonica (in greco
tonos vuol dire “accento”) è quella su cui l’accento si appoggia.
In italiano, tuttavia, e per nostra fortuna, non è necessario
scrivere l’accento su tutte le parole. Per gli stranieri che imparano
la nostra lingua è un incubo, perché non hanno spesso idea di
quale sia la pronuncia corretta, ma noi siamo un popolo pigro e
che tendenzialmente va a orecchio. Alle volte questo produce però
tremendi scivoloni: si sente dire anche da gente colta rùbrica al
posto di rubrìca, leccòrnia al posto di leccornìa, gratuìto al posto
di gratùito, e persino càlcare al posto di calcàre, nonostante
mezzo secolo di pubblicità martellanti sui detersivi per pulire il
bagno.
Se si hanno dei dubbi su dove cada l’accento in una parola, si
consulta il dizionario, che si chiama così perché non solo spiega il
significato della parola (il lemma), ma segnala anche dove cade
l’accento, ovvero spiega la dizione, cioè come la parola va
pronunciata.
In italiano è obbligatorio segnare l’accento solo sulle parole
tronche, ovvero quelle che terminano con la sillaba accentata,
come virtù, bontà, felicità, sarà, verrà, mangerà, dormirò. Va
inoltre segnato sui monosillabi che hanno però due vocali, per
chiarire su quale delle due la voce si debba appoggiare
pronunciandole: giù, già, ciò, più.
In quasi tutti gli altri casi l’accento non si deve mettere,
soprattutto perché è inutile. Prendiamo il caso di prima, ovvero
sta/sto. È un monosillabo con una sola vocale, quindi l’accento può
andare solo su quella lettera lì. Perché diavolo dovrei sprecare
inchiostro scrivendo stò o stà? O per scrivere fù e fà? Qua, su, tre,
re, blu, so, sa, qui, qua sono parole che possono essere
pronunciate solo in un modo, quindi non hanno bisogno di
accento. Non regalategliene uno, non saprebbero che cosa
farsene, come Carrie Bradshaw di un paio di scarpe non firmate.
Esistono monosillabi che devono essere accentati, ma solo
perché altrimenti potrebbero essere confusi con altre parole che
vengono scritte nella stessa maniera (si chiamano omografe).
I più dispettosi monosillabi da tenere sempre d’occhio sono e,
da, va, di.
E senza accento è congiunzione, e serve a unire due parole o
due frasi: «Ho preso pane e latte», «Sono uscito e ho incontrato
Mariella». Con l’accento è invece la terza persona singolare del
presente del verbo essere: «La cena è sul tavolo», «Carla è una
ragazza simpatica». Confondersi è un attimo, ma ricordate che un
trucco utile è sostituire la e che vi suscita dubbi con l’imperfetto
era. Posso dire infatti «la cena era sul tavolo», ma non «ho preso
pane era latte»; «sono uscito era ho incontrato Mariella». Se la
frase non ha più senso, la e è una semplice congiunzione e va
scritta senza accento.
Da senza accento è una preposizione semplice: «Sono andata
da Carlo», «Da Milano a qui sono tre ore». Quando invece volete
indicare la terza persona singolare del presente di dare dovete
usare l’accento: «Questo film mi dà grandi emozioni», «Enrico dà
lezioni di tango». Attenzione, però: esiste un terzo da: da’ con
l’apostrofo, che è la seconda persona dell’imperativo del verbo
dare, ovvero un dai che ha perso la i finale: «Da’ a Mariella i piatti
per apparecchiare», «Da’ un’occhiata ai bambini mentre giocano».
Anche di può essere uno e trino: esiste di preposizione
semplice, che si scrive senza accento e apostrofo: «Il quaderno di
Maria», «Di giorno e di notte fate sempre troppa confusione».
Esiste poi un dì accentato, che significa “giorno”: «Notte e dì»,
«La sera del dì di festa». Infine c’è un terzo di’ con l’apostrofo,
anche qui imperativo presente del verbo dire: «Di’ tutto quello che
sai!»
Va invece molto spesso si ritrova accentato senza motivo: è un
monosillabo e non ha omografi, quindi va scritto senza accento
quando è terza persona singolare del verbo andare: «Roberto va a
casa tardi stasera», «La fortuna va e viene». Deve essere invece
scritto con l’apostrofo quando è imperativo presente del verbo
andare: «Va’ a prendere Carlo alla stazione!»
Qua l’apostrofo segnala la perdita della i finale di vai.

preposizione indicativo imperativo


da da dà da’
va - va va’
di di - di’

Lo so, state pensando: «Questi lo fanno apposta a complicare le


cose!» e probabilmente avete anche ragione, perché non si può
escludere che una sottile vena di sadismo alberghi in chi decide di
occuparsi di grammatica. Però si possono vincere i grammatici
facilmente al loro stesso gioco capendo la logica delle regole. A
quel punto accenti e apostrofi non saranno più quelle robe che si
seminano a caso, ma, se non proprio degli amici, almeno dei
simpatici conoscenti che si frequentano senza troppi problemi.

Storie di apostrofi: il cartello TORNO SUBITO


Avete presente quando andate in un negozio, trovate la porta
chiusa e sulla vetrina un cartello con su scritto: TORNO SUBITO?
Bene, l’apostrofo in italiano funziona nello stesso modo.
Quando una lettera, o meglio, una vocale, se ne va a prendere un
caffè, siccome è una lettera educata, lascia un piccolo promemoria
al lettore: «Guarda, sono uscita un attimo, ma non ti preoccupare,
appena posso torno.»
Se quando scrivete vi dimenticate gli apostrofi, il vostro povero
lettore resta perplesso. È smarrito: non sa se deve restare lì ad
aspettare o la vocale se n’è andata per sempre e ciao. Peggio di
una puntata di Chi l’ha visto?.
Quando la vocale se ne va per un po’ ma poi ritorna, il
fenomeno si chiama elisione. Di solito le vocali spariscono
temporaneamente per motivi ben precisi e in casi ben
determinati: non è che vi piantano in asso senza un perché.
Tanto per cominciare, le vocali se ne vanno solo quando sono
alla fine della parola e dopo di loro c’è una parola che comincia
anch’essa per vocale. Si può dire sull’altalena ma non
nell’giardino, l’insalata ma non l’bistecca. Questo perché l’elisione
è un fenomeno nato per facilitare la pronuncia e la lettura delle
parole. Si può anche dire sulla altalena, per carità, ma il nostro
orecchio un po’ si schifa, e quindi mettiamo l’apostrofo per
chiarire che quelle due lettere a non vanno in realtà pronunciate e
ne resta una sola, quella di altalena. Quella di sulla si prende una
pausa e va a fare un giretto per i fatti suoi, ché ogni tanto due
minuti liberi sono una mano santa pure per le lettere dell’alfabeto.
I casi in cui le vocali si possono concedere una boccata d’aria
sono:

con gli articoli determinativi lo e la: l’albero e l’agenda, e


anche in tutti i casi in cui lo e la formano una preposizione
articolata: dell’albero, nell’agenda, all’artista. Attenzione,
però: l’articolo la può perdere la sua a solo al singolare, ma
l’articolo le non perde mai la e al plurale. Posso dire l’agenzia,
ma non l’agenzie. Lì devo scrivere le agenzie, le industrie. Per
il lo il problema del plurale nemmeno si pone, perché al
plurale lo fa gli, perciò in ogni caso non si elide;
l’aggettivo bello ci tiene a essere pronunciato bene, quindi di
fronte a vocale vuole suonare al meglio e perde la o. Si scrive
infatti bell’affare, bell’uomo;
anche con santo e santa c’è elisione. Si scrive infatti
Sant’Agostino e Sant’Agnese. Con l’apostrofo, mi
raccomando, oppure i santi che cominciano per vocale si
arrabbiano come se gli aveste tolto l’aureola;
con l’avverbio di luogo ci davanti alle voci del verbo essere:
c’è, c’erano, c’era. Attenzione, anche qua lo potete fare solo
quando il ci è un avverbio di luogo (ci era equivale a era qui).
Quando invece si tratta del pronome personale complemento
ci (come in ci ama, ci ha invitato), che quindi vuol dire “a
noi/noi”, non potete elidere mai. Del resto c’ama non si può
sentire: vi fareste odiare subito. Inoltre il ci non può essere
eliso davanti alla acca. C’ho non si può scrivere. La regola
infatti dice che il ci si elide solo con le vocali. La acca è una
vocale? No. Quindi c’ho, c’hanno non si scrive, o meritate di
venire colpiti con l’apostrofo stesso a mo’ di scudiscio;
in alcuni modi di dire e frasi fatte come tutt’al più,
quant’altro, senz’altro, nient’affatto, d’ora in poi,
quand’anche, d’altra parte e d’altronde. Sì, d’altronde si
scrive con l’apostrofo e non dal tronde, non esistendo la
parola «tronde» in italiano. Voi resterete magari stupiti che
esista invece la parola altronde. Eh, invece esiste, anche se
viene usata esclusivamente, in pratica, in questa locuzione.
Alle volte la lingua sembra bizzarra assai.

Non si possono elidere invece le vocali finali quando li e le sono


pronomi personali: le aspetto, li interpello. E se mai vi venisse in
mente, no, non si possono elidere mai le vocali finali degli avverbi
di luogo lì e là, perché si possono togliere, elidere e far sparire
solo le vocali non accentate. Quelle accentate devono restare dove
sono, perché abbiamo detto che l’accento segna il punto dove la
voce si appoggia, se glielo togliete la voce sbarella e casca tutto.
In tutti gli altri casi in cui avete una parola che finisce per
vocale e una che inizia per vocale sta a voi decidere. Potete
scrivere anch’egli o anche egli, lo ascoltò o l’ascoltò, un’arancia o
una arancia. È una questione di scelta stilistica, o anche di come
vi gira al momento. L’importante è che non dimentichiate di
mettere l’apostrofo nei casi in cui è obbligatorio, o il vostro povero
lettore è destinato a restare lì chiedendosi se la vocale tornerà, se
si è persa, se mai la rivedremo. Il che, per carità, può generare
una certa suspense, ma non è il caso di scatenare il panico a
vuoto, nemmeno se state scrivendo un thriller.

Storie di abbandoni: il troncamento, ovvero quando la vocale non


torna più
Avete presente invece quelle vecchie barzellette in cui il marito
dice serio serio alla moglie: «Esco un attimo a prendere le
sigarette?» e invece puffete, sparisce e non si fa rivedere mai più?
Ecco, in quel caso non siamo più in presenza di un’elisione, ma di
un troncamento. Il troncamento è proprio un divorzio: la vocale se
ne va e la povera parola, forse dopo un periodo di depressione da
abbandono, si rifà una nuova vita, autonoma e piena di
soddisfazioni.
Il troncamento più famoso con cui abbiamo a che fare è
l’articolo indeterminativo un. Alcuni credono che un sia una
elisione da uno e scrivono con l’apostrofo un’altro, un’orto
esattamente come al femminile si scrive un’opportunità. Ma nel
femminile un’opportunità è sparita momentaneamente la lettera a
davanti a un’altra vocale, mentre in un altro la vocale che un
tempo c’era se n’è andata per sempre e un è diventata una parola
indipendente. È un articolo dotato di vita propria, tanto è vero che
lo troviamo anche davanti a parole che iniziano per consonante,
come in un bagno, un piano, un ricciolo. Non sta ad aspettare che
la sua vocale perduta torni. Ha un’esistenza piena di soddisfazioni
ed esce con gente nuova, che prima non poteva frequentare. Non
ha bisogno di un apostrofo che gli ricordi la sua vita passata: ha
svoltato, come si dice.
Troncamenti sono buon da buono, san da santo, gran da
grande. Si dice infatti un buon uomo ma anche un buon pasto, san
Giovanni (mentre davanti a vocale bisogna usare sant’), gran
mangiata.
Uno dei troncamenti più famosi e complicati da gestire in
italiano è qual. Qual, fatevene una ragione, è una parola a sé. Non
ha bisogno di apostrofi perché non ha perso nessuna vocale
davanti alla vocale che segue. È proprio così e basta, e si scrive
uguale sia davanti a vocale (qual è) sia davanti a consonante (qual
buon vento ti porta?). Quindi no, non si può scrivere qual’è. Anche
se lo hanno fatto persino Pirandello in tempi più lontani e Saviano
in quelli più recenti. Risparmiamo dunque l’inchiostro
dell’apostrofo. Ci risparmieremo anche una brutta figura.

Il po’, ovvero quando il troncamento vuole l’apostrofo


Sì lo so, vi ho appena fatto una capa tanta dicendo che il
troncamento non vuole l’apostrofo, che la parola si rifà una vita e
ciao al passato. Però ci sono almeno tre casi di troncamenti
italiani dove l’apostrofo, invece, è d’obbligo, ed è meglio
conoscerli perché si tratta di parole che usiamo assai spesso,
quasi sempre sbagliando la grafia. Si tratta di po’, mo’ e be’.
I tre vocaboli sono accomunati da un trauma: non hanno perso
solo una vocale finale, ma un’intera sillaba. Tecnicamente questo
fenomeno si chiama anche apocope, ovvero «taglio» in greco. In
pratica un pezzo di parola è stato amputato, come una gamba o un
arto. Po’ deriva da poco, mo’ da modo e be’ da bene.
La tragedia li ha quasi annichiliti: sono rimasti dei poveri
monosillabi. Mentre gran, che deriva da grande, della perdita si è
fatto una ragione e vive beato senza apostrofo, i nostri tre non si
sanno dare pace. Infatti continuano a voler essere scritti con
l’apostrofo, come se sperassero ancora che la sillaba perduta torni
prima o poi da loro.
Dei tre, quello che lavora meno è mo’. Nell’italiano corrente
non si usa quasi più tranne che nella locuzione a mo’ di. Può
significare anche “ora”, “adesso”, e in quel caso può essere scritto
senza apostrofo o accento.
Po’ invece è uno stakanovista. Si infila dappertutto. Si può
volere un po’ di salsa, un po’ di sale, un po’ di fortuna, un po’ di
riposo e, nel nostro mondo caotico, non sarebbe male trovare alle
volte un po’ di pace. Purtroppo, da quando la tecnologia dei
cellulari ha inventato il correttore ortografico e il T9 la vita del po’
è diventata grama. Per qualche strano motivo, i telefonini di ogni
marca e fascia di prezzo hanno deciso che po’ si scrive pò,
mandando il povero monosillabo, già tanto provato dalla vita, in
crisi di identità. Con tutto il rispetto per le tecnologie innovative,
po’ si scrive solo con l’apostrofo. Il T9 in italiano con simili errori
può aspirare al massimo a un cinque meno.
Il be’ è un termine molto usato, soprattutto nel parlato. I
problemi sorgono quando bisogna passare allo scritto. Qui scatena
tempeste di dubbi: si scrive be’, bè o beh? La forma più corretta
resta be’. Beh però è accettabile perché è una esclamazione al
pari di mah e boh, mentre del tutto assurda è la variante bhé, bhe
con un’acca calata in mezzo per qualche incomprensibile motivo.
Bè, invece, non è nemmeno il verso delle pecore. Deve essere un
altro parto infelice del T9 o di un seminatore seriale di segni
diacritici che sparge a caso accenti su tutti i monosillabi che
incrocia. Ognuno ha i propri passatempi, del resto.

Storia di una lettera fantasma: la acca


La acca, maledetta lei. Generazioni di italiani per causa sua
piangono sui banchi delle elementari calde lacrime. Anzi, per
essere precisi, persino per piangere calde lacrime sui banchi
hanno bisogno prima di capire come funziona questo segno
malignissimo. Altrimenti finiscono per piangere calde lacrime sui
banci.
L’acca è come l’acqua nel bicchiere o l’aria. Quelle non si
vedono, l’acca, invece, non si sente. È una lettera muta. Per gli
italiani che sono abituati a pronunciare tutte le lettere, l’acca è
uno choc.
È una lettera che ha alle spalle una storia complicata,
avvincente e persino poetica. I linguisti la indicano con il nome di
fricativa glottidale, che è un nome orribile per indicare però
un’azione graziosa: il soffio di aria che uscendo dalla laringe fa
vibrare come le ali di una farfalla la glottide. L’acca è questo: un
sospiro, un fremito, un alito leggero.
Ecco, forse troppo leggero. Fin dai tempi del latino la acca si
sentiva pochissimo, anzi quasi per nulla, e quindi scomparve nel
volgare italiano, soprattutto se si trovava all’inizio della parola. Fu
introdotta invece per indicare i suoni ch e gh, cioè la k e la g dura.
Nel latino classico, cioè quello che si parlava ai tempi d’oro di
Roma, nell’età di Cicerone e Cesare, la c e la g avevano sempre un
suono duro (erano anche poco distinte fra loro, tanto è vero che
Caius Iulius Caesar poteva essere chiamato indifferentemente
Caius o Gaius). Non esisteva il suono di c e g dolce: quello, per
capirci, che usiamo quando pronunciamo ciao e gioco.
Invece in italiano la c e g dolci esistevano, quindi era
necessario trovare il modo di segnalare quando le due lettere
rimanevano dure, anzi durissime. Pian piano si impose allora
l’abitudine di affiancare al segno c la h quando dopo c’erano una i
o una e. Quindi si decise di scrivere che, chela, chiesa, Chianti.
Anche la g seguita da h è una g dura, come in gheriglio, ghirigoro,
ghiro, ghianda. Davanti alla lettera a invece né la g né la c hanno
bisogno dell’acca, perché sono sempre e soltanto dure, come in
gatto e casa.
L’acca iniziale di parola ancora veniva usata ai tempi di Dante e
di Petrarca (homo, honore, honorato), ma forse più per
“nobilitare” le parole ricordandone la grafia latina che per
segnalare un’aspirazione realmente presente nella pronuncia.
Sparì lentamente nel corso del tempo, dato che era del tutto
inutile. Visto che la acca era una aspirazione, si decise molto
semplicemente che era fiato sprecato. La si mantenne però in
alcune voci del verbo avere: ho, ha, hai e hanno, che rischiavano
di creare problemi di comprensione al lettore, perché sarebbero
state scritte in maniera uguale alle preposizioni o, a, ai, o al nome
anno.
Molti italiani a secoli di distanza continuano a non capire
quando si debba usare l’acca e quando no e i temi scolastici dei
ragazzini, ma anche testi scritti da insospettabili professionisti,
riportano frasi del tipo: «Lo chiedo hai diretti interessati», «Non
sapevo se scrivere ho chiamare», oppure: «Ai preso il prosciutto
per cena?», «Ti o chiamato prima ma non rispondevi».
Per evitare gli strafalcioni, le vecchie maestre delle elementari
suggerivano agli alunni questo trucco: sostituire con l’imperfetto
le forme che al presente suscitano dubbi, cioè ai, a, anno. Se la
frase fila (es: quanti anni ai/hai > quanti anni avevi?) allora si
tratta di una forma del verbo avere e si scrive con l’acca; se
invece la frase diviene incomprensibile (Dico questo a/ha te >
Dico questo aveva te) allora la parola non è un verbo e va scritta
senza acca. Ma da quello che si legge in giro, moltissimi devono
aver avuto maestre elementari più moderne ma anche più
distratte.
Tuttavia all’acca siamo affezionati. Nel 1911 al Congresso della
Società Ortografica Italiana si propose l’idea di sostituire l’acca
iniziale del verbo avere con l’accento, cioè scrivere ò, à, ànno con
l’accento al posto di ho, ha e hanno. Alcuni libri delle elementari a
cavallo fra le due guerre mondiali caldeggiarono questa nuova
grafia, che però non riscosse gran successo. La sostituzione
dell’acca con vocali accentate fu adottata da Valentino Bompiani
nel 1947 nel suo monumentale Dizionario delle opere e dei
personaggi, ma per un motivo economico: in un periodo difficile
come quello del secondo dopoguerra, qualunque stratagemma
consentisse di risparmiare un po’ di carta e inchiostro era
apprezzato. Si dice che con questo e altri piccoli accorgimenti sia
riuscito a ridurre l’opera di un intero volume. O almeno così
sosteneva Umberto Eco, che pare si sia preso la briga di calcolare
l’impatto globale di queste scelte editoriali sull’opera.
Gli italiani, tuttavia, si rivelarono insospettabilmente attaccati
all’acca e ritennero che fosse un lusso che potevano continuare a
concedersi. Continuarono a usarla, perché il cuore ha delle
ragioni che la ragione ignora, e qualche volta anche l’ortografia si
fa convincere dal sentimento.
L’acca restò quindi davanti alle forme del verbo avere.
Probabilmente, per quanto muta, si tolse lo sfizio di commentare
la vittoria con un solennissimo: «Tiè!» Senza acca, ma con
immensa soddisfazione.

La punteggiatura, i segni del destino

Apro una parentesi: i deliri della punteggiatura


Fra i misteri italiani, la punteggiatura se la gioca alla pari con i
grandi enigmi della storia repubblicana, e qualche volta li batte.
Per la maggioranza delle persone risulta più semplice risolvere il
cubo di Rubik che capire dove diavolo vada messa la virgola in
una frase. I più optano per una soluzione casuale, cioè seminano i
segni di punteggiatura come petali di rose: dove cascano, cascano
e amen.
In realtà la punteggiatura serve a chiarire come si articola il
pensiero dell’autore ed è in parte così astrusa perché entro certi
limiti è soggettiva.
Alcuni scrittori violano tutte le regole note della punteggiatura
e sono lo stesso riconosciuti come grandi, ma è lo stesso principio
per cui Picasso può dipingere corpi pieni di spigoli senza venire
definito un pessimo pittore. Le regole si possono violare, in
letteratura come in tutte le altre arti, ma è necessario che la
violazione sia consapevole e ragionata, frutto di una scelta
espressiva, non un caso dovuto all’ignoranza della regola stessa.
La punteggiatura aiuta il lettore a interpretare il flusso dei
pensieri dell’autore e a capire con che ritmo quei pensieri vadano
letti. Si pensa sempre che la punteggiatura abbia la funzione di
spezzare le frasi, ma in realtà serve da collante e da connessione
fra le varie frasi e all’interno della frase stessa.
Siccome la sua funzione è quella di una torcia che illumina il
cammino del lettore, i flussi di coscienza che si spandono per
pagine e pagine è meglio lasciarli a Joyce o a Giuseppe Berto nel
Male oscuro, o limitarli alle pagine di narrativa. Ma anche lì vanno
usati con maestria e moderazione. Se non state scrivendo
un’opera letteraria, ma una semplice lettera di reclamo al sindaco
perché vi spostino da davanti casa un cassonetto della spazzatura,
per piacere, usate i punti e le virgole. Lo scrivente ve ne sarà
grato e magari sposterà davvero il cassonetto.
La punteggiatura fu inventata proprio perché alcuni
manoscritti antichi erano scritti tutti di seguito, senza una pausa o
un segno che indicasse le separazioni delle frasi e dei periodi, e
risultavano così impossibili da leggere per le persone comuni. La
punteggiatura è stata quindi un grande progresso democratico
nella storia dell’umanità. Servitevene, è un piccolo strumento per
evitare di ricadere nella barbarie.

