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Corso di Laurea triennale in Filosofia

Classe L-5

IL DE INSTITUTIONE MUSICA
DI SEVERINO BOEZIO

Relatore:
Chiar.mo Prof. Luca Maria BIANCHI

Elaborato finale di:

Riccardo BARACCO

Matr. 866608

Anno Accademico 2017 – 2018


Ringrazio:

il Prof. Luca Maria Bianchi, per avermi seguito, in qualità di relatore di questa tesi,
passo dopo passo con grande fiducia, professionalità ed inesauribile pazienza durante
questi mesi di studio.

In ordine alfabetico: la Prof.ssa Lucia Cristina Baldo del Conservatorio Luca Marenzio
di Brescia, il Prof. Davide Daolmi del dipartimento di Musicologia e Storia della Mu-
sica della Statale di Milano, il Prof. Nicola Di Stefano, docente di estetica all’Univer-
sità Roma Tre e la Prof.ssa Donatella Restani del dipartimento di Beni Culturali
dell’università Alma Mater Studiorum di Bologna per avermi indirizzato con impon-
derabile disponibilità e per gli inestimabili consigli musicologici, filosofici e storici.

Infine, famiglia ed amici per l’essenziale appoggio e affetto dimostrati.


Indice:

Introduzione 4

Abbreviazioni 10

I. Il contesto storico 11
I.1 Teodorico 11
I.2 Boezio 19
I.3 Boezio e Teodorico 29

II. Le fonti del De Institutione Musica 32


II.1 Musica e arti liberali 32
II.2 Circa le fontes del De institutione musica 40
II.3 L’Henkeridion Harmonikes di Nicomaco di Gerasa 49
II.4 Gli Elementa Armonica di Aristosseno di Taranto 53
II.5 L’Armonica di Claudio Tolomeo 57
II.6 La pratica musicale al tempo di Boezio 61

III. Il testo del De Institutione Musica 70


III.1 La definizione di filosofia 70
III.2 La proportione in quanto concetto estetico 75
III.3 Tre specie di musica 82
III.3.1 Musica instrumentalis 83
III.3.2 Musica humana 84
III.3.3 Musica mundana 88
III.4 La musica nel De Consolatione Philosophiae 93

Conclusione – Il problema musicologico dei modi 99

Appendice 106

Bibliografia 108
4

Introduzione

Il presente elaborato è un tentativo di analisi e di rivalutazione di uno dei testi più


importanti della storia della teoria musicale medievale: il De institutione musica del
senatore e filosofo romano Severino Boezio. Il discorso sulla musica nell’Alto me-
dioevo è inscindibile da quello filosofico, sia perché la musica rientra all’interno delle
divisioni classiche delle arti liberali, sia perché viene affrontato sempre secondo
un’impostazione teorica e quasi mai pratica. Questa tesi vuole attuare innanzitutto un
“recupero” del De musica, ridando un po’ di voce ad un’opera scritta da un filosofo
per i filosofi, ma che oggi soffre purtroppo di una certa trascuratezza da parte di questi
ultimi.
Dovrebbe destare una certa sorpresa sapere che il De musica, un’opera che percorse
un’epoca, quella Medievale, mantenendo il primato indiscusso di manuale di teoria
musicale di riferimento, sia oggi poco considerata tra filosofi e musicisti: l’interesse si
può verificare, ad esempio, consultando il numero di articoli scientifici pubblicati1 o
le edizioni moderne del testo. L’edizione moderna di riferimento è quella latina di
Gottfried Friedlein del 18672, in cui il De musica è presente a fianco del De institutione
arithmetica e di una trascrizione di un trattato di geometria attribuito a Boezio. Una
nuova edizione in latino sarà presente nel Corpus Christianorum dal 1966, e questa
godette di un importantissimo studio introduttivo in italiano di Ubaldo Pizzani (1965).
Quanto alle traduzioni, nel 1945 uscirono delle versioni in italiano di alcuni passi del
libro I del De musica, curati da Adelmo Damerini, con una breve introduzione e qual-
che nota. Nel 1989 venne poi pubblicata la prima traduzione integrale in lingua inglese
del De musica da parte di Calvin Bower. Ad essa seguì, l’anno successivo, quella ita-
liana con testo latino a fronte di Giovanni Marzi (1990), con un’introduzione e delle

1 Consultando dal motore di ricerca del sito < https://www.jstor.org >, se si ricerca la voce “boethius”
risultano 22,981 articoli scientifici, se invece si cerca “boethius de musica” ne risultano invece 2,507.
Questo significa che il 10,9% degli articoli che parlano di Boezio citano anche il De musica: questa
stima dovrebbe rappresentare il tasso di interessati al De musica rispetto agli interessati a Boezio.
Lungi dall’essere un risultato accettabile, si conti però che Henry Chadwick, nella sua celebre mono-
grafia su Boezio (v. in bibliografia, Chadwick 1981), dedica 22 pagine su 266 al De musica e le sue
fonti (79-101), quindi l’8,3% della totalità dei contenuti, che non si allontana dal 10,9% di prima.
Un’altra stima quantitativa può derivare da questa tesi: per l’elaborato ci si è serviti di non più di do-
dici articoli selezionati per la loro attinenza al tema. Contando che ce ne potrebbero essere sfuggiti
presumibilmente il triplo di quelli che in realtà sono in circolazione, dovremmo dire che su 22,981 ar-
ticoli che citano Boezio, 36 trattano direttamente del De musica, quindi circa lo 0,2%.
2 Friedlein, Gottfried, Anicii Manlii Torquati Severini Boetii De institutone arithmetica libri duo, De

institutione musica libri quinque, Lipsia, 1867.


5

note al testo molto approfondite. L’edizione italiana di Marzi fa parte di quelle pubbli-
cazioni patrocinate dall’IISM (Istituto Italiano per la Storia della Musica) a partire
dalla sua fondazione. L’IISM fu fondato nel 1938 da Raffaello De Rensis per conces-
sione del Regio Decreto-Legge del 24 novembre 1938, n.1979, siglato da re Vittorio
Emanuele III. In questo decreto si legge chiaramente3: “considerata l’opportunità di
dare incremento e coordinamento agli studi sulla storia della musica; ritenuta la ur-
gente e assoluta necessità di provvedere; […] È istituito presso la Regia accademia di
Santa Cecilia in Roma l’Istituto italiano per la storia della musica”. Questo significa
che il De musica di Boezio, era, fin dal 1938, sentito come “un’urgente ed assoluta
necessità”, insieme alle opere di Palestrina, Boccherini, Paganini, Donizzetti… Ciò
dimostra che sì, c’è in effetti scarso interesse quantitativamente parlando nei confronti
del trattato musicale boeziano, ma non qualitativamente: i pochi interessati al testo
sanno che hanno a che fare con un’opera di inestimabile valore culturale per il nostro
Paese (che è la culla di Boezio e di tutti i suoi lavori) e per l’umanità. Certe opere,
forse, è bene che rimangano custodite da poche persone coscienti: il De musica, qua-
lora venisse volgarizzato, potrebbe in effetti perdere gran parte della sua forza, e d’al-
tronde è quello che succede quando viene riassunto nei manuali come, ad esempio,
“un trattato che lega musica e matematica” o che “non fa altro che dividere tre tipi di
musica”. Posto quindi ciò, si propone comunque un motivo possibile per cui molti
preferiscono snobbare la lettura del De musica, nonostante si disponga di una bellis-
sima edizione italiana: c’è un certo disagio nei confronti dei numeri che proviene dal
“romantico antagonismo tra intelletto e intuizione”4, dal “panico della Parola di venire
spodestata dal Numero” (Ibid.). Il numero, o meglio la proporzione, è il principio di-
namico della teoria musicale per Boezio, non è solo un’impalcatura esteriore, bensì il
simbolo (σύν – βάλλω, “mettere insieme”) dell’ordine dei suoni, del cosmo e
dell’anima. Friederich Schelling (1775-1854) riprese lo stesso tema del numero di
Boezio nella Filosofia dell’arte del 1800, ma ne diede un’interpretazione tutta ideali-
stica, infatti scrisse: “la musica è un reale autocomputarsi dell’anima – è Pitagora che
ha paragonato l’anima al numero – ma proprio per questo è numero inconscio, che
dimentica sé stesso ogni volta. Perciò il leibniziano: Musica est raptus numerare se

3 Consultato URL = < http://www.normattiva.it/atto/caricaDettaglioAtto?atto.dataPubblicazioneGaz-


zetta=1939-01-09&atto.codiceRedazionale=038U1979 >.
4 Russo, Carlo Ferdinando, L’emicrania di Zeus, da Belfagor, Vol. 51, N°3 (31 maggio 1996), pag.

332-335
6

nescientis animae”5. Per Schelling il valore matematico della musica si risolve in una
questione linguistica, perché questo è il suo “significato più elevato” (Ibid.). Boezio,
dal canto suo, insiste su rapporti veri e propri, come 2:3, 3:4, 1:2… Li studia, li cate-
gorizza e con fatica trova le tecniche per saper maneggiare con facilità questi enti ma-
tematici. Sono strumenti gnoseologici, perché permettono, nella loro reale attuazione,
di fare ordine nel mondo, cosa che oggi stranamente ci terrorizza. Ancora, per conti-
nuare il discorso dell’attualità del testo di Boezio, si consideri Luciano Berio, uno dei
compositori italiani più importanti del Novecento e il suo Un ricordo al futuro6, in cui
dedica due pagine intere ai contenuti del De musica di Boezio. È singolare che proprio
Berio, instancabile sostenitore della pratica musicale e grande nemico degli eccessi
teorici di Adorno (il quale “tende a perdere ogni contatto con la realtà di questo mondo,
come se il destino ultimo e unico di ogni opera musicale fosse quello di contribuire a
un’epistemologia della musica”7), dia nei suoi ultimi saggi così grande importanza ad
un’opera antica, quella di Boezio, votata alla theoresis più che alla praxis musicale.
Berio trova in Boezio un anticipatore dell’atmosfera musicale novecentesca, perché
“la proposta teorica di Boezio non formalizzava esperienze già avvenute o una prassi
in atto, ma acquistava invece in anticipo l’esperienza del suono condizionandone la
stessa elaborazione e lo stesso sviluppo”. Come Adorno, che per comprendere
un’opera come il Wozzeck di Berg dovette estrarre dalla dialettica materialistica mar-
xista l’Angst (“angoscia”, “spaesamento”, “orrore”) che deve generare la musica con-
temporanea8, così Boezio “ricorda al futuro” (cioè a noi oggi) che “occorre condurre
una speculazione concettuale parallela, e in posizione forse prioritaria rispetto ai dati
concreti ed empirici dell’esperienza musicale”9. Allo stesso tempo, però, Boezio non
dimentica che “se non esistesse l’udito, ogni discussione sui suoni non avrebbe motivo
di sussistere”10, e proprio per questo egli rappresenta il giusto equilibrio tra

5 Guanti, Giovanni, Romanticismo e musica, edt, 1981.


6
Berio, Luciano, Un ricordo al futuro: lezioni americane, Einaudi, 2006, pag. 8 e segg.; Ophälders,
Markus. Aritmetiche e alchimie di suoni. Severino Boezio e Luciano Berio. Doctor Virtualis, [S.l.], n.
10, jan. 2011. ISSN 2035-7362. Disponibile all'indirizzo: <https://riviste.unimi.it/index.php/Doctor-
Virtualis/article/view/808>.
7 Berio, Luciano, Intervista sulla musica, Laterza, 1981, pag. 20.
8 Adorno, Theodor, W., Filosofia della musica moderna, Einaudi, 1959 (titolo originale, Philosophie

der neuen Musik, 1949), pag. 36-37.


9 Berio, Luciano, Un ricordo al futuro: lezioni americane, Einaudi, 2006, pag. 8 e segg. Igor Stravin-

sky, durante la serie di conferenze che tenne all’università di Harvard nell’anno accademico 1939-
1940 (pubblicate poi in italiano da Curci nel 1978, Poetica della musica) parla di musica in potenza e
in atto per distinguere la musica che preesiste all’esecuzione da quella che si presenta alla percezione.
10 DM I.9, pag. 300.
7

“l’osservazione «empirica» dei fatti musicali […] e le induzioni teoriche e totaliz-


zanti”11. Si dimostrerà che qui Berio prova di aver compreso bene l’intento dichiarato
di Boezio di trovare una mediazione (tramite un’impostazione tolemaica) tra gli ec-
cessi empirici di Aristosseno di Taranto e quelli teorici di Pitagora e del neopitagorico
Nicomaco di Gerasa. L’elogio di Berio verso Boezio giunse addirittura a considerare
il De musica come uno di quei “testi in attesa di essere interpretati: concettualmente,
emotivamente e praticamente”12, ma interpretati alla luce di un processo di “riseman-
tizzazione”, cioè un processo che “implica la possibilità di trasformare e, anche di fare
violenza all’integrità del testo originale con un atto costruttivo di demolizione”13. Be-
rio chiamò dunque la musica mundana di Boezio “idea” o “ideale”, e auspicò, tramite
questo processo di demolizione costruttiva, l’instaurazione di un “dialogo, sia pure
metaforicamente, tra il cielo (l’idea [musica mundana]) e la terra [musica instrumen-
talis], tra l’anima e il corpo [musica humana]”14. Così un Webern15 che orchestrò il
Ricercare di Bach a sei voci16, è un chiaro esempio di questa “risemantizzazione”,
perché grazie al metodo analitico dell’orchestrazione (cioè della trascrizione per or-
chestra), si rende possibile percepire in modo diverso l’idea (musica mundana) che
Bach cercava di tradurre in musica.
In quest’elaborato si è ciononostante preferito un approccio “filologico”, volto a co-
gliere il senso originario dell’opera nel suo particolare contesto storico più che ad uti-
lizzarla in quanto “ricordo al futuro” berghiano. Allo stesso modo, però, si è deciso di
così contestare quanti pensano che il De musica di Boezio ormai sia diventata un’opera
sterile ed inutile per il nostro tempo. Un’autorità come quella di Igor Strawinsky
scrisse, nella Poetica della musica, che “se risaliamo al di là del Trecento, difficoltà
materiali ci fermano e si accumulano fino a ridurci alle pure ipotesi” (op. cit. pag.25).
Per il compositore russo la storia, in generale, è dominata da “leggi di gradazione” (op.
cit., pag. 22), per le quali “si possono vedere con chiarezza solo i piani vicini” (Ibid.):
man mano che ci allontaniamo nel tempo abbiamo sempre meno dati concreti da pro-
porre ai nostri sensi, quindi la ragione opera con sempre meno dati. Quando però la

11 Berio, Luciano, Intervista sulla musica, Laterza, 1981, pag. 20.


12 Ibid.
13 Ibid.
14 Ibid. Tra parentesi quadre i riferimenti “impliciti” alla tripartizione della musica boeziana, appro-

fondita in III.3 di questa tesi.


15 Anton Webern (1883-1945), compositore e direttore austriaco appartenente alla celebre “seconda

scuola di Vienna”, campeggiata, tra gli altri, da Arndol Schoenberg, Alban Berg e Theodor W.
Adorno.
16 Bwv 1079.
8

ragione opera da sé, senza il contraltare dei sensi, può formulare solo delle ipotesi, che
Strawinsky chiamò “illusioni vive” (Ibid.), mentre i sensi permettono all’istinto di ope-
rare con certezza, e “l’istinto è infallibile” (Ibid.). Della pratica musicale del VI secolo
d.C. in effetti non abbiamo fonti certe, e quando Boezio parla di “musica” non dob-
biamo pensare a canti, strumenti e stile, quanto piuttosto allo sforzo della ratio nume-
rorum di dispiegarsi sul tema della proporzione aritmetica. Il discorso del De musica
è al di là dei suoni e delle sensazioni: ovviamente da esse è partito e senza di esse non
avrebbe senso, ma “come infatti anche per quel che riguarda la vista non basta ai dotti
mirare i colori e le forme senza ricercare anche le loro proprietà, così non basta sentirsi
dilettati da motivi musicali se non si impari anche per quale rapporto proporzionale di
suoni quei motivi siano tra loro congiunti” (DM I.1). Ritorna quindi il tema del rap-
porto tra sentire e pensare, tra “osservazione empirica” e “induzioni teoretiche e tota-
lizzanti” di cui aveva parlato Berio e che pervade tutto il De musica di Boezio. Questo
è forse il tema centrale da cui dipanano tutti i vari discorsi di Boezio, dal concetto di
consonanza alla definizione di filosofia, dalla discussione sulla natura del semitono e
la tripartizione dei tipi di musica alla tripartizione dei musicisti…
L’elaborato è diviso in tre capitoli, a loro volta ripartiti in paragrafi e sottoparagrafi.
I.1 vuole presentare la figura di Teodorico, sovrano goto d’Italia (493-526) e carnefice
di Boezio, passando in rassegna la sua carriera politica, le influenze bizantine, il rap-
porto con la cultura latina e le cause del declino del suo regno. I.2 invece è dedicato
alle informazioni storiche relative a Boezio, la sua famiglia, il dibattito sulle date di
nascita e di morte, il tipo di educazione, il rapporto con il cristianesimo, il suo martirio
e i motivi dell’accusa di Teodorico. I.3 infine conclude il primo capitolo studiando il
rapporto concreto tra le due figure finora approfondite tramite l’analisi di un passo del
De musica di Boezio in cui si parla del popolo dei “Geti”. Se il primo capitolo è dedi-
cato ai rapporti sociopolitici tra Teodorico e Boezio, il secondo approfondisce invece
la complessa questione delle fonti del De musica. II.1 si chiede come mai la musica
rientri all’interno dello schema delle arti liberali per Boezio e non trovi invece un locus
autonomo di riflessione, come ad esempio oggi fa. La risposta si troverà retrocedendo
fino a Platone e comprendendo che la musica non era di fatto mai stata una disciplina
autonoma. Il paragrafo II.2 confronta i vari autori moderni che approfondirono il tema
delle fontes del De musica, proponendo le varie interpretazioni dalla seconda metà del
XIX secolo agli anni ’80 del secolo scorso. II.3, II.4 e II.5 espongono i nuclei concet-
tuali di tre teorici musicali greci che influenzarono profondamente il pensiero di
9

Boezio: Nicomaco di Gerasa, Aristosseno di Taranto e Claudio Tolomeo. II.6 cerca di


gettar luce sulla pratica musicale al tempo di Boezio, ricostruendone perlomeno le
forme liturgiche cristiane originarie e la tradizione musicale gota di corte. Il terzo ed
ultimo capitolo infine si dirige verso alcuni temi del De musica selezionati per la loro
affinità al contesto filosofico. Quindi III.1 analizza e mette a confronto la definizione
di filosofia che Boezio propone in DM II.1 con quelle presenti nelle sue altre opere.
III.2 trapianta la teoria che Erwin Panofsky aveva sviluppato circa la proporzioni nelle
arti figurative nel campo musicale (Meaning in the visual arts, Doubleday & Com-
pany, 1955, cap. 2, pag. 55-69) al fine di studiare la proportio in quanto nucleo estetico
del De musica di Boezio. III.3 è l’unico paragrafo diviso in sottoparagrafi: ogni sotto-
paragrafo approfondisce uno dei tre tipi di musica di cui Boezio parla in DM I.2, cioè
musica instrumentalis, musica humana e musica celeste. III.4 analizza, basandosi sui
saggi di David Chamberlain, la filosofia della musica della Consolazione della filoso-
fia di Boezio, trovando in questa alcuni temi che completano il discorso del De musica,
come l’introduzione della musica divina. La conclusione dell’elaborato vuole infine
accennare alla questione musicologica dei modi, cioè a come, in occasione della rina-
scenza carolingia del IX secolo, si sia sviluppata la celebre teoria modale medievale
sulla base di un’erronea interpretazione di alcune pagine De musica. Quest’ultimo
tema non troverà abbastanza spazio per poter godere di un adeguato approfondimento,
per cui lo si deve considerare come una questione aperta e meritevole di un futuro
approfondimento.
10

Abbreviazioni:

AV Anonimo di Valois, Excerpta Valesiana, in Rolfe, C,


John, Ammianus Marcellinus, vol. III, Harvard Univer-
sity Press, 1986
CF Boezio, Severino, La consolazione della filosofia, edi-
zione BUR, Dallera O., 1997
DK Diels-Kranz, I Presocratici, BUR, 2014
DM Boezio, Severino, De institutione musica, traduzione di
Giovanni Marzi, Roma, 1990
PC Procopio di Cesarea, Le guerre, Einaudi, a cura di Cra-
veri Marcello, 1977
PLR Mitridale, J.R., The prosography of the Later Roman Em-
pire, II, Cambridge Univ. Press, 1980.
11

Capitolo I – Il contesto storico

La culla del De musica è la Roma degli inizi del VI secolo d.C., cioè una città che
stava vivendo la dominazione del re ostrogoto Teodorico dopo la deposizione dell’im-
peratore Romolo Augustolo da parte di Odoacre (476 d.C.). Il rapporto tra latini au-
toctoni e goti provenienti dall’est può venire distinto in due periodi: il primo caratte-
rizzato da una generale concordia tra i popoli; il secondo, invece, di esplicito conflitto.
L’Anonimo di Valois1 scrisse, riferendosi a Teodorico, che “governò due gentes [“ra-
ces”] allo stesso tempo, Romani e Goti”2, cogliendo sì gli iniziali buoni rapporti tra le
due culture, ma anche, e soprattutto, il fatto che per tutto il suo regno Teodorico ebbe
a che fare con due distinte culture, che mai giunsero ad un completo sincretismo etnico.
Per la ricostruzione di questo periodo ci si riferirà agli Excerpta Valesiana dell’Ano-
nimo di Valois3, al Bellum Gothicum di Procopio di Cesarea4 e all’encomiabile lavoro
del Mitridale5, nonché a vari autori moderni6 e ad alcuni sunti manualistici. Ad altri
testi faremo riferimento tramite frammenti, come per il De origine actibusque Geta-
rum di Giordane o per le opere di Ennodio vescovo di Pavia.

I.1 – Teodorico

Teodorico, figlio di Teodomiro re dei Goti7 e della cattolica Erelieva, nacque proba-
bilmente in Pannonia, vicino all’attuale lago Pelso (Ungheria), nel 454, anno in cui
l’imperatore Marciano concesse agli Ostrogoti di stanziarsi in Pannonia settentrionale
in qualità di Foederati. A circa 8 anni, tra il 461-62 e il 469-72, Teodorico entrò per la
prima volta a Costantinopoli in qualità di ostaggio alla corte di Leone I per garantire

1 Indicazione autorale convenzionale dello scrittore di un’importante fonte storiografica del IX secolo

pubblicata da Henri Volois nel 1636, gli Excerpta Valesiana (v. cod. Philipp. 1885, Meermanianus). A
tale fonte ci riferiremo con la sigla AV, consultando l’edizione inglese di Roffe, John C. (v. bibliogra-
fia), da cui abbiamo svolto le traduzioni in italiano.
2 AV, 12.60.
3 Cap. 7.36-16.96
4 Procopio di Cesarea, Le guerre, Einaudi, a cura di Craveri Marcello, 1977. Solo i capitoli dall’1 al 3

del V libro. Sigla = PC.


5 Mitridale, J.R., The prosography of the Later Roman Empire, II, Cambridge Univ. Press, 1980.

Sigla = PLR.
6 Di fondamentale apporto saranno la monografia di Severino Boezio in due volumi di Luca Obertello e

gli Atti del 13° Congresso Internazionale di studi sull’alto Medioevo del 2-6 novembre 1992.
7 Alcune fonti indicano Valamer come padre di Teodorico, anche se in realtà sarebbe il nonno. Cfr.

Anonimo di Valois, 42: “Teodorico, il generale dei Goti e figlio di Valamer”. Per ogni questione di
parentela e di traduzione dei nomi utilizzata, cfr. la genealogia ricostruita in Appendice, Tabella 1.
12

la pace tra bizantini e goti di Teodimiro8. L’educazione che Teodorico riceverà in que-
sto decennio è un argomento importante per capire quanto conoscesse la cultura latina,
quindi quanta sensibilità potesse avere verso i latini stessi, e quanto possa essere stato
influenzato dalla filosofia politica bizantina. Di che tipo di istruzione si trattasse, però,
non è affatto chiaro e se alcune fonti lodano la cultura di Teodorico, altre biasimano la
sua irrimediabile e barbara ignoranza9. Per riuscire a conciliare le testimonianze po-
tremmo supporre, insieme al Mitridale, che Teodorico in effetti fosse illetterato, ma
solo per quanto riguarda la lingua e la cultura latina, non quella greco-bizantina10.
D’altra parte, Obertello, pur riconoscendo una certa saggezza politica al re goto, pen-
sava che egli non ricevette alcuna educazione nelle lettere11.
Dieci anni dopo, ormai diciottenne, Teodorico venne riconsegnato a Teodimiro. Presto
dimostrò le sue doti di goto: nel 472 organizzò un’armata all’insaputa del padre e,
valicato il Danubio, sconfisse il re della Samartian (re Babai), annettendo Singiduno
ai confini goti. L’anno dopo attaccò numerose altre città, tra cui Stobi, Heraclea Lynce-
stis e Larissa. Nel 474 morì Teodimiro, designando Teodorico come successore alla
carica di Rex Gothorum12. Due anni dopo Teodorico diede prova della sua fedeltà verso

8 Gli scontri si erano aperti verso la fine degli anni Cinquanta del V sec. a causa di una provocazione da
parte di Leone I. La pace del 461 (di cui il piccolo Teodorico sarà clausola fondamentale) venne sancita
dopo la conquista di Dyracchium (moderna Durrës, Albania) da parte di Teodimiro.
9 L’Anonimo di Valois, ad esempio, scrisse che “il re Teodorico era così ignorante nelle lettere, e così

incapace a comprenderle che per i dieci anni del suo regno [in realtà furono tredici] non fu in grado di
imparare le quattro lettere indispensabili per siglare i suoi editti. Per questa ragione aveva una targhetta
d’oro con delle fessure, costituenti le quattro lettere “legi”; quindi, quando aveva bisogno di siglare
qualcosa, disponeva la targhetta sul foglio e scriveva con la penna attraverso le fessure, di modo che
fosse vista solo la sua sottoscrizione” (AV, 14.79); Procopio riportò il discorso che alcuni Goti fecero
ad Amalasunta (Cfr. Tabella 1 in Appendice) dopo la morte del marito: “Teodorico non aveva mai per-
messo che alcuno dei Goti mandasse i figli a scuola dai grammatici, e diceva sempre a tutti che se i
bambini si abituavano ad aver paura della sferza non sarebbero mai più stati capaci di affrontare senza
timore le spade e le lance”, e ancora: “Teodorico era morto dopo essersi impadronito di tutto quel terri-
torio ed essere divenuto sovrano di un regno che non gli spettava certo per eredità, sebbene non fosse
stato erudito nelle lettere” (PC, I.2). Da questi due brevi passi ci si immagina dunque un barbaro illet-
terato che gioca a fare l’Imperatore, noncurante dell’arte e della cultura e dedite solo alle questioni
belliche. Il quadro si fa più complesso quando consideriamo anche altre fonti. Magno Felice Ennodio,
vescovo di Pavia dal 514 al 521, scrisse due opere fondamentali per l’ideologia filoteodoriciana: il Pa-
negirico a Teodorico e una Vita di Epifanio. Nel Panegirico affermò: “Educavit te in gremio civilitas
Graecia praesaga venturi” (PLR, s.v. Fl. Theodoricus 7, p.1078). Così Teofane scriverà che Teodorico
fu istruito “dai migliori maestri bizantini” (Restani, Donatella, Musica per governare, Longo edit., 2004,
pag. 57).
10 Pensando al clima culturale dell’epoca, potremmo infatti supporre che ricevette almeno rudimenti di

ortografia, etimologia e mitologia greca da parte di maestri di grammatica (v. Restani, Donatella, op.
cit.).
11 Obertello, Luca, Severino Boezio vol. I, Accademia ligure delle scienze e delle lettere, 1974, pag.70.
12 Probabilmente Teodorico governava già dal 471, avendo celebrato i tricennalia nel 500 a Roma, ma

fino al 474 era subordinato al padre. La corte di Teodorico si trovava nella città di Novae, nella Moesia
Inferiore, dal 476 al 488, con un intervallo dal 478 al 483.
13

Zenone, successore di Leone I: da due anni Basilisco aveva fatto fuggire Zenone da
Costantinopoli, impossessandosi del trono, e Teodorico intervenne espugnando Co-
stantinopoli e riconfermando Zenone basileus dell’Impero d’Oriente. Grazie al suo
aiuto Teodorico ottenne il titolo di patrizio13, di magister militium praesentalis14 e di
amicus. Fu onorato con una forma di adozione, nello “stile germanico” di “figlio in
armi” da parte di Zenone.
Dal 478 abbiamo un nuovo protagonista nel panorama politico orientale: Teodorico
Strabo15. Dopo un primo periodo in cui Strabo cercò di convincere Zenone a formare
un’alleanza anti-Amala, i rapporti tra i due andarono sempre più esacerbandosi, fino
alla dichiarazione di guerra ufficiale, nel 473. Teodorico fu quindi chiamato ad onorare
la sua carica (di magister militum) e prendere il piede di guerra contro Strabo. La
guerra vide però l’imprevisto cambio di fronte di Teodorico, che giunse a patti con
Strabo per combattere contro Costantinopoli16. Nel 483 venne sancita la pace defini-
tiva: Teodorico veniva eletto console d’oriente17, e la sua gente poteva stanziarsi in
Dacia Ripensis e in Moesia Inferior, le due regioni dell’Impero più lontane possibile
da Costantinopoli.
A questo punto Teodorico cercò di riconciliarsi con Zenone uccidendo nel 484 il cu-
gino Recitach (il figlio di Strabo), ricercato dal basileus, ma l’omicidio scatenò l’ira
di Strabo, che si ribellò contro Zenone. Teodorico si schierò in difesa del basileus
ripudiando completamente l’alleanza con Strabo, ma Zenone preferì18 non far interve-
nire Teodorico, probabilmente per paura di un nuovo tradimento. Fu proprio questo

13 Titolo onorifico introdotto da Costantino per celebrare i collaboratori più fedeli. Conferito a pochis-

simi.
14 Cioè generale supremo dell’esercito.
15 Teodorico Strabo, padre di Recitach (cugino di Teodorico per non chiari legami di parentela), marito

di Sigilda e appartenente alla famiglia degli Alani


16 Possiamo ripercorrere le tappe di conquista del rex gothorum a partire dalla sua partenza da Marcia-

nopoli. Valicati i Balcani, giunse ad Adrianopoli, quindi al monte Sondis (questo monte non è stato
precisamente individuato, ma potrebbe trovarsi tra i monti Rodopoi). La tappa del Sondis è importante
perché è qui che Teodorico avrebbe dovuto ricevere i rinforzi di Zenone, rinforzi che però non arriva-
rono. I militari di Teodorico lo costrinsero a ripudiare l’alleanza con il basileus e di cercare accordi con
Strabo, con cui tutto sommato aveva una certa vicinanza etnica. Dopo una serie di ambascerie che feb-
brilmente andavano e tornavano da Costantinopoli, i due goti trovarono l’intesa e Teodorico iniziò la
sua opera di devastazione verso l’ovest. Conquistò Traianopoli, la capitale della provincia del Rodope,
quindi Stobi ed entrò in Tessalonica, cuore della Macedonia. A questo punto Zenone e Teodorico cer-
carono una contesa, mentre i goti si stanziarono ad Eraclea, bloccando però i conflitti solo di pochi mesi.
Dopo la conquista di Epidamno e l’entrata nell’Epiro, Strabo e Teodorico si coordinano per lanciare il
primo un attacco in Tracia, l’altro in Tessaglia, saccheggiando Larissa.
17 Insieme a Decio Mario “Venazio” Basilio
18 Prima o dopo la sconfitta di Strabo, qui le fonti non sono concordi.
14

comportamento di Zenone a costituire il casus belli19 per la seconda ondata di scontri


tra goti e bizantini (486-488)20 che giunsero, nel 488, ad un accordo tra Zenone e Teo-
dorico. Teodorico sarebbe partito per scacciare Odoacre21 e in cambio, se avesse vinto,
avrebbe potuto governare l’Italia per conto di Zenone. Teodorico accettò e al calare
del 488 partì dalla Mesia con il suo popolo (circa 100.000 persone, di cui 20.000 guer-
rieri)22. È dal 493, anno anche dell’autoproclamazione di Teodorico a Rex Italicum,
che possiamo dare inizio al suo governo dell’Italia23. La prima parte del regno teodo-
riciano fu caratterizzata dalla pacifica convivenza tra genti latine e gote24. Simbolo di

19 Dal gusto genuinamente goto, plausibile solo per chi fa della guerra uno strumento di legittimazione.
20 Nel 486 Teodorico marciò verso la Tracia, saccheggiando e devastando la regione. L’anno seguente
tentò un assedio a Costantinopoli, minacciando l’Impero stesso. Non riuscì ad espugnare la capitale, ma
conquistò Rhegium (vicino a Hebdomon) e distrusse uno degli acquedotti che giungevano a Costanti-
nopoli.
21 Si rimanda PLR, s.v. Odovacer 791-793; e Anonimo di Valois, 36-38 e 45. Nel 476 Odoacre aveva

spodestato l’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo e ucciso il di lui padre Flavio Oreste.
22 Teodorico seguì il Danubio fino a Singiduno (moderna Belgrado), quindi entrò nella valle della Sava,

dove affrontò le prime opposizioni. I primi nemici veri saranno a Sirmio, città-fortezza della Pannonia,
al confine tra Illiria e Dacia, che all’epoca era occupata dai Gepidi (una tribù di origine gota stanziata
nei Monti Carpazi, da molto tempo in conflitto con gli Ostrogoti). Li sconfisse rapidamente e annesse
la città all’Impero d’Oriente. Dopo aver svernato nei paraggi di Sirmio, ripresero la marcia (non navi-
garono l’Adriatico perché non avevano abbastanza navi: v. PC, I, 1.). Il 28 agosto del 489 sconfisse
Odoacre sul fiume Isonzo, dove aveva organizzato un manipolo anti-goto. Nel settembre dello stesso
anno, dopo aver valicato le Alpi Giulie, Teodorico vinse un’altra volta a Verona. A questo punto il
popolo di Teodorico dilagò in tutto il nord Italia, dove finì per lo più per stabilirsi. Mentre Odoacre
fuggì a Ravenna, Teodorico entrò a Mediolanum (Milano) ottenendo l’appoggio di gran parte del nord
Italia. Nel 490 Odoacre tentò di assediare Teodorico a Ticinum (Pavia, città filo-gota per eccellenza),
invano. Dopo un’ennesima vittoria sul fiume Adda (11 agosto 490), Teodorico decise di assediare Ra-
venna, e, dopo tre anni, nel 493, Teodorico e Odoacre raggiunsero un accordo. Decisero inizialmente di
spartirsi il potere, in modo da governare insieme, ma non ci vorrà molto che Teodorico, per paura di un
complotto, organizzerà un falso convivio per assassinarlo. La minaccia di Odoacre sarà spenta solo dopo
aver trucidato i suoi ultimi sostenitori e la famiglia.
23 Dopo tre ambascerie (490, 492 e 497) che cercarono difficili accordi con Anastasio, successore di

Zenone, Teodorico trovò la legittimazione imperiale nel 497, dopo l’invio da Costantinopoli degli or-
namenti imperiali del palazzo che Odoacre aveva spedito a Zenone in cerca di pace. Ciò nonostante
Teodorico, per tutti i 33 anni del suo regno, non indossò mai la porpora, né si fece chiamare “Augusto”,
bensì “Rex”. PC, I, 1: “Non pretese di assumere il grado né il titolo d’imperatore dei Romani, ma finché
visse si fece chiamare rex (così i barbari usano chiamare i loro capi), sebbene nel governare i suoi sudditi
egli dimostrasse tutte le qualità che appartengono a uno che sia imperatore di nascita”.
24 Per quanto riguarda la sua attività di governo sappiamo che si impegnò a creare complesse relazioni

matrimoniali con i regnanti vicini (diede in sposa la sorella al re dei vandali, le proprie figlie ai sovrani
dei burgundi e visigoti e lui stesso sposò Audefleda, sorella di Clodoveo re dei franchi Cfr. Tabella 1 in
Appendice.). In questa maniera Teodorico poté proporsi come centro coordinatore dei regni romano-
barbarici e allo stesso tempo avere pace garantita ai propri confini. In materia di politica interna, invece,
per prima cosa spartì terre italiche ai suoi veterani (le stesse terre che dovevano andare all’esercito di
Odoacre, che però nel 493 era stato eliminato). Nel 500 si spostò da Ravenna a Roma e, dopo aver
bonificato le Paludi del Decennovio insieme a Cecilio Decio24, tenne un discorso in senato difronte al
Papa e al popolo. Il discorso aveva il carattere di una promessa verso la città di Roma: “Con l’aiuto di
Dio, manterrò inviolati tutti i decreti degli ultimi imperatori romani” (AV, 12.66). Per il popolo orga-
nizzerà numerose iniziative ludiche, come i giochi del Circo, le esibizioni negli anfiteatri o le feste
celebrative (tricennalia). Distribuì, inoltre, 120 modii24 di grano all’anno ad ogni cittadino romano (Cas-
siodoro, Varie, I, 34.) e garantì liberi commerci tra ogni città della Penisola. Per la Chiesa Teodorico
sanò la disputa tra papa Simmaco e l’antipapa Lorenzo, appoggiando l’elezione del primo (tra i soste-
nitori di papa Simmaco vi erano anche molti esponenti della famiglia latina degli Anicii, tra cui Anicio
15

tale convivenza è il medaglione aureo di Teodorico25: oltre che uno dei migliori esempi
di arte incisoria tardoantica, il fronte del Medaglione propone l’unica immagine di
Teodorico che conosciamo. Essendo stata prodotta mentre era ancora in vita, essa rap-
presenta l’immagine che il re goto voleva dare di sé: un’immagine duplice, di un “rex
imperator”. Da una parte infatti abbiamo un volto goto (capelli e baffi tipici), ma
dall’altra un abbigliamento imperiale e la presenza dell’aquila e del globo, simboli
imperiali par excellence. Chiunque all’epoca avesse guardato quell’immagine avrebbe
potuto trovarvi gli elementi caratterizzanti e familiarizzanti del capo, sia latino che
goto. Ciò nonostante Teodorico ostacolò anche l’integrazione tra i due popoli: ad
esempio negò i matrimoni misti, si dichiarò sempre ariano26 (nonostante la discrezione
e la tolleranza verso il cattolicesimo romano, quello calcedoniano), impedì ai goti di
studiare le lettere e divise i due popoli con due leggi e due ruoli sociali distinti27.
La seconda fase del governo di Teodorico è ricordata come una fase di declino, feb-
brile, piena di paure verso pericoli esterni (in Europa il visigoto Gasalech cercò di
impossessarsi della Penisola Iberica28 e in Oriente Giustiniano tramava diplomatica-
mente contro i goti) e interni (oltre all’esacerbarsi dei rapporti con il papa e

Probo Fausto, la stessa famiglia di cui faceva parte anche Severino Boezio). Per le élite cittadine sap-
piamo che mantenne il sistema locale di amministrazione delle tasse e della giustizia, nonché la possi-
bilità di ricevere e impartire la tradizionale educazione a cui erano abituati Infatti, Giustiniano, quando
completò la conquista dell’Italia nel 553, confermò che con lui continuerà ad esserci quel rifornimento
di grano (120 moddii) anche per i grammatici e i retori, svelando la loro presenza attiva anche durante
il periodo goto. Così sappiamo, dalla regola 33 di S.Benedetto da Norcia, che si dava per scontato ci
fosse un livello di cultura minimo, che permetteva al monaco di scrivere la promessa di propria mano,
e implicitamente dice che ciò che più sentono proprio è il codice, le tavolette e lo stilo: “Sopra di ogni
altro questo vizio sia estirpato sin dalle radici nel monastero; che niuno cioè ardisca né dare né ricevere
nulla senza il comando dell’Abbate, né avere cosa alcuna di proprio, niente affatto; né codice, né tavo-
lette, né stilo, nulla in somma; come è giusto che non abbia siffatte cose chi non ha più balìa né della
propria volontà né del proprio corpo. Tutto quello però ch’è loro necessario, debbono sperarlo dal Padre
del monastero, senza mai ritenere nulla di ciò che l’Abbate non abbia dato o permesso. E tutte le cose
siano comuni a tutti, come sta scritto; e niuno dica o mai si creda che una cosa sia sua. Che se qualcuno
fosse scoperto inchinare a questo pessimo vizio, venga ammonito una e due volte; e se non si sarà
emendato, sia sottoposto alla correzione”.
Riconoscendo nella città il fulcro del potere del sovrano, restaurò e fondò nuovi edifici (Cassiodoro, in
Variae, I, 21, definì Teodorico “ricostruttore di città”.), soprattutto nelle città di Ravenna, Verona, Pavia
e Roma (Roma era da un secolo una città in decadenza. A riguardo si cfr. l’epistola 107 di San Gero-
lamo: “Il Campidoglio, già ricco di oro, è uno squallore; tutti i templi di Roma sono sotto uno strato di
fuliggine e di ragnatele; la città ha le fondamenta che scricchiolano […]”), costruendo palazzi, acque-
dotti, bagni e mura.
25 Roma, Museo Nazionale (493-526).
26 Il Liber Pontificalis, quando cita Teodorico, lo marchia quasi sempre con l’epiteto “L’eretico”. V. ad

esempio: 53.1, 55.3, 55.1, 55.4, 55.5.


