Sei sulla pagina 1di 210

paperbacks

Una collana di volumi che con prezzo economico. ma in


una veste puntigliosamente curata nel testo e nel cor·
redo documentario, propone autori classici e moderni,
qual·i recuperi focali della varia radice motivazionale delle
nostre scelte in quanto uomini di oggi. vale a dire uomini­
problema.

paperbacks manuali
La sezione paperbacks manuali intende riunire, aW.interno
d'una iniziativa unitaria ed organica, dei testi specialistici,
redatti in uno stile di alta divulgazione. tali da soddisfare
le esigenze del lettore interessato ad un'.informazione
utile e di sicura scientificità, nei suoi aspetti di massimo
aggiornamento.

Gianfranco Zàccaro
STORIA SOCIALE DELLA MUSICA
Se, come da più parti si lamenta, la cultura musicale
risulta in 'Italia assente a livello di massa, la colpa fon­
damentale non può non essere del mondo musicale
stesso. il quale {anche in considerazione del fatto che,
se non si ·fa musica nei licei. non si ,fa cultura nei con­
servatori: secondo una pacifica divisione del lavoro) aval­
la. promuove e difende la separazione rigida degli àm­
biti specialistici. Le discussioni, le dispute, le battaglie
(anche di alto livello scientifico) di tale mondo. si svol­
gono come se la musica fosse in grado - unica - di
spiegare se stessa e di generare un universo a essa
consonante. l guasti prodotti da questa concezione (che
da ·tempo non ha riscontri nel campo della critica. d'ar­
te, letteraria ecc.) si toccano con mano; mentre rimane
completamente disattesa, salvo rare apprezzabili ecce­
zioni, la richiesta studentesca {ma non solo) di un ap­
proccio al mondo della musica come esempli-ficazione di
tematiche più vaste, le medesime che si incontrano e
si affrontano criticamente nello studio della storia, della
filosofia, della letteratura, delle arti visive.
Rompendo il cerchio asfittico dell'accademismo aristocra­
tico e specialistico, il presente volume si pone come
�pproccio critico ai vari periodi storici, alle idee, alle
lotte, alle contraddizioni che li caratterizzano.

Non una sorta di •riassunto,, di storia della musica,


ma il tentativo di utilizzare la musica stessa, la sua
letteratura critica, per l'approfondimento delle gran­
di tematiche che percorrono la storia e la cultura
dell'Occidente europeo.

Ure 350.0
Desi?,n: Sergio M ala !l (. )
. .
paperbacks.
paperbacks manuali /18
Prima edizione: luglio 1979
© 1979 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
Gianfranco Zàccaro

storia sociale
della nzusica

Newton Compton editori


PREMESSA

Questo scritto nasce per rispondere a una richiesta e per


proporre, senza mezzi termini, una polemica . Se l 'autore riu­
scirà a sviluppare le due questioni in modo tale che la secon­
da, ben lungi dal porsi per amore di se stessa, appaia come
logica e naturale conseguenza della prima, il suo scopo sarà
raggiunto.
Vediamo la richiesta . In qualche liceo sperimentale italiano
(e, per volontà di qualche preside volenteroso, anche in alcuni
licei tradizionali ) , esistono corsi di storia della musica. Questi
corsi - che non vanno confusi con quelli , utilissimi, di
«educazione musicale» che si impartiscono nelle scuole medie
inferiori - hanno portato in evidenza una certa richiesta di
musica . I caratteri di tale richiesta nulla hanno a che vedere
coi problemi che caratterizzano la vita musicale italiana a
livello di critici, di operatori, di istituzioni, ecc. Si tratta,
infatti, di una richiesta orientata (naturalmente : cioè con la
«naturalezza» affermatasi con la consuetudine critica che è
ancora un frutto preziosissimo del « 6 8 » ) in senso critico, che
prescinde del tutto dalla musica organizzata e canalizzata in
senso tradizionale ( teatri d 'opera, concerti, festival, ecc. : e
cultura conseguente) ; che - anzi - sembra porsi a onta
dell 'esistenza di questa organizzazione, di questa canalizzazio­
ne . Intendiamo dire che gli studenti sembrano orientati a
richiedere alla musica, come un'esemplificazione di tematiche
più vaste, le medesime che incontrano, e che affrontano criti­
camente, nello studio della storia, della filosofia , delle arti
visive, della letteratura , ecc.
Questo modo di avvicinarsi alla storia della musica non incon­
tra l 'approvazione degli operatori del settore: critici e musicolo­
gi . Ma non è ancora venuto, da essi, un contributo convinto alla
risoluzione del problema dell'inserimento della storia della
musica nella scuola media secondaria. Si sostiene, da una
parte, che si tratterebbe di un'appropriazione indebita, dal
8 PREME S SA

momento che gli studenti, non conoscendo per lo più la


nomenclatura musicale, nessun diritto hanno di mettere le
mani sul fenomeno . E si fa notare, dall'altra parte, che questo
tipo di approccio è caratterizzato da quel dilettantismo icono­
clasta che è tipico di tutto il movimento studentesco.
Che la nomenclatura sia importante, è un fatto. Ma è
altrettanto vero che la scuola deve formare uomini cultural­
mente e criticamente responsabili, e non si vede per quale
motivo la storia della musica non debba concorrere a quest'o­
pera . Lo studio dell'architettura fa parte, sia pure in modo
insufficiente, dei programmi ministeriali; eppure, non risulta
che gli architetti si siano ribellati dinanzi al fatto che uno
studente di liceo non sarebbe in grado, tecnicamente, di pro­
gettare neanche una cabina di stabilimento balneare. Cioè : le
obiezioni di carattere tecnicistico hanno solo un chiaro, e
comprovato, scopo preclusivo.
Per quanto riguarda l'iconoclastia, il problema è molto
diverso e male impostato . Se iconoslastia è cercare di capire
Bach non già come elargitore di profondissime sensazioni di
assoluto, ma come artista che mette a frutto le possibilità di
recupero di valori religiosi e artigianali insiti nella costituzione
comunitaria luterana, allora, ben venga l'iconoclastia. Voglia­
mo dire che non si tratta di scancellare problemi di spiritualità
( e, ancor più, di musicologia ) . Si tratta solo di considerare
questi problemi non come entità autosufficienti, ma legati a
una realtà più vasta, all'interno della quale la musica può
essere «solo» un serio elemento di indagine, di arricchimento
di conoscenze critiche. V'è il massimo rispetto per il lavoro
dei filologi, purché tale lavoro non si costituisca come centro
dell'universo. Sono i filologi che tendono a non rispettare un
lavoro (non diviso) diverso dal loro, e ritenuto avventuroso e
dilettantistico solo perché rivolto a cercare un possibile (o,
meglio, più possibile) perno dell'universo.
Si tratta, insomma, di tentare di riproporre il musicista
come membro della vita civile : vale a dire, di inquadrare la
sua tes timonianza in rapporto non già a una scala di valori e
di argomentazioni che il mondo della musica ha finito col
crearsi in modo del tutto autonomo, ma ai valori deducibili in
base a un'esperienza storica globale. Il giudizio, cosi ambienta­
to, potrà anche essere avventuroso ( anche se siamo lontani da
questa convinzione : dal momento che la filologia, peccando di
originalità filosofica, non ha creato un mondo nuovo, ma solo
barriere che impediscono l'utilizzazione del mondo stesso); di
PREMES SA 9

certo, però, sarà un giudizio appropriativo e dialettico. Il che


è già un modo di rispondere alla richiesta di musica che
proviene dal basso.
Il procedimento attraverso il quale lo studio di una disci­
plina concorre non solo all'arricchimento di tale disciplina, ma
del quadro storico generale visto come un insieme in cui i
frutti di una disciplina mediano, compendiano e - perché
no? - relativizzano i frutti di un'altra, non è un procedi­
mento rivoluzionario, ma solo uno studio della storia partico­
larmente applicabile al delicato momento formativo degli stu­
denti liceali. Infatti, noi non si ha intenzione di riproporre
una forma di enciclopedismo, ma di mettere il pubblico
( sempre esemplificabile attraverso gli studenti) in condizione
di appropriarsi dei vari periodi storici, delle idee, delle lotte,
delle contraddizioni dei periodi storici, per mezzo dei veicoli
attraverso i quali tali idee hanno avuto la loro più profonda e
complessa realizzazione. In tal senso, e solo in tal senso, la
storia della musica può avere, per esempio nella scuola ( ma,
ovviamente, non solo), un significato preciso e importantissimo.
Perché, se è vero che la comprensione delle tematiche, per
esempio, del Rinascimento può essere raggiunta con lo studio
delle arti visive, della filosofia e della letteratura, non vediamo
proprio come la comprensione delle tematiche, sempre per
esempio, del Romanticismo possa essere ottenuta senza lo
studio della musica che, appunto nel periodo romantico, assur­
ge alla massima rappresentatività, enucleando, di quel periodo,
gli aspetti aperti, progressisti, univoci, insieme a quelli gelosi ,
chiusi, ambigui.
Insomma, si tratta di considerare la musica come contributo
all'appropriazione dei grandi momenti storici ; e «contributo»
non vuoi dire, per forza, contributo attivo : secondo una
concezione basso-idealistica della storia per cui tutto ciò che
esiste, e che gode del privilegio del ricordo ( ovvero, antropo­
logicamente, del «ricordo privilegiato», esiste solo in funzione
ascendente, migliorativa e celebrativa di un mondo popolato
da creature che, qualsiasi cosa facciano, la fanno «nobilmen­
te» . Il contributo del musicista, per grande che sia, può essere
anche regressivo, evasivo, e così via. Non si tratta, infatti, di
«raccogliere», ma di «cercare» secondo le direttive sopra
ricordate .
È ovvio, a questo punto, che la proposta polemica discende
direttamente da una semplice constatazione. Se, cioè, la cultu­
ra musicale risulta assente in Italia, la colpa non può non
lO PREME S SA

essere del mondo musicale stesso, il quale ( anche in considera­


zione del fatto che, se non si fa musica nei licei, non si fa
cultura nei conservatori : secondo una pacifica divisione del
lavoro ) avalla, promuove e difende la separazione rigida degli
àmbiti specialistici di cui si parlava. Le discussioni, le dispute,
le battaglie (anche di alto livello scientifico ) di tale mondo, si
svolgono come se la musica fosse in grado - unica - di
spiegare se stessa e di generare un universo a essa consonante.
I guasti prodotti da questa concezione (che, da tempo, non ha
riscontri nel campo della critica d 'arte, letteraria, ecc. ) si
toccano con mano : a tal punto che le lamentele di tanti
galantuomini sulle sorti della cultura musicale in Italia, hanno
il sapore, involontariamente ironico, di un corollario perfetta­
mente previsto e quindi, di fatto, del tutto ininfluente.
Questo scritto, quindi, non si configura come una storia
della musica, ma come un tentativo di utilizzare la musica
stessa ( lo strumento fornito dalla conoscenza musicale ) per la
storia, per l'approfondimento delle grandi tematiche storiche.
Rispetto alle pubblicazioni normali, quindi, questo libro potrà
presentare degli squilibri e sinanco delle omissioni. È ovvio,
infatti, che il lettore, per approfondire qualche singolo artista,
non potrà prescindere dalla letteratura esistente, dalle mono­
grafie, dai trattati ( sarà fornita una bibliografia essenziale} .
Diciamo, allora, che questo nostro scritto si propone un'utiliz­
zazione diversa di tale letteratura storico-critica : un'utilizza­
zione che la costringa a concorrere all'approfondimento di
tematiche che, in modo apparentemente paradossale, non de­
vono essere più musicali ma, appunto, storiche.
Dei compositori , quindi, non saranno date notizie bio­
grafiche ( a meno che queste non rientrino esplicitamente nel
disegno che ci sta a cuore ), né elenchi di opere . La trattazione
avverrà sullo sfondo del problema storico, del momento stori­
co nel quale il musicista è inserito, e svilupperà il rapporto
con tale problema: realizzando, in tal modo, solo una semplice
restituzione di spettanze e di caratteristiche che si erano per­
dute per la strada.
Abbiamo parlato a lungo degli studenti perché sono stati, e
sono, gli studenti che hanno portato il problema a livello di
richiesta esplicita. Ma una domanda in tal senso non è prero­
gativa unica del mondo della scuola. L'autore di questo scritto
partecipò, insieme ad altri colleghi, a una trasmissione radio­
fonica durata più di tre anni («La musica nel tempo») che,
avendo come scopo quello di quotidianizzare e di drammatiz-
PREME S SA 11

zare, nel senso che s 'è detto, la musica, risultò molto bene
accetta al pubblico . Stando alle lettere ricevute, ci si è accorti
che, a formulare una richiesta di musica in tal senso, erano, sì,
in primo luogo, studenti ( medi e universitari), ma anche
professionisti, intellettuali, ecc.
L'autore di questo scritto è, ovviamente, ben lungi dall'illu­
dersi di poter rispondere adeguatamente a tale richiesta. A
disattendere completamente la quale� però, ci si comportereb­
be, in vista del ruolo gramsciano dell'intellettuale, in modo del
tutto «incivile» . Valga quindi, questo scritto , solo come tenta­
tivo di adeguamento e di stimolo : e sarà già un risultato non
irrilevante.

(g. z.)
STORIA SOCIALE DELLA MUSICA
l. PRIMA DEL CINQUECENTO

La trattazione di questo capitolo sarà necessariamente bre­


ve. Il motivo di questa brevità sta nel fatto che la musica, fino
al Rinascimento maturo, pur interessata a problemi di grande
momento e pur tenendo rivolti all'esterno alcuni aspetti di tali
problemi, sembra caratterizzabile, in senso qualificante , soprat­
tutto da questioni «interne». È ovvio che anch'esse, come
tutto, recano una traccia evidente dei grandi temi delle varie
epoche ; sta di fatto, però, che tali temi solo in piccola parte
possono essere rispecchiati, e risolti, con lo studio del fatto
musicale, almeno a livello di cultura musicale immediatamente
disponibile.
Durante tutto il Medioevo, la Chiesa è l'unico centro di
cultura, di coesione culturale . E, dire centro, significa dire
irradiamento dal centro, violenza statica e omnirappresentativa
di contro al diverso temporale e socio-culturale . Ricorderemo,
in breve, come il canto gregoriano si ponga anche come una
confluenza di esperienze diverse : e un'analisi in tal senso si
presenta filologicamente assai ricca. Sta di fatto, però, che
l'azione del canto gregoriano nel mondo ha, come caratteristi­
ca, la proposta di una voce centrale che prescinde nettamente
da ogni rappresentatività locale : e con, per simbolo di questa
diversità negata, non già questioni marginali di riti vari, ecc. ,
m a ques tioni di ruolo, di uso, d i gestione, d i utilizzazione.
Elementi, tutti questi, non raccolti dalla musica ufficiale di
allora: che - ripetiamo - non può, a causa dell'entità da cui
promana e degli scopi «edificanti» che persegue, seguire il
divenire.
Gregorio Magno (il papa che ordina la musica ecclesiastica
dandole il suo nome), del resto, lavora avendo, alle spalle, un
itinerario già concluso, selezioni già avvenute. L'eredità classi­
co-pagana della musica, era ovattata da cautele e da riserve
essenziali. Lo stesso dubbio di S. Agostino (affascinante per il
paganesimo negato e incombente come elemento tolto non
16 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

sempre dialetticamente, ma spesso solo volitivamente), il dub­


bio su una musica che, da una parte, eleva, ma che, dall'altra
parte, afferra i sensi - è indicativo di uno stato di allerta
della Chiesa. La musica può anche sopravvivere come ricordo
colto, ma la memoria di tale ricordo deve essere tolta : o,
meglio , inserita nel quadro che porta alle condizioni di parten­
za della pratica musicale all'interno della Chiesa già affermata .
I primi canti delle comunità cristiane sopravvivono : ma
funzionalizzati, cioè privati dell'aderenza originaria alla realtà.
O, meglio, tolti di peso dalla realtà e come ipostatizzati; poi,
il reale continua a correre, e la civiltà non è certo tale da
contrapporre il tempo negato al tempo individuale sentito
esistenzialmente . Il ricordo còlto, semmai, può sopravvivere
come elemento, rabbrividente alla lontana, di una diaristica
intima, molto intima. E, nel frattempo , la Chiesa cresce, e
offre sempre meno spazio alla reminiscenza di segno non
conciliabile.
Certi elementi della classicità, in tal senso, possono conser­
varsi : purché avallino il potere centrale. La distinzione di
Boezio ( v-vi sec . ), che privilegia la musica come speculazione
filosofica, negligendo la musica «eseguita», frutto del «lavoro
manuale» - non è solo uno dei primi esempi della divisione
del lavoro, ma un formidabile contributo ideologico alla fun­
zionalizzazione della musica alle esigenze del culto centralizza­
to. È sufficiente, per questo, distogliere il pensiero critico,
creativo, dialettico, comparativo - dalla realtà.
Pontefice dal 590 al 604, Gregorio Magno - s'è detto -
dà ordine al materiale musicale che una tradizione già vinco­
lante aveva messo a disposizione della Chiesa. Se vogliamo,
prende coscienza di ciò che esisteva, se prendere coscienza può
significare dar corpo esplicito a un'operazione di salvaguardia
contro l'esterno, contro ciò che «è» e che, essendo, diviene .
Ma un divenire che, come si diceva, non ha strumenti, se non
quelli di una componente esistenziale emarginata, coerente­
mente, all'esterno del meccanismo .
Si afferma definitivamente, così, il carattere monodico-corale
(una sola voce, e collettiva : con la collettività, cioè, che viene
negata come latrice di voci « diverse»), e si prende atto di
influenze assimilate : come la teoria greco-antica e i melismi
ebraici .
I corpi di esecutori sono un ulteriore momento di questo
processo di rafforzamento : su tutto, ripetiamo, viene ribadita
la divisione del lavoro. Solo un esempio, fra i tanti possibili :
PRIMA DEL CINQUECENTO 17

la musica, come teoria, viene insegnata nelle scuole supertort


e, come pratica, in quelle inferiori. La fusione dei due momen­
ti è, cosi, molto problematica perché - e lo vedremo nel
corso dei secoli - il prassismo del « far musica» ha bisogno
della consapevolezza della «civile» età matura dell'uomo ; ri­
dotto a gioco per bambini, anche a scansare i pericoli d'una
didattica morta e dogmatica, diventa cosa culturalmente im­
produttiva, priva della coscienza dello strumento che si ha in
mano . In tal senso, l'obiettiva arretratezza dell'Italia musicale
di oggi, il non considerare la musica come strumento di
conoscenza, deriva da un impianto dialettico non molto dissimi­
le che si trova nelle scuole medie inferiori : con una manualità
noiosa perché si sa legata a un dogma inarrivabile.
Civil tà corale, dunque, ma con un unico centro . Mancando
prospettive alternative sia pure a livello insufficiente di emar­
ginabile esistenzialità, la coralità stessa non può essere che
conservatrice .

Dopo l'anno Mille, si verifica un avvenimento molto impor­


tante, di interesse sia musicale sia letterario : cioè si pongono
le prime, avvertibili istanze laiche, governate da interessi e da
motivazioni che non fanno capo al potere centrale della Chie­
sa. È l 'epoca dei trovatori o trovieri ( da « trobar» : «trovare»,
«inventare» ) che nascono nella Francia meridionale estenden­
dosi, in séguito , nella Francia settentrionale e in Germania, e
sfiorando aree limitrofe.
•Per merito di individualità come J. Rudel, Bernard de
Ventadorn, B. de Born, ecc., nasce una poesia, una delle prime
forme di poesia cortigiana e cavalleresca, tematizzata anche
nell'ammirazione della donna. Il fenomeno, per le sue stesse
strutture fondamentali (poesie nei vari volgari, con accompa­
gnamento strumentale per lo più improvvisato), appare aperto
a intrusioni di tematiche diverse , anche popolari. Manca, però,
del carattere fondamentale favorevole al formarsi di una cultu­
ra laica . Innanzi tutto, con la borghesia ancora in fase di
formazione e quindi ben lontana dal potersi riconoscere in, e
appropriarsi di, una forma artistica, queste proposte rimango­
no atomizzate. Se è lecito parlare di una cultura trobadorica
dalla prospettiva di un'avvenuta, più tardi, acquisizione dei
linguaggi volgari, ciò si deve al fatto che il volgare stesso, nel
ricordato processo di formazione della borghesia, ha acquistato
una funzionalità concreta. Ed è su questa funzionalità che si
sta fondando la nascente letteratura.
18 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

Ma il discorso non tocca la problematica trobadorica : subito


stretta nelle varie corti, e soprattutto, ripetiamo, atomizzata,
cioè impossibilitata a comunicare in modo tale da generare una
cultura comune da contrapporre, nel suo laicismo e magari
anche nel suo potenziale paganesimo, alla cultura dominante
rappresentata, in musica, dal Gregoriano .
Vero è che, nei confronti dello sviluppo delle prime civiltà
post-medievali, la musica non è altamente rappresentativa; ma
è anche vero che questo scarso rilievo oggettivo, come elemen­
to formativo, della musica, può indicare un certo quantitativo
di questioni non risolte nella fase che separa il Medioevo ,
appunto, dalla costituzione degli agglomerati urbani orientati
in senso produttivo-borghese. Il sacro e il profano, di cui la
musica chiesastica si erge ancora come giudice indiscutibile,
indicano, nella loro separazione e nella loro non interferenza
nel rigore della stessa, un passaggio non ancora avvenuto.
Con, per sintomo assai emblematico, una primitiva, ma chiara,
tendenza dei trovatori - che pur avrebbero avuto la possibili­
tà di commercio col basso - a costituirsi in senso individua­
listico.

Ars nova si intitola una dissertazione di Philippe de Vitry


( 129 1 - 13 62 ) ; e, piu in generale, tutto quel moto di rinnova­
mento che interessa la musica all'inizio dell'evo moderno. La
musica, in definitiva, subisce un'inevitabile sensibilizzazione
còlta, che la porta a una maggiore avventurosità espressiva .
Protagonisti di questo conseguente arricchimento linguistico,
sono anche Guillaume de Machault ( 1 3 3 0- 1 377), ricco di
sensualità melodica, e Adam de la Halle. La musica sta en­
trando nella sensibilità borghese : e predilige, appoggiandosi al
testo letterario, ambienti profani, raffinati, «petrarcheschi» .
Essa attinge alla cultura volgare : ma al terminale d i essa ( al
«testo»), non già all'origine viva, cioè alla parola, allo scam­
bio, alla quotidianità . Nasce colta, anzi - come si suoi dire
- «al quadrato» : su qualcosa che, proprio per questa fun­
zione di appoggio, tende ad articolarsi da una base viva un
tempo , ma, in seguito, mai piu messa in discussione, mai piu
verificata, vivacizzata.
Ed ecco, allora, una domanda : questo stato della musica, in
che modo rappresenta, e magari chiarifica, gli ambienti so­
cio-culturali di allora? A opera della musica, la chiarificazione
avviene solo in modo molto generico , appunto per il concetto
espresso sopra : perché essa si appoggia, magari, anche a ele-
PRIMA DEL CINQUECENTO 19

menti di grande progresso (e si può pensare, per esempio, alla


musica della cerchia in cui agiva Dante : a un Casella, ecc.),
ma glacializzando le cause stesse di tale progresso, quindi
ribaltandone l'aspetto, pur sempre esistente, contraddittorio :
rendendolo elitario. E, del resto, ove il volgare abbia ristretto
questo suo essere d'élite, questo suo circolare in ambienti
chiusi ( per es. : in Sicilia), la musica non ha potuto far molto
per salvare questa esperienza da una logica morte . In tal
senso, la musica getta una luce su alcune esperienze poco
chiare, come il rapporto continuo fra volgare' e popolare; ma
si tratta di una luce che conferma l'ambiguità di questo
rapporto che, nel suo processo di laicizzazione, appare condot­
to soprattutto dalle esperienze letterarie. La musica ne con­
ferma i limiti ma, ripetiamo, da una posizione subordinata.

Nel xv secolo , la pratica polifonica conferisce, al linguaggio


musicale, un ulteriore elemento di emancipazione . I grandi
polifonisti vengono dal Nord, sono fiamminghi (Okeghem,
Obrecht, ecc . ) e, subito, li si accusa di eccessivo cerebralismo,
di amore per il complicato, di ricerca ossessiva dell'intreccio
complesso. Calata nella situazione culturale italiana, la polifo­
nia - in un certo senso - tempera quel suo rigore tecnicistico
che, probabilmente, aveva una non giustamente emersa com­
ponente artigianale ; si tempera in virtu d 'una carnalità, d'una
sensualità sonora che, negli ambienti umanistici, era soprattut­
to una sensibilità «culturale » . Ovviamente, fioriscono le di­
spute fra innovatori e conservatori : in ogni caso, la musica -
monodica o polifonica - tende a starsene sempre in zone
franche; sembra aver paura della contaminazione d'un com­
mercio pieno col mondo, e persino col mondo piu avventuroso
che i letterati umanistici non hanno paura di affrontare , sicuri
come sono di una sua possibile integrazione nella «cultura».
In tutto questo, c'è un elemento già accennato, e presente solo
in modo sommesso : l'artigianato . L'artigianato che interessa
quelle comunità settentrionali che, in séguito, la Riforma a­
vrebbe esaltato in una laboriosità pratica e non legata a quelle
ipostasi culturali che, nell'Italia del '400, erano le grandi
conquiste e, insieme, il certificato di morte a lunga scadenza,
della borghesia.
Perché, sempre in Italia, si può dire che il cerebralismo non
è solo la polifonia (come dicono i testi di storia della musica :
troppo abituati a non conteggiare ciò che musica non è), ma
tutto un modo di concepire la musica stessa, legata a filo
20 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

doppio all'antidiffusività della cultura. E non già, questo, per


qualche blocco d'ordine sociale ( ché, anzi, la disponibilità ad
aperture democratiche, ad accogliere forze dal basso, è un
tratto dorato della nostra storia di quel periodo ), ma -
ripetiamo - per l'estremismo individualistico del mondo cul­
turale italiano.

Quanto esposto fino a ora, non è neanche un riassunto


breve : è un semplice ricordo di alcuni avvenimenti di caratte­
re generale marcati da un segno negativo tipico dell a singola
disciplina di cui ci stiamo occupando : la musica, cioè, non ha
ancora raggiunto la consapevolezza di se stessa, della propria
storicità. Quindi, nei confronti dei grandi problemi maturati
fin qui, non può proporre soluzioni originali . Quando, nel
'500, questo s tato di maturità sarà stato raggiunto, la musica,
appunto perché capace di essere totalmente rappresentativa, e
perché capace di serbare astutamente (come le altre arti e,
spesso, anche in misura maggiore) «scorte di riserva», capaci­
tà di occultamento, insomma quella che Walter Benjamin
chiamava «aura», all'interno del normale itinerario dialettico
- potrà essere sviscerata in un'analisi piena, totale.
Ma, poiché questo fino a ora non è possibile, l'arte musicale
può servire solo a confermare un quadro generale, magari
approfondendo, di esso, taluni particolari. È ciò che abbiamo
cercato di fare, frammentariamente, nel corso di questa breve
esposizione. Vediamo, quindi, di ricapitolare i punti principali
fin qui trattati.
Attraverso tutte le forme laiche che, dalla cultura trobado­
rica fino al « fiamminghismo», si sono poste dopo il Medioevo,
anche la musica conferma la faticosa, ma irreversibile, nascita
dell'uomo dalla coralità, e il porsi di una serie di valori
fondati sull 'immanenza. La borghesia, attraverso il grandioso
capitolo della posizione e della gestione del volgare, disatten­
de, in tal senso, la musica : o, meglio, la usa ove si tratti,
bloccato questo processo, di rispecchiarsi in esso esibendo il
risultato raggiunto, utilizzandolo in senso decorativo e, quindi,
al limite, contrastando la sua originaria fisionomia «democra­
tica» . Vogliamo dire che, se il volgare sale dal basso, la musica
illumina la stazionarietà di una tappa di questa salita, esaltan­
dola in senso «estetico». In pratica, vale ripeterlo, anticipa
tratti individualistico-contemplativi che sarebbero stati tipici
del carattere elitario - o, meglio, e in prospettiva piu tragi­
camente, individualistico - dell'umanesimo.
PRIMA DEL CINQUECENTO 21

E vi sono, a lato di questo processo, due prove collaterali di


altrettante esperienze «diverse» . Da una parte, la musica sacra
popolare (le «sacre rappresentazioni»), che certo non procede
in consonanza con le proposte degli ambienti piu raffinati, e
che presenta una funzionalizzazione della musica, ripetiamo,
diversa da quella della cultura ufficiale. Dall'altra parte, il già
ricordato artigianato nordico (la polifonia) che, iper-intellettua­
lizzato nella sua azione «italiana», conserva quei suoi tratti
umano-quotidiani (da artigianato, appunto ) solo in civiltà me­
no evolute in senso umanistico : in quelle civiltà, cioè, che,
dopo aver acquisito i benefici della Riforma, avrebbero posto
quell' «etica protestante del capitalismo» fondata sulla manua­
lità comunitaria, sul non-individualismo. In séguito, si diceva:
all'epoca di J. S . Bach. Ma, ripetiamo, sono indicazioni o
alternative, in questo momento, solo potenziali. La musica
della cultura ufficiale , della «cultura dei testi» (cosi i semiolo­
gi : e, forzando un po' la definizione, si potrebbe indicare , con
essa, la cultura dell '«opera» ipostatizzata, dell' «estetica»), ha,
nella musica, un coadiuvante, preciso anche se non essenziale,
nei confronti del processo individualistico dell'Umanesimo.
2. L'ARISTOCRAZIA DEL CINQUECENTO

Nel '500, la musica acquista piena consapevolezza di se


stessa, diventa adulta : diviene, soprattutto, rappresentativa e
quindi, all'analisi storica, rischiarante senza riserve.
Essa vive - e produce, in assoluto, i primi «grandi arti­
sti» : Monteverdi e Gesualdo - soprattutto nei ristretti circoli
intellettuali delle corti del Nord : a Ferrara, a Venezia, a
Mantova ecc. Si fonda sul «gergo» ideologico di questi circoli,
su quello che, per comodità, potremmo chiamare «petrarchi­
smo», e che presuppone una logica soprattutto salvaguardante
l' «io» dalle incognite del commercio col mondo.
Intanto, un primo elemento. Se la musica proviene da
questi mbienti e se, come vedremo meglio in séguito, ha la
precisa funzione storica di prolungarne l'esistenza, tale prolun­
gamento approfondisce il solco che separa le due culture :
quella umanistico-individualistica, legata a un ordinamento e­
sterno - l'ordinamento della borghesia produttiva che, ormai,
si riproduce soprattutto nella rappresentatività dei suoi palaz­
zi, dei suoi circoli, ecc. - che sta venendo meno nelle sue
strutture formative; e quella scientifica, la cultura «alternati­
va» : anch'essa fondata sull'individualismo, però estremizzato
fino alle conseguenze derivate dalle finalità di verifica proprie
di ogni atteggiamento del genere.
La musica, ovviamente, promana dalla prima cultura ; anzi,
al limite, le fornisce elementi per trasformare l'antica tolleran­
za-indifferenza umanistica, in una vera e propria autosufficienza
che disattende i problemi morali e religiosi derivati dalla
scienza. Atea (o, se si preferisce, molto più «pericolosamente»
panteistica) la scienza, pagana la musica. La conservazione, si
appoggia al paganesimo : che offre una disponibilità immediata
di beni materiali, di intelligenti raffinatezze, di pregnanti lus­
suosità. Una piccola beffa della storia che, senza forzatura
alcuna, può avere un valore paradigmatico : uno dei piu grandi
teorici musicali del tempo, elaboratore, come vedremo, del
'
L ARI STOCRAZIA DEL CINQUECENTO 23

melodramma (Vincenzo Galilei ), è il padre di quel Galileo che


è uno dei casi piu clamorosi della tragedia individualistica
della verità scientifica.