Il punto e i suoi fratelli


L’uso del punto fermo è intuitivo: lo si mette quando si è finito
di dire qualcosa, e cioè quando si termina una frase. Difficilmente
le persone quando scrivono sbagliano nel decidere dove mettere il
punto. Spesso però lo usano troppo poco. C’è questa bizzarra idea,
molto italiana, che chi sa scrivere bene debba usare periodi
lunghi, infiniti, alle volte eterni. Avete presente Totò e Peppino,
nella famosa scena in cui scrivono la lettera? Per molti “scrivere”
significa quella roba là: affastellare, cioè accumulare alla rinfusa,
una selva di frasi subordinate e coordinate, di incisi, di parentesi.
Come in tutte le selve, alla fine il malcapitato ci si perde. Il punto,
usato con intelligenza, può evitare di farci finire come Hänsel e
Gretel, smarriti nel bosco del periodo.
Non è vero che i grandi scrittori sono tali perché usano frasi
lunghe e complesse. Il grande scrittore è grande perché sa
esattamente in ogni momento quale sia la frase più adatta da
comporre per comunicare con precisione quello che intende dire.
Se gli serve una ampia e lenta descrizione, allora potrà usare
periodi lunghi e complicati, densi di subordinate. Se sta
descrivendo una veloce scena di azione, sceglierà frasi smilze e
incisive. È un grande scrittore Proust che riesce a scrivere periodi
lunghi anche una pagina intera, ma è altrettanto grande, ed
elegantemente classico, Giulio Cesare, che riassume tutte le sue
grandi conquiste in un lapidario «veni, vidi, vici» («venni, vidi,
vinsi»). Due virgole e un punto che ribaltarono la storia di Roma
antica.
Il punto si usa alla fine di una frase o di un periodo o di un
paragrafo, per indicare che abbiamo finito una parte di testo in
cui si trattava di un certo argomento. È un segno di punteggiatura
freddo e calmo. Serve per indicare un tono di voce oggettivo e
distaccato, una pacata descrizione della realtà. Se scrivo: «Oggi
piove.», sto prendendo semplicemente atto di un dato di fatto, non
esprimendo un giudizio o maledicendo il maltempo che mi rovina
la gita.
Il punto semplice ha due fratelli, che hanno caratteri diversi e
opposti.
Il punto interrogativo è il fratello pieno di dubbi. Va usato
quando la frase è una domanda: «Vuoi prendere un caffè?», «Hai
letto l’ultimo messaggio in chat?».
La sua forma a gancio deriva dalla abitudine nei manoscritti
medievali di mettere all’inizio delle domande una Q, che stava per
quaeso, domando, chiedo. Gli spagnoli ancora adesso usano
mettere il punto interrogativo sia all’inizio che alla fine della
frase, mentre noi solo alla fine. Confidiamo che l’istinto del lettore
gli faccia capire immediatamente che si tratta di una domanda.
Siamo italiani, del resto, l’intuito è una nostra virtù.
Il punto esclamativo è il personaggio più drammatico ed
estroverso della famiglia, con una tendenza marcata a fare la
primadonna. Se scrivo: «Oggi piove!», il punto esclamativo indica
che ho pronunciato la frase a voce alta, e caricandola di una
buona dose di emozione. Sto rammaricandomi per l’acquazzone,
oppure è un’esclamazione di sollievo, perché magari da mesi
imperversa la siccità, ma di certo non sono obiettivo.
Per questo motivo il punto esclamativo va usato con
moderazione e solo quando è strettamente necessario. Sui social
spesso ogni singola affermazione è seguita da un nugolo di punti
esclamativi, che diventano una specie di nube tossica. È come
quando si va al mercato rionale e tutti i venditori urlano dalle
bancarelle per magnificare la loro merce. Alla fine c’è talmente
tanta confusione che nessuno li ascolta. Per questo motivo è
meglio evitare di usare troppo il punto esclamativo. Se scrivete un
periodo in cui ogni frase termina con lui non state parlando, state
facendo un proclama dal balcone di piazza Venezia, e si sa che chi
amava fare questo tipo di discorsi è finito male.
È assolutamente inutile tempestare con uno, due, tre punti
esclamativi la fine di ogni frase. Chi vi legge ha già capito che
state urlando, volete proprio rompergli metaforicamente i
timpani? Fra l’altro, l’algoritmo di Google odia i troppi punti
esclamativi e anche i titoli in maiuscolo. Se scrivete un post sul
vostro blog o sui social e il titolo lo mettete in maiuscolo con una
fila di punti esclamativi alla fine (e magari anche la chiosa FATE
GIRATE, È IMPO!!!!!), i motori di ricerca fiutano la bufala e vi
penalizzano nella visibilità. Quindi siate educati, persino gli
algoritmi vi apprezzeranno di più.
In rari casi i punti interrogativi ed esclamativi vanno a
braccetto. Nei fumetti spesso si usa metterli assieme alla fine di
un’esclamazione per sottolineare come la sorpresa per la
castroneria detta sia enorme: «Ha detto davvero così?!»
Se invece vengono messi da soli e tra parentesi indicano una
presa di posizione su quanto viene affermato da parte del
redattore del testo, che è dubbioso o perplesso o spiazzato: «Dice
che Manzoni è un pessimo scrittore (!) e che i suoi personaggi non
hanno spessore (?).»
Questi ultimi due usi sono però da considerare limitati a
contesti di comunicazione non ufficiale o familiare. Se state
scrivendo un testo ironico, uno status sulla vostra pagina
Facebook, un post sul vostro blog o un fumetto vanno bene, ma
per un saggio serio è meglio evitare. In quei casi se non siete
d’accordo con quanto affermato è meglio motivare
dettagliatamente e pacatamente le vostre posizioni. Un punto
esclamativo o interrogativo gettati lì sono lapidari e d’effetto, ma
rischiano di essere anche superficiali. Il fatto che voi consideriate
alcune affermazioni ridicole non è sufficiente perché l’intero
mondo le ritenga da quel momento in poi infondate.

La virgola, un’amica discreta


La virgola è l’attimo che fugge, il momento in cui la voce si
ferma per prendere fiato. È una pausa che è però anche un ponte:
lega due concetti o due frasi. È anche un segno diacritico molto
pietoso e comprensivo verso gli altri. Serve a indicare che
leggendo si deve fare una piccola pausa fra un pezzo e l’altro.
Anche se non sembra, è un momento fondamentale e necessario.
Se non ne mettete mai una, alla fine del vostro periodo forse
sarete riusciti lo stesso a spiegare il concetto che vi interessa, ma
avrete sulla coscienza un lettore morto di apnea. Non disprezzate
quindi la virgola, aiuta a salvare delle vite.
La virgola si usa di regola quando si fa una lista: «Sono andato
al mercato e ho comprato pane, latte, zucchero.» Se state
compilando la vostra lista su un post-it da lasciare attaccato alla
porta del frigo, lì è concesso saltare le virgole. Se mettere le
virgole anche nei post-it attaccati al frigo, siete probabilmente un
accademico della Crusca.
Altro caso in cui è obbligatorio usare la virgola è dopo il nome
di qualcuno che viene chiamato o evocato: «Mario, passami il
sale!», «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
In questo caso Mario e Dio non sono il soggetto della frase,
perché il soggetto è il tu individuato dal verbo, ma un
complemento di vocazione, che indica il nome della persona
chiamata (vocare in latino significa “chiamare”, appunto), e
siccome dopo il nome viene fatta una pausa (Mario || passami il
sale!) la virgola la segnala.
Non è il caso di usare la virgola per separare invece il soggetto
dal suo verbo o il verbo dal suo complemento oggetto. Se scrivete
frasi come: «Mario, va a scuola» o «Dio ha creato, il mondo»
l’accademico della Crusca di cui parlavamo sopra (quello che
mette le virgole anche nei post-it) viene a casa vostra di persona
per bacchettarvi le dita.
La virgola fra soggetto e verbo può essere accettabile solo nei
casi in cui il soggetto nella frase sia in una posizione “insolita”,
cioè dopo il verbo per esempio, e l’intenzione sia quella di
sottolinearlo, separandolo dal resto della frase: «È proprio umano,
lei!», «Ma Mariella, l’ha poi cucinato il pollo?». Questi casi
particolari vengono chiamati dai linguisti dislocazioni o
focalizzazioni e servono a introdurre una pausa per enfatizzare un
termine che l’autore sente come fondamentale (in questo caso lei
e Mariella).
Le virgole sono anche usate per separare le frasi all’interno del
periodo. Di regola andrebbero messe prima di una coordinata
avversativa (quelle frasi che iniziano con ma, tuttavia, però,
invece) per indicare una pausa piccola prima che il discorso
subisca una sterzata nella direzione opposta a quella in cui
andava prima: «Ti ho cercato a casa, ma non c’eri», «Non ho finito
ancora il libro, tuttavia le pagine lette mi piacciono», «Sono molto
stanco, però voglio andare a correre lo stesso».
La virgola in questi casi è un attimo di suspense che serve
molto ai giallisti: «Sembrava che il colpevole fosse John, invece è
Charles.» Sherlock Holmes deve molto alle virgole.
Le virgole possono anche essere usate in coppia, come le
parentesi, per indicare una frase che in teoria può essere tolta dal
testo senza che questo soffra particolarmente. Queste frasi si
chiamano incisi: «Questo, come vedi, è lo stato dei fatti», «Questa
casa, se proprio lo vuoi sapere, sarà messa in vendita presto»,
«Non è questo, a mio modesto avviso, il modo di parlare a tua
madre».
Le virgole, anche se non sembra, sono piccole ma sensibili e
alle volte possono diventare molto dispettose. Non abbandonatele
in mezzo ai periodi e non lasciatele da sole a vagare per le vostre
frasi. Si possono vendicare in maniere terribili e impreviste. La
frase: «Vengo a mangiare, nonna!» vi dipinge come premuroso
nipote che va a visitare una parente anziana. La stessa frase senza
virgola: «Vengo a mangiare nonna!» vi indica invece come un
pericoloso cannibale epigono di Hannibal Lecter.
Quindi occhio alle virgole, se non volete passare per
sterminatori di vecchiette.

Il punto e virgola
Di tutti i segni di interpunzione, il punto e virgola è quello che
lascia più spiazzati. In effetti il suo uso è talmente personale che
alcuni possono passare una vita a scrivere senza usarlo
praticamente mai. Pare uno di quegli strani aggeggi che ti ritrovi
in casa e non sai bene come utilizzare: quando lo hai visto
reclamizzato in una televendita hai pensato che dovevi
assolutamente averlo, ma una volta a casa non sai cosa fartene di
preciso.
Per capire esattamente come vada usato, è necessario pensare
alla pagina scritta come a un pentagramma. Come sullo spartito ci
sono note e pause, perché nella musica è necessario che ci siano
dei momenti di silenzio, anche quando si scrive i punti, le virgole e
gli altri segni di punteggiatura servono a segnalare i momenti in
cui ci si deve fermare o rallentare un po’. I musicisti, quando
devono fare le pause, contano.
Anche con la punteggiatura possiamo utilizzare lo stesso
metodo empirico. Il punto è una pausa lunga. Se è un punto-e-
basta, quello che mettiamo alla fine di un paragrafo o di un
capitolo, diciamo che dopo di lui contiamo fino a quattro prima di
ricominciare a leggere. Il punto che invece separa le frasi nel
mezzo di un paragrafo dovrebbe essere giusto giusto un pochino
più breve, quindi diciamo che dopo di lui contiamo fino a tre. La
virgola vale uno, perché abbiamo visto sopra che è solo una
piccola pausa fra due parole o frasi. Il nostro punto e virgola sta in
mezzo. In pratica è più lungo di una virgola ma più breve di un
punto. Diciamo che è una pausa in cui si conta fino a due e poi si
ricomincia.
Il punto e virgola sguazza nei periodi medio lunghi e lunghi. È
lì che dà il meglio di sé. Nell’Ottocento godeva di grande rispetto
e veniva usato da autori che erano dei virtuosi della
punteggiatura. Manzoni, per esempio, è un puntoevirgolista
provetto, e agli amanti della punteggiatura I promessi sposi
regala estasi di goduria:
Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la
giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente
aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la
mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l’indomani
sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte
angosciose.

I promessi sposi, capitolo II

Oggi si preferiscono periodi più smilzi e veloci, per cui spesso il


punto e virgola non riscuote più il successo di un tempo, tanto che
molti ne pronosticano l’estinzione. Restano due casi in cui è
obbligatorio usarlo. Il primo caso è quello in cui scrivo un elenco
puntato di cose da fare. In quel caso, alla fine di ogni voce
dell’elenco devo mettere un punto e virgola, e solo all’ultima voce,
quando concludo l’elenco, devo mettere il punto.
Esempio:
Domani devo:
1. comprare il latte;
2. ritirare le camicie in lavanderia;
3. portare Fuffy a farsi tosare.

L’altro caso in cui il punto e virgola è fondamentale nel mondo


di oggi è quando voglio usare l’emoticon con la faccina che fa
l’occhiolino, che si fa così: ;)
È vero che negli ultimi tempi le emoticon fatte con la
punteggiatura vengono sempre più sostituite da veri e proprio
disegnini, quindi chissà se il nostro povero segno di punteggiatura
riuscirà a sopravvivere a lungo. Noi amanti della prosa
manzoniana e delle chat vecchio stile ci auguriamo di sì.

I due punti e le virgolette, ovvero la coppia affiatata della


punteggiatura
Per il 20 febbraio, domenica, Sant’Eleuterio, i Balducci lo avevano invitato a
pranzo: «Alle tredici e mezzo, se le è comodo.»

C.E. GADDA, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, capitolo 1

I due punti e le virgolette sono una coppia collaudata e


vincente. Ogni volta che c’è un discorso diretto da riportare, loro
sono lì, come i più smagati reporter vecchio stile, quelli con la
sigaretta in bocca e il cappello floscio di certi film in bianco e
nero. Tutti i discorsi diretti dei grandi romanzi, della letteratura,
dei poemi, ma anche dei film, tutte quelle meravigliose battute
che ci hanno fatto commuovere e piangere o ridere a crepapelle
dipendono da loro, dalla premiata coppia. Due punti, virgolette, e
via, il dialogo è servito. Nel testo sono il segnale che quanto viene
riportato di seguito è una registrazione in presa diretta delle
parole che sono state pronunciate dai personaggi. Quando ancora
non esistevano registratori e mp3, due punti e virgolette già
consentivano a tutti di poter ascoltare la viva voce dei
protagonisti di una storia.
Come in tutte le coppie affiatate, l’unione dura perché ognuno
dei coniugi ha anche una vita per conto suo, in cui coltiva i suoi
interessi personali. Così i due punti, oltre ai discorsi diretti,
possono introdurre anche liste di ogni tipo («Ricordarsi di
comprare: pane, latte, zucchero») o spiegazioni di punti del
discorso («Questo devi ben tenere a mente: che nulla nella vita ti
viene mai regalato»), oppure esempi («Per esempio: “tavolo” è un
nome maschile singolare») o ancora una conseguenza logica di
una azione («Schiaccia il pulsante: il cellulare si accenderà»).
Anche le virgolette hanno un’esistenza piena di impegni. Ce ne
sono di vari tipi. Scrivendo con la penna usiamo quasi tutti
sempre, per praticità di scrittura, le virgolette a doppio apice o
inglesi (“queste”). Nella stragrande maggioranza dei libri
stampati in Europa continentale troviamo le virgolette uncinate o
caporali («queste») per introdurre i discorsi diretti e le citazioni
(pochi usano, per i discorsi diretti, i trattini come questo: –);
mentre le virgolette a doppio apice sono riservate a indicare le
parole che vanno “prese con le pinze”, come abbiamo appena
fatto, e cioè con una sfumatura scherzosa, ironica, polemica, e
insomma da non prendere alla lettera: «Il tuo concetto di
“democrazia” è abbastanza curioso.»
Ma poiché ormai tutti noi usiamo per scrivere dei programmi
progettati nell’area linguistica anglosassone (Usa, Regno Unito),
dove citazioni e discorsi diretti si introducono usualmente con le
virgolette a doppio apice, nella pratica quotidiana queste stanno
soppiantando le virgolette uncinate. Se ci pensate, le uncinate non
ci sono nemmeno nella tastiera. Quello che in nessun caso dovete
fare, però, è usare al posto delle virgolette uncinate il doppio
segno di maggiore di e minore di: <<così>>. È una cosa di una
bruttezza imperdonabile.
Ci sono alcuni che addirittura mimano le virgolette quando
parlano in pubblico, disegnandole nell’aria con le mani. Non che
sia vietato, ma è una abitudine molto buffa. Per quanto si possa
essere amanti della punteggiatura, alle volte bisogna avere il buon
senso di lasciarla solo sul foglio di carta e non trasportarla nella
realtà.

I puntini di sospensione
Sono una specie di epidemia. Un morbo che si diffonde e
attacca anche chi pensavi ne fosse immune. Diplomati, laureati,
gente che ha passato anni e anni nelle aule scolastiche e quindi
dovrebbe avere ben chiari i fondamentali per scrivere un testo.
Invece no: riempiono i loro scritti di puntini di sospensione al
posto di punti o virgole.
I puntini di sospensione, in italiano, si usano quando si vuole
lasciare intendere che una lista o un discorso continuano, o
meglio potrebbero ancora continuare a lungo, ma l’autore prova
un moto di pietà nei confronti dell’uditorio, e mette quindi i
puntini per indicare che lascia il resto all’immaginazione del
lettore.
«Ho comprato ieri pane, latte, verdure, carne, yogurt…» e qua
pietosamente si tace sulle altre decine di cose che sono finite nel
nostro carrello dopo il consueto giro al supermercato.
Altra funzione dei puntini di sospensione è appunto sospendere
il racconto tenendo il lettore sul filo. Sono una specie di cartello to
be continued che viene lasciato alla fine di una frase, di un
periodo, o magari anche di un racconto o di un capitolo di
romanzo, per far intendere al lettore che si tratta di un finale
aperto, che qualcosa potrebbe ancora succedere se voltasse la
pagina, o che comunque la faccenda non è finita e può riservare
altre sorprese.
«Eh, se ne potrebbero ancora dire di cose…»
Ecco, questi sono i casi in cui si è autorizzati a usare i puntini
di sospensione. Invece l’Italia è invasa da una marea di puntini di
sospensione incomprensibili. Anzi, ci sono proprio delle tipologie
specifiche di seminatori di puntini:

Il puntinatore avaro. I puntini di sospensione sono


rigorosamente tre. Ma lui ne mette due. Non si è mai capito
se il terzo lo abbia perso in giro o lo nasconda in casa per
affrontare momenti di emergenza in cui si trovi senza un
punto-a-capo.

Il puntinatore prodigo. Ne mette quattro, o anche cinque, o


sei, o una fila intera, tanto che quando leggi non capisci se
abbia messo volontariamente i puntini o il tasto gli si sia
bloccato mentre scriveva, e lui sia rimasto lì a urlare in preda
al panico, chiamando in soccorso qualche tipo di polizia
grammaticale.
Il puntinatore compulsivo. I suoi testi sono semplicemente
una scusa per seminare puntini. Li usa per tutto, tanto che
abolisce qualsiasi altro segno di punteggiatura. Non esistono
per lui più virgole, punti, due punti. Esiste solo un mare di
puntini in cui lui naufraga, ma soprattutto fa naufragare il
lettore. Senza salvagente.

Se vi riconoscete in qualcuna di queste tre tipologie, tranquilli.


Si può smettere. Basta pronunciare a voce alta per un ragionevole
numero di giorni: «I puntini sono tre e non si usano al posto del
resto della punteggiatura.» È una specie di mantra. Attenzione:
perché funzioni va ripetuto ancora, ancora e ancora…

La grammatica non serve a nulla

La gente spesso è convinta che imparare la grammatica non


serva assolutamente a nulla e che le ore di grammatica a scuola
siano state inserite solo per riuscire a dare uno stipendio a
centinaia di laureati in lettere che altrimenti, per campare,
sarebbero stati costretti a brucare l’erba nei parchi pubblici.
Il loro ragionamento sembra logico. Quando si arriva a scuola
non si sa scrivere e contare, e quindi c’è bisogno di imparare a
farlo, ma, santi numi, tutti sappiamo già parlare l’italiano.
Formuliamo frasi di senso compiuto, capiamo quelle che ci
vengono rivolte, sappiamo raccontare cosa ci succede, ci è
successo o prevediamo che ci possa succedere. I nostri antenati
sono sopravvissuti benissimo per secoli senza distinguere un
participio da un gerundio, un nome da un aggettivo, e per capire
come mettere assieme frasi più complesse tutta questa analisi
teorica non serve: basta ascoltare gli altri e imitarli.
Il problema delle lingue materne è che tutti sono convinti di
saperle parlare naturalmente, o almeno di saperle parlare
abbastanza bene senza bisogno di doverci riflettere sopra. Mica
vero.
Abbiamo detto che la lingua è un po’ come i mattoncini Lego.
Ora, tutti noi, quando ci regalano le prime scatole di Lego da
piccoli, quelle con i mattoncini grossi grossi e colorati, siamo
capaci di tirare su un muro o costruire un cubetto che con un po’
di fantasia può sembrare una piccola casa. Non abbiamo bisogno
di guardare le istruzioni, perché l’assemblaggio è intuitivo.
Tuttavia, man mano che diventiamo più grandi, ci regalano delle
confezioni che servono a costruire cose più complesse: una villa,
un condominio, la fattoria in campagna, la fabbrica, l’autofficina,
l’astronave di Star Wars… Quando uno apre la scatola si ritrova
davanti decine di pezzi di forme e colori diversi, ognuno con una
sua funzione precisa e un posto prestabilito. Se non vengono
messi nell’ordine giusto, invece della Morte Nera ci viene fuori un
accrocchio che sembra un cassonetto della spazzatura mal
riuscito. Non si può andare a naso, o non si riesce a combinare più
nulla.
Ecco, con la lingua è la stessa cosa. Finché siamo piccini e
dobbiamo usarla per dire cose semplici, possiamo costruire le
frasi imitando quelle che abbiamo già sentito attorno a noi, senza
quasi pensare. «Voglio la pappa!» è un concetto elementare e
intuitivo da esprimere, infatti ci riesce benissimo anche un duenne
affamato. Ma quando cresciamo i concetti diventano più
complessi, difficili, sfumati. È impossibile spiegare con poche frasi
elementari argomenti complicati come gli scenari internazionali,
le motivazioni che portano allo scoppio di una guerra, le crisi
economiche o le grandi svolte positive delle civiltà, o anche solo
convincere il principale a darci un aumento. Altrettanto
difficoltoso è raccontare i propri stati d’animo, i propri desideri, le
proprie speranze, le proprie paure. Le frasi vanno pensate bene,
spesso a lungo, costruite con pazienza, perché devono essere
precise come frecce lanciate per colpire il bersaglio.
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
CATULLO, 85

[Ti odio e ti amo. Com’è possibile, ti chiederai.


Non lo so. Ma succede, e mi torturo.]

Ecco, per scrivere questi due versi Catullo, poeta romano, ha


probabilmente sudato sette tuniche. Gli ci sono voluti anni di studi
di grammatica, di retorica e di metrica per riuscire a mettere le
parole nell’ordine giusto e sintetizzare in questo meraviglioso
flash tutte le contraddizioni di un amore travagliato, disperato,
assoluto e funesto. Ha scritto però qualcosa che a più di duemila
anni di distanza è ancora insuperabile, perché fotografa
perfettamente la condizione umana: un sentimento che abbiamo
provato tutti noi.
A cosa serve la grammatica? A questo: a raccontare ciò che
siamo.

Morfologia e sintassi, i due cavalieri dell’apocalisse

Vi ricordate il film Il mio grosso, grasso matrimonio greco? Il


padre della protagonista era un signore bonario ma fissato. Da ex
immigrato discriminato, per rivalsa asfissiava tutti i boriosi
americani di origine anglosassone che gli capitavano a tiro
affermando che ogni parola colta deriva dal greco, perché la
Grecia ha inventato tutto con almeno duemila anni di anticipo sul
resto delle civiltà occidentali.
In effetti i Greci hanno fondato quasi tutte le scienze e le arti.
Senza di loro non avremmo la matematica, la filosofia, la biologia,
la geometria, l’architettura, la politica. Erano un popolo ordinato e
soprattutto animato da una specie di furore classificatorio: anche
quello che non inventavano o scoprivano dovevano metterlo in
ordine e incasellarlo, per poterlo poi usare in maniera razionale.
Quindi hanno creato anche quasi tutta la terminologia specifica
che ancora adesso, a millenni di distanza, usiamo. Ovviamente
non potevano perdere l’occasione di mettere in ordine e
classificare anche la lingua. Sono loro gli inventori della
grammatica.
Tà gràmmata in greco sono le lettere dell’alfabeto, perché
grapho significa “scrivere”. La grammatica è infatti l’insieme delle
regole che consentono di scrivere correttamente. Si divide in due
grandi categorie: la morfologia e la sintassi.
Scrivere correttamente è una specie di battaglia all’ultimo
sangue, che richiede ordine, precisione e una determinazione
notevole. Prendendo a modello l’organizzazione militare,
potremmo dire che la morfologia è quella parte che si occupa di
tutto ciò che riguarda la forma delle singole parole (morphé in
greco vuol dire “forma”), ovvero i soldatini della grammatica.
Come il generale sa riconoscere i suoi uomini in base alla loro
uniforme o al tipo di arma in dotazione, così il grammatico a colpo
sicuro capisce se le parole che si trova di fronte sono articoli,
nomi, verbi, aggettivi, pronomi, avverbi, preposizioni,
congiunzioni. Valuta le forze in campo e intuisce quindi come se
ne possa servire.
La sintassi invece è più simile alla strategia militare. Syn-tasso
in greco vuol proprio dire: ordino l’esercito in una schiera. Si
occupa infatti di capire come usare ogni singolo elemento e si
divide in analisi logica, che analizza la funzione che le parole
hanno all’interno di una singola frase, e analisi del periodo, che
analizza il ruolo svolto da ciascuna frase quando è usata assieme
ad altre (il periodo infatti è un insieme ordinato di più frasi).
Quando uno ha imparato tutto ciò, è come se avesse superato
l’esame finale a West Point: può scendere in battaglia e far fuori
qualsiasi nemico.

La morfologia, ovvero dimmi cosa sei e ti dirò a cosa servi

C’è sempre bisogno di raccontare le cose: il verbo (modi, tempi,


persone)
Che cos’è una storia? Una storia è un insieme di frasi che
raccontano delle cose che sono successe, stanno succedendo o
magari potranno succedere in qualche punto del tempo e dello
spazio. Una storia, insomma, è una descrizione di azioni o pensieri
e stati. Se io scrivo solo «Mario», non è una storia. Intuisco che
c’è un tizio così chiamato, ma non so chi sia, come sia, e
soprattutto cosa faccia. Se invece dico «mangiano» e non
aggiungo altro, magari non riesco ancora a capire chi siano quelli
che si stanno abbuffando, o perché, ma la storia c’è, e anche una
certa suspense perché si vuol sapere come continua.
Le frasi dunque non hanno il verbo, le frasi sono il verbo. Senza
un verbo non c’è trippa per gatti, anzi non ci sono manco i gatti:
c’è solo un immenso vuoto in cui non succede nulla.
Nei film di spionaggio c’è spesso una piccola chiavetta usb o
una microscheda che passa ai buoni tutte le informazioni
necessarie a scoprire cosa stia avvenendo. Nelle frasi il verbo è la
chiavetta: comunica che cosa succede, quanti sono coinvolti, in
che momento la cosa avviene, se avviene davvero o è una mera
ipotesi, un desiderio, un ordine. È un modo economico e veloce di
comunicare dati essenziali e precisi, ma deve essere codificato e
decodificato in maniera altrettanto precisa, o succedono macelli.
Se scrivo mangio, comunico al mio lettore quale azione compio
(mangiare), che sono io a farla (e non un altro), che la sto facendo
nella realtà (cioè uso un modo indicativo, non un congiuntivo o un
condizionale) e che l’azione avviene adesso, non nel passato e
nemmeno nel futuro. Se scrivo invece avrebbero mangiato, lo
scenario cambia completamente: a compiere l’azione sono dei
“loro” non meglio identificati, l’azione non è reale, ma ipotetica
(avrebbero mangiato, ma non hanno trovato niente di
commestibile e quindi hanno saltato il pasto) e si svolge nel
passato. Se però sbaglio a trasmettere uno dei dati, per esempio
scrivendo ieri mangio, o domani mangiai il mio povero lettore non
capisce più una cippa di quanto tento di raccontare, e comincia
anche a pensare che io sia fortemente stordita e confusa, visto che
non distinguo nemmeno passato, presente e futuro. Al che, oltre
che un grammatico, forse chiama anche il 118. Usate quindi modi
e tempi giusti nelle frasi, o rischiate di venire portati di peso al
pronto soccorso.