27 Se i latini dovevano gestire l’amministrazione, i goti dovevano interessarsi solo della guerra. Non a

caso Zacaria di Mitilete definì Teodorico “bellicus et sapiens”, nel suo Historia Ecclesiastica. V. PLR,
s.v. Theodoricvs 7 p.1084.
28 Teodorico, dopo la morte di Alarico II (507), marito di Teodegota, era in pieno possesso del regno

visigoto, vista la tenera età del nipote successore. V. Cassiodoro, Varie, V, 39.
16

l’aristocrazia romana, si aprì una grave crisi dinastica con la morte Eutarchio29, marito
di Amalasunta e designato alla successione del trono italico), che ruppe quell’iniziale
fase di concordia tra goti e latini per un governo repressivo e vessatorio. Come si
giunse a ciò? Il processo fu graduale e coinvolse sia l’ambito religioso sia politico30,
ma un ruolo fondamentale lo ebbe lo scisma acaciano del 484. Questo può essere con-
siderato come il primo vero scisma tra le sedi episcopali di Costantinopoli e di Roma,
e durò fino al 519. Lo scisma nacque dal dibattito sulla natura di Cristo, che divise
monofisisti e calcedoniani. Sotto l’imperatore Giustino I (successore di Anastasio I) il
conflitto passò dal piano teologico a quello politico, iniziando una sanguinosa perse-
cuzione dei monofisisti (editto del 523). I Goti, in quanto ariani, condividevano la tesi
monofisista e Teodorico iniziò ad aver paura della nascita di una coalizione anti-teo-
doriciana che seguisse la linea di Giustino I. Per questo probabilmente Teodorico entrò
nella seconda e decadente fase del suo regno, sospettando di chiunque potesse tramare
con Giustino contro il suo popolo, senato e papa in primis.
Questa fase di declino del governo di Teodorico fu caratterizzata dalla condanna a
morte di Albino31, Boezio e Simmaco, nonchè dall’incarcerazione di papa Giovanni I.
Tutto partì dall’accusa del filoteodoriciano Cipriano32 ai danni di Albino, che incol-
pava quest’ultimo di aver inviato delle lettere a Bisanzio che incitavano all’odio verso
Teodorico. Ormai a un passo dall’essere condannato a morte, Boezio intervenne du-
rante il processo, esponendosi a non poco rischio, in qualità di magister officiorum, in
difesa di Albino33. Cipriano allora produsse prove false sostenute da tre (presunti) falsi
testimoni, Opilone, Gaudenzio e Basilio, per accusare anche lo stesso Boezio di alto

29 Cfr. Tabella 1 in Appendice.


30 L’Anonimo di Valois, nel suo stile disorientante e intriso di religiosità, cita due eventi fondamentali.
Il primo fu l’imposizione da parte di Teodorico di una tassa a tutti i cittadini romani (non goti, quindi ai
soli cattolici) per ricostruire la sinagoga ravennate andata distrutta durante duri scontri tra ebrei e cri-
stiani che infiammarono anche Verona e Roma. L’altra fu la distruzione dell’oratorio di S.Pietro nella
campagna veronese (Gli oratori all’epoca erano semplici luoghi di preghiera, non erano quegli edifici
di catechesi e pastorale giovanile come lo saranno a partire dalla metà del XVI grazie all’opera di S.Fi-
lippo Neri. Nel passo (14.83), infatti, viene definito “altarium”, cioè “high altar”, cioè un altare soprae-
levato, probabilmente su un’altura). Da qui, prosegue l’Anonimo, il demonio si impossessò di Teodo-
rico e una povera donna gota, simbolicamente, “Non lontano dal palazzo di Ravenna, partorì 4 serpenti”
(Ibid. 14.84).
31 PLR s.v. Albinus iunior 9, pag. 51-52. Albino era un patrizio attivo alla corte di Ravenna dal 508;

ricordato spesso per la sua forte religiosità e vicinanza con la Chiesa di Roma, fu uno dei senatori pro-
tagonisti dello scisma acaciano a supportare il fronte calcedoniano.
32 Secondo Procopio, Cipriano accusò Boezio per invidia (Esiodo, Opere e Giorni, vrs. 11- 41: “Di

Contese non c’è un solo genere, ma sulla terra / due ce ne sono: l’una chi la capisce la loda,/ ma l’altra
è degna di biasimo, perché hanno un’indole diversa ed opposta”).
33 Sono note le parole che Boezio pronunciò in difesa di Albino: “L’accusa di Cipriano è falsa, ma se

Albino avesse fatto ciò, allora io stesso e tutto il senato avremmo un accordo con lui”, AV, 14.85.
17

tradimento. Queste prove convinsero Teodorico a rinchiudere Boezio “in Agro Cal-
ventiano”34, per poi giustiziarlo l’anno seguente, tra il 525 e il 526. Se gran parte del
senato trascurò completamente la morte del collega Boezio, il genero Simmaco, caput
senati, non trattenne il pianto pubblico e Teodorico pensò bene di ghigliottinare anche
lui per far tacere ogni voce di dissenso. Papa Giovanni I, invece, fu imprigionato da
Teodorico dopo un viaggio alla corte di Giustino I (organizzato dallo stesso Teodorico)
volto a negoziare l’annientamento dell’arianesimo in atto in Oriente, e in catene rimase
fino alla morte. Teodorico morì nell’agosto del 526, lasciando il regno al nipote Ama-
larico35.
I giudizi sul governo di Teodorico furono, tra i suoi contemporanei36, non del tutto
allineati, ma bisogna ammettere l’abilità che egli dimostrò riuscendo a gestire contem-
poraneamente due credi e due etnie dopo aver conquistato con la forza un impero. È
un’opera che all’epoca doveva riecheggiare gli antichi imperatori romani, un Traiano
o un Valentiniano37, ciononostante, forse, al governo di Teodorico mancò quel livello
di integrazione etnica che lui stesso evitò fin dall’inizio. Forse la sua azione separatrice
metteva solo su carta quelle differenze che sarebbero comunque state presenti in so-
cietas, o forse fu la sua gente e il suo esercito a spingerlo in questa direzione. Pur
essendo stato un dominus, non fuse mai veramente i suoi con gli italici, esattamente
come nel suo possente Mausoleo si giustapposero la nobile pietra aurisina al monolite
a cupola tipico delle steppe. Il mausoleo non è espressione di arte nuova, arte di scam-
bio etnico, come sarà la Cappella Palatina sotto i normanni di Ruggero II, è semplice

34 V. Agro Calventiano in AV, 14.87, incerta zona della campagna milanese.


35 V. tabella 1 in Appendice.
36 Machiavellico, Procopio disse che “in qualsiasi stato, sempre i cittadini vogliono gli uni una cosa gli

altri un’altra, e succede che il governo in carica soddisfi, momentaneamente, soltanto quelli presso cui
i suoi provvedimenti incontrano favore, mentre è malvisto da coloro che la pensano al contrario” (PC,
II, 1): non esiste Principe buono o cattivo, esiste sempre e solo un Principe, che sarà al contempo ne-
cessariamente amato e odiato. Ciò nonostante Procopio salvò la memoria di Teodorico addirittura men-
zionando il suo pentimento (sentito, cristiano, passionale) per l’uccisione di Boezio e Simmaco (“Men-
tre stava cenando, i servi gli posero davanti la testa di un grosso pesce. A Teodorico sembrò di vedere
la testa di Simmaco, di recente decapitato. E veramente, coi denti confitti nel labbro inferiore, gli occhi
spiritati che lo fissavano con sguardo truce, pareva proprio una persona che lo volesse spaventare. Egli
infatti, straordinariamente impressionato da quello spettacolo mostruoso, si sentì rabbrividire e dovette
ritirarsi di corsa nella propria camera da letto, dove ordinò che gli mettessero addosso molte coperte e
lo lasciassero riposare. Ma in seguito raccontò al medico Elpidio tutto ciò che aveva provato e pianse
per il male che aveva fatto a Simmaco e Boezio. Poi continuò a dolersi e a rammaricarsi di quell’infelice
incidente, finché, non molto dopo, venne alla morte” PC, II, 1). L’Anonimo di Valois, fu invece molto
più negativo. Diede una chiara immagine di un re saggio ma pur sempre barbaro d’origine: descrisse
nei dettagli la violenta e cruda morte di Boezio36, simbolo della violenza subita dai latini, e la morte di
Teodorico stesso, che non spirò pentito come in Procopio, ma a causa di tre giorni di diarrea, morte ben
diversa e attestante la condanna storica che l’Anonimo intendeva scagliare al rex gothorum.
37 AV, 12.60.
18

giustapposizione di due elementi, purtroppo inconsci delle loro possibilità di combi-


nazione38, proprio come fu il governo italico di Teodorico.

38 “Come le correnti nel seno del mare, che danno origine a due fiumane dotate di una propria direzione

e di un proprio moto”, Obertello, Luca, op. cit. pag. 83.


19

I.2 – Boezio

Anicio Manlio (Torquato)1 Severino Boezio appartiene alla prestigiosa famiglia degli
Anici2. Figlio di Flavio Anicio Manlio Boezio e di una donna sconosciuta ma sicura-
mente di nobile estrazione, non sappiamo con certezza quando nacque né quando morì.

1 Solo dal XV secolo Boezio viene chiamato in rari manoscritti anche “Torquato”, in memoria dell’an-
tenato Tito Manlio Imperioso, console per tre anni (347, 344 e 340 a.C.) e dittatore per due mandati
(353 e 349 a.C.). Tito è celebre per aver sconfitto un fortissimo guerriero gallico, al quale strappò una
collana d’oro, chiamata in latino “torques”, “collana ritorta”. Da quest’evento venne chiamato “Tor-
quato” e con il tempo divenne un nome comune, come avvenne per il Tasso della Gerusalemme Libe-
rata.
2 Questi hanno una probabile origine greca, ma le primissime notizie provengono da Preneste (attuale

Palestrina, comune della Città metropolitana di Roma Capitale). Sappiamo che nel 499 a.C. Preneste si
distaccò dalla Lega Latina, avvicinandosi al fronte romano e gli Anici devono aver giocato un ruolo
importante in questo momento. Dal II a.C. la gens Anicia entrò a far parte dell’aristocrazia romana: noto
è il nome di Lucio Anicio Gallo, console nel 160 a.C. Un importantissimo esponente della famiglia fu
Sesto Petronio Probo, console nel 371 insieme all’imperatore Graziano. San Paolino da Nola lo para-
gonò a S. Ambrogio, cogliendone sia la fama indiscussa, sia il forte senso religioso. Non a caso gli Anici
erano una delle più antiche famiglie senatoriali ad essersi convertite al cristianesimo: da Prudenzio
(Contra Symmachum, I, 533) sappiamo che almeno da Anicio Giuliano, console nel 322, la famiglia era
già riconosciuta tale. Oltre all’elemento religioso, Sesto Petronio vantò anche una brillante carriera po-
litica, rinnovando il pretorio su varie province dal 367 al 376, e un distinto amore per la cultura (scrisse
versi, e dedicò una raccolta di poesie a Teodosio, v. Anthologia Latina Fasc. I, F. Buecheler e A. Riese,
1895, 783.). I suoi tre figli, Anicio Probino, Anicio Petronio Probo e Anicio Ermogeniano Olibrio (que-
sti ultimi due colleghi al consolato del 395) cavalcarono l’onda del successo del padre. La figlia di Probo
andò in sposa a Flavio Manlio Teodoro, della gens Manlia Torquata, console con Eutropio nel 399 e
ammirato per la sua erudizione da Sant’Agostino e Claudiano. Il favore che la gens Anicia aveva otte-
nuto dal papa e dall’imperatore trovò il culmine nella seconda metà del V secolo d.C. Da una parte
Anicio Basso, console nel 431, morì nel 433, e i suoi funerali furono celebrati da Papa Sisto III; dall’altra
Anicio Glabrione Fausto, console nel 438 con Teodosio, è noto per aver presentato al senato il Codice
Teodosiano, un editto che consolidava la posizione dei cristiani a scapito dei pagani, inviato a Glabrione
direttamente da Teodosio, con cui aveva degli ottimi rapporti. In realtà l’editto sarebbe dovuto entrare
in vigore tramite una prammatica sanctio di Valentiniano III (425-455), l’allora imperatore, ma Valen-
tiniano stesso scelse Glabrione e gli Anici per far accogliere il Codice per acclamazione dal Senato,
sicuramente conscio dell’influenza della famiglia nella vita politica romana. Il nonno del Boezio filo-
sofo (talvolta chiamato “Junior” per distinguerlo dagli antenati), Flavio Boezio, insieme a Flavio Ezio,
tentò un colpo di stato ai danni di Valentiniano III. Esso venne bloccato e nel 454 i due congiurati
vennero uccisi. Nonostante il fallimento, dobbiamo considerare che per arrivare ad appoggiare un atto
del genere si doveva aver già raggiunto un altissimo grado di importanza politica e che il successore di
Valentiano III fu Petronio Massimo (marzo-aprile 455), figlio di Anicio Probino. Senza timore affermò
Obertello che “nel quinto secolo non v’era in Roma famiglia di rilievo nella quale non fosse in qualche
modo presente un loro [degli Anici] membro” (Obertello, Luca, Severino Boezio vol. I, Accademia
ligure di scienze e lettere, 1974, pag. 8-9).
Gli Anici erano però presenti anche in Oriente. Anicia Giuliana, figlia di Anicia Placita (figlia dell’im-
peratore Anicio Olibrio) e dell’imperatore Valentiniano III, venne proposta in sposa da Zenone a Teo-
dorico nel 478 per consolidare il reciproco rapporto, ma il re goto la ripudiò. Anicia Giuliana fu una
delle donne più importanti del V secolo. Ricordata per l’incredibile intelligenza e religiosità, Giuliana
sovvenzionò la costruzione di numerose chiese a Costantinopoli, tra cui S. Polieutu, e tenne un carteggio
con papa Ormisda circa controversie teologico-politiche.
20

Le ricostruzioni sono state numerose3, ma possiamo supporre che visse tra il 475-477
e il 524-526. Boezio perse i genitori quand’era ancora piccolo (circa nel 490), e venne
affidato alla famiglia di Quinto Aurelio Memmio Simmaco4.
Simmaco, figlio dell’omonimo Quinto Aurelio Simmaco5, fu prefetto dell’urbe dal 476
al 491, esponente di spicco del senato romano tra V-VI secolo e grande intellettuale
del tempo: oltre ad una storia di Roma in sette libri oggi non pervenutaci (su cui si
basò il V capitolo della Romana di Giornadane), gestì l’edizione di una copia del Com-
mentarii Somnium Scipionis che si rivelerà fondamentale per il futuro dell’opera di
Macrobio e tenne un fitto epistolario. Memmio Simmaco è paragonato da Cassiodoro
a Catone, paladino della romanità del II secolo a.C. minacciata dalle influenze

3 François Armand Gervaise (Gervaise, François Armand, Histoire de Boèce, in P.L., LXIV, col. 1417,
1715), forse il biografo di Boezio più influente fino agli inizi del XX secolo, individua la data di nascita
nel 470. Al 480 la pone invece il Cappuyns (Cappynus, M., Boèce, in D.H.G.E., col. 349), Marzi (Boe-
zio, Severino, De Institutione Musica, a cura di Giovanni Marzi, Istituto poligrafico per la storia della
musica, 1990, pag. 14) e Chadwick (Chadwick, Henry, Boethius, Clarendon Paperbacks, 1981, pag. 1),
mentre Rocco Murari tende mediaticamente al 475. Luca Obertello, nella sua celebre monografia, cerca
di ricostruire la data di nascita a partire da una serie di dati certi. Capisce che non poté nascere prima
del 475 in quanto nella prima poesia della Consolatio Boezio si lamenta di aver ricevuto la pena di
morte troppo prematuramente. Si legge infatti: “Anzitempo si spande sul mio capo la canizie / e tremola
sul corpo esausto flaccida la pelle” (Boezio, Severino, CF, I,1). Se ne deduce che, data quasi per certa
la data di morte tra il 524 e il 526 (data del componimento, com’è noto, del fortunato prosimetro),
all’epoca Boezio non dov’essere ancora giunto alla senescenza, cioè, non aveva ancora, circa, cin-
quant’anni. Obertello indica il 475 come terminus post quem la nascita di Boezio, scartando la retroda-
tazione del Gervaise, per lungo tempo imperante. Così trova anche il terminus ante quem considerando
la data certa dell’elezione al consolato dei figli: il 522. I figli, in quell’anno, com’era consuetudine,
dovevano aver compiuto i venticinque anni per poter accedere alla carica. Boezio, quindi, per quanto
possa aver sposato in giovane età Rusticana (probabilmente nel 495), avrebbe dovuto avere circa qua-
rantacinque anni nel 522. Indi per cui Boezio potrebbe essere nato tra il 475 e il 477. Ovidio Dallera,
nell’ultima edizione Bur (2016) della Consolazione della Filosofia, data la nascita di Boezio, seppur
con un’incertezza di cinque anni, circa al 480. Questo tipo di datazione ha le sue ragioni. Chadwick, ad
esempio, considera un passo del Paraenesis didascalica di Ennodio, che recita “[Boezio] insegnava ad
un’età in cui gli altri ancora stavano studiando”, e la lettera I, 45 della Variae di Cassiodoro, che allo
stesso modo encomiava il vasto sapere dell’Anicio. Entrambi gli scritti vengono datati prima del 507,
quindi ragionevolmente all’epoca poteva avere almeno ventisette anni, contando che gli studi di filoso-
fia iniziavano dai ventun anni.
4 Boezio, Severino, CF, I, 4, “[…] si presero cura uomini di altissima condizione”.
5 Simmaco padre, nel 380, all’epoca Prefettore dell’Urbe, venne interessato in una diatriba religiosa:

chiese di restaurare una statua della Dea Vittoria innalzata da Augusto nella Casa del Senato, in un
momento in cui il cristianesimo si stava sempre più infiltrando in tutti gli strati sociali romani. Ambrogio
da Milano, allora, mosse una sentita opposizione alla proposta di Simmaco, impedendo il restauro. Sim-
maco padre agì mosso da due sentimenti: il primo, quello della reverenza verso la religione pagana,
venne completamente dimenticato da Memmio Simmaco, cristianissimo (Sul cristianesimo di Simmaco
non vi sono dubbi, si vedano solo le vite delle figlie Proba e Galla. La prima terrà un epistolario molto
denso con S. Fulgenzio da Ruspe, mentre la seconda verrà santificata (Santa Galla di Roma); l’altro,
cioè la lotta ideologica per la conservazione della tradizione romana, invece, venne addirittura trasmessa
al figlio adottivo Boezio. Simmaco aveva un’ottima conoscenza del greco e sicuramente aveva a che
fare con l’Oriente: nel 520 fece un viaggio a Costantinopoli, dove conobbe il grammatico Prisciano di
Cesarea in Mauritania, che gli dedicò due opere raccolte nelle Institutiones grammaticae, compendio
delle sophistae juniores, cioè della retorica di Ermogene.
21

elleniche. Simmaco però difese una nuova romanità, che trovava i suoi elementi di-
stintivi nel cristianesimo e nella memoria quasi “romantica”6 del passato glorioso di
Roma. Boezio ricevette da Simmaco l’educazione tipica dei giovani romani di più alto
rango: fin dalla giovinezza imparò a parlare fluentemente sia in latino che in greco e
giunto all’età scolastica, imparò anche a leggere e a scrivere in entrambe le lingue.
Nella Consolazione Boezio cita dei passi di Omero7, quasi sicuramente a memoria, che
attestano quel tipo di studi svolti in tenera età che si mantennero negli anni. Per molto
tempo si è pensato che Boezio avesse anche fatto un viaggio ad Atene o ad Alessandria,
in giovane età, in cui conobbe il greco e la corrente neoplatonica. L’ipotesi provenne
da una lapidaria frase del De Disciplina Scholarum, un’operetta erroneamente attri-
buita a Boezio, ma in realtà composta da un anonimo del 1300, che recita: “[Boezio]
Varcò le porte di Atene”. Dimostrata l’infondatezza di un viaggio simile, mai descritto
da Boezio in nessuna sua opera, Courcelle8 propose allora l’ipotesi di un viaggio ad
Alessandria, altra grande tappa degli studiosi dell’Impero9, che poi Obertello scartò.
Sarebbe potuto rimanere in Egitto almeno fino al 487, anno del suo consolato in Italia.
Con lui sarebbe potuto esserci in effetti anche il piccolo Severino Boezio, ma l’idea
che poté prendere lezioni di filosofia prima dei dieci anni è decisamente da scartare,
come ben notò Obertello10. Fatto sta che nel 500 la preparazione intellettuale di Boezio
aveva già ottenuto una fama tale da colpire Teodorico, in quell’anno in visita a Roma11.
Grazie a quell’incontro infatti Boezio ottenne i tre celebri incarichi del 507: la costru-
zione di un orologio (forse due) ad acqua per il re dei Burgundi, il giudizio per un

6 Boezio, Severino, Consolazione della filosofia, ed. citata, I, 4: “In quale libertà resta infatti possibile

sperare? Magari fosse davvero possibile una qualche speranza!”.


7 V. ad esempio Boezio, Severino, CF, II, 2, in particolare nota 8 pag. 129.
8 Obertello, Luca, op. cit., pag. 28.
9 Courcelle considerò due dati: il primo consiste in una serie di somiglianze tra il pensiero di Boezio e

quello del neoplatonico Ammonio Ermeo, all’epoca attivo ad Alessandria; il secondo nell’attestazione
di un Prefetto ad Alessandria chiamato βοετιοϛ dal 475 al 477, che potrebbe essere il padre Fausto
Boezio. Quest’ipotesi concorderebbe con il Dittico di Boezio, una coppia di formelle in avorio rappre-
sentanti un Boezio prefetto, oltre che console e patrizio, probabilmente proprio il padre Fausto (487,
Museo di Santa Giulia, Brescia).
10 Sarebbe potuto rimanere in Egitto almeno fino al 487, anno del suo consolato in Italia. Con lui avrebbe

potuto esserci in effetti anche il piccolo Severino Boezio, ma l’idea che poté prendere lezioni di filosofia
prima dei dieci anni è decisamente da scartare, come nota Obertello in op. cit., pag. 28-29.
11 Questo fatto è interessante, perché si potrebbe evincere una datazione della stesura del De Musica e

degli altri trattati quadriviali prima del 500, e non del 507 (data più o meno unanime agli studiosi, ma
che poggia solo sulle lettere delle Variae). Questo significherebbe che Boezio avrebbe pubblicato queste
opere tra i 20 e i 23 anni, età assolutamente prematura, che però collima con le numerose descrizioni
dei contemporanei, che lo dipingono come una sorta di prodige enfant. In oltre si spiegherebbe come
mai sia il De Musica che il De Arithmetica abbiano un taglio squisitamente compilativo.
22

musico da inviare all’insistente Clodoveo re dei Franchi e l’indagine circa una truffa
perpetrata ad alcuni pensionamenti12.
Nel 522 sappiamo che entrambi i figli di Boezio, Simmaco e Boezio, divennero con-
soli. Questo è l’anno del culmine del successo di Boezio, celebrato da un panegirico a
Teodorico letto in Senato (perduto) il giorno dell’elezione dei figli. Tragicamente po-
chi anni dopo Boezio avrebbe la morte proprio per volere di Teodorico13. Tra il 522 e
il 523 Boezio ottenne la carica di Magister Officiorum, probabilmente la carica di pa-
lazzo più prestigiosa a cui si potesse aspirare, facente parte della nuova gerarchia del
Consilium Principis14. Questa è una strana virata: sempre fedele al senato, Boezio
aveva finora seguito i consigli del maestro Simmaco rifiutando ogni carica che avesse
potuto servire direttamente Teodorico. Forse ammaliato dall’onore dell’elezione con-
giunta dei due figli, o in generale forse ora soddisfatto della condotta del sovrano,
Boezio entrò nel cuore del Palatium goto e dei suoi affari, senza però dimenticare mai
le sue origini latine. In questa posizione, infatti, Boezio poteva difendere finalmente

12 Cassiodoro, Variae, traduzione di S.J.B. Barnish, Liverpool University, 1992, in ordine: I, 45; II, 40
e I, 10. Si è già fatto cenno alla lettera I, 10 delle Variae di Cassiodoro, in cui Boezio è chiamato ad
indagare circa una frode fiscale. In sostanza vi era una disputa circa l’operato dell’Arcarius Praefecro-
rum (uno dei più importanti ufficiali delle finanze), che pare avesse pagato con monete di lega inferiore
al dovuto gli equites e i pedites di corte (i militi). Boezio è qui già grandemente lodato per le sue qualità,
soprattutto di tipo linguistico e tecnico-scientifico (Cfr. Cassiodoro, Variae, I, 40, in cui gli accenni agli
interessi di metafisica, logica e teologia sono immersi tra quelli più scientifici: “Per le tue traduzioni il
genio della musica Pitagora e quello dell’astronomia Tolomeo si leggono come se fossero italici. Il
padre dell’aritmetica Nicomaco e quello della geometria Euclide si ascoltano nella lingua dei Tirreni.
[…] Perfino il principe della meccanica, Archimede, lo hai restituito ai Siciliani in veste laziale”. Da
notare le discipline citate: musica, astronomia, aritmetica, geometria e meccanica), ma viene anche no-
minato Illuster e Patricius. Il primo è un titolo attivo dal 350, e conferito ai prefetti del pretorio e ai
comes domesticorum, cioè comandante dell’esercito di più alto rango possibile, come le guardie impe-
riali (i protectores); il patriziato, invece, era un titolo che poteva venire conferito dall’Imperatore solo
dopo aver rivestito la carica di praefectus militum, magister militum o di console. Probabilmente, dun-
que, la lettera in questione è successiva al 510, anno del consolato sine collega di Boezio (Mitridale,
J.R., PLR, pag. 1245). La carica consolare era ormai diventata solo onorifica e troverà la sua fine defi-
nitiva nel 541, sotto Giustiniano. I consoli mantenevano il diritto eponimo (potevano cioè dare il proprio
nome all’anno), presiedevano il Senato ed erano tenuti ad organizzare dei Giochi per celebrare la propria
elezione (V. Boezio, Severino, CF, II, 3, pag. 133). Tra il 511 e il 522 però non sappiamo cosa fece.
Possiamo immaginare che partecipò alle sedute del Senato in quanto ex console. Procopio (PC, I, 1)
chiamerà Boezio e Simmaco Caput Senato, titolo concesso solo al Preafectus urbis, quindi probabil-
mente ottenne anche questa carica intramezzo.
13 Boezio, Severino, CF, II, 3: “Non potrà mai essere cancellato il ricordo di quel giorno luminoso

quando vedesti i tuoi due figli, fatti insieme consoli, uscir di casa accompagnati da uno stuolo di senatori
tra l’entusiasmo popolare; quando, in senato, mentre gli stessi venivano insediati nella loro carica, tu
con il tuo discorso in lode al re […]”. E, in II, 4, le famose righe: “Nei momenti di avversità l’esser stati
felici costituisce la forma più straziante di dolore”.
14 Ad essa erano associati il controllo delle segreterie imperiali, delle Scholae Palatine (cioè le guardie

addette al palazzo principale del Rex) e degli Agentes in Rebus (una specie di polizia amministrativa).
23

gli italici dai soprusi goti15 e il re non impedì mai a Boezio di esercitare il suo potere
in questo senso, anche se in poco tempo il Magister Officiorum andò creandosi un
numero sempre maggiore di nemici goti, assetati di vendetta per essersi visto bloccato
il loro sfogo di violenza sul popolo dominato. Non solo, Boezio inizierà paradossal-
mente a perdere anche l’appoggio dagli stessi italici, che tanto voleva difendere e rap-
presentare16.
Il cristianesimo di Boezio è stato ufficialmente dimostrato verso la fine del XIX secolo,
con la scoperta del Ms. Karolisruhensis 106 (biblioteca di Karlsrueh), un frammento

15 Boezio, Severino, CF, I, 4, in cui ricorda i numerosi slanci in difesa soprattutto della classe senatoria:

“Quante volte affrontai Conigasto, che era deciso, con la violenza, a privare dei loro beni tutti gli indi-
fesi, quante volte indussi Triggvilla, prefetto della real casa, a recedere da un atto iniquo intrapreso o
addirittura già perpetrato, quante volte, mettendo a repentaglio la mia autorità, protessi gli infelici che
la sempre impunita avidità dei barbari sottoponeva a infinite calunnie e vessazioni”. Sulla condotta
spesso viziosa, di dominio, dei goti sugli italici v. anche Obertello, Luca, Severino Boezio vol. I, Acca-
demia ligure di scienze e lettere, 1974, pag. 114; ma anche Anonimo di Valois, 14 e Liber Pontificalis,
trad. di Raymond Davis, L.U. Press, 55.1.
16 Ennodio, ad esempio, ricordato come simbolo dell’ideologia teodoriciana e diacono su ordine di Epi-

fanio nel 493, intrattenne un rapporto fin dall’origine ambiguo con Boezio. Le lettere di Ennodio a
Boezio sono sempre lodevoli, ma di quel tipo esagerato e quasi stereotipato (tipico dell’autore) e tutte
giungono sempre alla richiesta della cessione di una proprietà milanese. Sappiamo che Boezio non ce-
dette mai la suddetta proprietà, da cui si intuisce un rapporto sì familiare tra i due (erano parenti), ma
anche di diffidenza reciproca. Il legame si fa più fosco quando si considera un poemetto di Ennodio: il
De Boetio Spata Cincto. Esso recita: “In tua presenza, il rigido ferro si affloscia / e, come l’acqua che
scorre, viene drenato. / La debolezza della mano destra di Boezio indebolisce la spada; / Ciò che era la
tua spada, bastardo, è ora una conacchia. / La lancia che falsamente reggevi, divenne la bacchetta di un
ubriacone; / lascia il mestiere della guerra mentre rimani in piedi tremante.” (Juster, A.M., The Elegies
of Macimianus, Penn Press, 2018). Gli attacchi sono qui palesi e riguardano due difetti: la dissipazione,
lo sperperamento, simboleggiato dal ferro che si scioglie e si sparge come l’acqua (accusa gratuita,
incompatibile con la biografia che conosciamo di Boezio); le imbarazzanti inabilità belliche, assoluta-
mente giustificate per un romano di nobile linciaggio. Possiamo ricomporre l’apparente contrasto
dell’ossequiosità delle lettere con la derisione di questi versi tramite la disputa immobiliare mediola-
nense sopracitata. Sulla stessa linea si pone anche un poeta minore del tempo, Massimiano. Egli scrisse
un’Elegia (Franzoi, Alessandro, Le elegie di Massimiano, Adolf M. Hekkert Edit., 2014, Elegia III,
pag. 11-14) in cui compare un Boezio psicoterapeuta ante litteram, oggi assodato essere proprio il Boe-
zio Severino. Nel racconto, egli cerca di rimediare all’amore inappropriato tra un giovane nobile e la
figlia di una serva. Decide di pagare i genitori di lei perché acconsentano a concederla per soddisfare
l’appetito sessuale del ragazzo. Figurato quindi inizialmente in maniera riluttante, la sua proposta si
manifestò infine trionfante: la caduta della proibizione fece svanire l’ardore tra i due, giungendo allo
scopo educativo, cioè al trionfo dello spirito sul corpo. Riguardo al giudizio su Boezio, l’opinione è
spaccata. Se da una parte c’è chi vi scorge una critica senza vie di mezzo (Boezio sarebbe qui un ruf-
fiano, un paraninfo), c’è anche chi vi scorge invece un grande elogio, come attesta la glossa sul codice
del XII citato da Baehrens: “Boethius fuit quidam bonus medicus” (v. Franzoi, Alessandro, op. cit., pag.
13). Dalla Consolazione (I, 4), sappiamo anche che Boezio era in conflitto con Anicio Probo Fausto
Niger, Magister Officiorum nel 493 e guarda caso amico stretto di Ennodio. I due si scontrarono circa
una coemptio in Campania. Spiega Dallera: “Una coemptio [termine tecnico usato dallo stesso Boezio]
indica un monopolio su una determinata merce istituito in circostanze eccezionali ed esercitato diretta-
mente dall’amministrazione pubblica o, più spesso, appaltato a privati. In questo caso si trattava di far
fronte a una carestia che aveva colpito la Campania. Boezio risulta qui sostenitore del liberismo econo-
mico contro l’ingerenza dello Stato; ma la sua opposizione alla coemptio di Fausto, più che da ragioni
di principio, doveva essere motivata dalla facilità degli abusi cui dava luogo questo tipo di monopolio,
sfruttato da appaltatori senza scrupoli”16. Ennodio, Massimiano e Fausto erano solo alcuni dei latini che
potevano essere avversi a Boezio. Nell’anno della sua morte addirittura rimarrà senza alcun appoggio
conterraneo, ad eccezione del fedelissimo Simmaco.
24

del X secolo contenente tre brevi briografie (di Simmaco, Boezio e Cassiodoro) deri-
vanti dall’Ordo Generis Cassiodorum17. In esso Boezio “scriptis librum de Sancta Tri-
nitate et capita quaedam dogmatica et librum contra Nestorium”. Interessato dei pro-
blemi di teologia, più che un fedele in cerca di risposte alla propria fede, Boezio fu un
politico che quando necessario poteva anche dare il suo parere sui dibattiti religiosi. I
così detti Opuscula Sacra18, cioè la raccolta dei cinque (forse quattro, se si esclude il
IV di incerta paternità) brevi testi di carattere teologico associati a Boezio, sono opere
di contingenza, di circostanza: rispondono cioè a ben determinate situazioni. In effetti
Boezio visse in un momento alquanto turbolento per il cristianesimo, segnato dallo
scontro tra nestorianesimo e monofisismo19. La disputa peggiorò nel 482, quando Aca-
cio (patriarca di Costantinopoli dal 471 al 489), su richiesta di Zenone imperatore,
pubblicò l’Henoticon (cioè l’Editto di unione). Esso voleva mediare tra le due posi-
zioni, ritrovando la concordia religiosa in Oriente, ma aggravò solo le cose: entrambe
le parti ne uscirono scontente e papa Felice III, imbestialito, scomunicò Acacio, Euti-
che e Nestorio, portando allo scisma acaciano (484-519).
In questo clima Boezio scrisse il Contra Euthychen et Nestorium, primo cronologica-
mente ma quinto nell’ordine della raccolta. Pur nominando Eutiche e Nestorio, Boezio
non si scagliò contro di loro, autori del secolo precedente, ma contro la loro dottrina,
che ancora evidentemente era presente20. Il motivo preciso che spinse Boezio a scri-
vere questo opuscolo, fu l’arrivo di una lettera dall’Oriente indirizzata a papa

17 Opera di Cassiodoro andata perduta e ritraente i più insigni esponenti della famiglia di Cassiodoro.

Si noti come Boezio non fosse però realmente un parente.


18 Per un approfondimento sugli Opuscula Sacra e sulla storiografia delle loro interpretazioni dagli

anni ’70 del secolo scorso ad oggi (facente perno sulla monografia di Obertello), si faccia riferimento
a De Filippis, Renato, Gli «Opuscula sacra» di Boezio: questioni irrisolte e nuove prospettive erme-
neutiche, in Rivista di filosofia neo-scolastica, 3 (2016), pag. 565-596.
19 Il conflitto nacque da un problema cristologico: Nestorio, vescovo di Costantinopoli dal 428 al 431,

iniziò a proporre tesi eretiche, secondo le quali in Cristo si hanno due nature (umana e divina) e due
persone (prodopon). Cristo, in quanto Mistero dell’incarnazione, è l’unione di queste due persone in un
solo individuo, ma esso non coincide con il Verbo e non crea nessun legame ipostatico tra Dio e l’uomo,
tra lo Spirito e la materia. Cristo infatti soffre, al contrario di Dio, e quando lo fa è un uomo come tutti.
Ciò significa che Cristo sofferente sulla croce non è Dio e che Maria è madre di Cristo uomo, non madre
di Dio (Theotòkos). Per questo rispose il Monofisismo di Eutiche (378-454, archimandrita di Costanti-
nopoli): egli sosterrà che Cristo è l’incarnazione del Verbo da due nature, ma non sussiste in due nature.
Cristo è dunque un’unica persona con un’unica natura: quella divina. Questa posizione portò a forme
estreme di monofisismo, tra cui il Teopaschismo: esso afferma che Dio soffre e perisce come l’uomo,
quindi Cristo può essere Dio anche in croce, alienando sempre di più la natura umana per considerare
quasi esclusivamente quella divina. L’ortodossia in realtà affermava che in Cristo convivono due nature:
umana e divina, unite dall’incarnazione del Verbo nella persona di Cristo, quindi sia il nestorianesimo,
sia il monofisismo in tutte le sue forme (tra cui l’arianesimo), erano tesi eretiche per Roma, creando una
iniziale spaccatura tra l’Occidente e l’Oriente.
20 Tutt’oggi. Si pensi alla Chiesa assira, frutto del movimento missionario medievale della chiesa Ne-

storiana in Persia e India.