Accanto a, ma in un certo senso indipendentemente da,


l'esperienza religiosa (mottetti e messe) culminata nell'opera di
Pier luigi da Palestrina ( di cui si parlerà nel prossimo capitolo ) ,
l a musica profana raggiunge due grandi traguardi : il madrigale
e il melodramma.
Ed è soprattutto il madrigale - breve forma polifonica -
che, dal terzo decennio del '500, informa di sé tutta la cultura
musicale .
Innanzi tutto, qualche brevissimo cenno storico. La città­
guida è Venezia . A Venezia agiscono compositori di origine
fiamminga: A. \W'illaert ( 1 490c.- 1 562) e, poi , Cipriano de
Rore ( 1 5 1 6- 1 565). Abbiamo già brevemente ricordato, nel
capitolo precedente, come il rigore , e in un certo senso l'esa­
sperazione, del contrappunto :fiammingo si temperassero, in
Italia, assumendo talune movenze della nostra cultura : esat­
tamente, la sua confidenza con l'aggettivazione artistica, e la
conseguente formazione di un mondo dagli àmbiti già tendenti
a prescindere dalla quotidianità e a fare , dell' «estetica», un
mondo. Di qui quella raziocinata carnalità, quella sorvegliata
voluttuosità che sembra anticipare, proiettandosi in un futuro
terrificante, la definitiva separazione fra arte e vita; ma che
comunque, nella prassi quotidiana, riesce a dare, alle cose, la
propria, inconfondibile forma: frutto di un cinismo e di una
saggezza che esibiscono, come contrassegno immediato, una
rapida commerciabilità. Nei canali del piu voluttuoso e «quo­
tidiano» sensualismo. E cosi avviene per i due grandi venezia­
ni : Andrea ( 1 5 1 0- 1 586) e suo nipote Giovanni ( 1 557-1 6 1 2 )
Gabrieli. È una musica che ha acquisito l'omnirappresentativi­
tà dello strumento tecnico e che, in quegli ambienti, produce
quadri fastosi , ricchi e, soprattutto, aperti a soluzioni «espres­
sive» . Una diagnosi sociologica molto sommaria indica, nella
musica dei due Gabrieli, e in generale nella cultura musicale
veneziana di allora, piu che altro un avallo a una situazione
già esistente, un surplus decorativo la cui autonomia è solo
tecnicc-settoriale , che, cioè, non funge da traino per individua­
re possibili situazioni nuove.
È una diagnosi - ripetiamo - molto sommaria : ma non
perché faccia inorridire la musicologia ufficiale, bensf perché
non approfondisce i suoi stessi assunti. Accettiamone pure ,
24 S TORIA SOCIALE DELLA MU S ICA

dunque, il segno generale, ma cerchiamo di vedere meglio le


cose. La cultura veneziana, rappresentata dalle «macchinose»
invenzioni di Tiziano e di Tintoretto, può esibire una chiave
di lettura in questa autorappresentazione : a sua volta legata a
una stabilizzazione socio-economica puntellata da una consape­
vole atipicità della Repubblica. Intendiamo dire, con questo,
che si determina, all'interno della cultura veneziana, un'area
che è ricettiva nei confronti deli'esterno ( vedi proprio la
musica, con l'adozione dei fiamminghi) , nella misura in cui
l'esterno stesso può venire assimilato e, appunto, stabilizzato.
E, questo, perché tale stabilizzazione esige come una muraglia
di consapevolezza, di possibilità di rispecchiamento e - cosa
che ora ci interessa più di ogni altra - di non-inquietudine
esistenziale . Il che consente la possibilità di sfruttare - non
importa se con la prospettiva, che poi vedremo realizzata in
un immediato futuro, di un prosciugamento rapido - ogni
canale rappresentativo.
Ora, mentre, nei confronti di questa possibilità di sfrutta­
mento intensivo, la pittura, sempre per esempio, si trova, a
causa della sua piu lunga e collaudata storicità e della sua
conseguente capacità di «fare mondo», in una condizione
offerente, la musica, disciplina molto piu giovane e che sta
raggiungendo, proprio coi Gabrieli, anche un'autonomia stru­
mentale, cioè al di fuori della voce umana e quindi di ogni
legame col testo poetico - la musica può, in un certo senso,
«colmarsi», può pervenire al medesimo livello di completezza,
di assenza di condizionamenti storici ecc., della pittura.
E, cosi, «offre», magari, poco sul piano della diretta rap­
presentatività storica ; però, questo suo processo «ricettivo»,
questo suo processo di completamento ci consente, del pari, di
gettare luce sul contesto di base da cui essa· proviene . Cioè,
non è essa la protagonista del momento storico : ma, in essa e
coi moduli ch'essa adotta, è la società medesima che riflette un
suo particolare momento ; per la precisione, quello che, stando
fra la dinamica espansiva e la staticità autocontemplativa,
favorisce, produce, richiede questo completamento tecnico-set­
toriale di un'altra possibilità rappresentativa.
Con questo, non intendiamo certo dire che i Gabrieli (e gli
altri musicisti veneziani} siano, a loro volta, «macchine» ; ma
soltanto che lo spazio esistenziale appare canalizzato in un
processo - chiamiamolo COSI - piu «oggettivo », n cui
segno storico fondamentale è quello che abbiamo cercato di
descrivere. È, questo, un aspetto del Rinascimento maturo che,
'
L ARI STOCRAZIA DEL CINQUECENTO 25

forse, non è stato ben approfondito ( anche nelle sue prospetti­


ve contraddittorie ), e che può trovare , nello studio di certe
esperienze musicali, un importante strumento di ausilio .

Altri musicisti di rilievo maturano nelle corti più raffi­


nate, evolute e caratterizzate da un razionalismo assolutamen­
te privo di remore. Possiamo ricordare Luca Marenzio
( 1554c.-1599), attivo alla corte estense, poi ospite di quella
polacca, infine approdato a Roma. Dall'alto della sua cultura
umanistica, Marenzio può dipingere, nei suoi madrigali, am­
bienti popolari evidenziati nella loro allegrezza immediata: un
sapido ed emblematico contrappeso che può ben attirare il
mondo colto, e senza che la nostalgia della semplicità varchi i
limiti arcadici.
Ancora, Andrea Banchieri ( 1567c.-1634) e Orazio Vecchi
( 1550- 1 605 ) , autori di madrigali dialogati che ci portano a un
passo dal teatro in musica, anch'essi abituati a uno stretto
commercio con poeti e letterati, e portati a un'ironia che si
realizza anche nella contaminazione della musica. È di Vecchi
quell'Amfiparnasso che, se è stato considerato il primo esem­
pio di melodramma ( 1 594 ) al di fuori della Camerata Fioren­
tina erroneamente, nondimeno offre uno splendido saggio -
con la disinvolta utilizzazione di maschere popolari - di bella
immediatezza culturale . E altrettanto si può dire delle piu
note composizioni di Banchieri, dai titoli eloquenti : Il festino
del giovedi grasso, La prudenza giovanile, ecc.
V'è qualche elemento interessante, in questi tre composito­
ri, da prendere in considerazione , non tanto come fatto stilisti­
co, ma - cosa, questa, che ci interessa molto di piu - come
emblema di un certo costume culturale .
Per esempio, l'attenzione di Marenzio per una certa ambien­
tazione popolare, dove il «popolo», ovviamente , in tanto vale
in quanto si può costituire come perfetto elemento sceno­
grafico per gli ambienti colti. Vi sono tutti gli ingredienti
arcadici : il gusto - seccamente chiarifica to nella misurazione
della sua area d'azione - per il diverso; la melanconia «col­
ta» per una vita, popolare appunto, che può collimare con
un'idea di rustica classicità ; e, come si è detto sopra, l 'imper­
tinente curiosità laica per ciò che è spurio. Quest 'ultimo
elemento dà un colore tutto particolare alla musica : ma è un
colore solo decorativo, che non fa altro che confermare una
certa staticità di quella cultura, che cerca un «diverso» assimi­
labile facilmente , nella misura in cui teme, magari in modo
26 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

inconscio, la perdita dei privilegi che può venire da un'even­


tuale irruzione del «diverso» vero, temuto e tenuto lontano
da quella cultura, da quella società ormai non piu tanto sicura
di se s tessa. Ma, soprattutto, il «diverso» del mondo scien­
tifico. Cosf, da quest 'ultimo punto, può venire il completamen­
to della chiarificazione che la musica può offrire alla compren­
sione storica di quella cultura. Il madrigale, per esempio di
Marenzio, porta a fondo, adottando modi «campestri», «vil­
lerecci» , «popolari», alcune potenzialità di quel mondo cultu­
rale : potenzialità che, nella poesia, erano magari marcate da
una tensione che, non raggiungendo subito la situazione desi­
derata, o magari mai potendola raggiungere definitivamente,
rimaneva come un obiettivo non realizzato e quindi, se non
altro, piu difficilmente consumabile . La musica, invece, lo
realizza piu pienamente e, ciò facendo, ne rivela il limite: il
limite dell'impatto con una cultura, con «la» cultura assimi­
latrice, che neutralizza il diverso adottato in senso decorativo­
conservativo.
Del pari - altro esempio - l'estrema cultura di un Ban­
chieri e di un Vecchi , la loro confidenza con le possibilità della
parola, il gusto per l'allusione ovvero per la situazione esplici­
ta, il paradosso - insomma, la libertà trionfante entro limiti
rassicuranti, riceve un'ulteriore eccitazione dalle possibilità
sensualizzanti della musica : e come forza evocativa e persuasi­
va, e come cerebralismo spinto in intrecci fonici mirabolanti. È
solo, qui, la conferma di un certo carattere di «gioco» di
quella cultura, di quello che potremmo definire uno «sfrena­
mento di civiltà» che è talmente spinto da avere, come con­
trappe�o, tutti gli elementi della tragicità, tutti i sintomi d'una
fine che si approssima, eccetto uno : la consapevolezza, l'aper­
tura - cioè - alla realtà scientifica, già ricordata, la chia­
rificazione dei limiti reali, dell'estensione di quella classe colta.
Ecco : la musica contribuisce a, offre elementi per, tenere
ancora lontana quella consapevolezza.

Alla fine del '500, nasce il melodramma. Nasce a Firenze, in


seno alla Camerata promossa dal conte Giovanni M. Bardi
( 1534- 1 6 1 2), musicista dilettante autore di madrigali, teorico
musicale e, ovviamente, gran mecenate. Illustri personalità fan
parte del suo circolo , poeti letterati e teorici : da Vincenzo
Galilei a G. Caccini, da J. Peri e E. de' Cavalieri. Il primo
frutto si ebbe nel 1594 : la Dafne, musicata da Jacopo Peri su
testo di Ottavio Rinuccini. Quest'opera è andata perduta; ma
'
L ARI STOCRAZIA DEL CINQUECENTO 27

non, fortunatamente , la seconda, frutto del medesimo bino­


mio : l'Euridice (1600: lo stesso anno in cui Giordano Bruno
fu bruciato a Roma, in Campo de' Fiori ).
Nel melodramma, la musica si sviluppa sulla parola e, di
essa, rimane, in un certo senso, un aureo complemento . Il
«recitar cantando» su cui si strutturavano queste prime espe­
rienze melodrammatiche, si contrappone al madrigale : da una
parte, una linearità melodica che segue l'oncleggiamento emo­
tivo insito nel testo poetico . che lo asseconda e lo sottolinea ;
dall'altra parte (nel madrigale), un incrocio fonico che, come
vedremo meglio in séguito . deshmifica la lettera . però mante­
nendo intatto lo sPirito. Fra le due ecce?:ioni musicali. non v'è
contrasto : Monteverdi . per esempio. notrà essere grancli ssimo
melodrammaturgo e grandissimo madrh:ralista . Non v'è con­
trasto perché la stessa OtQ"anizza:done ideologica delJa parola
«colta » , rinvia a una realtà a cui fanno caPo tanto il melo­
dramma quanto il madrigale. E questa realtà. porta in evidenza
tutta la possanza e tutti i limiti del laicismo bor�Y'hese di
derivazione umanistica. Ne abbiamo già narl::�to a �nfl1denza :
per lo specifico del melodramma , si potrà solo ribadire il ruolo
rafforzativo e allusivo della musica. Allusivo. soprattutto. a un
tipo di immanenza che, nel contesto borghese , significa , di
fatto, mancanza di alternative . La parola. in pratica, il gusto
per e della parola, rinviano alla parola stessa: posseduta
sempre di piu con un processo intensivo che ha. come con­
trappeso tragico, il restringimento semore piu evidente dell'a­
rea entro cui tale parola viene gestita . L'esPerienza melo­
drammatica, al limite . può essere interpretata come una valvo­
la nuova, come un elemento di sopravvivem:a degli ambienti
tardo-rinascimentali. Si può prendere atto della sua grandezza
«estetica» (in sé, e proiettata verso un futuro ancora piu
grande e piu problematico) e, al tempo medesimo, denunciare
- per cosf dire - il «vizio» socio-culturale con cui nasce,
anzi che fa nascere, il melodramma, che ne è l'autore .
L'interdiscinlinarità colta (musicisti , poeti , teorici) che ca­
ratterizza la Camerata Fiorentina è, del resto, un indiscutibile
avallo al concetto storico di un cerchi.o che, innegabilmente, si
rafforza e che, nell'atto stesso del rafforzarsi , si chiude. L'espe­
rienza si protrae oltre le condizioni socio-economiche da cui
aveva avuto orif!ine; ed è. ques ta , la conferma dei due concetti
fondamentali del nostro di �corso : grandezza raPpresentativa e
autoconservazione, con la prima, ovviamente, in sottile e di­
sperata funzione della seconda.
28 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

Claudio Monteverdi ( 1 567- 1 643) è il primo grande musici­


sta della storia per un motivo molto semplice : perché permet­
te lo sviluppo dei problemi di cui abbiamo fin qui parlato, in
una dimensione assolutamente personale, valendosi appunto,
per la realizzazione di tale dimensione, di un linguaggio affatto
maturo e pronto a un completo scambio dialettico .
Nato a Cremona, Monteverdi fu a contatto con gli ambienti
culturali piu aggiornati d'Italia ; maestro di cappella alla corte
di Mantova, vicino alla cerchia della Camerata Fiorentina,
maestro di cappella a Venezia (città in cui ebbe, da parte
dell'aristocrazia illuminata, importanti commissioni ), il musi­
cista ha lasciato madrigali e opere. Ricordiamo, fra queste,
Orfeo, Il ballo delle ingrate, L'incoronazione di Poppea e, da
ultimo, Il combattimento di Tancredi e Clorinda ( ufficialmen­
te, un madrigale) , tratto dalla Gerusalemme liberata di Tasso .
È ozioso, c i sembra, stabilire se, d i Monteverdi, siano piu
importanti i madrigali o le opere. Anche se, come si ricordava
sopra , il rapporto con la parola è, sul piano immediatamente
semantico, molto diverso (con il melodramma che la svolge
«naturalmente», cioè in senso temporale-orizzontale ; e con il
madrigale che ne stravolge l 'ordine ), le due espressioni attin­
gono a una realtà comune.
Nei madrigali monteverdiani il testo è, spesso, convenziona­
le, e anche piatto, banale. Ma la musica, in un certo senso ,
razionalizza codesta banalità, ne avalla la convenzione nei
confronti della quale i testi poetici stessi sono, piu che altro,
l'effetto d'una causa che va cercata altrove. Che va cercata, per
la precisione, in una koinè ideologica e concettuale che, al
limite, non ha piu bisogno di riprove «altamente poetiche» .
Che, meglio, non può piu averle perché quella cultura ha
perso il contatto con la vita, con il suo originario serbatoio di
quotidianità, e si occupa e si preoccupa solo di perpetuare il
gergo, la propria ragione di vita.
In quest'opera di perpetuazione, Monteverdi ha un ruolo
gigantesco. Egli esaspera la dimensione umanistica della paro­
la : la blocca, la designifica, la rende fonema che avvolge e
protegge la morbida dissoluzione su cui essa stessa si fonda.
Una dissoluzione che è l 'ultima tappa dell'isolamento : anch'es­
so preso, dato per scontato e sviluppato da Monteverdi. Il
musicista - vogliamo dire - ha bisogno di libertà e di
autonomia per il suo discorso. Ora , queste libertà e autono­
mia, egli le trova realizzando una de-significazione della parola
(o, meglio, accettando in pieno tale de-significazione) che era
'
L ARI STOCRAZIA DEL CINQUECENTO 29

nell'ordine delle cose, che combaciava con l'implicita possibili­


-
tà di identificazione fra parola stessa e atmosfera, e « aura», e
allusività. Monteverdi c� mpie alla perfezione questo trapasso,
realizza esplicitamente ciò che era implicito : e, cosf facendo,
dà un po' di respiro a quegli ambienti, fornisce loro una
possibilità di ulteriore sopravvivenza. Un contributo geniale e
personale: ma che non ci può far chiudere gli occhi sul fatto
che Monteverdi, il primo grandissimo musicista della storia, è
anche l'ultimo rappresentante di una certa cultura. Segno ,
questo, che la presenza individuale, per quanto grande, è
sempre sottomessa all'ambiente : un ambiente che, dopo - la
preziosa boccata d'ossigeno, prosegue irreversibilmente verso
la orooria fine.
È, p iuttosto, piu interessante notare la possibilità di contri­
buto individuale che, per la prima volta , si pone in campo
musicale: individuale , intendiamo, nel senso di esistenziale.
Monteverdi, cioè . prendendo possesso del fatto che la parola
umanistic3. può allontanarsi dal suo significato logico e assur­
gere a fonema. a «aura », interpreta il ruolo di un grande
decoratore perfettamente integrato in quell'ambiente. Perché
la sua azione è tesa alla conservazione dell'ambiente stesso.
All'interno, però, di quella posizione, l\tJonteverdi riesce a
sprigionare un nuovo drammatismo : quello che gli deriva
dalla radicalizzazione della parola scissa in fonema. E il fone­
ma ha confini piu elastici, un volume piu morbido, una oossi­
bilità di contrapposizione diversa rispetto alla parola. Ecco :
Monteverdi assume fino alle estreme conseguenze questo
drammatismo; egli , vob-endo la parola in fonema, toglie via i
fondamenti razionali della parola stessa, delle oarole ordinate
in concetti e in immagini. La strada è nuova, larghissima, ma
incredibilmente breve: non può essere gestita che per lo
spazio d'una stagione ; non può entrare in dissonanza con la
civiltà da cui proviene perché non ha alcuno strumento alter­
nativo . L'irrazionalismo è, dunaue, il frutto di una totale,
bruciante partecipazione esistenziale al drammatismo, alle pos­
sibilità drammatiche da consumare subito. Lo struggimento
monteverdiano è in questo guardare aJ pass�.to, all'ambiente di
proveniem:a, come a un cordone ombelicale che non si ouò
tagliare. È in questa musica che) ancora, non può fondare
::1lcunché di nuovo per via della sua nasci ta legata a quell 'ideo­
logia, per la sua funzione di conservazione di quella ideologia .
Drammatismo struggente e personale, dunque : un nuovo aval­
lo a una situazione chiusa.
30 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

La consapevolezza della potenza dell'arte musicale, Monte­


verdi la dimostra quando, nella prefazione al Combattimento
di Tancredi e Clorinda, si scaglia contro le degenerazioni della
musica stessa, cioè contro il virtuosismo spinto. Il virtuosismo
spinto, intendiamo dire , si oppone a ciò che il melodramma
significa: uno sviluppo della musica secondo un drammatismo
estensivo, narrato. Cioè, se il madrigale si crea uno spazio
concettuale, il melodramma ha bisogno d'uno spazio fisico.
Cosf, scopre (o avalla definitivamente ) le possibilità di soste­
gno qualificante proprie degli strumenti, e si fonda su un testo
che, percepibile come tale, deve essere di grande rilievo. Il
Combattimento stesso, lo si ricorderà, è tratto dalla Gerusa­
lemme. E la narrazione ha, per scopo, la sottolineatura di una
dimensione fuggevole e melanconica. Chi, in questo, piu di
Tasso?
Ma siamo , qui, nei medesimi àmbiti di cui si oarlava sopra
nella presentazione del melodramma. Monteverdi li esaspera
avendo le medesime ragioni estremistiche descritte a proposito
del madrigale : ma, ovviamente, con esiti formali diversi . Ché,
mentre nel madrigale l'irrazionalismo sensuale si fondava sulla
designificazione della parola, nel melodramma la parola stessa
è esaltata nel suo ordine «logico» originario . Esaltata, però,
anche nella sua allusività mortuaria, nella sottolineatura -
operata , appunto, dalla musica - d'un esito finale che Monte­
verdi (qui sta la sua grandezza) conosce individualisticamente
come tale, ma che non può non riconvergere in un potenzia­
mento di quegli ambienti. La scelta della morte di Clorinda
non è affatto casuale: dal momento che tale grande scena
«risolve », «realizza» la consapevolezza di Tasso sulla fine di
quel mondo e, anche, la sua coscienza di non poter essere
altrimenti. Monteverdi lo prende per mano e ne approfondisce,
arricchendole , le ragioni . Ma la direzione è, ripetiamo, la
medesima.

Quello di Gesualdo da Venosa ( 1 560c.- 1 6 1 3 ) è un caso


molto esemplare nella sua atipicità. Questo nobile meridionale
dalla vita avventurosa e tragica, in bilico fra lucidità e pazzia,.
ospite degli ambienti fiorentini e veneziani. amico di Tasso,
decide di trapiantarsi in casa la civiltà madrigalistica rinasci­
mentale. Stipendia musicisti, spende cifre folli per l 'impianto
d'una stamperia musicale, e oroduce madrigali (su testi che
oossono essere di Tasso o di chissà quale ingeniale manierista)
la cui fattura tecnica è d'una sbalorditiva modernità. Uso e
'
L ARI STOCRAZIA DEL CINQUECENTO 31

acutissimo, luminoso abuso di cromatismo, capriCCI armomci,


espasperazione in senso anarchico della designificazione della
parola di cui si diceva sopra, messa in discussione degli stessi
centri tonali.
Il caso di Gesualdo è il frutto d'un individualismo che non
ha remore nell'estremizzare gli assunti culturali del proprio
ambiente . Di un ambiente che il compositore vuole ricrearsi
- si diceva - in casa, in un'area culturale del tutto estranea :
finendo, di fatto, col ricrearlo nella propria mente. È il primo
caso di solipsismo della storia della musica : e, da esso, discen­
dono tutti i tratti esasperati che contraddistinguono la produ­
zione gesualdiana.
In questo rapporto, sono da notare due cose . La prima, è di
ordine psicologico . Vogliamo dire che quella cultura umanisti­
ca che sfocia nel rapporto madrigalistico parola-suono, è ormai
tanto matura da poter sviluppare, e ospitare pienamente , un
caso abnorme, l'alterazione che non può essere semplicemente
identificata con lo stato oggettivamente patologico di Gesual­
do. Questo stato patologico , piuttosto, può completamente
realizzarsi con un linguaggio che, evidentemente, è docile ed
elastico, con una rappresentatività linguistica che può ripro­
durre ogni distorsione del rapporto uomo-ambiente : fino a
quella che contempla il secondo nel primo.
La seconda cosa, strettamente complementare, riguarda
l'ambiente stesso che, nella misura in cui appare elastico fino a
poter ospitare una personalità abnorme, difforme, «malata» ,
risucchia a sé tale difformità . Intendiamo dire che Gesualdo,
personaggio «diverso» sia per il suo precario equilibrio men­
tale sia, soprattutto, per le condizioni in cui vive il mondo del
tardo Rinascimento, può, sf, dare sfogo ed esito pieno alle sue
stravaganze. Ma, nel momento stesso in cui si realizzano in
apparente libertà, esse appaiono sempre il frutto della mede­
sima tematica culturale.
Che questa, in tal modo, esca rafforzata dall'esperienza
gesualdiana , è sin troppo ovvio . Ciò su cui vale la pena di
mettere l'accento in modo particolare, è l'ineluttabilità, il non
poter essere altrimenti della cultura.
Tutta la storia della nostra civiltà è piena di personaggi
difformi ; in certe circostanze, però, questa difformità, proprio
per sopravvivere a livello esistenziale, trova degli sbocchi che
si pongono in senso alternativo alla cultura di base; specie
quando può reperire appoggi a una realtà di base , a un
«pubblico », a un mondo di tipo diverso. È ciò che non accade
32 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

nel nostro tardo Rinascimento, vera gabbia dorata contro cui


tutto si infrange, per il semplice fatto che, in essa, tutto può
trovare soddisfazione . Mai, come in queste esperienze musicali,
la cultura del tardo Rinascimento ha potuto trovare conferma
del suo ambiguo senso del presente. Nei confronti di esso, il
«folle» Gesualdo, impossibilitato a integrarsi nel senso splen­
dido ( e anch'esso, s'è visto, non ignaro, ancorché impotente, nei
confronti di tragicità future) dell'integrazione monteverdiana,
non può assolutamente dissociarsi. L'individualismo alternati­
vo, è realizzabile solo nella via della scienza, in quel periodo.
Dal versante che abbiamo sommariamente esaminato, il mondo
del Rinascimento non ha comunicazione col futuro, col «re­
sto» della storia.
3 . LA GRANDE CRISI RELIGIOSA : RIFORMA E
CONTRORIFORMA

Dopo una lunga riluttanza, la Chiesa accetta di farsi rappre­


sentare da una musica in grado di valorizzare ogni possibile
tecnica ; anzi, si appropria di questa musica, se ne fa il centro
trionfante. Di essa, e di ogni altra manifestazione di arte
«mondana». La Chiesa rinascimentale, subito potenzialmente
e preventivamente contro-riformistica, si vale soprattutto di
canalizzazioni plastiche : e, in ciò , riesce ad acutamente ap­
profittare della disponibilità e dell 'indifferenza «trascendenta­
li» dei grandi artisti del Rinascimento.
La musica di questo periodo - che ha il suo culmine in
Giovanni Pierluigi da Palestrina - presenta una certa con­
traddizione con la, mai ufficialmente smentita e superata, in
pratica fino ai nostri giorni - disciplina del gregoriano. Si
direbbe, cioè, che il canto gregoriano stesso, dopo essere stato
uno dei momenti qualificanti di una conservazione-riduzione
emblematica del potere spirituale interferente sullo scorrere
della vita, si stagli, nel Rinascimento, quasi come il rappresen­
tante di un' «altra» Chiesa, quella originaria, trappistica, so­
bria, rigorosa. Di contro, ovviamente, al ricco ed estroverso
plasticismo della polifonia. In realtà, non v'è contraddizione .
Perché, mentre la Chiesa del Gregoriano è, nel Rinascimento,
la custode di un passato di cui interessano non già i valori
ideologici e religiosi, bensf quelli positivi, rappresentativi, ri­
sultanti dalla costituzione metafisica dell'oggetto-potere (il can­
to gregoriano, appunto : insieme ad altro, è ovvio) come
manifestazione ufficiale - la Chiesa rinascimentale non è altro
che un aggiornamento della medesima tendenza : essa si mani­
festa realizzando, in quel momento storico, una tensione verso
l'oggetto che è tipica della grande paganità del Rinascimento.
In realtà, essa ha bisogno di tale oggetto : ma riesce, alla
perfezione, a mascherare il bisogno convogliando la ricchezza
obiettiva di immagini in qualcosa di rappresentativo ( e in ciò
facendo leva, dicevamo, su una totale indifferenza religiosa dei
34 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

grandi protagonisti) . Del resto , a causa della sua posizione


negativa nei confronti dello scorrere del tempo e del mutare
delle cose nonché del valore e della posizione delle cose, la
Chiesa assume a propria immagine, al di sopra delle contrad­
dizioni originarie, ogni momento della storia. E assumere a
propria immagine, significa anche questo : che il canto grego­
riano, con il suo trappismo e con la sua originaria vicinanza
motivica alla base, diventa un che di rappresentativo e, al
limite, di plastico; e che la polifonia, con la sua estroversa
mondanità, diventa un qualcosa di spirituale. Anche qui, una
designi:ficazione degli originali : in luogo degli uomini e della
vita, l' « idea» che non muta perché non muta la sua funzione :
di essere rappresentativa.
L'opposizione a questo , non poteva essere solo «artistica» :
abbisognava di elementi squisitamente e radicalmente «politi­
ci» e, anche, di una condizione di non dipendenza, dei singoli,
da un passato che si tesaurizzava in senso umanistico, vale a
dire in senso individualistico-conservativo. La condizione di
Lutero, insomma . Condizione irrealizzabile a Roma : in quella
Roma che, ben piu radicalmente degli altri centri di potere
italiani ( magari piu laici ), poteva riempire il vuoto d'essere dei
grandi artisti sf. da avallare, rinforzare e promuovere continue
azioni verso l 'esterno, fino ad allontanare sempre di piu tale
vuoto. Bisogno reciproco e, diciamo, perfetto : l'una degli altri
e gli altri dell'una. Il vuoto d'essere, in tal senso, può venire
riempito da una coscienza di continuità che, per gli artisti, si
costituisce come una scala per la crescita continua (per esem­
pio : dal gregoriano alla polifonia) e, per la Chiesa, come un
avallo alla sopra ricordata unità trascendente passato-presente.
Autore, in gioventu, di un libro di madrigali profani poi
ritrattato, Palestrina ( 1 525- 1594 ) , nella sua rilevante produ­
zione religiosa ( madrigali spirituali, messe, ecc.) dimostra, ol­
tre che una compiuta assimilazione della tecnica contrappunti­
stica, un'essenzialità espressiva che può far parlare di fede
robusta, autosufficiente, priva quindi di indugi e perfettamente
incanalata nella grandezza del gesto musicale estroverso. È
stato pure detto, giustamente anche se incompletamente ( cioè,
al solito, «musicologicamente» ), che, la sua, è una religiosità
«chiusa » verso l'esterno. Con ogni evidenza, ci si riferiva
all'appagamento plastico che non denota tanto un'identifica­
zione dell'artista con la religione ufficiale , quanto quell 'appog­
gio reciproco fra interno ed esterno, fra Chiesa e individuo, di
cui si parlava. Appoggio che - ripetiamo - non è peculiar-
RIFORMA E CONTRORIFORMA 35

mente religioso, ma effetto di un patto tacito che, in concreto,


porta la Chiesa ad abbracciare un'arte realizzata con tutti gli
artifici mondani nonché - e questo è molto importante -
del tutto indifferente alla comprensibilità del testo «edifican­
te».
Nel periodo che precede immediatamente la Riforma prote­
stante, la Chiesa gestisce la ricchezza anche musicale non
tanto, ancora, come contrapposizione (anche se non erano
certo mancati i segni premonitori prima di Lutero ), quanto
come «naturale» processo di accrescimento mondano che non
conosce ostacoli, o, meglio, che tutti li risolve sotto un segno
immutabile. Questo processo di accrescimento mondano rende
il positivo umano-p�_gano un soggetto storico astuto e univer­
salmente valido : e questo, naturalmente, non tanto per via di
motivazioni religiose, quanto per la capacità, di tale soggetto ,
di porsi come terminale di ogni processo di accrescimento
dell'arte.
Non ci si potrebbe spiegare altrimenti la posizione di Pa­
lestrina : che, ripetiamo, non è un caso isolato, ma che si pone
come vertice di una tendenza, e che, pur presentando all'anali­
.
si validissimi motivi personali , tutti li risolve convogliandoli in
una gigantesca rapp resentatività. Se il «fare» umano ha una
finalità immanente - il regno di dio sulla terra -, e se
questa immanenza è radicata in un'indiscutibile trascendenza,
il risultato non può che essere quella ricchezza oggettiva che
Palestrina gestisce in modo superbo.
Questa immane contraddizione può venire denunciata solo
dall'esterno : cioè, o dal mondo scientifico . che la Chiesa
congruentemente combatte ; oppure da un Lutero, che può
appoggiarsi a una realtà socio-economica diversa. Dall'interno ,
è impossibile ogni denuncia: e , ora, non piu solo per il piu
volte ricordato vuoto d'essere degli artisti, ma anche, e com­
plementarmente, per il riempimento di esso da parte di una
ricchezza che rende le cose pienamente disponibili all'uomo e
che, di fatto, rende l'uomo padrone assoluto - non importa
in nome di che cosa - dei suoi materiali, sviluppabili senza
che sia necessario fare i conti con un qualcosa che rappresenti
concretamente e che, con ciò, ponga dei limiti nel nome della
dialettica della vita. Non essendoci dialettica, c'è solo accre­
scimento .
In definitiva, ciò che deve essete tenuto in considerazione,
nel quadro del maturo Rinascimento musicale romano, è que­
sto netto spirito pagano che riesce a farsi luce grazie al
36 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

supporto religioso-esistenziale su cui abbiamo insistito. Lo


spirito contrappuntistico di Palestrina non è gioioso né -
come, ingenuamente, si crede - mistico ; è solo potente e ben
consapevole dell'incastro perfetto di cui questa potenza è sim­
bolo.