Forme e modi
In italiano abbiamo tre forme del verbo: attiva, passiva e
riflessiva.
Se dico io mangio, sono io a compiere l’azione di mangiare, e
se il manicaretto è buono è un’azione certamente piacevole; se
invece scrivo io sono mangiato, l’azione non è per niente piacevole
per me che la subisco, e probabilmente vuol anche dire che ho
incrociato Hannibal the Cannibal sulla mia strada. Se invece
scrivo mi mangio (le mani, per esempio) l’azione che compio io
ricade su di me, e non è in questo caso comunque una cosa
piacevole, perché probabilmente sono infuriato con me stesso per
una qualche occasione che mi sono fatto scappare.
Abbiamo sette modi verbali: quattro (indicativo, congiuntivo,
condizionale e imperativo) sono detti modi finiti perché indicano
esplicitamente a quali persone l’azione si riferisce. Tre sono
invece chiamati modi indefiniti (participio, gerundio e infinito)
perché non indicano di preciso a quale persona l’azione si
riferisca.
L’indicativo si usa per le cose che succedono realmente:
«Mangio il panino», «Saltai la lezione», «Convincerò Massimo a
portarmi alla festa sabato sera». Il congiuntivo indica invece
un’azione che è una ipotesi, un augurio o un desiderio: «Penso che
sia un bravo ragazzo» (ma non ne sono certa, e con gli uomini non
si sa mai), «Magari arrivasse primo alla gara!», «Spero che trovi
finalmente l’amore della sua vita».
Se l’azione invece può accadere solo a patto che si verifichi una
qualche altra condizione, si usa il condizionale (i grammatici
hanno una fantasia limitata nello scegliere i nomi, come si nota).
Se avessi una mela (condizione) → me la mangerei (azione
espressa al condizionale).
Se invece do un ordine, allora uso l’imperativo (ve l’ho detto,
non hanno una gran fantasia con i nomi), e per essere sicuri che si
capisca che è un ordine, l’imperativo di solito viene usato con un
bel punto esclamativo dopo: «Portami una mela!»
L’imperativo negativo, ovvero quello che esprime un divieto,
viene costruito con l’infinito preceduto da non: «Non calpestare le
aiuole!»
Di solito la buona educazione consiglia di far precedere gli
imperativi da una qualche forma di cortesia quando si è in un
contesto in cui è brutto dare ordini secchi: «Per piacere, passami
il sale!», «Ti prego, non urlare!». Ma non lasciatevi ingannare,
sempre comandi restano.
Gerundi, participi e infiniti, invece, non hanno una persona
precisa di riferimento. Se dico andando non è chiaro in quanti
vanno, e posso capirlo solo dal contesto: «Andando a casa ho
incontrato Anna», «Andando in giro conobbero tanta gente
nuova»; il participio invece può essere concordato al singolare e al
plurale: «Vista la mala parata, Andrea fu costretto a retrocedere»,
«Considerati i risultati, dovresti essere felice».

Il congiuntivo non lo ammazza nessuno


Nonostante siano ormai decenni che lo danno per spacciato, il
congiuntivo non è ancora morto. Risponde infatti a un’esigenza
precisa, quella di illustrare le possibilità. È un modo cortese e
persino un po’ timido: non è sicuro di nulla, anzi coltiva con
ammirevole tenacia i suoi dubbi e mina talvolta le certezze altrui.
Non c’è niente di più ironicamente efficace che rispondere a un
trombone enunciante le sue granitiche convinzioni con un: «Credi
davvero che sia così?» Il congiuntivo, in fondo, è un modo che
trolla.
Senza di lui sarebbe impossibile concepire interi generi
letterari. Il romanzo giallo o di spionaggio basa le sue trame su
indizi vaghi e alibi malsicuri che vanno verificati per identificare il
vero colpevole: «Penso che George sia uscito quella sera» (ma
forse no, e nel caso non può essere lui l’assassino), «Credo che gli
abbiano consegnato il microfilm con i nomi dei nostri agenti
segreti» (ma non è sicuro e quindi possono ancora essere salvati).
Persino quando viene sbagliato, descrive immediatamente un
mondo e una mentalità: non c’è niente di più efficace per
dipingere il misto di servilismo impiegatizio e inutile pomposità
del meraviglioso «vadi, contessa, vadi!» fantozziano. Ma c’è tutta
l’incapacità di accettare visioni differenti dalla propria nel «credo
che è così» sparato dal capetto ignorante in riunione.
Attenti al congiuntivo, è un modo subdolo e crudele: se lo
sbagliate, vi riduce immediatamente a delle patetiche macchiette.
I tempi semplici e composti
In italiano abbiamo un presente, cinque tipi di passati e due
futuri. «Troppa grazia, Sant’Antonio!» verrebbe da esclamare,
perché di tanto in tanto ci si domanda se servano davvero tutti
questi tempi verbali. In realtà esistono lingue, come ad esempio il
greco antico e il nostro papà latino, che ne avevano ancora di più.
Ringraziate mentalmente i secoli bui del Medioevo che hanno
fatto perdere il participio e l’imperativo futuro e il gerundivo, o il
fatto che da noi non ha mai attecchito l’aoristo, croce e delizia di
tutti i poveri ginnasiali.
I verbi italiani si dividono in tre coniugazioni: -are, -ere e -ire.
La più complicata è la seconda, quella in -ere, perché in realtà
raggruppa due tipi differenti di verbi che in latino erano divisi in
coniugazioni differenti: una terminava in -ēre e l’altra in -ĕre, cioè
gli uni avevano una e lunga e gli altri una e breve. È il motivo per
cui, per esempio, al passato remoto temere fa temei (esiste
tuttavia anche il passato remoto temetti) ma leggere fa lessi:
temere deriva dal latino timēre con la ē lunga, leggere dal latino
legĕre con la ĕ breve. Per cui legĕre al perfetto (da cui viene il
nostro passato remoto) faceva lexi, trasformatosi quindi in lessi.
Timēre invece timui, da cui deriva temei.
I tempi invece si dividono in semplici e composti. I tempi
semplici sono formati da una sola parola: amo, amavo, amai,
amato, amando. I tempi del latino erano tutti semplici, ma questo
aveva dato origine a una coniugazione molto complessa. Nel
passaggio ai vari volgari molte desinenze del latino si persero,
perché si preferì sostituire la voce singola con una perifrasi fatta
con i verbi essere o avere, che per questo vengono chiamati
ausiliari (dal latino auxilium, aiuto). Sono nati così i nostri tempi
composti, che sono formati dal participio passato del verbo e da
una voce dei due ausiliari. I verbi composti sono il passato
prossimo, tutti i trapassati e il futuro anteriore dell’indicativo, i
passati di congiuntivo e condizionale, i passati dell’infinito e del
gerundio.
Se immaginiamo il tempo come una linea ferroviaria, il
presente, il passato remoto e il futuro semplice sono le tre stazioni
principali. Il passato prossimo, che è un tempo composto, e
l’imperfetto, che invece è semplice, sono due stazioni comunque
importanti e indipendenti: indicano delle azioni che si sono svolte
o in un passato non molto lontano (passato prossimo, cioè vicino,
lo dice anche il nome!) oppure che si sono svolte nel passato per
un certo tempo (imperfetto perché l’azione non è compiuta e
perfetta, cioè conclusa in un attimo preciso): «Un anno fa mangiai
bene in quella trattoria», «Ieri ho mangiato bene in quella
trattoria», «In passato mangiavo spesso in quella trattoria».
Il trapassato remoto, il trapassato prossimo e il futuro
anteriore, invece, per restare all’esempio ferroviario, sono delle
stazioni secondarie immediatamente precedenti a quelle
principali, un po’ come Roma Tiburtina arriva prima di Termini
scendendo da nord a sud. In genere sono usati in frasi secondarie
che hanno nella principale il passato remoto o il futuro, perché
indicano azioni che si sono svolte prima di quelle narrate nella
principale: «Quando mi fui resa conto che mi mentiva, lo lasciai»,
ovvero prima mi rendo conto che è un bugiardo e subito dopo lo
mollo; «Entrai nella stanza, poiché avevo capito che lui mi
aspettava lì», e cioè prima capisco e poi entro; «Ti abbraccerò non
appena sarai sceso dal treno», poiché ovviamente prima tu scendi
e poi io ti abbraccio.

Il verbo essere, la Svizzera dei verbi, e il verbo avere, ovvero lo


sgobbone che ha fatto carriera
Il primo verbo della nostra vita è il verbo essere. Senza di lui
nemmeno riusciamo a esistere, quindi sarebbe inutile tutto il
resto. È più importante persino del verbo avere, e lascio a voi
trarre tutte le conseguenze del caso, o rivolgervi a quel nugolo di
filosofi che se ne sono occupati.
Il verbo essere è bastardissimo. In italiano ha una coniugazione
tutta sua, che sembra totalmente folle e illogica. Chiunque studi la
nostra lingua odia ferocemente il verbo essere, ma anche nelle
altre non è meglio. Essere in realtà è un verbo politematico fin
dalle origini, e infatti risulta irregolare anche in sanscrito, latino e
greco, perché era probabilmente già molto complesso nei dialetti
indoeuropei, cioè quelli da cui è derivato il latino e di
conseguenza anche l’italiano.
Il fatto è che essere non è un verbo, ma una specie di
federazione, come la Svizzera. Ha infatti diverse radici e temi da
cui forma i vari tempi. La radice del presente è (e)s-/s- che dà
sono (latino: sum) ed è (latino: est). All’imperfetto *(e)s- dà ero, al
futuro sarò. Il passato remoto invece viene da una radice *bho-
(che doveva suonare come un vo/fo con la o molto chiusa). Per
questo motivo il passato remoto del verbo essere è fui.
Essere, tecnicamente parlando, non indica un’azione, ma la
condizione necessaria per fare qualsiasi altra cosa, cioè esistere.
Può tuttavia anche avere il senso di trovarsi, stare in un posto o in
una determinata condizione («È sul tavolo» = «Sta sul tavolo»),
ma anche raccontare le qualità di una persona («Luigi è alto»).
Per questo è l’unico verbo che in analisi logica può fare da
predicato nominale, ovvero quel tipo di predicato che racconta e
spiega non un’azione ma una qualità del soggetto (esempio:
«Maria è alta»).
È un verbo intransitivo, cioè non può mai reggere dopo di sé un
complemento oggetto, e serve di solito (ma con alcune eccezioni)
da ausiliare per gli altri verbi intransitivi. Aiuta invece tutti i verbi
transitivi a fare la forma passiva (che gli intransitivi non hanno).

Se essere se ne frega di regole e convenzioni, il suo collega


ausiliare avere è molto più posato e tranquillo. A dire il vero in
latino era un verbo regolare della seconda coniugazione: habeo, -
es, habui, habitum, habere. Anche le forme italiane che sembrano
strane, come ebbi al passato remoto, sono il risultato di
trasformazioni fonetiche assolutamente normali nell’evoluzione
delle parole latine durante il Medioevo. Ebbi deriva infatti dal
perfetto latino (equivalente al nostro passato remoto) habui.
Il volgare gli ha fatto far carriera perché piano piano le
perifrasi composte con avere hanno preso il posto delle forme
originali delle coniugazioni latine. In realtà oggi le uniche
irregolarità nella sua coniugazione sono legate alla presenza
dell’acca nel presente, che però, come abbiamo visto in capitoli
precedenti, è più che altro una scelta ortografica.
Quadrato e concreto (in fondo indica il possesso di qualcosa), si
è adattato ai nuovi compiti di ausiliare e per il resto non si allarga.
I due verbi hanno personalità opposte: essere è una primadonna
che dalla notte dei tempi calca le scene, avere un ex caratterista
che ha fatto carriera, e si gode il successo senza montarsi troppo
la testa.

C’è sempre bisogno di un protagonista: il nome


Nome deriva dal latino nomen, che è imparentato con il greco
onoma e con il sanscrito nāma. Se andate a un corso di yoga
prima o poi l’istruttore vi inviterà a cantare mantra in cui il nāma
viene invocato perché rappresenterebbe la “vera identità”
dell’individuo.
Il nome infatti è questo: permette di individuare chi è davvero
una persona (o cosa è di preciso un oggetto). L’idea che i nomi
siano fondamentali per capire cosa ci succede era già chiara alle
civiltà antiche. Nella Bibbia Dio consegna ad Adamo il potere sul
creato quando gli ordina di dare un nome a ciascuna cosa. Dare
un nome significa avere il potere su di essa. Il nome infatti segna
il confine fra una cosa e l’altra, la identifica e stabilisce un limite.
Senza i nomi vivremmo in un universo impreciso e confusissimo,
che i Greci chiamavano Caos, ovvero l’indistinto.
I nomi si dividono prima di tutto in propri e comuni. I nomi
propri indicano le persone e i nomi comuni le categorie.
I nomi propri indicano uno specifico individuo. Se dico «Carlo
passeggia per strada» ho visto un Carlo ben preciso che conosco,
anche se ce ne sono al mondo centinaia. Quando tanti individui o
oggetti simili sono riuniti, abbiamo bisogno però di un nome che
indichi l’intera categoria, e quindi ecco i nomi comuni. Se per
strada sono senza occhiali e non riesco a riconoscere se la
persona che incrocio è il mio amico Carlo o un altro, ma
comunque sono in grado di capire che è un individuo di genere
maschile, dirò: «Un uomo passeggia», e finita là.
Le persone o gli animali hanno nomi propri, gli oggetti in
genere no, tranne le barche di ogni tipo e metratura, per esempio.
Noi esseri umani, tuttavia, tendiamo ad attribuire talvolta nomi
agli oggetti inanimati con cui stabiliamo dei legami di
attaccamento. Bimbe e bimbi danno il nome da sempre ai loro
bambolotti e orsacchiotti, ma anche serissimi adulti chiamano la
macchina Camilla, come la Citroën di Claudio Baglioni. Nel
Pendolo di Focault di Umberto Eco i tre coltissimi intellettuali
protagonisti battezzano il loro computer Abulafia, dal nome di un
celebre cabalista ebraico medievale. Per quanto adulti, istruiti e
tecnologici, noi umani restiamo spesso dei gran bambinoni.
Oltre al nome proprio e al cognome, che indica il nome della
famiglia a cui un individuo appartiene, ci può essere anche il
soprannome, ovvero un nome che viene assegnato a uno specifico
individuo per distinguerlo dagli altri del suo gruppo, e che di
solito fa riferimento a una qualche sua caratteristica particolare,
positiva o negativa. Matilde di Canossa, celebre feudataria
medievale, si sposò in prime nozze con Goffredo il Gobbo e poi con
Guelfo il Pingue. Dal che si evince che, per quanto potente, la
signora non riusciva mai ad avere mariti particolarmente
avvenenti. Nelle città e nei paesi dove sono diffusi pochi cognomi
(perché tutti discendono da un nucleo originario di tre o quattro
famiglie) al cognome originale si affianca spesso un secondo
cognome che in antico era un soprannome. A Chioggia, dove
l’elenco telefonico riporta ben quaranta pagine di Boscolo,
esistono i Boscolo “Forcola”, “Sale”, “Mela”, soprannomi ora
riconosciuti anche dall’anagrafe come secondi cognomi per
evitare confusioni di identità.
Lo pseudonimo (dal greco: «nome falso») è invece un nome
inventato, scelto per evitare di usare quello vero. Un tempo la
pratica era limitata a scrittori e attori, che cambiavano il loro
nome per scegliersene uno che suonasse meglio o decidevano di
prenderne uno fasullo per evitare guai con la censura o con i freni
che la loro vera identità gli avrebbe posto. Lo scrittore George
Sand era in realtà una donna, la scrittrice Amandine Dupin.
Sophia Loren si chiamava in origine Sofia Scicolone. Diventare
una diva internazionale con un nome simile, effettivamente,
sarebbe stata un’impresa disperata.
Oggi lo pseudonimo è diffusissimo su internet, solo che si
chiama nick (dall’inglese nickname). Il nick non ha regole precise
e può essere scelto arbitrariamente dalla persona che lo porta.
Quindi quando siete in chat e parlate con Cuoricina91, attenti:
invece che una dolce fanciulla in fiore potrebbe trattarsi di un
camionista cinquantenne.
Nomi propri, soprannomi e pseudonimi vanno scritti con la
lettera maiuscola, perché sono personali e indicano un individuo
ben determinato. Alcuni nomi propri, tuttavia, con il tempo
passano a designare intere categorie di persone, diventano
comuni, e allora vanno scritti con la lettera minuscola. Essere un
giuda significa essere uno spregevole traditore (da Giuda
Iscariota, l’apostolo che tradì Gesù); lavorare come perpetua
significa occuparsi di un sacerdote (da Perpetua, la serva di Don
Abbondio nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni).
Anche i nomi di alcuni luoghi, che quindi sono propri e vanno
scritti con la maiuscola, divengono nomi comuni per indicare dei
prodotti tipici: il cognac è un liquore nato nel Cognac, regione
della Francia; il gorgonzola nasce nella città lombarda di
Gorgonzola.
I nomi sono maschili e femminili: abbiamo già detto che in
italiano il genere neutro non esiste. Il genere è spesso stato
attribuito in maniera arbitraria. Sono femminili i nomi di città, ma
alcuni diventano maschili quando si parla della squadra di calcio:
si dice infatti «Torino è bella» (femminile) ma «il Torino ha vinto la
partita». La variazione è di solito legata al fatto che si sottintende
un originario «Football club» maschile o una «squadra/società
sportiva» al femminile, oppure il nome è straniero o è
un’abbreviazione di un nome già femminile. Infatti abbiamo i
femminili Juventus, dal femminile latino iuventus, gioventù, e
Inter, abbreviazione di Internazionale.
La maggioranza dei nomi maschili termina in -o, ma esistono i
nomi maschili in -a (giornalista, pilota, stagista) e in -e (il rame, il
cane); i nomi femminili terminano quasi sempre in -a, ma possono
terminare in -e (l’abside) e anche in -o (l’eco). Sì, non è vero che
tutti i nomi maschili sono in -o. I nomi greci, per esempio, sono
spesso maschili in -a e femminili in -o. Chiedete ad Andrea e a
Clio, se non ne siete convinti.

C’è sempre bisogno di qualcuno che fa le veci: il pronome


Quando il presidente non c’è, a occuparsi degli affari dello
stato o della ditta c’è il vicepresidente. Quando il preside non c’è,
a scuola c’è il vicepreside. Quando manca il sindaco, il vicesindaco
o prosindaco guida il comune. E quando il nome non c’è?
Tranquilli, c’è il pronome.

I pronomi personali
I pronomi sono servizievoli e discreti. Appaiono, svolgono il loro
compito e tornano nell’ombra. Prendiamo Emma. «Emma è una
donna impegnatissima: Emma lavora tutto il giorno. Quando
chiamano Emma, Emma è sempre disponibile, Emma risponde al
telefono subito.»
Come vedete, Emma è una cara ragazza, ma un po’ invadente.
Sta troppo al centro dell’attenzione e finisce per farsi odiare.
Basta però sostituire il suo nome con un pronome e già il suo
iperattivismo risulta più tollerabile: «Emma è una donna
impegnatissima: lei lavora tutto il giorno. Quando la chiamano, lei,
che è sempre disponibile, risponde al telefono subito.»
Un tempo, lo dico subito per i puristi, questa frase sarebbe
stata considerata scorretta. Lei infatti non era il pronome
personale soggetto: avremmo dovuto usare ella. Ma ella oggi fa
subito Ottocento: se lo dite, nella mente di chi ascolta Emma viene
subito immaginata come una dama in crinolina. Anche il maschile
egli non gode di ottima salute. Si preferisce usare lui.
I pronomi personali soggetto sono io, tu, egli, ella (ma abbiamo
visto ormai si preferisce usare lei e lui), noi, voi, essi (anche qua,
ormai si preferisce usare loro). Questi pronomi si usano quando
sono, appunto, il soggetto della frase (lo avevamo detto, no? I
grammatici hanno poca fantasia), cioè quando compiono o
subiscono l’azione raccontata dal verbo. Se invece devo indicare
una persona che non è il soggetto della frase, devo usare i
pronomi personali complemento.
In italiano sono di due tipi: tonici e atoni. Quelli atoni sono una
serie di monosillabi che si appoggiano al verbo vicino e si fanno
quasi fagocitare da lui. Quelli tonici sono me, te, sé, lei, lui, loro,
che hanno un accento proprio. Svolgono la funzione di
complementi, ma non per questo devono essere per forza
considerati dei comprimari senza carattere. Se uno dice agli
amici: «Mi piace Laura» può trattarsi anche di una generica
simpatia verso una amica. Se invece qualcuno chiarisce: «Ti piace
Laura? A me piace Lucia!» il me è ben sottolineato e centrale.
Il sottinteso lampante è che se qualcun altro prova a fare il
cascamorto con Lucia sono guai.
I pronomi atoni, invece, sono più timidi e insicuri. Hanno
bisogno di una spalla a cui appoggiarsi, perché non hanno un
accento e se abbandonati nella frase si sentono spersi. Se
precedono il verbo, sono scritti staccati, ma è come se fossero
appoggiati a lui comunque: quando si scrive mi piaci in realtà si
pronuncia mipiàci, come se fosse un’unica parola. Se invece
vengono dopo il verbo, sono addirittura scritti come se fossero
una sola parola: «Legalo!», «Dammi!».
Lo e la sono le forme atone di lui e lei. Come per il me/mi le
due forme vengono usate anche per aumentare l’intensità
dell’azione. Se dico lo guardo, probabilmente voglio dire che un
ragazzo mi è passato davanti e io gli ho dedicato una occhiata
abbastanza distratta, o veloce, senza soffermarmi più di tanto su
di lui. Ma se scrivo guardo lui, il lui in questione calamita la mia
attenzione come se avesse un faro puntato addosso. Non lo sto
solo guardando, lo punto proprio. Quindi attenzione a non
esagerare con lui/lei, o vi scambieranno per stalker.

Gli, le, loro


«Ho visto Lisa a pranzo e gli ho detto di venire stasera.»
«Passo da Elena e gli porto il modulo da firmare.»
Frasi del genere si sentono spesso, ma lasciano fortemente
perplesso chi le ascolta: la persona a cui viene detta o porta la
cosa è un uomo o una donna? Nel mondo moderno c’è già
abbastanza confusione sull’argomento sesso: non peggioriamo la
situazione.
In italiano esistono due pronomi personali complemento ben
distinti per indicare a lui e a lei. Si tratta di gli e le. Gli indica però
solo ed esclusivamente il maschile (e cioè a lui), le il femminile (e
cioè a lei).
Chi usa gli per indicare una donna, dal punto di vista
etimologico, non avrebbe neppure tutti i torti. Gli infatti deriva dal
latino illi, che poteva andare bene sia per a lui che per a lei.
Tuttavia nel corso dei secoli gli si è specializzato nell’indicare il
maschile singolare, mentre per il femminile si è scelto di usare le.
Il risultato di questo lungo processo è che oggi se dite una
frase come: «Ho visto Andrea a pranzo e le ho detto di venire
stasera» rischiate che il vostro interlocutore abbia forti
perplessità sul genere di Andrea. È un maschio, come farebbe
pensare il nome (in italiano Andrea come nome femminile ha una
diffusione molto limitata, anche se negli ultimi anni sta prendendo
piede) o una femmina, come farebbe pensare il pronome? Onde
evitare di suscitare dubbi atroci in chi vi ascolta e imbarazzo alle
amiche o agli amici di cui parlate, usate gli solo per indicare un
maschio e le per una femmina. Ve ne saranno grati.
Già, direte voi, e gli per a loro? Frasi come «ho incontrato
Marco e Giovanni e gli ho detto di venire da me a cena» sono
corrette o errate?
I puristi della lingua al sentirvele pronunciare potrebbero in
effetti storcere un po’ il naso. La forma corretta sarebbe infatti
«ho detto loro di venire a cena». Ma in realtà l’uso del pronome
gli per indicare anche la terza persona plurale è antichissimo e
diffuso. Per questo oggi le grammatiche e i dizionari registrano la
possibilità di usare gli per indicare anche a loro. Lo fa anche
Manzoni. Va detto però che in contesti molto formali sarebbe
meglio continuare a usare loro e a loro. Così, anche solo per
tirarsela un po’.

Il pronome relativo
Nelle grammatiche serie, vi diranno che il pronome relativo
serve a mettere in relazione due frasi, una principale e una
subordinata.
Se dico per esempio: «Il libro è sul tavolo e il libro l’ho
comprato ieri», ho due frasi piuttosto bruttine da leggere assieme.
Ma se uso il pronome relativo che tutto diventa subito più
scorrevole: «Il libro che ho comprato ieri è sul tavolo.»
In realtà il pronome relativo è come un gancio o un piccolo
arpione. Acchiappa una parola che sta nella frase prima e ci si
avvinghia come certi cagnetti alle caviglie altrui.
I pronomi relativi in italiano sono che, cui e il quale/la quale/i
quali/le quali. Che e cui sono i più usati. Derivano dal latino qui,
quae, quod che al genitivo (cioè il caso del complemento di
specificazione) facevano cuius e al dativo (cioè il caso del
complemento di termine) cui, mentre all’accusativo (cioè il caso
del complemento oggetto) qui faceva quem, da cui il nostro che
discende.
L’antica declinazione latina ha lasciato tracce nell’uso di questo
pronome: che si usa nei casi in cui il pronome è soggetto o
complemento oggetto. In tutti gli altri casi, cioè quando è un
complemento indiretto, si usa cui, che può essere preceduto da
una preposizione (di cui, per cui, a cui…).
Come il lazo del cowboy, quando il pronome relativo si
avvinghia a qualcosa, non lo molla più. Per cui bisogna fare molta
attenzione quando si decide di usarlo. In genere in italiano il
pronome relativo si riferisce al termine più vicino. Se scrivo «il
libro che è sul tavolo è giallo», il che si riferisce a libro, ed è il
libro a stare sul tavolo e a essere giallo. Ma se scrivo «il libro è sul
tavolo che è giallo», il che si riferisce al tavolo, e il tavolo risulterà
di un bel color canarino. Non lasciate vagare per le vostre frasi i
che incustoditi: come i cagnetti randagi seguono il primo
sconosciuto che incontrano, e gli effetti possono essere piuttosto
buffi.
Spesso che e cui vengono scambiati come se fossero
equivalenti. Orecchiando pezzi di conversazioni è facile sentire
frasi come «è successo il giorno che ti ho incontrato» oppure «non
capisco le cose che parlano». Se la prima frase è più accettabile
(anche se sempre errata) appena pronunciate la seconda sentirete
un tonfo alle vostre spalle: è il nostro povero accademico della
Crusca che è svenuto, lì, sul pavimento. Si dice «il giorno in cui ti
ho incontrato» e soprattutto «le cose di cui parlano». Le cose,
infatti, parlano solo nelle favole o nei romanzi di Harry Potter. In
ogni caso, se potessero parlare davvero, pure loro vi
consiglierebbero di ripassare i pronomi relativi.