25

Simmaco che proponeva una soluzione alla diatriba teologica: Cristo si sarebbe incar-
nato sia da che in due nature (ex et in duabis naturis). Mentre papa Simmaco non diede
peso alla proposta consigliando i mittenti di non interessarsi allo scisma, Boezio, in-
telletto fine, scriverà proprio a sostegno di suddetta tesi, introducendo le celebri defi-
nizioni di “persona” e di “natura”, che ancora oggi generano un certo dibattito inter-
pretativo21. I primi tre opuscoli, sempre per dimostrare la contingenza dell’interesse
teologico di Boezio, nacquero dall’arrivo a Roma di un gruppo di monaci oriundi della
Scizia Minore, sottoposti a Vitaliano22, un goto originario della Scizia dall’irremovi-
bile ortodossia. Sotto la guida di Giovanni Massenzio, questi monaci svilupparono una
formula teopaschita, secondo cui “Uno della Trinità soffrì nella carne”. Se Giustiniano
già venne convinto nel 51923 da suddetta tesi, papa Ormisda non volle ascoltare i mo-
naci, cacciandoli da Roma. Boezio cercò però di difendere i monaci nei suoi scritti,
forse nella speranza di avvicinare Ormisda a Giustiniano. Boezio, dunque, non deve
essere tanto pensato come un teologo ispirato che scrisse di religione per ricercare la
propria (e assoluta) verità, ma come un laico che si interessò a quelle questioni reli-
giose che influenzavano la vita politica del suo tempo24. Lo scisma acaciano influen-
zava la vita politica dei senatori romani perché ne valeva dell’originaria unità dell’Im-
pero, e a tal scopo ci fu chi usò la diplomazia e chi invece usò la scrittura, come Boezio.
Boezio in effetti fu un cosciente cristiano, ma prima ancora un senatore romano e un
libero pensatore. I primi tre opuscoli teologici in fondo appoggiavano la tesi teopa-
schita, tesi eretica per via del suo monofisismo, ma perfetta per riallacciare i rapporti
con l’Oriente. In questo modo Boezio dimostrò la sua tendenza ad accogliere le poli-
tiche di mediazione proposte dalla corte di Bisanzio, soprattutto da Giustiniano, allora
collaboratore di Giustino I. Papa Ormisda, d’altro lato, può essere visto come il vero
rappresentante dell’ortodossia: la sua chiusura verso ogni tipo di collaborazione non
rappresenta la testardaggine di un cristiano bigotto, ma il tentativo di non far piegare
la vera doctrina della fede dagli eretici25.

21 De Filippis, Renato, op. cit., pag. 586 e seg.


22 PLR s.v. Fl. Vitalianus 2, pag. 1171-1176.
23 Di lì a poco verrà eletto imperatore (527-565) e introduce nel Codex Iustiniani (I, I, 6) un editto in

favore dei monaci di Massenzio e Velasiano.


24 Albino (v. supra), Simmaco, Fausto Niger e Senario (PLR, s.v. Senarius, pag. 988) sono solo alcuni

esempi dei tanti altri senatori che cercarono di sanare lo scisma acaciano, spesso viaggiando in Oriente
per mediare tra il papa e l’Imperatore.
25 O il semplice diniego a voler chinare il capo all’Oriente. Boezio invece si fa guidare solo da due cose:

dalla ragione e dal mito dell’Impero riunito e questo rende il martirio di Boezio una questione complessa
da giudicare. Non si sa esattamente da dove nacque il culto di Boezio, ma sicuramente di lui se ne fece
26

Come accennato nel paragrafo precedente, il sentiero che porterà Boezio alla morte
partì dall’accusa di Cipriano ad Albino, ma in realtà vi sono un numero molto più
consistente di cause antecedenti. Esse generarono quella diffidenza di Teodorico nei
confronti del senato romano che risultò indispensabile per la condanna a morte defini-
tiva. Possiamo indicare almeno tre eventi fondamentali: (1) il primo concerne i rapporti
esteri. Come già ricordato i goti volevano proporsi come centro coordinatore dell’Oc-
cidente, instaurando buoni rapporti con i vicini, cioè almeno con i Franchi, i Vandali,
i Visigoti e i Burgundi. Questi però andarono sempre più deteriorandosi26 e l’Italia di
Teodorico si ritrovò minacciata su tutti i fronti. Anche internamente però andarono
alimentandosi forti motivi di conflitto: da una parte infatti era presente in Senato un
partito filoimperiale composto da esponenti quali Simmaco, Boezio e Albino; dall’al-
tra Teodorico sentiva la propria legittimità traballante, in quanto regnante solo per vi-
cariato imperiale. (2) Il secondo motivo fu l’elezione di papa Giovanni I nel 523. Boe-
zio dedicò il II, III e V dei suoi opuscoli teologici a un certo “diacono Giovanni”, ma
non è certo se si trattasse del futuro papa. Ciononostante, sicuramente Boezio e il
gruppo filoimperiale intrattenevano dei rapporti stretti con papa Giovanni, a differenza
del suo predecessore papa Ormisda, dichiaratamente filoteodoriciano. La perdita di un
alleato così importante fu certamente un duro colpo per i goti. (3) Terzo motivo fu
infine la morte di Eutarchio nel 522, erede al trono e marito di Amalasunta, che aveva
già ottenuto il diritto di successione da Giustino I. Questo fatto deve aver creato uno
stato di grande tensione per Teodorico: in fondo la certezza dell’ereditarietà del potere
è sempre stato il fine degli ultimi anni dei sovrani27. Questi e sicuramente altri fuori i

un mito a partire dalla drammaticità della fine della sua vita. Boezio venne visto come il cristiano per-
seguitato dall’ariano Teodorico. Nel 752 le reliquie di Boezio furono inumate, per ordine del re longo-
bardo Liutprando, insieme a quelle di Sant’Agostino, per essere deposte nella Chiesa di San Pietro in
Ciel d’Oro, a Pavia. L’atto di Liutprando andrebbe analizzato con più attenzione, ma potrebbe essere
stato un tentativo di trovare una legittimazione regale sull’Italia e distendere i rapporti con Ravenna.
Alcuino di York, nell’VIII secolo, sviluppò poi l’interpretazione cristiana della Consolazione, introdu-
cendola in questa luce nel fortunato percorso di studi in Occidente.
Ugo Grozio e W. Bark, sono contrari al martirio di Boezio, che considerano platonico più che cattolico,
ma altri studiosi come W. Schooneman sono favorevoli con riserve (Obertello, Luca, op. cit., pag. 144,
nota 14). Obertello, raffinato, dirà che Boezio fu un martire malgre lui.
26 Soprattutto con i Franchi, che nel 523 conquistarono il regno Burgundo e ne uccisero il re Sigismondo

(grande alleato di Teodorico). Anche i Vandali si schierarono contro Teodorico, passando al fronte Im-
periale grazie alle complesse trame diplomatiche che Giustinano muoveva durante l’imperium di Giu-
stino I.
27 Nonostante la presenza di un nuovo erede, Atalarico, allora infante, giungere a circa settant’anni ad

una crisi dinastica, poco dopo la fine di uno scisma e in un momento di incertezze interne ed esterne,
deve aver significato molto. Forse però il motivo più profondo consisteva nel non avere la certezza che
tutto ciò che si è conquistato con fatica possa essere tramandato.
27

motivi che portarono Teodorico ad un certo stato mentale, di diffidenza e di chiusura


verso gli italici. Ma come ben si sa l’accusa verso Boezio non provenne direttamente
dal re goto, bensì da Cipriano28, il quale accusò Albino di alto tradimento nel 523 a
Verona, dove era riunita la corte di Teodorico29. L’accusa di Cipriano mise in moto
una procedura giudiziaria particolare. Anziché una commissione presieduta dal Prae-
fectus Urbi e cinque senatori estratti a sorte (come voleva la prassi), Albino doveva
essere giudicato dal Consilium Principis al completo, compresi Boezio e Teodorico in
persona, a causa dell’accusa particolare di alto tradimento. Cipriano portò in forza
dell’accusa una o più lettere frutto di una presunta intercettazione, ma essendo Ci-
priano stesso all’epoca referendario di Teodorico, aveva il compito di istruire i processi
di corte, quindi di vagliare le prove da presentare a processo (che lui stesso presentò).
Ma non solo: Cipriano, sempre perché si trattava di un caso di alto tradimento, poteva
essere sia istruttore che delatore, poteva cioè anche garantire (in maniera incontrover-
tibile) le prove dell’accusa (che in questo caso presentava e vagliava lui stesso). Questo
significa che poteva tranquillamente presentare prove false facendole ritenere assolu-
tamente vere in sede di giudizio. Boezio allora, difensore dei latini vessati, dopo aver
cercato in ogni modo di bloccare l’iter legislativo (cercò di creare impedimenti, con-
testando le forme d’accusa), si espose ad altissimo rischio quando, ad un passo dalla
condanna a morte di Albino, sfidando l’ira del re lì presente, garantì l’innocenza
dell’accusato e accusò Cipriano di aver presentato delle prove false30.
A questo punto il processo venne sospeso in forza del titolo di Boezio, e Cipriano
dovette dimostrare di non essere colpevole di mendacio. Cipriano viaggiò in oriente
nel 524, forse per rendere credibile la presentazione delle nuove prove, e tornò con tre

28 Questo viene dipinto da quattro lettere delle Variae (V, 40-41; VIII, 21-22) come fedelissimo e sa-

pientissimo. Cipriano aveva la particolarità di conoscere straordinariamente bene latino, greco e goto.
Viene elogiato per aver educato i figli nella lingua e negli usi dei goti, carattere molto singolare. Ci-
priano è un collaborazionista, è disposto a rinunciare alla latinità per il nuovo governo. Similmente
Cassiodoro era un trasformista, disposto a sottomettersi al qualsiasi potente. Boezio, invece, era un
idealista: in una bellissima pagina della sua monografia, Obertello spiega cosa sia un ideale (op. cit.
pag. 96). Esso è una convinzione reale, “È una spinta teleologica, contrapposta alla supina acquiescenza
alla situazione contingente”. Senza ricadere nello stereotipo, possiamo dire che Boezio fu mosso da un
mito soreliano, quello della Roma Imperiale, e che dedicò la sua intera vita a tale mito.
29 L’accusa era di tipo formale, si parla di insinuans, e consisteva in: 1) aver tenuto rapporti segreti con

l’Impero d’Oriente; 2) Aver macchinato contro il regno di Teodorico.


30 Per le testuali parole usate da Boezio, v. cap. precedente. Picotti, in Il senato romano e il processo di

Boezio, scriverà che agirà in questo modo “non tanto per salvare un uomo, quanto per prevenire un
pericolo futuro e più grave”, cioè una possibile epurazione di tutto il fronte filoimepriale in Senato, a
cui apparteneva lui stesso ma anche Simmaco.
28

nuovi testimoni: Opilione, Gaudenzio e Basilio31. Intanto Boezio era stato abbando-
nato dal Senato, che lo aveva ripudiato insieme ad Albino per paura, e attrasse anche
l’odio dei goti, che già da tempo volevano sbarazzarsi di lui. Teodorico, poi, accecato
dal caos di quel periodo e offeso dal comportamento impertinente di Boezio, gli sot-
trasse l’unico titolo che poteva ancora salvarlo in aula: il titolo di magister officiorum.
Quasi sicuramente assoldati da Cipriano, i tre testimoni mossero accuse gravi contro
Boezio32. L’accusa che portò alla sua condanna a morte, in particolare, fu quella di
sacrilegium33, cioè di “stregoneria”. Nonostante il tentativo di Simmaco di modificare
il giudizio del genero, Boezio venne esiliato nel 524 a Pavia, probabilmente nella torre
ritratta nel Manoscritto del XII di Giuliano di Sangallo (Cod. Barb. Vat. Lat. 4424), e
i suoi beni furono confiscati. Qui vi rimase per almeno un anno, scrisse il proprio ca-
polavoro, la Consolazione della filosofia, e venne ucciso tra il 525 e il 526 in “Agro
Calventiano”34, probabilmente a Calvenzano vicino a Malegnano o in Calventia, at-
tuale borgo Calvenzano35. Poco dopo, probabilmente tra il 526 e il 527, verrà poi uc-
ciso anche Simmaco per aver compianto pubblicamente il genero. Rusticana, infine,
dopo aver perso padre e marito (i beni le vennero restituiti da Amalasunta36), pare

31 Da CD, I.4: “Per opera di quali accusatori sono stato colpito? Tra di loro un Basilio, già allontanato
dal servizio del re, è stato indotto a denunciare il mio nome per l’urgenza di pagare i debiti. Un Opi-
lone e un Gaudenzio poi, condannati ad andare in esilio dal tribunale regio a causa delle loro innume-
revoli frodi di ogni specie: costoro, rifiutandosi di ubbidire, ripararono sotto la tutela di un luogo sa-
cro; quando il re lo venne a sapere, decretò che se entro la data stabilita non avessero abbandonato Ra-
venna, ne fossero cacciati con la fronte segnata da un marchio d’infamia”.
32 Esse furono tre: 1) aver impedito l’opera dei delatori nei riguardi del Senato; 2) aver auspicato il

ripristino della libertas romana, cioè dell’arrivo dell’Imperatore in Italia; 3) infine, aver auspicato mac-
chinosamente ad una dignitas non ben specificata, macchiandosi di un sacrilegium. La prima accusa è
insensata, perché Boezio non impedì al delatore di testimoniare, ma aggiunse solo una nuova testimo-
nianza al caso; la seconda è vera, ma sicuramente non si tradusse mai nella volontà di un colpo di stato;
la terza, infine, non è chiara. Boezio in effetti aveva già percorso tutte le tappe dell’ordo dignitatum, del
cursus honorum, quindi non si capisce a che dignitas si stia facendo riferimento. Forse era l’eccessivo
successo che ottenuto, in quanto paladino del Senato, per acclamazione, che non gli dava nuove cariche,
ma un potere effettivo ulteriore. Oppure si aveva la paura che Boezio volesse prendere il posto di Teo-
dorico, a rimembranza dell’antenato Flavio Boezio.
33 Il sacrilegio è un maleficio, perseguito dalla legge di Teodorico (poi anche da Atalarico e Giustiniano),

strettamente legato con la mathesis, disciplina di cui Boezio era in effetti massimo esperto, e coinvol-
geva pagani, maghi, indovini e evocatori di spiriti
34AV, 87.
35 Riprendendo la questione del martirio boeziano, ora possiamo capire perché Obertello scrisse che

Boezio è un martire malgre lui. Nonostante la contrapposizione tra cattolicesimo e arianesimo, dietro
lo scontro tra Boezio e Teodorico ci furono molti altri motivi di natura genuinamente politica. La morte
di Boezio non è la morte consapevole di un cristiano perseguitato per la sua sola fede, ma quella di un
senatore che cercò l’appoggio del papa per risollevare “romanticamente” la libertas romana (intesa
come slancio culturale contrapposto agli altri popoli). Fu martire, è vero, ed è giusto oggi riconoscerlo
come tale per lodarne ancora di più la memoria, ciononostante, la lettura della sua vita come lotta
dell’ortodossia contro un tiranno ariano è del tutto sommaria e antistorica.
36 PC, I, 2.
29

avesse distrutto una statua ritraente Teodorico nel foro romano e venne salvata dal
giudizio dei Goti dal re Totila37

37 PLR, Rvsticana 1, pag. 961.


30

I.3 – Boezio e Teodorico

Consideriamo ora la politica teodoriciana del periodo in cui venne steso il De Institu-
tione Musica, cioè quella degli anni tra il 500 e il 507. Per la maggior parte dei latini
il Rex Gothorum era un sovrano di passaggio, vicario del potere centrale, quello del
basileus. Il potere di Teodorico non brillava di luce propria e viveva fintantoché fosse
presente il riconoscimento dall’Oriente. Si può ben vedere come in questi anni egli
abbia comunque cercato una propria autonoma propaganda politica e, ricordando il
riconoscimento di successione concesso da Giustino I ad Eutarchio, dobbiamo ammet-
tere che questa fu effettivamente un successo. Che tipo di politica applicò?
Per i motivi già ricordati in I.1 devono essere stati centrali gli anni di ostaggio alla
corte bizantina (461-471). La prima lettera delle Variae di Cassiodoro è indirizzata
all’imperatore Anastasio (491-518) e non a caso qui Teodorico affermò di aver impa-
rato a Costantinopoli le norme per governare uno stato, cioè la giustizia e la sapienza1.
La giustizia comprende generalmente fedeltà alle leggi e garanzia della liberà dei cit-
tadini; la sapienza invece è la ricerca del ruolo del rex philosophus, del sovrano che
unisce la filosofia alla porpora regale (“Quidam porpuratus uideretur esse philoso-
phus”, Cassiodoro, Variae, I,1). Questi temi sono espressione fortissima della politica
bizantina, che trova le sue radici nel pensiero filosofico antico, soprattutto in Platone
e Aristotele, ma che si protrae per tutto il Medioevo sotto la duplice veste di filosofia
politica e “scienza imperiale”. Se la prima è relegata alla sfera intellettuale e alle divi-
siones philosopiae, la seconda va invece oltre la teoria. La scienza imperiale
(“βασιλικὴ ἐπιστήμη”) viene citata per la prima volta da Platone, nel Politico, che la
descrisse come una conoscenza pratica, esattamente come la tessitura, la navigazione
e la medicina2. Usando competenze quali il generalato, la retorica e la giustizia, il so-
vrano può affrontare gli ostacoli pratici che inficiano il benessere collettivo3.

1 Restani, Donatella, Musica per Governare, Longo Editore, 2001, pag. 58.
2 Angelov, G. Dimiter, Classifications of political philosophy and the concept of royal science in By-
zantium, in The Many Faces of Byzantine Philosophy, Vol.1, 2012, pag. 35.
3 Forse proprio per questo Ennodio scrisse, riferendosi a Teodorico: “La Grecia, presaga del futuro, ti

ha allevato nella culla della civiltà”3 (“In gremio civilitas Grecia”). Ci si potrebbe chiedere se tra il V e
il VI secolo fossero ancora vive teorie politiche di circa novecento anni prima (quelle di Platone e di
Aristotele). Angelov (Angelov, G. Dimiter, op. cit., pag. 34 e seg.) nota che nel VI secolo, sotto Giusti-
niano, venne scritto un dialogo di autore ignoto: La Scienza Politica3. Ricostruendo una cosmogonia di
ispirazione platonica, il trattato si impegna a dimostrare che la Scienza imperiale è quel tipo di cono-
scenza pratica concessa dalla divinità rivelata che permette la salvezza dell’uomo. Il politico, quindi,
scienziato del suo settore, salva l’umanità che altrimenti ricadrebbe in una sorta di bellum omnium con-
tra omnes. Inoltre, insegna la scienza politica a chi è recettivo, introduce i costumi necessari per vivere
31

É in quest’ottica che dobbiamo leggere l’attività politica di Teodorico degli anni tra il
500 e il 507 (politica che invero protrarrà almeno fino al 522): governò all’insegna di
una imitatio imperii orientaleggiante, mitigata dalle origini gote, declinatasi in parti-
colare nell’applicazione della scienza imperiale bizantina. In questo modo gran parte
della sua attività prende una nuova luce. L’istituzione del comes romanus, un funzio-
nario incaricato a contrastare i saccheggi che i goti perpetravano con leggerezza a
Roma, poteva simbolicamente rinviare al basileus che con la sua legge (concessa e
legittimata dalla divinità) blocca il caos inevitabile a cui giungerebbero gli uomini. In
questo modo si può inoltre sottolineare l’importanza dell’operato di Cassiodoro: la
presenza di intellettuali a corte e di una fitta rete epistolare era uno strumento per Teo-
dorico di proporsi in quanto rex philosophus. Boezio era infine l’uomo perfetto per
creare questo “soft power”: conosceva greco e latino, era influente in Senato ed era un
giovane di nobilissima estrazione. Si potrebbe ipotizzare che l’intento di traduzione
dal greco al latino di Boezio possa essere stato politicamente finalizzato all’aumento
del prestigio di Teodorico, anche se potrebbe essere riduttivo racchiudere tutto ad una
sola causa. Ciò nonostante fu la sua attività intellettuale a permettere a Boezio il suo
cursus honorum, perché ciò che scrisse favorì, intenzionalmente o no, il potere di Teo-
dorico.
Il rapporto tra Boezio e Teodorico non poteva essere solo di reciproco ossequio. Nel
De Musica di Boezio c’è un passo che potrebbe aggiungere un elemento alla questione:
“I più rudi apprezzano le armonie [modis] aspre dei Geti, mentre i più pacifici si dilet-
tano di melodie più moderate, sebbene oggi tale differenziazione sia pressoché nulla,
poiché, in verità, il genere umano è lascivo e molle, e tutto preso dalle forme sceniche
e teatrali”4. La strana assonanza tra “Goti” e “Geti” può far sorgere il dubbio se Boezio
stia qui scagliando una critica al popolo del barbaro Teodorico5. I Geti sono un popolo
mitico di probabile origine indoeuropea narrati dalle Storie di Erodoto, ma tra il V e il
VI secolo vi era una certa confusione sui termini. Giordane infatti scriverà una Historia
Getarum sive Gothorum (551), probabilmente ispirata alla perduta Storia Gotica di
Cassiodoro (che poteva condividere l’erronea associazione Goti/Geti). Due studiosi
italiani si sono interessati al passo giungendo a considerazioni curiosamente diverse.

una vita onesta, la paura per la legge (che lui stesso introduce) e spinge il popolo ad imitare il suo stile
di vita.
4 DM I.2, pag. 289.
5 Si nota, però, come alcuni autori diano stranamente per scontato che qui Boezio si stia riferendo pro-

prio al popolo gotico, tra cui Henry Chadwick in Boethius, Clarendon Paperbacks 1981, pag. 91 e sgg.
32

Ugo Duse pensò che qui Boezio stesse demarcando la separazione culturale tra romani
e goti: “È una manifestazione di ribrezzo tra le righe innocue di un discorso lontano
dall’orecchio di Teodorico: forse addirittura la confessione che si è già individuata, nel
nuovo corso di Bisanzio, la politica da appoggiare per la restaurazione di una Roma
imperiale”6. Scartando l’ipotesi della clandestina politica di restaurazione “di una
Roma imperiale”7, è interessante notare come Duse pensi che questa sia una critica
“tra le righe”8. In effetti il De Musica sembra essere un’opera indirizzata agli intellet-
tuali romani del circolo di Simmaco9 più che ai bellicosi goti, i quali possiamo presu-
mere non sapessero leggere in latino. Boezio quindi avrebbe giocato intenzionalmente
sulla confusione terminologica per far leggere ai soli dotti concittadini un messaggio
discriminatorio che poteva risuonare più o meno così: “Noi Romani siamo essenzial-
mente superiori a questi rozzi barbari invasori”.
Diversamente invece la pensa Donatella Restani, nel suo Musica per governare, in cui
vent’anni dopo le ricerche di Duse, propone una via interpretativa più mite. Pur rico-
noscendo la confusione Goti/Geti di Cassiodoro e Giordane, il passo di Boezio sarebbe
assolutamente privo di ogni intento offensivo. Esso infatti potrebbe essere un esempio
scelto “secondo le norme dei protrettici, esortazioni a intraprendere lo studio di una
disciplina, come già Schrade aveva compreso, e probabilmente adatte al contesto”10.
Riconoscendo l’impossibilità di giungere ad un’interpretazione definitiva del passo, si
può almeno notare come esso faccia riflettere sul rapporto tra Boezio e Teodorico,
probabilmente caratterizzato anche da diffidenza etnica.

6 Duse, Ugo, Per una storia della musica del Novecento e altri saggi, Edt Musica,1981, pag. 200-203.
7 Ricordiamo l’impostazione “romantica”, cioè genuinamente culturale di Boezio, che lo scagiona dalle
accuse del suo triste processo
8 Strauss, Leo, Scrittura e Persecuzione, Saggi Marsilio, 1990, traduzione di G.Ferrara e F.Profili
9 Anche l’uso consistente del greco supporta questa tesi (v. pag. 94-95 DM).
10 Restani, Donatella, Musica per governare, Longo editore, 2004, pag. 76.
33

II – Il De Institutione Musica e le sue fonti

II.1 – Musica e arti liberali

Ogni riflessione storica riguardante la musica deve innanzitutto considerare due mo-
dalità in cui può esprimersi. Una riguarda la musica che possiamo definire pratica, che
consiste semplicemente nelle forme entro le quali la musica si concretizza. Gli stru-
menti, i canti, le composizioni, i gusti, gli usi, le occasioni… sono tutti elementi che
concorrono alla ricostruzione della cultura musicale di un periodo e di un luogo ben
precisi, che vengono analizzati alla luce delle fonti letterarie e archeologiche (si parla
oggi, ad esempio, di etnomusicologia storica). Parleremo a fine capitolo di questo
modo di intendere la musica al tempo di Boezio, facendone risultare gli aspetti più
problematici e gettando, per quanto si riuscirà, luce sulla pratica vera e propria. L’altro
consiste, invece, per così dire, nei modi della sua teorizzazione. A tal proposito devono
venire studiate le opere (prevalentemente) letterarie che si sforzano di dare un’intelle-
zione speculativa della musica.
Per la parte pratica abbiamo purtroppo una grossa carenza di fonti per il periodo Tardo
Antico (carenza che tra l’altro abbiamo almeno fino alla Riforma Gregoriana); per
questo motivo non si sa esattamente cosa e come si suonasse. Abbiamo, però, alcune
opere fondamentali per la storia della speculazione musicale. Una di queste, appunto,
è il De Institutione Musica di Boezio.
Il contenuto dell’opera può tradire le aspettative di un lettore sprovveduto del XXI
secolo, infatti, nonostante l’intenzione dichiarata dell’autore di voler trattare prevalen-
temente della musica definita strumentale (musica instrumentalis), non vengono mai
fatti cenni circa la pratica musicale. La musica per Boezio trova senso solo se pensata
all’interno del quadrivium, cioè del percorso di studi ordinato e finalistico che riguarda
lo studio della quantitas. Nel proemio del De Institutione Arithmetica1 abbiamo per la
prima volta l’uso del termine quadrivium ad indicare proprio questa sequenza di studi,
che poco dopo trova la sua definizione2. Boezio, in giovinezza, dedicherà un’opera ad

1 Boezio, Severino, De Institutione Arithmetica libri duo, De institutione musica libri quinque, ed. G.

Friedlein, 1867, pag. 7 e segg.


2 Boezio, Severino, op. citata, pag. 9: “Horum ergo multitudinem, quae per se est, arithmetica specula-

tur, integritas, illam vero, quae ad aliquid, musici modulaminis temperamenta pernoscunt, immobilis
vero magnitudis geometria notitiam pollicetur, mobilis vero scientiam astronomicae disciplinae peritia
vendicat”.
34

ogni disciplina3, che in ordine sono: aritmetica, cioè lo studio della quantità presa per
sé stessa; musica, della quantità legata ad altro da sé (ad aliquid); geometria, della
quantità (magnitudis) immobile; astronomia, della quantità (magnitudis) in movi-
mento. Perché trattare della musica all’interno di questo schema?
Ernesto Mainoldi4 risponde distinguendo le discipline speculative dalle arti applica-
tive. Le discipline speculative sono le scienze, le arti libere, e hanno a che fare con un
processo di deificatio individuale, che progressivamente prenderà sempre più le vesti
della santificazione cristiana; le arti applicative, invece, in quanto strumenti dell’opera
manuale, cercano solo la delectatio mondana. Esiste una sottomissione delle arti ap-
plicative alle discipline speculative che a detta dell’autore determinarono tutto il mil-
lennio medioevale5. Per questo allora non ha senso trattare della musica in quanto
poiesis, in quanto arte (si dovrà aspettare almeno l’XI secolo per avere i primi teorici
della ars musica, tra cui Guido D’Arezzo), ma anzi è di assoluta importanza astrarre
dal mutevole contingente verso ciò che è immutabile nella musica.
Questo salto ontologico viene risolto da Boezio proprio grazie allo strumento della
quantitas: la quantità è espressione del numerus, essenza che possiamo percepire nel
mondo solo nella sua degradazione data dalla congiunzione con la materia. In questo
senso si parla di quantitas in atto, riprendendo la distinzione aristotelica tra potenza ed
atto. Il nostro intelletto, però, può astrarre dal mondo quelli che sono i concetti immu-
tabili che lo determinano, cioè il numerus considerato per sé stesso, potendo qui parlare

3 Per quanto riguarda le opere scritte da Boezio riguardanti le discipline del quadrivium, abbiamo oggi
il De Institutione Arithmetica, buona parte del De Institutione Musica e ipotesi circa un possibile trattato
di geometria, di astronomia e di meccanica. L. Obertello (v. op. citata nota 8 pag. 3, pag. 297-311) cerca
di ricostruire, pur con il certo margine di ambiguità che le fonti comportano, una datazione per la loro
stesura. Essi sarebbero stati composti tra il 500 e il 507, quindi quando Boezio aveva già completato il
primo commento all’Isagogé di Porfirio e qualche traduzione delle dottrine logiche di Aristotele e di
quelle metafisiche di Platone. In quegli anni Boezio doveva avere tra i venti e i venticinque anni, ma la
sua precocità è ben attestata dalle fonti, come si è visto nel capitolo precedente. Non si vuole qui appro-
fondire il dibattito sulla cronologia delle opere boeziane, in cui se nell’ordine trovano più o meno una-
nime consenso, nella distanza tra una e l’altra invece rimangono aperti molti dubbi. In generale si è visto
come fino agli anni ’70 ci fossero due metodi di analisi testuale che giunsero a risultati dissonanti: uno
fu quello dell’analisi dei rimandi interni, prediletto da Obertello (v. op. citata, pag. 297-337); l’altro fu
quello dell’analisi statistico-stilistica, messa in pratica soprattutto da McKinlay (cfr. McKinlay, A., Sty-
listic Tests and the Chronology of the Works of Boethius, in Harvard Studies in Classical Philo-
logy, Vol. 18, 1907, 123-156 e Pizzani, Ubaldo, Studi sulle fonti del “De Institutione Musica” di Boezio,
in Sacris Erudiri, Brepols, Vol. 16, 1965, pp. 9).
4 E. S. Mainoldi, Ars Musica, Rugginenti editore, 2001
5 Non a caso Jean Mignot, architetto parigino attivo nella Magnifica Fabbrica del Duomo di Milano,

disse nel 1335: “Ars sine scientia nihili” (“L’arte senza la scienza non è niente”). L’architettura è un
caso interessante perché in effetti è palese manifestazione, nel Medioevo, di questo rapporto servile del
fare al sapere: si pensi solo alla pianta di una qualsiasi chiesa occidentale, che nella sua intersezione tra
navata e transetto ricorda il crocifisso, dedicando così tutta sé stessa alla teologia.
35

di potenza. Scrive infatti Boezio nel De Musica: “Le forme, le grandezze, le qualità,
gli aspetti esteriori e le altre cose […] considerate di per sé sono immutabili, mentre
congiunte alla materia sono soggette a mutamento e al multiforme variare che scaturi-
sce dalla parentela con una cosa mutevole”6. La musica intesa come studio della quan-
titas legata a qualcosa d’altro da sé è quindi solo un modo (uno dei quattro) con cui si
può astrarre dal contingente per giungere ad una verità immutabile: appunto, il nume-
rus, manifestazione dell’essere inteso come ciò che non cresce né decresce. Tutta
l’opera di Boezio, d’altronde, è permeata da questo rapporto servile tra praxis e theo-
ria, tra ars e scientia, ben condensata nella massima “È meglio sapere quello che si fa,
che fare quello che si sa”7.
Ora che abbiamo abbozzato il motivo per cui la musica non venga studiata da Boezio
né in maniera autonoma né nelle sue manifestazioni pratiche (cioè in quanto ars mu-
sica), possiamo chiederci che cosa sia il quadrivium e da dove provenga.
Per completare la definizione del quadrivium dobbiamo ricordare che è considerato da
Boezio come il primo blocco di studi che anticipa quello del trivium, cioè della gram-
matica, della retorica e della dialettica. Boezio dedicherà gran parte della sua vita
all’approfondimento delle questioni logiche (si pensi ai commenti all’Isagogè di Por-
firio, e all’attenzione verso l’Organon Aristotelico), indi per cui è lecito pensare che
fosse quello il suo principale obiettivo di ricerca. Solo con entrambi gli studi, però, si
può completare il percorso delle sette arti liberali, che tanto influenzerà il mondo in-
tellettuale e soprattutto universitario medioevale.
L’introduzione di un’organizzazione sistematica delle discipline non è ovviamente
un’invenzione di Boezio. Nella storia possiamo trovare un grandissimo numero di
esempi dello stesso tipo, ma per capire l’importanza dell’introduzione di un percorso
di studi scientifici dobbiamo cercare di ricostruire, a grandi linee, le basi del sistema
educativo latino fino ad allora in atto, del Cursus studiorum negli ultimi secoli dell’Im-
pero. Abbiamo già accennato, nel primo capitolo, al ruolo della lingua greca, che in
Occidente diventa sempre più uno strumento accessibile solo ai rampolli di altissima
estrazione. Boezio per fortuna crebbe entro il circolo di Simmaco (paragonabile per
certi aspetti al circolo degli Scipioni del II secolo a.C.), grazie al quale ebbe libero
accesso al sapere ellenico, ma la sua esclusività per i soli gruppi d’élite rendevano

6 DM, pag. 325.


7 DM, pag. 323
36

quella conoscenza una mera soddisfazione della curiositas degli intellettuali. La nor-
male formazione latina prevedeva quattro livelli8: il primo era costituito da una forma-
zione elementare, che doveva preparare agli studi di grammatica, organizzati dal gram-
maticus, uno per il latino e uno per il greco (quest’ultimo spesso era un servo o un
liberto), e gli stessi forse accennavano ad argomenti del quadrivio. Seguivano quindi
gli studi di retorica, concentrati sulla preparazione compositiva, declamatoria e dialet-
tica, a cui potevano seguire specializzazioni in filosofia, medicina e legge (ruolo,
quest’ultimo, che verrà sostituito dalla teologia nei secoli a venire). La carriera forense
era sicuramente la più importante e si può dire che quello fosse il fine del Cursus stu-
diorum tradizionale latino9.
Sicuramente al tempo di Boezio si era mantenuta l’attenzione maggiore verso gram-
matica, dialettica e retorica, infatti abbiamo numerosi maestri di grammatica attivi tra
IV e V secolo10. Elio Donato, ad esempio, era un grammatico della metà del IV secolo
paragonato da Boezio al grande Aristarco di Samo; Prisciano, di cui abbiamo già par-
lato, era il grammatico greco che dedicò delle opere a Simmaco che poi divennero
indispensabili alle scuole medievali; Gaio Mario Vittorino, africano venuto a Roma
nella prima metà del IV secolo, insegnò nelle famiglie aristocratiche e compose trattati
su quello che oggi chiameremmo public speaking. Raggiunse addirittura una fama tale
da vedersi erigere una statua in suo onore nel Foro Traiano11. Ciò che notò Boezio,
quindi, era la mancanza di interesse dei latini verso le materie scientifico-matematiche,
tanto da prendere l’iniziativa di comporre opere ad esse totalmente dedicate.
Nell’organizzazione delle discipline entro lo schema del quadrivium poteva rifarsi a
numerosi altri autori, direttamente o indirettamente entrati in contatto con lui, che ri-
vediamo nelle tappe più rilevanti12. Vi era innanzitutto la distinzione platonica per
come viene concepita nel VII libro della Repubblica. Essa prevedeva, in ordine, quat-
tro discipline scientifiche: aritmetica (intesa come studio del calcolo astratto),

8 Obertello, Luca, Severino Boezio, Accademia ligure di scienze e lettere, 1974, pag. 386-403.
9 La praticità dei romani non poteva che ricercare la sottomissione del sapere alla carriera lavorativa,
anche se abbiamo degli esempi che in un certo senso esulano da questa prassi. Varrone, con la sua
celebre sistemazione delle discipline in scientifiche (medicina e architettura) e letterarie (grammatica,
dialettica, retorica, geometria, aritmetica e musica), pone la filosofia come arco poggiante trionfalmente
su questi due pilastri; o ancora, Cicerone, nella sua progressione (geometria, lettere, scienze fisiche,
filosofia morale, filosofia politica) giungeva invece all’oratoria come obiettivo finale.
10 Chadwick, Henry, Boethius, Clarendon Paperbacks, 1981, pag. 69-71.
11 Chadwick, Henry, op. citata, pag. 115.
12 Per la ricostruzione delle tappe fondamentali della storia del quadrivio, si è fatto affidamento per lo

più a Panti, Cecilia, Filosofia della musica, Tarda Antichità e Medioevo, Carocci editore, 2008, pag. 15
e segg.
37

geometria (scienza degli enti immutabili, declinata poi nella stereometria, cioè nello
studio dei solidi, come ben si può apprezzare nel Timeo), astronomia (scienza del mo-
vimento perfetto ed immutabile) e infine scienza armonica (cioè la musica, ma da non
confondere con la mousiké, all’epoca termine usato per indicare campi vasti come
suono, ritmo, danza e poesia, completamente differenti dell’impostazione scientifica
di Platone dell’armonica). Pare evidente la somiglianza con il quadrivium esposto in
De institutione arithmetica I.1 di Boezio.
In Aristotele abbiamo l’integrazione della scienza armonica nel più ampio discorso
dell’essenza della scienza degli Analitici II. Tra le tre categorie di scienze (teoretiche,
poietiche e pratiche), la musica si inserisce tra le teoretiche che riguardano gli enti
matematici. In quanto scienza teoretica studia, al pari della filosofia naturale e della
metafisica, sostanze separate dalla materia, ma in quanto rivolta agli enti matematici,
al pari dell’ottica, considera un oggetto sensibile astraendone solo gli aspetti quantifi-
cabili. Questi non sono sostanze separate (lo sono invece per Platone), perché stanno
nelle cose, ma possono essere pensati come tali, quindi “in un determinato senso”, nel
loro essere in quanto enti separati. Le influenze di Aristotele nel pensiero musicale di
Boezio sono già qui evidenti, ma saranno, si spera, più avanti ancor più manifeste.
Il valore della musica negli schemi disciplinari continua con Nicomaco di Gerasa (60-
120), fonte prediletta di Boezio per la stesura dell’Institutione Musica e dell’Institu-
tione Aritmetica, come vedremo. Nicomaco distingue quattro methodoi, divisi in due
gruppi. Il primo riguarda il “quanto” (moltitudines), e può essere quanto come discreto,
cioè considerato in sé stesso, allora abbiamo l’aritmetica; e quanto come moltitudine,
cioè quando abbiamo un quanto in relazione a qualcos’altro, e quindi abbiamo la
scienza armonica. Il secondo gruppo riguarda il “quanto grande” (magnitudines), che
può essere quanto grande continuo per la geometria e quanto grande in movimento per
l’astronomia. Si può forse già notare che il quadrivio di Boezio non è altro se non
questa divisione di Nicomaco di Gerasa, a sua volta derivata da quella platonica, ri-
presa circa quattro secoli più tardi13. Si confronti infatti lo schema in fig. 1, rappresen-
tante i methodoi nicomachei con la divisione boeziana sopracitata.