È noto che Martin Lutero ( 1 4 83-1546) ebbe un'attenzione e


una cura particolarissime per la musica . Ora, per cercare di
capire il fenomeno musicale, la funzione di esso all'interno
dell 'azione della Riforma, dovremo cambiare assolutamente gli
àmbiti tradizionali e, per prima cosa, superare lo stacco -
decisivo in Italia - fra artista e « spettatori » . Il funzionali­
smo del primo in rapporto alle esigenze dei secondi, e quindi
la partecipazione di questi al lavoro, non «diviso» , del primo
- sono cosf stretti, che la società luterana ebbe la sua prima
leadership artistico-musicale (cioè, uno «stacco») solo con J.
S. Bach, che nacque quasi esattamente due secoli dopo Lutero.
Il quale Lutero si giovò, ovviamente, dell'aiuto di qualche
1musicista «professionista» (per esempio, di Johann Walther),
ma, soprattutto, trattò in prima persona la problematica musi­
cale lavorando su quel tessuto comune corale che è un riflesso
diretto della realtà sulla quale poté svolgersi la sua azione
politico-religiosa . Ecco : l a prima cosa da notare a proposito
della musica riformata, è la piena e completa presa di coscien­
za, da p arte di Lutero , di questo tessuto comune, corale.
È bene sottolineare, poi, che, alla base di quest 'azione
musicale protestante, non vi è solo una reazione moralistica :
la semplicità della musica popolare, compresa e cantata da
tutti, di contro alle esasperate, ed esasperanti per l 'esterno,
raffinatezza e difficoltà della polifonia dotta italiana del Rina­
scimento . Il moralismo è, diremmo, una conseguenza esterna,
al pari della polemica (verbosissima in Lutero) , di una realtà
che ha, in sé e nella sobria secchezza dei suoi elementi , motivi
sufficienti per un'autonomia. La musica protestante ci può
comprovare questo conceho , non privo di importanza storica.
Non, dunque, moralismo, da parte di Lutero, ma rivendica­
zione e appropriazione, con la presa di coscienza, della musica
legata al basso , con interessi provenienti direttamente dalla
base . Appropriazione , in particolare, per mezzo di un lavoro
volto a ufficializzare , nella pratica del culto, tale musica e ,
quindi, a diffondere, a d allargare tale presa d i coscienza .
Si sa che uno dei fondamenti dell'azione di Lutero era la
lingua tedesca, la sua introduzione nell 'ufficio divino ; in prati-
RIFORMA E CONTRORIFORMA 37

ca, un processo di disalienazione in virtu del quale il fedele


poteva riconoscersi nelle formule che stava recitando. Quanto,
dal punto di vista non solo religioso e ideologico ma anche
sociale e politico, quanto sia importante tale processo, è sin
troppo noto . Quel che ci preme ricordare , è che esso è il
medesimo che regola la condotta musicale della società rifor­
mata. Vogliamo dire che non v'è alcuna discussione teorica sui
rapporti fra la parola e la musica : la funzionalizzazione di
quest'ultima, infatti , presuppone gerarchie nette e incontrover­
tibili, rapporti grazie ai quali la musica stessa non è un
semplice supporto per la parola (ipostatizzata e carica di storia
«culta» ), ma l 'elemento vivo dell'essere-insieme, della comuni­
tà appunto.
Abbiamo visto, in Italia, come la musica nasca per ultima,
come - cioè - giunga per ultima alla maturità, alla consape­
volezza dei propri mezzi rappresentativi. In Germania, il pro­
cesso è ribaltato perché (a parte la predilezione naturale di
questo popolo per l'arte sonora) , è la comunità che giunge ,
come tale, all'urto politico o, quanto meno, alle scelte, di
contro all'individualismo delle nazioni mediterranee. E, per
un'azione del genere, una comunità deve avere un patrimonio
unificante: ma unificante non già in nome e per mezzo della
mediazione culturale ( come, per esempio, il linguaggio pittori­
co italiano nel '400 e nel '500), bensi in nome della sua stessa
compattezza , almeno potenzialmente , socio-economica. La me­
diazione culturale individuale, verrà piu tardi : ripetiamo, con
Bach. E non smentirà - almeno nello spazio di due genera­
zioni - la sua base di partenza.
E, infà tti , la presa di coscienza di cui si parlava sopra, non
è ancora «culturale-spirituale» ma, appunto, pratica. Ed è
dalla pratica che nasce la musica : intuita, da Lutero , nella sua
immensa capacità di cementare in quanto portatrice di una
realtà costituitasi , ormai, in modo tale da esigere propri stru­
menti di culto, indipendenza , autonomia.
Quella a cui Lutero presta la sua attenzione è, dunque, una
musica di alto e disponibile valore sociale. Piu in là, quando
questa società sarà in grado di raccogliere e di contemplare i
frutti del suo sviluppo borghese alternativo a Roma, tale
musica avrà anche uno sviluppo <(artistico:.> leggibile come
elemento infrastrutturale ; al momento, tale sviluppo ( indivi­
dualistico) non è ancora necessario . Vanti-rinascimento tedesco
può presupporre questa scala di valori : la quale cederà il
posto alla vecchia, al ripristino della vecchia, quando la società
38 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

luterana avrà incominciato a raccogliere frutti economici tali


da consentirle di entrare nella prima fase di autoconservazione
voluta : quella del «rispecchiamento estetico», della consape�
vole tesaurizzazione di se stessa.
Ci sembra importante, al momento, proporre la musica cora­
le come un qualcosa di non elaborato, di non mediato indivi�
dualisticamente; e, quindi, come simbolo d'una società del
tutto diversa. Da notare, infine, che la musica offre questo
tipo di testimonianza storica molto piu delle altre discipline. È
che l '« arte del demonio», che Lutero non ha alcuna remora a
utilizzare a onta delle sue manifestazioni che in Italia , l'ab­
biamo visto, erano la quintessenza della sottile , e sottilmente
disperata, conservazione di una determinata gerarchia di valori
- l' «arte del demonio» può essere restituita con facilità alla
sua funzione di «voce del popolo e di Dio», cioè dell'imma­
nenza divina, di contro alla conservazione dell'ufficialità reli­
giosa cattolica, radicata dal, e manifestantesi nel, concetto di
trascendenza.
Questa possibilità di funzionalizzare diversamente la musica,
tanto profonda da costituire una grande base per il futuro,
spiega e comprova, appunto, l'anti-rinascimento tedesco o,
meglio, la restituzione dei termini al loro originario significa­
to : lo «spirituale» è solo preghiera (con, a monte, la nota
coscienza del peccato di Lutero ), non già una carnalità piu
aerea solo perché piu rarefatta e raffinata. È tutto un modo
diverso di concepire la vita (i rapporti col trascendente , con
l 'uomo, col proprio passato, ecc.), sul cui drammatismo alter­
nativo non si è ancora sufficientemente insistito, malgrado la
musica - con le sue abissali e in un certo senso traumatiche
differenze di concezione e d'uso fra Germania e Italia - stia
1f a rivelarne tutta la potenza e tutta la capacità chiarificatrice
di decisivi nessi storici.

Se il corale luterano si pone come una «via nazionale» della


musica e, a monte, della religione, l'oratorio controriformistico
romano è , diremmo, un esplicito veicolo religioso di tipo
eminentemente rappresentativo . Il corale luterano «è» la pre­
ghiera ; l'oratorio romano è il mondo della preghiera. Il circui­
to ideologico del primo, diviene ; quello del secondo h a un
,
moto univoco che, dall'alto, discende verso il basso. E un
mondo di figure edificanti , un almanacco illustrato esemplare :
a tal punto, che la sua forza plastica toglie via la possibilità di
RIFORMA E CONTRORIFORMA 39

verificare di chi sia, a chi appartenga, politicamente, questa


«edificazione» .
I l grande teorico dell'oratorio controriformistico, è Filippo
Neri ( 1 5 15-1595 ): di musica, egli è solo un «appassionato»,
ma questo gli basta per avere idee, e quindi per enunciare
direttive, molto chiare circa gli scopi della musica stessa all'in­
terno di una situazione religiosa di cui, naturalmente, egli
avverte tutta la delicatezza e tutta la pericolosità.
La musica deve, dunque, «edificare» . I pericoli di una
funzione contraria, portano all'individuazione di un nemico. E
questo nemico non è, non può essere, il corale luterano, delle
cui funzioni e caratteristiche non si può ancora avere, a Roma,
esatta cognizione . No : il demonio da esorcizzare, è la musica
profana, il teatro , la passione e gli ideali mondani ch'esso
suscita e che persegue.
L'individuazione di un nemico siffatto spiega e il successo
politico e il fallimento ideologico della musica controriformi­
s tica. Spiega il successo politico perché, mentre la musica
profana ( teatrale e, come vedremo , di potenti prospettive
strumentali ) si rivolgeva a un pubblico di tipo aristocratico,
avallandone l'isolamento e preparando, dalle ricordate prospet­
tive strumentali, un nuovo sbocco individualistico, l'oratorio,
pilotato verso la massa di fedeli, trova facile accesso. Cioè : gli
interessi della Chiesa trovano un inconsapevole alleato ( o
astuto : ma d'un'astuzia che interessa ambedue gli àmbiti socia­
li) nell'aristocrazia; questa, infatti, ha tutto l'interesse a lascia­
re fuori il popolo al fine di potèr consumare indisturbata le
proprie prerogative ; mentre quella, la Chiesa, vuole tenere
«occupato» il popolo stesso : appunto, con rappresentazioni
edificanti (l'aristocrazia «nera» romana nasce in queste circo­
stanze ). Di qui, il successo politico : che si fonda - come, in
un certo senso, avveniva per le arti visive - su un'agevole
traducibilità popolare delle posizioni degli artisti. Vogliamo
dire che tutta la cultura della base, durante la Controriforma,
ha, come caratteristica, una facile traducibilità popolare di un
messaggio colto. Non che gli artisti fossero popolari : piutto­
sto, le loro proposte acquistano, dal consumo che proviene
dal basso, una vita propria che, addirittura, finisce con condi­
zionare gli artisti stessi senza che questo incida sulle loro
posizioni ideologiche fondamentali. La grande posizione e
contrapposizione di masse volumetriche ( in musica, ma non
solo ) eccita il plasticismo : la sua creazione ( un positivo ! ) ,
come il suo consumo. E può prescindere, non solo d a reali
40 STORIA SOCIALE DELLA MU S ICA

aderenze con la problematica della base, ma da ogni autentico


drammatismo formativo . La strada è aperta : basta percorrerla
ma, soprattutto, riempirla. Non si tratta, da parte degli artisti,
di dire di no a un certo tipo di esperienza democratica : si
tratta di mantenersi negli àmbiti individualistici, privi di al­
ternative, emersi sin dal primissimo umanesimo. E si tratta di
soddisfarli nell'unico modo possibile allora : cioè assecondando
una silenziosa richiesta di plasticismo positivo e aproblematico
che sancisce lo stacco storico fra cultura e massa, con soddi­
sfazione piena dell'una e dell'altra.
Cosf si spiega, anche, il fallimento ideologico della musica
controriformistica : si spiega con l'aggiunta, alle ragioni impli­
Gite nel discorso di sopra, di quelle del bersaglio sbagliato. La
crisi non era nella musica profana, negli ideali terreni del
teatro drammatico, ma, appunto, nell'assenza di quotidianità
nella religione stessa, cioè nella sua non aderenza alla vita, a
un insieme di interessi anche sociali la cui frammentazione, del
resto, era alla base della civiltà cattolica dalla fine del Medioevo
in poi. Ecco, quindi, la brevità della stagione dell'oratorio
controriformistico e, soprattutto, il suo legame solo filologico e
deduttivo col resto della storia della musica italiana : valida
unicamente quando prende coscienza, senza volerne paternali­
sticamente o velleitariamente superare i limiti, della propria
fatale struttura aristocratica, che si sarebbe estesa fino al
risveglio della borghesia, fino al Risorgimento, a Verdi.
Giacomo Carissimi ( 1 605- 167 4 ) e, poi, Alessandro Stradella
( 1 644- 1682) e Alessandro Scarlatti ( 1 660- 1 725 ) sono fra i
massimi esponenti della stagione dell'oratorio.
Il drammatismo - limitiamoci al caso piu illustre - di
Carissimi, è esemplare, pieno di forza rappresentativa. Ma,
dato il destinatario e il conseguente obbligo di rigore, deve
interessare, piu che il pur indiscutibile pregio estetico, la non
oscillazione di una visione del mondo che deve discendere da
un dogma non fluttuante. Ed è proprio questa concezione
distributiva (che evoca l'aspetto repressivo della Controriforma
non certo solo per suggestione) che tiene fuori dalla rappre­
sentazione la vita «altra», vale a dire gli interessi, le caratte­
ristiche, lo stesso divenire del popolo a cui pure si rivolge .
Emarginando in tal modo, si diceva, dalla storia, la musica
italiana e lasciandola scorrere solo in un circuito di tipo
aristocratico : il medesimo da cui, tutto sommato, deriva la
musica dell'oratorio (col suo stesso drammatismo, sul quale
torneremo ) ; il medesimo che, di H a pochissimo tempo, e anzi
RIFORMA E CONTRORIFORMA 41

già con Frescobaldi , trova, per l a musica, uno sbocco nel­


l'indipendenza, ma anche nell'individualismo, dell'espressione
strumentale.
L'oratorio manca, perciò, di ogni possibile vitalità intellet­
tuale perché di fatto, anche se debitore , rinnega (cioè, non
prende coscienza de ) la, del resto ormai lontana, concezione
aristocratica ; esso, insomma, vive, può vivere purché vi sia
ignoranza di popolo e finché questa ignoranza non venga
messa di fronte a una rappresentazione piu plasticamente
potente, non importa se sacra o profana. Anzi, tale da corri­
spondere all'«educazione» impartita implicitamente dalla Chie­
sa cattolica : d'una paganità assoluta ( tanto per capire meglio :
che cosa sia la religione popolare attiva, lo abbiamo visto a
proposito del corale luterano ; e lo vedremo con piu particolari
quando si parlerà di Bach ).
Al momento, si può aggiungere che l'oratorio romano si
regge su, promana da, un unicum anti-storico. Il suo non fare
scuola nel mondo, la sua caduta verticale spiegano, ancora una
volta, la grande tragedia socio-culturale italiana : l'assenza di
una classe intermedia fra popolo e aristocrazia ( anche di pen­
siero : anzi, soprattutto ), col primo che «non sa» e con la
seconda che sviluppa il «sapere», nel Seicento , solo nel senso
di una non interferente «curiosità dotta» .
Nell 'epoca precedente , il vuoto d 'essere ; ora, la repressione,
l'imposizione dall'alto . L'assenza di un governo umano nella
musica, l'assenza di un governo che sia l'espressione dei nodi
essenziali e dinamici della storia o che non contrabbandi
questi nodi in circuiti aristocratici sottraendoli, di fatto, al
divenire - fa sf. che la musica stessa, anche se nata da
mirabilmente e drammaticamente individuati spiragli, non abbia
un aggancio esterno sul quale non solo verificarsi, ma anche
svilupparsi ; e che quindi sia soggetta, con regolarità impres­
sionante, a puntuali cadute verticali, prima che il linguaggio
sia consumato in un estenuante, ma probatorio , circuito nel
mondo . Prima il madrigale, ora l 'oratorio, in séguito le grandi
esperienze strumentali (pensiamo alla lunghissima ed emblema­
tica agonia, prima della morte, della musica romantico-ideali­
stica tedesca, nata dalla partecipazione , anzi dalla gestione,
della classe essenziale : la borghesia).
Questo - lo ribadiamo - non toglie la presenza di gran­
dissimi momenti. Anche nell'oratorio, l'obbligo di salvezza
riesce a creare un drammatismo che, contingentemente , ben
riscatta le zone oscure di quel rapporto uomo-divinità. Un
42 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

drammatismo che però, in tal senso, continua a non poter


essere recepito come contrapposizione di negativo e di positi­
vo .
Questa disaggregazione sociale nega la possibilità di un
mondo moderno: quale, cioè, si può generare solo da una
classe consapevole di se stessa . Ciò che avanza da questo
computo, può essere singolarmente notevole, ma non comporta
la possibilità di formazione di un tessuto connettivo. Quale è
la vera Italia del '600? Quella del residuo umanistico-indivi­
dualistico; quella dell'empirismo scientifico ; o quella della
Controriforma? Il tragico è che, nel nostro quadro , nessuna
delle soluzioni esclude l 'altra, e che nessuna , quindi, si può
imporre come rappresentante di qualcosa di essenziale o di
consapevolmente maggioritario .
4. IL PROFANO NEL SEI E NEL SETTECENTO

Con Girolamo Frescobaldi ( 1583-1 643 ) e, in séguito, con


Alessandro Scalatti nasce, dunque, la grande musica strumen­
tale, la disciplina autonoma e capace di porsi come origine di
una strada che perviene fino all'età moderna. Domandiamoci :
nasce, in nome di che cosa, e per rappresentare che cosa?
Frescobaldi è considerato il primo compositore barocco : egli
sviluppa un gesto musicale in larghi volumi contrapposti ; la
su a «variazione» esalta l'inventività o, meglio, la possibilità,
della materia, di essere accresciuta e «variata» senza perdere
di vista il tema di partenza ma, anzi, sfruttandone intensiva­
mente la datità ; e la esalta, per esempio nella Toccata, con
una tensione che, per la prima volta, non ha bisogno di
agganci extra-musicali , religiosi, ecc. È una tensione, appunto,
che inerisce alla materia; e Frescobaldi è grande nel coglierla
dallo sviluppo che, all'ombra del canto, lo strumentalismo
aveva avuto quasi clandestinamente .
Del resto, come già abbiamo potuto vedere, la musica per
canto, di qualsiasi tipo, presuppone una coralità, un insieme di
interessi esplicitamente comuni : siano esse di base, come nel
corale luterano, ovvero d'élite, come nel madrigale. Abbiamo
visto, in Italia, che la cultura rinascimentale viene meno dopo
l'ultimo guizzo reso possibile proprio dalla musica ; e che la
religione consentiva lo sviluppo del pensiero musicale solo in
un senso rettilineo e positivo. Non consentiva, cioè , l'indagine
individuale inserita nel contesto di un linguaggio rappresenta­
tivo di un mondo. Non è che mancasse il «mondo » : piutto­
sto, ne erano occultate le caratteristiche dinamiche favorevoli
allo sviluppo di un pensiero laico diffusivo , legato alle leggi di
una materia sufficientemente in evidenza. Sviluppo diffusivo,
intendiamo : ché il Seicento è il secolo delle grandi individuali­
tà materialiste, non solo scientifiche, come Galileo, ma anche
filosofiche, come Spinoza, e sinanco poetiche, come Milton (il
cui interesse per il male, per Satana, è dato dalla possibile
44 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

identificazione di esso con la materia: contemplata, con incon­


fessabile ammirazione, proprio nel suo autonomo movimento) .
Ma, ufficialmente, è il periodo, questo, di G. B . Marino
( 1 569- 1 625 ) ; e sappiamo quanto il marinismo sia stato taccia­
to di inerzia morale dalla critica di impostazione idealistica.
Ora, però, il fatto che, nella stessa generazione di Marino, sia
attivo un Frescobaldi, ci costringe a ripensare a quel periodo,
a rivederne le caratteristiche di fondo, a dare una diversa
evidenza ai diversi spiragli leggibili in Spinoza, Milton, ecc.
Dunque, lo « spiraglio », che, ovviamente, interessa artisti
«integrati» . Dire cose anonime e innocue, dirle bene, e in­
filarvi, dentro, concetti inammissibili altrimenti : per esempio,
1u na concezione epicureistica del mondo . V'è, però, da dire
anche che questi spiragli non indicano, nel caso nostro, un
eroismo della clandestinità, ma uno specifico carattere del
Seicento di cui Spinoza è eccezione : il carattere della mera
curiosità. Magari scanzonata, disinvolta, materialistica : però,
sempre limitata al contingente, cioè non capace di ergersi
come mondo. È la frantumazione, frutto d'una politica repres­
siva, del porgere esplicito e «politicizzato» degli scienziati e ,
anche, il riemergere dell'autosufficienza individualistica .
Anche Frescobaldi si muove fra gli spiragli ; la musica, anzi,
consente un contrabbando maggiore, meno controllabile, di
idee di fatto laiche e autonome. L'atto rilevante è quello dello
stacco dalla parola e l'adesione allo strumentalismo . La prose­
cuzione si affida all'ingegno individuale, all'antica civiltà, a un
mondo di intellettuali pronti a capire e ad apprezzare; nonché
a far circolare le idee : che, comunque, nascono da un circuito
limitato che sarà bene ricordare al momento dell'improvviso
venir meno anche di questo grandissimo episodio della musica
italiana : nato in un'area angusta a causa della situazione
generale della cultura laica.
Il discorso si potenzia per A. Scarlatti e, ovviamente ancora
di piu, per suo figlio Domenico . Per ora, limitiamoci ad
Alessandro ( 1 660-1725 ); non tanto all'operista, quanto all'a­
stuto e tempestivo scopritore definitivo degli strumenti, già
accompagnatori della voce ma, in realtà, elementi di un gioco
compositivo molto piu secco, essenziale, razionale . Sia pur nel
contesto dell'isolamento e dell'individualismo ben noti, c'è un
aggettivo ( «razionale» ) che entra per la prima volta, da pa­
drone, nella storia della musica. Anzi, diremo che le condizioni
di isolamento favoriscono, per reazione, il formarsi di quelle
zone franche guidate dalla ricordata «curiosità» che, scissa dal
IL PROFANO NEL SEI-SETTECENTO 45

mondo, ha tutto l 'interesse a determinare l'hortus conclusus


retto dalla ragione.
Il figlio di Alessandro, Domenico, sarebbe stato uno dei
protagonisti assoluti della creazione della forma-sonata, vale a
dire dello strumento perfetto e autosufficiente della musica,
della logica assoluta del discorso, della guida dei suoi sviluppi,
della capacità rappresentativa d 'una contemplatività mediterra­
nea garante, a se stessa , di circuiti brevi e pregnanti e non
importa se destinati a non durare nel tempo ma, anzi, portati
a ripercorrere l'antico fatalismo individualistico, confortato
dalla presenza empirica piu significante, della cultura meridio­
nale. Di quella forma-sonata, che trasferita al Nord, avrebbe
trovato, in quelle comunità borghesi, tutta l'applicabilità del
suo essere a misura d'uomo . . . Ma il primo passo, lo si deve
ad Alessandro.
Vediamo. Scrive, fra l'altro, opere, tante opere. Aderisce,
cioè, al gusto rappresentativo del mondo barocco dello spetta­
colo : che crea, si direbbe, solo per glacializzare, per trasporta­
re, per conservare tutto in una vastità rappresentativa in cui il
riconoscimento è impossibile . Non è certo, questa, una condi­
zione della sola musica. Non v 'è alternativa sociale perché la
futura grande classe portante, o non c'è o non ha ancora i
mezzi per giungere a coscienza di se stessa. Di qui lo spira­
glio, ricordato, della curiosità; di qui la creazione, all'interno
di quel mondo, di zone razionali che non urtino col contesto.
La nascita fìlosç>fìca di Cartesio, ancora prima di Spinoza,
avviene in condizioni non dissimili : e il fatto che il filosofo
abbia dato il suo nome all'epoca, pur calcando strade minori­
tarie, vuoi dire che l'unica, possibile vitalità era quella del­
l' hortus conclusus individualistico all'interno di un sistema
tanto incombente quanto fatiscente : cioè tale da poter essere
messo fra parentesi .
Paradossalmente, si potrebbe dire che A. Scarlatti metta fra
parentesi l'opera, con tutti i suoi glaciali macchinari rappresen­
tativi ; e che, all'interno di essa, sottolinei il salvabile, privilegi
il percorribile dietro la guida della razionalità di cui si parlava.
Ecco, allora, la vastità dell'opera che si qualifica come un che
di riconoscibile : l' «esplorazione dell'animo umano». Nulla di
rivoluzionario : ma, appunto , una sottolineatura di un elemen­
to convenzionale, innocuo, al limite anche banale. Che però,
appunto per essere prescelto, dimostra non già la tendenza
dell'autore a dissociarsi dal suo mondo, ma il bisogno di
ridurlo all'individualismo. Ed ecco, soprattutto, la cura enorme
46 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

per la pagina strumentale introduttiva, per l'ouverture, vero


modello di percorribilità razionale sottratta agli usi prefigurati
e consumati in partenza.
Abbiamo dato evidenza alla figura di A. Scarlatti non per­
ché il palermitano sia l'unico compositore di rilievo dell'epoca,
ma perché il suo caso incarna, sempre dell'epoca, la tendenza
piu interessante e piu emblematica dello stato generale della
cultura e dei suoi rapporti con la vita. Cioè, un procedimento
che scorre in parallelo con l'ufficialità, con la convenzionalità,
che non le tocca. Ma che denota il bisogno di ricercare,
all'interno di esse, zone di lavoro razionali, anche se non in
grado di uscire dall'individualismo che le caratterizza.
Uno sguardo al mondo dell'opera in generale, potrà fornire
altri elementi al nostro quadro.
« . . . In fin dei conti, mi p are sia piu facile pavoneggiarsi
coi grandi sentimenti, sfidare in versi la Fortuna, accusare il
Fato e ingiuriare gli Dei, che addentrarsi con abilità nel ridico­
lo degli uomini . . . Quando dipingete gli eroi, fate quel che
volete . . . ; non avete che da seguire l'estro di una fantasia che
si scatena e che lascia da parte il vero per correre dietro al
meraviglioso . . . Concludendo, nelle opere serie è sufficiente,
per non essere biasimato, dire cose di buon senso e ben
scritte . . . ». Cos.l Molière ne La critica alla Scuola delle mogli
( 1 663) . Il mondo rappresentato, dunque, è fisso, rigido, astrat­
to : piu che il rispecchiamento, un vero e proprio strumento di
una classe dominante. È ovvio, non solo in Francia ( anche se
c'è il caso, che non rientra, purtroppo, nel nostro assunto, di
un teatro - quello spagnolo di Tirso, Calderon e Lope de
Vega - molto piu sciolto, a onta dell'ufficialità intatta, da
questo rapporto strozzante) .
Dopo Monteverdi, in effetti, il melodramma, nato a corte,
vi rimane curando grandiosi effetti, diremmo, di rappresentan­
za. Non solo, ma incomincia a fiorire, intorno a esso, tutto un
sottobosco di «virtuosi» (soprattutto, soprani e castrati ) che
contribuisce a bloccare il pensiero e ad avallare, a rafforzare il
concetto di strumento di una classe.
Dopo l'esperienza veneziana ( ricordiamo, per esempio,
Francesco Cavalli : 1 602- 1 676), il melodramma si impone a
Napoli. È la stagione dell 'opera seria, dei grandi eroi di cui
parla Molière, della predilezione per il mondo del mito e della
storia antica, cioè per il mondo incontaminabile in cui l'ari­
stocrazia ritrova, non già un modello, ma una fideistica proie-
IL PROFANO NEL SEI-SETTECENTO 47

zione di se stessa, un rinvio delle proprie ragiom m aree,


appunto, incontaminabili , non quotidianizzabili.
L'opera seria si diffonde in tutta Europa. Ma è sintomatico
ch'essa nasca, almeno in una delle sue accezioni piu importan­
ti, a Napoli, e che si sviluppi - come vedremo meglio in
séguito - in Francia. Vale a dire, in due territori socio-cultu­
rali in cui v'è assenza di borghesia : a Napoli, come assenza
storica di ponte fra aristocrazia e «popolo» ( anzi, plebe), e, in
Francia, come mancanza di riconoscimento di una funzione
autentica che sarebbe stata portata in evidenza drammatica e
traumatica della Rivoluzione.
È a Napoli, comunque, che si verifica un evento di straordi­
naria importanza, e che rafforza il quadro sociale testé ricorda­
to : la nascita dell'opera buffa. È un «intermezzo» che inter­
rompe la narrazione dell'opera seria, e che porta in scena
il realismo, il quotidiano : di gusto pesante e plebeo, come
l'innamoramento di fratacchioni e come l'intraprendenza di
astute servette. Ma l'intrusione è avvenuta; i migliori ingegni
si impegnano in questo genere : Giovanni Battista Pergolesi
( 1 7 1 0- 1736 ), per esempio ; e la moda risale l'Italia per trovar­
ne, nel veneziano Bardassarre Galuppi ( 170 6- 1 785 ), un cam­
pione di realismo popolare, ideologicamente in grado di lavo­
rare in parallelo a Goldoni.
Ma - e Napoli può rimanere , anche per il numero di
autori di rilievo come Cimarosa, Paisiello, ecc., il centro del
nostro discorso - questa intrusione del reale nel mito, del
quotidiano nell'astratto, rimane lettera morta; i suoi sviluppi
saranno tutti «di testa» e, anziché dar vita a una rappresenta­
tività nazionale, culmineranno nell'italianità «al quadrato» di
Mozart e di Rossini, dopo aver eccitato, ideologicamente piu
che musicalmente, J.-J. Rousseau ( Le Devin du village nasce
da La serva padrona di Pergolesi ).
Il perché è semplice : questa, potenzialmente ricchissima e
importante, intrusione, non trova una classe in grado di ap­
propriarsi della proposta, dello spiraglio. Come l 'opera seria
muore per l'inesistenza e per la mancanza ideologica dell'ari­
stocrazia, cosi' l'opera buffa muore per l'assenza dell'unica
classe alternativa allora dotata ( dota bile) di consapevolezza
storica, vale a dire della borghesia.
Torneremo, in séguito, a occuparci della musica profana
italiana, soprattutto in rapporto ai grandi movimenti di idee
dell'epoca . Ci interessa, ora, sottolineare le condizioni di nasci­
ta e di sviluppo di queste manifestazioni musicali,
48 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

C'è, in quanto abbiamo visto fino a ora, un'apparente, ma


vistosa, contraddizione o, quanto meno, un conto che non
torna. Tanto la musica strumentale di A. Scarlatti (e, ripetia­
mo, dei suoi successori, a principiare dal figlio Domenico ),
quanto l'opera buffa , sono autentiche manifestazioni di uno
spirito assolutamente laico, della coscienza dell'autosufficienza
materica (inconsciamente contemplata nel senso sopra ricorda­
to a proposito di John Milton). E il laicismo può, in certe
condizioni storiche, identificare il proprio destino e le proprie
forze , con quelli della borghesia. Vero è che, nell'I t alia del
Sud, mancando una borghesia consapevole e in grado di fon­
dare un mondo ( un mondo, quindi, anche rappresentativo ),
queste manifestazioni musicali ci fanno assistere a una serie di
morti precoci o di realizzazioni rimaste a livello potenziale. Sta
di fatto, però, che tali manifestazioni nascono. E che, quindi,
devono esistere particolari condizioni in grado di rendere possi­
bile questa nascita.
Lo strumentalismo - o, meglio, l'autonomia della musica
strumentale - si pone, lo abbiamo già brevemente ricordato ,
come atto individualistico di libertà, come spirito contemplati­
vo-costruttivo eminentemente colto. Siamo nell'ortodossia del­
la cultura mediterranea : asociale nel senso che bada, resa
consapevole dalla lunga consuetudine di disaggregazione civile,
soprattutto alla conservazione e alla vita del singolo ; ma
anche, per i medesimi motivi, abituata a gestire un costume di
tolleranza che la porta, nel momento stesso in cui si crea uno
strumento individuale ( il sonatismo, per esempio), a rendere
disponibile tale strumento. Chiusa all'oggettività sociale, que­
sta civiltà è naturalmente portata a un chiaro e umanistico
rapporto intersoggettivo. È ovvio che questa intersoggettività,
che questa spartibilità del sonatismo, calate in un contesto
sociale in grado di evidenziare una classe attiva e portante (la
borghesia), avrebbe dato luogo a uno sviluppo, del sonatismo
stesso, eminentemente sociale (da Bach in poi). Però questo
sviluppo, e i grandiosi risultati che, favoriti da momenti storici
particolari , esso ha realizzato - non debbono farci dimentica­
re che l'origine è diversa.
Per quanto riguarda, invece, il filone - potenzialmente, ma
solo potenzialmente, piu ricco - dell'opera buffa, occorre
tenere presente la lunga consuetudine al lazzo irriverente e
plebeo della cultura italiana: consuetudine che risale all'epoca
romana e che si perpetua fino al teatro del Cinquecento. Lazzo
plebeo ; ma potremmo parlare di moduli musicali popolari, di
IL PROFANO NEL SEI-S ETTECENTO 49

strutture portanti del medesimo genere (in 'O frate 'nnamura­


to di Pergolesi, si parla addirittura in dialetto napoletano).
Ora, queste manifesta.z ioni popolari - che l'assenza di una
mediazione borghese costringe spesso a un ruolo sociale rea­
zionario, a latere, non interferente : vedi, oggi, la « sceneggia­
ta» napoletana - trovano, nella musica, una possibilità di
realizzazione nuova che, tuttavia, non può farci dimenticare
l'antica tradizione negativa che hanno alle spalle . Tradizione ,
da una parte, socialmente passiva e, dall'altra parte, tale da
poter essere assunta - ancora - in senso «culturale »-indivi­
dualistico. Questi due elementi spiegano l'assenza, nell'opera
buffa, di autentici legami formativi con una classe attiva o,
meglio, la possibilità di esistenza dell'opera buffa stessa, senza
tale classe; e spiegano l'alto grado di raffinatezza e di compiu­
tezza di un genere non preoccupato della propria quotidianità:
la quintessenza - mortale - del popolare.