C’è sempre bisogno di puntare il dito: l’articolo (determinativi,


indeterminativi, partitivi)
L’articolo è l’antesignano del made in Italy. È infatti
un’innovazione dell’italiano: in latino non esisteva. A un certo
punto, verso la fine dell’età antica, il popolo, pur parlando ancora
latino, cominciò a usare l’aggettivo dimostrativo ille, illa
(quello/quella) premettendolo a ogni parola. In pratica l’aggettivo
determinativo si svalutò, perse il suo valore di indicatore preciso e
si trasformò in un articolo, che ha un significato più blando: è
quasi un accompagnamento del nome.
L’articolo tuttavia dà al lettore degli indizi precisi: alle volte
riusciamo a capire subito se un nome è maschile o femminile solo
guardando il suo articolo (pensare a fiore o brindisi, abside o
staffile), e grazie a lui siamo in grado di determinare se un
personaggio è stato o no citato in precedenza in una storia («Un
garzone entrò nella stanza, di corsa. Non c’era nessuno. Il giovane
si avvicinò alla tavola e bevve avidamente un bicchiere d’acqua»)
oppure se il termine citato si riferisce a un individuo ben preciso o
è generico («Il cane di Emma è bianco», «Un cane è entrato dal
cancello»).
Contrariamente a quanto moltissimi credono, in italiano i tipi di
articoli sono tre. Infatti oltre ai ben noti determinativi e
indeterminativi esiste una terza categoria di articoli, i partitivi.

L’articolo determinativo
L’articolo determinativo è quello che deriva dal latino ille/illa e
indica una cosa in maniera precisa. Se dico «prendi il libro!» vuol
dire che siamo in un contesto in cui entrambi sappiamo
perfettamente quale sia il libro desiderato, o perché ne abbiamo
già parlato in precedenza o perché siamo in una stanza in cui di
libro ce n’è solo uno e non è quindi possibile fare confusione. Gli
articoli determinativi sono anche gli unici ad avere sia il singolare
che il plurale. Sono il, lo, la, i, gli, le.
Vanno usati con una certa attenzione: l’articolo infatti si sceglie
tenendo conto della lettera con cui comincia la parola a cui si
riferisce.
Il e i si usano in generale davanti a tutti i nomi maschili che
cominciano per consonante: il cane, il foglio, i cani, i fogli.
Lo e gli invece si usano davanti a tutti i nomi maschili che
cominciano per vocale, e in questo caso si può anche elidere la -o
sostituendola con un apostrofo: lo uomo → l’uomo.
Si usa lo e gli anche davanti a tre consonanti particolari, cioè z,
y, x. Si tratta di tre lettere “straniere”. Ora, direte voi, passi per la
y e la x, ma la zeta è straniera? Sì. Nel latino classico non
esisteva, è un suono che veniva dal greco ed è stato adottato tardi
dai Romani fra le lettere usate nella penisola. Ma oggi, come
vedete, è perfettamente inserita nella lingua e nella società.
Lo e gli si mettono anche davanti a parole che iniziano per
gruppi di consonanti, come per esempio la s seguita da un’altra
consonante: lo strafalcione, lo scafo e gli strafalcioni, gli scafi; e
davanti a gn-, pn-, ps-: si dice infatti lo gnocco, lo psicologo e gli
gnocchi, gli psicologi.
Il gruppo pn- è forse l’unico che crea qualche grattacapo. In
italiano le parole che iniziano con pn- sono relativamente poche e
sono collegate quasi tutte al greco pneuma, che significa “soffio”.
Si tratta quindi di parole tipiche della medicina, per esempio,
come pneumotorace, pneumologo, pneumococco. Siccome le
usano i dottori, che sono laureati e quindi hanno tutti fatto un
lungo percorso di studi, è difficile che sbaglino l’articolo. C’è però
una parola che deriva da pneuma ed è entrata nel linguaggio
comune, e cioè pneumatico, ovvero la gomma della macchina.
Siccome è usata da tutti, anche da chi non ha lauree e diplomi,
non è un caso sia anche l’unica spesso abbinata all’articolo
sbagliato. Se andate dal vostro meccanico, a meno che non sia un
fine cultore della lingua, vi dirà che lui controlla i pneumatici (o
che dovete cambiare il pneumatico, se vi si è squarciata una
gomma). A questo punto il nostro amico accademico della Crusca
che fa? Cambia meccanico? No. Gli accademici della Crusca sono
persone di gran buon senso e abituate a vivere nel mondo:
ammettono quindi, nel linguaggio colloquiale, che davanti a
pneumatici, quando indicano le gomme della macchina, si usi il/i.
Se invece state facendo una discussione filosofico-religiosa e
intendete usare pneumatici per indicare, fra gli gnostici, coloro
che si ritenevano perfetti e ispirati dal Pneuma, ovvero dal soffio
divino, allora lì, come suggeriva Umberto Eco, è meglio che usiate
l’articolo corretto gli. Altrimenti, nonostante tutte le citazioni
colte, passare per fini intellettuali sarà difficile.

La Pisana, il Nievo e le altre


Gli articoli determinativi non vanno mai usati davanti ai nomi
propri di persona. Se ci pensate, non avrebbe senso. Carlo, nel
senso di quello specifico Carlo che conosciamo noi, è già un
individuo ben identificato, nella nostra testa, dal solo nome. Dire il
Carlo è ridondante. Tuttavia, lo facciamo. Soprattutto al Nord.
Dalla Lombardia al Veneto è tutto un risuonare di nomi maschili e
femminili propri che vengono preceduti dall’articolo: il Carlo, la
Beppa, il Toni. Non mancano gli illustri precedenti letterari: nelle
Confessioni di un italiano Ippolito Nievo cita quasi sempre la sua
protagonista femminile come la Pisana. Del resto la prima parte
del romanzo è ambientata a Fossalta di Portogruaro, quindi
l’influsso del dialetto del profondo Nordest è giustamente tenuto
in conto. Tuttavia, a meno che non siate Ippolito Nievo o che non
vogliate imitare la cadenza dialettale del Nord, è meglio evitare
l’articolo davanti ai nomi propri di persona.
L’articolo davanti ai cognomi invece è un argomento più
scivoloso. Nell’Ottocento era usato normalmente, e ancora adesso
le letterature e i libri scolastici sono pieni di frasi in cui si citano il
Manzoni e il Leopardi. Non è sbagliato, ma oggi sembrano frasi
adatte al salotto di Nonna Speranza di Gozzano. O del Gozzano, se
volete rimanere in tema.
Davanti a cognomi che indichino donne, invece, la regola
vorrebbe che si usi sempre l’articolo femminile. Questo per
evitare confusioni di genere. Se scrivo la frase: «Questa scena
descrive perfettamente la poetica di Deledda», do l’impressione
che Deledda sia un uomo, mentre era in realtà una donna.
Attualmente però sempre più i giornali e i mezzi di comunicazione
tendono a indicare le donne con il solo cognome: L’ultimatum di
Merkel a Trump; Camusso rompe con il governo; Boldrini si
scaglia contro l’odio in rete. Una parte del movimento femminista
approva questa scelta, perché si dice che mettere l’articolo
davanti al nome sia in qualche modo sminuire l’azione del
personaggio in quanto donna, e per giunta sia assurdo visto che
davanti ai nomi maschili non si usa più. Resta però il problema
che se uno non ha mai sentito prima questi nomi, non capisce
dalla frase che Susanna Camusso, Laura Boldrini e Angela Merkel
sono signore, e pertanto pensa si tratti di uomini. Il che è un
clamoroso autogol per il femminismo, visto che le donne di potere
rischiano di non essere riconosciute come donne per un inghippo
linguistico.
Che fare? L’ideale sarebbe mettere sempre in questi casi anche
il nome proprio (Laura Boldrini, Angela Merkel, Susanna
Camusso). Ma i titoli e i tweet hanno un numero limitato di
caratteri e non sempre questo è possibile. Forse continuare a
usare l’articolo determinativo davanti ai cognomi di donna
potrebbe essere quindi utile, per scongiurare un male peggiore:
ovvero che una donna, anche quando arriva finalmente in una
posizione di comando, venga percepita come un maschio.
Ovviamente questo espediente non sarà più necessario quando si
sarà davvero raggiunta la parità fra uomini e donne. Ma per ora,
in quest’epoca di transizione, dobbiamo arrangiarci.

Articoli indeterminativi
In latino, dicevamo, non esisteva l’articolo. Quindi quando i
contadini del Medioevo vollero indicare un oggetto non meglio
distinto fra tanti altri ricorsero al numerale unus, una, unum. Da lì
deriva il nostro articolo indeterminativo, che indica uno fra tanti
possibili, un qualsiasi rappresentante di una categoria: «ho
incontrato per strada un amico di mio figlio» dice il genitore
dell’adolescente tipo. Quale sia, fra i tanti che periodicamente
trova accampati sul divano o intenti a svaligiargli il frigo, non gli è
chiaro.
Una si usa per tutti i nomi femminili. Davanti a vocale, la
vocale terminale -a si elide, quindi va inserito l’apostrofo.
Un va usato davanti a tutti i nomi maschili che iniziano per
consonante e per vocale: un bagno, un gioco, un inserviente, un
orco. Come abbiamo visto non è un’elisione, è proprio una parola
a sé, quindi non va aggiunto nessun apostrofo.
Uno è in pratica speculare a lo: si usa davanti ai nomi maschili
singolari che iniziano per x, y, z e per i gruppi consonantici pn-,
ps-, gn-. Ovviamente anche qua si dirà uno pneumatico e non un
pneumatico, e la tolleranza per la forma errata è minore. Avvertite
il meccanico.

Gli articoli partitivi


Gli articoli partitivi sono invece per molti un fitto mistero. In
alcune vecchie grammatiche addirittura si sosteneva che fossero il
plurale degli articoli indeterminativi, il che non è esatto. In realtà
si chiamano partitivi perché indicano una parte di un gruppo più o
meno ampio o di una categoria, mentre gli indeterminativi
indicano un qualsiasi rappresentante del gruppo o della categoria.
Può sembrare una questione di lana caprina ma i grammatici con
la lana caprina adorano rifarsi il guardaroba.
Se dico «dei ragazzi giocano a pallone», sto dando al mio
lettore due informazioni: che non li conosco o non sono in grado di
identificarli con precisione (altrimenti avrei detto i ragazzi), e che
comunque sono ragazzi che fanno parte di un gruppo più ampio:
quello di tutti i ragazzi del mondo oppure, più semplicemente,
quello dei ragazzini del quartiere dove si trova il campetto.
Gli articoli partitivi ingannano perché sono uguali uguali ad
alcune preposizioni articolate: sono infatti del, dello, della, dei,
degli, delle. In realtà l’articolo partitivo deriva proprio da quelle
preposizioni. Nel volgare antico si diceva mangio de illo pane =
mangio del pane; bevo de illo vino = bevo del vino.
Il partitivo si riconosce perché può sempre essere sostituito
con alcuni/alcune o un po’ di. Se scrivo «il rumore dei biscotti
sgranocchiati riempiva la stanza», dei è una preposizione e
introduce un complemento di specificazione; se scrivo «c’erano
dei biscotti nel vaso» il dei è un articolo partitivo. In alcuni casi
l’articolo partitivo diviene superfluo. Se per esempio scrivo la
frase «il rumore di biscotti sgranocchiati riempiva la stanza» sto
già facendo riferimento a qualcosa di più generico: dico che c’è un
rumore, per descriverlo affermo che è un rumore di biscotti
sgranocchiati, ma non è detto che sia effettivamente prodotto da
qualcuno che sgranocchia biscotti. È l’idea platonica del suono dei
biscotti sgranocchiati quella a cui faccio riferimento.
Il di in questo caso è una semplice preposizione, e non ha alcun
senso, come si vede fare a volte, aggiungerci anche il dei (il
rumore di dei biscotti sgranocchiati).
In ogni caso, per favore, non mangiatevi tutti i biscotti, o
dovrete di corsa mettervi a fare delle diete.

C’è sempre bisogno di descrivere il mondo: l’aggettivo


(qualificativi, determinativi)
Il mondo, senza aggettivi, sarebbe scialbo e noioso. Nessuna
possibilità al ristorante di scegliere quel piatto o questo contorno,
o di indossare un vestito blu o un cappello rosso; mai un tramonto
infuocato, o un bacio appassionato, o una storia travolgente. Un
triste mortorio, insomma. Se invece abbiamo una vita piena, varia
e soddisfacente è tutto merito loro: degli aggettivi.
Gli aggettivi vivono in simbiosi con i nomi, a cui si attaccano un
po’ come la cozza allo scoglio. Si dividono in due grandi categorie:
qualificativi e determinativi. Gli aggettivi qualificativi descrivono
le qualità del nome: spiegano se un oggetto è brutto, bello, largo,
colorato, piatto, curvilineo, tozzo, elegante e chi più ne ha più ne
metta. Gli aggettivi determinativi invece sono un po’ come lo
zoom in una macchina fotografica: permettono di identificare
meglio l’oggetto di cui si parla, spiegando se è questo, quello, mio,
suo, nessuno.

Gli aggettivi qualificativi


L’italiano è una lingua precisissima. Ogni aggettivo
qualificativo, ad esempio, descrive una sfumatura del tutto
particolare e originale, e più siamo attenti a scegliere gli aggettivi
più nella mente del nostro interlocutore si formeranno delle
immagini minuziosamente cesellate e intense. Pensiamo a uno
studente fermo sulla soglia dell’aula dove deve andare a sostenere
un esame. Potrà essere timido, ansioso, insicuro, impacciato,
guardingo, titubante, timoroso, impaurito, tremante o, al
contrario, tranquillo, sereno, serafico, affabile, sicuro, baldanzoso,
addirittura sfrontato.
Ognuno di questi aggettivi descrive un particolare stato
d’animo, anche se tutti fanno riferimento a uno stato di disagio, di
ansia e di paura o, per la seconda serie, di tranquillità. Impacciato
è chi si muove in maniera goffa e poco spigliata per l’agitazione,
guardingo chi si sente insicuro e procede guardandosi attorno
come se fosse in territorio nemico, titubante chi è esitante e
incerto. Al contrario serafico è ancora più che sereno, in quando
indica qualcuno che ha raggiunto il grado di serenità proprio dei
Serafini, gli angeli che occupano le posizioni più vicine alla
beatitudine di Dio nel paradiso cristiano. Baldanzoso deriva
dall’antico termine baldanza, che è quel tipico atteggiamento dei
giovani che li fa sentire al riparo dai colpi di coda della sorte. Il
giovane baldanzoso è comunque simpatico nella sua irruenza,
mentre lo sfrontato ha una punta di insolenza che irrita.
Riuscire a “beccare” l’aggettivo perfetto per descrivere uno
stato d’animo o un particolare fisico di uno dei propri protagonisti
è un lavoro sfiancante per uno scrittore. Bisogna studiare
tantissimo il vocabolario e interrogarsi senza sosta per individuare
la sfumatura giusta. Quando riesce, però, è una grande
soddisfazione: è un po’ come riuscire a dipingere una pennellata
che illumina tutto il quadro.
Gli aggettivi hanno una sorta di scala di intensità, cioè il grado.
Quando un tizio possiede una certa qualità, si dice che l’aggettivo
è di grado positivo: segnala che la qualità c’è e basta. «Mario è
alto», «Serena è simpatica», «Carlo è bello». Se l’aggettivo è al
grado comparativo significa che c’è stata una specie di gara fra
persone che possiedono la medesima caratteristica: «Mario è più
alto di Andrea», «Serena è meno simpatica di Franca», «Carlo è
bello quanto Luca». Avremo quindi il comparativo di maggioranza
(più di), quello di minoranza (meno di) quello di uguaglianza
(come/quanto/uguale a). Chi emerge viene descritto con un
superlativo relativo, se la sua vittoria lo fa emergere in un gruppo
ristretto o delimitato («Mario è il più alto della classe»), oppure
con un superlativo assoluto se vince a man bassa su tutti gli altri
possibili concorrenti («Sei bellissima! Sei la mamma più bella del
mondo!»).
Gli aggettivi di solito formano il superlativo assoluto
aggiungendo -issimo/a, per cui bello fa bellissimo, corto fa
cortissimo, lento fa lentissimo. Bisogna fare attenzione agli
aggettivi con la radice che termina in -r, come ad esempio acre,
perché per fare il superlativo aggiungono invece -errimo (acre >
acerrimo; celebre > celeberrimo; misero > miserrimo; integro >
integerrimo).
Del gruppo fa parte anche aspro, che fa regolarmente
asperrimo. Al contrario dei cugini in -r, però, aspro è un aggettivo
più alla buona. Gli altri sono tutti prevalentemente usati nella
lingua colta (chi ha acerrimi nemici e si considera miserrimo di
solito è qualcuno che ha frequentato scuole alte e celeberrime).
Aspro, invece, è quasi un parente plebeo, e per questo ha anche
un superlativo “normale”, cioè asprissimo, testimoniato persino in
Boccaccio, ed è quindi forma antica e accettata dalla Accademia
della Crusca.
Del resto pensare di bere una limonata asprissima è già
difficile, ma una asperrima non si riuscirebbe proprio a digerire.

Gli aggettivi determinativi


Gli aggettivi determinativi si chiamano così perché
determinano, cioè indicano e sottolineano il nome evidenziandone
una qualche caratteristica diversa da quelle fisiche. Se dico che
una cosa è mia (la mia casa, la mia penna) vuol dire che
determino chi la possiede (cioè io); se parlo di questo libro o di
quel quaderno ne sto determinando la posizione nello spazio
(questo libro è vicino a me, quel quaderno è più lontano); se
indico alcuni ragazzi intendo sottolineare che si tratta di persone
che formano un gruppo non ben definito ai miei occhi: se accenno
agli stessi ragazzi vuol dire che sono quelli che ho già visto in
precedenza, mentre se indico tre bambini la quantità è ben chiara.
Gli aggettivi determinativi sono suddivisi in categorie, e i
principali da conoscere bene sono i possessivi, i dimostrativi, gli
identificativi, e gli indefiniti.

Gli aggettivi possessivi


Gli aggettivi possessivi sono come le etichette sul bagaglio:
indicano a chi appartiene una certa cosa. Finché si tratta di mio,
tuo, suo, nostro, vostro e loro non ci sono particolari problemi. I
guai vengono con gli ultimi due fratellini della famiglia, cioè
proprio e altrui.
Altrui significa letteralmente “di un altro”. Ormai in italiano
corrente non si usa molto spesso, anche se è presente in alcune
formule cristallizzate o citazioni («i beni altrui»; il dantesco «come
sa di sale lo pane altrui»).
Proprio ha alle spalle una storia curiosa. Deriva dal lessico
giuridico, cioè dal latino proprius che però proveniva da un
originario pro privo, “a titolo personale”, “privato”. In genere
viene considerato un sinonimo di suo, ma non è proprio così.
Come aggettivo possessivo, infatti, proprio va usato in quelle frasi
in cui il soggetto è assente o indefinito: «Nel momento del
pericolo ciascuno pensa ai propri cari»; «Farsi i fatti propri è
sempre consigliabile».
Proprio è anche una mano santa quando ci troviamo in frasi in
cui usare suo lascerebbe dei margini di ambiguità. Per esempio,
se scrivo «Giorgio compra per Alice la sua torta preferita» al
lettore viene un dubbio: Giorgio è un gentiluomo che regala ad
Alice una torta che lei ama alla follia o è un egoista che compra
per il compleanno dell’amata una torta che piace a lui? Se si usa
propria i dubbi si risolvono. La torta è quella che piace solo a
Giorgio. E lui è un buzzurro.

Gli aggettivi dimostrativi


Gli aggettivi dimostrativi sono due (questo e quello) più un
fantasma ottocentesco, ossia codesto. Il problema dei dimostrativi
è che quando te li spiegavano a scuola la lezione diventava una
specie di campionato di misurazione. Le vecchie maestre infatti
dicevano che questo indicava un oggetto che si trovava vicino a
chi parla e lontano da chi ascolta, quello qualcosa di vicino a chi
ascolta, ma lontano da chi parla e codesto qualcosa che stava a
mezza strada fra chi parla e chi ascolta, e comunque in una
posizione strana che veniva percepita solo dai toscani e dai
burocrati.
Codesto in effetti è un aggettivo che nessuno incontra mai nella
vita reale: appare solo ed esclusivamente nei documenti
amministrativi per indicare la persona o l’ente a cui ci si riferisce.
Il responsabile del successo di codesto fu Alessandro Manzoni,
che disseminò l’aggettivo toscaneggiante in tutti i suoi Promessi
sposi. Per tutto l’Ottocento i burocrati allevati nelle scuole del
Regno a pane e Manzoni si innamorarono del suono aulico di
questa parola, adattissima a intimorire il pubblico, e lo sparsero
ovunque negli atti amministrativi. Oggi, per fortuna, codesto va
tramontando persino negli uffici, anche se l’impiegato che ancora
lo infila a tradimento qua e là c’è sempre. Gli si può far notare che
persino per la Crusca codesto uso è superato. Magari se ne fa una
ragione.

Stesso e medesimo: i gemelli dell’identità


Stesso e medesimo sono uno di quei rari casi in cui abbiamo
due parole in pratica davvero sovrapponibili, cioè con significato
ormai identico. Proprio per questo stesso, che è più breve e facile
da pronunciare, ha quasi eliminato il concorrente. Significano
entrambi “uguale, identico, proprio lui” e derivano da due diversi
modi di rafforzare il pronome latino ipse/ipsum (che significava lui
stesso, quello famoso, proprio quello là). Da metipsimus deriva
medesimo, da iste ipse/istum ipsum deriva stesso (originariamente
scritto istesso). Un tempo medesimo era leggermente più forte e
marcato di stesso, ma ora i due sono considerati assolutamente
equivalenti. Medesimo è termine più letterario e colto, e qualche
volta preferito dal solito impiegato amante del burocratese, ma la
sua sorte appare segnata e stesso ormai stravince. Sempre la
stessa storia, direte voi: chi è meno colto e più facile piace di più
alle masse. Già. Ma chissà, potrebbe accadere una svolta
improvvisa e la storia non avere il medesimo scontato finale.

Gli aggettivi indefiniti


Gli aggettivi indefiniti servono per indicare una quantità
imprecisa di cose o di persone, diciamo compresa fra zero e
infinito: «Alcuni giorni mi sento allegro», «Certe persone mi
danno sui nervi», «Molti mi sono simpatici», «Troppi parlano per
niente», «Nessuno capisce davvero come mi sento».
Gli aggettivi indefiniti hanno il fascino di tutto ciò che è incerto
e sfocato, come le azzurre lontananze di Thomas Mann. Ma
siccome sono indefiniti e non casinisti rispondono anche a una
serie di regole precise.
Ciascuno, ogni, qualche e nessuno si usano solo al singolare.
Esiste anche un indefinito cadauno che deriva dallo spagnolo
cadauno e prima ancora dalla particella greca κατά, che ha il
senso di “distribuire fra tanti”. Lo usa ormai quasi esclusivamente
il nostro amico burocrate arcaicheggiante. Lo ha ereditato da un
suo antenato che nel Seicento lavorava già per l’amministrazione
spagnola, ma ormai il senso lo capiscono solo loro due: l’amico
burocrate e il fantasma dell’avo.
Qualunque, qualsiasi e qualsivoglia sono usati solo al singolare,
e dei tre qualsivoglia è il più pomposo e letterario.
Qualunque, al contrario degli altri aggettivi indefiniti che di
solito precedono il nome a cui si riferiscono, può essere usato
anche dopo, per indicare la mancanza totale di qualità: un uomo
qualunque.
Dato che spesso meno qualità si possiedono più facile è avere
successo in politica, qualunque è l’unico aggettivo indefinito che
ha dato origine a un partito. Il settimanale L’Uomo qualunque,
fondato da Guglielmo Giannini nel 1944, si trasformò infatti nel
Fronte dell’Uomo Qualunque, che si presentò alle elezioni del
1946. Faceva uso di un linguaggio colorito, oggi diremmo
populista, e prese voti a man bassa, anche giocando
sull’anticomunismo. Gli orientamenti erano fumosi e
indeterminati, tanto è vero che stilare un vero e proprio
programma politico fu alla fine impossibile e il movimento
evaporò: nel 1948 già lo si poteva considerare un’esperienza
conclusa. Restò a ricordarlo in italiano il termine qualunquismo,
ovvero una sorta di sentimento vago di generica insofferenza
verso i politici di professione e la politica nel suo complesso, di
disprezzo per l’antifascismo e il politicamente corretto. Il
qualunquismo indulge nella lamentela fine a se stessa e
nell’indignazione altrettanto generalizzata verso tutto e tutti,
eccetto se stessi. È autoassolutorio e spesso prova una certa
simpatia per l’uomo forte che risolve i problemi senza le
lungaggini della burocrazia. Al contrario del movimento politico
Fronte dell’Uomo Qualunque, il qualunquismo non si è mai
esaurito, anzi negli ultimi tempi sta avendo una nuova stagione di
successi, anche internazionali. Probabilmente perché è un tratto
distintivo del carattere umano che ogni tanto torna su quando
ormai sembrava digerito. Come la peperonata, insomma.
Aggettivo indefinito che spesso suscita qualche perplessità
nell’uso è alcuno. Al singolare, infatti, dovrebbe essere usato nelle
frasi negative dove c’è già il non: «Non ho visto alcun posto libero
in platea.» Questo per evitare la doppia negazione, che è un
problema abbastanza spinoso in italiano. In latino, che era una
lingua logica perché gli antichi romani avevano la mentalità
quadrata degli ingegneri militari, la doppia negazione diventava
una affermazione, proprio come in matematica moltiplicando due
segni meno si ha un più. In latino una frase come «non nemo haec
dixit» (letteralmente: «non nessuno ha detto ciò») significa che
qualcuno lo aveva detto.
In italiano dovrebbe valere la stessa regola, perché la logica
non può cambiare a seconda della lingua. Quindi la frase «non ho
visto nessun posto libero in platea» dovrebbe significare
inequivocabilmente che un qualche posto libero c’era. In italiano
invece si tende a usare nelle frasi la doppia negazione senza
troppi problemi: «Non ho visto nessuno», «Non c’è nessun
problema». La logica vorrebbe che in questi casi si usasse alcuno
(«Non ho visto alcuno», «Non c’è alcun problema»), ma ormai è
raro che accada. Per cui se state prenotando una vacanza e
l’operatore turistico vi dice che nel posto dove vorreste andare
«non c’è nessuna stanza disponibile» vuol proprio dire che dovete
cambiare hotel, e pazienza.