13 Cfr. supra e II.3.


38

Schema estratto da K. Von Jan, Musici Scriptores Graeci, Typis B. G. Teubneri, Lipsia, 1895, p.215.

Calcidio (IV secolo), nel suo celebre Commento alla prima parte del Timeo, scriverà,
nella lettera prefatoria, che il testo platonico è un’opera “oscura” a causa del suo ra-
gionamento estremamente tecnico (parla di artificiosa ratio), per cui sono necessarie
delle competenze in settori specifici per riuscire a penetrarne il senso profondo. Non a
caso nomina aritmetica, astronomia, geometria e musica, che diventano così non solo
discipline appartenenti ad un percorso di studi, ma anche veri e propri strumenti di
esegesi, tools ermeneutici.
Teodosio Macrobio (390-430), nei Commentari al Sogno di Scipione, riprende le
stesse discipline quadriviali di Platone, Nicomaco e Clacidio, ma distingue due senti-
menti con cui possono venire percorse: con vetustas quando siamo affetti da sincera
venerazione per il sapere antico, che sentiamo come patrimonio da preservare; con
curiositas quando si usano per rintracciare e scoprire le verità sottostanti alle apparenti
bizzarrie della natura.
Marziano Capella (tra IV e V secolo), autore delle meravigliose Nozze di Mercurio e
Filologia, pone l’organizzazione delle discipline in arti liberali al centro dell’atten-
zione. Ne individua sette (escludendo l’architettura e la medicina, annoverate come
abbiamo visto invece da Varrone): grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritme-
tica, astronomia e armonia. L’ordine è del tutto particolare e ha carattere ascensionale:
si va dalla più terrena (le arti del trivio, così facendo autoironia al proprio mestiere,
quello di avvocato) alla più divina, che straordinariamente identifica con la musica.
Entriamo poi nel mondo cristiano con Clemente Alessandrino (150-215 circa), autore
degli Stromata. In quest’opera Clemente giunge a definire quello che poi dirà Ago-
stino: che le arti liberali sono la via necessaria per preparare alla filosofia, la quale a
sua volta prepara alla Sapienza-Verità del Verbo, cioè Cristo14. Con quest’imposta-
zione da una parte inizia a delinearsi il ruolo ancillare della filosofia rispetto alla teo-
logia, ruolo peraltro fortemente discusso durante tutto l’arco del Medioevo anche fuori
dall’Occidente; dall’altra la paideia classica si trasforma e viene integrata nella

14 “Io sono la via, la verità, la vita”, Giovanni, 14,6.


39

filosofia cristiana, giungendo a quella compenetrazione tra cultura pagana e cristiana


che rappresentò una rivoluzione per il cristianesimo delle origini.
Agostino, infine, com’è noto, intorno al 386 a Cassiciaco, organizzerà le discipline
pagane all’interno del De Ordine. Nelle Retractationes Agostino spiega perché si in-
teressò così tanto delle arti liberali: esse servivano a prepararlo per l’imminente batte-
simo, facendolo progressivamente giungere dalle realtà corporee a quelle incorporee.
L’impostazione ascensionale è dunque quella di Marziano Capella, ma in più è pre-
sente l’elemento cristiano, per cui le arti liberali non hanno senso se non sono finaliz-
zate all’atto incondizionato di fede nel Dio cristiano15 . Le arti sono dunque anche uno
strumento esegetico: come Calcidio le usò per risolvere le oscurità del Timeo, così
Agostino se ne servì per cogliere le tracce di perfezione concreate che ci fanno intuire
la vera ratio dell’universo, impressa per amore dal suo Creatore. Per questo le arti del
quadrivio sono per Agostino discipline in delectando, cioè quelle vie attraverso le quali
il fedele può cogliere la razionalità provvidenziale dell’ordine cosmico e in virtù di ciò
compiacersene. Si parte dunque dalla musica intesa come disciplina che ha a che fare
più di tutte con il sensibile, per poi passare alla geometria, all’astronomia e infine alla
matematica.
Completamente diverso sarà il senso e l’ordine del quadrivio di Boezio, per cui l’ele-
mento cristiano è completamente assente. Il senso del quadrivio non è né esegetico né
di deificatio, bensì culturale e civile, in linea con la vetustas di Macrobio. Boezio, così
come molti suoi predecessori e contemporanei del suo tempo, cercava di restaurare
l’humanitas, identificata nel sapere ellenico, sempre più minacciato dal conchiudersi
entro gli stretti limiti delle élite aristocratiche. Lo spirito con cui Boezio scrisse, gio-
vanissimo, i trattati del quadrivio, era molto simile a quello di Marziano Capella: en-
trambi furono dotati di una forte coscienza storica che aprì i loro occhi sulla crisi in
cui l’Impero (e con lui il Mos maiorum) ormai stava sprofondando. Entrambi trovarono
un senso morale ben preciso alle loro ricerche, per questo infatti scriverà A. Viscardi:
“Hanno, tali uomini, il senso tragico della fine della cultura a cui appartengono, e pro
viribus vogliono salvare e ritrasmettere quello che possono. C’è, in essi, questo senso
di ansia, c’è questo senso di dramma che è molto diverso da quello svagato gioco

15 Dovrebbe riecheggiare l’adagio: “Credo, ut intelligam. Intelligo, ut credam”.


40

brillante in cui si è apparso implicato, non impegnato, Sidonio Apollinare, e di cui,


aggiungiamo, tra i contemporanei di Boezio si diletta, per esempio, un Ennodio”16.
A voler concludere si può dire che Boezio sapesse bene che la cultura non vive senza
qualcuno che la vivifichi di generazione in generazione, perché la verità continuerà
sempre ad esserci, ma la sua coscienza no se non c’è continua ripresa da parte di chi
possa riconoscerne il valore e i contenuti. Aristotele, nelle Categorie17, osservò proprio
che ciò che può essere conosciuto non sempre lo è di fatto: o perché non è ancora stato
scoperto, o perché è stato tristemente dimenticato, il conoscibile soffre da sempre la
negligenza dell’uomo e necessita giorno per giorno rinnovati sforzi da parte sua.

16 Obertello, Luca, op. citata, pag. 400.


17 Chadwick, Henry, op. citata, pag. 69.
41

II.2 – Circa le fontes del De institutione musica

Uno degli aspetti più problematici del De musica di Boezio è che non è un’opera ori-
ginale. Se inizialmente, leggendo l’organizzazione della materia, la logica consequen-
zialità dei capitoli e i sicuri rimandi interni, si potrebbe pensare che se non tutto, al-
meno gran parte del libro sia effettivamente frutto di un lavoro autonomo di Boezio,
in realtà, anche solo avendo dei rudimenti di teoria musicale antica o, banalmente,
leggendo l’introduzione all’edizione italiana di Marzi, ci si accorge della fortissima
dipendenza da altri testi di altri autori. Si apre così la complicatissima e forse non
ancora totalmente risolta1 questione delle fonti del De musica. A. Karpàti scrive,
riferendosi proprio a questo studio: “It is perhaps the most widely debated treatise of
the ancient musical theory”2. In effetti fino agli anni ’90 del secolo scorso il testo si
trovava all’interno di un ricco e acceso dibattito che coinvolse studiosi di diverse na-
zionalità per decenni. Oggi se ne parla meno, forse perché ora si è trovata una solu-
zione soddisfacente, forse perché la questione era diventata troppo capziosa o forse
perché ormai è cessato l’interesse.
Per quanto possano essere divergenti e talora conflittuali le diverse versioni degli stu-
diosi, si è giunti all’unanime pensiero che l’opera di Boezio sia una compilazione di
trattati musicologici passati, in particolare quelli di Nicomaco di Gerasa e Claudio To-
lomeo. Questa è, in buona sostanza, l’idea che passa nei manuali o nelle descrizioni
sommarie dell’opera scientifica di Boezio, ma volendo qui precisare la questione pos-
siamo permetterci di ricostruire dei piccoli frammenti dei risultati ottenuti, per far re-
spirare almeno la problematicità e l’importanza di studi del genere. Ovviamente per
un approfondimento adeguato si rimanda alla bibliografia essenziale, ma essendo que-
sta una tesi che vuole presentare generalmente un’opera sotto molti aspetti dimenticata
dai moderni e dai contemporanei, è necessario parlare anche di quest’argomento, nei
limiti, per ricostruirne il senso che ha avuto almeno durante secolo scorso.

1 Panti, Cecilia, op. cit., pag. 92: “La vexata quaestio della o delle fonti su cui Boezio “costruì” il suo
trattato di musica è ancora in larga parte parte: è una mera sintesi dell’opera perduta di Nicomaco o una
compilazione dottrinale desunta da fonti diverse? È un’opera compilativa o è invece uno scritto originale
e coerente col programma scientifico delineato da Boezio?”
2 Karpàti, Andràs, Translation or Compilation? Contributions to the Analysis of Sources of Boethius'

Deinstitutione musica, in Studia Musicologica Academiae Scientiarum Hungaricae, T. 29, Fasc. 1/4,
1987.
42

Per più di un secolo (dal 1875 almeno fino al 1960) fece scuola la ricostruzione di
Auguste Gavaert3, il quale considerava la percezione medievale della teoria musicale
greca estremamente confusionaria e caotica4, soprattutto a causa dell’intervento di au-
tori, tra cui appunto Boezio, i quali incapparono in gravi incomprensioni delle fonti,
che portarono a danni talmente grandi per cui ci vollero secoli, alla musica occidentale,
per riprendersi. Nel 1895 Karl Von Jan pubblicò i Musici Scriptores Graeci5, una rac-
colta in dieci capitoli di fonti musicologiche antiche che vanno da Aristotele a fram-
menti di canti greci trascritti in notazione moderna. Il capitolo V, tra Euclide e Bac-
chio, è dedicato alle opere di Nicomaco di Gerasa6, un grande matematico siriaco neo-
pitagorico vissuto tra il 60 e la prima metà del II d.C7. Nicomaco scrisse un’Introdu-
zione all’armonica (Enkiridion arµonikez, talvolta detta anche Manuale di armo-
nica), oggi giuntoci per intero, e qualche frammento che pare appartenesse ad un’opera
più estesa sulla musica, appunto il Peri µousichz (oggi perduta). Ci vollero solo tre
anni perché gli studiosi si accorgessero della estrema somiglianza tra il primo libro del
De musica di Boezio ed il Manuale di Nicomaco. Il primo a farlo fu Mieklei, nel 18988,
con una minuziosa comparazione capitolo per capitolo che dimostrò senza ombra di
dubbio la dipendenza tra le due opere9. Per quanto possa essere stata incompleta la
ricerca di Mieklei (relativa solo al primo libro dei cinque del De musica), egli poté
trarre la conclusione che l’opera di Boezio, in fondo, fosse solo il frutto di un mero
epitomatore privo di discernimento e di gusto. Questo era probabilmente un giudizio
giustificato di chi, finalmente, iniziava a fare chiarezza sulle fontes del De musica.

3 Gavaert, F., A., Historie et theèris de la musique de l’antiquité, Gand, 1875-81.


4 Cfr. Bower, C., M., An essay concerning the sources of de institutione musica, Vivarium, XVI, I, 1978,
pag. 1; Duse, Ugo, Musica del Novecento, Edt, 1981, pag. 180, riportò una citazione del Gavaert stesso:
“Il senatore romano Boezio, matematico sapiente ma musico piuttosto mediocre, avendo trovato in
qualche manuale di armonica che portava il nome di Tolomeo le otto scale tonali in notazione greca, le
trascrisse senza comprenderne gran che nella sua troppo famosa opera De musica. Si può dire che la
conservazione di questo volume fu una vera disgrazia per l’arte”. A pag. 180, nota 5, Duse cita anche
M. Cantor (1907): “Non era un rielaboratore di egual levatura che abbia osato misurarsi sulla teoria
aritmetica dei greci. Proprio nelle questioni aritmetiche più sottili è andato fuori strada. Il suo greco era
all’altezza della traduzione, non la sua matematica.”
5 K. Von Jan, Musici Scriptores Graeci, Aristoteles, Euclides, Nicomachus…, Typis B. G. Teubneri,

Lipsia, 1895.
6 Karl Von Jan, op. cit., pag. 209-282.
7 Per la datazione, v. The manual of harmonics of Nicomachus the pythagorean, Phanes Press, 1994,

trad. e comm. di Flora R. Levin, pag. 22.


8 Mieklei, G., De Boethii libri de musica primi fontibus, Jena 1898.
9 Per una sinossi dell’opera si veda anche Obertello, Luca, Severino Boezio, Vol. 2, Accademia ligure

di scienze e lettere, 1974, V, 1.7, pag. 128; e anche Pizzani, Ubaldo, Studio sulle fonti del ‘De institu-
tione musica’ di Boezio, in Sacris erudiri, XVI, 1965, p. 6, 52, 55, 61 e 156.
43

Solo Potiron10, nel 1960, propose una nuova e rivoluzionaria interpretazione dell’opera
di Boezio, che in un certo senso riscattò il giovane autore romano: studiare il De mu-
sica non tanto in relazione alla teoria musicale medievale, quanto più a quella greca.
Potiron obbietta alle critiche di Gavaert e di Mieklei che Nicomaco non parlò né di
toni, né di notazione musicale, cosa che farà invece Boezio in IV.15-17 e IV.3. Questo
scagionò Boezio dall’accusa di passivo e disattento copista, ma come spiegare queste
differenze? Supponendo più fonti, risponde Potiron: in particolare il perduto Sulla mu-
sica di cui abbiamo solo i frammenti raccolti dal Jan. Allo stesso modo, analizzando il
libro V, Potiron intuì che questo fosse, nei contenuti e nell’organizzazione dei capitoli,
assolutamente concorde con gli Armonica di Claudio Tolomeo, opera ad oggi perfet-
tamente conservata11. Insomma, con Potiron si entra in una nuova era di interpreta-
zione del testo di Boezio, che farà leva, almeno per altri trent’anni, sulla complessità
delle fonti a cui Boezio fece riferimento, dubitando del giudizio sommario e negativo
che fino ad allora aveva prevalso. Scrisse infatti, Potiron: “Senza dubbio Boezio non
ha inventato nulla, né la teoria dei numeri, né quella musicale; ma ciò non vuol dire
che egli sia un compilatore. La sua presentazione è originale. Egli ha attinto a sua
dottrina le fonti stesse della tradizione raccolta nel corso dei suoi studi, verosimilmente
ad Alessandria12. Il suo caso è identico a quello dei teorici dell’età greco-romana, ad
eccezione di Tolomeo. La dottrina è anteriore di almeno cinquecento anni”13.
Un’analisi sulle fonti del De musica ancora più recente sarà quella fatta da Ubaldo
Pizzani14, grandissimo intellettuale venuto a mancare solo tre anni fa, interessato so-
prattutto al pensiero altomedievale, soprattutto di Agostino, Cassiodoro e Boezio. Piz-
zani si dedicò della questione per produrre uno studio preparatorio alla nuova edizione
critica del De musica che fu pubblicata nella collana Corpus Christianorum, in modo
da poter costituire un apparato delle fontes che potesse accompagnare, passo passo, a
piè di pagina, il testo boeziano, “nella speranza ch’esso possa costituire almeno un
primo punto di partenza per i futuri studiosi del trattato musicale latino”15. La sua ana-
lisi è talmente complessa che ogni sintesi, per quanto esauriente possa essere, deve
necessariamente rinunciare all’articolazione, lucida e minuziosa, dell’autore. Pizzani

10 Potiron, H., Boèce, théoricien de la Musique grecque, Romania, pag. 123-126, 1962
11 Tolomeo, Claudio, Armoninca con il Commentario di Porfirio, Bompiani, 2016.
12 Notare che qui Potiron si riallaccia alla tradizione del Courcelle per cui Boezio fece effettivamente

un viaggio ad Alessandria, probabilmente con il padre. Per la discussione v. supra I.2.


13 Obertello, Luca, op. cit., pag. 462.
14 Pizzani, Ubaldo, op. cit.
15 Pizzani, Ubaldo, op. cit., pag. 1.
44

illumina la rete delle fonti usate da Boezio capitolo per capitolo, individuando per i
primi tre libri pressappoco come fonte unica il Sulla musica di Nicomaco andato per-
duto16; il quarto libro è il più complesso perché miscellanea di testi diversi, tra cui la
Sectio Canonis di Euclide, una versione perduta di Muciano del trattato musicale di
Gaudenzio, ancora l’Opus maius perduto di Nicomaco e Tolomeo per gli ultimi capi-
toli; il quinto, infine, è per lo più una sintesi dei temi del primo libro dell’Armonica di
Tolomeo, con probabili influssi da una fonte latina non ben identificata (forse l’opera
musicologica di quell’Albino citato sia da Boezio17 che da Cassiodoro18). La caratte-
ristica straordinaria dello studio del Pizzani è che mostra con chiarezza il metodo com-
positivo del giovane Boezio, da una parte fedele ai suoi modelli, dall’altro infedele,
perché desideroso di migliorarli (cadendo sovente in confusioni involontarie, o “grossi
svarioni”19 come scriverà lui stesso). Il giudizio del Pizzani, alla fine, risulta sì impar-
ziale ed oggettivo, ma colpisce uno degli asserti finali: “Il proemio costituisce indub-
biamente il massimo sforzo di Boezio, sia sul piano formale sia su quello contenuti-
stico, di dare un senso autonomo alla sua opera ; ma se il nitore dello stile e la cristal-
lina semplicità d’espressione risplendono più qui che altrove, se i temi attinti a Nico-
maco e ad Albino appaiono qui coerentemente inquadrati in una trattazione omogenea
che sa ben celare le suture, sarebbe vano cercare in essa i segni di un pensiero originale.
Solo le tormentate esperienze della sua vita di uomo e di studioso sapranno condurre
il senatore romano a quell’approfondimento dei massimi problemi, a quel sofferto ri-
pensamento del tesoro della saggezza antica che brilla nelle imperiture pagine del De
consolatione philosophiae.”
Obertello, nella sua monografia, dedicò alcuni paragrafi alla questione delle fonti del
De musica20. L’analisi in effetti è meno approfondita rispetto a quella sul
De arithmetica (pag. 451-462), e tutto sommato si basa quasi esclusivamente sul so-
pracitato Pizzani. Anche Obertello, che sentì troppo razionale e pesante il suo giudizio,
cercò di difendere in ogni modo il giovane Boezio. Scrisse, infatti: “Il fatto stesso di
esser collocato all’estremo confine temporale di una civiltà che andava sempre più

16 I cui frammenti pubblicati dal Jan vengono radicalmente messi in discussione, considerando solo i
primi due genuini del geraseno, mentre gli altri semplici scolii mal interpretati durante le trascrizioni
manoscritte.
17 Boezio, Severino, De institutione musica, Istituto italiano per la storia della musica, a cura di G.

Marzi, 1990, I.12 e I.26.


18 Pizzani, Ubaldo, op. cit., pag. 90.
19 Pizzani, Ubaldo, op. cit., pag. 55-56.
20 Obertello, Luca, op. cit., pag. 462-470.
45

velocemente perdendo la propria coesione, e con essa la capacità di rinnovarsi dall’in-


terno, costituì per Boezio il maggior impedimento a una esatta comprensione di teorie
e di testi che erano ormai entrati idealmente in quella dimensione indistinta, creata
dalla distanza, che è propria dei monti confusi della foschia al limite dell’orizzonte. In
tali condizioni doveva mancare ora la retta valutazione del contesto che ne aveva ac-
compagnato e giustificato la creazione, ora la capacità di trasporre concetti e formula-
zioni antiquate nel quadro di nuove tematiche; di qui il confluire e il confondersi, il
reduplicarsi e l’alternarsi di fonti diverse, età senescenti, nelle quali l’accumulazione
dei dati, delle tecniche e delle idee, invece di costituire una sicura ricchezza, spesso
costituisce una possibilità di errore”. Con la sua poetica Obertello ridiede forse un po’
di calore ad una questione che ormai stava diventando sempre più affare cerebrale dei
filologi. Obertello anticipa anche di 4 anni la tesi di Bower21, quella cioè che anche se
Boezio non fu originale nei contenuti, lo fu nell’organizzazione della materia.
Nel 1978 Calvin Bower, traduttore dell’ultima versione inglese del De musica22, da
una parte sostenne proprio che Boezio sia riuscito ad elaborare una materia complica-
tissima come la teoria musicale greca in una compilazione assolutamente adeguata alle
esigenze del pubblico e del tempo in cui viveva23. Boezio non è un traduttore passivo,
confusionario e impacciato, che cerca disperatamente dall’inizio alla fine di dare una
veste unitaria alla sua opera, ma un attento conoscitore dei testi musicologici latini,
delle loro lacune e dei saperi greci che possono colmarle24. L’unica fonte a cui si rife-
risce Boezio, per Bower, è Nicomaco di Gerasa (sia al suo Manuale che all’Opus
Maius andato perduto) e molto probabilmente Boezio scrisse altri due o tre libri dopo
il quinto incompleto giuntoci. L’intuizione di quest’ultima ipotesi proviene dalle pro-
messe di approfondimenti futuri che Boezio fece all’interno della sua opera. Delle
circa venti promesse fatte (introdotte sempre dal termine latino posterius), solo due di
queste non vennero effettivamente soddisfatte nelle parti a noi giunte, e sicuramente

21 Bower, M. Calvin, op. cit.


22 Boezio, Severino, (Anicius Manlius Severinus Boethius), Fundamentals of Music, trad. di Bower C.
M., Yale Univ., 1989.
23 Bower è dichiaratamente in disaccordo col Pizzani, che ritiene tutto sulla scia del Gavaert, e anzi è

proprio il suo studio ad averlo spinto a scrivere il suo articolo: “The attitude [del Gavaert] leads him
[Ubaldo Pizzani] to a somewhat distorted picture of the relationship between Boethius and his sources.
Hence the present study”.
24 Riguardo la questione del sapere musicologico latino al tempo di Boezio non ci dilunghiamo, ma si

rimanda a: Pizzani, Ubaldo, op. cit., pag. 90 e sgg.; Chadwick, Henry, op. cit., pag. 84 e sgg.; Karpàti,
Andràs, op. cit., pag. 2 e sgg.
46

non possono esserlo state nelle parti mancanti del V libro25: i concetti di musica hu-
mana e musica mundana. La minuzia con cui Boezio ha sempre mantenuto le promesse
di approfondimento fa pensare a Bower che in effetti entrambe queste questioni siano
state approfondite in almeno altri due libri, oggi mancanti, sempre basati sull’opera
perduta di Nicomaco il geraseno.
Ancora un altro studioso, Henry Chadwick26, nella sua monografia su Boezio, dedica
un paragrafo intero alle fonti del De musica. Tralasciando le complesse e raffinate
osservazioni filologiche e storiografiche che Chadwick riporta, in generale si discosta
dalla teoria di Bower27 per cui l’unica fonte di Boezio fosse l’Opus maius di Nicomaco,
prediligendo la complessità del Pizzani. Parla del De musica come di un’introduzione
che aveva un carattere per lo più esortativo allo studio della musica greca e conclude
con una frase che a primo acchito può sembrare inquietante: “La teoria musicale è la
penetrazione del cuore dell’ordine provvidenziale del mondo. Non riguarda il banale
intrattenimento o la consolazione superficiale di sentimenti tristi, ma riguarda bensì
l’interpretazione dell’armonia nascosta di Dio e della natura, in cui l’unico elemento
di discordanza è il diavolo nel cuore dell’uomo”. Pensare il De musica di Boezio in
questi termini significa legarlo alla teoria musicale cristiano-liturgica, cosa che non
potrebbe essere più lontana da lui in quest’opera. Non parla qui di Dio, né del diavolo,
non parla di ordine provvidenziale né dei fenomeni etici più basilari, come l’intratte-
nimento o la tristezza, in termini di cose “banali”28. Quello che Chadwick scrive, però,
è in linea con la proposta di Chamberlain29, per cui considerando la prospettiva aperta
dalla Consolatio, la musica si troverebbe al vertice di perfezione sapienziale rispetto
all’aritmetica. Mentre quest’ultima guida l’intelletto alle verità immutabili, la musica
coglie l’ordine provvidenziale della realtà, riflesso dall’armonia universale30. È
un’idea che è presente nella Consolazione ma ancor più esplicitamente in Marziano

25 Dei capitoli mancanti del primo libro, infatti, abbiamo i titoli, conservatici dalla tradizione manoscritta

e allegati ad ogni edizione moderna del De musica (si intende a partire da quella di Friedlein del 1867),
e sappiamo con certezza contenere gli stessi temi, compendiati, del primo libro degli Armonica di To-
lomeo. Entrambe queste considerazioni escludono la possibilità che in questi capitoli Boezio approfondì
i concetti di musica mundana e di musica humana. Tolomeo, in effetti, tratta i due tipi di musica nel III
libro della sua opera, ma per David S. Chamberlain (Philosophy of Music in the Consolatio of Boethius,
in Speculum, vol. 45, 1970, pag. 80-97) Boezio riempì questi vuoti nella Consolazione della filosofia.
26 Chadwick, Henry, Boethius The Consolations of Music…, Clarendon Paperbacks, 1981
27 Senza però abbandonare l’idea che “Ptolemy, then, was probably followed in the missing sections of

Boethius which dealt with cosmic and human music” (Chadwick, H., op. cit., pag. 83).
28 La forza etica della musica, per Boezio, è il suo elemento forse più caratteristico, esattamente come

avevano notato i pitagorici (v. DM I.1).


29 Chamberlain, David, op. cit.
30 Panti, Cecilia, op. cit., pag. 88 nota 3.
47

Capella, e che è contrapposta a quella finora esposta, cioè che il giovane Boezio, qui
nel De musica, consideri, per impostazione nicomachea, che l’accesso più immediato
della razionalità umana all’essenza della quantità sia l’aritmetica, intesa come stru-
mento che usa il numero in sé come principio unificatore e primo31. Va però fatta una
precisazione. Chamberlain pensa quello che si è detto per una ipotesi molto nobile, che
esprime chiaramente: “What I would like to suggest now is that Boethius does take up
the old interest [cioè le mancate promesse circa gli approfondimenti su musica mun-
dana e humana] again in his last and greatest work, De Consolatione Philosophiae,
but in a way quite different from that of De musica”32. Per questo sarebbe lecito, qua-
lora si volesse considerare l’intero pensiero musicale di Boezio, parlare sia di quello
che scrisse nel De musica a vent’anni, sia quello che pensò in punto di morte circa
venticinque anni dopo33. Sembrerebbe allora corretta la frase di Chadwick, se non
fosse che manca completamente questa “nobile ipotesi” di Chamberlain: nel trattare di
musica humana e mundana, Chadwick si rifà infatti dichiaratamente a Bower34 e rico-
struisce questi concetti a partire dalla lettura del libro III dell’Armonica di Tolomeo.
Stranamente, proprio in quest’ultima frase presa in esame scrive “It is not surprising
that De institutione musica anticipates many themes wich are rasted in the Consola-
tion of Philosophy”. Per questo può sorgere questo senso di inquietudine: se per tutte
le ventidue pagine dedicate al De musica Chadwick si rifà a Bower e al Pizzani per lo
studio delle fontes, sottolineando il nicomachismo pitagorico da una parte e dall’altra
la possibile ricostruzione dei temi inespressi con Tolomeo, solo ora, in chiusa, esau-
rendo l’argomento in poche righe, svela la sua predilezione per la tesi di Chamberlain,
parlando improvvisamente di Dio, del diavolo e della superficialità della tristezza.

31 Come vedremo, anche l’estetica musicale (se di estetica si può parlare) di Boezio è sorretta dall’unità

aritmetica, intesa come vertice dell’essenza, non dalla ricerca di Dio e del suo ordine impresso nel
mondo, anche se riportiamo le parole di Chamberlain a riguardo (Ibid., pag. 80-81) : “The origin of
music, Boethius tells us in De arithmetica, is God Himself, and His means of creating it is exemplarism
from the unchanging laws of number in His mind”.
32 Chamberlain, David, op. cit., pag. 80.
33 E a questo avrebbe ben da ridire Pizzani, che distinse nettamente il Boezio del De Musica e della

Consolatione, senza ricadere in banali periodizzazioni d’autore parlando di “giovane Boezio” e “Boezio
maturo”, ma sostenendo filologicamente la sua tesi: “Solo le tormentate esperienze della sua vita di
uomo e di studioso sapranno condurre il senatore romano a quell’approfondimento dei massimi pro-
blemi, a quel sofferto ripensamento del tesoro della saggezza antica che brilla nelle imperiture pagine
del De consolatione philosophiae”.
34 V. supra nota 2 e Chadwick, H., op. cit. pag. 82: “What Boethius is likely to have said in the lost

ending of the Institutio musica may be seen in Ptolemy’s third book of Harmonica” e pag. 293 nota 24.
48

Andràs Karpati35, pubblica, ancora più recentemente, un nuovo studio sulle fonti del
De musica, il quale cerca di unire il giudizio positivo di Bower e di Obertello con l’idea
della complessità delle fonti proposta da Pizzani. Il risultato in effetti è assolutamente
soddisfacente: Boezio viene dipinto come un grandissimo conoscitore della cultura
musicologica greca e latina, il quale selezionò, dall’ampio orizzonte delle sue cono-
scenze, certe particolari teorie per colmare le numerose lacune dell’Occidente, le quali,
poi, senza che potesse ovviamente prevederlo, si concretizzarono nella pratica musi-
cale sacra (grazie all’intervento sicuramente non privo di errori dei curtensi durante la
così detta Rinascenza Carolingia del IX secolo), per poi diffondersi in tutta Europa
grazie alla sua incorporazione nella pratica liturgica, determinando un’epoca della sto-
ria delle musica.
Con Karpàti si concludono gli studi sulle fonti, almeno ad oggi, del De musica di Boe-
zio. Se si escludono infatti le nozioni riportate da Marzi nell’introduzione all’edizione
italiana del testo e altri brevi cenni di altri autori36, l’interesse o le questioni si sono
esaurite come si esaurirono nella seconda metà dell’Ottocento con Gavaert.
Oggi, dunque, nel leggere l’opera, dobbiamo considerare almeno due grandi filoni in-
terpretativi, entrambi poggianti sulla consapevolezza dell’essenza compendiaria del
De musica. Se il primo37 critica Boezio per aver giusto copiato, semplificato e talvolta
addirittura frainteso il ricco e complesso sapere musicale antico, l’altro38 cerca di giu-
stificare l’opera di Boezio come un compendio consapevole e ragionato, unitario e
logico nella trattazione per cui solo una buona dose di genialità poté permettere al poco
più che vent’enne ottimate romano un risultato simile.
Alla fine di un excursus seppur breve e sicuramente incompleto della storia dello stu-
dio delle fonti del De musica, ci si può banalmente chiedere: che senso ha riprendere
e approfondire i suoi temi, se questi non sono inediti di Boezio, bensì provengono da
altri autori? Ad esempio, che senso ha parlare del concetto di consonanza tra due suoni
in Boezio, se le sue definizioni sono state copiate parola per parola da opere di altri

35 Karpati, Andràs, op. cit.


36 V. le opere di Donatella Restani in bibliografia, che cercano di ricostruire il concetto promesso di
Musica humana di cui parla Bower. V. anche Ugo Duse, Per una storia della musica del novecento e
altri saggi, EDT musica, 1981, pag. 169 e segg.
37 Che possiamo chiamare filone “romantico” o “ottocentesco” in virtù del carattere e del periodo in cui

fu formulato, cioè quello iniziato da Gavaert, poi continuato da Miekley e, nel ‘900, dal Pizzani (a detta
di Bower).
38 Iniziato dal Potiron e sostenuto da molti altri autori del trentennio ’60-’90, tra cui Obertello, Bower,

Chadwick, Karpàti e Marzi. Potremmo chiamare, se proprio volessimo seguire questo spirito catalo-
gante, questo secondo filone interpretativo “moderno” o “del dopoguerra”.
49

autori? Forse la risposta migliore è che non bisogna considerarli in sé stessi, quanto
piuttosto pensare al motivo per cui proprio questi, e non altri, siano stati selezionati.
La tendenza pitagorica è incontestabile, e anche se può essere in gran parte attribuita
a Nicomaco di Gerasa, fonte primaria, ci si può chiedere perché proprio questa, e non
ad esempio l’aristotelismo o la dottrina di Aristosseno, sia stata privilegiata. In questo
senso, allora, ritrova significato approfondire i temi del De musica, perché non sono
frutto di una passiva copiatura, ma di un attento ragionamento da parte di Boezio, il
quale aveva ben colto il nocciolo filosofico pitagorico, selezionandolo tra tutte le varie
tradizioni musicologiche come il migliore, e lo aveva fatto suo, incorporato. Un'altra
riflessione che può essere fatta riguarda soprattutto che impatto abbiano avuto queste
teorie pagane, trasmesse proprio grazie a quest’opera, per l’Occidente medievale
quando incorporate all’interno di una nuova costellazione di simboli cristiani, come
Dio, la Trinità, la Provvidenza, la Creazione e via dicendo.
50

II.3 – L’Henkeridion Harmonikes di Nicomaco di Gerasa

Sulla vita di Nicomaco di Gerasa (fonte prediletta almeno per i primi tre libri del De
musica e per tutto il De arithmetica di Boezio) sappiamo assai poco. Riguardo al luogo
di nascita, che in generale viene localizzato nell’area mediorientale, rimane un buon
margine di incertezza, che divide gli studiosi. In passato si pensava a zone quali Gera-
sia di Celesiria e Gerasia di Arabia, mentre, col tempo, si fecero strada nuove ipotesi,
come la Siria, le sponde del fiume Jabbok, in Arabia, e infine una città, ormai scom-
parsa, di nome Gerasa, sorta a 25 miglia a sud-est del lago Tiberiade, nell’allora Siria
Palestina, ad est del fiume Giordano1.
Basandoci sulle citazioni di Nicomaco di Trasillo, e la testimonianza di Cassidoro il
quale cita una traduzione dell’Isagogè arithmetichè di Apuleio di Madaura (De artibus
ac disciplina liberaliu litterarum, IV), possiamo ricostruire il floruit tra i primi decenni
del I d.C. (assumendo la morte di Trasillo come termus post quem) e la metà del se-
condo (tenuto conto che le notizie certe su Apuleio non si spingono oltre il 170-180
d.C.)2. L’epoca, dunque, è quella di Traiano, di Plutarco e di Tolomeo di Alessandria,
ma allo stesso tempo è anche quella di S. Paolo e di S. Pietro. Sembra, però, che questo
nuovo fermento culturale non abbia mai veramente toccato Nicomaco. Ciò dimostra
la tesi secondo cui Nicomaco abbia passato gran parte della propria vita ad Alessan-
dria, all’epoca uno dei centri culturali e commerciali più importanti del Mediterraneo,
in cui deve aver respirato quell’ellenismo, in particolare pitagorico, che determinerà
tutta la sua produzione intellettuale.
Del vasto numero di opere di Nicomaco ci sono giunti solo due manuali, uno sull’arit-
metica e uno sulla musica (il già citato Enchiridion Harmonikes, a cui possiamo ag-
giungere almeno alcuni paragrafi del trattato musicale Sulla musica, pubblicati dal Jan,
e aspramente criticati dal Pizzani3). Per quanto riguarda il resto del corpus nicomacheo
disponiamo solo di informazioni indirette e un gran numero di ipotesi non tutte pro-
banti allo stesso modo. Nicomaco scrisse probabilmente una Introduzione alla geome-
tria, un trattato più esteso sull’aritmetica, una Vita di Pitagora (da cui attinsero

1 Boni, Monica, Nicomaco pitagorico e il suo “Enchiridion”, in Musicam in subilitate scrutando. Con-
tributi alla storia della teoria musicale, 1995;
2 Boni, Monica, op. cit.
3 Cfr. II.2.
51

Giamblico e Porfirio dalle loro omonime biografie), forse una descrizione dei giorni
festivi egizi e infine una Aritmetica Teologica4.
Va fatto un cenno per l’opus maius Sulla musica di cui abbiamo parlato. Abbiamo
visto che a partire da Potiron si fece strada l’idea secondo cui Boezio, mentre stendeva
il De musica, avesse sott’occhio non solo il Manuale di armonica oggi giunto fino a
noi, ma anche questo trattato più esteso. L’idea si basa su complesse ricostruzioni fi-
lologiche5, ma non abbiamo la certezza assoluta che in effetti Nicomaco scrisse questo
trattato. La speranza ci viene infusa da Nicomaco stesso, il quale, nel primo capitolo
dell’Enchiridion, spiega che fu una nobildonna desiderosa di colmare le proprie lacune
scientifiche a chiedergli di dedicarle un trattato sulla musica. Nel momento della ste-
sura, però, ammette il Geraseno, si trovava distratto e confuso da un viaggio in cui era
impegnato. Con vergogna e pudore allora cercò di giustificare la natura introduttiva
dell’Enchiridion, che toccò brevemente i quattro tradizionali temi della scienza armo-
nica6, e promise di completare, il prima possibile, una “più lunga e dettagliata Intro-
duzione per lei sugli stessi argomenti”7. Si potrebbe pensare tranquillamente a ciò in
quanto caso classico di finzione narrativa, ma al di là della veridicità o meno della
committenza e del viaggio, più o meno tutti gli studiosi concordano sull’esistenza di
questo trattato più esteso di Nicomaco. La prova ci è offerta dallo stesso Boezio, che
grazie alla ricostruzione delle fonti del De musica, ci mostra di aver consultato proprio
il Sulla musica andato perduto8.