Il quadro culturale che, nel secolo XVII, ci offre la musica


in Francia, è esemplare per meglio comprendere e integrare
quanto finora abbiamo detto .
Dinanzi alla crescita della borghesia, l'aristocrazia si rifugia
in una rappresentatività eroica, dinanzi alla quale il sentimento
reattivo piu corrente e corretto può essere esemplificato dalla
frase di Molière che abbiamo riportato sopra. Mondo incredi­
bile, quello degli eroi : eppure , ancora, capace di fungere da
modello. Non certo da modello operativo, ma, certo, da mo­
dello di uno stato finale in grado di resistere alle riserve che
montano dal basso , in grado di « tollerare» queste riserve e,
infine, di integrarle come « altro» non distruttivo .
Conosciamo il mondo di Corneille ( 1 606- 1 684 ) e di Racine
( 1 639-1699 ) : un 'umanità eroica le cui tensioni per mantenersi
tale (cioè, staccata dal mondo) sono un fatto che può interes­
sare individualmente la formazione dei due grandi tragedia­
grafi, ma che non si proietta affatto sul, che non condiziona il,
fatto rappresen tato . Alle spalle di questo mondo, è vero , si
ramifica la demistificazione borghese di Molière ( 1 622- 1673 ) ;
e Molière, si sa, è uno dei soggetti preferiti dai ricercatori di
spiragli di autenticità. Ma il fatto stesso che tali spiragli
abbiano bisogno della maschera dell'ambiguità, e che tale
maschera si lasci, oggi, godere in rapporto alla situazione di
quel periodo e di quella cultura - denota la medesima
caratteristica di sopra : una situazione di tolleranza per quelle
che, molto elasticamente, potremmo chiamare rivendicazioni
50 S TORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

borghesi e, quindi, un assestamento delle stesse negli spiragli


che non sapresti piu se definire rivendicati ovvero concessi.
In tali spiragli comunque - ed è questo ciò che interessa
- si può svolgere tutto il resto : dal circuito vitale piu
autentico, alla proposta di una libertà speculativa capace di
grandi progetti che nulla concedono alla rappresentatività eroi­
ca ufficiale ; dallo scimmiottaggio dell'eroismo stesso, ai Di­
scorsi sul metodo ( 1 637 ) di Cartesio. Ciò che piu conta, in
questo contesto generale , è che ciò che non è «aristocratico»
( dalle tensioni individuali di un Corneille alle grandi invenzio­
ni di un Couperin ) può vivere accanto al mondo ufficiale senza
modificarlo, almeno per il momento ; e, a monte, senza potersi
fondare su una classe in grado di raccogliere tale messaggio
alternativo, di appropriarsene .
La situazione musicale, conferma questo quadro . Fiorentino
di nascita, ma naturalizzato francese, Jean-Baptiste Lully
( 1 632- 1 687) è uno dei piu grandi protagonisti delle mirabo­
lanti macchine teatrali della corte francese. Autore di opere e
di balletti su soggetti anche di Corneille, Racine e Molière,
Lully non è, in realtà, un grandissimo musicista. Debole nello
strumentale e nell'armonia, egli ha avuto un merito di grande
momento storico : quello di aver recepito, con onesta e sobria
coscienza professionistica, questa « richiesta» di spettacolo, e
di averla razionalizzata con piena consapevolezza.
Di gran lunga piu importante, è François Couperin
( 1 668-1733), piu interiorizzato e sognante nel Moteti, piu
disinvolto e ricco nella musica descrittiva, «a programma»
(Apothéoses), piu ferreo nella musica «pura» (Suites). Grande
teorico e tecnico, Couperin rappresenta la prima convergenza
storica consapevole di elementi musicali. È interessante notare
come questa convergenza sfoci in un tratto che potrebbe
essere anche borghese {la descrizione, per esempio, dei caratte­
ri e dei paesaggi ) : ma come, anche, questo tratto borghese
non colga l'elemento piu importante della nuova classe, cioè il
suo divenire di contro alla fissità rappresentativa aristocratica.
Insomma, ciò che, di nuovo, può rappresentare la borghesia, è
subito canalizzato nella staticità di cui l'aristocrazia si serve
per testimoniare e avallare se s tessa. E questo, ripetiamo, a
onta del mezzo tecnico «autonomo» a cui Couperin perviene.
Grande teorico è anche Jean-Philippe Rameau ( 1683- 1764).
È lui che individua l'esatto prospetto dinamico del linguaggio
musicale. Non è la melodia - dice -, ma «l'armonia che ci
guida» . Le prospettive aperte da questa individuazione dell'e-
IL PROFANO NEL SEI-SETTECENTO 51

satta funzione delle parti della musica, sono immense : l'uso


della dissonanza e della modulazione non solo sarà decisivo
per lo sviluppo della musica futura, ma già si pone, nella sua
opera, come grandissimo elemento strutturante.
Eppure, neanche l'azione di Rameau riesce a essere rappre­
sentativa di una situazione generale alternativa a quella domi­
nata dall'aristocrazia.
La morale dell'arte borghese, anzi della capacità della bor­
ghesia di porre il proprio mondo, è interessante perché c'è
tutto, di tale mondo ; e c'è, come prima cosa, una funzione
diversa del pensiero e della forma artistica : orientati, l 'uno e
l'altra, non piu verso fini statico-rappresentativi, ma verso fini
meramente speculativi. E, questa, è una costante che unisce in
modo abbastanza evidente i campi piu vari in cui si esercita il
pensiero : dalla filosofia al teatro e alla musica. E, per quanto
riguarda in particolare quest'ultima, non si può non sottolinea­
re la vastità del « campo» musicale di Rameau.
Eppure - si diceva - l'azione del musicista non riesce a
essere rappresentativa di una situazione generale alternativa. Il
fatto è, ancora una volta, che questo pensiero dagli interessi
diversi, che questo pensiero «borghese» vede la luce dallo
stretto pertugio che si è aperto nelle maglie del mondo ari­
stocratico. Lasciamo perdere il clima esterno : che, in Francia,
è molto piu permissivo, o almeno lascia molto piu spazio, di
quanto non avvenga in Italia. Fermiamoci sui vari messaggi
«borghesi» : su A. Scarlatti, su Molière, su Couperin e Ra­
meau, su Cartesio. Tutti risentono della condizione del pertu­
gio, cioè dell'individualismo. Vogliamo dire che tale individua­
lismo ha un che di «eroico» insito nella sua stessa nascita
(opposta agli interessi correnti ) : e tende, quindi, a esaurire un
conto con la vita che non può travalicare gli interessi della
singola persona che si è fatta carico di esso. Ripetiamo ancora
una volta che, da questo pensiero individualistico, sarebbe
nata, nel secolo XVIII, la grande stagione borghese ; ma, per
questo trapasso, sarebbe stato necessario attendere la forma­
zione dal basso : che non può certo dipendere dall'esistenza di
queste pur grandi realizzazioni solitarie. Realizzazioni che,
invece, sono il frutto, sia pur per niente consonante, del
mondo aristocratico. Se, per esempio, gli interpreti del pensie­
ro di Molière vanno in cerca della realtà nuova sotto lo
sberleffo convenzionale della maschera, vuoi dire che questa
realtà nuova non aveva ancora un campo esterno da percorre­
re, e che, se obbediva a una richiesta, questa richiesta era
52 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

difforme ma non «oggettivamente» alternativa. Difforme dalla


norma: quindi, individualistica. E anche mondi intellettuali
piu «costruiti», come quelli di Rameau o di Cartesio, proven­
gono da un desiderio di chiarificazione razionale tipico degli
«spiriti eletti». Piu, però, queste individualità sono nel mon­
do (e il mondo dell'opera è fra i piu rappresentativi della
situazione), piu il loro messaggio si fa cifrato, non interfe­
rente con le grandi strutture. E si torna, cosi, all'assunto
originario : alla «curiosità» dell'intellettuale per il diverso :
cioè a una diretta promanazione, sia pur la piu matura e
disincantata, dal mondo dominante.

Paradossalmente, l'unica grande libertà musicale (libertà nel


mondo, intendiamo) è quella di cui gode l'inglese Henry
Purcell ( 1 658-1695 ) che, nei suoi lavori teatrali ( musiche di
scena per drammi di Shakespeare e, soprattutto, l'opera Dido­
ne e Enea), supera ben presto l'originaria lezione italiana per
aprirsi a un'indagine psicologica priva di freni e dalle profon­
dità sconcertanti. Si può dire che l'Inghilterra è il paese
europeo piu abituato alla presenza, e quindi alla richiesta,
della democrazia borghese. D'accordo : purché, però, si ag­
giunga che questa consuetudine borghese è il frutto - almeno
nella gestione del fatto d'arte musicale eminentemente «rap­
presentativo» - di un meno pressante assolutismo aristocrati­
co. Non a caso l'Inghilterra è, fra i paesi europei di grande
cultura, quello piu povero di indiscutibili talenti musicali.
Quindi, il meno abituato a concepire la musica stessa come
disciplina tesa verso una certa rappresentatività, verso un
certo obbligo rappresentativo; e, quindi, meno ingabbiante, coi
suoi usi e coi suoi precedenti, nei confronti di «non abituali»
grandi talenti.
Ecco che, allora, cade - o, quanto meno, viene fortemente
ridimensionata - la questione della maggiore presenza bor­
ghese : non falsa, certo, ma neanche tale da porsi in alternativa
al resto d'Europa. E restano, in maggiore evidenza, la non­
appropriazione dell'aristocrazia del fatto musicale e la possibi­
lità, per Purcell, di approfittare di tutte le potenzialità insite
nel linguaggio e nel teatro. Ovviamente tipicizzato, quest'ulti­
mo, nel senso che stiamo dicendo, dalla presenza, dalla possibi­
lità di presenza, di uno Shakespeare : non invischiato dalla
nascita in un certo tipo di rappresentatività che la musica non
solo realizza, ma con cui dà un'idea allontanante del potere e
spinge a un adeguamento del genere di quello che abbiamo
IL PROFANO NEL SEI-S ETTECENTO 53

visto in Francia . Il che, oltre a «spiegare» Purcell, è una


controprova delle reali possibilità d'azione dei musicisti in
Italia e in Francia, nonché della forza obiettiva e schiacciante
di una musica non-individuale : quella nata e sviluppatasi al di
fuori di questi ambienti della vecchia aristocrazia neolatina,
cioè, di fatto, in Germania.
5. LO SVILUPPO DELLA BORGHESIA LUTERANA E BACH

Abbiamo già visto, nel cap. 3 , la situazione al Nord subito


dopo la Riforma di Lutero ; vedremo, ora, come la musica si
inserisca nel quadro che vede, in seno alla religione riformata,
lo sviluppo di una certa borghesia pre-industriale e artigiana­
le; come ne faccia crescere le peculiarità nell'àmbito del suo
tipico particolarismo ; e infine come, a mosaico realizzato, ci
possa aiutare a comprendere questo episodio della civiltà mo­
derna.
In un secolo e mezzo di sviluppo del luteranesimo, la
musica si mantiene saldamente e univocamente legata alle
esigenze - di culto ma, come vedremo, non solo - della
base, funzionalizzata in rapporto alla base stessa. Di contro
alla situazione che, sempre con la musica, abbiamo esemplifica­
to nei paesi cattolici che piu profondamente avevano vissuto la
stagione del Rinascimento e della Controriforma - se ne può
presentare, nei paesi riformati , un'altra con l'aiuto di una
semplice figurazione : la musica vive senza la separazione fra
palcoscenico e platea. Vale a dire, tende a mantenersi forte­
mente legata a una funzione attiva e diretta che vede, come
protagonista, il pubblico, il fruitore che consuma non per
godere dell'oggetto specifico, ma per mantenerlo a un livello
di assoluta quotidianità. Nessuna maschera, nessuno spiraglio,
nessuna forma di individualismo : è ovvio che i motivi di
questa situazione vanno ricercati al di là del fatto musicale
positivo.
Bach, insomma, non nasce casualmente; anzi, come cerchere­
mo di vedere, la sua grandezza personale è legata non solo -
com'è ovvio - alle esperienze precedenti, ma anche, precisa­
mente, a ciò che quella società richiedeva alla musica.
Innanzi tutto, le esperienze precedenti. Anche se è difficile,
all'interno d'una comunità che intende la musica in senso
corale, vale a dire come preghiera «collettiva» scaturente da
interessi comuni all'occorrenza in grado di fare barriera -
LA BORGHESIA LUTERANA 55

anche se è difficile che, da questo campo, si stacchi subito


un'individualità precisa, dovremo, tuttavia, ricordare l'opera di
Heinrich Schiitz ( 1 585-1 672 ) : che consiste, soprattutto, in
oratori, mottetti, Magnifica!, ecc . Schiitz è un compositore che,
stilisticamente, origina dall 'Italia, da Venezia per la precisio­
ne. Ma questo legame formativo non fa che rendere piu
interessante la sua scelta successiva : che tende a considerare la
musica come un servizio divino nel senso che la divinità è il
fine, ma col tutto ben fermo a un ruolo che si potrebbe
definire «sociale». Gli splendori, nella sua musica, della divi­
nità non tendono a riversarsi sul mezzo per giungere a essa:
perché la divinità stessa non ha bisogno di mostrarsi splendida
e perché, quindi, il mezzo (la musica) può mantenersi a misura
d'uomo. Cioè, non dimesso, ma concreto, legato al quotidiano
e per nulla tendente a « migliorarlo» grazie a un «prestito »
divino. Se si pensa al fatto che Schiitz, per mantenere questa
linearità esemplare al proprio discorso, ha rifiutato le ben piu
sontuose esperienze italiane, il suo ruolo storico assumerà
tutta l 'importanza che merita.
Piu vicino, nel tempo, a Bach, è Dietrich Buxtehude
( 1 63 6c.- 1 707 ), organista a Lubecca (per ascoltare il quale, si
narra, il giovane Bach si sobbarcava a marce di parecchi chilo­
metri ) . Indubbiamente, la fantasia contrappuntistica delle sue
musiche per organo e il sereno lirismo delle sue composizioni
piu vaste di carattere sacro, si innestano alla perfezione nella
formazione dell'esperienza bachiana . Abbiamo ricordato, qui, il
nome di Buxtehude come quello di un artigiano - partico­
larmente geniale , ma non unico - che, in seno alla comunità
luterana, aveva, come «lavoro», quello di attendere al servizio
divino . Artigianato e ruolo sociale del lavoro : sono i due
termini essenziali della musica di Bach.

Le componenti che concorrono alla formazione del pensiero


musicale di Johann Sebastian Bach ( 1 685- 1 750 ) sono diverse ;
ma non si commette un illecito se se ne privilegiano due, che
mantengono una precisa riconoscibilità durante tutte le fasi
dell'attività creativa del compositore : riconoscibilità, in­
tendiamo, non solo sintattica, ma anche ideologica, ovvero
sempre significante in rapporto alle trasformazioni che tali
componenti subiscono. Esse sono : il corale luterano, di origine
popolare ; e lo strumentalismo italiano, giunto a Bach soprat­
tutto attraverso la lezione di Vivaldi.
Il corale luterano mantiene intatta, in Bach, tutta la funzio-
56 STORIA S OCIALE DELLA MUS ICA

nalità che gli aveva attribuito il grande riformatore. Per esem­


pio, quando il compositore adotta la lingua tedesca per le sue
composizioni religiose, non è che compia un atto personale di
scelta : piuttosto, non fa altro che aderire allo spirito origina­
rio di quella che ormai si può chiamare tradizione luterana .
Tradizione di una religione decentrata, che ha di mira la
situazione «politica» in cui si trova l'orante, la sua concreta
possibilità di comprendere, e quindi di sottolineare, ciò che sta
dicendo, di riconoscersi totalmente in esso . E, questo, era solo
un esempio di un atteggiamento generale . Ecco , allora, il
corale sempre presente, in Bach, in tutti i suoi tratti essenzia­
li : nella sua semplice emotività che evita la glacializzazione del
fatto narrato arricchendolo con un semplice commento ( emoti­
vo, appunto ) che è, per eccellenza, l'elemento anti-dogmatico.
Insomma, lo spirito del corale luterano garantisce, alla reli­
giosità di Bach, quella linearità prosaica che mantiene una
distinzione fondamentale che, per esempio, si è del tutto
dissolta nei paesi latini : si tratta di un fatto, appunto, religio­
so, non «artistico» , vale a dire basato su un mondo che, come
abbiamo visto, può non avere piu contatto con quello reale ;
su un mondo che, appunto perché non piu raggiungibile nella
sua causa prima, può totalmente essere identificato col potere
centrale. In Germania, invece, il decentramento religioso man­
tiene in vita questi interessi quotidiani che Bach mai smarri­
sce : sia quando scrive i dolci Preludi corali, sia quando
attende ai grandiosi affreschi delle «Passioni» .
L'altra componente è lo strumentalismo italiano . Esso giun­
ge a Bach nella perfetta agibilità del suo impianto dialettico
esemplificato dal titolo della celebre raccolta vivaldiana: Il
cimento deltarmonia e dell'invenzione. Vale a dire , l'esistenza
di due momenti divergenti : l'invenzione libera, appunto, e
l'armonia, cioè la capacità di contestualizzarla, di razionalizzar­
la, di renderla essenziale e «non libera», sottoposta alle esi­
genze di ciò che si deve costruire, di ciò in cui ci si deve
riconoscere.
L'Italia - come, in parte, abbiamo già visto, e come
vedremo meglio -, che pure aveva inventato questa grande
dialettica, non aveva piu , per essa, un mercato adeguato ;
l'ultimo suo grande musicista quasi coetaneo di Bach , Antonio
Vivaldi, presenta un totale sfrenamento della parte inventiva e
una costruzione strutturale a essa splendidamente adeguata :
ma, anche, situata in un'economia per la quale il concetto
stesso di «organizzazione» è es traneo� incapace di toc;:care e di
LA BORGHESIA LUTERANA 57

coinvolgere (e quindi di essere coinvolto da ) uno stato terre­


stre, da un mercato attivo. Ecco, la grandezza di Bach è qui :
nella riducibilità, della sua potenza inventiva, a un qualcosa
di riconoscibile e di terrestre : il «musizieren», il far musica
in senso artigianale ; e nella naturalezza con cui questa riduci­
bilità si realizza. Di qui il maggiore «spessore» del suono :
uno spessore che è il segno, appunto, dell'identificazione della
musica (e proprio nei suoi aspetti inventivi, individuali) con il
concetto, comune, di laboriosità. Nell 'impianto tripartito del
concerto strumentale (Allegro/ Adagio/ Allegro), lo schema
tradizionale è ribadito, ma, proprio per il contesto socio-cultu­
rale in cui esso vive, è, se non rivoluzionato, esaltato rivolu­
zionariamente : la tensione - che non deve, come in Vivaldi,
superare continuamente il dato, ma solo, semplicemente ed
esemplarmente, arricchirlo : dal momento che esso esiste nel
mondo , fra la gente - è del tutto tranquilla, com'è tipico di
chi ha ben fisso, accanto al terminus a qua, il terminus ad
quem, col primo che non può essere disatteso perché è rappre­
sentativo, e col secondo che non è uno spiraglio individualisti­
co ; e, per contro, la distensione (i famosi tempi lenti di Bach)
può es sere sicura, profonda, sempre presente nella sua ricono­
scibilità.
La presenza di Bach nella comunità luterana, è caratterizzata
dal riconoscimento del ruolo del musicista, vale a dire dall'e­
videnza assoluta che vengono ad avere i suoi termini di
partenza e la sua area d'azione . L'artigianato appunto : essen­
do, l'artigianato, non solo colui che «fa», ma colui che si
riconosce pienamente nel lavoro fatto, che mantiene inalterati
i suoi tratti comunitari : non modificati, appunto, dal lavoro
fatto. Cioè, da una parte l'anti-alienazione, il non identificarsi
con lo sforzo del tendere , momentaneo, ma, piuttosto, col
frutto di questa tensione ; e, dall'altra parte, il già ricordato
non-individualismo, la non-necessità di negare il termine di
partenza e, quindi, la conferma di esso come fatto comune.
L' «opera» artistica, in Bach, non è quindi un diaframma
che allontana. Vale la pena di ribadire il concetto per compa­
rarlo, ancora una volta, con quanto avviene nella cultura
controriformistica, in cui la centralità ideologica costringe l'ar­
tista a considerare l'«opera», di già, un fatto di sopravviven­
za.
Questa assenza di separazione fra palcoscenico e platea,
spiega la funzione delle grandi opere religiose di Bach : le due
Passioni (secondo Giovanni e secondo Matteo ), l'Oratorio di
58 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

Natale, la Messa in si minore ( cattolica, per motivi di commis­


sione, nella struttura, ma ben luterana nello spirito). Special­
mente, a nostro avviso, nelle Passioni ( in cui la narrazione è
condotta in lingua tedesca ), si ha la descrizione del fatto
tragico realizzato da un temperamento che tragico non è di
certo : che, diremmo, non ha spazio per esserlo perché non
può dissociare l'evento narrato e la propria, «consapevole»,
partecipazione personale . È l'evento che conserva esemplarità e
«presa» sufficienti e che, quindi, rende inessenziale una, co­
munque squilibrante, partecipazione personale . Nei paesi della
Controriforma, ma sin dai tempi di Luca Signorelli, i piu
grandiosi fatti della religione avevano acquistato una validità
che comportava come una partecipazione viscerale, la quale
finiva, per reazione, con lo stagliare l'oggetto narrato in una
dimensione liberatoria, extra-quotidiana. Da tale dimensione
partiva (come « tensione verso» ) la visceralità : che ovviamente,
alla fine, la confermava . Tutta la storia religiosa successiva dei
paesi latini ( da Michelangelo al barocco ) si fondava su questa
lontananza extra-quotidiana.
Bach, invece, parte da una situazione esattamente opposta;
la grandiosità del suo gesto deriva dalla sua capacità di racco­
gliere e di portare alle estreme conseguenze proprio l'umanità,
l'essere a misura d'uomo del fatto religioso ; la possibilità di
serbare le forze, non disperse dalla tensione viscerale verso un
raggiungimento sempre soggettivo e difforme, per la narrazio­
ne di ciò che è presente, di ciò che si possiede . Non essendo,
insomma, centralizzata, la religione non deve «affaticarsi» a
percorrere il cordone ombelicale che la unisce al centro e, al
tempo medesimo, non deve ricorrere all'eccezionalità : bastan­
dole, per cosi dire, un'intensificazione del quotidiano o, meglio
una dilatazione analitica (la descrizione dettagliata della Pas­
sione di Cristo, per esempio) dello stesso .
Anche le grandi opere cosiddette «astratte» (le « variazio­
ni», L'arte della fuga, Il clavicembalo ben temperato, ecc. )
risentono di questa stessa concretezza religiosa che è, appunto,
concretezza ideologica completamente positiva, che - cioè -
ha smarrito il bisogno di un'esplicita polemica anti-italiana,
antirinascimentale.
Le « variazioni» sono - già dicemmo - la piu grande
realizzazione della dialettica fra libertà e costrizione, fra possi­
bilità inventiva e speculativa, e obbligo di ritorno a ciò che è
dato, alla terra. E questa dialettica è resa possibile, in Bach,
proprio dalla « terra», dalla coscienza del peso, dell'emblema-
LA BORGHE S IA LUTERANA 59

ticità e del legame attivo costituito dall'elemento comune . E lo


stesso vale per L'arte della fuga e per Il clavicembalo ben
temperato, opere definite come summa di certe possibilità:
però, in modo tale che il giudizio avvenga dall'alto di questa
summa, di questa considerazione finale, « chiusa». Là, dove,
invece, il giudizio stesso dovrebbe rovesciare i propri termini.
Si tratta infatti, a nostro avviso, di opere didascaliche, epidit­
tiche: ecco, dati certi materiali e certe concatenazioni accetta­
te, che cosa si può fare. Dove l'accento , quindi, si sposta, dal
risultato finale, alle possibilità «aperte». E dove, quindi , il
discorso viene incentrato sull'atto del fare : reso possibile e
concreto dalla palpabilità della destinazione del discorso stesso ,
dall'esserci da parte della musica e quindi, a monte, del ruolo
del musicista in rapporto ai suoi simili.
E lo stesso si può dire de L'offerta musicale, opera estrema
nata dal sodalizio del vecchio Bach con Federico il Grande, il
re filosofo, illuminista, musicomane. Non crediamo vi siano
stati rapporti espliciti fra Bach e l 'illuminismo stesso, inteso
come ideologia dagli inevitabili risvolti «Politici» ( sia pur
limitati al carattere un po' privatistico della funzione dei
«lumi»). Non crediamo molto a auesti rapporti prima di tutto
per una motivazione storica : l'Illuminismo, cioè, non vide la
luce propriamente in Germania e, anzi , proprio in Germania
riusd a imporsi solo nelJa sua fase finale, eroica, kantiana e
beethoveniana, rivolta alla non facile eliminazione degli em­
blematici «residui feudali». Eppoi, per un'estensione di questa
stessa motivazione. Se Illuminismo significa , soorattutto , misu­
ra d'uomo, laicismo , relativismo e senso del limite saputo -
la musica di Bach, s'è visto, rientra alla perfezione nel auadro.
Senonché, la stessa musica bachiana è resa possibile da una
costituzione della società orientata nroprio in tal senso, anzi
maturata in siffatto orientamento. E a tal punto, da rendere
possibile una identificazione dell'ideolo�ia con la pratica quo­
tidiana. Questa identificazione però, esaltata dal quotidiano, a
esso si mantiene fedele fino alla grettezza, al filiteismo. Quin­
di, mal tollera ogni enunciazione ideologica pur a essa fedele .
Gli affari e lo spirito : il binomio funziona solo oer quanto
attiene la concretezza dei due termini. La presa di coscienza
della loro costituzione. sarebbe rivoluzionaria . E nessuno si
sogna di realizzarla . Allo stesso Bach , basta la funzionalizza­
zione di tale concretezza dei due termini ; in séguito, la separa­
zione di «realtà» e di «spirito » , col secondo che colma la
prima, sarebbe diventata ipocrita, poi reazionaria, poi tragica .
60 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

E, allora, ci sarebbe stata ben altra presa di coscienza. Per il


momento, basta il positivo , frutto del decentramento politi­
co-religioso posto da Lutero e ora, ai primi del Settecento,
pienamente fruttificante. Bach ne realizza - «nobilmente», se
si vuole - la grandezza con l'aiuto decisivo del senso del
limite reso possibile dall'essenza stessa del «lavoro».
Ora, l'Offerta musicale rappresenta lo spostamento di que­
sto rapporto in un'economia piu personale . È un'opera che
Bach - omettendo di indicare gli strumenti e lasciando che il
discorso circoli in un'area non determinata - sembra abbia
distolto dal mondo. Interpretazione, questa, suggestiva per i
risvolti che può avere circa anticipazioni dello spiritualismo
tedesco avvenire ; ma del tutto inaccettabile .
Il filisteismo, per porsi , deve avere un modello in cui rispec­
chiarsi; e questo modello, all'epoca di Bach, ancora non c'è:
ne fa fede il carattere, tante volte ricordato, artigianale della
sua musica, che comporta una partecipazione, non già un
rispecchiamento . E anche l'Offerta implica una partecipazione:
solo che, stante il suo ruolo finale in un àmbito individuale
che pure ha il diritto di esistere, tale partecipazione è come
presupposta per quanto concerne la sua fisicità, in pratica la
sua possibilità di essere suonata. Una volta colmata questa ben
lecita alea (e val bene la pena di anticipare che Schonberg e
Webern tornarono a «questo» Bach nel momento in cui, fatti
i conti con l'esterno, sentirono il bisogno di una pura e
semplice operatività concreta), il circuito del discorso è sempre
il medesimo , e sempre i medesimi sono gli enunciati di possi­
bilità, gli inviti alle combinazioni, alle possibilità di sviluppo .
I medesimi : cioè fondati su quella relazione uomo-materia che
abbiamo definito artigianale e che consiste nella riduzione
della musica agli scopi dell'uomo che vive e che lavora (e che
prega), fra gli altri uomini.
E sarà anche il caso di ricordare brevemente il ruolo del
barocco in Bach. Il barocco, con le sue tendenze fondamentali
a un'autosufficienza motoria e rappresentativa della materia,
perviene a Bach dalla cultura internazionalistica italiana, valida
per tutti, scendente dall'alto. Man mano che il compositore si
approptia , nel nome d 'una partecipazione comune, del linguag­
gio·, · il barocco · - per cosi dire - si assottiglia, si restringe.
In pratica·, perde i suoi contrassegni ·di universalità per diven­
tare qualcosa · di particolare, addirittura di pre-nazionale. Que­
sta anticipazione di nazionalismo, cioè, non è il frutto di un
adeguamento a un'idea preesistente, ma un qualcosa che si
LA BORGHESIA LUTERANA 61

forma proprio dalla collocazione del linguaggio stesso in uno


stretto circuito comune. Non v'è piu bisogno della grande
rappresentatività «universale» perché la musica si è adattata a
un che di particolare che si sta formando proprio in quel
momento . Il nazionalismo vero e proprio sarebbe nato quan­
do, alla fine del secolo, questo circuito comune sarebbe giunto
a consapevolezza di se stesso incominciando, cosf, a fungere da
base, da richiesta . Bach non fa altro che rispecchiare tale base
al momento finale della sua costituzione socio-economica , che
confina con la prima possibilità non tanto di rispecchiamento
in un prodotto quanto nell'opera di selezione delle parti essen­
ziali costitutive di tale prodotto .
Bach condusse una vita da provinciale ; e, com'è noto , fu
quasi dimenticato fino al 1 8 37: anno in cui Menclelssohn
riscopd ed esegui la Passione secondo Matteo. Da allora fu
riconosciuto, accanto a Lutero, a Goethe e a Beethoven, come
uno dei padri della civiltà tedesca ; e questo anche se, per
l'oblio momentaneo in cui cadde la sua opera presso il pubbli­
co, non possono esistere legami linguistici diretti coi naziona­
listi romantici. È, questo, l'ultimo elemento che può spiegare il
nazionalismo di Bach di cui si parlava: che può spiegarlo nel
suo carattere formativo che, ripetiamo, combacia con una
capacità selettiva condotta su esigenze «particolaristiche» di
una comunità nata dalla forza delle cose concrete, del lavoro.