Pronome o aggettivo?
A ciascuno il suo recitava il titolo di un romanzo di Sciascia. Ma
in questa frase ciascuno e suo cosa sono? Aggettivi, direte voi, che
avete letto i precedenti capitoli. In realtà no: sono due pronomi,
uno indefinito e l’altro possessivo.
Concordo con voi, l’italiano alle volte è una lingua che fa girare
i santissimi. Infatti, come se non fosse già abbastanza difficile
riconoscere verbi, avverbi, aggettivi e pronomi, ha ulteriormente
complicato la faccenda perché esistono aggettivi e pronomi
omografi, cioè che si scrivono allo stesso modo, anche se
ricoprono funzioni differenti. Avete presente le due Hepburn,
Audrey e Katharine? Erano attrici diverse fra loro, anzi per molti
versi opposte, pur avendo entrambe lo stesso cognome. Ecco, con
alcuni aggettivi e pronomi succede una cosa simile. Gli aggettivi
determinativi infatti sono assolutamente identici ai pronomi
corrispondenti: mio, tuo, suo, questo, quello, alcuno, nessuno,
ciascuno sono a prima vista indistinguibili. Per capire se in una
frase una parola è un pronome o un aggettivo bisogna guardare il
contesto: l’aggettivo, come abbiamo detto, è sempre riferito a un
nome che si trova nelle vicinanze. Nella frase «ciascun uomo è
solo» il ciascun è un aggettivo, perché è riferito a uomo. Nel titolo
di Sciascia, invece, A ciascuno il suo, non esiste nessun nome,
pertanto ciascuno è pronome indefinito. Quindi devo ragionare di
volta in volta e frase per frase? Sì. La grammatica tutti pensano
che sia una questione di memoria, invece è una questione di
logica e di pazienza. Tanta, tanta pazienza, eh.

C’è sempre bisogno di spiegare il modo: l’avverbio


Abbiamo visto che quando dobbiamo spiegare meglio le
caratteristiche del nome ricorriamo a un aggettivo. Ma quando
bisogna spiegare o determinare meglio le caratteristiche di una
azione, come si fa? Ci sono gli avverbi.
Gli avverbi spesso sono parole che a scuola vengono un po’
trascurate, forse perché, siccome non sono variabili e quindi non
cambiano mai, non è necessario perdere tempo a spiegare
singolare o plurale. In realtà molti di loro hanno delle storie
interessanti. Alcuni, come oggi, sembrano parole molto semplici e
invece derivano da pezzi di frase: oggi in latino si diceva hodie
che era a sua volta una contrazione di in hoc die, in questo giorno.
In latino gli avverbi terminavano in -e e molti avverbi italiani
infatti hanno mantenuto questa desinenza: bene, male.
Il modo più diffuso però in italiano di formarli consiste
nell’aggiungere il suffisso -mente: caldo > caldamente; stupido >
stupidamente. In realtà il -mente però non si aggiunge
all’aggettivo maschile, ma al femminile (calda-mente; stupida-
mente). La cosa sembra molto strana. Si spiega con il fatto che -
mente in origine non era affatto un suffisso, ma una vera e propria
parola. Si trattava dell’ablativo di mens, mentis, che in latino
significa “mente”, “idea”, “decisione”. Mens era un femminile,
pertanto quando le veniva messo accanto un aggettivo questo era
femminile. Libera mente voleva dire “con mente libera”. Con il
tempo si perse il senso di questa origine, e -mente fu attaccato a
tutti gli aggettivi per formare gli avverbi derivati.
Alcuni avverbi che indicano le posizioni del corpo sono formati
con il suffisso -oni (bocconi, carponi, penzoloni, ruzzoloni), mentre
un’altra corposa categoria di avverbi è formata da due parole che
sono state accostate fra loro: dappertutto, soprattutto, intanto,
almeno.
Gli avverbi specificano un tempo (oggi, domani, mai, presto,
tardi, adesso) o un modo (volentieri, velocemente, lentamente). Ci
sono poi gli avverbi di luogo che specificano il posto dove si svolge
un’azione (qui, là, lì, vicino, lontano, avanti, dietro, accanto,
eccetera).
C’è un avverbio di luogo che usiamo tantissimo ma spesso
senza nemmeno rendercene conto: ci. Ogni volta che chiediamo
«che cosa c’è per pranzo?», «c’è la partita stasera, ci vieni?», ecco
che il ci fa capolino nelle nostre frasi.
Ci equivale a qui/lì, in quanto significa “in questo luogo”. Il
povero ci alle volte soffre di crisi di identità: in pochi lo
riconoscono come avverbio. Nelle frasi molto spesso lo scambiano
per un pronome personale (il ci = a noi), o addirittura alcuni
pensano che faccia parte del verbo e non lo considerano proprio.
Invece è un indicatore importante. Per esempio, quando è unito al
verbo essere è un segnale che in quel caso il verbo essere ha il
senso di stare, trovarsi e pertanto è predicato verbale e non
nominale («C’è posto per noi?», «Nell’armadio ci sono le sciarpe,
prendile!»).
Altro avverbio di luogo bistrattato è il ne, che significa “da
questo luogo”, “da quel luogo”. Anche lui viene spesso scambiato
per il pronome ne, che significa “questa cosa”: «Ne parlo con lui»
vale per «parlo con lui di questa cosa». Invece ne avverbio indica
appunto un posto. Attenzione, se se ne va può essere un problema
formulare una frase corretta.
Gli avverbi di solito servono a connotare meglio l’azione del
verbo: corro velocemente, parlo bene, ho mangiato troppo. Ma
possono anche stare vicino a un nome o a un pronome o a un
aggettivo, o anche in coppia con un altro avverbio: «Troppo cibo ti
farà ingrassare», «Quasi nessuno parla con lui», «Sei molto alto»,
«Mi sono alzato troppo presto». In pratica la funzione
dell’avverbio consiste nel modificare o specificare meglio il
significato della parola a cui si riferisce. Anche alcune frasi fatte,
cioè frasi che sono ormai entrate nell’uso comune, sono da
considerarsi quasi al pari di un avverbio, e si chiamano infatti
locuzioni avverbiali: in fretta e furia, armi e bagagli, alla svelta, di
sotto, di sopra, senza dubbio, nemmeno per sogno. Quando dite
alla vostra amata/amato: «Ti amerò per sempre!» state usando
una locuzione avverbiale. Poi sarà la vita a determinare se si
trattava di una frase fatta o di una realtà.

La sintassi, ovvero come si tengono in piedi le frasi e i testi

Dire cose sensate nella vita è difficile. Alle volte però non è solo
una questione di contenuto, ma anche di forma. Il problema molto
spesso non è avere idee o trovare argomenti, ma è riuscire a
spiegarli a chi ci ascolta. Anche l’intuizione più geniale del mondo
se non viene comunicata in maniera comprensibile perde qualsiasi
fascino. Il successo spesso è legato alla capacità di farsi capire.
La sintassi in questo è un formidabile alleato. Diciamo che
funziona sia “in uscita” che “in entrata”. Si crede quasi sempre
che il punto fondamentale sia spiegare le nostre idee agli altri. Ma
prima è necessario che le spieghiamo a noi stessi. Un’intuizione
resta tale se non riusciamo a organizzarla e strutturarla bene. In
questo senso la sintassi è una mano santa. Costringe a mettere le
idee in ordine, decidere cosa è importante o secondario, obbliga a
chiarire i nessi che legano le varie parti di un discorso.
In un suo film Nanni Moretti, assediato da una giornalista che
continua a fargli domande formulate malissimo, sbotta infuriato:
«Chi parla male, pensa male!» È una grande verità. Chi formula
male le frasi, chi le appiccica le une alle altre non seguendo un
filo logico, chi non cura il lessico in maniera precisa o ripete
termini e frasi orecchiate senza saperne bene il senso, rivela di
non avere per nulla le idee chiare in testa e risulta vago e poco
incisivo.
La prima operazione da fare, quindi, è iniziare da una domanda
semplice ma fondamentale: qual è l’argomento di cui vogliamo
parlare? Che sia una semplice frase, un biglietto di auguri, un
tema scolastico, un racconto, un romanzo o la scena di un film
decidere qual è il tema che davvero ci interessa descrivere è il
punto da cui si parte. Tutto il resto viene di conseguenza. Se non
riuscite nemmeno a determinare con certezza che cosa volete
raccontare, meglio che vi prendiate ancora un po’ di tempo per
riflettere. Ne avete bisogno.

La frase semplice
Ogni frase in sé è un piccolo racconto, più o meno ricco di
particolari. Se scrivo «Emma ride» o «è buio» in qualche modo ho
raccontato già due storie, anche se brevissime. Abbiamo già detto
che l’elemento più importante di una frase è il verbo, e tutti gli
altri elementi devono essere in linea con quanto ci dice lui. Se
scrivessi «Emma ridono» la frase non avrebbe senso, perché
«ridono» implica che l’azione sia svolta da un gruppo di persone,
ed Emma è una sola. Chi legge la frase si accorge che nel nostro
microracconto qualcosa non va.
In una frase semplice, cioè la frase-base, di solito il verbo c’è
ed è di modo finito, perché deve indicare la persona a cui si fa
riferimento e il tempo in cui l’azione raccontata accade. Per
questo motivo anche una frase come «Emma ridere» non ha
senso, a meno che non sia pronunciata da Mami in Via col vento, e
venga scritta apposta per descrivere un personaggio poco colto e
che non parla bene la lingua.
Gli altri elementi della frase sono come i pezzetti di un puzzle
che si incastrano fra loro: per usare un termine grammaticale,
concordano. Concordare vuol dire che hanno genere o numero o
entrambi uguali all’elemento a cui sono legati.
Se scrivo «il focoso muratore Carlo ama la bella panettiera
Marina», focoso e muratore concordano con Carlo, e bella e
panettiera con Marina; ama concorda con Carlo perché l’azione è
compiuta da lui. Se continuo dicendo: «La bella Marina lo
ricambia», bella e ricambia concordano con Marina e lo con quel
Carlo nominato in precedenza.
Il soggetto della frase concorda dunque con il verbo per
numero, gli aggettivi/pronomi che si riferiscono al soggetto o a un
nome presente nella frase concorderanno per genere e numero
con lui, i nomi che si riferiscono ad altri nomi concorderanno solo
per numero e così via.
La frase in questione ci dà ancora poche informazioni sulla
storia: chi compie l’azione (Carlo), chi ne è oggetto (Marina), il
mestiere di Carlo e Marina (muratore e panettiera, che sono
particolari apposti vicino, cioè messi accanto con un nome che
indica una professione, per cui si chiamano apposizioni) e cita una
qualità fisica o caratteriale (focoso e bella, che sono invece qualità
attribuite ai due personaggi con un aggettivo e quindi si chiamano
attributi).
Abbiamo appena delineato il nostro protagonista (Carlo) e
abbozzato i fatti, ma si può fare di meglio, chiarendo per esempio
dove si svolge la storia e quando. Tutte queste informazioni
accessorie che completano il racconto sono detti complementi. I
complementi di solito rispondono a delle domande specifiche.
(per quanto tempo?) Da mesi
(dove?) in paese
il focoso muratore Carlo ama
(come?) appassionatamente
(per che causa?) per il suo carattere dolce
(chi?) la bella panettiera Marina, figlia
(di chi?) del fornaio Gianni.

In questa frase ci sono diversi complementi: di tempo (che


rispondono alle domande: quando? Per quanto?); di luogo
(rispondono alle domande: dove? Da dove? Per dove? A dove?); il
complemento oggetto (chi? Che cosa?); il complemento di
specificazione (di chi? Di che cosa?); il complemento di causa (per
quale causa? Per quale motivo?).
Più aggiungo complementi, più la frase diventa complessa e
piena di particolari, ma se il verbo resta uno solo la storia non ha
grandi sbocchi. Se vogliamo far proseguire la storia dobbiamo
aggiungere altre azioni, inventare altre frasi e creare frasi
complesse, cioè un periodo.

La frase complessa o periodo


Accanto al negozio di Marina c’è quello del barbiere Ernesto, che da sempre
brama la bella panettiera; quando viene a sapere di Carlo, anche Ernesto si fa
avanti, ma Marina non risponde alle sue avances, poiché lui è uno sbruffone;
indispettito per il rifiuto, Ernesto giura vendetta.

Qui, oltre che nel mezzo di un complicato dramma amoroso,


siamo di fronte a una frase complessa, o periodo. Si tratta infatti
di un insieme di frasi collegate tra loro attraverso i segni di
punteggiatura o attraverso congiunzioni e pronomi relativi.
Quando si scrive un periodo, c’è sempre una frase in cui si
racconta l’azione centrale. Viene chiamata principale o reggente.
Le altre frasi sono collegate alla principale, e senza di lei o non
starebbero proprio in piedi, o potrebbero anche reggersi, ma
avrebbero meno senso.
Per esempio, se scriviamo «sono arrivato per vedere lo
spettacolo e ora mi siedo qui», siamo sicuramente in presenza di
un periodo, perché abbiamo tre verbi e quindi tre frasi: «Sono
arrivato ora / per vedere lo spettacolo / e ora mi siedo qui». Qual è
la principale?
Immaginate per un attimo di essere in una stanza. Dalla porta
entra qualcuno e inizia a dire le tre frasi separatamente. «Sono
arrivato ora» sta in piedi da sola e ha un senso, quindi è la
principale. «Per vedere lo spettacolo» invece da sola non sta in
piedi, ha per forza bisogno di avere qualcosa prima che la tenga
su. Per questo si chiama frase dipendente o subordinata, nel senso
che dipende e sta un gradino sotto alla principale. La terza frase
«e ora mi siedo qui» tecnicamente potrebbe anche avere un senso
e stare in piedi da sola, ma, se fosse pronunciata entrando nella
stanza, quell’e all’inizio farebbe sospettare che sia legata a
qualcosa che la precede e che ci siamo persi. In realtà nulla vieta
di far iniziare una frase con un «E» («E dimmi, come ti sei trovato
in Croazia, quest’anno?»), ma in ogni caso, anche quando la «E»
sia la prima parola della frase, questo presuppone che prima ci sia
stato un qualcosa a cui si fa riferimento (nel caso della vacanza in
Croazia, presuppone che i due personaggi del dialogo abbiano già
parlato del viaggio in questione).
La seconda frase, dunque, è una preposizione indipendente, sta
sullo stesso piano (ordine) della principale, ma siccome è a lei
connessa strettamente da un rapporto logico viene collegata a lei
con una congiunzione (la nostra e). Per questo viene chiamata
coordinata.

Le congiunzioni
Quando uno decide di costruire un muro, oltre ai mattoni deve
procurarsi la malta. Se vuole fabbricare un mobile, oltre alle assi
di legno dovrà avere i chiodi e magari anche il mastice. Bene, se si
vuole costruire un periodo, oltre alle parole, ai verbi e alle frasi si
devono saper usare e scegliere bene la punteggiatura e
soprattutto le congiunzioni.
La punteggiatura alle volte basta a legare fra loro le frasi, anzi
questa è la principale delle sue funzioni. È un modo veloce e senza
sbavature, adattissimo se si vuole raccontare qualcosa in maniera
spiccia.
Le frasi unite tramite la sola punteggiatura si chiamano
coordinate per asindeto, perché in greco asindeto vuol dire
“mancanza di legami”; quelle unite tramite congiunzione si
chiamano per polisindeto, perché polisindeto significa “con molti
legami”, e infatti le congiunzioni sono legami forti, talmente
stretti che sono segnalati da parole apposite.
Rispetto a quelle unite solo dalla punteggiatura, le frasi unite
attraverso le congiunzioni vanno invece lette con un tono meno
concitato, sono frasi di più ampio respiro.
Giulio Cesare, per narrare il successo delle sue campagne
militari, si limita a un «venni, vidi, vinsi», legato da tre virgole.
Del resto era un generale e non aveva tempo da perdere: doveva
conquistare Roma e il mondo.
Se invece «Giorgio sta andando in ufficio e si ferma al bar a
prendere un caffè e poi dal giornalaio per comprare una rivista»
siamo autorizzati a pensare che se la stia prendendo molto
comoda e non aspiri a conquistare nulla, nemmeno una
promozione.
Le congiunzioni sono parole invariabili, che possono essere
usate anche per accostare due termini all’interno di una frase. Se
dico di un ragazzo che è «buono ma testardo» o «intelligente e
simpatico» la congiunzione unisce due aggettivi riferiti alla stessa
persona. Se cito il verso dantesco «parlar e lagrimar vedrai
assieme» la «e» unisce due infiniti di verbi, e quindi sta tenendo
assieme due frasi.
Le congiunzioni possono essere semplici quando sono una sola
parola (e, o, ma, se), composte se sono il risultato di una fusione
fra due o più parole (sebbene, oppure, infatti, affinché,
nondimeno) o addirittura derivare da una intera frase (nonostante
= non ostante, participio presente del verbo ostare = che si
oppone, che impedisce).
Ci possono poi essere delle locuzioni congiuntive, ovvero dei
modi di dire che si comportano come se fossero delle congiunzioni
(anche se, dopo che, tranne che, dal momento che, visto che, ogni
volta che, dato che).
Come la colonna sonora anticipa le caratteristiche della scena
(avete presente nei thriller la musica ansiogena che precede un
omicidio?), le congiunzioni fanno anche capire che sfumatura ha
la frase che sta arrivando. Quindi studiarsi bene le congiunzioni
aiuta moltissimo a costruire bene i periodi.

Le congiunzioni coordinanti
Le congiunzioni coordinanti servono a introdurre delle frasi
coordinate. Si dividono in sottogruppi. Le copulative
semplicemente accostano due frasi in maniera molto neutra:
«Sono uscito e ho comprato il pane.» Le negative ovviamente
negano qualcosa che è stato detto: «Non ho intenzione di parlare
con lui né di telefonargli.» Le disgiuntive accostano due possibilità
fra cui è necessario scegliere: «O mangi questa minestra o salti
dalla finestra», «Prendi l’autobus oppure chiami il taxi?». Le
avversative invece sono una specie di sterzata nel discorso. Si
usano quando nella principale si è detta una cosa e nella
coordinata si vuole correggere il tiro o proprio cambiare
direzione: «Il suo curriculum è bellissimo, tuttavia lei non è il
candidato che fa per noi», o il famigerato «non sono
razzista/sessista/fascista ma…» che di solito preannuncia qualche
frase terribilmente razzista, sessista o fascista. Quando dopo un
incipit che sembrava promettere bene arriva un’avversativa,
aspettatevi qualche mazzata.
Le congiunzioni dichiarative sono diventate, loro malgrado, il
manifesto di un’epoca: è una dichiarativa il terribile cioè che negli
anni Settanta/Ottanta veniva usato come un intercalare, tanto da
essere addirittura scelto come titolo per una famosa rivista per
adolescenti. Suoi colleghi sono infatti e quindi, anche loro spesso
sparsi a caso nelle conversazioni. In realtà le dichiarative servono
a spiegare meglio un qualche termine o una frase: «Faccio il social
media manager, cioè gestisco i profili social dell’azienda per cui
lavoro», «Non ho sentito Enrico oggi, quindi non ti so dire dove
sia», «Sono intollerante al latte vaccino, infatti ho preso il
cappuccino con il latte di soia».
Una congiunzione molto bistrattata è dunque: dovrebbe servire
a tirare le somme perché è una conclusiva, ma spesso viene usata
invece all’inizio del discorso. L’Italia è piena di gente che inizia le
frasi con un «dunque volevo dirti che…» ed è la prima volta che
apre bocca. Dunque invece va usata alla fine, quando si tirano le
somme: «Ho esaminato tutte le possibilità, dunque mi sono deciso
a partire.» Se poi volete rimarcare il fatto che alcuni parlano per
ore senza però mai arrivare a una conclusione, aspettate che
stiano zitti un attimo e chiedete loro con il sopracciglio lievemente
alzato: «Dunque?» invitandoli a proporre finalmente una qualche
soluzione. Può essere un modo efficace per stroncarli con
eleganza.

Le congiunzioni subordinanti
La vera regina delle congiunzioni subordinanti è il che, da non
confondere con il pronome relativo.
Deriva dal latino quia, che era però una congiunzione causale
traducibile con il nostro perché. In italiano è diventata un vero
factotum, come il Figaro di Rossini. Tutti la chiamano, tutti la
vogliono e può introdurre molti tipi di subordinate.
In dipendenza da un verbo impersonale (come accade, succede,
capita, sembra) o da un predicato nominale impersonale (è bello,
è giusto, è necessario, è lecito…) introduce una subordinata
soggettiva, cioè una frase che tutta intera si comporta come se
fosse il soggetto della principale; in dipendenza da un verbo
normale come dico, affermo, penso, credo, giudico, ritengo, vieto,
concedo… introduce una subordinata oggettiva, cioè una frase
che fa da complemento oggetto.
Il che si usa anche nelle dichiarative, che sono frasi un po’
pedanti: infatti la subordinata chiarisce e specifica il senso di un
nome o di un pronome usato nella principale: «Mi fa soffrire il
pensiero che tu non stia bene», «Ho avuto l’impressione che ci
racconti tante bugie», «Sono certa del fatto che mi ami», «Questo
penso di te, che tu sia un uomo abbastanza stupido», «A questo
siamo arrivati, che credi di potermi prendere in giro
impunemente!».
Inoltre il che può anche introdurre delle frasi limitative, cioè
quelle frasi che limitano gli effetti o il campo d’azione: «Che io
sappia, non si può fare.»
Se nella principale poi c’è un così, tale, talmente o il più
arcaico siffatto e poi un che, siamo in presenza di una subordinata
consecutiva, cioè che spiega le conseguenze di un fatto: «È stato
così maleducato che l’ho piantato in asso al ristorante», «Lo
scoppio è stato talmente forte che sono rimasta sorda per
mezz’ora», «Mi ha fatto provare un tale spavento che non sono
riuscita a spiccicare parola», «È un uomo siffatto che lo puoi
chiamare vile marrano!».
Altra congiunzione che fa alle volte da jolly è perché. Può
infatti introdurre frasi causali («Ho preso l’autobus perché ero
stanco») ma anche finali («Ti spiego queste cose perché tu le
sappia») e interrogative («Dimmi perché ti comporti così»).
Le temporali vengono in genere introdotte da quando, mentre,
allora, dopo che, ogni volta che. Attenzione al mentre, che
introduce una temporale quando indica il momento in cui accade
l’azione («Mentre andavo al mercato ho visto Giorgio»), ma può
essere usato per una coordinata avversativa se invece imprime
una svolta inaspettata al racconto («L’ho visto darsi alla pazza
gioia in discoteca, mentre aveva giurato di essere impegnatissimo
con lo studio!»).
Le frasi concessive sono precedute da benché, sebbene, anche
se («Sono venuto a lavorare sebbene avessi la febbre»), mentre le
condizionali usano se, purché, a condizione che, a patto che («Se
prendi l’influenza, è meglio stare a casa»).
Una spiegazione un po’ più dettagliata meritano le
comparative, le quali introducono una comparazione in cui una
delle due frasi presenta un’azione che è preferibile a quella
contenuta nell’altra. Usano spesso il nostro vecchio amico che, in
unione con il piuttosto, a formare la coppia piuttosto che. Il
piuttosto che usato male è una delle iatture dell’italiano odierno,
perché molti, non è chiaro per quale motivo, pensano che sia
alternativo ed equivalente a una congiunzione disgiuntiva, e ne
infilano persino più di uno nella frase: «Vai in America piuttosto
che in Europa piuttosto che in Asia per le vacanze?», «Ami la
mamma piuttosto che il papà?». No, santa pazienza. Frasi come
queste fanno infuriare come una biscia l’accademico della Crusca,
anche se di suo è magari una persona di buon carattere. Piuttosto
che introduce una preferenza netta fra due termini in alternativa
(e solo due, non una lista). Quando chiedete al bimbo se ama la
mamma piuttosto che il papà, oltre a violare le regole della
grammatica, gli scatenate un dramma freudiano non da poco.
Evitate, o preparatevi poi a pagargli a vita lo psicanalista.
Il testo e i suoi stratagemmi, piccolo manuale di retorica

Il testo e i suoi stratagemmi

A cosa serve la retorica


Mettiamo che uno abbia imparato a cucinare. Sopravvivere,
sopravvive, perché sa combinare qualche piatto veloce, un primo,
un secondo, persino un dolce. Ma è un cuoco? No. Se la cava, ma
se gli arrivano ospiti, non abbina bene i piatti fra loro, o i piatti
con i vini. E infine quando deve presentare tutto in tavola, la
tragedia: i cibi, anche se sono buoni, sono magari brutti da
vedere, poco invitanti, o serviti su stoviglie mal assortite e in
bicchieri non adatti. Per diventare uno chef, anche dilettante, il
cammino è ancora lungo.
Ecco, con la grammatica e con il lessico succede un po’ la
stessa cosa. Quando uno ha imparato le regole, e approfondito il
significato delle parole, sa parlare e se la cava. Ma da qui a essere
in grado di tenere un discorso efficace, o trattare in modo
esauriente un argomento, scrivere un racconto o un romanzo, ce
ne corre. Alle volte gli può anche riuscire, esattamente come al
casalingo capita di inventare una ricetta che funziona, o cucinare
un piatto succulento. Se però vuole entrare nel novero di coloro
che conoscono e sanno usare bene tutte le potenzialità del
linguaggio, la sola grammatica non basta: ci vuole la retorica.
Ma che dici? – starete sbuffando voi – la retorica è una cosa
brutta! È quel modo di parlare antico che usano certi tromboni
insopportabili nelle occasioni ufficiali, è la noia di discorsi vuoti
che fanno riferimento a grandi valori che nessuno ha mai
praticato, citano personaggi che non ci si ricorda più esattamente
per quale preciso motivo vadano onorati, sbrodolano con parole
altisonanti senza costrutto.
No. Quella non è la retorica, anzi sta alla retorica vera come la
scatoletta di zuppa precotta sta alla cena in un ristorante tre
stelle Michelin.
La retorica è una tecnica molto sofisticata e di grande
tradizione che studia come usare le parole nel modo più efficace
per comunicare. Noi tutti usiamo alcuni artifici e figure della
retorica ogni volta che apriamo bocca, e talvolta persino senza
aprirla, quando formuliamo un pensiero. Solo che spesso non ce
ne rendiamo conto e non lo sospettiamo nemmeno.
Viviamo in un mondo dove i trucchi della retorica sono presenti
ovunque: nei versi delle canzoni più orecchiabili, negli slogan e
nei jingle pubblicitari, nei tormentoni dei comici di successo, nei
discorsi dei politici, nei meme ben riusciti sulla rete, nei tweet che
diventano virali e vengono condivisi ovunque. La retorica ci
circonda, e qualche volta ci assedia. È un’arma potentissima, più
pericolosa e subdola di qualsiasi pistola, cannone, bomba, perché
agisce direttamente sul cervello. Non ti uccide, ti convince. E sei
fregato.
Se impariamo a conoscerla saremo in grado di difenderci e
persino di contrattaccare. Altrimenti saremo disarmati e destinati
a soccombere. Dite: da che parte preferite stare, voi?