4 Boni, Monica, op. cit.


5 Pizzani, Ubaldo, op. cit., pag. 7 e sgg.; cfr. II.2.
6 L’Armonica di cui parla Nicomaco, non è da intendersi nel senso moderno di scienza degli accordi

(idea verticale della musica), di cui non vi è nessuna traccia negli scritti musicali dell’antichità, esatta-
mente come per Aristosseno e Tolomeo, ma invece di quella parte della teoria elementare della musica
che tratta delle leggi che regolano i suoni nei loro rapporti di acuto e di grave (idea orizzontale della
musica): la teoria, cioè, delle note, degli intervalli, delle scale e dei generi.
7 Nicomaco di Gerasa, op. cit., pag. 33.
8 Uno dei tanti motivi per cui si è abbastanza certi di questo fatto risiede nella somiglianza stilistica tra

i due autori: come Nicomaco scrisse una breve introduzione di diversi temi (tutti tra l’altro presenti in
ordine nel I libro di Boezio) per poi riprendere gli stessi in maniera più articolata e completa, così Boezio
nel I libro espone brevemente gli stessi fenomeni musicali che nei libri successivi verranno appunto
approfonditi dalla ratio numerorum. Tutta lo studio del Pizzani (op. cit.) si basa sull’assunto secondo
cui: “Tutti o quasi i temi sviluppati nel manuale trovano un loro preciso riscontro nel primo libro
dell’opera boeziana: le aggiunte ed amplificazioni presenti in quest’ultima, che per loro stessa natura
non possiamo a nessun patto ritenere frutto di una autonoma attività speculativa di Boezio, attestano il
più ampio sviluppo che i medesimi temi ricevevano nel parallelo primo libro dell’opus maius”.
52

Nicomaco è spesso accompagnato dall’epiteto “il pitagorico”9, a sottolineare la sua


dipendenza dal pensiero di Pitagora. Si pensava, addirittura, che se Pitagora inventò
l’aritmetica, Nicomaco l’avesse allora composta. Il trattato sull’aritmetica oggi perve-
nutoci, infatti, non introduce nulla di nuovo rispetto alle teorie scientifiche passate.
Nicomaco, al pari di Boezio, aveva l’intenzione, sicuramente non celata, di proporre
una sorta di compendio del sapere a cui si era allora giunti10. Non voleva stendere
un’opera dai contenuti innovativi, bensì esortativa e manualistica.
In Nicomaco sono presenti temi pitagorici ben precisi. La matematica è quella disci-
plina che fonda le altre scienze, cioè la musica, la geometria e l’astronomia. Proprio
per questo la matematica è il primo dei Methodoi (cfr. II.1), perché possa fare da stru-
mento fondante a qualsiasi altro discorso scientifico. I pitagorici spesso usavano me-
tafore di parentela, per cui ad esempio la matematica è la madre di tutte le scienze,
oppure più complesse, come quella di Tolomeo, per cui la musica e l’astronomia sono
cugini di primo grado della matematica e della geometria, perché figli del fratello senso
(udito e vista)11. Solo attraverso la matematica si può penetrare il piano della moltepli-
cità della contingenza per cogliere la verità della physis, cioè il numero. Chi riesce ad
arrivare a questo risultato ottiene la saggezza, sopperendo a quel caratterizzante e quasi
struggente desiderio della filosofia. Solo in pochi riescono ad arrivare fino a questo
punto, da qui allora la mistificazione delle figure topiche del pitagorismo, cioè Pitagora
e il suo allievo prediletto, Archita, di cui si fece un vero e proprio culto.
Il pitagorismo delle origini comprendeva un certo esoterismo del numero, seppur mo-
derato dalla preminenza della razionalità, che ad esempio escludeva la considerazione
dei numeri irrazionali (cioè quelli non esprimibili con una frazione tra due numeri in-
teri), o cercava di rimandare gran parte di problemi alla serie della sacra tetrade12. Dal

9 Una testimonianza singolare su Nicomaco viene da Mariano di Napoli. Mariano volle scrivere una
biografia dedicata al suo maestro, Proclo (Vita di Proclo, cap. 28; v. Boni, Monica, op. cit.). Si racconta
qui che proprio Proclo avesse prestato fede ad un sogno che gli rivelò che in lui si era reincarnata l’anima
di Nicomaco, detto “il Pitagorico”.
10 Regali, Mario, Intenti programmatici nel “De institutione arithmetica” di Boezio, in Studi Classici e

Orientali, Vol. 33, Gennaio 1984, pag. 193-204.


11 Nicomaco di Gerasa, The manual of harmonics of Nicomachus the pythagorean, trad. di Flora Levin,

Phanes press, 1994, pag. 13-27; v. anche Tolemeo, Claudio, Armonica con il Commentario di Porfirio,
a cura di Massimo Ragga, Bompiani, 2016, III.1, pag. 203-205: “Queste scienze [astronomia e armonia]
si servono, come strumenti infallibili, dell’aritmetica e della geometria, per investigare gli aspetti quan-
titativi e qualitativi dei movimenti fondamentali, ed è come se anch’esse fossero cugine, poiché sono
nate da due sorelle, ossia vista e udito, e sono state allevate, nella più stretta parentela, dall’aritmetica e
dalla geometria”.
12 Serie dei numeri 1-2-3-4, spesso rappresentati sotto forma di punti ordinati in modo da formare un

triangolo equilatero con l = 4. Circa le implicazioni della tetrade, detta anche tetraktys, non solo nei
53

punto di vista musicale esso si concretizzava in un certo simbolismo numerico, che ad


esempio innalzava una nuova tetrade numerica13 come strumento per eccellenza per
quantificare le consonanze e la ricorrenza classificatoria del numero tre (tre sono infatti
i generi e le famiglie di strumenti).
Nicomaco, però, uomo del I secolo, supera il pitagorismo delle origini (per questo è
più corretto dire che Nicomaco fosse un neopitagorico), aggiungendoci l’elemento
aritmologico o aritmosofista, cioè misticheggiante. Esso deriva da un’interpretazione
estrema dell’VIII libro della Repubblica, in cui si sostiene la dottrina mistica del col-
legamento tra l’uomo e il dio tramite la matematica pura14 e della descrizione dell’or-
ganizzazione dell’Anima del mondo del Timeo15. Si giunse in sostanza a drammatiz-
zare l’elemento esoterico, assurgendo a vero e prediletto strumento di conoscenza del
sapere totalizzante il numero, inteso come entità metafisica (cosa che accadrà non a
caso anche al neoplatonismo). Si costituirono delle sette neopitagoriche, votate al culto
religioso di Pitagora e Archita, e molto vicine non solo alla cultura ellenica, ma anche
ai nuovi culti orientali.
L’Encheiridion Harmoniches si presenta dunque come un tardo contributo del I secolo
alla filosofia greca, che aprì a nuove istanze, prima sopite dal razionalismo stretto,
come tutte quelle aspirazioni trascendenti tipiche dei primi secoli di questo periodo. Il
trascendente era, tra i neopitagorici, senso religioso, fede nella rivelazione, tutti frutti
degli influssi del pitagorismo antico letto alla luce di nuove e più radicali interpreta-
zioni platoniche. È interessante notare, ricordando la strettissima dipendenza tra Nico-
maco e i testi scientifici boeziani, come Boezio elimini in tronco quest’ultimo aspetto
aritmologico. Questo serve a sostenere l’originalità della rielaborazione del De musica,
ma anche a concepire meglio l’intento dell’autore, che cercò a tutti i costi un dialogo
indiretto con l’antica ratio numerorum del vero fondatore del movimento pitagorico,
spogliando Nicomaco di uno dei suoi aspetti più caratterizzanti16.

pitagorici, ma anche nel Timeo platonico e nella teoria musicale medievale, v. Mainoldi, Ernesto,
op.cit., pag. 119-130.
13 Composta dai numeri 6-8-9-12, dai quali possono essere tratte tutte le consonanze musicali all’epoca

riconosciute tali costituendo i vari rapporti. V. Boezio, Severino, De M., I.10.


14 Nicomaco di Gerasa, op. cit., pag. 13-27.
15 Platone, Tim., 34c-37c.
16 Pizzani, Ubaldo, op. cit., pag. 27-28, scrive, riferendosi al De musica di Boezio: “Se si eccettua il

canonico richiamo all’armonia delle sfere, tutto è funzionale e ciò che conta è solo il fatto musicale in
sé stesso nei suoi sviluppi storici e nella interpretazione matematica, senza la minima concessione a
vuote divagazioni misticheggianti”.
54

II.4 – Gli Elementa Armonica di Aristosseno di Taranto

Aristosseno è un altro autore a cui è impossibile non fare riferimento per comprendere
il senso del testo di Boezio. Non è, come per Nicomaco e Tolomeo, compilato nell’ori-
ginale maniera vista in II.2, bensì obiettivo di numerosi riferimenti polemici1 volti a
rappresentante una corrente di pensiero precisa, che potremmo chiamare “empirista”.
Aristosseno è un uomo del IV secolo a.C. Nasce a Taranto tra il 375 e il 360 a.C,
mentre viveva il più importante pitagorico di quel secolo: Archita. Suo padre, forse
Spintharus, era molto legato ad Archita, e ciò permise ad Aristosseno una giovanile
educazione votata al più raffinato pitagorismo allora disponibile. Giovane, si trasferì
ad Atene, dove studiò inizialmente con Xenofilo il pitagorico, per poi abbandonare il
pitagorismo e diventare pupillo di Aristotele nel suo Liceo. Mantenne sempre grande
ammirazione per quel tipo di pensiero che costituì per lui la prima solida culla, scri-
vendo in età matura diverse biografie di pitagorici, tra cui una dedicata ad Archita. A
seguito di un duro scontro con Teofrasto, Aristosseno decise di abbandonare Aristotele
per fondare una propria scuola, fondata sull’insegnamento della disciplina musicale.
Aristosseno rimarrà per sempre comunque un aristotelico di prima generazione, im-
portante per i peripatetici per avervi inserito l’interesse per la scienza musicale. Ad
Atene morirà, non si sa esattamente quando, ma sicuramente verso il calare del IV
secolo.
Oltre alle biografie pitagoriche ricordate2, Aristosseno scrisse anche almeno due testi
sulla musica. Uno riguardante la ritmica, di cui ci sono giunti solo i capitoli dal II al
V. L’opera ha l’impostazione caratteristica di Aristosseno: l’intento generale è quello
di partire dagli elementi più semplici della disciplina per poter risalire, attraverso di-
mostrazioni di teoremi, a forme di complessità adeguate a spiegare il mondo circo-
stante. Ad esempio, qui prende come guida una unità di misura particolare, il “tempo
primario” che, tramite criteri saggiamente scelti, cioè ascolto e giudizio, articola negli
elementi costituitivi del ritmo. Gli si devono, in quest’opera, due meriti particolari: la

1 Anche diretti, v. DM, II.31-32, III.3, V.3, V.14, V.16, V.18. L’Aristosseno di Boezio è solo un fanta-

sma caricaturale di quello che in realtà fu. All’epoca infatti si era già costituita, nell’immaginario co-
mune, una sommaria ed icastica opposizione tra il razionale Pitagora e il sensoriale Aristosseno, a cui
veniva sommandosi la disputa sull’affidabilità dei sensi, sul rapporto tra arte e scienza, tra logos e adi-
sthesis, insomma, tra anima e mondo. È interessante notare come Aristosseno venga citato più volte nel
V libro (per giunta incompleto, di 16 pag.) rispetto a tutti i quattro libri precedenti messi insieme (134
pag. in totale). Anche questo dato avvalora la tesi dei filologhi per cui il V libro si sarebbe appoggiato
a nuova fonte, in particolare a Tolomeo, il quale si interessò molto del pensiero aristossenico.
2 Suda gli attribuisce 453 opere, numero probabilmente falsato, ma buon indice della complessa ponde-

rabilità delle opere aristosseniche.


55

distinzione tra ritmo e metrica3, e la nozione di ta rhyrhmizomena, cioè di “ritmicizza-


zione” o “ritmicizzabilità” che lega la durata musicale con la melodia e il gesto.
Il trattato di teoria musicale più importante che ci sia giunto da Aristosseno, e che
segnò la storia della musica antica, fu sicuramente gli Elementi Armonici4, detto anche
Sull’Armonica. Nella prima parte si sviluppano forti critiche ai suoi predecessori. Ari-
stosseno accusa i pitagorici di aver pensato gli intervalli non in quanto entità matema-
tiche pure, ma in quanto freddi rapporti. Pensa inoltre che la musica sia lo studio del
suono organizzato in un proprio spazio-sonoro, non un gioco autoreferenziale dell’arit-
metica. Una delle questioni con cui più entrerà in conflitto con i Pitagorici sarà quella
del semitono. Se ne parlerà meglio successivamente, perché una presa di posizione
particolare rispetto all’altra comporta delle profonde e interessanti conseguenze dal
punto di vista estetico e soprattutto epistemologico. I pitagorici (tra cui anche Nico-
maco di Gerasa stesso), in sostanza, rigettavano l’idea della divisibilità in due parti
uguali del tono perché non esprimibile da un numero razionale5. Aristosseno, al con-
trario, postulò e dimostrò che il tono può essere diviso in due semitoni uguali, tanto da
considerare il semitono come unità di misura di tutti gli intervalli musicali6. Probabil-
mente dietro questa differente prospettiva c’è anche la distinzione tra udire (o perce-
pire) e pensare, rispetto alla quale Aristosseno si staccò dal Pitagorismo.
Oltre alla questione del semitono, un altro argomento che segnerà la fortuna di
quest’opera sarà quello dei toni. I toni sono le trasposizioni delle scale. Una scala è
una successione di note ben definita in base ai tipi di intervalli che intercorrono tra di
esse. Ad esempio, la nostra moderna scala maggiore è composta da otto note in questa
successione: tono (do-re), tono (re-mi), semitono (mi-fa), tono (fa-sol), tono (sol-la),

3 Sant’Agostino, De musica, La Vita Felice edit., a cura di M. Bettetini, 2017 (v. anche ed. Sansoni,
1969, a cura di G. Marzi), libro III. I legami tra Agostino e Aristosseno sono numerosi ed indubitabili.
Si veda solo l’attenzione psicologica di Aristosseno, che dà, al pari del Vescovo di Ippona, grande im-
portanza alla memoria nell’audizione melodica: “La comprensione musicale dipende da queste due fa-
coltà: percezione e memoria, perché si deve percepire il (suono) presente e ricordare il passato. In nessun
altro modo si possono comprendere i fenomeni musicali.” (Aristoxenus, Elementa Harmonica, Typis
Publicae officinae poligraficae, 1954, a cura di Rosetta da Rios, pag. 59).
4 Aristoxenus, op. cit.
5 Cioè non esprimibile da una frazione tra due numeri interi, infatti la metà di 9:8, rapporto rappresen-

tante l’intervallo di tono, si otterrebbe dalla propria radice quadrata, cioè Ö(9:8), che equivale a 3/2*Ö2.
Nota è l’irrazionalità della Ö2 e della conseguente incommensurabilità, tanto aborrita dai pitagorici (si
pensi al caso, mitico, della diagonale del quadrato calcolata da Ippaso di Metaponto, il quale dovette
subire una simbolica morte da annegamento proprio a causa di questa scoperta).
6 Quindi il tono non è rappresentato dal rapporto 9:8, ma dalla somma di due semitoni; così la quarta

non è 4:3, ma tre toni e un semitono; l’ottava non è il rapporto multiplo 2:1, ma la somma di sei toni
interi. Questo modo di ragionare è assolutamente normale per un moderno, corrispondono infatti al
modo in cui noi oggi pensiamo gli intervalli, ma all’epoca era assolutamente rivoluzionario tra i teorici.
56

tono (la-si), semitono (si-do). Da questa scala possiamo costruire 6 nuovi toni “slit-
tando” la serie degli intervalli di una posizione alla volta7. Si può già qui cogliere la
complessità della questione, ma sarebbe un errore pensare che gli antichi avessero in-
vece idee chiare e distinte. Anzi, Aristosseno decise di parlare dei toni proprio per
poter riesporre dalle basi una dottrina che era già estremamente confusa tra i suoi con-
temporanei (che fino ad allora avevano parlato di “harmonioi”, non di “tonoi”). La
parte del trattato in cui elencò i toni è purtroppo andata perduta, ma Cleonide ne cita
tredici, probabilmente gli stessi di Aristosseno8. Tra di loro incorrono rapporti di “af-
finità”, i quali ponderano la maggior o minor naturalezza con cui si può passare da un
tono all’altro.
Volendo giungere ad un giudizio complessivo dell’opera, possiamo dire che in base
alle conoscenze di teoria musicale dell’epoca, Aristosseno comportò una rivoluzione
epistemologica la cui conoscenza divenne una tappa obbligata per i futuri studiosi del
settore, indipendentemente dal fatto che condividessero o meno le sue idee9. Pitagorici
e Platone10 avevano fino ad allora considerato la scienza musicale in quanto branca
della matematica11. Aristosseno, d’altra parte, pensava che la musica potesse essere
una disciplina autonoma, completamente separata dall’aritmetica e dall’astronomia.
Scrisse Rosetta da Rios: “Si deve partire, sì, dalla sensazione, ma l’osservazione deve
riportarsi al fenomeno tal quale si presenta, senza risalire alle cause che lo hanno de-
terminato, perché questo rientra non nel campo dell’armonica, ma in quello della fi-
sica”12. La musica non poteva più essere il rapporto tra due numeri (quantitas): doveva
diventare prima o poi suono (qualitas), e il suono diventare qualcosa di diverso dal

7 Ad esempio, il primo tono che possiamo costruire su questa scala sarà: do – re – mib – fa – sol – la –

sib – do, cioè dalla successione T – T – S – T – T – T – S si passa a quella T – S – T – T – T – S – T. Si


ricordi che questo è un tono basato sulla nostra moderna scala di do maggiore, tra l’altro ascendente,
che nulla ha a che fare con le scale che usavano gli antichi né ha a che fare con i modi medievali. Serva
solo a scopo esemplificativo.
8 In ordine: Ipermisolidio (detto anche iperfrigio); Alto e basso misolidio (rispettivamente iperastiano e

ipoastiano); Alto e basso lidio (il basso detto anche eolio); Alto e basso frigio (il basso detto anche
iastiano); Dorico; Alto e basso ipolidio (il passo detto anche ipoeolio); Alto e basso ipofrigio (il basso
detto anche ipoastiano); Ipodorico.
9 Molti altri scrittori si rifecero ad Aristosseno: Cloenide e Gaudenzio, ad esempio. Molti lo criticarono,

tra cui Nicomaco, e altri cercarono di integrarlo in un nuovo sistema di pensiero, come Teone di Smirna
e Tolomeo.
10 Platone, in particolare, si interessò di musica solo perché voleva addomesticarne il valore etico ai

buoni fini della Polis. È una questione di “sicurezza nazionale”, diremmo oggi, al pari della ginnastica
e dell’igiene. Cfr. Platone, Repubblica, II 376 e: “Non è forse difficile trovarne una migliore di quella
in voga da lungo tempo? Cioè la ginnastica per il fisico e la musica per l’animo”.
11 Si pensi alle metafore famigliari di II.3, nota 11.
12 Aristoxenus, op. cit., pag. 116. Di Nuovo ecco il rapporto tra pensare e udire (v. supra pag 49).
57

rumore e dal linguaggio parlato. I suoi strumenti sono il ragionamento razionale (dia-
noia) e la sensazione uditiva (debitamente abituata ad afferrare le minime differenze e
sfumature), non più il solo logos µousikos (la “proporzione musicale” pitagorica).
Pensare ad Aristosseno come al promotore di un approccio meramente fenomenolo-
gico della musica, o al teorizzatore dell’irrazionale in musica è probabilmente azzar-
dato. La teoria musicale si fa infatti per rigorosi problemata, cioè investigazioni di
teoremi, i quali devono comunque appoggiarsi al metodo dimostrativo. Aristosseno,
inoltre, escluse la pratica musicale, le teorie acustiche, etiche e la composizione dal
suo sistema, quindi anche la notazione e qualsiasi altra cosa possa avere a che fare con
la techné e non con l’episteme. Non è detto che l’impostazione fenomenologica sia
però caratterizzata da un empirismo anti-epistemico: il punto è piuttosto l’oggetto del
quale si intende fare “episteme”, cioè la sensazione anziché il numero, ma lo si può
fare in maniera razionalmente rigorosa. Va riconosciuto una certa predilezione per gli
aspetti sensoriali, almeno in quanto contrapposto al rigido razionalismo pitagorico13:
Aristosseno fu il primo a considerare la necessità di un’esercitazione dell’orecchio
sempre più precisa, e del controllo della ragione che deve ad essa apporsi per spianare
la foresta del molteplice e farne delle luminose radure. Su questi concetti costruì le
basi della scienza musicale i cui metodi, la cui terminologia e i cui principi derivarono
direttamente dalla dottrina scientifica aristotelica.

13 Aristoxenus, op. cit., pag. 47: “Perché alcuni dicono delle assurdità, sdegnando di riportarsi alla sen-

sazione, per la sua inesattezza, ed inventando delle cause puramente astratte, parlando di rapporti nu-
merici e di velocità relative, da cui risultano l’acuto ed il grave, esponendo così le teorie più estranee e
più contrarie ai fenomeni […] Noi, al contrario, cerchiamo di raccogliere tutti i principi che sono evi-
denti a quelli che conoscono la musica e, con dimostrazione, di trarre da questi le conclusioni. […] La
nostra trattazione si riferisce a due facoltà: l’orecchio e l’intelletto. Per mezzo dell’orecchio noi giudi-
chiamo le grandezze degli intervalli, per mezzo dell’intelletto ci rendiamo conto del loro valore.”
58

II.5 – L’Armonica di Claudio Tolomeo

Si noti che in queste tre esposizioni non si è voluto seguire un principio cronologico,
bensì tematico: Nicomaco e Aristosseno sono distanziati da 400 anni di storia, ma an-
che soprattutto da un’opposizione di fondo, quella tra razionalismo ed empirismo, tra
ricerca delle cause numeriche e studio del fenomeno per come appare ai sensi e all’in-
telletto, tra pitagorismo e aristotelismo, quindi, alla fine, tra Platone e Aristotele. È
quindi doveroso concludere il nostro excursus dei più influenti (per il nostro tema)
autori di teoria musicale antica con Claudio Tolomeo, vissuto nel II secolo (durante
l’epoca degli Antonini, forse tra 100 e 1781), il quale tentò, nella sua Armonica, di
conciliare queste due visioni, forse senza riuscirci del tutto. Boezio, nel suo De musica,
predilesse proprio questa interpretazione, respirabile fin dal primo libro, di concordia
tolemaica tra sensi e ragione2, a riprova della sua disponibilità, fin da giovane, a voler
conciliare il pensiero di Platone e Aristotele.
Tolomeo è famoso più per gli scritti di astronomia3, geografia e corografia, ma forse,
dopo aver dedicato tutta la vita alla vista, sia con gli scritti astronomici che con quelli
ottici, abbia voluto estendere il proprio orizzonte anche all’elemento uditivo, che mi-
nuziosamente viene sviscerato fino a vederlo come espressione delle simmetrie e delle
corrispondenze tra il mondo umano e quello divino dei moti celesti4. Scrive infatti
Tolomeo a III.3: “Tale facoltà [la scienza matematica], infatti, utilizza come strumenti
e, per così dire, servitori, i sensi più elevati e meravigliosi, la vista e l’udito, che sono
i più simili, tra gli altri, all’anima razionale, e sono i soli che giudichino gli oggetti non
soltanto in base al piacere, ma molto più e ancor prima in base al bello. […] Nessuno

1 F. Boll, Studien über Klaudius Ptolemäus, Lipsia 1894


2 Per l’epistemologia di Tolomeo, si veda il suo opuscolo Il criterio ed il principio, in cui si discutono i
meccanismi con cui si passa dai meccanismi elementari della sensazione e delle rappresentazione, a
quelli ultimi in cui il logos assume una dimensione scientifica. Manuli, Paola, Claudio Tolomeo: Il
criterio e il principio, in Rivista Critica di Storia della Filosofia, vol. 36, n. 1, gennaio-marzo 1981,
pag. 64-88.
3 Ci si riferisce all’Almagesto, l’opera che introdusse la prima teorizzazione di una dottrina geocentrica

e di astronomia sferica, anticipando Copernico di circa 1400 anni e fondando il pensiero di Keplero nel
XVII. Probabilmente il titolo originale era Mathēmatikē suntaxis, ma, dopo ripetute letture da parte
degli arabi a partire dall’VIII secolo, venne affibbiato, per via della propria fama, a Tolomeo, l’epiteto
al-majistī, da cui derivò prima il titolo Almagesti, poi Almagestum. Per questo noi, oggi lo conosciamo
come Almagesto.
4 Gli ultimi capitoli del III libro sono infatti dedicati all’associazione musica-anima e musica-corpi ce-

lesti. Alcuni pensano che la musica umana e celeste (mundana) che intendeva Boezio possa trovarsi in
altri suoi scritti, come la Consolatione, altri si gettano in complicatissime ricerche antropologiche e
filologiche, ma forse, se si segue la ricostruzione del Pizzani, sarebbe più corretto (e banale) che proprio
questi discorsi di Tolomeo potevano essere gli stessi di Boezio.
59

parlerebbe di bello e brutto per gli oggetti del tatto, del gusto o dell’odorato; questo lo
si fa solo per gli oggetti della vista e dell’udito”5. L’armonica, per Tolomeo, è dunque
un altro modo, alternativo all’astronomia, di cogliere l’ordine del cosmo, quello stesso
ordine che i filosofi hanno sempre ricercato nell’archè. La definizione più corretta
della musica sarebbe lo studio del logos armonico, che è tutto ciò che dà ordine al
campo dell’udibile, cioè intelletto, tecnica e abitudine, i quali sono tutti quanti bene
perché causa in quanto rapporto della forma dell’essere6. Porfirio, nel suo Commenta-
rio all’Armonica, aveva notato che il nucleo centrale dell’opera tolemaica fosse la di-
stinzione classica tra logos e akoé, tra pitagorici e Aristosseno. Tolomeo volle infatti
sanare il divario proponendo una terza via, che potesse mantenere il primato della ra-
gione accettando però il ruolo attivo dei sensi. Per questo criticò entrambe le posizioni.
Ai pitagorici rimproverò uno sbilanciamento verso il razionalismo, che li portò a rifiu-
tare l’undicesima (esprimibile dal rapporto 8:3), dai rapporti consonanti7 solo perché
non rappresentato da un rapporto supeparticolare né multiplo8, quindi non abbastanza
matematicamente elegante. Queste specie di rapporti sono le più semplici perché le
più simili all’unità aritmetica. Più i due termini posti in relazione sono “vicini”, più
sono tendenti all’unità: in un rapporto multiplo come 2:1, ad esempio, il secondo ter-
mine (1) è contenuto due volte nel primo termine (2), e senza scarti; in un rapporto
superparticolare, come 3:2, invece, c’è già una piccola “degradazione”, per cui il se-
condo termine (2) è contenuto una intera volta nel primo (3), con un’unità (3 – 2 = 1)
di scarto. Finché lo scarto rimane di un’unità si può parlare di rapporto superpartico-
lare, ma quando lo scarto aumenta, il rapporto diventa superparziente. Quest’ultimo è
ad esempio 5:3: in questo caso il secondo termine (3) sta nel primo una volta intera,
con lo scarto di due unità (5 – 3 = 2). Teoricamente lo scarto dell’intervallo di undice-
sima dal canone pitagorico delle consonanze sarebbe assolutamente corretto

5 Tolomeo, Claudio, Armonica con il Commentario di Porfirio, Bompiani, a cura di Massimo Raffa,

2016.
6 Tolomeo, Claudio, op. cit., III.3.
7 Là dove l’orecchio coglie subito la sua consonanza, sia all’ora che oggi: si pensi, a scopo meramente

esemplificativo, al passaggio alle battute 142 e 144 del I movimento del I concerto per tromba e orche-
stra di J. Haydn: anche se diacronici e non sincronici, questi 4 intervalli di XI, ripetuti prima da flauti,
fagotti, violini e poi in risposta dalla tromba, non possono che passare squisitamente inosservati all’orec-
chio sornione cullato dal classicismo di Haydn.
8 In questo caso sono molto utili le definizioni boeziane: il rapporto superparticolare “Si ha quando il

numero maggiore contiene tutto il minore più una qualche sua parte”, quindi ad esempio con 3:2, il
termine maggiore, il 3, contiene il 2 una volta sola più una sua parte (la metà di 2, cioè 1, perché 2 + 1
= 3); il rapporto multiplo, il più semplice, “Si ha quando il numero maggiore contiene il minore per
intero o due-tre-quattro volte e così via, senza alcun resto”, che è, banalmente, un 2:1 o un 4:1. Severino,
Boezio, op. cit., I.4.
60

nonostante la contraddizione con i sensi. Abbiamo qui usato espressioni quali “espri-
mibile dal rapporto” o “rappresentato da un rapporto”, là dove per i pitagorici non vi
era alcuna “rappresentazione” numerica: i pitagorici consideravano il suono come una
cosa coesistente alla corda in vibrazione, quindi della stessa natura del numero realiz-
zato. Il suono è numero per i Pitagorici, quindi dire che un intervallo musicale è x:y
significa dire che lo è realmente, non che noi lo possiamo astrarre intellettualmente in
quanto rapporto o che ce lo possiamo rappresentare in questo modo: un rappresentante
infatti presuppone un rappresentato, ma questo non c’è per i pitagorici, perché non c’è
un quid fisico o fenomenologico soggiacente9. Questo Tolomeo lo sapeva bene, per
questo, nonostante critichi questi eccessi razionalistici, da una parte non cita mai Pita-
gora nelle sue critiche10, e dall’altra alla fine predilige anche lui stesso i rapporti su-
perparticolari, l’uso del monocordo (pratica prettamente pitagorica) e comunque pos-
siede un impianto matematico radicato.
Aristosseno, al contrario, è preso in causa di persona e gli critica tutto il sistema di
pensiero dalle fondamenta, non solo qualche degenerazione di qualche adepto. Il ra-
gionamento di Aristosseno, troppo dipendente dal dato empirico, ricade sempre in ra-
gionamenti circolari, perché privo di un principio esterno al proprio sistema che possa
garantirne la legittimità. In particolare, là dove i pitagorici si appoggiavano all’aritme-
tica per definire gli intervalli, Aristosseno aveva solo individuato un’unità di misura,
tra l’altro imponderabile, il semitono, fondante tutti gli altri tipi di intervalli.
Tolomeo, tra i due, cercò una via di mezzo. Data un’oggettualità, esistono due piani
con cui possiamo intenzionalizzarla: la ragione si rivolge alla sua forma e alla sua
causa, mentre la percezione alla sua materia e alle sue affezioni (pathos). Poiché la
natura non commette errori i sensi non possono essere fallaci, ma possono al massimo
soffrire di una certa debolezza, facendosi sfuggire i dettagli più precisi della realtà.
Questo preserva l’apparenza dei fenomeni e trova di fatto una via di mezzo tra le due
proposte epistemologiche. Se l’orecchio percepisce un intervallo (ad esempio quello
di unidicesima) come consonante, allora possiamo essere sicuri che lo sia, e la mente
deve sollevarsi solo dopo questo giudizio per spiegarci come mai sia proprio così. I

9Il suono è “l’apparire sensibile del numero”, per parafrasare Hegel.


10Bensì i suoi seguaci, dipinti così come traditori del vero pitagorismo, cioè come coloro i quali ecce-
dettero ad alcune considerazioni azzardate.
61

sensi ci dicono che una cosa è (materia) e come (affezione) lo è per me, la ragione (la
ratio numerorum o il logos armonikés) come (forma) e perché (causa) essa è in sé11.

11 DM, I.9: “Le consonanze stesse, in ogni caso, le apprezzano con l’orecchio, ma per conoscere le
distanze per le quali le consonanze differiscono tra loro non si affidano già all’orecchio e al suo malsi-
curo giudizio, ma alle regole della ragione, di modo che quasi obbediente, per così dire, e servo sia il
senso, e giudice imperante la ragione.”
62

II.6 – La pratica musicale al tempo di Boezio

Abbiamo iniziato questo capitolo sottolineando la differenza tra musica pratica e teo-
rica, cioè tra il fare e il pensare la musica, e se finora abbiamo parlato solo del secondo
tipo, vale la pena spendere qualche parola anche per il primo. Pochi studiosi del De
musica si sono posti la domanda: “In che cosa consisteva quella tradizione musicale
romana cui Boezio non accennò neanche in una frase?”1 Dobbiamo pensare che questo
silenzio di Boezio fosse riempito all’epoca da un landscape di canti, di strumenti, di
riti e di usi generalmente localistici e in continuo mutamento. Purtroppo, non possiamo
che farci un’idea vaga della pratica musicale dell’epoca, aggrappandoci più a valide
ipotesi che a fatti probanti, ma nulla vieta di cercare di organizzare brevemente ciò a
cui si è giunti a pensare oggi.
I teorici musicali introdurranno a fatica e solo dopo migliaia di pagine nozioni di mu-
sica pratica nei loro trattati: spinti dallo spirito scientifico-pitagorico, tralasciarono
ogni riferimento alla contingenza, creando così grossi problemi alla ricerca storica e
musicologica. Il primo2, forse, a infondere il germe dell’interesse pratico, fu, parados-
salmente, Calcidio nel suo Commentario al Timeo di Platone3. Uno dei temi musicali
più importanti della sua opera4 è la relazione tra vox e sonus. Se il sonus è il suono
preso nella sua generalità o essenza, la vox è la vera e propria voce umana, in tutta la
sua fisica realtà, e, genialmente, Calcidio riesce ad aprire i teorici platonici alla

1 Questa domanda, ad esempio, se l’è posta Donatella Restani e tutt’ora se la pone nelle sue pubblica-
zioni. V. Cultura musicale nella Ravenna di Boezio, in La musica ritrovata, Longo Editore, pag. 46-71.
2 Ovviamente si potrebbe obiettare in vari modi a quest’idea. Se si volesse considerare l’influenza etica

della musica come carattere pratico, che come abbiamo visto già i pitagorici avevano individuato (cfr.
DK Damone, 37 B 4, 5, 6, 7, 9), si potrebbe dire che l’attenzione verso l’aspetto pratico della musica
non sia mai stata sopita. Una visione del genere, però, dovrebbe accettare anche il De musica come
un’opera votata alla praticità: infatti, scrive Boezio, è necessario studiare la musica proprio perché “Non
c’è via più diretta dell’udito per raggiungere la mente”. Si potrebbe anche considerare la scuola peripa-
tetica (cfr. Aristotele, Problemi, Bompiani, a cura di M. F. Ferrini, 2002, pag. 275-317) di cui abbiamo
visto lo sguardo “empirico” o “fenomenologico” ante litteram di Aristosseno. Anche questa prospettiva
potrebbe essere correggibile, perché tanto si è già detto circa quanto Aristosseno fosse criticato dalla
maggior parte dei teorici musicali (che rimanevano stretti alla ratio numerorum pitagorica). Quindi,
seppur presente, questa voce, che comunque parla di scienza armonica e non di pratica musicale vera e
propria, rappresentava solo una minoranza. Calcidio, al contrario, è un autore lettissimo e, con la sua
associazione teorica tra voce e suono, rappresentò forse un passo fondamentale per quella che sarà la
storia della musica occidentale. È una rivoluzione interna del platonismo che non riesce più a gestire le
influenze della contingentia mundi, e che giungerà, nell’VIII secolo, a servire quella rielaborazione del
canto liturgico franca che la storiografia ricorda come Riforma Gregoriana, in cui vi sarà per la prima
volta l’intento specifico di applicare la teoria sul suono finora sviluppata alla pratica canora, cioè alla
voce.
3 Calcidio, Commentario al Timeo di Platone, Bombiani, a cura di C. Moreschini, 2003.
4 Panti, Cecilia, op. cit., pag. 44-45.
63

considerazione della loro somiglianza. Entrambe hanno la stessa natura, cioè la vibra-
zione, che può essere più o meno intensa, ma soprattutto entrambe possono essere
scomposte in elementi semplici: i singoli suoni (pthongoi) intonati diastematicamente
per il sonus (cioè le singole note che possono costituire un systemata); la singola lettera
alfabetica che crea sillabe, parole e frasi per la vox. Quest’associazione, tutt’altro che
banale, apre allo studio del cantus secondo la prassi aritmetica dell’armonica, quindi
alla musica in quanto disciplina tecnica che teorizza la prassi esecutiva, in particolare
relativa al canto. Questo germe, che percorrerà sotterraneo i secoli, giungerà, ad esem-
pio, ad Isidoro di Siviglia e alle sue Etimologie, in cui definirà la musica non più come
“scientia bene modulandi”5, bensì come “perizia della modulazione che consiste nel
suono [sonus] e nel canto [vox]”6.
Fatta questa nostra premessa circa le fonti scritte, possiamo fare una nuova considera-
zione di carattere più generale. La musica non è mai solo musica di un tempo, ma
sempre ed anche musica di luoghi e di persone. Oggi, banalmente, vengono prodotte
tante e diversissime pratiche musicali dipendentemente da dove ci si trovi (a Vienna o
a Canton) e da chi faccia musica (nella stessa città, ad esempio, possono convivere
musicisti classici e punk dei centri sociali7). Se vogliamo capire a che tipo di musica
Boezio fosse abituato dobbiamo capire dunque non solo il tempo, ma anche il luogo e
le tradizioni del suo tipo di estrazione sociale. Volendoci limitare a poche e sicura-
mente insufficienti nozioni, abbiamo visto8 che Boezio passò gran parte della sua vita
a Roma, che quasi sicuramente non viaggiò ad Atene e ad Alessandria come alcuni
storici pensavano, e che ebbe a che fare con la corte gota intorno all’anno 500, quando
Teodorico si trattenne a Roma per conoscere la città e durante gli ultimi anni della sua
vita in quanto Magister Officiorum a Ravenna9.
A Roma predominava sicuramente la musica legata alle funzioni religiose. Per molto
tempo si è pensato che qui, fin dalle origini del culto cristiano10, si sia sempre prodotta

5 Sant’Agostino, La musica, La vita felice edit., a cura di M. Bettetini, 2017. Un’altra definizione ago-

stiniana recita “sollertia bene modulandi”.


6 Panti, Cecilia, op. cit., pag. 110.
7 Fusaro, Francesco, ‘Milano da perÈ: l’esperienza del centro sociale Virus negli anni Ottanta, in Iden-

tità di luogo, pluralità di pratiche, Mimesis, 2016, pag. 101 e seg.


8 V. cap. I.
9 La questione è quindi impossibile da esaurirsi in poche pagine e, che si sappia, non sono mai stati

prodotti studi mirati sulla questione specifica.