Compositore di importanza molto minore, Georg Philipp


Telemann ( 1 68 1 - 1 767 ) offre, tuttavia, un'esemplificazione mol­
to utile ed emblematica della concretezza della musica adatta­
ta, in Germania, a misura d 'uomo .
Non vogliamo, ovviamente , discutere dei pregi e dei difetti
dell'arte di Telemann, quantitativamente sin troppo rilevante.
Piuttosto, da questa quantità, o meglio dal prevaricare della
quantità sulla qualità, si può trovare una conferma di una
certa prassi artigianale che, in Telemann, si funzionaliz7a in un
modo ancor piu esplicitamente prosaico . La sua «Tafelmusik»
( musica da tavola) , ben lungi dali 'evocare immagini di mene­
strelli che allietano i pasti dei signori, ci dà, invece , un al tro
quadro della quotidianità del far musica, di una commestibilità
della stessa i n tesa come «esercizio» in virtu dei suoi quadri
ancora rigidamente preclusivi. Il compositore non scrive musi­
ca per allietare i pasti altrui, perché è lui stesso che mangia e
che concepisce la musica con una funzione non molto dissimile
da quella del mangiare . Nessuno scandalo per questa «prosa»
62 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

quotidiana: e, anche, nessun consumismo inteso in senso mo­


derno (oggi, per esempio, noi «consumiamo» Beethoven : il
che, date le circostanze del rapporto di questo compositore col
mondo e con la musica, è ben diverso ! ) : ma solo, ripetiamo,
un esercizio di normale prassi quotidiana che presuppone un
processo di appropriazione completamente realizzato.
Rispetto a Bach, Telemann è meno grande perché meno
radicale nel prendere e nel portare alle estreme conseguenze
l'umanità di questa concezione artigianale : che tuttavia, come
base, rimane la medesima. È l'artigianato, infatti, che dà vita a
una musica lunga, «infinita», cioè sottratta al tempo e alla
funzione aristocratici, priva di mistificazioni e tutta imperniata
sul concetto del «fare», del «fare direttamente», non per
altri, ma per realizzare quel rapporto concreto e immediato
che è il frutto piu indiscutibile e durevole della Riforma
luterana.
6 . LO SVILUPPO DEL PUBBLICO E
DELL'IMPRENDITORIA

Georg Friedrich Haendel ( 1 685- 1 759 ) è il protagonista del­


la prima forma di professionismo moderno in musica o, me­
glio, del primo vero e proprio rapporto impresariale. Coetaneo
di Bach, ne è l'esatta antitesi per quanto concerne la direzione,
gli scopi e quindi le caratteristiche della produzione musicale
inserita, come quella bachiana, in un contesto borghese, eppe­
rò metropolitano e piu modernamente liberale : il contesto
della società inglese.
Compositore precocissimo e portato a un esercizio musicale
squisitamente cittadino, Haendel visse per qualche tempo in
Italia dove, ovviamente , entrò nel circuito operistico; poi, dal
1 7 1 0 , si trasferi a Londra : città che, priva di grandi tradizioni
musicali autoctone (e, forse, proprio a causa dell'assenza di un
obbligo idiomatico nazionale ), si configurava come un centro
di consumo musicale strutturato modernamente : con teatri,
orchestre, impresari, organizzazione di pubblico , ecc.
La cura maggiore di Haendel fu per la parte della sua
produzione che , oggi , la critica ritiene la piu caduca, vale a
dire per l'opera, ovviamente indirizzata verso il dominante
gusto « serio» italiano (Rinaldo, Ezio, Giove in Argo, Giulio
Cesare, ecc.). Ma la modernità impresariale della vita musicale
londinese è testimoniata, anche e soprattutto, dalla richiesta di
produzione strumentale (i «concerti grossi», e, a onta della
del resto non esclusivistica destinazione regale, lavori come,
per esempio, Water Music, ecc.). Alla fìne, Haendel, vecchio e
affaticato dall'inevitabile viluppo sottopolitico che si accom­
pagna a ogni organizzazione impresariale, rinunziò al teatro, e
si dedicò alle grandi esperienze dell'oratorio, altro esempio di
estroversa e consumabilissima musica «comunitaria». Ricor­
diamo, in tal senso, partiture come Debora, Atalia, Saul e, la
piu nota di tutte, il Messia.
Le principali componenti del pensiero musicale di Haendel,
sono in comune con quelle di Bach : per esempio, il corale
64 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

luterano e la musica italiana. 'In Haendel ne agiscono delle


altre ( quelle specificamente inglesi, per esempio) che non alte­
rano il quadro delle due personalità partenti in parallelo.
Senonché mentre, in Bach, queste componenti diverse, per i
motivi che abbiamo visto nel capitolo precedente, tendono a
costituirsi in senso unitario, in Haendel mantengono una si­
tuazione eclettica: o, meglio, non chiudono la loro disposizio­
ne a ventaglio. Il nostro, insomma, rimane un musicista per il
quale la funzionalità dell'opera deve mantenere una possibilità
esibitoria, variegata, diversa: secondo il logico riscontro a una
richiesta di musica inserita in un circuito modernamente con­
sumistico.
Di qui, il primo carattere della produzione haendeliana:
improntata a un dinamismo spinto , a una logica della muta­
zione, a una necessità di avventura sonora che, ben lungi dal
porsi ( come, nel prossimo capitolo, vedremo in Vivaldi ) in
senso isterico, altro non fa che obbedire a una richiesta del
pubblico : richiesta - e questo ci sembra molto importante -
consapevolmente atteggiata come tale. In altri termini, ritorna
l'elemento centrale del nostro discorso : vale a dire, un rappor­
to professionistico che non tocca solo, com'è ovvio, il produt­
tore di musica, il compositore, ma che, a monte, evidenzia un
tale atteggiamento anche nelle strutture interlocutorie : nel
mondo, cioè, impresariale, ma, anche e soprattutto, nel pubbli­
co, organizzato - se cosf si può dire - come richiedente e,
quindi, fornito di una chiara e condizionante visione circa la
prassi musicale. E, da una prassi siffatta, nasce la predisposi­
zione alle vere e proprie strutture, al «carattere» dell'opera.
Il professionismo di Haendel rivela, dunque, una richiesta
borghese; e questo vuoi dire che si tratta di un rapporto che
obbliga il musicista a un lavoro non piu evocativo e «alta­
mente» rappresentativo, ma fondato sulla pura prassi della
materia che diviene. E siamo tornati, cosf, alla prospettiva di
prima: che aveva messo in evidenza il carattere di questo
divenire tanto ricco quanto privo di isterismo, rassicurato,
diciamo, da una fisicità, da una presenza concreta che delimita
la musica, che la fa, appunto, concreta.
Ed è una concretezza che, sin qui, è pari - sia pure con
modalità del tutto diverse - a quella bachiana. Senonché,
mentre la richiesta della società luterana tedesca aveva anche
un'immanenza di funzione ( religiosa e artigianale ), la richiesta
della borghesia inglese consuma questa concretezza sul piacere
dello scorrere musicale . Non ha, in pratica, un terminus ad
IL PUBBLICO E L 'IMPRENDITORIA 65

quem ideologicamente predeterminato ; e, in questo, si costi­


tuisce in senso molto piu moderno, in senso, cioè, piu disin­
cantato e piu sciolto da ogni gerarchia di valori culturali e
spirituali. Empirico, insomma : all'inglese !
L a musica haendeliana, in pratica, s i trova senza un «pa­
drone» che ne finalizzi il circuito ; o, meglio, il «padrone» è la
continua richiesta di circuito, con le sue naturali, e già ricor­
date, leggi di dinamismo e di rinnovamento.
Ed ecco, allora, il primo squilibrio storico, ovvero la prima
contraddizione che nasce nel momento stesso in cui l'artista,
per una concomitanza di sviluppi sociali e culturali, si trova a
essere assolutamente, totalmente responsabile nei suoi rapporti
con la materia. Lo squilibrio è nell'eccedenza di questo dina­
mismo nei confronti della «quantità» musicale. Vogliamo dire
che il peso di musica messo, da Haendel, in circuito, appunto
perché trova le sue prime e concrete ragioni in un consumo
immediato, e perché non ha il confronto di una staticità
ideologica finale in grado di mediare e di motivare il dinami­
smo stesso, si trova con un sovrappiu di dinamismo stesso,
con un sovrappiu di ragioni motorie - che costituiscono uno
squilibrio, una contraddizione non già sul piano strutturale,
ma sul piano della comunicazione e delle funzioni storiche del
pensiero musicale. Haendel, cioè, cala in Inghilterra, trova un
terreno adattissimo all'esaltazione di un perfetto consumo mu­
sicale: ma questo consumo non può trasmettersi nel tempo ,
muore - al suo livello - con lui. La borghesia perfetta, cade
nelle ragioni di questa stessa perfezione : cioè nel non sapere,
al limite, mistificare il suo mirabile prassismo con un finale
trascendente, con un riporto delle sue estreme ragioni a un
qualcosa di diverso, di trascendente appunto, come avveniva
in Germania. L'operazione, apparentemente infinita grazie alla
disponibilità di una materia assolutamente disincantata e
«presente», si affloscia al termine dell'exploit del singolo . E,
questo, perché la materia «borghese» non ce la fa a sopravvi­
vere alla piena enunciazione delle sue ragioni ; enunciazione
che, in un modo o in un altro, non si serbi una piccola zona
di mistero, non praticabile da parte della sua stessa ideologia
«pratica» .
È ovvio che Haendel ribadisce le piu grandi conquiste
borghesi : l'internazionalismo laico, il rinnovamento piu disin­
volto, la razionalità dello sviluppo strutturale sulla cresta
dell'onda d'una parità democratica (cioè, dell'eguaglianza di
posizione a petto della materia, dell'eguale distanza dal centro )
66 STORIA SOCIALE DELLA MU SICA

di ogni possibile contrasto sociale (ben diversamente, come


abbiamo visto e come vedremo, avveniva, per esempio, in
Italia) . Però, la mancanza, ricordata, del terminus ad quem
mostra un contesto borghese che sembra in grado di produrre
nel tempo, di dar corso alle conseguenze benefiche dell'accu­
mulazione anche di beni culturali solo in caso di forti contra­
sti, di sviluppi cruciali ed eccezionali . Quando cessa la minac­
cia del diverso, e tutto si può vivere, ecco, subito, la fine : con
la ripetizione ottundente, negatoria, repressiva, e con lo spira­
glio solo individualistico. È quel che potremo vedere anche in
séguito .
Per ora, completiamo il discorso con la questione del baroc­
co che, in Bach, avevamo visto venir meno in favore di un
linguaggio piu particolare, piu «nazionale» . In Haendel , inve­
ce, il barocco si esalta e si potenzia nelle sue ragioni interna­
zionali : cioè come linguaggio libero, sottolineato nella sua
completa fruibilità, e tutto teso a esaltare la sua oggettività.
In Haendel, il barocco ha perduto le sue immanenti ragioni
ideologiche controriformistiche ; e, al posto di esse, subentra
una ragione contro-riformistica tipica di ogni civiltà evoluta:
cioè, la tendenza a perdersi nell'oggetto . Cioè ancora, al di
sotto dell'apparente contrario, la negazione - di fatto -
della libertà intesa come reale progresso sulla materia, grazie
alla costituzione, con la materia stessa dominata, di elementi
rischiarati dalla ragione operativa . La musica haendeliana non
segna il progresso che sembrerebbe la realizzazione perfetta
della libertà borghese che ha scacciato i fantasmi negativi :
progresso invece che, lo ripetiamo, è evidente solo quando la
borghesia, per realizzarlo, sente il bisogno di scacciare tali
fantasmi tuttora presenti. Siamo, esattamente, agli antipodi di
Bach ; la musica di Haendel, piombando in una società diversa,
vive la sua particolare e peculiare avventura : rinforzando
però, e questo ci sembra molto importante, gli elementi strut­
turali, costitutivi, il cui circuito finisce col rispecchiare sempre
quella società, quindi quegli interessi, quelle contraddizioni di
provenienza. Vivere nella storia, da parte della musica destina­
ta al consumo spettacolaristico anche odierno, non è solo una
constatazione di partenza, ma anche un punto di arrivo : senza
che qualcosa muti o sia mutato .

L'opera, in Italia e specie a Napoli , continua a tenere banco


nelle due accezioni di «seria» e di «buffa». Numerosi sono i
nomi di autori di spicco ; e, a parte il caso di Pergolesi, di cui
IL PUBBLICO E L 'IMPRENDITORIA 67

s'è fatto cenno, occorrerà ricordare Nicolò Jommelli


( 1 7 1 4- 1 774), Tommaso Traetta ( 1 727- 1 779) fino a spmgerci,
con Domenico Cimarosa ( 1 7 4 9- 1 80 l ) , verso la fine storica del
fenomeno.
Un fenomeno che non evolve se non contingentemente, cioè
in modo del tutto autonomo, nettamente divaricato dal conte­
sto sociale in cui inerisce : un contesto caratterizzato da una
staticità che impedisce la testimonianza, sul tessuto musicale,
del grande individualismo che «protervo ed eroico» , caratte­
rizza la cultura del Sud (la linea che, da Giannone e Vico,
porta a De Sanctis passando attraverso Puoti, Settembrini ,
ecc. ).
Certo, la musicologia ci insegna che le novità tecniche ci
sono : e basterà . qui, ricordare , per esempio, l'arricchimento
del recitativo che, rinforzando il tessuto connettivo , fa, o
tende a fare, dei pezzi staccati che costituivano l'opera, un
qualcosa che ha di mira una certa unitarietà drammatica.
Senonché, questa ricchezza - che pure, agendo sull'antico e
convenzionale linguaggio degli affetti. ne sforza la flessibilità
tendendo a realizzarne la disponibilità piu esplicitamente
drammatica - si pone , per cosf dire. in modo del tutto
casuale, con la «cosa» in assoluta evidenza, e senza legami
possibili . delia stessa, con strati sociali oiu attivi. È l'ass enzl\
di borghesia e, quindi, la mancanza di appropriazione e di
caratterizzazione dell'indubbia ricchezza musicale. La mancan­
za, cioè. di una linea di tipo «nazionale» che riconosca l'òpera
come tale : mancanza, certo, non avvertita direttamente, ma
come assenza di uno sbocco positivo ed esplicito a questo
stato di impasse, come assenza di un punto di riferimento per
una musica che, capace di accogliere istanze «altre» se non
borghesi (l 'opera buffa), continua, di fatto , ad agire dinanzi a
un'aristocrazia m arcia e politicamente passiva, gettando le bri­
ciole a un «popolo» del tutto ignaro di se stesso. La borghesia,
cioè, manca a livello imorenditoriale , vale a dire come sbocco ,
anzi come possibilità di esistenza . di una richiesta d i base .
Ripetiamo : quella musica può, in effetti , costituirsi come
rappresentazione di caratteri peculiari della cultura meridionale
fla dolcezza melodica con entroterra «filosofico » , «epicureo» :
l'agilità verso il lazzo. la solef!giata melanconia, J a tendenza al
la nguore, ecc.) ; solo che questi caratteri sono isolati : frutto di
istantanee - e, necessariamente, non continue , non dialettiche
- prese di coscienza individualistiche che non possono far
corpo in un tessuto sociale inesistente o ignaro, e che, nella
'68 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

pratica , non si realizzano in una richiesta razionalizzata , im­


prenditoriale. Non esistono editori culturalmente funzionaliz­
zati (come sarà, per esempio , un Ricordi nel Risorgimento ), e
il mondo sottoculturale dei teatri è solo un viluppo di intrighi
e di corruzioni non assorbibili in una qualsiasi forma di
« politica culturale» . Del resto, quando si dice che l'impresa­
dato può essere solo il frutto della richiesta d'una classe
progressista, si intende, per «progresso», solo la presa di
coscienza da parte di tale classe. E lo abbiamo visto, sotto
cieli diversi, in Bach e in Haendel.
Qual è, allora, la conseguenza di questa nascita individuali­
stica della musica italiana? Innanzi tutto, l'impossibilità di
scambio minuto, capillare e dialettico delle pur mirabili , e da
essa di fatto inventate, esperienze strumentali cameristiche. Lo
scambio solo intersoggettivo, privo cioè di un tessuto di so­
stegno , strozza il fenomeno. A nessuno, per esempio, è venuto
in mente di chiedersi come mai le esperienze strumentali
cameristiche di un D . Scarlatti , o di un Pergolesi, o di un
Cimarosa, che nulla hanno da invidiare per esempio a quelle
di un Haydn, abbiano del tutto fallito sul piano del «fare
cultura» in prospettiva , come invece è successo in Austria non
diremo piu solo con Haydn, ma con un Dittersdorf, con uno
Stamitz , ecc. E lo stesso accade per il teatro , tenuto in vita
solo da motivi di rappresentanza : quel teatro che, in seno allo
sviluppo bloccato nel senso che sopra abbiamo detto, presenta,
nettissima, una tendenza a tesaurizzare la merce preziosa, a
risolverla non già per motivi di edonismo, ma per un vero e
proprio istinto di salvezza . Lo stesso che fa . di quei tesori
musicali, qualcosa che ha , subito, l'animo del sopravvissuto :
un qualco sa che , per esempio, Mozart avrebbe preso come tale
(cioè, come si suoi dire , al quadrato ). per ridistribuirlo, però,
in un circuito piu ricettivo, piu borghesemente consapevole ,
piu in grado di recepire, non im)Jorta se in modo parziale
rispetto alla cifra eslege mozartiana. la sua mediazione. È
esattamente questo, che manca in Italia , specie al Sud, ma,
come vedremo, non solo al Sud.

Con Christoph W. Gluck ( 1 7 1 4- 1787), e con la «riforma»


legata al suo nome , il testo musicale non solo si emancipa, ma
- cosa, questa, ancora piu importante - si pone esplicita­
mente dei problemi che si trovano a monte del fatto musicale
vero e proprio.
Gluck nasce «italiano» : nel senso che studia con Sammar-
IL PUBBLICO E L 'IMPRENDITORIA 69

tini e che esordisce a Milano ( 1 74 1 : Artaserse) e a Venezia


( 1 742 : Cleonice). L'elemento piu importante della formazione
di questo compositore - che , tedesco, non può non partire,
nel teatro, dalla situazione esistente, vale a dire dall'opera
seria italiana - è l 'acquisizione di una profonda coscienza
musicale, cioè di una coscienza della storicità e della rappre­
sentatività della musica, che lo porta a considerare quest 'ulti­
ma un qualcosa che può garantire e favorire il transito, dalla
convenzionalità, all'originalità espressiva. E, questo, proprio in
virtu della potenza della convenzionalità. Non rivoluzione ,
quindi, ma - ripetiamo - presa di coscienza, mutamento di
posizione, e di richiesta, di fronte al fatto musicale .
La prima conseguenza di questo cambiamento, è un maggio­
re spessore sinfonico delle opere di Gluck , vale a dire uno
sfruttamento piu intensivo - e , di contro alla prevaricazione
dei virtuosi di canto, piu equilibrante - dell'orchestra, che
incomincia, con lui , a costituirsi come elemento essenziale e
strutturante .
La prima opera « rivoluzionaria», è Orfeo e Euridice
( 1 7 62) , un libretto di Ranieri de' Calzabigi ; a essa seguirono
altre esperienze (Alcesti, le due Ifigenia) che portarono avanti
e che confermarono la «riforma» . Di che cosa si trattava?
Semplice : di sostituire, all'immobilità di tipo tolemaico della
maschera, la piu libera e avventurosa fluttazione del sentimen­
to; all'esemplarità paradigmatica della situazione-tipo, una piu
disinvolta e disponibile apertura espressiva.
Riforma, quella di Gluck, di altissimo momento : che non
solo implicava una nuova posizione , nel mondo, del musicista,
ma che, soprattutto, metteva in discussione una gerarchia di
valori (per non dire di privilegi ) che mai era stata discussa ;
che faceva, della musica, un problema affatto inedito; che
proponeva un 'intrusione della mentalità borghese in un mon­
do, quello musicale, che si era mantenuto un po' come una
zona franca all'interno di un contesto generale che pure poteva
dirsi borghese senza, quasi, piu discussioni . Grossi dilemmi e ,
soprattutto , grosse contraddizioni. I l fatto che, d a Gluck,
discenda tutto il teatro musicale moderno , da Mozart ( escluso)
in poi, è, tuttavia, meno importante, in sede di discussione
storica , di quanto abbiamo già accennato : cioè della messa in
discussione di una gerarchia di valori ormai cementata .
Per anni non si parlò d 'altro, negli ambienti colti di tutta
Europa. Vi furono prese di posizioni polemiche e anche cla­
morose ; liti e tentativi, da parte degli ambienti parigini , di
70 STORIA SOCIALE DELLA MU SICA

contrapporre , a Gluck, un controaltare nella persona di Nicco­


lò Piccinni ( 1 728-1 800), musicista onesto di tipo tradizionale,
a cui certo non giovò tale posizione antitetica.
Dunque, dicevamo : ricreare un'autenticità del sentimento ( il
«mondo degli affetti» settecentesco) di contro alla rigidità
della maschera. Ma la maschera non solo è rassicurante , non
solo si pone come garanzia di riconoscibili tà ; essa è �mche
ricca, emblematica, allusiva, piena di rimandi e di soluzioni. Si
pensi ch'essa sarebbe giunta, anche arricchita , fino a Mozart.
Di qui l'avversione dei tradizionalisti (D'Alembert, La Harpe)
fra i quali, con un po' di sorpresa, si possono notare gli
enciclopedisti, vale a dire i rappresentanti del pensiero borghe­
se piu sciolto e consapevole, piu favorevole all'abbattimento di
ogni convenzione. Perché questa contraddizione?
Si tratta di una contraddizione solo apparente. Innanzi
tutto , la borghesia non si era ancora posta specifici problemi
musicali . La musica doveva essere tutelata come disciplina
laica ; e, di questa tutela, era pienamente garante la maschera.
Che questa maschera si riferisse in esclusiva al rigore gerarchi­
co del mondo aristocratico, era un problema allora falso per­
ché non appariva, come controaltare, una musica borghese,
quella che stava nascendo, ma che non era ancora nota, nei
paesi germanici. Rousseau , certo, si schierò con i gluckiani :
ma Rousseau era, al limite, un emarginato da quella forza
esistenziale che lo portava, nei confronti anche della cultura, a
rendiconti individualistici, di tipo rivoluzionariamente, ancor­
ché contraddittoriamente, borghese. Il ginevrino, intendiamo
dire, non può far testo a causa dell'irregolarità della sua
fisionomia e, soprattutto, a causa della difficoltà d'inserimento
del suo estremismo borghese (e, già, antiborghese! ) in quel
contesto pure borghese. Eppoi, musicista egli stesso anche se
scarsamente praticante, si trovava nelle condizioni ideali per
comprendere Gluck. Scarsamente praticante, epperò abituato a
un rapporto manuale ( si sa che copiava musiche per vivere)
con la materia, non teorico.
Laddove teorici erano gli enciclopedisti : portati, ripetiamo,
a concepire la musica come conservazione de11a cultura laica
(non importa se aristocratica) , necessariamente ignari dei risul­
tati raggiunti da Bach e, quindi , tesi a salvaguardare conser­
vando e disattendendo l'irmoto del sentimento in favore d 'una
ragione secca , rigida, indiscutibile. Si pensi a Couperin e a
Rameau : che, con la mediazione degli enciclopedisti, acquista­
no la fisionomia di una classe borghese non progressista, ma
IL PUBBLICO E L ' IMPRENDITORIA 71

subito tesa, anche in campo culturale, a utilizzare le grandi


conquiste come patrimonio da difendere, intorno a cui far
quadrato, fino all'esclusivismo piu contrario agli stessi lumi
della ragione progressista. Fino all' «ovvia» trasformazione del
progresso in conservazione e, via via, in reazione e repressio­
ne.
Insomma, essendo inconcepibile la pratica della musica bor­
ghese (Haus-Musik: musica domestica ), i valori laici non era­
no pensati come propulsivi, ma come conservativi ; e, questo,
anche nel teatro , dove gli « spiragli» - alla Molière, tanto
per capirci - concessi dalla maschera, erano subordinati alla
conservazione della maschera stessa, a sua volta appoggiata a
una classe aristocratica che, avendo tutto l'interesse a conser­
vare la maschera stessa e i valori laici in essa contenuti,
poteva, almeno fino a un certo livello ( dove incomincia il
limite dell'Illuminismo) , fare il gioco della borghesia.
Questa è l'opposizione a Gluck: che, sintomaticamente, si
crea all'interno della cultura francese. Resta la grandezza della
«riforma» che, sia pur con veicoli internazionali e in un
contesto specifico «italiano», proviene pur sempre da un mu­
sicista tedesco : il quale, uscendo da una nuova - e filistea
quanto si vuole - classe borghese imperniata sulla laboriosità,
sta enucleando il concetto della Haus-Musik, cioè di una
musica, altrettanto laboriosa, che presuppone, come si diceva,
un mutamento di posizione, nei confronti della materia, da
parte dell 'artista. Bach poteva non entrare nei dibattiti parigi­
ni ed essere poco noto, allora, anche in Germania : però il
tessuto culturale che lo ha espresso, è ben esistente . Ed è da
esso che, in fondo, proviene la «riforma» : come conseguenza
di un contatto, con la musica, «domestico» e familiare che
non può non produrre un risultato umanamente verosimile,
l'azione del sentimento, la riconoscibilità appunto .
E questa nuova umanità, intesa come prodotto a misura
d'uomo, è il frutto di un Illuminismo tedesco che, privo delle
infrastrutture francesi favorevoli a esplicitazioni ideologiche,
evidentemente non è stato ancora studiato nelle sue manifesta­
zioni musicali. I libri e le idee, nella Germania di allora,
avevano cattiva circolazione; però, la musica può offrirei un
quadro che, forse, diverge da, o quanto meno corregge, quello
tradizionale.
7. CONQUISTE E CONTRADDIZIONI
DELL'ILLUMINISMO

Il grande numero di musicisti italiani di indiscutibile livello ,


è l'indice di potenzialità prive di sviluppo completo . Potenzia­
lità assolutamente notevoli, perché la nascita e l'affermazione
dello strumentalismo e il ventaglio di possibilità e di soluzioni
a esso legate, dimostrano l'esistenza di itinerari intellettuali
dotati di possibilità di diffusione, e l'esistenza di agevoli pertugi
al di sotto della linea «aristocratica» rigida e ufficiale . In tal
senso, la grande musica strumentale italiana compresa fra la fine
del Seicento e la prima metà del Settecento, è assolutamente
borghese : cioè, limitata in un'area che si conosce, concreta,
razionale e prosaica, vale a dire, potenzialmente disponibile
alle fluttuazioni del quotidiano. Lo sviluppo completo, però,
manca : e viene a mancare nel momento storico in cui la
borghesia deve qualificarsi in senso nuovo, rivoluzionario; o
perire. Quest'ultima soluzione, non è frutto di interpretazioni,
ma legata a un fatto positivo : dopo il piu grande musicista
italiano del Settecento (Vivaldi) , c'è il deserto. La musica non
muore per stanchezza linguistica o per un cataclisma naturale :
muore, semplicemente, perché quella società, al momento di
qualificarsi, viene meno, e non presenta piu una linea rappre­
sentabile in una testimonianza musicale (o artistica) . Anche
perché la musica sta diventando un'arte sottile, capace di
seguire vie capillari denotanti la vitalità, ormai, della borghe­
sia, la sua ricchezza consapevole; vie capillari che, in Italia,
mancano e che, quindi, portano alla mancanza del riverbero
musicale.
La nascita dello strumentalismo italiano, è legata al violino.
Le grandi scuole, come le grandi botteghe di liutai ( Stradivari,
Guadagnini, ecc.) , si irradiano : lo strumento si allarga in
compagine, in orchestra, l'orchestra si organizza nel sonatismo
( cioè, il suono pilotato razionalmente) ; il suono acquista com­
pattezza e riconoscibilità nella contrapposizione, nel «concerto
L 'ILLUMINISMO 73

grosso», fra strumento solista e «tutti». E, sul piano espressi­


vo, l 'altissima tecnica rende possibile la realizzazione dello
enorme ventaglio di cui si parlava.
Il primo, grande compositore è Arcangelo Corelli
( 1653- 1 7 1 3 ), assolutamente padrone, in virtu d'una tecnica
che però deve essere vista come frutto di quel favorevole
momento storico di cui si parlava, delle sue effusioni melanco­
niche, della sua dolce cantabilità, dei suoi furori volumetrici
barocchi. Ma i musicisti di livello, sono tanti : Francesco
Geminiani ( 1 687- 1 762 ), P. A . Locatelli ( 1 695- 1764), F. M.
Veracini ( 1 690-1750) e quel G. Tartini ( 1 692- 1 77 0 ) che
sembra ironizzare lo stesso plafond della sensibilità borghese
(ma è un'ironia benevola, che non corrode : piuttosto, che
conferma la libertà di un «gioco») grazie al suo « demoni­
smo». Infine, Venezia, oscillante nei suoi estremi, in realtà
identici, della sfrenatezza mascherata e della calma lagunare,
.notturna, occhiuta e saggia. T. Albinoni ( 1 6 7 1 - 1 750 ) e, so­
prattutto, B. 'Marcello ( 1 686- 1 7 3 9 ), che - autore dell'aureo
libriccino intitolato Il teatro alla moda - ci offre un prezio­
sissimo aiuto anche sul piano della consapevole testimonianza
culturale.
Anche in una città come Venezia, patria di grandissimi
strumentisti, il teatro continuava a essere il catalizzatore mon­
dano della musica. Lo stesso Vivaldi, per esempio, era un
prolifico autore di opere che, oggi, non costituiscono certo un
elemento-chiave per la formazione di una coscienza storico­
musicale. Nel Teatro alla Moda, Marcello non si limita a fare
ironia sul sottobosco eterno di questi « templi della musica»,
ma dimostra una precisa consapevolezza storico-culturale nei
confronti del fenomeno : criticato non già per motivi morali­
stici, ma per la sua assoluta inadeguatezza nei confronti delle
prospettive stesse della musica. Il fatto che il teatro fosse
nelle mani di mezzani, mezzefigure, impresari di pochi scrupo­
li, cantanti pronti a tutto , ecc.- è solo, sul piano ideologico­
culturale, una conseguenza. L'ironia che caratterizza la denun­
cia, deriva dalla consapevolezza del fatto che, per la musica,
era ben aperta un'altra strada, quella dell'esperienza strumen­
tale .
Ma veniamo al piu grande di tutti, ad Antonio Vivaldi
( 1 675c.- 1 74 1 ) : colui che lascia, morendo , il deserto, la fine
assoluta della stagione dello strumentalismo italiano.
Venezia, ai primi del Settecento, era uno dei simboli piu
avanzati dell'affrancamento, della libera cultura borghese , del
74 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

libertinaggio (e l'autobiografia di Casanova, come piu tardi


quelle di Goldoni e di Lorenzo Da Ponte, è uno dei testi-chia­
ve in tal senso) inteso come esaltazione dell'assolutamente
libera iniziativa. Libera iniziativa, però che si porta appresso
un vizio d'origine, quello che forse è il piu indiscutibile
elemento unificante e negativo della storia italiana : cioè, l'in­
dividualismo. La mancanza di compenso, intendiamo dire, per
questo tipo di libertà: una classe che si costituisse in senso
produttivo. La mentalità modernamente borghese, cioè, che
subito si esaspera o, meglio, che non risolve, che non assesta
in senso dialettico - come formazione, appunto , di una classe
fornita di strumenti produttivi adeguati - le sue origini,
ripetiamo, individualistiche.
Città di libertini, di alta cultura, di consapevole ideologia
illuministica (almeno nel riscontro pratico), Venezia sembra
consumare se stessa, le proprie mirabili capacità inventive ( di
cui la musica vivaldiana è l'incarnazione in assoluto la piu
alta) con una strana fretta esistenziale che chiude ogni pro­
spettiva futura. Strawinski, con una battuta, volle definire
Vivaldi : musicista grandissimo, disse, perché capace di scrivere
quattrocento e piu volte il medesimo concerto. Mancanza di
rinnovamento, quindi: e il rinnovamento è l'anti-individuali­
smo per eccellenza, fondandosi sulla presenza di una realtà, di
una classe esistente e diveniente. E, all'interno di tale mancan­
za, la genialità assoluta, la capacità di cambiare faccia, senza
sostituire i singoli tratti, quattrocento e piu volte. Il quadro è
perfettamente delineato : e molto oltre le stesse intenzioni di
Strawinski.
Anche per Vivaldi, si può fare il discorso sulla «masche­
ra» : che però, a Venezia, piu che come simbolo di conserva­
zione, va letta come segnale di autonomia, come falso punto
fermo che, tuttavia, vale come riferimento nei confronti di un
«giocm> ben vero. A onta di questo, anche la maschera
veneziana stringe non poco : infatti , l'autonomia di cui diceva,
priva di ricambio dinamico, alla fine non può non bloccarsi .
Goldoni, piu giovane di Vivaldi di una generazione forse
decisiva ( 1 707-1 793 ), può sfondare la maschera sostituendone
la fissità con una mobilità « altra», già popolare con una
mediazione di tipo borghese. Però, a parte il fatto che anche
Goldoni finisce sintomaticamente altrove, in un'altra area (la
Francia immediatamente pre-rivoluzionaria), occorre ricordare
che il teatro italiano, sin dai tempi del Rinascimento, era
abituato a questo genere di disinvolto commercio çon l' «al-
L'ILLUMINISMO 75

tro», alla contaminazione col popolare ( sia pur mediato da una


visione individualistico-umanistica ).
Per Vivaldi, invece, la maschera è rigida, è - e siamo nelle
condizioni di tutti - un punto d'arrivo, e non già, come per
Bach, un qualcosa di sgretolabile in virtu d'una richiesta
specifica d 'una società diveniente .
In questo spazio limitato, manca la richiesta di un rinnova­
mento inteso come risultato d'un divenire, e il rinnovamento
avviene per se stesso , obbedisce a leggi assolutamente empiri­
che, autosufficienti ; a «B» è sufficiente essere diverso da
«A», e la linea A-B, cioè il rinnovamento come divenire e
come strada da percorrere insieme non volitivamente ma se­
condo una logica insita nell' «esercizio» del far musica - è
del tutto sottotraccia.
Ecco, allora, la tremenda abilità di Vivaldi, il suo perenne
mutar forma simile al mutar delle maschere che sorvolano la
realtà, e che non possono stabilire alcun contatto fra la statici­
tà sociale e la sua proiezione musicale che, trovandosi defun­
zionalizzata, cioè non potendo avere alcuna funzione in un
contesto che non ne ha bisogno (essendo, esso stesso, una
proiezione e non esistendo come base), deve essere il suo
esatto contrario : cioè un dinamismo permutante, continuo,
assurdo, isterico.
È bene ricordare che Vivaldi, in fondo, si muove in senso
perfettamente illuministico, vale a dire esaltando la libera
iniziativa e la libera inventività. Il fatto è, però, che il suo
movimento avviene in un campo rigido, e che quindi, riducen­
dosi a un che di strettamente individualistico, risulta del tutto
frustrato ; Vivaldi non modifica la musica, anche se è nelle
condizioni, personali e oggettive, di farne quel che vuole.
Per quanto concerne la staticità aristocratica della musica,
Vivaldi è in una posizione assolutamente negativa: cioè, di
fatto, la smantella proponendo - nella sua produzione stru­
mentale, che conta piu di ogni altra - ritmi di rinnovamento,
o se si preferisce di generazione, assolutamente nuovi e diver­
si. E, del resto, questa non è che la conferma di una tendenza
borghese sulla quale già ci siamo soffermati a sufficienza, e di
cui Vivaldi prende atto nel modo piu intenso possibile. Il
fatto è, però, che l'atteggiamento susseguente a questa negati­
vità, pur esistendo, non può assolutamente espandersi. Ci
riferiamo a un possibile quadro positivo che non riguarda solo
il fatto in sé , il «qui e ora» della musica ( «l 'armonia e
l'invenzione» : che, in Vivaldi, si «cimentano» nel modo piu
76 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

splendido e piu ricco ) : ci riferiamo ai fini della musica stessa,


alla realtà borghese ch'essa deve presupporre e nei confronti
della quale, invece, si trova, sempre, molto e molto piu avanti.
La maschera stessa, insomma, appare piu consonante a una
realtà diversa da quella, rigida, aristocratica ; però, sotto i
tratti piu morbidi, vi sono tuttavia strutture durissime, tese,
sempre, a salvaguardare qualcosa. E, in tal senso, la critica
non può assolutamente essere diretta al singolo artista se non
per rimarcarne un atteggiamento eccedente. È la realtà dell'Ita­
lia, e di Venezia in particolare, che ancora non può richiedere,
specie alla musica (l'arte piu giovane), un atteggiamento pro­
duttivo che veda la produttività come riverbero d'un dina­
mismo di base, di una linea di tendenza globale, coinvolgente.
La musica produce, si. : ma per se stessa ; anzi, producendo,
continua a salvare la zona franca della maschera. In pratica,
non è sufficientemente « umana». In rapporto, naturalmente, a
quell'umanità «nuova» che sta già formandosi in Europa
anche portata avanti dagli ideali illuministici. Ideali, però, che,
a Venezia, mostrano il limite derivato da una basilare mancan­
za di produttività. L'Illuminismo a Venezia, scatena potenzia­
lità nascoste, evidenzia tesori di pensiero e di rappresentazio­
ni: ma è un cambiamento, un arricchimento di « cultura» , non
di società . La grande letteratura ( rappresentata da Ippolito
Nievo ) che, piu tardi, avrebbe lamentato questo stato di
decadenza della grande Repubblica, sarebbe partita proprio da
posizioni borghesi, cioè da uno stato di carenza proprio di
questo livello ottimale che, in altri paesi d 'Europa, era testi­
moniato dalla cultura piu moderna.
Vivaldi è il massimo possibile, in questo àmbito . I suoi
limiti, diciamo, costituzionali spiegano un fenomeno che, se
isolassimo la musica come mondo a sé, sarebbe paradossale e
mostruoso : cioè l'assenza assoluta di successori, la morte della
musica dopo una manifestazione linguisticamente, ideologica­
mente, laicamente (però non socialmente) cosi. giovane e cosi.
ricca di ogni possibile avventura e costruzione .