La retorica e l’arte della manutenzione delle masse


C’è qualcosa che lega indissolubilmente la Sicilia alla storia
delle lettere. Lì nacque nel Medioevo, come abbiamo visto, la
prima poesia in volgare italico della penisola. Ma prima ancora,
all’inizio del V secolo avanti Cristo, lì era nata la retorica.
L’arte retorica fu inventata a seguito di una serie di baruffe
legali. Nelle colonie greche di Sicilia ogni tanto il potere veniva
preso da qualche tiranno locale, che ammazzava o esiliava gli
avversari politici e ridistribuiva quindi le loro terre e i loro beni ai
suoi amici più fidati. Quando però il tiranno moriva o veniva
cacciato, gli ex avversari tornavano in città e reclamavano i beni
perduti, portando in tribunale gli amici del tiranno che se li erano
presi in maniera illegittima. Ne scaturivano cause complicatissime
e ramificate. Avere dalla propria parte la legge alle volte non era
sufficiente, perché nelle poleis greche i processi si facevano non
davanti a un tribunale di esperti, ma di fronte a una giuria di
cittadini. Diciamo, per fare un paragone, che erano gli antesignani
dei moderni reality show. Spesso e volentieri i giurati erano inclini
a farsi influenzare da bei discorsi, dando la vittoria a chi sapeva
parlare meglio e toccare le corde giuste, creare un personaggio,
raccontare una buona storia. Così, accusati e accusatori finirono
con l’assumere specialisti in grado di scrivere arringhe
appassionate e soprattutto appassionanti. I più quotati furono
Corace e Tisia, di Siracusa. Erano nati i primi avvocati ed era nata
la retorica, che, in greco, vuol proprio dire «arte del parlare in
pubblico».
Allievo di Corace e Tisia fu Gorgia da Leontini, che era un
uomo sagace e intuì che l’arte da lui perfezionata aveva
potenzialità ben maggiori che aiutare ex ricchi di provincia a
recuperare campi e averi. Si trasferì quindi ad Atene, che allora
era la città più potente del Mediterraneo e la più ricca, e iniziò
una sfolgorante carriera da retore e sofista, non solo patrocinando
cause, ma dando vita anche a veri e propri show nei teatri, in cui
la gente suggeriva argomenti che poi Gorgia sviluppava a braccio,
sul momento, giocando con virtuosismi e frasi ardite per
strappare l’applauso. Ad Atene infatti c’era una cosa
fondamentale per la retorica: un pubblico di massa. Non solo le
giurie dei processi, ma anche le assemblee democratiche che
discutevano e votavano leggi, finanziamenti per spedizioni
militari, trattati commerciali, guerre, tregue, paci. I destini del
mondo e fiumi di denaro dipendevano dalle decisioni di persone
comuni, che potevano essere influenzate da chi era in grado di
parlare loro in maniera convincente. Da quel momento in poi e
fino a oggi, il potere è stato sempre nelle mani di chi padroneggia
l’arte della retorica. Se vuoi il consenso delle masse non puoi
prescindere da lei.
Quando si presenta la retorica come «l’arte del parlare bene»,
intendendo con questo un discorso lungo, ricco di termini astrusi
e dotti, le si fa un torto. La retorica è la tecnica del parlare
efficace, ovvero del saper costruire frasi adatte a colpire il genere
di pubblico che interessa. È un cecchino che mira dritto al suo
bersaglio, lo studia, lo conosce bene. Sarà svenevole e leziosa se
ha un pubblico pudibondo e aggraziato, pomposa e prolissa se
deve impressionare vecchi tromboni in disarmo, o maschia,
diretta e volgare quando vuole conquistarsi masse di zotici. Come
il grande chef, sa preparare all’occorrenza sia un hamburger con
patatine unte sia una cena di dieci portate con trionfi di pernici in
crosta e lingue di pavone in salmì. È una tecnica: mette quindi in
campo tutti i mezzi necessari per ottenere il risultato che si
prefigge. Trump e Obama, Macron e Le Pen, Grillo, Salvini e
Renzi, tutti hanno alle loro spalle esperti che usano tecniche
retoriche, spesso sofisticatissime, per comunicare con gli elettori.
Non fatevi ingannare se alcuni sembrano dire senza filtro la prima
cosa che passa loro per la testa. Anche quella è una tecnica ben
studiata per apparire naïf. La naturalezza, come diceva Oscar
Wilde, è la più sofisticata delle pose.

Organizzare un discorso
La retorica è una tecnica dai risvolti molto pratici: serve a
governare gli stati. Per questo motivo, anche se è stata inventata
dai Greci e Aristotele stesso le dedicò un fondamentale trattato,
sono stati poi i Romani a studiarla a fondo per applicarla. I
Romani erano un popolo concreto e spiccio, con la vocazione a
organizzare il mondo per farlo funzionare speditamente. A
tutt’oggi i migliori trattati di retorica in circolazione sono ancora
quelli scritti da Cicerone, dall’anonimo autore della Retorica ad
Erennio e da Quintiliano: per quanto nel Novecento la retorica e
la linguistica siano state profondamente studiate anche con gli
apporti delle nuove scienze, le basi erano già state individuate e
analizzate a Roma nell’antichità.
I Romani individuarono cinque tappe fondamentali per parlare
in maniera efficace: inventio, dispositio, memoria, elocutio e actio.
Memoria e actio sono quelle che a noi interessano meno,
perché riguardano non tanto il testo scritto, ma il momento in cui
bisogna presentarlo in pubblico: studiano infatti le tecniche per
memorizzarlo (fondamentali nell’età antica, quando non esisteva il
gobbo elettronico per leggere) e il modo con cui l’oratore teneva il
palco e pronunciava il suo discorso. I suggerimenti degli antichi
sono spesso validi anche oggi, e vi stupirebbe quanto vengano
messi in pratica in contesti insospettabili: sia il buon Mastrota,
quando accarezza ispirato le pentole, che Obama, quando
coccolava infanti alla Casa Bianca o mangiava con gusto
hamburger al fast food, sono campioni di actio, per tacere del
vero e proprio rituale delle presentazioni Apple di Steve Jobs,
gran sacerdote in maglietta nera minimalista e signore del
Keynote.
Ma sono inventio, dispositio ed elocutio i punti su cui chi scrive
testi si deve concentrare.
Inventio in latino è un falso amico: non va tradotto a orecchio
come «invenzione». Viene da invenio, che significa “trovare,
reperire, ripescare”. L’inventio è la fase preliminare che oggi
potremmo assimilare al brainstorming: quella in cui cioè si
buttano sul foglio, persino un po’ alla rinfusa, tutte le idee che
riteniamo in qualche modo correlate all’argomento che vogliamo
trattare, o che ci sembrano valide per sostenerlo.
Una volta che abbiamo capito cosa dobbiamo dire, si passa alla
fase due, ovvero alla stesura di una scaletta. Questa è la
dispositio. È il momento in cui si incastrano gli argomenti e i fatti
in maniera da convincere o commuovere lo spettatore. Deve
quindi essere studiata attentamente per venire strutturata con
logica serrata o almeno apparire tale (spesso gli oratori infatti
giocano molto sul fatto che un discorso sembri logico all’uditorio,
anche se poi, magari, è basato su premesse fallaci o volutamente
traballanti). La dispositio era a sua volta suddivisa in parti:
l’exordium, cioè la parte introduttiva, spesso era strutturata come
una captatio benevolentiae, cioè una serie di frasi o di
affermazioni in cui l’oratore cercava di guadagnarsi la fiducia e la
simpatia dell’uditorio («Qui siamo fra amici!», «Non serve
spiegare le cose dettagliatamente, visto che siamo colleghi!», «Voi
siete intelligenti, avete già capito come va la faccenda!», «Fra
maschi ci si capisce!», «Qui siamo donne, non servono tante
parole!»). Poi veniva di solito la narratio, ovvero la parte in cui si
illustravano le prove (se si trattava di una arringa) o gli argomenti
a favore e contro. Quindi si passava alla argumentatio, nel corso
della quale gli argomenti venivano discussi per consolidare l’idea
che l’oratore sostenesse il giusto. Infine c’era la peroratio, cioè la
conclusione in cui si faceva appello ai sentimenti del pubblico, per
convincerlo a sposare le tesi sostenute.
La dispositio è una struttura portante, ma poi bisogna
cominciare a lavorare di cesello, ovvero frase per frase. Bisogna
decidere come dire le cose, come scriverle per ottenere l’effetto
migliore nella mente dell’uditorio e portare a casa il risultato.
Tutto questo rientrava nella fase che a noi interessa di più:
l’elocutio.

Le figure retoriche
La regola fondamentale della letteratura è che le belle storie
funzionano sempre. Se raccontate bene, ancora di più. Per
raccontare bene una storia bisogna che le frasi con cui viene
narrata siano precise, intriganti, piene di pathos. Devono essere
come una freccia che si pianta al centro del bersaglio e non la
togli più di lì. Le figure retoriche servono a creare frasi efficaci. In
greco si chiamano schemata, cioè schemi, e sono un po’ come le
app del cellulare: fanno una sola cosa, ma la fanno bene. Clicchi e
ti danno il risultato che vuoi.
Il latino figura è invece legata al verbo fingo, che anche in
questo caso vuol dire una cosa leggermente diversa dal suo
discendente italiano. Significa infatti “costruisco, manipolo”. Ecco,
le figure retoriche fanno questo: sono uno schema con cui si
costruisce una frase manipolando e giocando con l’ordine delle
parole, delle lettere o con i concetti e i significati.
«È del poeta il fin la meraviglia» diceva Giambattista Marino, e
aveva ragione. Non c’è niente di meglio per venire ricordati che
proporre al pubblico qualcosa, un’immagine, un pensiero, una
frase che non si aspetta, lo spiazza e lo colpisce: non la dimentica
più. Che poi è la forma specifica di immortalità che promette la
letteratura.
Figure di parola/suono

L’onomatopea, ovvero dire le cose con i suoni


Alle volte, a furia di scriverle, ci dimentichiamo di una cosa
ovvia: le lettere rappresentano dei suoni. Le parole, le frasi, i
discorsi prima di tutto sono questo: gruppi di suoni pronunciati
assieme. Se sono accostati con garbo, o con furbizia, formano una
vera e propria melodia che il nostro cervello percepisce e ricorda
con maggiore facilità. Se dovete imparare a memoria una lista di
parole scollegate fra loro, ricordarle è un’impresa titanica. Ma
provate a metterle in musica, diverrà quasi una passeggiata. Per
una intera estate anni fa abbiamo cantato a squarciagola il
ritornello pseudospagnolo «Aserejé, ja deje tejebe tude jebere
sebiunouba majabi an de bugui an de buididipì», che non voleva
dire assolutamente nulla. Ma la musichetta era orecchiabile e
tanto è bastato per farcelo fissare nel cervello.
I poeti e gli scrittori (ma anche i creativi della pubblicità) non
dimenticano mai che le parole sono fatte di suoni. Giocano su
questo per riuscire a colpirci, anche sotto la cintola, sfruttando
suggestioni che non sono razionali e quindi arrivano al nostro
animo quasi senza filtro.
Il grado zero dell’elaborazione è proprio quello in cui un suono
della natura viene preso così com’è. Se scrivo «il gatto fa miao», il
miao nasce dalla trascrizione quasi automatica del verso prodotto
dal mio amico a quattro zampe. Quando si trascrive un verso di un
animale o un suono usando delle lettere e si crea una parola
nuova, la figura retorica che mi permette di fare ciò si chiama
onomatopea. Deriva dal greco ὄνομα, “nome”, e ποιέω, che
significa “creo”.
Le onomatopee sono molto più diffuse di quanto crediamo.
Esistono infatti parole onomatopeiche di primo livello, cioè che
riproducono il semplice suono (miao, bau, chicchirichì, tic tac, zig
zag, pum, patatrac), e di secondo livello, cioè verbi che derivano
da parole onomatopeiche di primo livello: miagolare, abbaiare,
ticchettare, zigzagare, gracchiare, fischiare, zirlare, bisbigliare,
strisciare, cliccare.
Una intera classe di onomatopee di primo livello è di origine
straniera. Queste parole ci son giunte, per esempio, dal mondo del
fumetto, dove alcuni suoni vengono riprodotti per iscritto nelle
tavole. Abbiamo così importato splash per indicare il tonfo
nell’acqua o il crash che indica il rumore di uno scontro.
L’esterofilia alle volte ha mandato in pensione onomatopee italiche
per sostituirle con altre di origine inglese: ormai quando
dobbiamo indicare il suono di un colpo di pistola noi tutti usiamo
più facilmente bang che non l’italico pum. Pum oggi sembra una
parola adatta a uno sparo imitato da una voce infantile, appare
persino dolce e ingenuo. In realtà la storia che si porta alle spalle
è tragica. Ta-pum è il titolo di una straziante canzone della Grande
guerra, e le due parole onomatopeiche indicavano il suono del
colpo dello Steyr-Mannlicher M1895, il fucile in dotazione ai
cecchini austriaci che fece strage nelle nostre trincee.
Non è un caso che una onomatopea faccia da titolo a una
canzone dei primi anni del XX secolo. Fra la fine dell’Ottocento e
l’inizio del Novecento nei testi letterari si iniziò a fare largo uso di
onomatopee. Giovanni Pascoli aveva una vera passione per le
onomatopee di primo e di secondo livello: le sue poesie sono
costellate di parole (alle volte inventate da lui) che riproducono
suoni nella natura.
Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte…
chiù…

«L’assiolo», in Myricae (1911)

[La brezza sfiorava le vette, le cavallette producevano suoni come se muovessero


dei sonagli d’argento, che parevano tintinnii di porte non più in grado di aprirsi, e
attorno risuonava un lamento triste: chiù.]

Anche l’altro grande poeta del primo Novecento italiano,


Gabriele D’Annunzio, faceva largo uso dell’onomatopea, anche se
quasi sempre preferiva quella di secondo livello, cioè l’uso di verbi
e termini derivati: «Fresche le mie parole ne la sera / ti sien come
il fruscìo che fan le foglie» («La sera fiesolana», Alcyone, 1903).
Grandi utilizzatori di onomatopee furono i Futuristi, ovvero il
gruppo di artisti legato a Filippo Tommaso Marinetti.
Rivoluzionari, attratti da tutto ciò che era moderno e veloce, i
Futuristi volevano rompere tutte le regole e soprattutto
sbarazzarsi dei vezzi della letteratura precedente, per creare una
lingua diretta, adatta ai tempi nuovi. Odiavano i chiari di luna, i
romantici canali veneziani, le statue antiche, gli aggettivi
svenevoli e trovavano invece le onomatopee affascinanti per la
loro capacità di riprodurre in modo diretto e secco i suoni,
soprattutto quelli meccanici provenienti dalle nuove macchine
industriali, da fucili e mitragliatrici, dalle automobili in corsa. Il
leader del movimento, Marinetti, produsse poesie come questa:
Ogni 5 secondi cannoni da assedio sventrrrare spazio con un accordo ZZZANG
TUMB TUN ammutinamento di 500 echi per azzannarlo sminuzzarlo sparpagliarlo
all’infiiiiiinito nel centro di quel zz-zang tumb tumb spiaccicato (ampiezza 50
kmq) balzare scoppi tagli pugni batterie tiro rapido Violenza ferocia re-go-la-ri-tà
questo basso grave scandere strani folli agitatissimi acuti della battaglia.

Il bombardamento di Adrianopoli (1913)

È un vero e proprio omaggio all’onomatopea, pensato per


essere recitato in pubblico, ma non è certo un esempio fulgido di
testo di facile lettura per le masse.
I Futuristi in realtà erano una piccola, agguerritissima
avanguardia intellettuale che lasciò un profondo segno non solo
nella letteratura. Il loro modo di scrivere influenzò moltissimo la
pubblicità, dove è necessario colpire la fantasia dello spettatore
con slogan a effetto e non necessariamente spiegabili attraverso
la logica.
Alcuni slogan storici della pubblicità italiana erano legati a
onomatopee: celeberrimo il Brrrr… Brancamenta, che fondeva il
suono usato per designare un brivido con il nome di un liquore
che doveva garantire un sensuale fremito di piacere. Oggi siamo
perseguitati dal meno riuscito slogan di un’acqua minerale che
magnifica la sua abilità nel farci fare plin plin. È un’onomatopea
più ipocrita, che accenna a una naturalissima funzione corporale
non citabile però in uno spot programmato di solito mentre la
gente è a tavola.

L’allitterazione, ovvero sfruttare i suoni simili


Nell’acqua il sole con un quieto barbaglio
brucia uno stanco gracidare di rane.
FRANCESCO GUCCINI, «Giorno d’estate», in Due anni dopo (1970)

Provate a leggere i versi di questa canzone. Anzi, ancora


meglio, provate ad ascoltarli cantati da Guccini, noto per la sua
erre moscia. Il concetto di allitterazione vi risulterà chiarissimo.
L’allitterazione è la ripetizione sistematica di una lettera o di
una sillaba, che ha come scopo quello di creare una serie di echi
nella testa di chi legge. In pratica si usa una lettera come un
martello: batte, batte, batte, fino a che il concetto non si fissa.
Perché funziona l’allitterazione? Perché riesce a trasmettere o
suscitare attraverso un suono una certa emozione. Probabilmente
è la figura retorica che avvicina maggiormente la poesia alla
musica: tocca dei tasti in noi che sono prelogici e ancestrali. Il
motivo per cui gli incantesimi e le formule magiche nella
tradizione venivano pronunciate a voce alta è questo.
Le parole hanno una forza propria legata al solo fatto di venire
proferite, persino a prescindere dal loro significato. Sono suono e
basta: attraverso quello agiscono e condizionano i nostri stati
d’animo. Evocano, cioè chiamano fuori, o invocano, cioè chiamano
dentro, tempeste e struggimenti.
Questa stretta correlazione fra suono e idee, anzi immagini
ancestrali, è stata studiata dalla fonosimbologia.
Ci sono suoni che immediatamente suscitano in noi
determinate sensazioni. La lettera s o il suono sc ci fanno pensare
a qualcosa di sinuoso o che si muove o avanza in maniera non
rettilinea: la serpe, il serpente, ma anche lo sciancato. Danno il
senso di precarietà di qualcosa che si scioglie o scivola. Anche il
gruppo fl rende una immagine molto simile, ma più molle o adatto
a piegarsi. Pensiamo a cose che fluttuano, si afflosciano, si
flettono, si fluidificano. Il suono l è spesso connesso alla luce, al
lampo, ma suggerisce comunque l’idea di qualcosa di non fisso,
come il barluginio, e di liquido. La r ha invece un suono duro
usato per indicare tutto ciò che rotola, rovina, ma anche vibra,
trema, rompe.
In maniera più o meno intuitiva e ben prima degli studi sul
fonosimbolismo, tutti noi nella vita comune ci siamo sempre
accorti che alcune parole risultano più adatte per esprimere i
nostri sentimenti. Quando si è fortemente irritati con qualcuno è
difficile che si sbotti in un: «Mi stai infastidendo!» Ci verrà
spontaneo esplodere in un «non rompere!» a cui facciamo seguire
un termine poco educato indicante di solito i genitali maschili, che
comincia o con una p esplosiva o una c dura. Le teorie sul
fonosimbolismo ci fanno capire che no, non è un caso.

La paronomasia e il calembour, ovvero dire le cose giocando


sull’equivoco
La paronomasia e il calembour sono due facce della stessa
medaglia. La paronomasia è una figura retorica che accosta due
parole di suono simile ma di significato diverso. I Romani
giocavano spesso sul nome di Roma, che letto al contrario sarebbe
stato amor (le parole che possono essere lette nei due sensi si
dicono palindromi). Ma esempi tipici di paronomasia sono anche
«chi dice donna dice danno», «amore amaro», «traduttore
traditore».
La paronomasia è spesso usata nei proverbi e nelle massime,
perché sembra quasi che accostando a un nome un termine di
significato diverso ma di suono simile si colgano aspetti
fondamentali e nascosti del nome stesso. I latini dicevano «nomina
sunt omina», cioè i nomi sono presagi. Era anche questa una
paronomasia.
Il calembour, nome francese di etimologia incerta, consiste
invece nell’accostare due nomi identici o molto simili ma di
significato diverso, o nell’usare lo stesso termine sfruttando due
suoi significati differenti. Ai tempi della campagna d’Italia,
Napoleone fece incetta di opere d’arte nella penisola, portandole
in Francia come preda di guerra. Da lì nacque la battuta: «Non
tutti i francesi sono ladri, ma Bonaparte sì» (il calembour era
legato alla sostituzione fra buona parte e il nome del generale
Bonaparte).
Fare battute di spirito anche feroci usando i nomi di potenti e
politici è vecchia abitudine. Già nel Rinascimento Cesare Borgia,
figlio di papa Alessandro VI, si era scelto come motto «Aut Caesar
aut nihil» (o Cesare – nel senso di imperatore – o nulla) giocando
sull’ambivalenza sul suo nome proprio. Jacopo Sannazzaro, poeta
e fondatore dell’Accademia dell’Arcadia, prendendo spunto da
questo compose un velenoso epigramma:
Aut Caesar aut nihil, vult dici Borgia. Quid ni?
Quum simul et Caesar possit, et nihil.

[O Cesare o nulla vuol essere detto Borgia, e perché no?


Lui può ben essere assieme e Cesare e nulla.]

È un caso in cui il calembour si è rivelato un boomerang.


Oggi i calembour sono spesso alla base di molti titoli
giornalistici: «Il Grillo parlante», «Raggi di luce su Roma» fanno
riferimento ai cognomi degli esponenti di spicco del Movimento 5
Stelle, Beppe Grillo e Virginia Raggi, e si incrociano con gli inviti
a votare «il Matteo giusto» (cioè a scegliere fra Matteo Renzi, del
Partito democratico, e Matteo Salvini, della Lega Nord: quale sia
quello giusto dipende dai convincimenti politici di chi usa la
frase). I calembour sono accattivanti e spiritosi, ma sarebbe
meglio non abusarne. Soprattutto se si è giornalisti, il cui lavoro
dovrebbe consistere nel dare notizie, non nel trovare simpatiche
battute per servirle al pubblico.