10 Cioè almeno dal 313, data dell’Editto di Milano, quindi dell’inizio della strutturazione sempre più

articolata del cristianesimo. Parliamo qui di Editto di Milano in termini “tradizionali”, senza dimenticare
però che l’Occidente probabilmente aveva già cessato di perseguitare i cristiani con l’editto di Galerio
64

musica modale, la stessa che venne promossa dalla rinascita carolingia dell’VIII secolo
e che caratterizzò tutto il Basso Medioevo Occidentale. Quest’idea, però, più che ba-
sarsi su fonti certe11, si appoggiava alla considerazione, tradizionale e idealistica, di
Roma in quanto centro di irraggiamento dell’unico vero culto cristiano. Si dava per
scontato, cioè, appoggiando la propaganda del Laterano come Caput et Mater della
Chiesa, che il canto gregoriano fosse presente anche prima di quando le fonti attestas-
sero. In realtà a partire dal 189112, con la scoperta di manoscritti molto diversi dalle
tecniche gregoriane, si fece sempre più strada l’idea che, in realtà, prima dell’VIII
secolo, ci fosse un altro tipo di musica, di derivazione ebraico-ellenica, che non rien-
trasse nei canoni estetico-compositivi della modalità, e che venne chiamato stile Ro-
mano antico o Paleoromano.

Schema tratto da Cattin, Giulio, storia della musica vol. 1, EDT, 1979, pag.38, a sua volta tratto da Avenary.

Supra, in figura, un interessante raffronto statistico tra melodie alleluiatiche gregoriane


e melodie Paleoromane. In particolare, i due pentagrammi in basso a destra mostrano
bene come nella versione gregoriana si abbia il massimo della frequenza sul do (27),
contenuto in un pentacordo non continuo Sol-La-(Si)-Do-Re, mentre in quello romano
antico sia più frequente la nota La (25), contenuta in un pentacordo continuo Sol-Re.

del 311 e che quello che noi chiamiamo “Editto di Milano” in realtà sarebbe più corretto chiamare
“Direttiva nicomediana di Licinio”.
11 I primi manoscritti che presentano musica scritta risalgono all’XI-XII secolo, se si esclude il papiro

di Ossirinco 1786 del III secolo. Recentemente nella Biblioteca universitaria di Pavia è stato scoperto,
durante il restauro di un libro del XVII, un folio manoscritto di un antifonario del XII secolo che era
stato usato come rinforzo del cartone della copertina, uno degli esempi più antichi di notazione musicale.
12 Cattin, Giulio, op. cit., pag. 34.
65

Entrambe queste melodie appartengono ai secoli XII-XIII, ma la loro differenza stili-


stica ha fatto riflettere gli studiosi, che ora concordano su una ricostruzione di questo
tipo13: fino all’VIII secolo a Roma era presente una pratica musicale assolutamente
caratteristica, il Romano antico o Paleoromano, che era paragonabile all’Ambrosiano
per Milano e al Beneventano per Benevento. Con la nascita dell’impero carolingio si
ebbe un’importazione di schemi liturgici franchi che andarono a modificare drastica-
mente quella tradizione antegregoriana che la storiografia ha voluto, erroneamente ma
probabilmente come fonte di legittimazione, associare all’attività riformatrice di Gre-
gorio Magno. Ovviamente ad ogni trapianto culturale appartiene un certo periodo di
difficile convivenza: è questo il motivo per cui entrambi gli stili, fino al XIII secolo,
convissero, forse il Paleoromano tra i chierici e il Gregoriano tra i monaci. Il Paleoro-
mano subì questa sconfitta storica sia per la forza politica e diplomatica di Carlo Ma-
gno, ma anche e soprattutto perché non aveva alcuna notazione musicale, ma anzi era
costituita da un corpus melodico tramandato solo oralmente (solo i testi erano scritti).
Per quanto riguarda le tecniche di esecuzione musicale che venivano usate dalla litur-
gia cristiana possiamo citare la cantillazione, cioè una lettura intonata di versi biblici
su un ristretto numero di suoni, regolata dal ritmo verbale in frasi libere da qualunque
struttura metrica. Si può oggi apprezzare la pratica in qualsiasi sinagoga, durante la
lettura della Torah che viene sempre intonata, o meglio cantillata. La salmodia, in par-
ticolare, è la lettura intonata delle poesie del Libro dei Salmi o dei cristiani dei primi
secoli che composero in stile. Esistevano diversi tipi di salmodie, come quella respon-
soriale, alleluiatica, antifonata e direttaneo-solistica, ma tutte condividono il rapporto
tra solista/coro che intona un versetto del salmo e fedeli che rispondono in varie ma-
niere (con un ritornello, un “alleluja” o con un altro versetto).

Esempio tratto da Mainoldi, Ernesto, op. cit., pag. 170.

13 Cattin, Giulio, op. cit., pag. 34-38 e Mainoldi, Ernesto, op. cit., pag. 42-53.
66

In figura, un esempio di un’intonazione salmodica standard: abbiamo un inizio ascen-


dente, spesso un salto di V o di IV (in questo caso di V, Sol-Do), a cui segue la ripeti-
zione del tenor, quindi una flexa, facoltativa, cioè una piccola flessione del tenor,
molto spesso discendente di una III, e infine la mediatio, cioè la chiusa. Viene ripetuto
questo schema per ogni verso del salmo e come abbiamo visto tra un verso e l’altro
c’era una risposta da parte dei fedeli14.
Se il salmo aveva derivazione ebraico-ellenistico e prese accezioni localistiche più o
meno ovunque in Occidente, l’innodia, un’altra importantissima forma dell’epoca,
nacque nei centri urbani, probabilmente su spinta dei vescovi Ilario di Poitier e Am-
brogio da Milano. L’hymnos è un canto greco di lode rivolto alle divinità caratterizzato
da due elementi: metrica quantitativa e struttura strofica. Gli inni cristiani sono sì lodi
alla trascendenza (alla perfezione del mondo, a Dio, ai Santi…), ma abbandonano la
struttura strofico-metrica15. Sant’Ambrogio da Milano sarà il primo a dare una defini-
zione dell’inno più chiara: esso è formato da brevi versi di quattro giambi, in cui la
sillaba lunga corrisponde a quella con l’accento tonico. Ambrogio scriverà sicura-
mente almeno quattro inni, e uno di questi, il Deus creator omnium, è uno dei preferiti
di Agostino. Si è cercato di fare una ricostruzione plausibile della melodia che poteva
accompagnare il testo, tenendo conto della struttura dei versi, del probabile ambito di
V (Do-Sol) e del confronto con altre melodie “irmiche”, cioè archetipiche.

Tratto da Cattin, Giulio, op. cit., pag. 23.

14 Riguardo al modo in cui veniva patita la salmodia, si veda la bellissima Lettera di Anastasio a Mar-
cellino del 373: “Ogni altro Salmo è pronunciato e composto dallo Spirito nella stessa identica maniera:
come in uno specchio, i movimenti delle nostre proprie anime si rifletto in esso e le parole sono effetti-
vamente le nostre, date a noi per servire come promemoria delle nostre mutazioni di condizione e come
ordito e modello per il miglioramento delle nostre vite”.
15 Non a caso Agostino definì l’inno “Una lode a Dio espressa nel canto”, senza fare alcun riferimento

a questioni metrico-quantitativa (Commento ai Salmi, 148). In base e questa ed altre fonti la Panti (op.
cit.) ne ricostruisce l’ethos definendola una forma monodica e intimista, che spinge ad una sorta di
atarassia.
67

Ovviamente questo è l’esempio di una possibile melodizzazione dei primi versi


dell’inno ambrosiano, ma probabilmente ve n’erano molte altre, infatti, forse in virtù
della mancanza di una notazione precisa, si tendeva sia a cantare lo stesso testo con
melodie diverse, sia a usare le stesse melodie per testi diversi16. Altra questione è il
ritmo, probabilmente ternario se si vuole seguire il giambo ambrosiano, formato
dall’alternanza di quarti e ottavi. Ambrogio, nel Sermo contra Auxentium, definì, quasi
ironicamente, i suoi inni “carmi”, giocando sul duplice significato etimologico del ter-
mine che si traduce sia con “canto” che con “incantesimo”. Proprio questa seconda
accezione era quella che faceva più paura: muovendo gli affetti con troppa forza si
rischiava di ribaltare quel rapporto servile che vedeva la melodia sottomessa alla pa-
rola. I salmi, infatti, privi com’erano di qualsiasi limitazione metrico-quantitativa, sia
nel testo che nella melodia, davano piena importanza a ciò che era scritto. Gli inni, al
contrario, erano testi nati già modificati per concordarsi al giusto melos: è il primo
esempio di predominio della musica sulla parola. L’innodia ambrosiana entrerà per
questo a Roma inizialmente in punta di piedi, per trovare solo poi piena diffusione
grazie alle regole di San Benedetto. Indubbio è il valore politico degli inni, che nascono
in un determinato periodo non per infoltire il già vasto repertorio musicale dell’epoca
o per meri motivi estetico-religiosi, ma, generalmente, per trasmettere una certa pro-
paganda teologica in periodi di conflitto religioso. Non a caso, nel Libro dei Pontefici
5117, si narra che papa Gelasio (492-496), cioè uno dei cinque papi vissuti nel periodo
di Boezio, “produced five books against Nestorius and Eutyches and he produced
<tracts, and> hymns in the metre of St Ambrose; and two books against Arius; he also
produced with careful wording prefaces and prayers for the sacraments; and many let-
ters on the faith with polished vocabulary”. Non a caso la questione degli inni è posta
fra i cinque libri contro Nestorio e Eutiche (v. I.2) e i due contro Ario: l’inno serviva
proprio ad imporre l’ortodossia, e in generale un’ideale importante per l’attualità.

16 A questo riguardo Mainoldi (op. cit. 108 e seg.) parla di melodie archetipiche di origine rivelata,

imitazioni dei canti angelici (“immagini sonore senza forma”) praticate da innografi ispirati come San
Romano il Melode. Proprio in virtù di questo valore ipostatico della melodia, paragona l’innografo allo
scrittore di icone. Questo sarebbe il valore sacrale della musica, il ruolo di congiunzione ontologico-
simbolica tra immanenza e trascendenza, che manca a gran parte della musica ritenuta da noi “sacra”.
Al di là di questa “prestazione ontologica”, Mainoldi fa notare, nel parallelismo iconografi/innografi, il
ruolo del compositore all’epoca: anonimo, chi componeva scompariva nell’ombra della sua opera. Al
contrario, se vogliamo, oggi l’autore prevale tanto quanto (se non di più: si pensi alla Merda d’artista
di Piero Manzoni) l’opera che crea. Per approfondire il tema della ripetizione, fondamentale anche per
l’iconografia, v. Deleuze, Gilles, Differenza e ripetizione, il Mulino, 1968.
17 The Book of Pontiffs, Liverpool University Press, trad. di D. Raymond, 1989, pag. 41-42
68

Un’ultima forma importante da citare è il giubilo: un’esplosione gaudiosa d’un meli-


sma vocalico, a volte lunghissimo e senza alcun testo o parola. Agostino ne parla nel
Commento al Salmo 32 come “suono significante”: è un vocalizzo senza parole in cui
“comprendiamo, senza poter spiegare a parole ciò che si canta col cuore”. Dio, nella
sua ineffabilità, non si può dire, ma non si può neanche tacere: è un bellissimo esempio
di cantus come forma dell’intelligere, esattamente come per il silenzio. Il termine iu-
bilatio è associato da Agostino al keleuma, cioè al canto dei vogatori, ma anche alla
rustica vox, cioè al grido di gioia degli agricoltori. All’interno delle Scritture il giubilo
è il grido di gioia del popolo di Israele levato a Dio e Ilario di Poitiers ne parla sia in
termini ancora di rustica vox che di gridi di battaglia18. Non sappiamo, ovviamente,
come si svolgessero questi canti sine verbis nella quotidianità della Roma altomedie-
vale, ma sicuramente ebbe una grandissima importanza, tanto da influenzare forme
future, come le recitazioni antifonarie.

Esempi di antifonari con formule “apechematiche” tratti da Mainoldi, Ernesto, op. cit., pag. 117.

Queste si concludono, spesso, con formule apechematiche, cioè con vocali intonate
singolarmente: in questo caso, con il E – U – O – U – A – E, che sta per “saeculorum
amen”.

18 Panti, Cecilia, op. cit., pag. 85.


69

Quello che possiamo notare è che queste forme, di cui sappiamo perlomeno qualcosa,
sono tutte forme di musica cantata, non strumentale. Gli strumenti musicali, infatti,
all’epoca molto vari e differenti di regione in regione, non saranno usati all’interno
della sfera religiosa cristiana se non prima dei secoli XIII-XIV. Boezio accenna ai tipi
di strumenti dell’epoca: “La musica strumentale si realizza per effetto di tensione,
come negli strumenti a corde, o per mezzo dell’aria, come nelle tibie o in quelli che
sfruttano il movimento dell’acqua, o per mezzo di una percussione, come in quelli che,
strutturati a forma di concavità bronzee, vengono colpiti: ne derivano suoni diversi”19.
Sembra quindi che qui si stia proponendo la tripartizione classica di strumenti a corda,
a fiato (o acqua20) e a percussione, la stessa di cui parlerà Isidoro di Siviglia quando
divide il suono in armonico (voce e strumenti a corda), organico (strumenti a fiato o
ad acqua) e ritmico (strumenti a percussione)21.
Nonostante gli argomenti siano ancora tanti, forse troppi, ci limitiamo ad un breve
cenno alla musica gota. Teodorico non portò solo 100.00022 uomini in Italia, ma anche
una cultura molto diversa da quella latina. La lettera II.41 delle Variae di Cassiodoro
richiese al senatore Boezio il consiglio per un citaredo da inviare a Clodoveo re dei
Franchi. Clodoveo pare fosse rimasto colpito dai musicisti che operavano entro la corte
gota, quindi Cassiodoro volle rivolgersi ad un peritus, cioè ad un esperto del sapere
musicale, per individuare lo strumentista giusto da inviare. Qui, lo stesso Cassiodoro,
distinse tre tipi di musiche in base agli organi che venivano usati: musica a tatto
(kithara), a fiato (syrinx e salpinx) e sia a fiato che a tatto (aulos). Il citaredo usava sia
il tatto per suonare la kithara (la cetra), sia il fiato per cantare ed emettere in contem-
poranea due suoni tra di loro in “consona voce”23. Cosa cantavano di così bello i cita-
redi nelle corti gote tanto da ammaliare Clodoveo?24 Tutto ciò che era degno di essere
ricordato a gloria del re e della sua stirpe: doveva dilettare e ricreare, ma anche e so-
prattutto conservare la memoria tradizionale degli Amali, delle loro gesta e della loro
genealogia, in modo da vivificarla giorno per giorno. Eseguivano probabilmente pri-
sca carmina o cantiones, canti oggi perduti perché di sola trasmissione orale, ma

19 DM, I.2, pag. 293-294. Continua Boezio, nonostante a noi possa far sorridere la frase che segue:
“Pertanto sembra opportuno, in questo lavoro, trattare come prima cosa la musica strumentale”.
20 Esistono degli organi idraulici attestati fin dal III secolo a.C., non molto dissimili da quell’orologio

ad acqua che proprio a Boezio fu richiesto nella lettera I.45 delle Variae di Cassiodoro (ed. cit.) per
Gundobardo re dei Burgundi.
21 Panti, Cecilia, op. cit., pag. 110-111.
22 Cfr. I.1.3.
23DM, IV.1.
24 Restani, Donatella, Musica per Governare, Longo editore, 2004, pag. 62-65.
70

sicuramente ritraenti le gesta degli eroi della mitologia gota, come Etarpamara, Hanala,
Vidigoia-Vitige, Fridigerno… Questo modo di suonare colpì da una parte Clodoveo e
inorridì dall’altra Boezio25.

25 Cfr. I.3.2.
71

III.1 – La definizione di filosofia

Il secondo libro del De Musica apre con un Proemium di carattere programmatico: se


per tutto il libro I si sono enunciate tutte le proposizioni che costituiscono la scienza
armonica, ora è necessario procedere per dimostrazioni, approfondendo i temi a cui
prima si era solo accennato1. Conclude, Boezio, scrivendo: “Prima di approfondire
quegli argomenti che richiedono spiegazioni appropriate e tecniche, premetterò poche
notizie che servano all’uditore di opportuna preparazione”. La primissima di queste
premesse riguarda “L’essenza della filosofia secondo Pitagora” e recita: “Primo tra
tutti, Pitagora chiamò filosofia lo studio della sapienza; e per filosofia intese natural-
mente la conoscenza e la sistemazione di ciò che in senso vero e proprio si può dire
che è. Egli giudicava essenza reale ciò che non ammette possibilità di crescita per am-
pliamento né di decrescita per diminuzione né di mutazione per qualsiasi altro acci-
dente. A questo ordine appartengono le forme, le grandezze, le qualità, gli aspetti este-
riori e le altre cose che considerate di per sé sono immutabili, mentre congiunte alla
materia sono soggette a mutamento e al multiforme variare che scaturisce dalla paren-
tela con una cosa mutevole”2.
Una definizione del genere è in linea al discorso che si articolerà fino a II.18, che non
rappresenta nient’altro se non la riesposizione di quei temi, già trattati nel
De Arithmeticha, necessari in quanto strumenti per l’approfondimento dell’armonica:
parlerà infatti del concetto di quantità, dei tipi di rapporti e infine dei medi aritmetici,
geometrici e armonici3. Questa sinossi di fondamentali argomenti matematici permette
al De Musica di essere un’opera autonoma, o per lo meno fruibile anche al lettore che
non si è cimentato nel De Arithmeticha4. Boezio prosegue per gradi dai concetti più
generali a quelli più complessi: dalla definizione di filosofia sopracitata, infatti, passa
a definire le quattro materie del quadrivio, aritmetica, musica, geometria e astronomia,

1 È proprio questa una delle prove che il Pizzani (op. cit.) userà per dimostrare la dipendenza di Boe-

zio da Nicomaco: entrambi condividono la struttura per cui prima si anticipano, accennandoli solo, i
temi cardine della scienza armonica, poi si approfondiscono tramite la ratio numerorum, cioè tramite
dimostrazioni squisitamente aritmetiche.
2 DM, pag. 325 (139 lat.).
3 Donatella Restani (Restani, Donatella, op. cit., pag. 71) fa notare come il tema dei medi venisse af-

frontato nel De Arithmetica associando ad ogni tipo di media un particolare tipo di stato: così alla me-
dietà aritmetica Boezio paragona lo stato governato da pochi; alla medietò armonica il governo degli
ottimati; alla medietà geometrica una sorta di stato popolare, in cui il rapporto di cittadinanza è uguali-
tario.
4
È, cioè, uno dei motivi fondamentali per cui questo trattato troverà grande fortuna in tutto il Me-
dioevo Occidentale.
72

ricalcando la distinzione tra magnitudo e multitudo già incontrata nel De Arithmetica


e di diretta ascendenza nicomachea5. Quindi, dal concetto di quantità ora chiarito, si
passa a spiegare quello di quantità relativa, cioè di rapporto, che può essere di cinque
tipi, multiplo, superparticolare, superparziente, multiplo-superparticolare e multiplo-
superparziente6, e delle tecniche (regulae) per comporli con facilità7. Dopo una breve
ma interessante dimostrazione storica della preminenza del rapporto multiplo sugli al-
tri, Boezio spiega cosa sia il quadrato di un numero e nuove regulae per poter velociz-
zare il controllo dei rapporti. Conclude con la questione dei medi, cioè delle propor-
zioni8. Nonostante dunque la definizione di filosofia del secondo paragrafo possa far
pensare ad una ispirazione tutta aristotelica, che vede la filosofia come studio delle
“essenze”, delle cause, cioè delle categorie9, rimane l’elemento neopitagorico e neo-
platonico della matematizzazione dell’essenza, che conduce Boezio a riferirsi costan-
temente al principio generale della quantitas.
Questo carattere è ribadito un po’ ovunque all’interno dell’opera, sia sotto forma di
scontro tra Pitagora e Aristosseno sul vero oggetto della musica, sia, più in generale,
sul rapporto tra sensi e ragione. In V.2, ad esempio, Boezio chiarisce il concetto di vis
armonica, cioè della “capacità umana di valutare con l’udito le differenze fra suoni
gravi e acuti in base al senso e alla ragione”. Se il senso, afferma Boezio, procede per
via di somiglianza, rapportando percezioni a concetti della mente in modo confuso, la
ragione opera nella certezza fintantoché riesca a cogliere le forme in sé stesse, cioè “al

5 V. II.1.
6 Volendo spiegarlo in termini moderni, posti due numeri X e Y, e N, M e Z appartenenti all’insieme
dei numeri naturali, tra essi incorrerà un rapporto multiplo quando X = N * Y; superparticolare
quando X = Y + ( Y * 1/N ); superparziente quando X = Y + ( Y * M/N ) in cui M < N e diverso da 1;
multiplo-superparticolare quando X = N * Y + ( Y * 1/N ); multiplo-superparziente quando
X = N * Y + ( Y * Z/N ) in cui Z < N e Z diverso da 1. Si noti come gli stessi rapporti fossero già stati
spiegati in I.4, ma con semplici definizioni assiomatiche: il taglio differente tra I.4 e II.4 è emblema-
tico per capire la struttura dell’opera.
7 A II.8, tra l’altro, giustifica l’uso di queste regulae scrivendo che: “Accade spesso, a chi ragiona di

musica, di aver bisogno di tre o quattro o anche più rapporti superparticolari. Perché non capiti di do-
verceli trovare con un metodo empirico e con scarsa sicurezza, esponendoci anche al rischio di sba-
gliare, ci affideremo a questa regola […]”. Questa è un’interessante annotazione di come, nella pra-
tica, lavorassero gli scienziati armonici: i rapporti superparticolari, in musica, sono gli intervalli di IV
(diatessaron: 3/4) e di V (diapente: 2/3), e il riferimento a “tre, quattro o anche più” di questi probabil-
mente allude alla costruzione del così detto Sistema Perfetto greco, composto proprio da quattro inter-
valli di IV discendente. È lo stesso sistema, questo del Sistema Téleion, che Boezio propone in DM
I.22, IV.3 e IV.17.
8 Ecco la progressione lucida del discorso: dall’essere inteso come argomento primo della filosofia, si

passa alla quantità, sua manifestazione, quindi alla quantità presa in sé stessa, poi al rapporto tra due
quantità, ai diversi tipi di rapporti, a come saperli gestire con regulae precise e infine alla compara-
zione tra due proporzioni: i medi.
9 Categorie, 4, Ib 25-27.
73

di là della loro comunione col soggetto materiale e dunque nella loro integrità e verità”
(Ibid.). Una prova di questo rapporto servile tra senso e ragione proviene dalla raffinata
teoria psicofisica del suono esposta in I.4. Il suono viene definito come “una continua
percussione dell’aria che giunge fino all’udito”10, quindi come una pulsazione di una
determinata frequenza, che l’orecchio coglie però come un unico suono. Più è elevata
la frequenza delle pulsazioni, più acuto risulterà il suono ai sensi, mentre, al contrario,
meno elevata sarà la suddetta frequenza, più grave sarà il suono. Per via dunque della
estrema rapidità dei suoni emessi, i sensi peccano, nel loro chiaro riconoscimento, fa-
cendoci percepire suoni più o meno acuti e gravi al loro posto. Boezio qui farà un
esempio azzeccato: “Come se qualcuno ponesse diligentemente a far roteare quel cono
che chiamano trottola [turbinem] e vi tracciasse una linea rossa o di altro colore: rag-
giunta la maggiore accelerazione possibile, tutto il cono, allora, sembrerà rosso, non
perché esso sia in realtà tutto di quel colore, ma perché la linea rossa, nella sua velocità,
occupa le parti chiare e non permette che esse si manifestino”. I sensi quindi, di fronte
a certe complessità, rimediano con delle approssimazioni, esattamente come “il po-
polo” (I.1) trascura, per mancanza di “conveniente ricerca” le questioni che solo “i
dotti” si sforzano di comprendere nella loro vera natura11.
La quantità dunque, nelle sue quattro determinazioni quadriviali, diventa il modo in
cui possiamo governare il molteplice, coglierne cioè la verità più profonda. La mate-
matizzazione della moltitudine è solo un’astrazione della nostra mente: il suono non è
numero, come pensavano i pitagorici originari, perché alla base ha quell’esse instabile
che è il suo sostrato fisico12. Il pensare i suoni come numeri, infatti, non può che av-
venire per rapporti: in sé, il singolo suono, non è numero, ma il grado di differenza tra
più suoni sì. È esattamente questa, nella pratica, l’astrazione che l’intelletto deve fare
per poter giudicare rettamente la scienza armonica: bisogna abbandonare il suono con-
siderato in sé, che è nient’altro se non un’inafferrabile trottola roteante, per dirigersi
verso il rapporto di più suoni tra di loro, al numerus ad aliquid, quindi alle certezze
che l’aritmetica ci può offrire.

10 Si noti l’incredibile modernità della definizione.


11 “Infatti senza alcuna fatica usiamo dei sensi per attingere le cose sensibili; ma quando si tratta di in-
vestigare sulla natura dei sensi, secondo i quali orientiamo il nostro agire, pertinente alle cose sensi-
bili, la cosa non è più facile e non può essere chiara per chiunque […]” (ibid.)
12 V. supra: il suono è “una continua percussione dell’aria”, quindi è innanzitutto movimento.
74

La musica così intesa, esattamente come le discipline sorelle, è quindi una disciplina
teoretica, o speculativa. Nell’opuscolo teologico De Trinitate13 Boezio puntualizza il
principio neopitagorico per cui ogni scienza teoretica ha il proprio oggetto di cono-
scenza e il proprio metodo di indagine particolare. In accordo con la divisione aristo-
telica divide le scienze speculative in: 1) naturali, che si occupano delle forme dei corpi
nella materia e in movimento; 2) matematiche, che si occupano delle forme dei corpi
astratte dalla materia e dal movimento; 3) teologiche, astratte e separate dalla materia.
Prosegue Boezio definendo il metodo di ogni scienza speculativa: 1) le naturali inda-
gano per via di ragione (rationabiliter); 2) le matematiche per via scientifica (discipli-
naliter); 3) le teologiche per via di intellezione (intellectualiter). Solo le scienze ma-
tematiche, quindi, sono vere scienze, cioè saperi disciplinari, che colgono la realtà na-
turale attraverso quegli aspetti immutabili propri degli enti matematici. Nel commento
ai Topici di Cicerone (PL 64, I, col. 1045B) Boezio dà dei chiarimenti ulteriori: la
conoscenza disciplinare è la dimostrazione, la logica apodittica che conduce a dimo-
strazioni necessarie partendo da premesse certe. Gli enti matematici, nella mente
umana, fanno da perno saldo da cui può dipanarsi la rigorosa dimostrazione aristote-
lica: sono cioè assiomi, teoremi, dimostrazioni e calcoli dal carattere inoppugnabile.
Approfondito ora il quadrivio in quanto disciplina speculativa, possiamo chiederci che
rapporto possa avere con la filosofia intesa come “studio della sapienza”14: serve da
ingresso alla filosofia oppure come parte della filosofia? Leggendo il De musica sem-
bra prevalere l’idea che siano degli strumenti, o, a dirla con Nicomaco, dei méthodoi,
della filosofia e non parte integrante di quest’ultima. Se infatti la ratio numerorum
applicata all’armonica non è nient’altro se non lo sfruttamento, per subalternatio, di
elementi matematici quali rapporti e medi proporzionali, si può notare che Boezio non
usi però solo questi assiomi nei suoi ragionamenti. Lo si vede bene se si confrontano i
passi in cui cerca di descrivere la natura della consonanza15. Dà parecchie

13 Panti, Cecilia, op. cit., pag. 90-91.


14 Definizione che torna, tra l’altro, nel primo commento all’Isagoge di Porfirio (PL 64, I, col. 10D).
15 DM, “consonanza”: 294-296, 298-299, 300, 301 (pitagoriche), 308, 313, 319 seg.; “consonare”:

228, 237, 256, 260.


75

dimostrazioni, assiomatiche, fenomenologiche16, geometriche, matematiche…17 La


mancata presenza di un solo, chiaro, ragionamento sull’essenza della consonanza, ma
piuttosto un continuo riprendersi della questione sempre in maniera differente, fa pen-
sare che qui Boezio stia uscendo dalla disciplina matematica, per cercare in tutti i modi
di applicare un principio che non si ritrova in questi limiti. È una sorta di principio
estetico, che ricerca l’eleganza nella formula matematica, in particolare quando diretta
all’unità18. Scriverà, in I.6: “Si riconoscono adatti alla combinazione quegli elementi
che sono semplici per natura”. È questa l’idea che percorre tutta l’opera di Boezio, che
non trova mai una definizione definitiva e che porta alla querelle sulla consonanza o
dissonanza dell’intervallo di XI19. Questo principio dirige il processo logico dimostra-
tivo in una particolare direzione, ne sta in un certo senso al di sopra, perché cerca
quell’unità, quella somma Sapienza e sommo Bene che nel De Trinitate è individuato
come oggetto specifico dell’intelletto puro.
In conclusione, la filosofia tende alla pienezza della sapienza grazie a tre diversi con-
testi teoretici: con il quadrivio comprende gli intelligibili, cioè le essenze immutabili
della realtà materiale; con la conoscenza fisica verte sui sensibili, ovvero gli enti natu-
rali valutati nella loro determinazione mutevole; e infine con la teologia attinge alle
sostanze che Boezio, nel primo commento all’Isagoge (PL 64, I, col. IIB) chiama in-
tellettibili, individuate nell’entità divina e nell’intelligenza umana astratta da ogni sen-
sibilità20. Il quadrivio, quindi, nelle sue discipline, non esaurisce la filosofia, intesa
come ricerca della sapienza, ma esaurisce tutte le possibilità di indagine disciplinare,
cioè dimostrativa, degli intellegibili. La filosofia è ontologia, e l’essere in quanto
forma matematica è solo uno dei modi che l’essere ha di manifestarsi.

16 Termini quali fenomenologico, fenomeno, datità, oggettualità… Vengono qui usati per intendere la

relazione tra coscienza ed essere: “essa [la teoria della conoscenza] può avere davanti agli occhi l’es-
sere soltanto come correlatum di coscienza, come un che di coscienzialmente «inteso», vale a dire
come un che di percepito, ricordato, atteso, immaginativamente rappresentato, fantastico, identificato,
distinto, creduto, supposto, valutato ecc.”. Passo tratto da Husserl, E., La filosofia come scienza rigo-
rosa (Aufsätze und Vortäge), 1911-1921, ed. Laterza 1994, a cura di Giuseppe Semerari, pag. 25-26.
17 Le analizzeremo meglio nel paragrafo successivo.
18 Non è tanto l’unità realizzata ad essere consonanza (1/1 infatti è un unisono), quanto la differenza

che tende verso quest’unità: 2/1, l’intervallo di ottava, ad esempio, è consonante perché il primo ter-
mine contiene perfettamente il secondo termine due volte; un rapporto multiplo-superparticolare come
8/3, invece, è lungi da quella semplicità naturale per via del 3 che è contenuto due volte nell’8 con lo
scarto di 2.
19 V. DM, II.27.
20 Panti, Cecilia, op. cit.
76

III.2 – La proportione in quanto concetto estetico

Il De Musica di Boezio è un libro che trova grande attenzione da parte degli esperti,
una conoscenza sommaria e superficiale da parte dei musicisti e un quasi totale disin-
teresse dal resto della popolazione. Il problema di quest’opera è che viene general-
mente recepita con scetticismo, o, almeno, con scarso interesse da parte dei moderni.
Il motivo di questa diffidenza è basato sul fatto che in fondo si stia parlando di un
trattato di aritmetica e che le nozioni genuinamente musicali appartengono ad
un’epoca che sentiamo ormai molto lontana. È il concetto di proporzione1, che sta alla
base di tutta la scienza armonica, ad aver allontanato i potenziali fruitori del trattato
boeziano: Boezio, d’altronde, è uno degli ultimi autori interessato alla musica “pura”,
cioè prettamente teorica. L’approfondimento di questi temi, in musica, ha sempre al-
lontanato i moderni, interessati più all’oggetto posto all’interno della proporzione, che
al sistema proporzionale stesso. Il romanticismo ottocentesco ancora vive nella nostra
quotidianità, facendoci prediligere la soggettività e l’irrazionale nell’arte. Questo re-
taggio romantico è ciò che determina il disinteresse, se non la fatica, che sentiamo
quando ci vengono svelati gli schemi proporzionali o la struttura analitica di un brano.
Ciononostante, il modo in cui un sistema di proporzioni viene costruito è espressione
dell’intenzione artistica (Kunstwollen) di un autore o di un periodo. Una teoria propor-
zionale può dischiudere lo stile, e per Boezio, restìo circa i temi che oggi chiameremmo
estetici, questa diventa una breccia tramite cui dirigerci finalmente al cuore della sua
Kunstwollen. Infatti, se Nicomaco e altri scrittori pagani e cristiani (tra i quali lo stesso
Agostino nel De Musica) possono avere una teoria del bello e dell’arte basata sul sim-
bolico e l’allegorico nei numeri, Boezio considera le sole proprietà matematiche e for-
mali, fondando così una teoria estetica delle proporzioni, che non mancherà di avere
un preciso influsso sul pensiero medievale successivo2. Vista proprio la storia

1 Dal Mainoldi, op. cit., pag. 118: “Il termine ‘proporzionÈ indica nel suo significato etimologico
(proportio, similmente al greco analogia, stessa ragione-causa) il legame che la proporzione instaura
tra due o più entità numerate: dal momento che il numero può essere riferito sia alle realtà trascendenti
e alla quantitas abstracta a materia […] che alle realtà contingenti e alla quantità extensa in materia”.
Quest’idea della proporzione in quanto medium o mudus d’unione tra realtà trascendente e immanente
è quella di cui vogliamo qui parlare.
2 Obertello, Luca, Motivi dell’estetica di Boezio, in Rivista di estetica, 1971, vol. 12, pag. 360-387;

Nicola Di Stefano, nel suo Consonanza e Dissonanza, edito da Carocci (2016), ricostruisce una chiara
e interessante storia della consonanza, che va dai pitagorici agli studi comportamentali degli ultimi
vent’anni. In essa c’è una nota sul concetto di consonanza e dissonanza in Boezio, che può aiutare a
ricostruirne il suo pensiero sull’arte e sul bello: essa non parla solo della sintesi di due suoni, ma an-
che della qualità di questa sintesi. Empirista moderato, Boezio dirà che quando c’è uniformità
77

fortunatissima dell’opera, si potrebbe addirittura far chiarezza su tutta l’estetica della


musica medievale, che sappiamo essersi basata su una rilettura delle tecniche e dei
principi del trattato di Boezio3. L’intento si basa sulla lettura di un’opera di Erwin
Panofsky, Meaning in the Visual Arts4, che venne citata, come fonte, durante un semi-
nario di studi sul Rinascimento da Michael Masi, all’Università di Chicago. Secondo
la lecture, poi pubblicata: “The science of geometry applies the concepts of proportion
and order to the dimensions of planes and to the scapes of figures acrended into solids.
To these geometrical figures are applied the rules of harmonic proportion as outlined
in the De Arithmetica and realized in sounds by the De Musica. While the De Arith-
metica supplied the mathematical principles of order, the De Musica extended them to
an audial dimension and the De Geometria articulated them in visual structures. Ef-
fectively, geometry is a realization of the musica humana, and the astronomy, the final
discipline of the quadrivium, is a continuation of rhe musica mundana. From the De
Geometria the trandition is made to architecture and to the orther forms of the visual
arts, as is apparent to anyone familiar whit the sketchbook of Villard de Honnecourt”5.
Il quadrivio appare quindi in una nuova luce: la matematica fonda le successive disci-
pline conferendogli gli strumenti necessari per le dimostrazioni scientifiche, ma mu-
sica, geometria e astronomia parlano della stessa cosa, cioè della proporzione, che
viene prima udita, poi vista nelle forme geometriche astratte, e infine vista nei movi-
menti degli astri. Da questione noiosa per noi moderni, il concetto di proporzione può
quindi diventare di incredibile fascinazione se visto come oggetto di tutte e quattro le
discipline del quadrivio, e gli stessi discorsi che vengono fatti per la geometria, quindi
anche per le arti visive, possono vedersi applicati, quasi sinesteticamente, alla musica.
Le arti si compenetrano grazie al nucleo comune, al Sinn della proporzione, che quindi
merita un approfondimento dedicato.

(uniformiter) allora l’orecchio gode di soavità (suaviter), mentre quando la mescolanza tra due suoni è
spiacevole (iniucunda), allora l’orecchio soffre di un suono aspro (aspero). Quest’attenzione al sensi-
bile è quello che andrà a caratterizzare il pensiero occidentale a partire dalla Rivoluzione Francese e
dal lavoro degli enciclopedisti. Il ragionamento di del Dott. Di Stefano ci aiuta a ricordare il carattere
mediatico di Boezio nel rapporto tra sensi e ragione, in cui c’è sì una relazione servile, ma che prende
il carattere della dialettica servo-padrone di Hegel quando si ammette che senza l’udito non avrebbe
senso alcun discorso di teoria musicale.
3 Mainoldi, Ernesto, op. cit., pag. 3-4, scrive che tutti i trattati musicali medievali dal IX secolo in poi,

sono distinti in due sezioni: la prima di queste sezioni, di carattere introduttivo, espone temi teorici
tratti dalle opere di Agostino, Boezio, Cassiodoro e Isidoro di Siviglia, formando una complessiva
uniformità nel genere letterario e nel Geist del tempo.
4 Panofsky, Erwin, Meaning in the Visual Arts, Doubleday & Company, 1955, cap. 2 (pag. 55-69).
5 Masi, Michael, Boethius and the Iconography of the Liberal Arts, in Latomus, T. 33, Fasc. 1, pag.