Se, dopo la Germania luterana, passiamo a considerare


l 'Austria cattolica, potremo registrarvi l'assenza di quell'« e­
roismo del reale» che abbiamo potuto notare a proposito di
Bach, ma, in compenso, una rimarchevole compattezza della
musica borghese. Il fatto è che l'Austria stessa, coi suoi
apparati fortemente burocratizzati in senso centrale, poteva
disporre di una stratificazione sociale che, mentre delimitava
L 'ILLUMINI SMO 77

nettamente la classe borghese, la forniva anche di quella


consapevolezza e di quella sicurezza che provengono dalla
coscienza stessa del limite. In pratica, si verifica quello che,
come abbiamo visto or ora, in Italia era rimasto a livello
potenziale : la borghesia, cioè, può prendere corpo. E produrre
il proprio rispecchiamento.
Da un lato l'aristocrazia austroungarica, preclusiva a livello
sociale, lo era molto di meno a livello artistico, dal momento
che non era abituata a secoli di arte prodotta a sua · immagine
e somiglianza. Quindi era, per cosi dire, meno schifìltosa nei
confronti del quotidiano. Dall'altro lato, la borghesia era resa
consapevole proprio dall'efficientismo burocratico : aveva lo
spessore di un'esistenza concreta e funzionalizzata senza avere ,
ancora , la pantografìa della propria produttività.
Quando vedremo i grandi musicisti austriaci, di nascita e
d'adozione ( Haydn, Mozart, Beethoven) , raccogliere i frutti di
questo sviluppo che si pone nella prima metà del Settecento,
noteremo che il mecenatismo è condotto, per cosi dire, da
personaggi interessati : da nobili, cioè (come gli Esterhazy o
come l 'arciduca Rodolfo) che non proteggono la musica solo
per un dovere sociale, ma anche, e soprattutto, perché essi
stessi vi partecipano.
Insomma, l'esatto contrario di quanto abbiamo visto in
Italia : dove, all 'assenza della borghesia, corrisponde un'ari­
stocrazia che si rispecchia, che ha un disperato interesse a
rispecchiarsi in mondi intangibili e lontani : nella maschera .
In questa situazione nasce, in Austria appunto, la Haus­
Musik, il gusto della musica «fatta in casa», che presuppone
un'identificazione, nettamente preprofessionistica, fra esecutore
e ascoltatore, fra artista ed esecutore. In tal modo, non solo si
toglie di netto ogni pregiudizio circa il ruolo socialmente
subordinato del musicista (pregiudizio presente in Italia, per
ovvi motivi di sviluppi «dall'antico» e, per esempio, superato
da un Vivaldi solo grazie allo scatto di una concezione dispe­
ratamente, estremisticamente, istericamente libertina), ma la
musica stessa risente di questa condizione di assoluta parità.
È cosi che nasce la musica quotidiana, la musica «umana» :
come pratica marcata da una concretezza e da una funzione
diversiva, di intrattenimento, che sarebbe stata, alla fine del­
l'ancien régime, la contraddizione tragica di Mozart, ma che,
per ora, garantisce un libero scorrere di idee assolutamente
congruo e proprio.
La musica italiana è ancora creditrice di fraseggi garbati e
78 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

spiritosi, di atmosfere limpide e solari; però è già, dell'Italia,


un'idea colta, cioè trapiantata ed evidenziata in senso consape­
volmente mediato .
Cosi, se i primi esempi di sonatismo sono italiani, la for­
ma-sonata si afferma definitivamente in Austria e in Germania
( simile per lo spiccato senso borghese-domestico) : dove questo
genere trova un adeguato sfogo della carica di razionalità e di
quotidianità che ha alle spalle. Carica che, sommata alla già
ricordata funzione d 'intrattenimento borghese, dà i caratteri,
prettamente illuministici, della musica del Settecento : concre­
tezza e razionalità di circuito (la rigida e utilitaristica struttura
della forma sonata, è proprio questo : con la contrapposizione
di due temi che si contrastano, che generano sviluppi, ecc. ),
relativismo e «prosa» (la forma-sonata stessa è consapevol­
mente limitata e limitante), benevolenza; e soprattutto, ripe­
tiamo, possibilità di circuiti percorribili « domesticamente» : lo
spirito, appunto, della Haus-Musik.
È, naturalmente, l'epoca della grande musica da camera ( trii,
quartetti, quintetti ; come pure serenate, danze, ecc.); ma è
anche l'epoca dell'espansione del suono : non in senso spetta­
colaristico, ma in senso meramente acustico. Inoltre, molti
nobili, interessati e partecipi del fenomeno, vogliono avere una
propria orchestra: anche per motivi di rappresentanza, certo ;
ma soprattutto per una forma di coinvolgimento in un feno­
meno cosi dominabile, cosi rispecchiante la quotidiani­
tà.
In questo ambiente, nasce la sinfonia moderna. Due sono le
scuole che la rivendicano : quella di Vienna e quella di Man­
nheim. Ed è inutile, in questa sede, stabilire priorità filologi­
che, dato che il fenomeno ci interessa per i caratteri socio-cul­
turali che abbiamo ricordato, e dato che rispecchia la diffusio­
ne - di tipo limitato e spontaneo finché si vuole, ma assolu­
tamente autentica - dell'ideologia illuministico-borghese.
Sarà il caso, piuttosto, di ricordare il nome di qualche
protagonista : di Jan Stamitz, boemo d'origine ( 1 7 1 7- 1 747) e
di suo figlio Karl ( 1 745- 1 80 1 ), di Karl Ditters von Dittersdorf
( 1 739-1799), di Christian Cannabich ( 1 73 1-1 798 ), dei figli di
Bach fra i quali spiccano C. Ph. Emanuel e Johann Christian,
ecc. Una musica senza grandi segni e senza sfrenate fantasie :
una musica, però, sulla quale l 'uomo concreto può totalmente
mettere le mani. Importantissimo, questo, non tanto in vista
degli sviluppi futuri (spiegati, certo, da questi precedenti : ma
non tali da esaurirli, pena la visione distorta del fenomeno ),
L 'ILLUMINISMO 79

quanto per la totalmente avvenuta approprtaztone della bor­


ghesia nei confronti della musica. Musica ironica e di intratte­
nimento, certo : ma non si deve dimenticare che siamo ancora
al di qua della Rivoluzione francese !
8. L'ITALIA LACERATA : I SUOI ESULI E IL
SUO PASSATO

La situazione socio-culturale dell'Italia, priva di un adeguato


mercato di tipo borghese, è confermata anche dai musicisti che
saranno presi in esame in questo capitolo : musicisti che, esuli
e in un certo senso costretti a un tipo di evoluzione talvolta
anche innaturalmente contraria allo sviluppo «nazionale» che
stava prendendo la musica, dànno, alla situazione stessa, una
svolta anche intensamente drammatica.
Il romano Muzio Clementi ( 1 752- 1 832) ha una biografia
esemplare sul piano del «libertinaggio avventuroso» settecen­
tesco . Trasferitosi in Inghilterra molto giovane, vi rimase, in
pratica, tutta la vita. Eminente concertista, editore musicale (e
luminosamente protettore delle nuove esperienze musicali, an­
che piu avanzate delle sue), fabbricatore di pianoforti, alle
prese, continuamente, con creditori e con istanze di fallimento,
Clementi trova un senso esemplare, per la sua musica, nella
didattica. Non ci riferiamo solo al suo Gradus ad Parnassum,
opera, appunto, esplicitamente didattica ; ma, piu in generale,
a tutta la sua produzione pianistica e cameristica. Clementi -
vogliamo dire - assume in pieno le strutture del sonatismo;
ma viveva, esule, in un paese che se, da un lato, spianava
liberisticamente la strada a un impresariato e a una produttivi­
tà musicali assolutamente privi di ostacoli, dall'altro lato,
come abbiamo potuto vedere sin dai tempi di Haendel, si
opponeva, proprio per queste caratteristiche liberali-impresaria­
li, a un rapporto piu viscerale, piu particolare, insomma piu
«nazionale», con la musica. L'ideale, insomma, per la conser­
vazione del grande patrimonio italiano esaltabile, ormai, solo
nell 'assoluta asetticità.
E, infatti, il sonatismo di Clementi non si cala nell'àmbito
dilatato e coinvolgente della formatività storica del genere, ma
asseconda, dello stesso, una distributività assunta come abito
culturale all'insegna della chiarezza e della disponibilità. At­
teggiamento , questo, assolutamente internazionalistico : di cui,
L ' ITALIA LACERATA 81

s e sono evidenti i caratteri positivi (insiti nell'enunciato stesso


di tale abito), possono apparire , con altrettanta chiarezza, i
limiti negativi , intesi come carenza di quello sbocco politi­
co-professionale che il sonatismo stesso andava assumendo, e
che avrebbe avuto il suo culmine, ma non la sua isola ( ché
tale sentimento era ben diffuso, per esempio, in Germania), in
Beethoven : ben conosciuto da Clementi.
Mancanza di un contatto nazionale, dunque , ché l'Italia era,
in tal senso, ancora del tutto opaca ; contatto nazionale inteso
non già in modo rivoluzionario, ma - ripetiamo - come
presenza di territorio borghes e, in grado di tesaurizzare il
prodotto culturale, di assumerne la gestione e la responsabilità.
Appunto per il suo carattere didattico , la musica di Clemen­
ti è eminentemente borghese, enuclea con perfetta compiutezza
tutte le chances dell'Illuminismo maturo : la sobria e disincan­
tata eleganza, la ferrea rr:zionalità strutturale che si presenta
come atteggiamento «normale» ( cioè, non «eroico»), la chia­
rezza, l'ironica benevolenza. Tutto , in Clementi, è teso a
«dimostrare» la possibilità di qualcosa : di qualcosa di molto
possibile, di molto concreto e, anche e soprattutto, di molto
diffuso . La g;rande maturità stilistico-culturale che sovraintende
a questo a tteggiamento artistico, è, però, come ridotta alla
pura, asettica conservazione di se stessa. Impossibile in patria,
deve ridurre, all'estero, le sue possibilità a quella che, di
fatto , è una dproposizione della «maschera» dell'ancien régi­
me. Deve ridurre a essa, cioè, le sue peculiarità che il concetto
(borghese) di didattica renderebbe adatte a ben altro atteggia­
mento progres sista . Lo stesso che rimane nelle intenzioni di
Clementi, editore aperto alla nuova musica ed «estimatore» di
Beethoven.

Il toscano Luigi Cherubini ( 1 760- 1 842 ) e il marchigiano


Gaspare Spontini ( 1 774- 18 51 ) sono altri due illustri emigrati ;
emigrati però, e questo ci sembra importante, non con un
bagaglio di esperienze strumentali, ma con un curriculum
teatrale a dimostrazione che, forse, neanche il genere piu
«italiano », l'opera appunto e in particolare l'opera classicisti­
ca, po teva trovare , in Italia, un terreno di sviluppo e di
espansione adeguato.
Il mondo di Cherubini ha una tematica squisitamente inter­
nazionale ; il compositore fu daoprima a Londra, poi a Parigi,
dove riusd a entrare nella cerchia di Maria Antonietta . Ebbe
poi vita difficile per i suoi rapporti non felici con Napoleone ;
82 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

ma, a onta di questo, fu uno dei compositori ptu venerati


dalle giovani generazioni romantiche. Attestati di incondizio­
nata ammirazione gli vennero tributati da Liszt, Mendelssohn,
Weber.
Le sue opere (Demofonte, Ifigenia, Medea, Anacreonte,
ecc.) sono di argomento classico, ma sarebbe ingiusto pensare
a un puro e semplice travaso di questa concezione nella lunga
predisposizione classicistica dei francesi. Il suo mondo ha ben
ferme le fondamentali strutture ideologiche del teatro musicale
italiano : ripartizioni rigide, nettezza di taglio, eroismo magni­
loquen te , area protetta contro l'intrusione di qualsiasi elemen­
to «diverso». Però, e lo testimonia l'ammirazione dei roman­
tici, queste strutture inalterate risultano come turbate ; il loro
monolitismo sembra assumere consapevolezza di un violento
trasferimento in un altro ( e piu « aperto» ! ) contesto storico­
sociale. Il turbamento, l'offuscamento delle sue creature, se
lascia le stesse inalterate e perfettamente agibili da parte di
una richiesta di classicità non modificata, sposta in realtà tale
classicità, dagli altari dell'asepsi aristocratica, nello scorrere di
una tematica piu borghese . E, cosi, il processo di umanizzazio­
ne non concerne i singoli tratti fisionomici, ma il ruolo come
di frangiflutti che queste figure, appunto perché singolarmente
intatte, vengono a ricoprire in tutt 'altra congerie .
Il cielo classico di Cherubini è coperto di nubi corrusche ; la
reazione si esprime ancora in termini aulici ; ma, intanto , c'è, e
diventa, da proiezione rappresentativa metastorica, elemento
testimoniante.
Il destino di Spontini scorre in parallelo. Protetto da Giu­
seppina, questo compositore dà vita a opere che, meno rigide
sul piano dei contenuti ( accanto alla Vestale, per esempio, c'è
Fernando Cortez), conservano il medesimo tratto classico:
anche quando il musicista prova ad avvicinarsi (con Agnes von
Hohestaufen) ad argomenti medievali-«nazionali» piu cari alle
giovani generazioni romantiche tedesche.
Diremo, anzi, di piu. In Spontini, la tematica classicistica si
qualifica ulteriormente grazie all'assunzione di espliciti elementi
«ideologici» come l'amore, la gloria, ecc. Eticità classica, come
si vede bene, ma, anch'essa, inserita, o meglio drammatizzata,
in un contesto che, se non affronta esplicitamente il «diver­
so», certo lo assume, consapevolmente, come terribile fanta­
sma incombente.
Spontini viene definito come il compositore «napoleonico»
per eccell�nza. 'Ma il suo aderir� alla riçhiesta di classicità da
'
L ITALIA LACERATA 83

parte della Francia ufficiale e imperiale, ben !ungi dall'essere


solo un fatto di mera convenienza, è, sia pure inconsapevol­
mente, la realizzazione del bisogno di «mondo» da parte della
classicità. Anche il suo, come quello di Cherubini, è un classi­
cismo come contaminato, che resiste alle contaminazioni per­
ché non ha presenti, in Francia, soluzioni alternative ( l'esperi­
mento diverso di Agnes che Spontini ha, se non altro, tenta­
to) ; ma che, tuttavia, riesce a testimoniare - preziosamente
proprio in misura delle condizioni in cui si trova ad agire :
condizioni che hanno rapidamente, e senza possibilità di pause
borghesi, consumato il passaggio dall'aristocrazia ancien-ré­
gime all'impero napoleonico - questa sua condizione di ele­
mento drammaticamente tolto.
Notiamo dunque, a proposito di Cherubini e di Spontini,
l'elemento di partenza. Vale a dire, non solo e non tanto il
mondo classico in sé, quanto la sua disponibilità a permanere
in condizioni mutate e a testimoniare codesto mutamento.
Ebbene, la terra madre del classicismo, non può ospitare il
mutamento di esso ; può continuare a gestirlo ( in Italia restano
solo gli operisti seri e buffi vecchia maniera; e resta anche,
all'inizio, Rossini : caso particolarissimo e inquietante, come
vedremo ) come mondo rigido e, ormai, del tutto irrappresen­
tativo se non di una gelosa cura di se stesso non già contro il
nemico costituito dal diverso, ma, semplicemente, contro tutto
ciò che abbia una parvenza di vita. Se il patrimonio del
passato appare grande solo quando, dimenticando la sua storia
composta essenzialmente di grandiose riserve e di drammatici
spiragli individualistici, gli riesce l'operazione di avallare la
storicità, e quindi l'inamovibilità, di tale passato - allora
vuol dire che l'Italia è veramente una terra di morti, un paese
in cui prevalgono ancora gli interessi non già a raccontare la
storia in un certo modo, ma a non raccontarla affatto. Senza
passato consapevole, e quindi senza presente, l'Italia è un
dominio della conservazione piu cupa : quella che genera, fra
l'altro, l'area privilegiata dell'artista chiuso nella «nobiltà» del
proprio gesto.
Cherubini e Spontini, che non possono essere considerati
dei rivoluzionari, per vitalizzare in una certa misura il loro
mondo , devono emigrare. E càpitano nella Francia imperiale,
trionfalistica e positiva. Se riescono, in questo ambiente, a
vivacizzare la classicità con un discorso come che sia, se
riescono, pur riproponendo alla fine tale classicità intatta, a
drammatizzarne il circuito fino a renderlo - ripetiamo -
84 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

testimone di qualcosa in movimento - vuoi dire che questo


mondo classico era ben profondo, cosi come era profondo, da
una prospettiva diversa, il sonatismo illuministico di Clementi,
de-nazionalizzato nell'asettico senso didattico.
L'Italia, dunque, non offre, al momento, alcun mercato. Si
sta riaprendo lo spazio per quell'individualismo morale e civile
(Foscolo, Parini) che, in séguito, sarebbe confluito nel movi­
mento risorgimentale ; ma, per ora, non v'è, a livello diffusivo,
alcun aggancio possibile col patrimonio del passato. Da notare
solo un 'ultima cosa. Il classicismo sta morendo ovunque. Se,
in Francia, resiste, ciò è reso possibile dall' «astuzia» di Che­
rubini e di Spontini che trovano un veicolo per celebrarne,
sotto le spoglie dell' «eternità» legata al momento napoleonico
presente, un turbamento negativo che di fatto, come si è già
detto, lo toglie via . In Germania e in Austria, anzi, il classi­
cismo stesso è qualificato, spregiativamente, come <<italiano».
L'unica nazione che non se ne fa un manto, è quella che si
illude di poter essere ancora maestra di civiltà, secondo l'idea
che, al «maestro», non è piu necessario studiare, apprendere,
verificare. Rossini è colui che paga, con piu evidenza, questa
sicurezza.

Il caso di Giacchino Rossini ( 1 792- 1 868 ) deve interessare,


in questa sede, come caso-limite dell'insufficienza e, soprattut­
to, delle conseguenze del classicismo-maschera, del classicismo
che conserva, insomma dell'es tremo propagarsi della cultura
italiana antica (nella fattispecie : prerisorgimentale ) nel tempo
e in condizioni del tutto mutate rispetto all'indifferenza, o
addirittura al compiacimento, con cui il pubblico recepiva tale
cultura.
In tal senso, è esemplare la reazione della cu�tura musicale
piu impegnata (quella tedesca), nei confronti della musica
rossiniana. A parte l'ovvia ammirazione, per esempio di
Schubert, per un compositore che gli poteva apparire « gioio­
samente» perfetto, v'è come un senso di saturazione non tanto
per l 'artista singolo, quanto per quel modo di concepire la
musica (sia nelle sue accezioni «buffe», sia in quelle « serie»,
classicistiche) : cosi distante, cosi intoccabile, cosi autosufficien­
te nei suoi equilibri statici e privi di autentici, «rischiosi»
itinerari drammatici.
Si sa, dagli aneddoti, che il giovane Rossini veniva chiama­
to, nella sua Pesaro, il « tedeschino» : per la sua capacità di
comporre eccellente musica strumentale, per la sua confidenza
L 'ITALIA LACERATA 85

con l'armonia, per la sua disinvolta compiutezza formale. Mai


aneddoto è stato cosi indicativo, a causa delle sue distorsioni,
di una realtà musicale e culturale impaniata e priva di sbocchi
che non capovolgessero la posizione dell'artista a petto della
materia. Per chiamare « tedeschino» un giovane compositore
che, sia pur armonicamente aggiornato su posizioni haydniane,
altro non faceva che ripercorrere itinerari tipicamente, squisi­
tamente «italiani» - occorreva, al presente, accusare di netto
le preclusioni alienanti che il patrio mercato opponeva a
espressioni musicali che indicassero, come quelle strumentali,
un possibile sviluppo della borghesia. Bravo, si : ma non
riconoscibile. Ecco gli esordi di un giovane ricchissimo di
talento, che ripercorre itinerari italiani. Non riconoscibile,
probabilmente, neanche a se stesso. Sta di fatto che Rossini
sceglie, definitivamente, il teatro ; e che la grandezza delle sue
realizzazioni si poggia, in misura essenziale e decisiva, sulla
rigida demarcazione che separa irreversibilmente il teatro, quel
teatro, dalla vita.
Opere buffe (Il Barbiere, Cenerentola, L'Italiana in Algeri,
ecc. ) e opere serie, classicistiche (Semiramide, Mosè, ecc. ), s�è
detto; con qualche parentesi ( per esempio, La donna del lago)
che tratteremo alla fine, e con l'ultima opera ( il Guglielmo
Tell) con la quale il compositore, appena trantaseienne, chiude
la sua attività offrendo, al mondo, un duro, ostinato, eloquen­
tissimo silenzio durato quasi quaranta anni.
Si parla molto di un Rossini reazionario, chiuso alla pro­
blematica presente, nemico del pianoforte e amico del clavi­
cembalo, nemico della ferrovia e amico della diligenza ; «infa­
stidito» dai moti rivoluzionari di Parigi (città nella quale
passò la seconda parte della sua vita, quella quasi del tutto
coperta dal silenzio ); ironico, disincanta to, cinico, sconcertante
per la sua neghittosità personale e per l'intelligente interessa­
mento nei confronti dei compositori romantici che pure ave­
vano, con la musica e con la vita, un rapporto per lui
insopportabile.
Tutto questo può essere vero. Ma le motivazioni piu inte­
ressanti stanno a monte : stanno nella sua giovinezza, nel
rifiuto che gli oppone l'antico, e morto, concetto della musica
«borghese», e nella conseguente sua incapacità di cercare, e di
accettare, una nuova, possibile idea di borghesia. Il «tedeschi­
no», appunto. Un'arte, quella nuova, straniera, non buona per
l'Italia. Il resto è una conseguenza, sia pure accecata, dello
stato di impasse ai primi dell'Ottocento : con la musica nuova
86 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

italiana, il melodramma, destinata a negligere i valori strumen­


tali e, per giunta, non ancora chiaramente visibile .
Ecco, allora, la maschera : mortuaria ( e Rossini lo sapeva : e
lo avrebbe saputo alla fine della sua breve carriera, a dispetto
delia sua lunga vita) , e nelle sue lucenti accezioni comiche, e
nelle sue accezioni matematicamente classiche.
Nel suo comico, Rossini esaspera la tendenza umanistica al
distacco ironico, alla parodia cinica, secondo uno schematismo
indolore : oggetto del dileggio è la pedanteria, fisionomizzata
in un disegno musicale implacabile nella sua conseguenzialità.
Il fatto è, però, che una simile ironia, un simile distacco
caratterizzano anche quelle che dovrebbero essere figure «po­
sitive» . Ironia piu sottile, meno avvertibile immediatamente :
ma tale da porre il dileggio maggiore, il «buffo», in una
dimensione di totale anarchia, di totale assenza di termini
dialettici. Il pedante di Rossini che determina la comicità
(Don Magnifico in Cenerentola, Don Bartolo nel Barbiere,
ecc.) non può essere il rappresentante di un modo superato,
per il semplice fatto che non v'è, in prospettiva, un approdo
positivo, un termine finale . L'eroe, il tenore, è ironizzato ancor
piu gravemente, perché la vanificazione non è esplicitamente
dichiarata, ma risulta dal modulo di partenza di tutto quel
mondo : come ovattato in uno sconsolato rifiuto di realtà.
Rossini cioè, nel suo comico, divora tutto, è senza resistenze,
non ha, non trova, nella sua situazione socio-culturale italiana,
un qualcosa su cui costruire.
E lo stesso si nota nelle opere «serie» del compositore.
Dove tutto · è perfetto, ma raggelato; dove tutto è lucido, ma
morto ; dove tutto è collocato in una splendida intangibilità
che, però, è impraticabile e inagibile proprio per la sua stessa
perfezione frutto di una totale irrappresentatività di quei
moduli.
Cherubini e Spontini avevano ribadito il classico : però
come promanazione di una classe (l'aristocrazia «imperiale»,
napoleonica, francese) ambigua a tal punto da presentare il
prodotto anche come qualcosa di aperto alle esperienze succes­
sive, romantiche. Il classico, cioè, era uscito confermato : però,
con qualcosa di fratturato e con un difforme leggibile anche in
senso romantico . Il classico di Rossini, invece, è piu pulito, è
piu netto, non è inquinato : appunto perché la vita gli è
lontana, estranea. È la situazione italiana, priva, in quel mo­
mento particolarissimo, oltre che di un avvenire leggibile con
gli occhi della quotidianità, anche di un passato in grado di
L 'ITALIA LACERATA 87

costituirsi come diga oggettiva contro il diverso. Rossini non è,


non può essere, cosi, un reazionario : è un esule culturale che
fluttua in un terrificante vuoto di tempo .
E cosi nel 1829, col Guglielmo Tell, il compositore approda
al melodramma romantico, al genere nuovo : scegliendo, addi­
rittura, il dramma schilleriano della libertà, del nazionalismo,
della coralità. Una conversione? Neanche per idea : il Tell,
melodramma, è perfetto, pulito, lucido come un'opera classi­
cistica. Il «diverso», per Rossini, non è un elemento inqui­
nante, un nuovo orizzonte con cui regolarsi. Neanche è nato, e
subito è assorbito, come se nulla fosse. Quella cultura mortua­
ria, che Rossini non solo si porta appresso, ma che estremizza,
continua a fare da diga . I nuovi valori borghesi rivoluzionari,
esaltati dal futuro melodramma verdiano, non possono convi­
vere con i valori antico-italiani ; anzi, questi valori non hanno
alcuna possibilità di rapporto col futuro : per il semplice fatto
che, cosi concepiti, non sono nel tempo, e che non possono
essere altrimenti che cosL Il silenzio di Rossini, vale non solo
come grandioso atto di morale artistica individuale, ma anche
come grafico esatto di una situazione .
Non si tratta di moduli linguistici : perché, per esempio, a
Rossini si sarebbero rifatti i melodrammaturghi futuri ; si
tratta dell'assenza di un tessuto connettivo borghese in grado
di fare da ponte fra passato e futuro . La condizione « reazio­
naria» di Rossini, ripetiamo, non è una scelta personale, ma
l'esatto quadro della cultura italiana, di cui basterà ribadire
l 'incapacità di essere dialetticamente, concretamente, emblema­
ticamente conservatrice.

Anche se originato dalla medesima matrice, il caso di Luigi


Boccherini ( 1743-1805) è molto, molto personale . Intanto, si
tratta di un compositore eminentemente strumentale ; eppoi, la
sua vicenda biografica è quanto meno sconcertante. Anch'egli
emigra dall'Italia ; ma, anziché stabilirsi in una città piu ricca
di commercio musicale ( Parigi, Vienna, Londra), va a cacciarsi
nella lontanissima, culturalmente, Madrid . È al servizio del
principe delle Asturie che, contrariamente ai mecenati illumi­
nati di Vienna o di Parigi, considera Boccherini poco piu che
un servo. Il che accentua la solitudine del compositore, e
spiega l'alternarsi, anche all'interno di una medesima composi­
zione , di strumenti di altissima tensione drammatica e momen­
ti della piu piatta e sciatta routine settecentesca.
88 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

La condizione di solitario, comunque, favorisce lo sviluppo,


in Boccherini, di quella proterva, durissima eticità individua­
listica che, come abbiamo già visto, è un tratto tipico, e
sforzato da situazioni perenni di scollamento sociale, della
cultura italiana . Questa eticità, nel compositore lucchese, arri­
va a risultati assolutamente grandiosi : Boccherini , cioè, riesce
da solo, nella non spartibile, col mondo, compattezza delle sue
composizioni cameristiche (quartetti e quintetti per archi , so­
prattutto ), a compiere l'enorme salto fra Settecento e Ottocen­
to , vale a dire fra una musica concepita come intrattenimento
(ed esasperata, in tal senso , nel modo piu banale dalla contin­
genza madrilena), e una musica che ricade , responsabilizzandolo
totalmente, sull'individuo . Ecco , cosf, la secchezza di tratto, il
furioso e drammatico contrappunto, il gemito umanissimo, e
d 'un'umanità nuova appunto, e responsabile della condotta ar­
tistica. I quartetti e quintetti di Boccherini sono stati paragonati
ai quartetti di Beethoven, di una generazione piu giovane. Solo
che, mentre Beethoven (creditore di Boccherini, e forse non
solo per la letteratura specifica del violoncello ) matura le sue
determinazioni in un contesto socio-culturale aperto e, ai primi
dell'Ottocento, tale da autorizzare ogni speranza di rigenera­
zione, Boccherini vi perviene a Madrid, senza possibilità di
scambi e di verifiche in grado, se non di dargli, almeno di
confermargli, la consapevolezza di se stesso . Gli è che Beetho­
ven tesaurizza il passato rivolto al presente , a un presente che
gli permette un atteggiamento positivo ; là dove, invece, Boc­
cherini ricapitola un passato, comprende che questo passato
può vivere attraverso una mediazione individualistica di tipo
«eroico», da sopravvissuto , ma non ha assolutamente canali
per mandare nel mondo tale mediazione.
Abbiamo detto di Madrid: che però, piu che altro, ha un
valore emblematico di caso-limite . Vogliamo dire che, indipen­
dentemente dall'esilio, la condizione individualistica - cosi
moderna e, subito, cosi disperata - di Boccherini è il frutto
dell'unica elaborazione vitale e drammatica che fosse possibile
in quelle condizioni italiane, con quel passato e con quel
presente.

•I n questo quadro , rientra anche il piu giovane Niccolò


Paganini ( 1 7 82- 1 84 0 ) : che incarna un altro caso di rapporto
sbagliato, a causa della carenza di scambio, con la musica.
Anch'egli è un compositore (legato all'esecutore in modo mol­
to piu problematico di quanto non appaia a prima vista) di
L 'ITALIA LACERATA 89

carattere asettico-internazionale , e anch'egli è un anti-romanti­


co che si oppone non tanto alla musica nuova in sé, quanto ai
nuovi legami borghesi-nazionali ch'essa presuppone .
Il suo , ancora una volta, individualismo esasperato, deriva
dall'estremizzazione del rapporto «consumistico» col pubblico.
La sua epoca, cioè, è quella dei grandi virtuosi; ma il virtuo­
sismo poteva non essere solo un fenomeno esteriore e brillan­
te; poteva anche comportare una confidenza, con la musica,
generatrice di tematiche piu esclusive, piu nazionali ( il caso,
per esempio, del suo coetaneo Weber) . Paganini non è in
grado - esule e privo di radici, che non fossero colte e
mediate , col passato musicale italiano - di cogliere l'elemento
progressista dell'esibizione virtuosistica. Quindi, vive il virtuo­
sismo stesso alla lettera. Egli è come il pubblico lo vuole : un
dio, un demone o una creatura comunque metafisica. Ma
questa interpretazione letterale, ben lungi dall'unirlo al pub­
blico, ne lo separa. Perché il pubblico non è particolare, ma
generale e anonimo; non è nazionale, ma internazionale ; capi­
sce tutte le lingue, ma non pensa con nessuna.
E, allora, Paganini lo accontenta ; salvo però, nella raziona­
lizzazione piu completa di questo rapporto, fare un salto in
fondo logico, e chiudersi del tutto . I Capricci, quintessenza
della sua arte, non sono destinati a esecuzioni pubbliche ! Di
fronte all'esistenza piena di un rapporto assolutamente perfet­
to, c'è il diniego : la sola forma di coscienza negativa che,
implicitamente e inconsapevolmente, denuncia l'assenza dell'u­
nico rapporto - ripetiamo : nazionale, particolare, formativa­
mente borghese - possibile, in quegli anni, col fatto musi­
cale.
Fra l'altro, la musica piu «particolare» (cioè quella cameri­
stica ) sarebbe stata assente, dall'Italia, per tutto il secolo XIX,
salvo piccole zone franche interessanti la privacy, piu o meno
repressa, di operisti (Rossini s'è visto ; poi, Donizetti ) o di
autori (in progressione cronologica : Viotti, Bottesini, Drago­
netti, Bazzini, Sgambati, Martucci, ecc.) immersi nella solitudi­
ne dell'assenza di tessuto connettivo.
9. TARDO ILLUMINISMO ED ÈRA NUOVA

Con Haydn e con Mozart, il sonatismo settecentesco rag­


giunge la sua perfezione di strumento concepito « a misura
d'uomo» ; i rapporti sociali ( fondati su un'aristocrazia blanda e
permeabile, e su una borghesia perfettamente disposta a una
pacifica e tollerante convivenza) finiscono con l'esaltare la
mentalità borghese che, in musica, muta il divertimento ari­
stocratico in civilissimo intrattenimento, la componente positi­
va in prosaica gioia di vivere, la gerarchia in equivalenza, di
fatto, di strati diversi.
Ma l'uomo, ma la società divengono. La tarda ideologia
illuministica, nel momento in cui ha trovato il proprio equili­
brio e in cui sta producendo, proprio in musica (che ora è
veramente una disciplina privilegiata ), i suoi frutti migliori, si
trova di fronte a una realtà completamente diversa. La realtà
della Rivoluzione francese. Nessuno spargimento di sangue, in
Austria ; eppure, il pulsare delle idee nuove è del pari incom­
bente. Diremo di piu : lo strumento perfetto ( che già avevamo
descritto nel cap. vn) del sonatismo, pare disposto ad allar­
garsi, ad accogliere queste idee nuove. L'uomo nuovo Beetho­
ven è, sul piano strutturale e linguistico, un discendente legit­
timo di Haydn. A onta di questo trapasso pacifico, però, la
crisi è del pari spaventosa. Lo testimoniano proprio i due piu
grandi rappresentanti dell'ancien régime ( Haydn e Mozart )
che, quindi, saranno visti, soprattutto, dalla prospettiva di
questo passaggio storico.