Figure di costruzione

Ellissi e reticenza, ovvero dire e non dire


Finora abbiamo giocato con la forma o il senso delle singole
parole. Un altro modo però per far rimanere impressa nella mente
del lettore una frase è quello di scriverla con un leggero scarto
rispetto alla costruzione abituale. Si gioca sul filo del rasoio: le
frasi infatti devono essere abbastanza strane da colpire la
fantasia, ma rimanere comunque comprensibili.
Il modo più semplice per colpire l’uditorio è non dargli
qualcosa che è abituato ad avere. Le frasi ellittiche sono quelle
mancanti di una parte che di solito è presente: il soggetto o ancor
meglio il verbo. La frase risulta comprensibile comunque, perché
la parte sottintesa è facilmente intuibile. Se grido: «Fermi e zitti!»
radunando una classe di alunni che si dimenano come tarantolati,
è intuibile che stia sottintendendo l’imperativo «state». Siccome
però è usatissima anche in frasi comuni, l’ellissi non è una figura
retorica particolarmente efficace, perché ha subito un processo di
svalutazione. Siamo così abituati a frasi monche che raramente ci
colpiscono.
Una ellissi potenziata è la reticenza, che in qualche modo è una
ellissi che avvisa chiaramente di star nascondendo qualcosa, anzi,
la cosa nascosta è il punto centrale della frase: «Meglio che
taccia, ma ce ne sarebbero di cose da dire in proposito…»
La reticenza si basa sul presupposto che il lettore sia in grado
di completare la frase per conto suo: annuncia una cosa in parte
già nota o intuibile, crea suspense. Il metodo è antichissimo e
usato fin dai tempi della antica Grecia. Platone diceva dell’oracolo
di Delfi che «non dice e non tace, ma accenna». L’oracolo, infatti,
spesso e volentieri si lavava le mani dei disastri che combinavano
coloro che interpretavano male i suoi responsi sibillini e
volutamente ambigui. La reticenza non prendendosi le
responsabilità di ciò che lascia intuire manda la gente allo
sbaraglio. In questo senso è una figura retorica un po’ pilatesca,
che se troppo sfruttata risulta omertosa e viscida. Ogni tanto
certe reticenze venate di gratuita malignità vanno lasciate lì, da
sole, come quelli che le hanno partorite.

Incroci e scambi: chiasmo e zeugma


Tutti conosciamo almeno un chiasmo di persona. Anche quelli
che non hanno mai frequentato volentieri le pagine dei libri, e
men che meno i manuali di retorica, hanno sentito, almeno una
volta nella vita: tutti per uno, uno per tutti. Il chiasmo prende
nome dalla lettera greca “chi”, che si scrive χ. In pratica è una
figura retorica in cui le parole sono disposte in modo da formare
una croce. Se infatti si scrive:
Tutti per uno!
Uno per tutti!

si nota che collegando il «tutti» della prima riga e il «tutti» della


seconda, e l’«uno» della prima riga e l’«uno» della seconda, viene
fuori proprio una χ. Altri esempi di chiasmo possono essere «si
lavora per vivere, non si vive per lavorare», o la famosa domanda
marzulliana «la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere?», che
non è proprio un chiasmo perfetto, ma insomma, per essere stata
partorita da un conduttore televisivo come Gigi Marzullo ci va
molto vicino.
Lo zeugma deriva da una parola greca che significa “giogo”. È
una figura retorica che unisce (aggioga, quindi) due parole o due
verbi che in realtà dovrebbero creare due frasi indipendenti, e in
cui il verbo reggente è spesso concordato ad sensum, cioè
andrebbe bene per uno solo dei termini citati.
Il più famoso zeugma della letteratura italiana è di Dante:
«Parlare e lagrimar vedrai insieme» (Inf. XXXIII, 9). Anche qua il
verbo reggente «vedrai» a lume di logica non va bene per reggere
entrambi gli infiniti: si può vedere qualcuno «lagrimar», ma si
sente qualcuno «parlare».
Lo zeugma è il protagonista di un celebre scambio di battute
nel Pendolo di Focault di Umberto Eco:
«Perché non fa un salto su da me? Ho dei bicchieri di carta e il pomeriggio
libero.»
«È uno zeugma» osservai.
«No, un bourbon imbottigliato.»

L’esempio di Eco fu contestato in quanto qui il verbo ho in


questo caso reggerebbe correttamente entrambi i termini
aggiogati. Eco replicò che nel primo caso («ho dei bicchieri») il
verbo avere ha senso letterale e nel secondo («ho il pomeriggio
libero») figurato, in quanto il tempo non si possiede realmente.
Nel dubbio su chi avesse ragione, due dita di bourbon speriamo
abbiano contribuito a risolvere amichevolmente la questione.

L’anacoluto, ovvero frasi che vanno per i fatti loro


Un errore è tale perché chi sbaglia voleva dire qualcosa che gli
è riuscito male: è un incidente di percorso della comunicazione.
Ma se invece l’errore è fatto a bella posta, anzi pianificato? Allora
è un anacoluto.
Può sembrare assurdo, ma gli errori, al contrario degli omicidi,
se sono premeditati sono meno gravi. Il fine di ogni
comunicazione, come abbiamo visto, è quello di passare
informazioni il più possibile precise al destinatario. Alle volte in
questo processo gli errori sono necessari. L’anacoluto infatti può
avere la funzione o di caratterizzare meglio un personaggio o di
comunicare al lettore un grumo di emozioni contrastanti che
impediscono all’autore di mantenere un filo logico nel discorso.
Prendiamo il caso di uno scrittore che stia descrivendo nel suo
testo un tizio non molto colto e che per specifiche vicende
biografiche non abbia potuto frequentare magari nemmeno le
scuole di base. È credibile che questo personaggio parli come un
fine intellettuale, non solo adottando termini sofisticati, ma anche
coniugando alla perfezione i verbi o costruendo i periodi con un
uso sapiente della consecutio temporum che ormai sfuggirebbe
anche a fior di laureati? No. Nei romanzi gialli di Andrea Camilleri
il personaggio Agatino Catarella, centralinista pasticcione del
commissariato di Vigàta alle dipendenze di Salvo Montalbano, non
formula una frase corretta nemmeno per sbaglio, e ci
mancherebbe. Se parlasse forbito, il suo personaggio perderebbe
ogni senso. Nei romanzi della saga di Harry Potter, Hagrid, il
gigante che non è riuscito a completare gli studi e fa il custode a
Hogwarts, produce gustosi svarioni di ortografia e sintassi,
mentre gli alunni del prestigioso collegio, da Harry a Draco, anche
se sono solo dei ragazzini, parlano già come una futura classe
dirigente. Nella Ricerca del tempo perduto, Proust dedica pagine
memorabili all’esame delle sottigliezze linguistiche usate dalla
duchessa di Guermantes o alle piccole manie lessicali della
borghese Albertine. Pasolini in Ragazzi di vita inventa una “lingua
delle borgate” che nella realtà non esiste, e i delinquenti di
Romanzo criminale o di Suburra di Giancarlo di Cataldo usano un
romanaccio plebeo appena appena ripulito. La lingua è l’arma con
cui lo scrittore comunica la psicologia dei suoi personaggi, e
quindi gli errori sono un mezzo per far emergere ciò che sono.
L’anacoluto in questo senso è spesso uno squarcio sull’intimità
più profonda. Aiuta a far emergere tutto quel tumultuoso non
detto che abbiamo dentro. Quando Pascoli scrive: «Io la mia patria
or è dove si vive» non è più un serio e coltissimo latinista e poeta
dotto, ma un ragazzino spaurito e sconvolto, che ha perso ogni
affetto e certezza. Al punto da non riuscire a rispettare le regole
grammaticali che invece onora quando è un membro ben inserito
e rispettabilissimo della società. L’anacoluto, in questo caso, non è
un errore: è un grido dell’anima.

Ripetete, ripetete, qualcosa resterà: anafora, anadiplosi ed


epanalessi
Nella mitologia le Grazie erano tre sorelle, e abbellivano il
mondo. Nella retorica ci sono tre figure strettamente imparentate,
che abbelliscono le frasi e i testi: sono l’epanalessi e le sue sorelle,
anadiplosi e anafora. Non fatevi spaventare dai nomi, che
effettivamente sono bruttini assai. Epanalessi in greco vuol dire
molto semplicemente “ripetizione”. Si tratta infatti di uno schema
retorico per cui una parola o un pezzo del testo viene replicato e
ripetuto più volte, per sottolinearne l’importanza.
L’epanalessi può essere disseminata nel testo in varie posizioni:
all’inizio di una frase o periodo, in mezzo, alla fine. Un esempio
efficacissimo di epanalessi è il discorso funebre di Marco Antonio
nel Giulio Cesare di Shakespeare (atto I, scena II). Trovandosi
nella necessità di pronunciare un discorso di lode sul cadavere di
Cesare in presenza di coloro che l’hanno fatto fuori con l’accusa di
essere un tiranno, Marco Antonio sfrutta tutti i trucchi della
retorica per portare il pubblico dalla sua. Ripete ossessivamente il
ritornello, «Bruto è un uomo d’onore», come se stesse
riconoscendo all’avversario e uccisore di Cesare la grandezza di
chi ha agito per salvaguardare la Repubblica, ma poi fa seguire
l’affermazione da una serie di frasi che smontano questa tesi,
ricordando invece la bontà e la magnanimità della vittima:
Qui, col consenso di Bruto e degli altri
– ché Bruto è uom d’onore,
come lo sono con lui gli altri –
io vengo innanzi a voi a celebrare
di Cesare le esequie. Ei mi fu amico,
sempre stato con me giusto e leale;
ma Bruto dice ch’egli era ambizioso,
e Bruto è certamente uom d’onore.
Ha addotto a Roma molti prigionieri,
Cesare, e il lor riscatto ha rimpinzato
le casse dell’erario: sembrò questo
in Cesare ambizione di potere?
Quando i poveri han pianto,
Cesare ha lacrimato: l’ambizione
è fatta, credo, di più dura stoffa;
ma Bruto dice ch’egli fu ambizioso,
e Bruto è uom d’onore.
[traduzione di Goffredo Raponi, Progetto Manuzio, www.liberliber.it, 2015]

Il nome «Bruto» citato da Antonio è spalmato lungo tutto il


testo, riaffiora come un leitmotiv. Quando invece la parola o il
segmento di frase occupano sempre una posizione specifica
oppure vengono ripetuti due volte abbiamo rispettivamente
l’anafora e l’anadiplosi.
Anadiplosi vuol dire “raddoppiamento”. Avviene quando il
termine viene ripetuto due volte per rafforzarne il peso o il
significato. Viene usata anche nel linguaggio comune. Nelle fiabe
il protagonista «cammina e cammina», mentre nelle case i
genitori si lamentano di dover ripetere ai figli le cose «ancora,
ancora e ancora». In poesia la troviamo spesso, come in Leopardi:
«O natura, natura, / perché non rendi poi / quel che prometti
allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?» (A Silvia).
L’anafora è invece la ripetizione di una parte di testo o di una
parola all’inizio di più versi o frasi. L’esempio più celebre è quello
dei versi che Dante usa per descrivere l’epigrafe sopra la porta
dell’Inferno: «Per me si va nella città dolente / per me si va
nell’etterno dolore / per me si va fra la perduta gente.» Qua la
ripetizione sistematica di «per me» dona alle tre frasi il ritmo
cadenzato di una campana a morto, ideale per suggerire il clima
di angoscia e di disperazione di quel posto, dove le anime entrano
per venire tormentate in eterno. Il per iniziale, con un raffinato
gioco di assonanze anaforiche, riprende poi la sillaba iniziale di
«perdete ogni speranza o voi ch’entrate», la frase che conclude
l’epigrafe ed è anche la pietra tombale che sigilla i dannati,
inchiodandoli al loro destino di infelicità senza redenzione.
Quattro anafore che chiudono per sempre il cerchio della vita.

Il climax, o la montagna russa dell’emozione


Il climax è una scala retorica. Ricorda certe scene dei film di
azione in cui al Pentagono i generali riuniti assieme al presidente
per una crisi minuto dopo minuto alzano il livello di allarme:
defcon 3, defcon 2, defcon 1. È un modo per far salire o scendere
in maniera programmata il coinvolgimento emotivo del lettore,
l’ansia o il senso di benessere. Per questo in latino viene chiamato
gradatio, cioè salita per gradi, e può essere sia ascendente che
discendente.
Prendendo spunto dal nostro solito amico Dante, un climax
ascendente si trova nei primi versi della Commedia, «esta selva
selvaggia e aspra e forte». Come si vede i tre aggettivi descrivono
in crescendo un ambiente decisamente ostile. Stesso tipo di
climax abbiamo quando qualcuno dice: «Sono irrequieto, ansioso,
angosciato» o, al contrario: «Sono tranquillo, sereno, serafico.»
Il climax è una figura retorica che può portare il lettore sulle
montagne russe dell’emozione, con ascese velocissime e discese a
schianto quando si combinano assieme in rapida successione un
climax ascendente e discendente. È utilissimo anche per creare
esilaranti effetti comici, in cui il lettore con una serie di climax
ascendenti viene portato al massimo della tensione emotiva per
poi riportarlo brutalmente alla prosaica realtà di ogni giorno,
come nella celeberrima poesia Io ti amo di Stefano Benni:
Io ti amo
e se non ti basta
ruberò le stelle al cielo
per farne ghirlanda
e il cielo vuoto
non si lamenterà di ciò che ha perso
che la tua bellezza sola
riempirà l’universo

Io ti amo
e se non ti basta
vuoterò il mare
e tutte le perle verrò a portare
davanti a te
e il mare non piangerà
di questo sgarbo
che onde a mille, e sirene
non hanno l’incanto
di un tuo solo sguardo

Io ti amo
e se non ti basta
solleverò i vulcani
e il loro fuoco metterò
nelle tue mani, e sarà ghiaccio
per il bruciare delle mie passioni

Io ti amo
e se non ti basta
anche le nuvole catturerò
e te le porterò domate
e su te piover dovranno
quando d’estate
per il caldo non dormi
E se non ti basta
perché il tempo si fermi
fermerò i pianeti in volo
e se non ti basta
vaffanculo

Figure di senso

Dopo aver giocato a smontare e rimontare le frasi come fossero


scansie dell’Ikea, il passo successivo è mettersi a giocare con il
senso delle frasi stesse. Le figure di senso cercano di modificare
attraverso l’uso del linguaggio la percezione della realtà.
Fino ad ora le figure retoriche avevano usato il suono o la
disposizione delle parole per colpire il lettore; qua saliamo a un
piano superiore e più complesso: iniziamo a lavorare su quello
delle idee e dei significati. Se fossimo in un videogioco, saremmo
passati al livello più complicato, quello in cui per sopravvivere
bisogna essere molto scaltri.

La similitudine, ovvero una cosa come un’altra


Bella come una mattina
d’acqua cristallina,
come una finestra che mi illumina il cuscino.
Calda come il pane,
ombra sotto un pino,
mentre t’allontani stai con me forever. […]

Chiara come un abc,


come un lunedì
di vacanza dopo un anno di lavoro.
Bella forte come un fiore
dolce di dolore,
bella come il vento che t’ha fatto, bell’amore.
JOVANOTTI, «Bella», in Lorenzo 1997 – L’albero (1997)

Gran parte del successo di questa canzone di Jovanotti è


probabilmente dovuto al fatto che i versi propongono uno schema
retorico semplicissimo, alla portata di tutti. La similitudine infatti
è la figura retorica più intuitiva e semplice, quella che per
descrivere una persona, un oggetto, una qualità, un sentimento lo
paragona a qualcos’altro che conosciamo bene. Il bimbo che vuole
bene alla mamma le dice: «Sei bella come il sole!» Il bimbo di
solito ha due anni, Jovanotti di più, ma la cosa funziona sempre,
anche perché noi donne con i complimenti siamo spesso di bocca
buona.
Le similitudini però, proprio perché sono semplici da
concepire, si svalutano molto in fretta. Un’immagine geniale
quando viene ripetuta milioni di volte e per millenni tende a
scivolare nella banalità, per cui poeti e prosatori quando
inventano una similitudine spesso sono costretti a cercare
immagini via via più complicate e inaspettate.
Ci sono però similitudini così centrate che nella letteratura si
sono tramandate per generazioni quasi intatte, conservando tutta
la loro forza espressiva, e sono quindi state riprese in ogni epoca.
Una delle più longeve è quella fra la vita caduca delle foglie e
quella altrettanto incerta degli uomini. Il primo a usarla è stato
Omero (Iliade, IV, 146):
οἵη περ φύλλων γενεὴ τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν

[Come la stirpe delle foglie è quella degli uomini.]

La similitudine piacque molto a Virgilio, che la riprese


nell’Eneide (VI, 305-310):
Huc omnis turba ad ripas effusa ruebat […]
quam multa in silvis autumni frigore primo
lapsa cadunt folia […].

[E lì la turba correndo si spandeva sulla riva,


come al primo gelo d’autunno
le foglie nei boschi scivolano a terra.]

Dante la riprese in Inferno III, 112:


Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso dell’altra, infin che il ramo
vede alla terra tutte le sue spoglie;
similemente il mal seme d’Adamo.

E arriva infine nel Novecento a Ungaretti:


Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.

Nella seconda metà del secolo c’è una svolta. La suggestione


arriva al pubblico di massa grazie al testo del poeta Jacques
Prévert, in Francia, che nel 1945 usa l’idea delle foglie emblema
della caducità delle cose come tema centrale di una canzone
scritta per Yves Montand, Le foglie morte:
Les feuilles mortes se ramassent à la pelle
Tu vois, je n’ai pas oublié
Les feuilles mortes se ramassent à la pelle
Les souvenirs et les regrets aussi.

Et le vent du Nord les emporte,


Dans la nuit froide de l’oubli.

[Le foglie morte cadono a mucchi…


Vedi: non ho dimenticato
Le foglie morte cadono a mucchi
come i ricordi, e i rimpianti
e il vento del nord porta via tutto
nella più fredda notte che dimentica.]

Cosa cambia da Omero a Prévert? Le foglie non sono più usate


per una similitudine introdotta dal «come», ma l’immagine delle
foglie si sovrappone e si identifica con quella dei ricordi del
passato, spazzati via dal vento. Abbiamo lasciato il campo della
similitudine e siamo entrati in quello di un’altra figura retorica: la
metafora.

La metafora, ossia una cosa per l’altra


Pochi lo sanno o lo sospettano, ma quando dicono: «Ho un gran
mal di testa» stanno usando un’antica metafora. In latino testa,
nel senso di cranio, si diceva caput, da cui deriva il nostro capo.
La testa era invece il guscio della tartaruga, la conchiglia e anche
il coccio del vaso, come testimonia il Testaccio, ovvero un
quartiere di Roma che nacque su un enorme cumulo di cocci di
vasi rotti, praticamente una discarica. Pian piano la testa indicò
prima il carapace della tartaruga, poi il cranio, infine la nostra
testa.
Il percorso della metafora è questo: metafora infatti deriva dal
greco (come al solito!) e significa: trasferire un significato su una
parola che originariamente voleva dire altro. Le metafore possono
riguardare, come nel caso di testa, un singolo termine che indica
due cose molto simili fra loro, come, per esempio, le gambe del
tavolo che si chiamano così per analogia con le gambe nostre, in
quanto svolgono la stessa funzione: ci reggono. La bottiglia ha il
collo, la bilancia ha bracci, internet è una rete: le metafore sono il
pane quotidiano del linguaggio. E anche questa, sì, avete
indovinato: è una metafora, doppia per giunta: c’è quella
«metafora» = «pane» e quella «pane» = «alimento principale che
porta nutrimento e consente di crescere».
Tutte queste citate finora sono metafore così cristallizzate che
qualche volta, usandole, non vengono neppure più percepite come
tali. Vengono indicate con il nome di metafore d’uso, nel senso che
sono ormai entrate nell’uso comune. Siamo abituate a sentirle, a
dirle noi stessi, e non ci fanno più effetto. Ma il mestiere degli
autori di testi letterari è proprio quello di inventare e creare
metafore nuove e interessanti, che spiazzino il lettore e colpiscano
la sua fantasia, svelando spesso aspetti della realtà che lui non era
in grado di cogliere. Questo tipo di metafore vengono dette
metafore d’invenzione. Dante Alighieri usa una meravigliosa
metafora all’inizio del suo Purgatorio:
Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele […].

Qui la fantasia dell’autore è paragonata a una nave che si


lascia alle spalle un mare tempestoso e difficile da navigare
(l’Inferno che il poeta ha descritto nella prima cantica) per
iniziare una parte molto più serena del viaggio. L’immagine, che
forse deriva da un verso di Properzio (III, 3), viene però da Dante
riattualizzata e riproposta in maniera originale.
Altra metafora legata al tema della navigazione è il celeberrimo
«e il naufragar m’è dolce in questo mare» che chiude L’infinito di
Giacomo Leopardi. Qui i pensieri in cui si perde il poeta sono un
liquido abbraccio a cui si abbandona.
La metafora è una sorta di similitudine concentrata, in cui i due
termini prima separati dal come perdono ogni distanza, si
sovrappongono e si identificano. Il Re Sole, al secolo Luigi XIV, era
tale perché veniva considerato dai suoi sudditi centrale come il
sole lo è al centro del nostro sistema solare. Si esprimeva per
metafore, e infatti ricordava sempre: «Lo stato sono io!» Era una
matrioska di metafore, insomma. E anche questa è una metafora.
Non se ne esce.

La sineddoche e la metonimia, ovvero quando una cosa è


connessa all’altra
La sineddoche e la metonimia possono essere considerate un
passo in più nel percorso di identificazione e di avvicinamento. Se
nella metafora i due termini si compenetrano uno nell’altro («Lo
stato sono io!»), nella sineddoche e nella metonimia ormai i due
termini sono così uniti che uno prende il nome dell’altro, tanto
distinguerli ormai non serve più. La sineddoche viene dal greco e
significa “comprendere più cose assieme”, metonimia vuol dire
“cambiamento di nome”. Fra i due ci sono leggerissime differenze,
ma i confini fra l’una e l’altra sono labili.
La sineddoche si verifica, per esempio, quando si usa il
singolare per il plurale. Nella Canzone del Piave di E.A. Mario i
nostri bisnonni o trisavoli affermavano orgogliosamente: «Non
passa lo straniero!», intendendo che gli stranieri, nel caso
particolare i militari austriaci, sarebbero stati fermati ai confini
della patria. Sempre sineddochi sono le frasi in cui il termine
astratto viene scambiato per il concreto: «Amo Dante» = amo i
versi di Dante; o anche un materiale per un manufatto costruito
con quel materiale: «Ha vinto un oro ai mondiali», «Quel bronzo
etrusco è un capolavoro».
La metonimia è quando il nome di una parte viene usato al
posto di quello del tutto: capita spesso per esempio che noi
indichiamo comunemente con il termine «braccio» l’intero arto
superiore, mentre un anatomista correttamente suddividerà in
«braccio» e «avambraccio».
Se un marziano ignaro dell’uso di figure retoriche sentisse
questo dialogo fra terrestri: «Ci siamo scolati una intera bottiglia,
ieri sera!» «I soliti ubriaconi, io mi sono limitato a un bicchiere!»,
ne potrebbe desumere che noi beviamo il vetro, mentre in realtà
stiamo usando una metonimia fra contenuto e nome del
contenitore.
Anche le due figure retoriche finiscono spesso per confondersi
e sovrapporsi fra loro. In alcuni manuali sono indicati come
sineddochi alcuni esempi che qua sono usati per la metonimia. Fra
i due termini, insomma, c’è stato uno scambio. Una sineddoche. O
una metonimia. Decidete voi, a questo punto.

L’iperbole, ovvero spararle grosse


Nelle compagnie c’è sempre l’amico che come si suol dire “la
straccia”, o la fa fuori dal vaso. Quello che, se compra una
macchina nuova, si vanta di poter fare da 0 a 100 in un millesimo
di secondo, incurante del fatto che tutte le prove su strada e
anche le leggi della fisica lo smentiscano; quello che lavora
venticinque ore al giorno perché è un manager superimpegnato
(anche se poi, stranamente, ciondola al bar per intere giornate
mentre gli altri mortali sono in ufficio); quello che è un latin lover
di chiara fama e ha avuto milioni di donne, tutte giovani, belle e
per giunta ricche, che avrebbero fatto pazzie per sposarlo, ma lui,
eh, è uno spirito libero e le ha rifiutate. Ecco, quest’uomo qui,
oltre che un conclamato bugiardo, è spesso un inconsapevole
campione di iperboli.
L’iperbole è una figura retorica che viene da un verbo greco che
significa “getto più in là, butto più lontano”. Consiste
nell’esagerare volutamente le caratteristiche di qualcosa. Quando
esclamiamo: «Sono secoli che non ti vedo!», «Non potrei vivere
senza il cellulare!», «Mi bastano un goccio d’acqua e un tozzo di
pane per sopravvivere», stiamo usando tutti delle iperboli. Alle
volte l’iperbole può andare a braccetto con la metafora per creare
delle immagini ancora più potenti: «Ha speso fiumi di denaro per
il suo matrimonio», «Quando mi sono tagliato si è formato ai miei
piedi un lago di sangue».
Una categoria che di solito usa le iperboli in quantità
industriali è quella degli adulatori. Quando si tratta di osannare i
potenti, nessuna iperbole è troppo arrischiata. L’imperatore Tito fu
definito dai contemporanei «delizia del genere umano» anche se si
trattò di un generale piuttosto spiccio nel trattare le questioni
militari, e la presa di Gerusalemme e relativa diaspora ebraica ne
sono la prova. Federico II di Svevia era chiamato stupor mundi
(«stupore del mondo») dai suoi cortigiani, e del Re Sole abbiamo
già ampiamente parlato. Diceva Giovanni Papini: «L’adulatore è
colui che dice, senza pensarle, le cose medesime che l’adulato
pensa di sé, senza avere il coraggio di dirle.» Entrambi, di solito,
hanno la mente zeppa di iperboli.

La litote, ovvero l’arte della diplomazia


Se l’iperbole è la figura retorica del cortigiano, la litote è quella
del diplomatico. La sua funzione principale è quella di attenuare e
limare, ed è l’equivalente retorico di una camminata sulle uova.
Per evitare di esporsi troppo, la litote non afferma ma si limita a
non negare, un po’ come la Cia quando deve per forza uscirsene
con una dichiarazione ufficiale sul suo operato.
L’uso della litote può essere dovuto alla buona educazione: non
potendo dire di un tizio che è un perfetto cretino, ci si limita a
rilevare che «non è un genio». Può aiutare a mettere le mani
avanti quando si è costretti per forza a dare un parere su una cosa
di cui non ci intendiamo molto: «Non sono certo un esperto di vini,
ma a me questo pare buono.» È indispensabile se si sta cercando
di rifilare a un’amica un ragazzo bruttarello: «Ma questo Mario
che mi vuoi presentare, è bello?» «Bello no, ma è un tipo.» Ci sono
casi in cui la litote trae in inganno, perché ricade nella tipologia
della falsa modestia e cela malamente un ego spropositato. Quelli
che dicono «a mio modesto parere», «non spetta certo a me
ricordare che» vogliono far capire a tutti che non sono gli ultimi
arrivati. In realtà usano la litote come i cani usano la pipì per
marcare il territorio. E per questo alle volte la litote, anche se
sembra tanto educata, puzza.