55-75.
78

Parlando di sistemi di proporzioni intendiamo qui una teoria che stabilisca le relazioni
matematiche tra i vari suoni, identificandone le altezze relative. Queste venivano or-
ganizzate dai greci nel sistema teleion6, come oggi da noi moderni occidentali nella
scala cromatica. Le relazioni matematiche possono essere espresse in quanto divisione
di un intero o in quanto moltiplicazioni di un’unità: abbiamo visto come Aristosseno
(v. II.4) costruisse gli intervalli musicali a partire dalla somma di semitoni, intesi come
unità dogmatica di tutto il proprio sistema; Boezio, al contrario, partì dall’identifica-
zione dell’intervallo d’ottava (2/1) dunque lo scompose nelle sue parti, prima nella
somma di una IV più una V, poi in toni e infine nei due tipi di semitoni, maggiori e
minori (comma e leimma). L’aspetto però più importante da considerare per penetrare
il senso di un qualsiasi sistema di proporzioni risiede in questa sottile differenza: un
conto è riferirsi all’oggetto da rappresentare, un altro è riferirsi alla rappresentazione
dell’oggetto. Un conto cioè è chiedersi “Qual è la relazione tra queste due note che sto
sentendo?” e “Quanto devo modificare i miei numeri perché questi possano corrispon-
dere ai due suoni che sto ascoltando?”. La prima domanda riguarda le proporzioni
“oggettive” e precede, per così dire, l’attività artistica; la seconda invece è “tecnica”,
e viene incorporata nel processo artistico stesso. Esistono tre fondamentali possibilità
differenti di intendere una teoria delle proporzioni: una solo “oggettiva”; una solo “tec-
nica”; una in cui questi due modi coincidono.
Quest’ultima possibilità, all’interno delle arti figurative, è stata realizzata solo una
volta nella storia: nell’arte egizia7, e forse è esattamente questa che più può concordare
con il nostro De Musica. Ci sono tre condizioni che impediscono la coincidenza tra le

6 Il sistema teleion è formato dalle quindici note della scala naturale delle voci umane maschili dispo-
ste in due coppie di tetracordi congiunti separate da un tono disgiuntivo con l’aggiunta di una nota al
grave, replica all’ottava della nota contrale (o mese). Secondo Tolomeo (II.4 op. cit.), è detta perfetta
“perché contiene tutte le scale parziali di quarta, quinta, ottava, con tutte le loro forme o specie”; in-
fatti “si chiama perfetto un oggetto che racchiude in sé stesso tutte le sue parti”. I due tetracordi cen-
trali disgiunti diezeugmenon (mi - si) e meson (la - mi) costituiscono la ottava dorica (nucleo centrale
di tutto il sistema fondamentale greco) che ha una funzione paragonabile a quella della nostra scala di
do maggiore. Vedi sotto lo schema pentagrammato (tratto da Aristoxeni, op. cit., pag. 11):

7 Panofsky, Erwin, op. cit., pag. 57.


79

dimensioni “oggettiva” e “tecnica” di un sistema di proporzioni, e gli egizi pare pro-


prio le abbiano ignorate completamente. In breve, sono: 1) la modifica delle propor-
zioni in accordo con il movimento dei corpi; 2) il punto di vista dell’autore (foreshor-
tening); 3) la modifica delle proporzioni in accordo con il punto di vista del fruitore.
A livello tecnico, gli artisti egizi lavoravano su griglie di quadrati ben definite8, che
costituivano una procedura preparatoria obbligata e consolidata dalla tradizione, che
altro non erano se non un canone fisso entro il quale costruire le proprie rappresenta-
zioni. Nel momento in cui si sarebbe voluto scolpire o dipingere un essere umano,
dunque, si sapeva già che “la caviglia doveva essere sulla prima linea orizzontale, il
ginocchio sulla sesta, le spalle sulla sedicesima e così via”9.

Tratto da Panofsky, E., op. cit., pag. 66.

Si può dire che anche il De Musica di Boezio proponga un sistema di proporzioni di


questo tipo per gli intervalli, quindi per la rappresentazione sonora e non visiva. Infatti,
è facilmente riconoscibile il suo intento, tutto pitagorico, di trovare un sistema assolu-
tamente fisso, che si basi sì sui dati fenomenologici10, ma solo in quanto condizioni di
possibilità per l’applicazione della ratio numerorum. Così anche era l’arte egizia: l’arte
è rivolta verso le costanti, non verso la ricerca del simbolo della vita presente, bensì

8 Che corrisponderebbero alle griglie di quadrati usate dai moderni per trasferire una composizione da

una superficie piccola a una più larga (mise au carreau).


9 Panofsky, Erwin, op. cit., pag. 60.
10 Inteso come contenuto intenzionale della percezione. V. Husserl, E., Percezione e Attenzione

(Wahrnehmung und Auferksamkeit: Texte aus dem Nachlass, 1813-1921, in Husserliana, XXXVIII),
ed. Mimesi, 2016, a cura di Spinicci, Paolo e Scanziani, Andrea.
80

verso la realizzazione di un’eternità senza tempo. Entrambi non cercano una sfera di
idealizzazione estetica, ma di realtà magica, cioè non un’imitazione (µiµesiz) ma una
ricostruzione della realtà. Usando un lessico aristotelico, non si vuole rappresentare
una vita che sia reale, bensì potenziale, nel senso che l’oggetto della riproduzione con-
siste nella forma del sujet in una replica ancora più durabile. Esiste infatti una gerar-
chia precisa: un bene desiderabile per sé è più eccellente di un bene desiderabile per
aliud, così la bellezza di un corpo è un mero fatto sensibile e fenomenico, risultato
dall’esatta proporzione delle membra; in quanto tale è fondata su quella nascosta e più
profonda armonia che dà come risultante la bellezza che i sensi possono apprezzare11.
Così nasce anche l’etica della Consolatione, per cui le gemme splendono all’occhio,
ma il loro splendore è ingannevole poiché privo di vita, e prezioso solo per conven-
zione; i dolci versi e le parole melodiose della poesia e della retorica dilettano l’animo,
ma presto passano senza lasciare traccia, se non trasmettono pensieri più alti e severi12.
Questa è la Kunstwollen che i sistemi di proporzione egizio e di Boezio dispiegano, ed
esse trovano anche grossi riscontri con la corrente platonica e stoica13. Se si segue
l’intuizione cassireriana per cui “ogni estetica sistematica comparsa fino ad oggi nella
storia della filosofia è stata ed è rimasta platonismo”14 è ovvia la connessione tra Boe-
zio e Platone, ma lo diventa ancor di più se si considera il nucleo estetico platonico:
“la ricerca dell’assoluto di contro ad un relativo; dell’incondizionato di contro ad un
condizionato; dell’indeterminato di contro ad un determinato”. Questa trova grandi
somiglianze con l’ontologia pitagorica, che non immagina l’essere in quanto acqua,
aria, sfera perfetta o fuoco… Bensì in quanto numero, cioè essenza e non immagine,
eidos e non eidolon, coglimento della forma e non dell’oggetto sensibile. Così, le
scienze che si basano sul caotico divenire dei fenomeni, come l’astronomia e la mu-
sica, trovano senso solo se intese in quanto paradigmi o problemi del sapere matema-
tico. Scrisse infatti Platone: “Dopo di ciò, […] poiché mi ero scoraggiato di indagare

11 V. Severino, Boezio, ed. cit. III, metro 9 e II metro 8, in cui è colta con gaudio l’armonia imma-
nente all’essere, che è insieme ragione, vita e amore. Quest’ineffabile armonia declamata è, qui, bel-
lezza e perfezione del Creatore.
12 Obertello, Luca, op. cit., pag. 362.
13 Cassirer, Ernst, Eidos e Eidolon, il problema del bello e dell’arte nei dialoghi di Platone, Cortina,

2009; v. soprattutto Panofsky, Erwin, Idea, contributo alla storia dell’estetica, Bollati Boringhieri,
2006, pag. 2: “Platone logicamente contrappone alla liberta arte greca quella, sottoposta a canoni, de-
gli egiziani, le cui opere, a diecimila anni di distaza, non apparivano né migliorate né peggiorate ri-
spetto alle attuali, anzi elaborate perfino nello stesso stile [Leggi, II, 656 D-E]” ; Obertello, Luca, op.
cit., pag. 362: “[…] il transitorio, il contingente, il sensibile non può costituire oggetto di vera cono-
scenza; si ha scienza infatti solo dell’universale, del permanente, del necessario”.
14 Cassirer, Ernst, op. cit., pag. 5.
81

gli enti, mi sembrò che dovessi stare attento a non subire ciò che subiscono quelli che
contemplano e osservano l’eclissi di sole: alcuni perdono gli occhi, se non ne osser-
vano l’immagine nell’acqua o in qualcosa di simile. Così pensai anch’io e temetti di
diventare completamente cieco nell’anima, osservando le cose con gli occhi e tentando
di coglierle con ciascuno dei sensi. Mi parve che dovessi rifugiarmi nelle ragioni e
indagare in esse la verità degli enti”15.
Solo così si può capire, potendo però comunque dissentire, il Mainoldi quando scrive:
“il sistema temperato è l’inferno in musica”16. Alla base del moderno sistema propor-
zionale temperato c’è la logica aristossenica di addizioni di unità minime indivisibili:
i semitoni. Questi vengono ottenuti dalla divisione in dodici parti dell’ottava (2/1), in
#$
modo che x1 * x2 * x3 * … * x12 = 2, quindi calcolando x = √2. L’unico rapporto
veramente consonante, cioè concorde alla teoria pitagorico-platonica, è dunque il dia-
pason. Il resto, per il Mainoldi, è assoluta dissonanza: siamo costantemente bombardati
da “battimenti insopportabili all’orecchio”, che spiegherebbero l’origine della tecnica
del vibrato, indispensabile per permettere quest’inganno dell’orecchio. Inoltre, e que-
sto lo direbbe anche Boezio, tutto il nostro sistema moderno si basa sul numero 2 (nu-
mero opposto alla perfezione dell’unità aritmetica, che abbiamo detto essere fonda-
mentale per la definizione di consonanza) e delle sue potenze irrazionali: non c’è ten-
denza verso la ricerca del kòsmos, di un’eternalizzazione del tempo, ma solo di imita-
zione della materia e della contingentia mundi. Mainoldi pensa, infine, con convinto e
tragico spirito neoplatonico, che abbia alla fine trionfato Aristosseno e il suo approccio
fenomenologico alla musica17, sia per quanto riguarda il sistema di proporzioni, che
per quanto riguarda la Kunstwollen che comporta. Attraverso un abbandono progres-
sivo della ripetizione ipostatica, che operava, nella ricerca della forma al di là della
materia, dell’armonia che fa da substantia alla bellezza, una sintesi tra mondo dei

15 Phaed. 99 D e seg.
16 Mainoldi, Ernesto, op. cit. (2001), pag. 156-163
17 “In Aristosseno, la nozione di consonanza non ha consistenza numerica astratta: essa non nasce da

rapporti numerici che valgano al di fuori dell’atto percettivo, perché è l’atto percettivo stesso che con-
sente di ritrovare determinati rapporti tra suoni”, Di Stefano, Nicola, Consonanza e dissonanza, Ca-
rocci, 2016. “Noi cercheremo di dare dimostrazioni che si accordino con i fenomeni, a differenza dei
nostri predecessori. Perché alcuni dicono delle assurdità, sdegnandosi di riportare alla sensazione, per
la sua inesattezza, ed inventando delle cause puramente astratte, parlando di rapporti numerici e di ve-
locità relative, da cui risultano l’acuto e il grave, esponendo così teorie le più estranee e le più contra-
rie ai fenomeni; altri, senza ragionamento e senza dimostrazione, dando per degli oracoli ciascuna
delle loro dichiarazioni e non sapendo nemmeno ben enumerare i fenomeni stessi”, Aristosseno, Ari-
stoxeni Elementa Harmonica a cura di Rosetta di Rios, Ist. Poligrafico dello Stato, Roma, 1954,
pag.47.
82

fenomeni e mondo delle idee, ci siamo sempre più diretti verso il feticcio della varia-
zione, cioè dell’adattamento della tradizione al proprio contesto storico, che nel con-
temporaneo è addirittura giunto al parossismo del complotto18 e della riproduzione
tecnica19 dell’opera d’arte20.
L’impostazione che più però ci convince, è quella che propone Nicola Di Stefano21: se
la musica mantiene anche oggi un forte rapporto con la matematica, di certo ora si è
aperta anche ad altre discipline, come la psicologia, la fisiologia, la fisica, le neuro-
scienze, la biologia, l’antropologia, la semiotica…22 Col tempo, cioè, entrarono temi
quali natura e cultura all’interno del discorso musicale e non senza dei profitti consi-
derevoli per la materia. Oggi, continua Di Stefano, c’è proprio bisogno di filosofi che
siano in grado di giostrarsi sia nelle questioni estetiche e linguistiche, sia in quelle
musicali ma anche e soprattutto scientifiche, giungendo non ad un ibrido senza pro-
fondità metodologica e teorica, bensì al meraviglioso stupore che genera la congiun-
zione tra “l’eleganza e la profondità del pensiero filosofico” con “la razionalità calco-
lante dell’articolo scientifico” (Ibid., pag. 153-156).

18 Baudrillard, Jean, Il complotto dell’arte, SE, 2013.


19 Walter, Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ET, 2011.
20 A riguardo, scriverà (op. cit. pag. 119), scioccando probabilmente gran parte dei lettori: “Se ci si

chiederà perché proprio certi numeri e certi rapporti hanno costituito i fondamenti di tale [di Boezio]
teoria, la risposta più esauriente sarà l’affermazione che Dio ha utilizzato quei numeri e quei rapporti
per disporre la Creazione ad imitazione dell’harmonia abscondita”.
21 Di Stefano, Nicola, op. cit.
22 A tal riguardo di fondamentale apporto furono i lavori di Hermann von Helmholtz (v. soprattutto

On the sensations of tones as a physiological basis for the theory of music, trad. di Alexander J. Ellis,
Longmans, Green e co. edit., Londra, 1875).
83

III.3 – Tre specie di musica

Uno dei paragrafi più famosi del De musica è l’I.2, intitolato “Tre specie di musica. Il
potere della musica”1. Le tre specie sono: musica mundana, musica humana e musica
instrumentalis2. Mentre quest’ultimo genere trova la sua articolazione in tutto il resto
dell’opera, che si occupa proprio di musica strumentale, agli altri due vengono fatti
solo cenni e promesse, senza però tornarci più. Il testo del De musica è, com’è noto,
mutilato: si interrompe bruscamente al paragrafo 19 del V libro in tutti i manoscritti a
nostra disposizione3, con le parole “nusquam una…”. Alcuni manoscritti cercarono di
colmare la lacuna completando la frase (“nusquam una proportio vincat duas”4), e altri
integrarono il testo con l’indice dei paragrafi fino a tutto il libro V. Come abbiamo
visto (II.2), è molto allettante l’idea di pensare che in realtà il libro fosse composto da
due o tre libri in più, oggi perduti ma trattanti i concetti di musica umana e cosmica.
Essi molto probabilmente seguivano il III libro dell’Armonica di Tolomeo, ma bisogna
ricordare che l’argomento della tripartizione appare regolarmente in parecchi altri
scrittori,5. Nel De musica dello Ps.-Plutarco (25, 1140AB) abbiamo un frammento di
Aristotele (framm. 25 Ross) il quale spiega che la percezione dell’armonia divina da
parte di vista e udito è possibile perché quest’armonia entra a far parte proprio della
costituzione del corpo umano. Ancora, Aristide Quintiliano scrisse, intorno alla metà
del IV secolo, un Sulla Musica6, un complesso trattato neoplatonico di filosofia dell’ar-
monia strumentale, cosmica e umana. Qui associò ai tre intervalli fondamentali di ot-
tava, quinta e quarta, i generi divino, psichico e corporeo. In generale il trattato di
Aristide è un chiaro esempio di quell’interesse musicale neoplatonico, che vedeva la
teoria musicale come una chiave basilare per comprendere il significato e la struttura
del cosmo, di cui l’uomo è in sé stesso una rappresentazione. Da quest’opera attinse in

1 DM, pag. 293-294


2 “Et prima quidem mundana est, secunda vero humana, tertia, quae in quibusdam constituta est instru-
mentis […]” (DM, pag. 136).
3 Un elenco dei manoscritti viene dato da M. Masi in Manuscripta, XV, 1971, pag. 89-95.
4 V. Chadwick, H, op. cit. pag. 119.
5 Lo stesso Boezio, nell’introito al paragrafo, ammette il metodo di lavoro, volendo esporre una que-

stione secondo le “definizioni date dagli studiosi [studiosis]” (Ibid.). Cfr. anche Restani, Donatella,
Cultura musicale nella Ravenna di Boezio, in La musica ritrovata, Longo Editore, pag. 46-71: “Se il
De musica è una traduzione dei trattati di teoria musicale di Nicomaco di Gerasa e di Tolomeo […],
almeno nella trattazione di due argomenti, però, i tre generi di musica e la definizione di musicus, Boezio
faceva riferimento a un quadro culturale più ampio e diversificato rispetto a quello dei trattati greci
rimasti, sia, e soprattutto, a quelli latini”.
6 Che è una compilazione della teoria musicale antica, soprattutto di Nicomaco di Gerasa, Damone di

Atene e Dionigi di Alicarnasso.


84

larga parte Marziano Capella7 per l’ultimo capitolo del De Nuptiis, e tramite ciò Boe-
zio potrebbe aver conosciuto il lavoro di Aristide. Aristide e il frammento aristotelico
dello Ps.-Plutarco sono solo esemplari per trasmettere la complessità della questione,
perché si tratta di argomenti, quelli della musica mundi e humana, a cui Boezio fece
solo dei brevi cenni.

III.3.1 – Musica instrumentalis

La musica strumentale, l’ultima esposta nel paragrafo, è preliminarmente definita


come “quella che si realizza al suono degli strumenti, come cetre, tibie e altri, posti al
servizio del canto” (Ibid.). Questa, oltre che un’interessante nota etnomusicologica
sull’uso di cetre e tibie8, è una limpida descrizione di quella che abbiamo chiamato
musica pratica. L’idea è poi ribadita nella seconda descrizione, a fine paragrafo, della
musica strumentale: “Questa si realizza per effetto di tensione, come negli strumenti a
corde, o per mezzo dell’aria, come nelle tibie o in quelli che sfruttano il movimento
dell’acqua, o per mezzo di una percussione, come in quelli che, strutturati a forma di
concavità bronzee, vengono colpiti: ne derivano suoni diversi. Pertanto, sembra op-
portuno, in questo lavoro, trattare come prima cosa la musica strumentale”9. Così espo-
sta, quindi, sembra che Boezio voglia parlare di strumenti, di composizione e di ese-
cuzione dei brani, ma in realtà sappiamo già che non parlerà di nulla di tutto ciò, inte-
ressandosi della pitagorica ratio numerorum. Abbiamo già parlato del rapporto servile
della prassi alla teoria, espressione di quell’atteggiamento sociale diffuso, presente an-
che in Agostino, delle élite aristocratiche, nei confronti di coloro che esercitavano la
triviale professione di musicista nella società antica10. Nel primo libro, dunque, che
presenta brevemente i temi che saranno esposti con maggior attenzione nei libri suc-
cessivi, parlerà di suono musicale, di consonanza, della determinazione di ogni inter-
vallo consonante come somma di intervalli minimi di tono e semitono, della

7 Panti, Cecilia, op. cit., pag. 50.


8 V. n. 31 e 42 della classificazione Hornbostel-Sachs.
9 Si noti, come fatto nel paragrafo precedente, come all’interno di questa breve descrizione sia presente

la tripartizione “classica” degli strumenti in strumenti che producono il suono per mezzo di tensione
(come quelli a corda), strumenti che impiegano un mezzo (come flauti o organi ad acqua) e infine stru-
menti che producono il suono per percussione di un corpo rigido (come le campane).
10 Aristotele, in Politica 1339a-1341b10, dice che i musicisti di professione appartengono alle classi più

basse, e che un gentiluomo dovrebbe suonare uno strumento solo quando è ubriaco, o per scherzo.
85

distinzione numerica tra semitono maggiore e minore, delle corde e dei loro nomi, e
infine della distinzione della melodia nei suoi tre generi diatonico, cromatico e enar-
monico.

III.3.2 – Musica humana

Entriamo ora nel campo delle specie musicali di cui manca l’approfondimento nel De
musica. Il Medioevo e il Rinascimento cercarono di riempire la lacuna in ogni modo,
dando interpretazioni disparate. Esse giunsero ad esempio ad influenzare il campo me-
dico11: la conoscenza del ritmo del pulsus, ad esempio, divenne prerogativa dei medici
medievali anche in virtù dell’interpretazione di questo passo boeziano. Pietro
d’Abano, autore del XIV secolo, scrisse nel suo Conciliator differentiarum: “Il polso
negli infanti irrazionali segue la proporzione del ritmo trocheo, negli uomini maturi lo
spondeo, e nei vecchi il giambo trocheo; Il polso ritmico consiste quand’ora in un rap-
porto o proporzione pari, talvolta invece in un rapporto dispari; il primo quando il
tempo della diastole è pare a quello della sistole, il secondo quando l’uno dei due tempi
eccede l’altro”12.
Boezio definisce la musica humana in quattro modi diversi: 1) è qualcosa “che perce-
pisce chiunque discenda in se stesso”; 2) “associa al corpo quella incorporea vivacità
del pensiero”; 3) “congiunge tra loro le parti di una stessa anima, la quale, come vuole
Aristotele, è informata da razionale e irrazionale”13; 4) infine, “mischia gli elementi
del corpo o congiunge le sue parti con valido adattamento”. Si evince bene come il
nucleo concettuale della musica humana per Boezio risieda nella triplice coaptatio14
anima-corpo, anima-anima e corpo-corpo. Il primo punto ha, invece, un carattere di

11 “Symphonalis est anima” (Mainoldi, op. cit., pag. 2016) scrisse Ildegarda di Bingen, supportando la

tesi fortunata, sostenuta anche dall’autore dello Speculum musicae (forse Giacomo di Liegi o Giacomo
l’ispanico, comunque del XIV secolo), secondo cui certi squilibri dei costumi fossero paragonabili a
malattie dell’anima. Si parla allora di musica taumaturgica, e tal guisa si può leggere dallo Speculum:
“Dunque la musica è una sorta di medicina e opera cose mirevoli; con la musica vengono curate le
malattie, in particolare quelle sorte dalla melanconia e dalla tristezza”.
12 Mainoldi, op. cit., pag. 211. Lo stesso Boezio parla del ritmo cardiaco in DM I.1.: “Allo stesso modo

delle percezioni sensibili del corpo, anche le pulsazioni del cuore sono eccitate da movimenti, secondo
quanto Democrito avrebbe dichiarato al medico Ippocrate […]” (pag. 291). Agostino applica anche alla
respirazione una legge ritmica (De musica, ed. in bibl., VI, 3.4)
13 De Anima, 423A.
14 Coaptatio è il termine latino che rende la greca harmonia. Venne coniato da Agostino nell’ultimo

libro del De civitate Dei, in cui, mentre discuteva della felicità eterna dei santi e della resurrezione del
corpo, approfondì proprio il tema dell’armonia del corpo umano. V. Restani, Donatella, Embryology,
2016, pag. 174.
86

tipo epistemologico o psicologico che dir si voglia: è la possibilità dell’uomo di pene-


trare in se stesso l’ordine del proprio microcosmo, che è immagine di quello celeste e
che ci permette di riconoscere l’ordine nei suoni udibili15 (musica in quibusdam con-
stituta instrumentis).
Se seguiamo l’impostazione di Bower (v. II.2), possiamo ricostruire ciò che Boezio
avrebbe scritto nei possibili capitoli dedicati alla musica umana leggendo il III libro
dell’Armonica di Tolomeo, capitoli dal quarto al settimo16. In III.4 Tolomeo spiega
soltanto perché e a quali campi possono estendersi i principi della scienza armonica.
Questi devono essere necessariamente disporre di due caratteristiche: di movimento
fisico e razionalità. Solo l’anima e il cosmo le possiedono entrambe, in quanto oggetti
naturali dotati di un principio di movimento interno e non indotto17; III.5 mette in re-
lazione le tre “parti” o “funzioni” dell’anima aristotelica intellettiva, sensitiva e vege-
tativa alle tre consonanze fondamentali di ottava, quinta e quarta (in quest’ordine).
Con acume psicologico approfondisce la questione distinguendo ogni “parte”
dell’anima nel numero corrispondente di generi dell’intervallo associato. L’anima ve-
getativa, dunque, avrà tre specie, esattamente come l’intervallo di IV18: crescita, ma-
turità e decadenza; la sensitiva quattro: vista, udito, odorato e gusto19; l’intellettiva
infine in sette: immaginazione, intelletto, concetto, pensiero, opinione, ragione e
scienza. Di straordinaria apertura mentale, Tolomeo non si limita a considerare la tri-
partizione aristotelica, ma aggiunge che “Se poi volessimo suddividere l’anima in un
altro modo, cioè in razionale [logistikon], irascibile [thymikon] e concupiscibile
[epithymetikon], potremmo a buon diritto collegarle” (pag. 209), applicando lo stesso

15 A proposito, la cetra nacque, a detta di Boezio (DM I.20), per invenzione di Mercurio che per primo
la costruì con quattro corde ad imitazione dei quattro elementi; Terpandro (DM I.20) portò la cetra a
sette corde, imitando i sette pianeti e giungendo quindi all’immagine dell’ordine celeste.
16 È la stessa cosa che fece Chadwick nella sua celebre monografia (v. pag. 82-84): “What Boethius is

likely to have said in the lost ending of the Institutio musica may be seen in Ptolemy’s third book on
Harmonica”.
17 Aristotele, Phys. II, 1, 192b 9-15).
18 Le specie di IV vengono studiate anche da Boezio in DM IV.14 solo relative al genere diatonico. Per

la IV, si individuano considerando tutte le combinazioni possibili, all’interno del sistema perfetto greco,
di alternanza degli intervalli che costituiscono il suddetto intervallo (per la IV, T-T-S). Stesso procedi-
mento va applicato per gli intervalli di V e di VIII. V. Appendice 2 per gli schemi riassuntivi delle
specie di IV, V (T-T-T-S) e VIII (T-T-T-T-T-S-S). Per la IV si giunge ad un risultato del genere:

. Se ne parlerà meglio nella Conclusione.


19Il tatto è considerato “una specie comune a tutti i sensi, dato che essi producono le proprie risposte
percettive mediante il contatto con gli oggetti percepiti, qualsiasi essi siano” (pag. 209).
87

parallelismo dunque alla classica divisione platonica. Qui le specie delle singole fun-
zioni dell’anima hanno un carattere etico perché rappresentanti le virtù delle singole
“parti” dell’anima. Tutto questo trionfo di specie e associazioni musico-psicologiche
culmina nella migliore condizione dell’anima, rappresentata platonicamente dalla giu-
stizia, e metaforicamente come la “consonanza e virtù delle virtù e delle consonanze”
(Ibid.), che solo il filosofo può raggiungere; III.6 propone una nuova associazione,
questa volta più terminologica che altro, tra i generi (genvn), di stampo aristotelico,
derivanti dai due archn teoretico e pratico, e i tre generi musicali enarmonico, cro-
matico e diatonico; infine, III.7 conclude la trattazione dell’armonia dell’anima con
numerosi riferimenti di carattere etico e politico, in cui trionfa una certa relazione sim-
patetica tra l’individuo e l’andamento della melodia20.
Donatella Restani è probabilmente una delle studiose italiane più interessate all’argo-
mento della musica humana attualmente attive. La sua ricerca su questo specifico
tema, che vedrà probabilmente nel 2019 una pubblicazione monografica dedicata, si
basa su un principio metodologico di questo tipo: quando Boezio nel De musica parla
di musica humana non sta dicendo qualcosa di nuovo nei contenuti, ma il termine par-
ticolare con cui identifica questi contenuti è un’assoluta novità nella trattatistica musi-
cale dell’epoca. Esattamente come per altre locuzioni (quadrivium, persona), qui Boe-
zio pare abbia coniato un neologismo molto fortunato, che non trova riscontro in nes-
suna opera passata21. A motivo di ciò, non bisogna tanto cercare la fonte particolare
che Boezio compilò per parlare della musica humana, bensì i contenuti della sua “bi-
blioteca interiore”22. Questa biblioteca interiore è frutto dalla sua raffinatissima edu-
cazione che solo un giovane di nobile estrazione poteva permettersi. Le nozioni ap-
prese si mescolano, si scontrano e assumono nuovi significati, talvolta creandone

20 Essa viene solo abbozzata per lo più come associazione tra toni e note acute con un sentimento di

tensione, e toni e note gravi con uno di rilassamento.


21 Scrive infatti Restani: “It is well-known that the phrase musica mundana existed before Boethius—

in Macrobius’s Commentarii in Somnium Scipionis (Commentary to the Dream of Scipio) II 4, 13—but


an accurate research in the Latin music lexicon shows that musica humana did not. Boethius was used
to neologisms and to shift towards new definitions for common words”. Restani, Donatella, Embryology
as a Paradigm for Boethius’ musica humana, in Greek and roman musical studies 4 (2016), pag. 161-
190. Pag. 162.
22 Restani, Donatella, Le radici antropologiche dell’estetica boeziana, in Musica e storia, 2/2007, pag.

243-258. A pag. 245 si può leggere: “Nonostante le numerose ricognizioni sui libri che Boezio poté
verosimilmente leggere e avere, talora, a disposizione nello scaffale, sfuggono altre possibili tracce di
lettura, di cui, in particolare, quelle riposte nel magazzino della memoria, nella «bibliothéque inté-
rieure», in cui le parole e i concetti assumono nuovi significati e dove, a volte, ne nascono anche di
nuovi, assenti nei testi di partenza o, se pure presenti, poi ripensati integralmente, come forse potrebbe
essere avvenuto nel caso della tripartizione della musica”.
88

anche di nuovi. Esattamente questo processo interiore, ipotizza la Restani, permise a


Boezio di introdurre la novità terminologica della musica humana. La questione allora
si fa molto più complicata, perché per rispondere a domande come “da dove proviene
la locuzione musica umana?” o “da dove deriva questo concetto?” bisogna allargare di
molto i confini delle fonti finora considerate, cercando di ricreare la complessità del
“con-testo” del De musica di Boezio. Il con-testo di un’opera o di un autore è un tema
che ritroviamo in un articolo di Franco Alberto Gallo23 in cui affronta il tema più ge-
nerale del senso della storia della musica24. Nel suo articolo, Gallo, quasi come se
riportasse una pagina di diario, scrive: “Per preparare alcuni corsi universitari, avevo
cominciato a leggere molti romanzi cortesi dei secoli XIII e XIV, avevo approfondito
la conoscenza di repertori musicali anteriori a Machaut, specialmente quello dei tro-
vieri, ma avevo esteso le mie letture a numerosi altri testi dell’epoca: trattazioni filo-
sofiche, cronache storiche, manuali di comportamento. Man mano che venivo accu-
mulando queste nuove esperienze e ripensavo al Remede de Fortune, mi si andava
scoprendo il senso di una infinità di particolari sia del testo sia delle musiche, i quali
alla prima lettura avevo inteso differentemente o mi erano completamente sfuggiti.
Incuriosito, mi misi quindi ad operare sistematicamente in una direzione che mirava
non tanto a ricostruire il cosiddetto e generico “contesto” dell’opera di Machaut25,
quanto ad individuare con precisione storico-filologica il maggior numero possibile di
“con-testi” verbali e musicali: vale a dire tutti quei testi verbali e musicali che stavano
nella mente di Machaut e dei suoi ascoltatori insieme con il Remede de Fortune. Mi
accorsi così che via via che procedevo nella lettura e assimilazione di tali con-testi,
veniva raschiata via un po’ della mia originaria ingenuità di lettore, della mia lonta-
nanza dal testo, insomma, del mio essere un medievista e non un uomo del Medioevo,
finché, ad un certo punto, mi parve che la mia recezione del Remede de Fortune an-
dasse recuperando la tinta che aveva quella degli ascoltatori diretti di Machaut, che

23 Gallo, Franco, Alberto, Historia civilis e Cultural Heritage, in Il Saggiatore musicale, Leo S. Olschki
s.r.l. edit., Vol. 8, No. 1, 17-18 novembre 2000 (2001), pag. 15-20.
24 In particolare, Gallo, auspica che il musicologo smetta di “riesumare fossili, dissezionarli, osservarli

comparativamente, datarli e infine collocarli nel periodo evolutivo che li compete”, per dirigersi verso
un approccio antropologico: studiare la storia della musica significa semplicemente studiare ‘storia’,
‘antropologia’ e ‘scienze umanÈ, cioè l’ambito delle “azioni volontarie degli uomini nel mondo”, o
historia civilis (Ibid.).
25 Guillaume de Machaut (Reims, 1300 – Reims, 1377) è uno dei più importanti poeti e compositori

dell’ars nova francese. Fu autore di un poema molto fortunato, il Redeme de Fortune, trattante il tema
cavalleresco di un’avventura amorosa narrata in prima persona. Il Redeme, al pari della Consolazione
di Boezio, è un prosimetro, cioè un’opera che alterna con equilibrio prosa e versi, con la particolarità
che i versi vennero musicati dallo stesso Machaut.
89

risultasse, per così dire, ‘restaurata’.” Entro queste premesse metodologiche si realizza
lo studio della Restani sulla musica humana di Boezio, che fino ad ora ha approfondito
temi con-testuali quali ad esempio il confronto fra l’interesse musicale di sovrani quali
il goto Teodorico, il macedone Alessandro Magno e il romano Adriano26; lo studio dei
testi, non necessariamente di carattere musicale, che circolavano all’epoca a Roma che
possano ricostruire l’estetica del De musica27; le pratiche musicali ravennate studiate
anche tramite l’analisi dell’iconografia tra V e VI secolo28; o ancora, la ricerca del
concetto di musica humana in trattati, medici e non, che parlassero di embriologia29…

III.3.3 – Musica mundana

Volendo procedere alla stessa maniera della musica humana, presentiamo prima il
tema per come ce lo trasmette Boezio in I.2 della sua opera, quindi leggiamo le pagine
del trattato di Tolomeo.
La descrizione di Boezio della musica del mondo è un po’ più lunga di quella della
musica umana. Viene proposta una tripartizione della musica mundi30: la musica del
mondo è quella che possiamo cogliere dal movimento degli astri, dall’insieme degli
elementi e dalle varietà delle stagioni. Il movimento degli astri è il più importante,
perché “nulla si può intendere ugualmente organizzato, nulla che sia allo stesso modo
intimamente ordinato” (Ibid.). Questo movimento è composto da corsi circolari di al-
tezza diversa, che nelle loro differenze generano ordine e stabilità, esattamente come
le note udibili tra di loro. La stessa armonia determina però anche gli elementi che nel
mondo si fondono per creare anche organismi di rarissima complessità: essi sono quat-
tro, probabilmente i quattro elementi empedoclei aria, fuoco, acqua e terra. Questi or-
ganismi che si vengono a creare costituiscono però un unico grande sistema di am-
biente, fauna e flora in cui i vari termini si armonizzano nelle loro differenze. Infine,
la stessa armonia è osservabile nei cicli delle stagioni: “Ora, tutta questa diversità ge-
nera varietà di stagioni e di frutti, tale tuttavia da configurare un unico complesso,
quello dell’anno”, in cui “ciò che l’inverno congela, la primavera lo scioglie, l’estate

26 Restani, Donatella, 2004.


27 Restani, Donatella, 2007.
28 Restani, Donatella, 1997.
29 Restani, Donatella, 2016.
30 Tripartizione che tra l’altro troverà grandissimo eco nei secoli dal VII al XII (per approfondire v.

Chamberlain, David, Philosophy of Music in the Consolatio of Boethius, in Speculum, Vol. 45, 1970,
pag. 87).
90

l’asciuga col calore, l’autunno porta a maturazione”. Se si toglie, con un esperimento


mentale, un termine da qualsiasi armonia delle tre, essa cessa d’esistere31. Allor stesso
modo, continua Boezio, se uno di quelli dovesse prevalere sugli altri per via della sua
eccessiva potenza, si sgretolerebbe tutto quanto l’ordine.
Una annotazione particolare viene fatta per il movimento degli astri. Boezio si chiede,
con stupore, come faccia “la così veloce macchina del cielo” a muoversi “con tacito e
silenzioso corso”32? La risposta di Boezio è che in realtà questa macchina genera dei
suoni veri e propri che non giungono però al nostro udito. Quest’argomento viene ap-
profondito alcuni paragrafi più avanti, in I.27 del De musica, con la comparazione di
due teorie differenti: la prima, di Boezio, forse mutuata dall’Opus maius di Nicomaco,
e la seconda tratta dalla Repubblica di Cicerone33. Ad ogni pianeta viene associata una
corda della cetra, organizzando due tetracordi34 (cioè due gruppi di quattro note for-
manti una quarta giusta) disgiunti (cioè separati da un tono intercalare, tra la Mese e la
Trite synemmenon, detta Diazeuxis) che oggi suonerebbero come una scala minore
naturale di ottava35. Le corde, per come vengono trattate in I.25 sono:

Hypate meson I
Primo tetracordo – Parhypate meson II
Meson Lichanòs meson III
Mese IV
Trite synemmenon I
Secondo tetracordo – Paranete synemmenon II
Synemmenon Nete Synemmenon III
Paramese IV

31 Quest’attenzione verso la fragilità dell’ordine costituito e la coscienza che oltre ad essere deve anche

continuare ad essere in qualche modo, la si ritrova nella Consolazione in tantissimi punti. V. eg IV.m.vi
“quegli elementi che ora l’ordine stabile tiene insieme, / separati dalla loro fonte, si dissolverebbero.” e
II.m.8 “ma se esso [amor] allentasse i suoi freni, / tutti gli esseri che ora si amano tra loro / si farebbero
immediatamente la guerra / e gareggerebbero per distruggere / il meccanismo che ora concordemente /
animano con la loro meravigliosa attività.”
32 “Tacito silentique cursu” (Ibid.)
33 Del VI libro (perduto) del De Republica di Cicerone ci resta il Somnium Scipionis, pervenutoci attra-

verso il commentario di Macrobio.