Franz Joseph Haydn ( 1 732-1809) presenta, nel suo ricco


catalogo, un'emblematica preferenza per i due grandi generi
sonatistici complementari : quartetti per archi e sinfonie. Con
la sinfonia che tende a conservare, dei quartetti, il carattere
«domestico» , o quanto meno di riducibilità al «gioco»; e con
il quartetto che ha, della sinfonia, la grandiosa potenza espan­
siva contrappuntistica.
TARDO ILLUMINISMO ED ÈRA NUOVA 91

II tratto piu evidente di Haydn, è la professionalizzazione :


cioè il fissaggio in un àmbito oggettivo canalizzato in un
consumo ormai istituzionale nel e attraverso il sonatismo. dei
tratti illuministici piu maturi : la gaiezza che promana dall 'ac­
quisizione tranquilla e collaudata del senso del limite, del
relativismo ; la tolleranza, l 'ironia, la benevolenza rese possibili
da un totale dominio del mezzo tecnico, non solo, ma dall'es­
senzializzazione della tecnica stessa a opera della grande ma­
turità ideologica di cui si oarlava . Ovviamente, questa stabilità
ideologica è resa possibile da un garbato e neutralizzante
paternalismo . Senonché v'è da dire che alla fine, come vedre­
mo, tale paternalismo avrebbe ceduto il posto a un atteggia­
mento ben piu drammatico ; eppoi , che si tratta di un paterna­
lismo - per cosf dire - attivo : cioè qualificato da un
laicismo che, comprensibilmente , tende con ogni forza a ritro­
varsi dopo gli assalti di quel disordine con cui , nella seconda
metà del Settecento, si presentavano i movimenti protoroman ­
tici.
Stupiscono per ese�pio , nelle sinfonie di Haydn scritte
intorno agli anni Ottanta, certi incisi altamente, plasticamente
drammatici, addirittura romantici ; ma ecco che questi incisi.
nel prosieguo del discorso, vem!Ono tranauillamente assorbiti
dapprima da richiami , eppoi dalla ragnatela strutturale sette­
centesca. È ovvio che , in questo, vi può essere del paternali­
smo ; ma vi è, anche , lo sforzo di riduzione e di chiarificazione
di elementi, non dimentichiamolo, am:ora solo caotici e oscuri,
a una mentalità laica che aveva ancora fresco il ricordo dello
oscuro e dell'irrazionale . La nuova musica, è bene tenerlo
presente, era quella - in quel momento - di Haydn ; altro,
di alternativo, ancora non esisteva ; i fermenti erano atomizza­
ti.
La grandezza di Haydn è, soprattutto, qui : in questo pre­
sentare il sonatismo borghese come soluzione pregnante, non
dogmatica o riduttiva, ma in grado di far luce sulla vita. Con
Haydn , inoltre, si verifica un grandissimo salto storico che
vede il compositore protagonista anche sul piano biografico . Ci
riferiamo al passaggio dal mecenatismo al professionismo .
Haydn fu per lunghi anni maestro di cappella degli Esterhazy :
in pratica . stava nella norma, anche se i suoi raoporti col
principe Nicola non erano certo servili. Morto Nicola , però , il
successore licenziò la caopella musicale, giusto in · tempo per­
ché Haydn accettasse l 'offerta di un impresario inglese · e
firmasse un contratto che Io impegnava a comporre e a dirige-
92 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

re a Londra un gruppo di sinfonie. L'impresario e Londra ( che


abbiamo già visto all'avanguardia nell'organizzazione della vita
musicale) dànno un'idea piu che sufficiente del passaggio al
professionismo e, quindi, a un nuovo concetto di borghesia :
piu secca e razionale, cioè piu «moderna», piu vicina all'èra
nuova.
In effetti, la tranquillità e l'ovvietà di questo passaggio
( che, sul piano stilistico, comporta solo, dato l'alto livello delle
orchestre inglesi, una dilatazione del discorso) , ci indicano ,
soprattutto, un fatto : che Haydn era già. a tutti gli effetti, un
professionista sin dal tempo degli Esterhazy.
Un professionismo però, il suo , di tipo tutto particolare :
cioè in grado di amministrare quella «misura d'uomo» di cui
si è parlato ; di amministrarla senza stacchi definitivi fra olatea
e palcoscenico, ma, anzi, fondandosi sulla dilatazione del con­
cetto di Haus-Musik. Però - e questo ci sembra molto
importante - con tutta la serietà, o meglio con tutto il
disincanto, che spettano al professionista .
La musica di Haydn non risente ancora di una concezione
del lavoro «diviso» per il semplice fatto che l'espressione
strumentale, prediletta dal comoositore nelle già ricordate
forme del quartetto e della sinfonia, risente ancora di una
totale vicinanza alla base che l'ha espressa, e alle finalità di
questa espressione : divertimento , esercizio, intrattenimento,
ecc. Quindi , è del tutto assente il precedente aristocratismo
della maschera, cioè della conservazione, cioè - quindi -
dell' occultamento .
Questo soiega la già ricordata benevolenza ironica della
musica di Haydn , che può essere tale perché non ha da
difendere alcunché, oerché può esaurirsi nella propria concre­
tezza, perché ha chiare le proprie finalità immanenti . Ma
spiega anche, a un'indagine piu attenta, l'imoietosità del rela­
tivismo di tale musica, la sua riduttività, il suo permanere,
neutralizzando il diverso, nei confini della concretezza . Non v'è
- si diceva - un patrimonio passato da difendere ; ma c'è,
da serbare, una razionalità presente, una mirabile e solare
capacità di venire a capo, di risolvere . di presentare. Ed è qui
che Haydn, si diceva, anche a costo di sconfinare nel paterna­
lismo, è impietoso, lucido, implacabile. Anche perché - parti­
colare importante - questa presenza immanente è rappresen­
tativa d'una realtà maggioritaria, di tutta la classe borghese.
Eccolo, dunque, il suo professionismo : nella presa di coscienza
TARDO ILLUMINISMO ED ÈRA NUOVA 93

totale di tutto questo, nel farsi consapevolmente e radicalmen­


te interprete di queste possibilità.
In tal senso, il passaggio al professionismo, a un professio­
nismo ormai irreversibile che sarebbe stato la base dell'opera
di Beethoven, è consumato , da Haydn , in modo molto piu
lineare che da Mozart, invischiato, come vedremo, nelle con­
traddizioni di un Settecento ancora polimorfo e «mascherato» .
Del resto, questa totale consapevolezza professionale, è una
condizione-chiave per Haydn : il quale ne ha bisogno appunto
perché l'ancien régime, stabilizzatosi con molta tranquillità
nelle zone centrali dell'impero asburgico, deve, e può, assorbi­
re il nuovo nel senso che s 'è detto . Deve assorbirlo perché, in
musica attraverso il sonatismo e i generi prediletti della sinfo­
nia e del quartetto, v'è ancora molto da dire, molta strada da
percorrere da parte di questa ideologia laica che può viversi
liberamente e non repressivamente in quanto quella società, pur
con tutti i suoi limiti , ha il pregio di non avere ancora
imparato a tesaurizzare le proprie conquiste, e quindi di non
essere ancom disposta in senso preclusivo nel nome di qualco­
sa di passato .
Questa libertà consente a Haydn di addivenire , nell'ultima
sua stagione, a un sinfonismo grandioso, potente e pienamente
consapevole senza, per questo, tradire lo spirito originario della
Haus-Musik. Il suo professionismo , insomma, ha lo scopo,
soprattutto, di ribadire, di circoscrivere , di valorizzare al mas­
simo tale spirito, alla vigilia del suo venir meno s torico.
Perché Haydn, negli ultimi suoi anni, avverte questo venir
meno ; o, piu esattamente, si rende conto del fatto che qualco­
sa di nuovo, e di molto importante, sta nascendo. La sua
reazione ai «nuovi spiriti» testimonia la possibilità del pas­
saggio indolore e completo ( molto piu indolore e molto piu
completo di quello francese ) dal Settecento all'Ottocento, dal­
l'aristocrazia alla borghesia.
Nella Vienna della -fine del secolo, vi sono diverse cose che
turbano e che colpiscono profondamente il vecchio Haydn ; e
noi le possiamo sintetizzare con due nomi. Il primo, è quello
di Mozart, dinanzi alla straordinaria, ma eslege e contradditto­
ria, ricchezza del quale, l'onesto Haydn rimane positivamente
perplesso . Ma Mozart è una meteora ; di ritorno dall'ultimo
viaggio in Inghilterra , Haydn apprende che è morto, neanche
trentaseienne. Il secondo nome, è quello di Beethoven : e qui
il rapporto è di queli i strozzanti, inevitabili . L'aneddotica ci
consegna qualche battibecco, fra il vecchio paziente ma un po'
94 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

geloso, e il giovane irsuto, collerico e permaloso . Sta di fatto


che Haydn capisce l'importanza del giovane renano, e co­
me !
Smette, molto anziano , di scrivere sinfonie ; ma non perché
ne abbia scritte piu di cento, bens1 perché si accorge che la
sinfonia sta passando in altre mani , si appresta ad aprire altre
strade. E compone , alla fine della sua lunga e mirabile carrie­
ra, due oratori : Le Stagioni e La Creazione, in cui non si
vergogna affatto di esplicitare i suoi debiti nei confronti della
musica nuova.
In questi oratori - e specie, a nostro avviso, nella grandis­
sima Creazione -, Haydn abbandona l'ironia, la benevola
capacità assorbente e un po' neutralizzante ; sembra gettar via
il concetto illuministico d'una natura con cui intessere rapporti
tranquilli e relativistici, e aderire al concetto romantico della
natura stessa come maestoso «altro» . Sembra . . . : la capriola
completa non è possibile. Anzi, la finalità è ancora quella del
venire a capo delle cose secondo l'antica gerarchia ; solo, col
rispetto delle nuove istanze, dei nuovi problemi. Ecco allora,
dietro la pittura stupendamente rispettosa, la cautela del pos­
sibile riconoscimento : Haydn, cioè, «narra» . Comprendere
tutto e mettere in gioco tutto : però ponendo, fra sé e le cose,
il diaframma cautelativo della narrazione , come una figura
d'aedo . La grande maturità della borghesia asburgica, è testi­
moniata da questo salto di Haydn : dalla sua capacità di
comprendere il diverso. Per arrivare al possibile difforme,
sarebbe stata necessaria una presenza inserita proprio nel pro­
fondo di quella elasticità, di quella libertà : la presenza, ap­
punto, di �Mozart.

Wolfgang Amadeus �Mozart ( 1756- 1 79 1 ), a differenza di


Haydn , non privilegia alcunché : tutte le forme musicali, tutti
i generi (e, all'interno di essi, tutte le pur possibili differenzia­
zioni : come, per esempio , fra l'opera italiana e l'opera tedesca)
gli vanno egualmente bene. Il drammatismo che si sprigiona
dalla sua musica, e che costituisce per l'interprete storico uno
degli elementi piu difficilmente riconducibili, non contrasta per
nulla con la destinazione ufficiale e perenne della sua musica :
la· destinazione dell'intrattenimento. Per cercare di capire Mo­
zart nell'unica sede valida, cioè nel contesto storico al quale
egli appartiene, è necessario - anche per l'ascoltatore meno
esperto - impiantare un grosso processo di ripulitura mentale
che spazzi via l 'immagine del fanciullo-prodigio, della divinità,
TARDO ILLUMINISMO ED ÈRA NUOVA 95

ecc. Che Mozart fosse un talento fuori del comune, è un fatto;


ma pretendere che questa extra-normalità esaurisca il discorso
sulle questioni toccate dalla sua musica, significa mistificare del
tutto la sua presenza. Che in effetti, al pari di tutte le altre
grandi presenze, è molto scomoda. Mozart «incosciente» , fan­
ciullo divino : questa immagine è un parto della cultura ro­
mantica, che - lecitamente - ha collocato il compositore
come terminale di una tensione verso una purezza che -
allora - appariva allontanata dalla presenza di un «diverso»
che è l'elemento caratterizzante (dapprima in modo autentico,
poi in modo, vedremo, mistificato) della cultura, appunto,
romantica.
Parafrasando Marx, si può parlare di Mozart come di un
appartenente alla categoria di coloro che «lo fanno ma non lo
sanno» . Ora è nostra precisa intenzione legare la possibilità di
questo «fare», e soprattutto la conseguente impossibilità di
questo «sapere» , a precise condizioni della cultura tardo-illu­
ministica .
In riga con le sue, ancorché contestate e poi in parte
superate, origini «italiane», 1Mozart ignora del tutto - e,
ovviamente, qui il discorso supera la stretta contingenza tea­
trale - la «riforma» di Gluck, tendente a instaurare, come
sovraintendente alla condotta musicale, la regola del sentimen­
to o, meglio, la fluttuazione di esso. Se si pensa al fatto che
Mozart quando, nel suo ultimo anno di vita, perviene, col
Flauto magico, alla concezione «nuova» del teatro popolare e
nazionale; e se si pensa anche, però, che, all'interno di questa
sua concezione, riemerge il concetto di «gioco» talmente am­
plificato da ridurre a sé ogni momento piu autenticamente
progressista - se si pensa a questo, si arriverà a una prima
conclusione . L'arte di Mozart è l'arte della maschera. Quasi
contemporaneamente al Flauto magico, opera progressista,
Mozart scrive La clemenza di Tito, opera metastasiana, «rea­
zionaria». ·Ma solo dalla prospettiva di una gerarchia critica
retta, appunto, dal sentimento, dai nuovi valori borghesi. Se
Mozart l'avesse accettata, non avrebbe scritto La clemenza di
Tito dopo Il flauto magico ( opera leggibile, correttamente
anche se - come vedremo - dolorosamente attraverso il
filtro quintessenziato della maschera di Cosi fan tutte), non
avrebbe scritto il finale del Quintetto in sol min. K. 516 (che
alterna, «come se nulla fosse» , momenti atroci a momenti di
intrattenimento disinvolto : con questi ultimi, ovviamente, a
96 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

fare da filtro interpretativo ); e non avrebbe scritto chissà


quanta altra musica.
Mozart, dunque, non accetta - di fatto - la regola del
sentimento borghese (consapevole di se stesso) : ma rappresen­
ta l'ultimo momento di vitalità - neanche a dirlo, il piu
grande - della maschera antica, duttile ed elastica fino all'in­
credibilità.
Quella di Mozart, cosi, è una musica assolutamente libera,
priva di riferimenti obbligati, tale da viversi nella totale pie­
nezza di possibilità ricche quanto mai . Stanno crescendo , come
importanza rappresentativa, la sinfonia, il pianoforte, le for­
mazioni cameristiche piu coese e impegnate ( trii e quartetti).
E Mozart realizza tutte le possibilità insite in questi nuovi
generi ; non li riduce, no, a qualcosa di preesistente, ma, anzi,
li potenzia tutti con una forza che non ha eguali nella storia
della musica. Però, dall'altra parte, c'è la sconcertante consta­
tazione dell'assenza assoluta di un privilegio esclusivistico di
questi «nuovi» generi musicali. Vogliamo dire, cioè, che la
medesima ricchezza che si trova in una sinfonia, o in un
concerto o in una sonata per pianoforte, si trova anche in una
serenata, in un'opera «italiana», ovunque, anche in lavori
scritti per armonica a bicchieri.
Ecco, allora, la prima contraddizione della libertà di Mozart.
Non è una libertà poggiata su un termine negativo, su una
possibile negazione di essa; non è la libertà nuova quale
l'avrebbe fatta conoscere Beethoven prendendo di petto e
assumendo assoluta coscienza soggettiva delle possibilità della
musica . Nei confronti di queste forme musicali, che maturano
prima della Rivoluzione francese, è Beethoven la creatura
abnorme che le sforza, che le riduce a testimonianza di gran­
diosi eventi dinamici. 'Mozart è nella norma settecentesca :
intendiamo dire che ne sfrutta la ricchezza senza, per questo,
doversi impegnare moralmente e civilmente con essa in modo
esclusivo di altro. Nella sua indifferenza in tal senso, sta il
nucleo della libertà settecentesca, del pieno dominio sulle
forme musicali senza avere altra finalità che lo sviluppo di tali
forme .
Senonché - e torniamo alla contraddizione - questo
grandioso sviluppo praticamente senza limiti, questa esaltazio­
ne della libertà illuministica nata da un atteggiamento laico, di
emancipazione e di liberazione, porta l'uomo molto piu avanti
rispetto alle previsioni. Lo porta, cioè, a una responsabilizza­
zione totale che, per sua natura, implica la delineazione di uno
IJ'ARDO ILLUMINISMO ED ÈRA NUOVA 97

scopo, quindi di un negativo : di un negativo di nuovo genere,


dialettico . E questo è contraddittorio rispetto alla norma illu­
ministica esaltata da Mozart. Che, vivendo appieno le grandio­
se possibilità del Settecento, non oppone, a esse, questo nega­
tivo, cioè a dire la costituzione di un soggetto dialetticamente
frenante.
Anche se la contraddizione è in questa non-libertà del
mondo nuovo rispetto alla libertà «infinita» del mondo vec­
chio, i pesi di tale contraddizione inespressi, li porta la creatu­
ra perfetta di tale mondo antico, cioè Mozart. Il quale è
costretto, sempre, a «sorridere » ( vale a dire, a comportarsi in
senso settecentesco) anche quando recepisce - ·e lo fa molto
presto - le conseguenze di questa mutata mentalità. È co­
stretto a «sorridere» perché, non potendo farsi carico del
negativo per la sua «perfetta» appartenenza al mondo vec­
chio, non può fare altro che integrarlo nella maschera . Se fosse
stato meno «perfettamente» settecentesco, Mozart avrebbe
assunto il negativo capovolgendo l'antico rapporto, si da fare ,
di tale negativo, il soggetto, il filtro, il confronto. Cosi, esso è
solo un accidente che, per immane che sia, deve essere inte­
grato, risolto. Senza alternativa per questa libertà della ma­
schera che è insita nell'affrancamento dalla realtà dell'area in
cui agisce tale maschera : che non deve essere piu a misura di
dogma, ma che può rappresentare la gioia, il divertimento, la
raffinatezza, l'ambiguità. Se si cercasse una libertà diversa,
«umana», la maschera non avrebbe piu motivo d'esistenza, e
Mozart, cosi come lo conosciamo noi, non sarebbe esistito .
Maschera «estetica», dunque, priva di remore e di zone
vietate . Queste zone, Mozart le percorre tutte. Si vedano, per
esempio, le sue opere : dalle turcherie giocose del Ratto dal
serraglio, al divertimento tutt'altro che negatorio della rabbia
rivendicativa di Beaumarchais delle Nozze di Figaro ; dal Flau­
to magico all'opposto già ricordato della Clemenza di Tito ;
dall'astrattismo cristallino e tale da esigere (ancora) la libertà
d'una manovra spericolata, di Cosi fan tutte, al Don Giovanni.
Ecco, nel Don Giovanni questo mondo «estetico» è cosi
perfettamente squadrato, contemplato, saputo, da dar vita, nel
suo seno, alla straordinaria caratterizzazione morale (per logica
e impietosa esclusione ) del protagonista. Don Giovanni è crea­
tura morale perché è «fuori» di quel mondo cosi perfettamente,
appunto, «estetico». È, questa, una delle piu straordinarie
acquisizioni della cultura occidentale, una delle piu dolorose e
inquietanti. Solo che, nelle mani di Mozart, anch'essa scorre
98 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

via, è inserita nel gioco generale appunto per la mancanza, da


parte del musicista, di presa di possesso del «diverso» : qui il
dolore (ma non necessariamente esso : il dolore, però, emble­
matico dell'esatto contrario della gioia istituzionalizzata) , che
ben esiste, ma che non opera l'unico scatto possibile, quello di
un capovolgimento di posizioni al termine del quale l'artista si
troverebbe a farsi carico - negativo - di qualcosa.
Per un crudele (ma in fondo, dato il carattere conservativo
di tutta la società borghese, ben comprensibile ) scherzo del
caso, Mozart è rimasto il musicista sereno, quello che dà gioia,
ecc. E, al limite, deve essere cosf : purché, però, si faccia luce
sui rapporti che abbiamo cercato di mettere in evidenza. La
maschera di Mozart - che non solo nasconde la smorfia, ma
che offre meravigliose possibilità di manovra allusiva e cennata
a copertura della manovra difforme, o addirittura dell'impossi­
bilità di manovra, della smorfia stessa - è stata utilizzata,
poco piu di cento anni dopo, dalla cultura decadentistica in
cerca di mistificazioni e di occultamenti (per esempio, da
Hugo von Hofmannsthal ). È tremendamente valida, però, an­
che per il tardo Settecento ; è valida per il bisogno di procra­
stinare quel carico soggettivo che, a onta dell'ampiezza della
sua strada, avrebbe ben presto portato a un rendiconto : e,
estremisticamente, al venir meno della civiltà della maschera,
cioè dei grandi valori estetici .
.Mozart, che tradizionalmente viene considerato il centro
matematico della musica, può vedere ribadita questa classifica­
zione : che, però, assume tutto il suo valore solo in considera­
zione della forza autodifensiva della cultura «estetica», della
cultura dell'ancien régime. Solo in questo modo si può spiega­
re la sua indifferenza, l'equivalenza del Flauto magico e della
Clemenza di Tito, il suo non farsi carico del dolore, del
difforme, del diverso, pur sviluppando compiutamente tutto
questo ; anzi, pur esaltandolo in quella contraddittoria libertà
settecentesca che, in lui, assume le vesti estremistiche e rivela­
torie di una validità rapportata alla sua non interferenza nei
confronti dei problemi dell'uomo collocato al centro d'un
universo che non sia «estetico», ma morale, civile, conosciti­
vo , comportamentale. Insomma, inquinato.

Ludwig van Beethoven ( 1770-1 827), uomo nuovo, sceglie,


con una determinazione impietosa che finora non è stata
debitamente sottolineata dalla critica, i generi musicali : re­
spinge quelli non praticabili, e sottolinea quelli percorribili da
TARDO ILLUMINI SMO ED ÈRA NUOVA 99

parte d i una presenza «umana» (civile , politica, morale , ecc. )


che è l'esatta antitesi d i quella di Mozart.
Beethoven prende la musica tremendamente sul serio : essa
è testimonianza e prova, diveniente quindi. La maschera è
polverizzata. Ma il compositore non nasce come eroe solitario.
Viene dalla Renania, terra tradizionalmente sensibile alle idee
francesi; crede nell'èra nuova, nel progresso della nuova classe
borghese ; legge Kant e individua, nella «ragione pratica» , il
canale privilegiato di una presenza tesa al miglioramento di
una base già concreta . Per lui, il «diverso» non è lontano : è
solo da conquistare.
Esordisce, ufficialmente, non giovanissimo : l'op. 1 è del
1794. Sono tre «trii» con pianoforte : fonicamente squilibrati
dal peso dello strumento nuovo che è l'emblema del profes­
sionismo, del nuovo ruolo del musicista.
Dunque, le scelte. Fino al 1 800 circa (il cosiddetto primo
periodo ), notiamo, nel suo catalogo , alcuni splendidi «trii»
per archi (per esempio, l'op. 9) e il Settimino op. 20. Ora,
tanto quest'ultimo lavoro, legato al genere della « serenata»,
quanto i trii per archi, appartengono alla musica del Settecen­
to, ne sono rappresentanti tipici. Ebbene , a onta della perfetta
riuscita «estetica» di questi lavori, Beethoven non ne avrebbe
scritti altri. Certo, questa selezione sarebbe durata fino alla
fine e avrebbe portato, a poco a poco, all'eliminazione del
concerto solistico, della sinfonia , ecc., fino alla riduzione, negli
ultimi anni tragici, alla sonata per pianoforte e, poi , al quar­
tetto per archi. Però, per quanto concerne gli anni giovanili,
questa selezione testimonia il ruolo nuovo del musicista: che,
sull'onda del movimento socialmente e politicamente favorevo­
le, dilata la struttura musicale fondamentale - la forma-sona­
ta - e, approfittando dell'elasticità illuministica - già ricor­
data - della struttura stessa, se ne appropria talmente fino a
snaturarne, rispetto agli scopi originari (mozartiani), la fisio­
nomia .
Ora, questo procedimento è naturale che non tolleri realiz­
zazioni in forme troppo compromesse col passato (trii per
archi, serenate, ecc.), e che ricerchi un terreno piu aperto, piu
·

favorevole : il pianoforte appunto e , poi, la sinfonia. .


Insomma, non è che, nel giovane Beethoven, cambi la
struttura : cambia la posizione del musicista a petto della
materia. Ecco , allora, che la maturazione musicale non può che
avvenire insieme alla definitiva maturazione politica. Nel 1 803,
100 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

viene presentata l'«Eroica» : ispirata, si sa, a Napoleone (con­


sole ). Cioè al simbolo vivente dell'èra nuova, al liberatore ,
all'interlocutore di tante attese. È l'epoca piu felice e piu
spinta in avanti della storia della borghesia ( specie tedesca) .
L'andamento del grande lavoro h a , infatti, proprio questo di
caratteristico : che porta avanti idee grandiose, che si fa carico
delle aperture possibili e anche del dolore espansivo che costa
questa grandiosità; ma che , nel momento stesso in cui ha
compiuto un passo in avanti, si rivolge all'indietro per vedere
se il mondo sia ancora H, se sia in grado di seguire, se stia,
tutto intero, nel risultato raggiunto. Cosf, i temi sono «comu­
nitari», vale a dire rappresentativi di possibilità che sono di
tutti. Beethoven si configura subito come un estremista, un
radicale ; l'epoca in cui egli matura, però, fa pensare a una
condividibilità di codesto radicalismo. Sta di fatto che la sua
tensione verso il positivo, verso il progresso, è caratterizzata
da un ottimismo che non può non essere sociale, cioè tale da
presupporre una possibilità di tensione generalizzata. È l'epoca
in cui Fichte spiega, aderendovi, la Rivoluzione francese e in
cui teorizza la missione del «dotto» ( cioè, dell'intellettuale) ; è
l'epoca in cui il giovane , rivoluzionario Hegel ( coetaneo di
Beethoven ) dimostra la fatalità del cammino, e dell'afferma­
zione, della ragione; e in cui altre grandi presenze -
Hoffmann e, poco piu tardi, Heine - responsabilizzano l'uo­
mo, il civis, come soggetto caratterizzato da una gamma d'a­
zione vastissima, però sempre riferibile a un che di unico.
In questo contesto, si spiega il grandioso ottimismo dialetti­
co di Beethoven, del Beethoven «seconda maniera», quella
inaugurata, appunto, con l' «Eroica» . È l'epoca in cui la liqui­
dazione della musica settecentesca è totale, in cui, all'antico
«padrone» (quello della maschera ), è subentrato un altro : il
civis appunto, responsabilizzato nei confronti di tutte le azioni
che sta compiendo .
Il drammatismo di Beethoven - altro simbolo del momen­
to felice di quella società - è sempre il medesimo : e quando
è rivolto all'esterno e quando è rivolto all'interno. Il dramma­
tismo calato verso l'interno ( si pensi, per esempio, alle grandi
«sonate» per pianoforte, ai quartetti «Rasoumowski», ecc.),
per quanto teso e doloroso in ragione della consapevolezza che
lo caratterizza, per quanto capace di sfiorare situazioni talmen­
te intime da apparire, appunto per lo schiacciame.q.to del peso
della responsabilizzazione, quasi abnorme - mai smarrisce la
sua riferibilit�. all'esterno, la sua tensione, realizzata, verso uno
TARDO ILLUMINI SMO ED ÈRA NUOVA 101

stato che deve essere paradigmatico, in cm ognuno possa,


sempre, riconoscersi.
Per contro, il drammatismo esterno ( quello delle sinfonie,
dei concerti solistici : genere , questo, che emblematicamente
patisce le contraddizioni fra l'impegno di Beethoven cosf
configurato, e l'obbligo mondano d'un rendiconto «brillante» )
è sempre legato a una manovra intimistica esplicitamente
riferita a una normativa morale che fa, dell'elemento oggetti­
vamente valido del «dovere» kantiano, un punto di riferimen­
to e di continua verifica . E i conti tornano : dal momento che
questa normativa interna, dal momento che la responsabilizza­
zione soggettiva si appoggiano proprio al mondo esterno,
configurato nel senso che abbiamo cercato di ricordare.
Le scosse interne (che vanno dal borbottio e dal mugugno ,
al brivido e allo spaventoso e istantaneo lamento testimone di
baluginanti possibilità di smarrimento e di solitudine ) ci sono,
in questo periodo di Beethoven ; però, appaiono sempre risol­
vibili col richiamo - drammatico in rapporto all'entità di
codeste scosse - a una normativa comunitaria che, ripetiamo,
funge da elemento-guida : volitivo, ma d'una volitività fondata
sulla costituzione d'un mondo possibile.
Spicca, in questo àmbito, il Fidelia, l'unica opera di Bee­
thoven . Opera morale, opera-norma, è stata giustamente
definita : secondo una concezione del teatro estremizzata e
sinanco astratta, ma, appunto per questo, ancora piu «emo­
zionante» per la sua capacità di ridurre tale estremismo e tale
astrattezza a un «presente» affettivo (l'amore coniugale e la
passione politica) la cui presenza è, nel senso che si diceva
sopra, frutto, insieme, di una volizione e di una possibilità la
cui collocazione oggettiva e obbligante è continuamente scossa
non già dal dubbio, ma da un'incombenza di cui l'artista si fa
carico personale .
Negli ultimi anni di vita di Beethoven (la sua « terza
maniera» : che inizia, grosso modo, intorno al numero cento
del catalogo ), qualcosa si spacca, qualcosa viene meno . O,
meglio , il mondo si rivela nel suo vero aspetto. Quel grande
momento favorevole , ancorché autentico , lo è soprattutto in
senso negativo : per togliere via i residui feudali. Ouesto scopo
però , teorizzato e conclamato da ideologi come Beethoven, è
realizzabile fintllntoché collimi con gli orientamenti prevalenti
della classe al potere : classe che non può, per semplici motivi
di autoconservazione , protendersi continuamente in avanti. Lo
stesso processo dialettico, se interpretato estremisticamente,
102 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

diventa equivoco : cioè, promette molto piu di quanto non sia


in grado di mantenere. In pratica, la borghesia deve godere di
un ubi consistam : deve conservare, deve tesaurizzare, non può
bruciare ogni conquista sull'altare del Perenne divenire. Lo
stesso professionismo musicale , che Beethoven aveva entusia­
sticamente realizzato e infine disatteso, si fonda sulla forma­
zione e sulla stabilizzazione del patrimonio culturale che non
si vede perché non debba obbedire alle medesime leggi dell'e­
conomia.
Di questa reale costituzione della borghesia, si accorsero i
due grandi coetanei : Beethoven e Hegel appunto. Però. men­
tre Hegel riusd a coprire e a « risolvere» la contraddizione
immettendo, nel flusso del divenire , la riserva di una cessazio­
ne del movimento (la sacralità del momento presente. dello
Stato prussiano : scandalo e delusione per gli hegeli::mi . di
sinistra), Beethoven rimase del tutto schiacciato e stravolto da
questa medesima contraddizione, patita a livello fatalmente
soggettivo.
Innanzi tutto , continuando a bruciare il già-acanisito nella
dialettica, e disattendendo del tutto il concetto di tesaurizza­
zione e di patrimonio culturale . egli si ritrova solo . Cioè privo
di interlocutori - secondo l'antico ottimismo positivo -
paritetici . Ed eccone i frutti nelJe ultime opere : vanifica:;done
della dilatazione coinvolgente. Il finale della Nona sinfonia
non si sviluppa oiu nello spazio-tempo costituito dal consorzio
umano : si amplifica sempre di piu . in quella mancanza di
interlocuzione dialettica che porta all'isterismo ; e, non poten­
dosi piu fondare sulla fede in quel modo di fare e di intendere
la musica (cioè sullo svilutmo : di fatto negato nel Finale) , ha
bisogno di un qualcosa di esplicito, di un oggetto esterno
costruito solo con volizione : di un testo letterario. Del resto,
subito consumato. Eopoi , le ultime sonate per pianoforte e,
soprattutto, gli ultimi quartetti . Le proporzioni - frutto della
accettazione della convenzione, della misura dettata dal «vive­
re insieme» - sono del tutto saltate : il soliloquio d� luogo o
a gigantesche dilatazioni d�.1la potenza intatta ma dalla dialet­
tica frustrata, priva di quella riducibilità (all'umano, al quoti­
diano) che ne aveva reso preziosa e riconoscibile la grandezza
precedente , e che ora, assente, lascia il posto alla mostruosa
contraddizione di una prandezza realizzata con disperazione .
cioè senza la coscienza di una possibile compartecipazione del
mondo. Oppure - il soliloauio - dà luogo a uno scheletri­
·

smo in cui i grandi segnali dei momenti precedenti ( il tema, il


TARDO ILLUMINISMO ED ÈRA NUOVA 1 03

ritorno a esso, l'integrabile «patetismo» del momento sogget­


tivo, degli affetti dichiarati) sono ridotti a semplici punti di
riferimento: non piu percorribili all'analisi, ma riguardabili
con la disperazione di chi non ha alternative fra essi, cosi
ridotti, e il vuoto : ma non piu il vuoto cosmico, in un certo
qual modo provocatorio, bensf il vuoto esistenziale su cui
incombe la domanda del perché continuare a parlare . Di qui i
temi «banali», scheletrici appunto, dell'ultimo Beethoven, la
loro funzione di ritorno e di riconoscibilità a petto della
dilatazione estrema sopra descritta; e di qui, infine, le spro­
porzioni . La forma non ha piu senso proprio nel suo significa­
to altissimo - di identificazione morale, civile e conoscitivo
- che lo stesso Beethoven le aveva conferito. La libertà
borghese non può essere presa alla lettera: essa vale, come
conquista, solo finché non subentri la difesa di tale conquista.
Il principale strumento di Beethoven per la realizzazione
della libertà - il sonatismo - era nato in tutt 'altro ambiente
socio-culturale : era testimone, si ricorderà, d'una concezione
della vita relativistica, ironica, giocosa. Eppure, si adatta per­
fettamente a essere strumento di radicalismo, di tensione verso
il negativo, di superamento continuo. E questa elasticità, que­
sta agevole adattabilità a temperie molto diverse - sono già
sospette . Non solo, ma, nato come «dono», il sonatismo
stesso vede Beethoven concepirlo, nelle sue opere d'esordio,
come conquista, mai valida una volta per tutte. Tale facilità di
concedersi, da parte di questo grande modulo borghese, lo
riporta alle sue origini : origini di uno strumento nato per
conservare qualcosa, perfettamente in riga con le tendenze
fondamentali della società che lo ha espresso.
Beethoven, assecondando la spinta delle sue origini, sforza,
dunque , tale modulo, sforza tale società estremizzandone la
dialettica, la tendenza al progresso: assolutizzandole, cioè, là
dove esse erano - già si è detto - negative, vale a dire
subordinate al togliere via il feudalesimo che si opponeva alla
possibilità di «nuova» tesaurizzazione, di <<nuovo» accumulo
di beni.
Ed è, del pari, eslege !'«ottimismo» di Beethoven: il quale
si accompagna ali'ottimismo tendenziale della borghesia di
quegli anni, gerarchizzandolo al di sotto del dolore dato dalla
necessità del superamento continuo .
Come si vede, dunque , un rapporto distorto, sotto le vesti
dell'as soluta consonanza, fra Beethoven e la sua società : l'ele­
mento di divergenza è il concetto di rischio che, mentre per il
104 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

compositore è strettamente legato alla meccanica del processo,


per la società è un elemento da togliere via non appena si sia
pervenuti al risultato valido.
Beethoven dunque, da una parte, come interprete il piu
compiuto di una società in espansione e colta nel momento in
cui può fare, del rigore morale, una normativa valida sul piano
civile ; di una società che, effettivamente, si dispone in tal
senso, che mostra le sue componenti cosf orientate. Ma anche,
negli ultimi anni, interprete delle grandi contraddizioni che
sarebbero esplose solo dopo il 1848, cioè dopo la definitiva
caduta degli ideali rivoluzionari o, quanto meno, radicalmente
rigenerativi, e dopo l'assunzione della tendenza all'accumulo
come tendenza-base assolutamente maggioritaria . Non un pro­
feta, ma un testimone che, se aveva accettato totalmente la
tendenza all'appropriazione e alla responsabilizzazione dell'èra
nuova, in modo altrettanto radicale coglie l'impossibilità di un
comportamento improntato a questi criteri libertari e di pro­
gresso. Dapprima, nel momento del possibile, un politico ; poi,
nel momento dell'impossibile, un ideologo, un disperato ideo­
logo.
10. I GRANDI NAZIONALISMI