Figure di pensiero

Le figure di pensiero, al contrario di quelle che fino ad ora


abbiamo preso in considerazione, non si limitano a una parola,
una frase o un periodo. Possono estendersi per pagine e pagine,
addirittura per un’opera intera, essere una sorta di trama del
discorso, o meglio una specie di settaggio, come quello del
cellulare: si imposta la modalità ironia, o allegoria e poi si fa
partire il testo. Proprio per questo motivo, devono essere ben
calibrate fin dall’inizio. Non c’è niente di peggio di un testo che
vuole essere ironicamente leggero e invece vira verso il sarcasmo
a buon mercato e scade nell’invettiva, o di un’allegoria che
diventa pesantissima fino a schiacciare tutto con le sue velleità
didascaliche. Le figure di pensiero si chiamano così perché vanno
pensate attentamente, e a lungo meditate. Se le figure retoriche
precedenti sono come le spezie in una ricetta, le figure di pensiero
sono più affini alla tecnica con cui decidiamo di cuocere i nostri
ingredienti. Vanno conosciute a fondo e usate con maestria,
altrimenti il cibo risulta scotto, crudo, bruciato, colloso o
durissimo. Immangiabile, insomma, e bisogna buttarlo via.

L’apostrofe, ovvero ce l’ho proprio con te!


Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza? Per quanto ancora questa
tua follia si prenderà gioco di noi? Fino a dove si spingerà la tua sfrenata
audacia?

CICERONE, Catilinarie I, 1

Se Marco Tullio Cicerone, console per l’anno 63 a.C., sbotta in


questa feroce apostrofe è perché non ce la fa più. Ha le prove che
Lucio Sergio Catilina, rampollo decaduto di una famiglia patrizia,
sta ordendo da mesi una congiura per far fuori lui, il collega
console ed esautorare il senato di Roma. Quindi la mattina dell’8
novembre, dopo una notte insonne passata a limare l’orazione, gli
sputa letteralmente in faccia l’accusa, in piena Curia.
Non parla a Catilina, o meglio, non a lui solo. Vuole scuotere i
colleghi senatori, perché reagiscano con forza e velocemente, e
soprattutto vuole lanciare, da bravo politico, avvertimenti anche
agli avversari, come Giulio Cesare e Crasso, che se non sono
direttamente fra i congiurati di certo sanno molto e hanno
appoggiato e protetto Catilina con il loro silenzio.
Ecco, questo è un perfetto riassunto di cosa sia un’apostrofe.
Una figura retorica in cui apparentemente si sbotta rivolgendosi
all’improvviso a una sola e ben determinata persona, ma che in
realtà è un discorso indirizzato anche ad altri destinatari.
Poche cose come un’apostrofe piazzata nel punto giusto
scuotono l’uditorio. Cicerone, che non a caso è un maestro di
oratoria, la piazza lì, all’inizio, come un tuono improvviso a ciel
sereno, che sveglia i senatori quando si sono appena seduti sul
loro scranno e cercano di ricordare quale mai sia l’ordine del
giorno della mattinata. Un’apostrofe galvanizza: è una baruffa
improvvisa che scoppia fra due in mezzo alla strada suscitando
l’attenzione dei passanti.
Perché possa esplodere in tutto il suo fragore bisogna avere
l’accortezza di creare prima un clima apparentemente pacato.
Così accade per esempio in A Silvia:
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi? […]
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!

[che cori = che cuori]

È solo a questo punto che Leopardi mena il suo fendente,


iniziando un’apostrofe contro la Natura matrigna e crudele:
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?

La Natura, come del resto anche Catilina, non risponde. Le


apostrofi in questo caso entrano nella più larga categoria delle
domande retoriche, quelle che si fanno i poeti o la gente comune
ad alta voce, ma che sono fatte tanto per fare, anche perché
spesso, come in entrambi questi casi, le risposte si sanno già, e
sono amarissime.

L’allegoria, ovvero parlare alla nuora perché la suocera intenda


Per spiegare l’allegoria Aristotele diceva che era una metafora
continuata. In effetti ancor oggi è difficile formulare una
definizione più precisa. L’allegoria deriva come al solito dal greco,
e significa quindi “parlare d’altro”, ovvero nascondere dei
significati più profondi dentro a una frase o un testo che
apparentemente dicono una cosa completamente diversa.
L’allegoria fu inventata dai dotti greci che si trovavano spesso
in imbarazzo per le leggende circolanti sui loro dèi: bellissime, ma
non proprio edificanti. Erano storie di corna, omicidi efferati,
inganni vergognosi, baruffe da pollaio fra divinità. Un po’ come
quei figli che da adulti si vergognano per come hanno fatto i soldi
i genitori, gli intellettuali si inventarono l’allegoria, per spiegare
che quelle storie un po’ scollacciate e imbarazzanti in realtà erano
metafore di qualcos’altro. Se io racconto il vecchio mito greco di
Crono che mangia i suoi figli pare una vicenda trucida, come le
favole in cui gli orchi mangiano i bambini; se però l’erudito di
turno mi fa notare che chronos in greco vuol dire “tempo” e
quindi la favola è una allegoria del tempo che mangia i suoi figli,
cioè i giorni, tutto prende un’altra sfumatura: da racconto splatter
a spiegazione di un ordine naturale.
I cristiani trovarono interessantissima questa possibilità:
consentiva loro di continuare a leggere i racconti dei miti greci
non come orribili menzogne pagane ma come una sorta di
racconto cifrato in cui Dio aveva nascosto verità universali, e
quindi permetteva loro di riutilizzarle senza commettere peccato.
Le parabole di Cristo, del resto, erano allegorie, quindi a buon
diritto le allegorie potevano essere adottate dai suoi seguaci.
Sul finire dell’età antica e soprattutto nel Medioevo l’allegoria
divenne un canone ermeneutico, cioè una modalità standard per
interpretare i testi, sia antichi che contemporanei, e non ci si
limitava ai testi. Tutti usavano l’allegoria: i pittori nei quadri, i
poeti, gli scultori. Grandi opere come la Commedia di Dante sono
state pensate come lunghe allegorie. Alle volte veniva appiccicata
una lettura allegorica anche su opere che in origine non avevano
alcun significato recondito. Del resto, “parlare d’altro” nel senso
di trasformare storie alle volte molto private e particolari in
esempi o emblemi di intere generazioni o dell’intera umanità è
una delle caratteristiche fondamentali della letteratura. Che
dunque forse è tutta quanta una lunga allegoria.

Ironia e sarcasmo, ovvero il mondo non va preso sul serio


L’ironia è difficilissima da spiegare. Prova ne è che quasi
nessuno la capisce.
Al di là della battuta, è veramente una fatica improba riuscire a
dare una definizione precisa di questa figura retorica, perché per
sua natura l’ironia è impalpabile e inafferrabile. Come il sale nei
cibi, si sente se manca, ma se è troppa rende il piatto
immangiabile. Bisogna metterne quanto basta, il famoso «q.b.»
delle ricette, che però, non essendo una misura ben precisa, non
si sa mai esattamente quanto sia.
La parola ironia deriva come al solito dal greco, e voleva dire
“dissimulazione”. Un gran campione di ironia era il filosofo greco
Socrate. Quando voleva prendere in contropiede un qualche
tronfio avversario convinto di essere un genio della dialettica,
Socrate affermava di essere ignorantissimo nelle materie in cui
l’altro si dichiarava esperto, e iniziava a bombardarlo di domande
precisissime, che però smontavano a poco a poco tutte le certezze
dell’altro. Il poveretto, per rispondere, finiva con l’incartarsi, si
contraddiceva, si confondeva, e alla fine era costretto a capitolare
ammettendo che le sue idee erano fumose e incerte, e si sgonfiava
come un palloncino punto da uno spillo.
Oggi diremmo che Socrate trollava, e di brutto, ma l’ironia si
basa appunto sul gusto sottilmente perfido di demolire, anche se
con un bonario sorriso sulle labbra, la sicumera altrui.
L’ironia non è solo una figura retorica, alle volte è un modo di
vedere il mondo, soprattutto quando diviene autoironia, ovvero la
difficilissima arte del non prendere sul serio nemmeno noi stessi.
L’ironia è una brezza leggera, e mai malevola. Non vuole ferire,
al massimo dare qualche bonario buffetto: sorride, non ghigna.
Se invece la battuta diviene sferzante e feroce e viene
concepita per far male all’avversario o distruggerlo non siamo più
nell’ironia, ma abbiamo ormai sconfinato nel campo del sarcasmo.
Sarcasmo in greco vuol dire “lacerazione della carne”, e quindi
non è un buffetto o una punzecchiatura: è più un fendente menato
con la sciabola o con il machete.
Campione riconosciuto di elegante ironia è sempre stato lo
scrittore Oscar Wilde. Alcuni suoi aforismi sono perle di humor
leggero, folgorante e perfetto: «So resistere a tutto tranne che
alle tentazioni», «Un amico è qualcuno che ti conosce molto bene
e, nonostante questo, continua a frequentarti», «Il ricco e il
povero sono fratelli, e il fratello ricco si chiama Caino». Un
maestro di sarcasmo feroce fu invece l’austriaco Karl Kraus. Uno
dei suoi detti più crudeli recita: «La maggior parte dei miei simili
è la triste conseguenza di un aborto che non è stato commesso.»
Per esercitare in maniera corretta il sarcasmo, insomma, non è
necessario disprezzare profondamente il genere umano. Però
aiuta.
Suggerimenti di lettura

di Giulio Mozzi1

Da qualche parte bisogna cominciare, e tu hai deciso di


cominciare a esplorare la lingua italiana – questa lingua così bella
e così bizzarra – in compagnia di questo libro di Mariangela
Galatea Vaglio. Ottima scelta. Però forse questo libro, se ha
soddisfatto un po’ delle tue curiosità, te ne ha fatte nascere delle
altre. Le curiosità sono come le ciliegie, si sa. E dunque, ecco
qualche suggerimento per ulteriori letture.
Se ti è nata una curiosità per la storia della letteratura italiana,
o per la letteratura italiana in genere – non è necessario
conoscerne tutta la storia per filo e per segno, per apprezzarne le
opere maggiori – la cosa più pratica è che tu ti procuri un buon
libro di scuola. La parola “scuola” non ti spaventi. Quando studiavi
a scuola, la materia era magari bella ma era pur sempre un
obbligo; e poi bisognava non solo leggere ma anche imparare, e
ricordare, e saper ripetere: e per questo la cosa ti pesava
comunque. Sfogliare un’antologia della letteratura italiana,
invece, sfogliarla senza impegno, fermandosi dove c’è qualcosa
che interessa di più, saltando dove c’è qualcosa che interessa di
meno, andando dall’inizio verso la fine o dalla fine verso l’inizio o
dal mezzo verso una parte qualunque, è tutt’altra faccenda. È
come passeggiare in un parco, senz’obblighi né oneri. Tra le tante
antologie di letteratura italiana che sono in commercio, possiamo
consigliartene una recente, particolarmente ben fatta, con
“apparati” di note e commenti particolarmente chiari e utili.
S’intitola Cuori intelligenti, la pubblica Garzanti scuola, ed è stata
diretta – un’opera così estesa difficilmente può essere l’opera di
una persona sola – da un giovane docente universitario, Claudio
Giunta, che insegna all’Università di Trento. Giunta è uno
specialista di letteratura antica, Dante e prima di Dante, ma è
anche un appassionato di letteratura contemporanea e di serie
televisive. Non un parruccone, insomma. Tutt’altro. E per
compilare Cuori intelligenti si è avvalso della collaborazione di
alcuni insegnanti della scuola secondaria superiore, molto bravi,
molto attenti alla chiarezza dell’esposizione e molto consapevoli
del principale obiettivo: far piacere la letteratura italiana. Di
quest’opera ci sono varie versioni, per tutti i tipi di scuole; la più
ampia è quella rossa, per il liceo classico, e tanto vale puntare
direttamente su quella.
Se ti è nata una curiosità per la grammatica, la faccenda è un
po’ più difficile. I libri di grammatica sono inevitabilmente
noiosetti, e spesso decisamente ostici. Ti consigliamo quindi un
manuale tra i tanti, abbastanza contenuto nella mole (ma sono
comunque più di settecento pagine!), e poco costoso: così, se
scoprirai che l’approfondimento della grammatica non fa per te,
potrai almeno consolarti sapendo di aver speso poco. L’autore è
Marcello Sensini, il titolo è ovviamente Grammatica della lingua
italiana, e il libro si trova negli Oscar Mondadori. Sensini insegna
Didattica della lingua italiana a New York: è dunque abituato a
insegnare la nostra lingua anche a chi la conosce sicuramente
meno di te. Se – in particolare – il tuo cruccio è la punteggiatura,
puoi fare ricorso al Prontuario di punteggiatura di Bice Mortara
Garavelli, pubblicato da Laterza: svelto, agile, chiaro.
Se ti è nata una curiosità per le parole, per i loro significati
(spesso molteplici e intricati), per la loro storia, eccetera, è chiaro
che hai bisogno di un dizionario. Anzi, di due. Anzi, di tre. O
magari anche di più. Di buoni dizionari della lingua italiana ce ne
sono tanti, e puoi scegliere a tuo piacimento tra lo Zingarelli
(pubblicato da Zanichelli) o il Devoto-Oli (pubblicato da Le
Monnier), o qualunque altro. Sono un po’ differenti tra loro, ma si
tratta di differenze minime: scegli, dopo averlo sfogliato in
libreria, quello che ti sembra più agevole, che ti pare impaginato
più chiaro, dove ti sembra di ritrovarti meglio. In genere esistono
edizioni maggiori ed edizioni minori: la differenza è di solito non
solo nel numero delle parole, ma anche nell’ampiezza delle voci
dedicate a ciascuna parola. Ma tu sai già che i dizionari si trovano
anche in rete: nel sito del Corriere della sera puoi consultare il
Devoto-Oli, nel sito della rivista Internazionale puoi consultare il
Dizionario ragionato curato da Tullio De Mauro (se preferisci la
carta, devi cercarlo usato).
Un altro dizionario importante è quello etimologico, cioè quello
che spiega le origini e la storia delle parole. Il migliore, tra quelli
umanamente accessibili (ci sono anche opere composte da dozzine
di volumi, ma non ci pare il caso), è senza dubbio quello compilato
da Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, Dizionario etimologico della
lingua italiana, pubblicato da Zanichelli. Anche qui, se vuoi
risparmiare, c’è un’edizione minore. In rete puoi consultare
(www.etimo.it) il Vocabolario etimologico della lingua italiana di
Ottorino Pianigiani: è un’opera anche affascinante, ma vecchia (fu
pubblicato originariamente nel 1907), e piena di informazioni che
oggi sono considerate inesatte, o addirittura sbagliate, o
addirittura peregrine. Vedi tu. Da qualche parte bisogna pur
cominciare, e si può cominciare da lì.
I dizionari di sinonimi – molto ricercati dagli studenti – sono in
generale degli strumenti piuttosto miseri. Ti dicono che anziché
«bicicletta» puoi scrivere «velocipede», ma spesso dimenticano di
avvisarti che, oggi come oggi, uno che dica «velocipede» rischia di
farsi ridere dietro. Il più bel dizionario dei sinonimi della lingua
italiana è quello di Nicolò Tommaseo: Nuovo dizionario de’
sinonimi della lingua italiana, pubblicato nel 1830. Ogni tanto
qualcuno lo ristampa, ma conviene comperarne per pochi euro
una copia usata: lo trovi facilmente nelle bancarelle, nei negozi di
libri di seconda mano, o in rete (sia da acquistare usato, sia da
prelevare in pdf). Vale la pena di leggerlo (attenzione: di leggerlo,
non di consultarlo alla bisogna; di leggerlo a spizzico, a salti, ma
passandoci sopra delle buone mezz’ore) perché, al di là del fatto
che la lingua italiana del 1830 è piuttosto diversa da quella dei
nostri tempi (ma meno di quello che tu creda, sai?), il Tommaseo
insegna una disciplina. Insegna a soppesare le parole, a
confrontarle tra loro, a interrogarle per scoprire le diverse
sfumature di significato. L’ingenuo cerca nel dizionario dei
sinonimi una parola che equivalga a un’altra, Tommaseo ti
insegna che nessuna parola equivale a un’altra, e che ciascuna ha
una sfumatura, un di più, un di meno, un modo d’uso diverso
dall’altra.
Proprio perché la lingua cambia in continuazione sia nelle sue
forme grammaticali e sintattiche sia – ed è più facile accorgersene
– nel lessico, frequentemente vengono pubblicati dei “dizionari di
parole nuove”. Alcuni a loro tempo fecero storia, come il
Dizionario moderno di Alfredo Panzini, pubblicato per la prima
volta nel 1905 e poi, sempre aggiornato, nel 1908, 1918, 1923,
1927, 1931, 1935, e ancora dopo la morte di Panzini nel 1942,
1950, 1963: un’opera di grande successo (e anche di grande
furbizia: basta confrontare le trasformazioni delle voci “politiche”
nel corso degli anni), assai utile per capire la cultura italiana del
tempo tra le due guerre. Ebbe una certa eco, pubblicato nel 1980
da Feltrinelli, Pesta duro e vai trànquilo. Dizionario del linguaggio
giovanile di Gian Ruggero Manzoni ed Emilio Dalmonte: a
rileggerlo oggi dà la sensazione che in quegli anni si parlasse in
maniera piuttosto confusa (e fa venire il sospetto che i due autori
abbiano non solo registrato parole e modi d’uso, ma che abbiano
anche inventato parecchio). Lo scrittore Sebastiano Vassalli
pubblicò nel 1989 Il neoitaliano. Le parole degli anni Ottanta,
presso Zanichelli, libro dal quale si capisce che a lui, Vassalli, le
parole degli anni Ottanta, e forse gli anni Ottanta in generale, non
piacevano poi molto. L’elenco potrebbe essere lunghissimo. Qui
diamo solo un suggerimento: questi libri sulle parole nuove,
ovviamente, invecchiano alla svelta; si trovano a pochissimi soldi
in bancarelle, librerie dell’usato e in rete; leggerli o sfogliarli può
procurare ad alcuni il piacere di un “bagno di gioventù”, ma a
tutti può servire per capire davvero quanto la lingua sia mobile,
sempre trasformante, alla fin fine imprendibile.
Una vera e propria storia della lingua italiana che sia insieme
decentemente completa e facile da leggere, ahimè, non sapremmo
consigliarvela. È ancora in commercio, e in edizione economica, la
Storia della lingua italiana di Bruno Migliorini: un libro anche
questo ormai un po’ vecchiotto (del 1960), e tuttavia utilissimo,
non proprio facile facile, e tuttavia non ostico.
Se ti è venuta la curiosità, infine, di leggere qualche manuale
che non solo illustri la grammatica, il lessico, la storia eccetera,
della lingua italiana, ma che spieghi come si fa scrivere e a
parlare bene, potete cercare i libri di Massimo Birattari, come per
esempio È più facile scrivere bene che scrivere male, pubblicato
da Ponte alle Grazie, che è una guida simpatica e incoraggiante
quanto il suo titolo; nonché valida. Ce ne sarebbe anche un altro,
un po’ più difficile (ma anche più ampio e completo), L’officina
della parola, pubblicato da Sironi, ma qui lo nominiamo sottovoce:
perché l’autore, insieme a Stefano Brugnolo, è colui che firma
questi Suggerimenti per altre letture; e, si sa, non ha senso
chiedere all’oste se il suo vino è buono.
Mille altre letture potremmo consigliarti: ma il troppo stroppia,
e poi ciascuno di questi libri ti inviterà, esplicitamente o
implicitamente, a leggere altri libri. Ti invitiamo comunque ad
andare in una buona libreria, a cercare (magari chiedendo aiuto)
lo scaffale dedicato ai libri di lingua, grammatica, scrittura e simili
(c’è in tutte le buone librerie) e a passare lì qualche quarto d’ora,
sfogliando e confrontando. Poi comprerai, se comprerai, ciò che ti
sembrerà più adatto a te. Buone letture, e grazie per essere
arrivato a leggere fin qui.

1 Giulio Mozzi, scrittore di racconti, consulente editoriale, insegna scrittura creativa


dal 1993.
Testi consultati

A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, Einaudi, Torino 1989.


E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo,
Feltrinelli, Milano 1960.
R. Barthes, La retorica antica, Bompiani, Milano 1972.
G. Berruto, Fondamenti di sociolinguistica, Laterza, Roma-Bari 1995.
L. Braccesi, Archeologia e poesia 1961-1911. Carducci, Pascoli, D’Annunzio, L’Erma di
Bretschneider, Roma 2011.
F. Bruni, Italia. Vita e avventure di un’idea, il Mulino, Bologna 2010.
V. De Bartholomeis, «Ciò che veramente sia l’antichissima cantilena “Boves se pareba”»,
in Giornale storico della Letteratura italiana, XC, 1927, pp. 197-204.
R. De Felice (a cura di), Futurismo, cultura e politica, atti del convegno Futurismo,
cultura e politica (Venezia 15-16 maggio 1986), Fondazione Agnelli, Torino 1988.
C. De Michelis, L’Illuminismo veneziano, Olschki, Firenze 1966.
C. De Michelis, Letterati e lettori nel Settecento veneziano, Olschki, Firenze 1979.
G. Devoto, Avviamento alla etimologia italiana. Dizionario etimologico, Le Monnier,
Firenze 1966.
F. Finotti e M. Johnston (a cura di), L’Italia allo specchio. Linguaggi e identità italiani nel
mondo, Marsilio, Venezia 2015.
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1994.
G. Fusaioli e F. Ghisalberti, «Retorica», in Enciclopedia Italiana, XXIX, Treccani, Roma
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C. Giarratano, «Figura», in Enciclopedia Italiana, XV, Treccani, Roma 1932.
C. Giunta, Cuori intelligenti. Mille anni di letteratura (manuale-antologia per il triennio
delle scuole superiori), vol. I-VIII, Garzanti scuola, Milano 2016.
C. Marazzini, Breve storia della lingua italiana, il Mulino, Bologna 2004.
C. Marazzini, Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di dibattiti sull’italiano,
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C. Marazzini, L’ordine delle parole. Storia di vocabolari italiani, il Mulino, Bologna 2009.
G. Marotta, «Onomatopee e fonosimbolismo», in Enciclopedia dell’Italiano, vol. I-II,
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Boccaccio», in Studi sul Boccaccio, II, 1964, pp. 81–216.
G. Padoan, Introduzione a Dante, Sansoni, Firenze 1975.
G. Padoan (a cura di), Petrarca, Venezia e il Veneto, Olschki, Firenze 1976.
G. Padoan, Putte, Zanni, Rusteghi. Scena e testo della commedia goldoniana, a cura di I.
Crotti, G. Pizzamiglio e P. Vescovo, Longo, Ravenna 2001.
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A. Roncaglia, «Le origini e il Duecento», in Storia della letteratura italiana, a cura di N.
Sapegno e E. Cecchi, Garzanti, Milano 1987.
J. Santano Moreno, «Il solco e il verso», in Rivista di Filologia Cognitiva, I, 2003.
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R. Simone (a cura di), Enciclopedia dell’Italiano, vol. I-II, Istituto dell’Enciclopedia
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A. Sorella (a cura di), Boccaccio, Dante e Verdone, Cesati, Firenze 2016.
F. Suitner (a cura di), La poesia in Italia prima di Dante, atti del Colloquio Internazionale
di Italianistica (Università degli Studi di Roma Tre, 10-12 giugno 2015), Longo,
Ravenna 2017.
M. Tavoni, «Che cosa erano il volgare e il latino per Dante», in M. Tavoni (a cura di)
Letture classensi vol. 41: Dante e la lingua italiana, Longo, Ravenna 2016, pp. 9-27.
M. Tavoni, «Convivio e De vulgari eloquentia: Dante esule, filosofo laico e teorico del
volgare», in Nuova Rivista di Letteratura Italiana, XVII, 1, 14, 2014, pp. 11-54.
M. Tavoni, «Dante», in Enciclopedia dell’Italiano, vol. I, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana Treccani, Roma 2010.
M. Tavoni, Latino, grammatica, volgare. Storia di una questione umanistica, Antenore,
Padova 1984.
M. Tavoni, Qualche idea su Dante, il Mulino, Bologna 2015.
E. Testa, «Pascoli, Giovanni», in Enciclopedia dell’Italiano, vol. II, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2011.
M. Zaccarello, «La componente dialettale nella commedia all’italiana di ambientazione
medievale: uso e abuso del modello boccacciano», in A. Sorella (a cura di),
Boccaccio, Dante e Verdone, cit., pp. 19-24.

Sitografia:

www.treccani.it
www.accademiadellacrusca.it
Ringraziamenti

Questo libro non potrebbe essere stato scritto senza il


contributo fondamentale di alcune persone che mi sono state
vicine e mi hanno sopportato nel corso della stesura (il che ha
richiesto una notevole dose di pazienza da parte loro).
Il mio pensiero va dunque ad Anna Cucco, la fondamentale
“beta lettrice” di tutti i miei testi, alla mia agente Fiammetta
Biancatelli, a Patricia Chendi. Ringrazio Giulio Mozzi, con cui ho
lavorato, discusso e “bisticciato”, analizzando ogni singola riga di
questo testo, e Cesare De Michelis che mi ha fornito alcuni spunti
decisivi per mettere a fuoco alcuni passaggi sulla storia della
lingua, e tutte le amiche e gli amici che per mesi hanno
sopportato le mie lagne e i miei dubbi. Grazie, siete stati
fondamentali.

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