34 Esistono cinque tipi di tetracordi: hypaton, meson, synemmenon, diezeugmenon e hyperboleon.
35 Costituita dagli intervalli T – S – T – T – S – T – T, come La – Si – Do – Re – Mi – Fa – Sol.
91

I pianeti vennero organizzati da Boezio in questa maniera:

Corde: Ordine dei pianeti secondo Boezio:


Hypate meson Saturno
Parhypate meson Giove
Lichanòs meson Marte
Mese Sole
Trite synemmenon Venere
Paranete synemmenon Mercurio
Nete Synemmenon Luna

Il principio seguito da Boezio fu quello di paragonare le orbite dei pianeti alla lun-
ghezza delle corde: maggiore è l’orbita di un pianeta, più grave sarà il suo suono. Sa-
turno allora, avente l’orbita maggiore, corrisponderà alla nota più grave dei due tetra-
cordi, cioè all’hypate meson. Così, avvicinandosi alla terra, i suoni si disporranno in
ordine ascendente costituendo una scala minore naturale.
Molto diversa sarà invece la proposta di Cicerone. Secondo Boezio, Cicerone parti-
rebbe da un presupposto alternativo: non è la lunghezza dell’orbita a doversi parago-
nare alle corde, bensì la sua velocità. La Terra, quindi, nella sua immobilità, rappre-
senta il silenzio, e la Luna, sua prossima, la nota più grave di tutti i tetracordi: la pro-
slambanomene. I tetracordi considerati, allora, non sono più il meson e il synemmenon,
bensì i più gravi: l’hypaton e il meson.
Corde: Ordine dei pianeti secondo Cicerone:
- Terra
Proslambanomene Luna
Hypate hypaton Mercurio
Parhypate hypaton Venere
Lichanòs hypaton Sole
Hypate meson Marte
Parhypate meson Giove
Lichanòs meson Saturno
Mese Cielo delle stelle fisse
92

Si può vedere bene dunque che per Cicerone l’andamento è contrario: se per Boezio
avvicinandosi alla Terra le note si fanno più acute, descrivendo un ordine ascendente,
per Cicerone è l’esatto opposto.
Il modello prediletto da Boezio è lo stesso che poi diventerà canonico per tutto il Me-
dioevo e che seguirà anche Dante. Nonostante abbiamo detto che nel primo libro Boe-
zio si attenne ad una pressoché fedele compilazione del Manuale armonico di Nico-
maco, se confrontiamo lo schema planetario che il geraseno descrive nel III capitolo36,
si può notare una differenza. Si veda lo schema sotto:

Corde: Ordine dei pianeti secondo Boezio:


Hypate meson Saturno
Parhypate meson Giove
Lichanòs meson Marte
Mese Sole
Trite synemmenon Mercurio
Paranete synemmenon Venere
Nete Synemmenon Luna

Nicomaco scambiò il posto delle orbite di Venere e Mercurio, ricadendo in un errore


che diede adito a molte ipotesi sulle cause. Pizzani37 pensò che la disposizione nico-
mechea rappresentasse una fase intermedia dello studio astronomico, in cui, a diffe-
renza del Timeo platonico38, si era capito che il sole occupasse una posizione interme-
dia, ma non si era ancora fatta chiarezza sull’effettivo ordine dei pianeti. La divergenza
ci fa intuire dunque quanto deve essere stata lunga e travagliata la storia dello sviluppo
delle conoscenze astronomiche, ma a causa dell’esiguità delle fonti non possiamo ri-
costruirne le fasi precise. Un’altra sottigliezza risiede invece nell’ordine ciceroniano
per come lo propose Boezio. Pizzani parlò (Ibid.) di un “grave equivoco in cui Boezio
è caduto, equivoco che egli avrebbe certamente evitato se avesse letto il brano cicero-
niano nella sua integrità”. Se è giustissima infatti, spiega il Pizzani, la contrapposizione
ascendente/discendente tra Nicomaco e Cicerone, decisamente errata risulta l’aggiunta

36 Nicomachus, op. cit., pag. 45-46.


37 Op. cit., pag.63-65
38 B. Ibid. Pizzani, in cui si spiega che nel Timeo alla sfera della luna faceva subito seguito quella del

sole, seguita, a sua volta, da quella degli altri pianeti.


93

dell’ottavo suono delle stelle fisse (mese). Poco dopo il brano riportato, infatti, Cice-
rone affermò: “illi autem octo cursus, in quibus eadem vis est duorum, septem efficiunt
distinctos intervallis sonos”.39
Nell’Armonica di Tolomeo, fonte da cui, secondo Bower40, Boezio compilò il mancato
approfondimento sulla musica mundi, si tratta dell’argomento nei capitoli dall’8 al 16
del III libro.
In III.8 Tolomeo associa una corda ad ognuno dei 12 segni del circolo dello zodiaco41;
III.9 dimostra, per mezzo di corde che congiungono i vari segni tra di loro, che le stesse
relazioni musicali di consonanza e dissonanza si generano all’interno del circolo dello
zodiaco sotto forma di “congiunzione” e “incongiunzione”; III.10 vuole trovare un
legame tra il moto dei corpi celesti e quello delle note, individuando tre coppie di moti,
che vengono studiate fino a III.12; III.13 paragona i tetracordi e i toni agli aspetti degli
astri in relazione al sole, come tramonti e levate eliaci42, apparizioni di pianeti e pleni-
luni; da III.14 a III.16 non abbiamo il testo originale di Tolomeo, ma una riformula-
zione di Niceforo Gregora (c. 1295-1360). Confrontando i contenuti dei due testi, non
sembra ci siano nessi particolari tra quanto Boezio dice in I.2 e I.27 e Tolomeo in III.8-
16. Sembra piuttosto che ci siano più similitudini con il Manuale di Nicomaco di Ge-
rasa, per via delle quali è più facile pensare, con il Pizzani43, che Boezio avrebbe potuto
riferirsi più al perduto Opus maius del geraseno che all’Armonica di Tolomeo44.

39 Che tra l’altro ricorda molto una svista che farà a IV.15, attribuendo a Tolomeo l’aggiunta di un tono
ai sette tolemaici, l’ipermisolidio, quando in realtà Tolomeo aveva dichiaratamente scartato per la sua
superflua presenza (V. Pizzani, op. cit.).
40 Si noti che secondo Pizzani quest’argomento deve essersi appoggiato o al perduto Opus maius di

Nicomaco, o a uno o più trattati latini, anch’essi perduti, tra cui il trattato di armonica di Albino, autore
che venne citato da Boezio in I.26 del De musica.
41 Riportiamo il disegno che Massimo Raffa trae dall’edizione di Düring (Raffa, M., op. cit., pag. 286).

42 Sono i momenti in cui un astro diviene visibile o invisibile, a seconda che la sua luminosità sia o

meno coperta da quella del Sole.


43 Pizzani, Ubaldo, op. cit.
44 La corrispondenza suono-cosmo non si esaurisce nel mondo antico, trovando in Keplero uno degli

ultimi testimoni di questa convergenza. Nell’Harmonices Mundi, si può apprezzare un pentagramma


nel quale Keplero associa un suono ad ogni pianeta sulla base dei rapporti della propria orbita. Per ap-
profondimento, v. Di Stefano, Nicola, op. cit., pag. 58-61.
94

III.4 – La filosofia della musica nella Consolatione

Nel 1970 David Chamberlain pubblicò un articolo intitolato Philosophy of Music in


the Consolatio of Boethius1. La tesi proposta da Chamberlain trovò grandi consensi
all’epoca, vedendosi elogiata dalla monografia di Chadwick, il quale la definì “illumi-
nanting”2. Anche oggi la suddetta tesi trova apprezzamento ad esempio negli scritti
della Panti3 o nella bibliografia essenziale dell’edizione della Consolazione di Chri-
stine Mohrmann4.
I motivi dell’importanza di questo scritto di Chamberlain sono innumerevoli, ma in
generale la sua fortuna è dovuta al fatto che poté gettare nuova luce sull’interpretazione
della Consolazione e del De musica intrecciandone i temi. In effetti entrambi i testi di
Boezio hanno un tema in comune: la musica, quindi perché non vederli in una linea di
continuità pensando che la Consolazione non faccia che sviluppare, con un approccio
più maturo, le questioni aperte nel De musica, soprattutto quelle che riguardano i tre
tipi di musiche. Come e se, questi tipi di musiche vengano presentate nella Consola-
zione sono le domande a cui Chamberlain tentò di rispondere.
La musica strumentale è presente esplicitamente nei vari metri del prosimetro, i quali
molto probabilmente erano pensati per essere cantati con l’accompagnamento di uno
strumento a corda5: “Con quante briglie governi le cose / la natura potente, con quali
leggi conservi, / provvida, l’universo immenso / e renda compatti i singoli elementi,
stringendoli / con nodo indissolubile, m’è gradito ora di esporre / con armonioso canto
sulle corde flessibili della lira”6. O ancora, nella prima prosa del secondo libro, in cui
la Filosofia presenta le due donne che, facendo assaporare “qualcosa di delicato e pia-
cevole” allo sfortunato Boezio, possano penetrare nel suo intimo per aprire “la via a
bevande più efficaci”, la musica viene definita “ancella della mia casa [della Filoso-
fia]”, ma soprattutto colei che suona “accordi motivi [modus] ora leggeri [leviores],

1 Chamberlain, David, Philosophy of Music in the Consolatio of Boethius, in Speculum, vol. 45, 1970,
pag. 80-97
2 Chadwick, Henry, op. cit., pag. 296.
3 Panti, Cecilia, op. cit.
4 Boezio, Severino, La consolazione della filosofia, ed. in bibl. (d’ora en poi CF), pag. 39. Ogni riferi-

mento ad un passo della Consolazione verrà fatto scrivendo in ordine il libro in numeri romani, “pr.”
nel caso si tratti della prosa e “m.” in caso si tratti di un metro, quindi il numero del capitolo in numeri
arabi.
5 Il Dott. Sam Barret dell’Università di Cambridge ha ricostruito, basandosi su un manoscritto dell’XI

secolo, una possibile melodizzazione dei metri della Consolazione. La prima rappresentazione dei canti
avvenne il 23 aprile 2016.
6 CF, III.m.2, pag. 187.
95

ora gravi [graviores]”. È chiaro dunque il ruolo assolutamente positivo della musica
che, scrive in IV.pr.6 (pag.311), consiste nel dare “piacere”, “sollievo” e “pause di-
stensive” allo svolgere rigoroso degli argomenti logici. La questione però non finisce
qui: come nel De musica Boezio distinse, come fece Platone, generi di musica “buoni”
da quelli “cattivi”, così nella Consolazione sembra vedersi ripresa la stessa distinzione.
In DM I.1, Boezio parla di musica “effemminata”, “dissimile”, “odiosa”, “aspra” …
Mentre qui nella Consolazione abbiamo non solo la presenza di descrizioni delle mu-
siche dette delle “sgualdrine teatrali” o delle “Sirene”7, ma anche un vero e proprio
esempio pratico di questo tipo di musiche. Il primo metro è, infatti, nel suo “mestus
modos” (Ibid.), rappresentazione vivida di un’elegia “effemminata”, che tanto il De
musica quanto la Filosofia della Consolazione condannano. È interessante notare come
non sia Boezio ad accorgersi del suo errore, bensì la Filosofia. Secondo il De musica,
infatti, esistono tre tipi di musici8: lo strumentista è un “servo”, è abile nel saper suo-
nare il suo strumento ma che non conosce nulla della scienza armonica; il compositore
o il poeta, che applica le conoscenze della scienza armonica senza saperlo, “mosso da
un istinto per così dire naturale”; infine ci sono i critici, cioè coloro che padroneggiano
la scienza armonica e che in virtù di questa competenza possono giudicare con criterio
esecuzioni e composizioni. Sottolineando così la propria impostazione fortemente eli-
taria, Boezio aggiunse che solo i critici possono essere considerati veri musici, perché
gli unici che sanno padroneggiare razionalmente la disciplina. Stando così le cose, al-
lora, nella Consolazione il vero musico è la Filosofia in quanto riconosce il genere di
musica con cui si presenta Boezio, avvilito dal tragico rapporto con Teodorico, e gliene
propone uno più consono al quel rinvigorimento dello spirito che come sappiamo av-
verrà per somministrazione di farmaci, dai più leggeri ai più forti.
Per quanto riguarda la musica mundi, essa non viene espressamente citata, come la
musica strumentale, ma presenzia implicitamente nelle stesse partizioni che Boezio
aveva presentato fugacemente nel De musica. Lo si può vedere bene a II.m.8:

7 Chamberlain, David, op. cit., pag. 85.


8 DM I.34.
96

Ci sono un paio di differenze interessanti da far notare rispetto al De musica. Qui, nella
Consolazione, innanzitutto, la musica delle sfere celesti non produce alcun suono, o
almeno non ne viene mai fatta menzione. Si parla solo della meraviglia che si può
godere quando si contempla il principio razionale che governa il firmamento, contrap-
posta alla bellezza caduca delle cose quando considerate per quello che mostrano su-
perficialmente, o ai sensi9. La seconda differenza risiede in una quarta manifestazione
della musica mundi, non presente nel De musica, che vede l’entrata in scena dell’amore
(amor). Lo stesso metro di cui abbiamo citato prima una parte, il II.m.8, il quale chiude
il secondo libro, si conclude con un monito di Boezio:

“[…] Ma se esso [amor] allentasse i suoi freni,


tutti gli esseri che ora si amano tra loro
si farebbero immediatamente la guerra
e gareggerebbero per distruggere
il meccanismo che ora concordemente
animano con la loro meravigliosa attività.

9 CF, III.pr.7.
97

È sempre l’amore che con santi vincoli


Mantiene uniti i popoli,
è lui che dai casti affetti
intesse il sacro vincolo del matrimonio,
lui che detta le sue leggi di fedeltà tra gli amici.
Oh, felice genere umano,
se i vostri animi fossero governati
da quell’amore che governa il cielo!”

L’amore umano, che si declina in amore tra le persone in tempo di pace, in amore tra
sposi e amore tra amici, deve imitare quell’armonia nascosta che ordina il cosmo, cioè
quella musica mundi di cui aveva già parlato nel De musica. Visti l’esempio della mu-
sica strumentale e di quella celeste, già si può concludere che mentre questi temi ven-
gono affrontati seguendo un taglio razionalistico e matematico nel De musica10, nella
Consolazione vi si aggiungono temi etici. Oltre a questi temi, che vogliono indirizzare
il comportamento dell’uomo con sé stesso, con il mondo e con i suoi simili, la Conso-
lazione aggiunge anche temi metafisici. In particolare, la musica mundi, in III.pr.12
diventa una prova dell’esistenza di Dio11 e in IV.m.6 la stessa musica risponde al pro-
blema dell’esistenza del male12.
Se la musica strumentale è esplicita nella Consolazione e la musica celeste è presente
indirettamente tramite nelle sue manifestazioni, la musica dell’uomo è solo implicita.
Può essere intuita a con una certa interpretazione di V.m.4, in cui la Filosofia senten-
zia: “Quando la luce colpisce gli occhi, / o la voce risuona alle orecchie, / l’energia
della mente, allora, stimolata, / richiamando a un’attività assimilatrice / i principi uni-
ficanti racchiusi al suo interno, / li applica alle impressioni ricevute dall’esterno, / in-
tegrando le immagini acquisite / con le ‘formÈ radicate al proprio interno”. Le

10 Se si escludono gli approfondimenti etici della musica in I.1 del DM.


11 “Questo mondo, formato da parti tanto disparate e contrastanti, non si sarebbe mai potuto raccogliere
in un organism unitario, se non ci fosse stato un essere dotato di unità, capace di riunire tra di loro cose
tanto diverse” (pag. 251).
12 “Se vuoi, sagace, indagare con la mente pura / le leggi dell’eccelso Tonante, / guarda le altezze del

sommo cielo; / là, per la perfetta armonia dell’universo, / le stelle conservano l’antica pace” (pag. 327).
Questo metro è interessante anche perché riporta un’altra volta (cfr. II.m.8) la tripartizione della musica
mundi, riportando esempi molto simili in DM I.2 per quanto riguarda le stagioni. Si confronti infatti:
“Per queste cause, al tepore della primavera, / la stagione fiorita spira i suoi profumi, / l’estate torria
dissecca le messi, / ritorna poi l’autunno carico di frutti, / e l’inverno è inondato dagli acquazzoni scro-
scianti.” (CF), con: “Infatti, ciò che l’inverno congela, la primavera scioglie, l’estate asciuga col calore,
l’autunno porta a maturazione”.
98

reconditae formae radicate all’interno della mente, nel caso dell’audizione sonora, sa-
rebbe proprio quella musica humana che ricordiamo può cogliere chiunque si rivolga
in sé stesso. Tutti questi temi generano un riferimento obbligato al De musica di Ago-
stino. Nello scritto musicale del Vescovo di Ippona, opera di straordinaria importanza
musicologica e filosofica, è presente una raffinatissima teoria della percezione, che
vuole studiare in particolare come i suoni vengono percepiti dall’orecchio, incassati
nella memoria, usati, riconosciuti e infine giudicati. Il puntum saliens di quest’opera
risiede nel dimostrare che il fenomeno musicale non è esteriore, bensì atto intenzionale
dell’uomo, cioè un suo protendere verso l’armonia. Ciò è possibile perché in noi sono
presenti dei numeri, divisi in quattro specie, che usiamo per svolgere le attività sopra
elencate. Dunque, Agostino quanto Boezio, condivide la teorizzazione di forme recon-
dite e interne all’uomo che ci permettono di apprezzare i suoni provenienti
dall’esterno: Agostino parla di numeri dell’anima, Boezio di “coaptatio”, di “com-
pago”, “temperies”, di “foedus perpetuum”... Chamberlain, nel suo saggio sopracitato,
fa notare anche che se si considera la definizione boeziana di musica umana per cui
essa è concordia tra parte irrazionale e razionale dell’anima (DM), allora si potrebbe
dire che tutta la Consolazione sia una ricerca di questa musica umana. Boezio, infatti,
non fa che farsi aiutare dalla Filosofia per passare da irrazionale soccombente della
Fortuna a uomo dotato di ragione, che potrebbe significare proprio la ricerca di questa
musica interiore.
Ultima e forse più interessante passo che fece Chamberlain, creando forte consenso,
fu la proposta della presenza di un quarto tipo di musica nella Consolazione, che pro-
babilmente Boezio avrebbe aggiunto alle tre classiche del De musica se avesse scritto
l’opera anni dopo. Questo nuovo tipo di musica consisterebbe nella divina musica che
esiste in Dio e da cui creò tutte le altre musiche di cui abbiamo finora parlato. L’autore
dello Speculum Musicae, probabilmente Jacobus di Liegi, introdusse esplicitamente la
divina musica attribuendola alla Consolazione di Boezio13. È in effetti quasi necessario
che Dio possegga le forme perfette delle musiche del mondo, dell’uomo e degli stru-
menti: in Lui infatti sono presenti tutte le forme perfette del creato. Una volta che le

13Jacobus di Liegi è l’autore di riferimento di Mainoldi (op. cit.). All’interno del suo Speculum Musicae
Jacobus divide la musica divina in due tipi: quella di santi e angeli (coelestis), e quella di Dio (divina).
La musica di Dio è inudibile e incorpora “tutte le proporzioni, tutte le concordie, tutte le consonanze,
tutte le melodie e tutto ciò a cui la musica si riferisce”.
99

musiche furono portate in essere per imitazione delle forme divine14, per mantenersi
presenti nello spazio e nel tempo richiesero una continua attività da parte della trascen-
denza. Questa continua attività di Dio, che permette alla musica del mondo di mante-
nersi viva, viene chiamata da Boezio “amore reciproco”, “amore ricambiato”, “con-
cordia”, creando un’associazione poetica tra ordine del cosmo e amore di Dio che tro-
verà grande fortuna nei secoli successivi15.
Concluso questo sintetico excursus sull’importante saggio di Chamberlain, si vuole
aggiungere una piccola critica. A cavallo tra la pagina 80 e 81 del suddetto articolo, si
legge: “The origin of music, Boethius tells us in De arithmetica, is God Himself, and
His means of creating it is exemplarism from the unchanging laws of number in His
mind”. È questo il germe che fece incappare Chadwick “nell’errore” di riconoscere in
questi manuali quadriviali di Boezio temi religiosi assolutamente estranei alla loro im-
postazione (v. II.2 di questa tesi). Perché parlare di Dio in un contesto quale il De
arithmetica? Nel paragrafo intitolato “Il concetto di proporzione” (III.2) abbiamo esa-
minato in cosa consista il principio unitario che dovrebbe guidare la Kunstwollen di
Boezio e, per quanto sia stata alta la tentazione di parlare di Dio in quanto Uno, o in
quanto unità delle differenze, si è preferito mantenere fede alle ricerche dei filologi
riconoscendone l’impronta genuinamente neopitagorica. Le “unchenging laws of num-
bers” sono e rimangono un fatto aritmetico, assolutamente penetrabili dalla ragione e
anzi sue più proprie possibilità. È plausibile e sicuramente affascinante la ricostruzione
di una filosofia della musica della Consolazione, ma c’è un limite al legame che
quest’opera matura intrattiene con i giovanili trattati di aritmetica e musica. Si vuole,
cioè, così sottolineare la distanza di impostazione e di profondità filosofica tra
un’opera come il De musica e una come la Consolazione. In un certo senso, si sente
qui il dubbio, se si esagera nella direzione impostata da Chamberlain, di violare una
massima straussiana il cui senso generale è: c’è differenza tra il proprio voler prevalere
storiograficamente tra i colleghi e la comprensione effettiva del pensiero dei grandi
scrittori del passato16.

14 CF III.m.9: “O tu che governi il mondo con stabile norma, / creatore della terra e del cielo, […] / tu
derivi tutto quanto / dal divino modello, e, bellissimo tu stesso, concepisci bello / nella mente del mondo,
formandolo a tua immagine, / imponendo a parti perfette di condurre a compimento un tutto perfetto”.
15 Per approfondire v. Chamberlain, david, op. cit., pag. 96.
16 L.Strauss, Persecution and the art of Writing, Free Press, 1952.
100

Conclusione - Il problema musicologico dei modi

Molti fra gli studiosi moderni citati finora accennano al problema dei modi in Boezio1.
La questione, assai complicata, consiste in buona sostanza nella maniera in con cui nel
IX secolo si rilessero alcuni capitoli del De musica di Boezio e le conseguenze musi-
cologiche che scaturirono proprio da questa lettura. Durante il IX l’Europa stava vi-
vendo un articolato processo di riforma culturale promosso dalla corte di Carlo Magno,
chiamata a volte “rinascenza carolingia”, la quale investì anche la teoria musicale de-
finendo una volta per tutte il repertorio liturgico. Nasce quindi la pratica di stendere la
musica su carta e con essa nuove regole di sistemazione del vastissimo repertorio, detto
sistema “modale”.
Questo sistema modale, che perdurerà almeno fino a Bach (che scrisse una fuga BWV
538 che chiamò Dorica)2, consiste strutturalmente nell’organizzazione degli intervalli
musicali in otto scale d’ottava, quattro dette “autentiche” (protus, deuterus, tritus e
tetrardus, conosciute anche con i nomi greci dorico, frigio, lidio e misolidio) e quattro
dette “plagali” (il cui nome è designato dal prefisso ipo: ipodorico, ipofrigio, ipolidio
e ipomisolidio). I modi plagali si estendono una quarta sotto rispetto al relativo modo
autentico3. Ogni scala ha due note importanti che la caratterizzano: la finalis, comune
al modo autentico e al rispettivo plagale, e il tenor (o repercussio), a distanza di III o
di V dalla finalis e nota intorno alla quale tende a ruotare la melodia. Si esamini l’esem-
pio sotto:

1 Panti, Cecili, op. cit., pag.104 (“la questione della presunta derivazione greca dei modi gregoriani è
stato un tema di grande dibattito musicologico”) e 145 (“non ci soffermiamo sulla questione, se non per
ribadire che l’origine dei modi gregoriani è uno degli argomenti più dibattuti della musicologia sto-
rica”); Chadwick, Henry dedica un paio di pagine all’argomento, 98-99 dell’ediz. inglese, 135-137 di
quella italiana (v. bibliogr.); Marzi, Giovanni, nell’Introduzione all’edizione italiana del De musica, ne
parla a pag. 64-65, sottolineando la fragilità del discorso boeziano nei capitoli dedicati alla questione
dei tropi tolemaici; Mainoldi, Ernesto, op. cit., ne parla a più riprese a pag. 108, 148 e 197;
Pizzani, Ubaldo, op. cit., pag. 128: “I rimanenti quattro capitoli del quarto libro (15-18) contengono la
tanto denigrata e vilipesa esposizione della dottrina dei tropi o scale di trasposizione”.
2 Questo sistema modale verrà utilizzato anche, risemantizzato, nel moderno e anche nel dopoguerra

(Oliver Messiaen, 1908-1992, ad esempio propose un sistema modale detto a trasposizione limitata).
3 V. schema riassuntivo in Appendice (Tabella 2) per l’elenco dei modi.
101

Folio con incisione su rame ad inchiostro a due colori del 1613.


“Respice in me”, introito gregoriano nel VI modo in notazione quadrata.

Ad inizio di ogni tetragramma si può notare un segno che si ripete: quella è la chiave
di Fa, ed indica appunto su che linea si trovi la nota Fa. L’Antifonario ci dice che
questo introito gregoriano è nel VI modo (quindi è ipolidio), infatti si possono indivi-
duare il Tenor: Do e la Finalis: Fa seguendo l’andamento melodico complessivo. Pur-
troppo, però, non sempre è facile riconoscere il modo di un brano: spesso le melodie
sembrano uscire dalla griglia rigorosa che abbiamo esposto, portando a pensare che il
sistema modale sia più un abito indossato con la forza da una pluralità di repertori di
tradizione locale che la fedele definizione teorica di una prassi precostituita. Si vuole
quindi dimostrare come il sistema modale, che caratterizzò un’epoca straordinaria
della pratica musicale, sia frutto di una forzata conciliazione del testo boeziano (teoria
greca), dell’octoechos bizantino (struttura liturgica orientale) e del canto liturgico
(prassi esecutiva).
102

Attestato fin dal V-VI sec., l’octoechos era diffuso nella liturgia orientale come orga-
nizzazione delle formule sacre d’intonazione (echemata) che, verso l’VIII secolo, ven-
nero organizzate in otto domeniche successive. Ad ogni domenica corrispondeva un
insieme di testi intonati tutti sullo stesso echema, e ogni otto settimane si ricominciava
da capo il ciclo liturgico. I teorici carolingi, che conoscevano sia questi echoi bizantini
sia gli otto modi che Boezio presentò in DM IV.15-17, si sentirono legittimati ad assi-
milarli, in virtù del fatto che “Echos” si latinizza con “Modus”, termine col quale Boe-
zio rese il termine “Tropus” di Tolomeo4. Nonostante l’octoechos bizantino non avesse
nulla a che fare con i modi occidentali5, venne ripresa la distinzione in quattro scale
autentiche e plagali presente nell’octoechos (che distingue tra echos e echos plagios)
e venne trapiantata nell’organizzazione degli otto modi boeziani6.
In cosa consistono questi otto modi boeziani? Per poterli capire bisogna prima spiegare
cosa fossero le “specie di consonanze” (v. III.3 nota 18), perché è da esse che vengono
a costruirsi. Preso in considerazione il sistema perfetto greco (Cfr. III.2 nota 6) “nel
genere diatonico, se disponiamo il tetracordo diezeugmenon tra l’hyperbolaion e la
mese, previa eliminazione del tetracordo summenon, avremo un complesso di 15
corde; eliminando la proslambanomene, ne restano 14” (DM IV.14). Dopo aver ribal-
tato il sistema così costituito da discendente ad ascendente7 ed aver associato ad ogni
nota una lettera dell’alfabeto latino, si ha questo schema8:

4 O “Tonoi” del trattato di musica di Gaudenzio, direbbe il Pizzani (op. cit., pag. 128).
5 La scala bizantina non è diatonica e usa intervalli che possono variare da un sensto di tono a due toni.
6 In cui è presente una distinzione terminologica data dal prefisso ipo- e iper- (distingue tra dorico e

ipodorico, frigio e ipofrigio…).


7 La teorizzazione musicale greca ragionava sempre per scale discendenti. La curiosa preferenza di

Boezio di un sistema ascendente può aver modificato tutto il modo di pensare la musica in Occidente:
tutt’oggi quando pensiamo ad una scala pensiamo agli intervalli Do-Re-Mi-Fa-Sol-La-Si, non Do-Si-
La-Sol-Fa-Mi-Re.
8 Che nelle edizioni manoscritte viene presentato con i nomi greci delle note, in questo modo (schema

tratto da Ubaldo, Pizzani, op. cit.):


103

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Da esso Boezio trasse tutte le specie di consonanze considerando semplicemente gli


intervalli tra le lettere: per la IV (diatessaron) avremo G-D, F-C e E-B9; per la V (dia-
pente)
H-D, G-C, F-B e E-A10; infine per l’VIII (diapason) O-G, N-F, M-E, L-D, K-C, I-B e
H-A. In nessun caso Boezio chiamò “modi” le specie di ottava (né le diede alcun nome
come dorico, frigio, lidio… Le numerò solo: primam, secundam, tertiam…), ma la
sintesi franca del IX secolo si sentì legittimata a chiamare “modi” le specie di ottava
di Boezio, con la differenza sostanziale che si considerarono gli intervalli ascendenti
e a partire dalla proslambanomene (la nota più grave) e non più discendenti come fece
ancora Boezio.
È da queste specie che Boezio trasse i propri otto modi in DM I.15, che sono una cosa
ancora diversa dalle specie. Scrisse, infatti che “dalle varie specie d’ottava hanno ori-
gine i modi, o, come altri li chiamano, tropi o toni. I tropi sono disposizioni fisse dello
schema sonoro, varianti solo per gravità e acutezza”. Sono semplici “gradi di traspo-
sizione”, o “tonalità”, se vogliamo usare un termine improprio ma molto vicino alla
nostra sensibilità. In pratica Boezio prese il sistema teleion (come lo si può apprezzare
nella figura sopra) e lo chiamò modo ipodorico. Tale modo ipodorico è caratterizzato
da una distribuzione intervallare che si ripete per due ottave ascendenti (La-La):
T – S – T – T – S – T – T. A questo punto (qui Boezio non è per niente chiaro) ricalcò
le distribuzioni intervallari delle specie d’ottava11 rimanendo però entro lo stesso

9 Le altre combinazioni sarebbero solo delle ripetizioni di queste tre: ad esempio D-A è caratterizzata
dagli intervalli
T-T-S, cioè gli stessi di G-D (G-D e D-A, insomma, sono della stessa specie, la I).
10 Questa specie E-A è assente nel trattato di Tolomeo in virtù della sua dissonanza molto forte: Fa – Si

discendente è anche per noi un intervallo molto forte, di V diminuita, detto anche “tritono” e dai me-
dievali “intervallo del diavolo”. Il Pizzani pensò che qui Boezio “tentò di variare dalla sua fonte, an-
dando però completamente fuori strada”.
11 Si confronti la tabella 3 in Appendice: gli intervalli che caratterizzano la prima specie di ottava sono

gli stessi del modo ipodorico, con l’unica differenza bisogna leggerli al contrario perché se le specie
sono discenti, i modi sono ascendenti; così gli intervalli della seconda specie corrispondono al modo
ipofrigio: si noti che in questa maniera si è in grado di eseguire una melodia scritta nella seconda specie,
non necessariamente entro la doppia ottava Sol-Sol, ma sempre all’interno della doppia ottava del si-
stema perfetto La-La. Ciò permette, in pratica, di suonare melodie diverse nella stessa estensione, come
104

registro di doppia ottava del sistema perfetto. Si costituiscono, quindi, sette modi
dall’ipodorico al missolidio, ai quali venne aggiunto da Boezio l’ottavo modo, l’iper-
missolidio, di fatto uguale all’ipodorico, ma utile per concludere il ciclo.

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Secondo gli studi sulle fontes del De musica, Boezio riprese quest’argomento dei modi
dagli Harmonika di Tolomeo, il quale però ne parlò in maniera molto diversa. Il risul-
tato è lo stesso in quanto chiamarono con lo stesso nome le stesse otto distribuzioni
intervallari, ma sono presenti tutta una serie di differenze circa il processo con cui si
giunse a tale risultato: 1) Tolomeo non assunse come modello il sistema perfetto, bensì
il modo dorico, che comprende l’ottava di Mi, in virtù della sua comodità di tessitura
da parte di ogni strumento e cantore; 2) costruì i modi spostando la posizione della
paramese e della mese di sopra e di sotto, mantenendo fissi gli estremi; 3) scartò il
modo ipermissolidio in virtù della sua ridondanza rispetto all’ipodorico.12

era necessario all’epoca poter suonare scale differenti con la stessa cetra, accordando in modo opportuno
le corde, che disponeva di un range sonoro definito.
12 Tutto ciò fa pensare che Boezio in realtà non abbia avuto sottomano l’Armonica di Tolomeo per questi

capitoli, bensì o l’Opus Maius nicomacheo (come pensa Bower) oppure (usiamo qui disgiunzioni logi-
che, non esclusive) qualche trattato musicologico latino, come quello di Albino o una versione latina
del trattato di Gaudenzio. È singolare infatti anche che in DM IV.17 Boezio scriva che “questo ottavo
modo [l’ipermissolidio] fu aggiunto da Tolomeo”, proponendo un’apparente contraddizione con l’ori-
ginale testo tolemaico, che come detto supra lo aveva scartato perché uguale all’ipodorico. Marzi spiegò
la cosa appoggiandosi al Pizzani (il quale pensava che Boezio fosse spesso compilatore distratto) e
asserì che “l’attribuzione fu gratuita, nata da una superficiale lettura degli Armonika” (DM pag. 448).
105

Intorno al IX secolo comparvero i primi trattati di teoria musicale dopo il lungo silen-
zio che seguì a Boezio13. Qui si posero le basi per la sintesi tra echoi bizantini e otto
modi boeziani, calcolando innanzitutto le otto specie di ottava a partire, come Boezio,
dal systema teleion, ma ribaltando l’ordine delle specie. Ciò comportò che non solo
l’ordine della scala fosse ascendente, ma anche gli intervalli delle singole consonanze:
questi trattati del IX secolo, insomma, consideravano gli intervalli proslambanomene-
G, A-H, B-I e via dicendo14, non O-G, N-F... Ma non si fermarono qui: queste, che
Boezio avrebbe definito errate specie di ottava, gli intellettuali della rinascita carolin-
gia le chiamarono “modi”, associando ad ognuna di esse il nome di un tono greco, in
questa maniera (v. sotto):

Teoria greca Teoria medievale


(specie del tono) (specie del modo)
II ipofrigio VII missolidio
III ipolidio VI lidio
IV dorico V frigio
V frigio IV dorico
VI lidio III ipodorico
VII missolidio II ipofrigio
I ipodorico I ipodorico

Non è dato sapere se l’errore fu consapevole o meno, ma in questo modo era possibile
far coincidere i primi quattro echoi bizantini con i quattro toni greci privi del prefisso
“ipo-”. Tali quattro modi vennero chiamati “autentici” per distinguerli da quelli

13 De octo tonis, IX sec. (pubblicato come De musica di Alcuino); Musica disciplina, di Aureliano di

Réome, ca. 850; Alia musica, di tre autori ignoti, IX sec.; De harmonica insitutione, Hucbald di Saint-
Amand, fine IX sec.
14 Cfr. schema supra. Si noti nello schema più in basso una sorta di chiasmo tra i modi: a partire dall’ipo-

dorico, che in entrambi ha la stessa distribuzione intervallare, il successivo è il secondo modo per la
teoria medievale e l’ultimo per quella greca, quindi il successivo è il terzo per i primi e il penultimo per
i greci… Questa curiosa disposizione è proprio frutto dell’inversione che i medievali fecero degli inter-
valli di ottava da discendenti (Boezio) ad ascendenti (IX secolo). Perché attuarono quest’inversione?
Non lo sappiamo, ma i motivi potrebbero essere molti: forse il senso ascendente aveva una certa sim-
bologia teologica (v. Mainoldi, Ernesto, op. cit., in cui lega il senso simbolico non solo al movimento
di ascesi dall’immanente al trascendente, ma anche ad una più vasta teoria ontologica di “gusci
dell’ente” e della musica celeste esposta nel De musica di Boezio), oppure gli autori del IX secolo
furono fuorviati dalla notazione latina ascendente (A – B – C… Dall’Hupate hypaton alla Nete hyper-
boleon).
106

“plagali”. A tale sistema, così faticosamente formulato, si adattarono tutti i canti del
repertorio cristiano e la notazione che si diffuse nei decenni successivi sancì la fortuna
del nuovo sistema modale.
Quando nel Rinascimento15 si rilessero i greci, si credette di trovare nei valori etici
attribuiti alla musica dai filosofi (Archita, Platone, Aristotele) il valore etico dei modi
medievali, solo perché veniva usata la stessa terminologia (dorico, frigio, lidio…). In
realtà i filosofi usavano quei nomi per riferirsi a diverse tradizioni musicali16, mentre
i teorici usavano gli stessi nomi per le trasposizioni tonali. Dal momento che il sistema
modale medievale era, in sostanza, una distribuzione degli intervalli all’interno della
scala, il Rinascimento credette che scale diverse potevano esprimere caratteri etici di-
versi, gli stessi di cui parlavano i filosofi. Nacque, così, sulla base di stratificazioni di
errori (consapevoli o meno) la teoria degli affetti e in generale la fortunatissima dot-
trina secondo la quale l’emozione sarebbe un carattere immanente all’oggetto so-
noro17.

15 V. Girolamo Mei, storico e umanista dal XVI secolo che partecipò attivamente alla Camerata dÈ
Bardi. Scrisse un opuscolo, pubblicato postumo nel 1602 a Venezia da Giovanni Battista Ciotti, intito-
lato Discorso sopra la musica antica e moderna, riproducente in buona sostanza la lettera inviata da
Mei e Vincenzo Galilei l’8 maggio 1572. In essa si può leggere (v. Sitografia): “è cosa notissima che,
de tuoni, i mezzani tra l'estrema acutezza e l'estrema gravità sono atti a mostrare quieta e moderata
disposizione d'affetto; e i troppo acuti sono da animo troppo commosso e sollevato, e i troppo gravi da
pensiere abietto e rimesso, nel modo medesimo che il numero mezzano tra la velocità e la tardezza
mostra animo posato, e la velocità concitato, e la tardezza lento e pigro. E insieme è chiaro che tutte
queste qualità così dell'armonia come del numero hanno per propria natura facoltà di muovere affezioni
simiglianti ciascuna a sé”.
16 Cioè il modo “frigio” era il tipo di musica che si suonava in Frigia, il “lidio” in Lidia, e così via…
17 Il genere di domanda che scaturisce da questa questione è: dire che un brano è eg. “triste” significa

dire che genera tristezza a chi lo ascolta o che la tristezza è già presente in qualche modo nell’oggetto
del contenuto apprensionale, in quanto condizione di possibilità del mio (logicamente conseguente)
essere triste? I Rinascimentali si sentirono legittimati, in virtù della lettura congiunta dei greci e di Boe-
zio, di dire che i caratteri etici e affettivi si trovassero già nella musica e solo poi nel soggetto che
percepisce (v. nota precedente). Questa prospettiva è molto interessante e meriterebbe degli approfon-
dimenti dedicati. Circa la relazione filosofica tra emozione e percezione in campo uditivo, si veda la
teoria di Roman Ingarden nel libro di Ingo Schutze, Percezione musicale e riflessione filosofica, ETS,
2007; per uno sguardo d’insieme sull’argomento, si veda in particolare Scaramuzza, Gabriele, Estetica
come filosofia della musica nella scuola di Milano, CUEM, 2012 e Le origini dell’estetica fenomeno-
logica, Antenore edit., 1976.
107

Appendice:

Tabella 1 La dinastia Amala.


108

Tabella 2 Schema tratto da Cattin, Giulio, Storia della musica vol. 1, edt, 1979.

Diapason (VIII)
I T T S T T S T
II T S T T S T T
III S T T S T T T
IV T T S T T T S
V T S T T T S T
VI S T T T S T T
VII T T T S T T S

Tabella 3 Schemi riassuntivi degli intervalli (discendenti) delle specie di VIII.


109

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