Dopo la grande esperienza del Fidelia, il teatro musicale


tedesco si canalizza in una delle due componenti fondamentali
del pensiero di Beethoven : disattende cioè, necessariamente,
l'aspetto estremistico-individualistico della presenza beethove­
niana, esaltando, però, la sua possibile «ragion pratica», vale
a dire la sua possibile traducibilità non-eroica, quotidiana.
È su questo concetto che si fonda la grande stagione del tea­
tro musicale nazionale tedesco : che conta, magari, su un numero
non rilevantissimo di emblematici lavori (in pratica, Euriante,
Oberon e, soprattutto, Il franco cacciatore di Weber, Genove­
va di Schumann e Il vascello fantasma di Wagner : dopodiché
lo stesso teatro wagneriano, come vedremo a suo tempo,
prenderà una strada completamente diversa), ma che si affida a
una fervida circolazione di idee, e a una totale consapevolezza
fondata sull'affrancamento totale da esperienze straniere (ita­
liane specialmente) e sull'altissima rappresentatività di quel
genere di musica.
Ovviamente, il momento piu interessante è rappresentato da
Cari M. von Weber ( 1 786- 1 826 ) Il suo Franco cacciatore si
.

fonda su una realtà, appunto, «nazionale» che articola situa­


zioni del tutto familiari al pubblico tedesco (non si dimentichi
la mitologia astratta su cui si imperniava il teatro classicisti­
co ): i boschi, le fate, le creature magiche e, all'interno di
questo mondo, la raffigurazione possibile dell'eroe che incarna
la lotta, positiva, e felice , del bene contro il male. Ora, questo
mondo dell'opera-manifesto del romanticismo tedesco, viene ,
per cosf dire, esibito in senso progressista, diveniente. Voglia­
mo dire che, in vista del momento felice attraversato dalla
nazione tedesca nei primi decenni del secolo, quel mondo
fondato su valori familiari e riconoscibili, non mira a tesauriz­
zare questi valori, ad accumularsi, a farne l'oggetto ipostatizza­
to d'una contemplazione statica (in pratica, esattamente quello
che sarebbe successo da Wagner in poi ), ma a farne una base
106 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

per una tensione, per il possibile progresso legato all'enuncia­


zione di quei medesimi valori intesi come conquista essenziale
e recente.
Non si tratta d'una promessa vaga e generica : il mondo de
Il franco cacciatore è un mondo progressista perché i suoi
elementi fondamentali (quella scenografia teatrale che produce
una musica tanto dinamica quanto intima, «riconoscibile»),
sono esattamente dipendenti dall'atteggiamento della giovane
borghesia verso un nazionalismo inteso come punto d'arrivo,
non diciamo minacciato da qualche fantasma, ma felicemente
caratterizzato da una serie di identità che si stanno verifican­
do, e che quindi - ripetiamo - configurano il processo tutto
come un qualcosa che sta dando frutti concreti e positivi.
Ci sembra importantissimo ribadire un concetto espresso in
precedenza: cioè, che la tensione di cui stiamo parlando non è,
non può essere, beethovenianamente eroica. Essa può mante­
nersi al livello di pratica quotidiana, normale, senza smarrire
quel legame col Fidelia che è il presupposto primo e del teatro
nazionale tedesco , e dell'inseribilità della grande testimonianza
teatrale beethoveniana in un àmbito praticabile da parte di
tutti. Se Beethoven estremizza la tematica morale e civile della
libertà, lo fa perché questa estremizzazione viene da un con­
testo che, ai primi dell'Ottocento, favorisce tale risoluzione.
Vogliamo dire che tale contesto è l'elemento di coesione che
conta di piu . È ovvio che esista pure una componente impresa­
dale che si estende al di là dei confini della nazione (per
Weber, per esempio, è Londra ). Ma questo non inquina per
nulla il fenomeno ; semmai, conferma il fatto che l'opposizione
al teatro classicistico italiano, rappresentativo d'una concezione
dell'arte aristocratica e inibita a contatti col mondo, non era
un fatto solo tedesco, ma anche europeo. Anzi, meglio, cana­
lizzabile impresarialmente : quindi, tale da comportare un
pubblico favorevole all'alternativa contenuta nel teatro nazio­
nale.
Un altro aspetto, complementare, di Weber, è dato da un
carattere della sua produzione non teatrale, cioè dal virtuosi­
smo. Abbiamo visto, nel capitolo precedente, come tale virtuo­
sismo fosse un frutto del medesimo rinnovamento musicale :
un frutto - come dire? - esterno e, alla fine, potenzialmen­
te in grado di neutralizzare la potente carica progressista della
nuova musica, ma intanto, al di fuori di ogni considerazione
inutilmente moralistica, a essa indissolubilmente legato .
Orbene, il virtuosismo di Weber (quello delle opere piani-
l GRANDI NAZIONALISMI 107

stiche: da camera e con orchestra) ha questo, di caratteristico :


che, a onta delle sue spericolatezze e delle sue «bravure», si
mantiene legato a una concezione domestica, all'antica Haus­
Musik. Anzi, diremo meglio che tale virtuosismo è una stretta
conseguenza di questa domesticità, di questa confidenza con la
musica ; e che si sviluppa, senza mai disperdersi in canali che
potremmo definire solo esibizionistici, in questa direzione. È
come un dare del «tu» alla musica e, quindi, un trovarsela fra
le mani docile a un gioco che si avventura in canali «mirifìci».
È questo, un altro importante aspetto della «volgarizzazione»
- cioè, della distribuzione non-eroica - del messaggio bee­
thoveniano, della possibile sua insistenza in una società che si
o:riconosce non solo in esso, ma nei caratteri progressisticamente
comunitari di esso. Il processo di affrancamento dei valori
musicali, per cui essi sono finalmente di tutti e a portata di
mano di tutti, e acclimatati in un consumo, anche professioni­
stico e spettacolaristico, per tutti - tale processo, in Weber,
appare del tutto compiuto .
All a fine del secolo XIX, nel momento drammatico della crisi
della cultura e della civiltà borghesi, il virtuosismo sarebbe
riapparso : e, coi suoi splendori oggettivi, si sarebbe proposto
come una copertura di tante contraddizioni dello stesso tessuto
che, malato nelle sue strutture normali, sarebbe stato presenta­
to in un'eccezionalità mistificante. Ma ora, ai tempi di Weber,
no : il virtuosismo è solo confidenza. Può anche, nei suoi voli,
perdere il contatto con l'oggetto specifico : ma non per na­
sconderlo, bensi solo per la licenza - data la saldezza comune
di tale oggetto - di momentaneamente presupporlo.
È ovvio che non tutti gli episodi di virtuosismo dell'epoca
sono coesi e significanti come quello weberiano. Le musiche,
per esempio, di F. Kalkbrenner ( 1785-1849), di F. Ries
( 1 784-1 838) e di tanti altri, sono, tuttavia, inseribili in quel
particolare momento : dalla vena didattica di Kalkbrenner, al
beethovenismo di stretta osservanza di Ries, tutto concorre a
fare, della situazione globale, quel grafico ascendente sulle cui
motivazioni ci siamo soffermati. E vi sarebbero altre cose da
dire ( come la predilezione di Weber per il clarinetto, strumen­
to dal suono piu intimo, piu vellutato, piu garbatamente
allusivo secondo quella libertà di presupporre cui si faceva
cenno, ecc . ) se non vi fosse già, su quegli orizzonti, l 'ombra
della crisi: costituita dalla Genoveva di Schumann. Ne faccia­
mo cenno, qui, non già per riproporre la defunta e abominata
trattazione «per generi», ma per anticipare un tratto che sarà
108 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

l'ogg�tto-guida dei capitoli successivi : vale a dire la caduta di


quelle illusioni, la crisi, dopo il 1 848, di quel momento felice.
Si sa che la Genoveva è un fallimento : ma non possiamo
certo accontentarci di dire che si tratta d'una partitura «brut­
ta» o che Schumann non avess� talento teatrale. Il problema
messo in evidenza dall'opera è, invece, il seguente : data la
comunitarietà dei valori di quegli anni, il compositore { estre­
misticamente, come vedremo) si fonda su una possibile ri­
spondenza del pubblico, del mondo, alle sollecitazioni di una
serie di valori ch'egli affida al mondo stesso per il completa­
mento. Schumann, cioè, propone un messaggio, sicuro di esse­
re compreso; senonché il mondo è in grado, per le sue intime
e già agenti leggi di conservazione, di recepire, sf, il messag­
gio : ma solo un messaggio statico. Là dove, invece, egli lancia
un messaggio dinamico, morale, che ha bisogno, per essere
attivato, di un pari dinamismo nel pubblico : chiamato a un
impegno etico-politico simile a quello dell'artista, e non dello
spectator. Qui sta il suo errore . Gli anni che separano Il
franco cacciatore ( 1 821 ) dalla Genoveva ( 1848), e con, in
mezzo, già il Tannhiiuser ( 18 45 ) di Wagner - sono già
fondamentali in vista del progressivo predominio della conser­
vazione sul progresso; eppoi, rispetto a Weber, Schumann non
separa - salutarmente e «borghesemente» - l'artista dal
pubblico, non attiva il primo come responsabile di un dina­
mismo che il secondo può capire perché in possesso dei
medesimi valori : estremizza la concezione della parità assoluta
distogliendo il pubblico dal suo ruolo di spectator sia pur
attivo, nel momento in cui tale aggettivo ( sempre per via della
tendenza all'accumulo e alla conservazione ) sta venendo meno
e, anche, identificando - secondo una concezione morale e
civile promessa dalle circostanze, ma, di fatto, inapplicabile -
l'uno e l'altro . Su questa mancata e impossibile estremizzazio­
ne del ruolo dell'intellettuale-guida {letteralmente : un primus
inter pares ) , si sarebbe infranto il grande sogno romantico
della non-solitudine .

Il melodramma, inteso anch'esso come momento culturale


unificante e progressista, incorre in un primo esito negativo
nella sua giovinezza storica. L'abbiamo visto : è il Guglielmo
Tell di Rossini, opera che segna la fine, prematura e volonta­
ria, della parabola artistica del musicista. Ma Rossini è un
caso-limite, è il simbolo dell'inadattabilità della dissociazione
sociale e dell'individualismo settecentesco, al tipo di comunita-
I GRANDI NAZIONALISMI 109

rietà democratica proposta dalla nuova èra. Il caso del musi­


cista pesarese è, insieme, un fatto di rigorismo individualistico
e di distorta congruenza morale spinta all'estremo, e un frutto
dell'impossibilità di lettura di un presente pianificabile in base
ai moduli culturali di un passato reso astratto appunto perché
utilizzato individualisticamente.
Eppoi, Rossini era un esule. Là dove, invece, il melodram­
ma è un fatto tipicamente italiano, vogliam dire fondato sulla
realtà contraddittoria (anche sul piano culturale : almeno ri­
spetto alla coesione, per esempio , tedesca e francese) che la
nuova classe borghese, finalmente emersa anche in Italia, sta
portando alla luce .
Il melodramma è un fatto culturale tipicamente popolare :
dove, però, il gusto del popolo (per l 'avventura, per l 'eroe, per
l 'amor di patria, per l'amor filiale o paterno , per l'amore
tout-court, per l'innocenza vilipesa, ecc . ) viene subito mediato
dalle esigenze borghesi. Esigenze organizzative e, quindi, im­
prenditoriali. In pratica, questa cultura che viene dal basso,
questa cultura non certo priva di forza dirompente ma non
ancora giunta a una rivoluzionaria consapevolezza di se stessa
- viene subito canalizzata. L'industria del melodramma ( edi­
tori, impresari, ecc.), per quanto concerne il consumo del
prodotto, e quindi la produzione dello stesso, gode di un'e­
spansione, su tutto il territorio nazionale, non dissimile da
quella che avrebbe caratterizzato l'industria dell'ultimo dopo­
guerra : il prodotto - abbondante e anche buono - copre gli
squilibri sociali della produzione. Non solo, ma tale prodotto
eccita l'ideologia dei borghesi progressisti. Toglie via del tutto,
infatti, la maschera antica, e inserisce, al suo posto, quelle
pulsioni in cui si riconoscono , sia pure con motivazioni e da
posizioni diverse, pubblico popolare e, appunto, pubblico bor­
ghese.
Cultura popolare, quindi , nel senso piu autentico. La neces­
saria mediazione borghese viene dopo , e, con la sua incomple­
tezza, testimonia le reali divisioni della cultura italiana sotto la
forma unitaria del meloàramma, forma cementata definitiva­
mente, ripetiamo, dall'impresariato . E indicativa di un'altra
grave difformità italiana : quella fra la borghesia - diciamo
- ideologico-culturale e la borghesia imprenditoriale.
Sta di fatto che, ai primi del secolo XIX, il fenomeno del
melodramma è diffuso in tutta italia, e può essere indicato
dalle città di provenienza dei due massimi autori pre-verdiani :
Catania, patria di Bellini; e Bergamo, patria di Donizetti.
110 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

Il fenomeno, nella sua genesi linguistica, non è difficile da


spiegare : il passato musicale italiano è talmente ricco di mate­
riali, per cosi dire, a disposizione, da rendere agevole questo
risveglio popolare-borghese sulle decrepite rovine dell'aristo­
crazia, e una richiesta generalizzata di avventura che spiana la
strada a questi materiali musicali che da lungo tempo giaceva­
no senza essere adeguatamente utilizzati. Ed è, appunto, que­
sta lunga giacenza che rende ideologicamente ambigua la ri­
costruzione critica di un eventuale e univoco processo unitario
in grado di sovraintendere alla sistemazione di tali materiali :
sin troppo docili ( come testimonia la difficoltà nell'analisi
tentata dallo stesso Gramsci) per presupporre un'interazione
dialettica fra sensibilità borghese progressista, pur esistente, e
disponibile inerzia ricettiva popolare, pur esistente anch'essa.
Si può comprendere bene come , fra questi due poli vicini solo
casualmente, abbia potuto agire il cemento dell'impresariato .
Il che spiega le contraddizioni di tutti i melodrammaturghi,
grandi e meno grandi, pre-verdiani. Le contraddizioni del
prolifico Saverio Mercadante ( 1 795-1870 : autore de Il giura­
mento, Il bravo, Orazi e Curiazi, ecc . ). Mercadante è un
musicista tanto impegnato coi nuovi fermenti «avventurosi»,
quanto attratto da una tendenza alla razionalizzazione, degli
stessi, in senso settecentesco. Ma, di qui a dipingere Merca­
dante come un restauratore, ci corre. I suoi preziosismi forma­
li, la sua compiutezza classicistica (che, pure, avrebbe reso ben
leggibili, al giovane Verdi, le componenti strutturali me­
lodrammaturgiche ), sono un indice sensibilissimo della sopra
ricordata contraddizione esistente fra un'oggettiva ricchezza di
materiali e una mancanza di consapevolezza unitaria relativa
agli stessi. Non essendoci, cioè, tale consapevolezza «politica»,
in Mercadante rimane l'esigenza insopprimibile di venire a
capo delle cose: e, quindi, il ripristino dell'unico ordine dispo­
nibile, quello del passato, con tutti i preziosismi ecc. che esso
comporta .
Le contraddizioni, ancora, di Vincenzo Bellini ( 1801- 1 835 :
autore de La Sonnambula, Norma, Beatrice di Tenda, I Puri­
tani, ecc . ) : compositore che carica la sua musica di un poten­
tissimo ed efficace patetismo melodico dalle origini lontane e
inquietanti; che si fa carico personale - semplicemente, ade­
rendovi in modo totale - di tale patetismo; ma che è
impossibilitato ad articolarlo assecondando proprio la sua im­
mensa carica popolare, a farne struttura formativa di un mon­
do a esso legato . Si da non poter opporre la minima resistenza
I GRANDI NAZIONALISMI 111

ideologica al risucchio di questa «bellezza» - in sé - da


parte del piu sviluppato mondo impresariale nazionale ( La
Scala) e internazionale ( Parigi ). Questa carica rilevantissima,
insomma, si consuma in un 'immediata, precoce distruzione
«estetica» : che, certo, la valorizza, ma che ne brucia le
possibilità di farsi centro di un mondo popolare non voluto
dall'impresariato, ma in grado di rivendicare a sé tale patetismo
e di costruirvi intorno un universo conseguente, e non già un
qualcosa rivolto a esaltare la « gemma», anzi il consumo della
gemma. Non a caso, il Bellini piu compiuto, in tal senso, è
quello della Sonnambula : cioè dell'articolazione congrua (e
non « disturbata» e non indirizzata a priori, dal momento che
non si tratta di un melodramma) del patetismo che si costrui­
sce il primo orizzonte a esso consonante : quello dell'elegia, di
un mondo prezioso perché, dolorosamente, tolto via, allonta­
nato.
Le contraddizioni, infine, di Gaetano Donizetti ( 1797- 1 848).
Questo compositore, anche a causa della sua formazione con­
dizionata dalla civiltà musicale austriaca, è molto piu colto,
formalmente piu compiuto, e privo, inoltre, dei problemi
d'approccio di un Bellini . Ma è, anche , il piu platealmente
Jschiavizzato dal mondo impresariale. Scrive moltissimo, accaval­
lando un lavoro sull'altro : inevitabile, quindi, il ricorso al
mestiere, alla routine, alla sutura furbastra. Ciò nonostante,
Donizetti è il compositore che piu da vicino riesce a cogliere il
pathos eroico del melodramma, il possibile riverbero di una
mano che si riserva di essere sobria e colta, su un materiale
epico-popolaresco di cui tale mano conserva intatta la trasci­
nante avventurosità. In tal senso, per esempio, il suo melo­
�dramma piu noto - Lucia di Lammermoor - non è solo
una trasposizione musicale del romanzo di W. Scott, ma il suo
esatto riscontro funzionale per quanto concerne il ruolo e le
possibilità evocative del popolare nei confronti della situazione
culturale e sociale del primo Ottocento italiano. E lo stesso
discorso si può fare per gli altri melodrammi di Donizetti : La
Favorita) Lucrezia Borgia) Anna Balena) Roberto Devereux,
ecc.
Le contraddizioni, per Donizetti, sono a monte di tutto
questo : sono nella sua già ricordata formazione di tipo au ­
striaco ( fra l'altro, il compositore è coetaneo di Schubert), cioè
nella compiutezza armonica, nella precisione strumentale (cose,
queste, abbastanza approssimative tanto in Bellini quanto nel
�iovane Verdi) e nel ruolo a. incastro perfetto che nel quadro
1 12 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

di questi parametri, viene ad avere la melodia. Autore, anche ,


di pregevolissimi lavori strumentali (specie quartetti per ar­
chi), Donizetti conservò sempre, preso dal vortice di una
produzione febbrile che ha nel bisogno di danaro una motiva­
zione esatta ma non esauriente , come una lancinante nostalgia
per un modo di fare , di consumare musica diverso (la Haus­
Musik, appunto, austriaca) . Si sommano, cosi, due tipi di
nostalgia : quello per la lontananza oggettiva, per la frustra­
zione di tale mondo haydniano-mozartiano, e quello insito
proprio - ancorché inquadrato nella « comunicazione degli
affetti» - in quel mondo . Non portata a chiarimento, e anzi
necessariamente canalizzata nell'unico universo proponibile
( quello del melodramma) , questa nostalgia è il filtro che impe­
disce a Donizetti una partecipazione piena, istintiva, al mondo
melodrammaturgico : che, cosf, presenta lo scompenso di zone
sbalorditivamente, carnalmente intense (per esempio, il trat­
teggio melanconico di certe figure femminili ), accanto a zone
dove, a causa dell'improponibilità di codesta componente sim­
patetica, il tratteggio diventa ammanierato, professionale e tale
da disattendere del tutto gli elementi progressisti di cui si
faceva cenno all'inizio.
Cosf, le contraddizioni di questo mondo, il fatto che man­
casse in esso non il materiale, ma una forza direttiva unitaria
per questo materiale, vengono confermate anche dalla mancata
utilizzazione di questa disposizione originaria di Donizetti, la
sua dimensione di apolide culturale che parla splendidamente
tutti i dialetti senza riuscire a riconoscersi in uno e in uno
solo . Il riconoscimento, invero , avviene, ma avviene verso il
passato ; nel 1 842 ( si pensi : nel 1 842 ! ), Donizetti scrive
l'ultimo suo lavoro : il Don Pasquale , un'opera buffa. In essa,
tutto è riconoscibile, tutto è chiaro , tutto è inserito : ma tutto
è lontano. Talmente lontano da esplicitare completamente, e
da sottolineare nel modo piu fermo, una dimensione melanco­
nica che, qui, diviene veramente universo : senza deformare
alcunché ma, anzi , plasticizzando il tutto : che è bello, lucido e
«godibile» appunto perché separato, dall'uomo, dall'infrangi­
bile barriera della «cultura». Mai opera fu triste come il Don
Pasquale.
Non è che la drammaturgia pre-verdiana sia esauribile in
questi nomi : vi sono, per esempio , Mayr, maestro di Donizet­
ti, G. Pacini ( 1795- 1 867) e altri che, però, non modificano il
quadro che abbiamo tentato di abbozzare . Un quadro che,
dunque, presenta, da una parte, una borghesia spinta in avan-
I GRANDI NAZIONALI SMI 1 13

ti, rivolta a esaltare ideologicamente, anche in modo pericolo­


samente illusorio dal punto di vista politico (non si dimentichi
l'esistenza, accanto a uomini come Settembrini, Nigra, Pisaca­
ne : tesi a generare un'autentica dialettica col popolare -
l'esistenza di personaggi come Mazzini, pericolosamente invi­
schiati nel concetto di «educazione» , ovviamente dall'alto, del
popolo stesso ), questo patrimonio espresso dal basso . Il fatto
è, però, che il passato contraddittorio e scollato della nostra
cultura e quindi della nostra società (si veda il cap. 8 ) non
solo non viene risolto da questo movimento democratico che
ha, nel melodramma, una delle sue incarnazioni piu autentiche
ed esemplari, ma viene, addirittura, coperto, annullato, mi­
stificato. Sf che gli squilibri passati diventano gli squilibri
presenti, «eterni» , destinati a condizionare la nostra vita per
molto tempo, in pratica fino a oggi .
Al Nord, gli intellettuali borghesi progressisti tendono a
forme piu nette e moderne di consociazione ; al Sud, la mede­
sima componente democratica continua, secondo tradizione, a
far capo a un individualismo di tipo eroico. L'elemento pia­
nificante - e dai risultati fortemente ed efficacemente illusori
sul piano unitario - è dato , dunque, dall'impresariato d'ori­
gine settentrionale : che, facendo circolare ed eccitando vieppiu
la richiesta di melodramma, forma un quadro all'apparenza
molto coeso di cui, però, le contraddizioni che abbiamo ricor­
dato sono solo un piccolo saggio.
Ecco, allora , la necessità di risoluzione eroico-individuale­
geniale . Nel nostro campo , ovviamente, Giuseppe Verdi
( 1 8 1 3-19 0 1 ) . E si noti che quella di Verdi non è affatto una
risoluzione caratteristica del solo mondo della musica. Anche
la letteratura, per esempio, gode di risoluzioni «piene» (tali,
cioè, da non lasciare aperto alcun problema, irrisolta alcuna
contraddizione) solo in virtu di grandi figure individualistiche ;
e ci si può riferire, qui , tanto all'individualismo negativo di un
Leopardi, che addirittura esulcera tale scollamento facendosene
un carico personale sfociante in un'incomunicazione del capil­
lare concreto e in una comunicazione di grandi moti del
pensiero e delle cose che, con questo possibile capillare-concre­
to, non hanno rapporto se non casuale o, peggio, freddamente
disantropomorfizzato ; oppure all'individualismo di un Manzo­
ni, che si fonda su un positivo comune (il cattolicesimo ) che,
di fatto, ha un potere assorbente, piu che unificante.
Verdi, al contrario, è nettamente piu comunitario, positivo,
«popolare». Egli, ai suoi esordi negli anni Quaranta, eroici
1 14 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

per le tensioni risorgimentali, accetta le situazioni melodram­


matiche tragiche, e persino belcantistiche, tradizionali ; le ac­
cetta esplicitamente, sottolineandone l'epos comunitario , anzi
accomunante. Ed è proprio in nome di questa presenza acco­
munante, ch'egli fonda la sua forza progressista : rendere atti­
vo, drammatizzare un linguaggio che è di tutti, e che significa
l 'unità di tutti. Ecco tematizzata, e canalizzata, l'altrimenti
generica e fluttuante ricchezza musicale italiana; eccola, ancora,
essenzializzata in un discorso sodo, che rifugge dalle decora­
zioni per il semplice fatto che ha già trovato una sua colloca­
zione. Cioè, la comunitarietà è politica : quindi immediatamen­
te significante in un contesto empirico che si riaggancia a
un'antica tradizione italiana per tanto tempo distolta e frustra­
ta dalla vacanza, dalla disponibilità politica - quanto la
politica era subita, cioè, di fatto, non c'era - dell'empirismo
stesso . E, infatti, il gesto di Verdi è stato definito una «sce­
nografia musicale» : con le cose, però , che si muovono, che
partecipano al dramma, con tutto - ripeto : quindi, essenzia­
lizzato - che partecipa al dramma.
Le opere successive a questo primo momento corale ( imper­
niato sul Nabucco, I Lombardi, Giovanna d'Arco , ecc.), le
opere che vanno dall'Ernani al Macbeth fino alla trilogia
popolare (Traviata, Rigoletto, Trovatore) degli anni Cinquan­
ta, e che si fondano su un approfondimento della tematica
individuale, vedono tale individualità sempre strettamente le­
gata all'epica corale; ne sono, anzi, un approfondimento o,
meglio , un tentativo di rendere attiva la grande normativa
etica della coralità stessa. Qui, l'antidecorativismo di Verdi
assume un senso ancora piu compiuto . Per quanto tragiche
siano le vicende narrate (e , in questo, il condizionamento del
pubblico è senza alternative), l'àmbito morale, duramente mes­
so alla prova dalla peripezia, ritorna a esse sempre positiva­
mente e attivamente fedele agli assunti - corali, appunto -
originari. In altri termini, Verdi trova ancora, nella sua ade­
sione alla sensibilità borghese progressista, elementi su cui
costruire un mondo possibile. rn suo «popolare» non sta solo
nel gesto violento, immediato e sanguigno : ma sta anche, e
soprattutto, nel fatto che la borghesia sembra interpretare,
legittimamente, aspirazioni condividibili da parte di tutti, real­
tà comuni a tutti e capaci, se esaltate, di generare quell'auto­
sufficienza drammatica scaturente da una consapevole auto­
sufficienza morale e politica.
:Ma perché - la presenza di Verdi - eroica, individuale e
I GRANDI NAZIONALI SMI 1 15

geniale ? Perché compie un vero e proprio atto di forza sulle


cose: fluttuanti, cioè non predeterminabili nell'abituale senso
decorativo antica maniera, ma anche disponibili, vale a dire
non canalizzate da uno svolgimento politico univoco, o che
almeno non sembra piu tale dopo l'unificazione italiana.
Infatti, là dove, a poco a poco (dal Rigoletto al Simon
Boccanegra fino al Don Carlo) , l'individuo, di cui ricordammo
la nascita e l'originaria aderenza alla coralità, incomincia ad
acquistare una fisionomia sempre piu autonoma, questa fisio­
nomia, grandiosamente maturata alla luce della ragione, è
sempre piu dolorosa, difE.cile da reinserire nell'alveo di parten­
za, tendente al difforme .
Vogliamo dire che lo sviluppo, portato fino in fondo (o, se
volete, approfondito psicologicamente ) e portato al rendiconto
individualistico, dell'antica coralità, dà, di fatto, una grave,
insanabile forma di disadattamento. Verdi arriva al nuovo
secolo; assiste al proliferare dell' « Italietta», sostitutiva dei
grandi sogni risorgimentali; e si rifugia, alla fine, nella co!ta
solitudine della tristissima comicità senile del Falstalf, dove
piu nulla vi è di diffusivo, di dilatantesi e:ffusivamente. Nel
FalstafJ, cioè, l'individualismo, frustrato definitivamente nel
suo rapporto con la coralità, e tale da rendere improponibile
ogni forma di tale rapporto - si pone in senso estremo, cioè
come chiusura al mondo, al quale non viene concesso se non
un addio per giunta neanche disposto a commuoversi piu di
tanto su se stesso.
Gli antichi squilibri, riemergono. L'unità d'Italia, voluta
dalla borghesia imprenditoriale del Nord a sua immagine e
somiglianza, si palesa nella sua !abilità. Resta il mondo impre­
sariale, ma con prodotti d 'accatto come quelli del verismo;
cosi come, in politica, resta una falsa espansione che mal cela
l'assenza di un tessuto connettivo autentico e progressista. Del
progressivo sgretolamento di possibilità nate grandi, la lunga
parabola artistica di Verdi è lo specchio piu fedele .

La cultura francese dell'Ottocento mostra un quadro molto


piu equilibrato che deriva dallo stato molto piu collaudato
della borghesia : la quale, nella misura in cui può continuare a
produrre gesti celebrativi e rappresentativi di se stessa, intro­
duce - a livello individuale, ma non tragicamente emarginato
- grandiosi e decisivi apparati critici. Uno per tutti, quello di
Balzac e, ovviamente, di tutta la grande scuola realistica.
La musica, invece, segue l'altro aspetto, quello celebrativo e
1 16 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

rappresentativo; è l 'epoca del Grand-Opéra, che si pone come


elemento di continuità del grande «napoleonismo» di Spontini
e di Cherubini : con la differenza che la «committente» di
questi fasti non è piu un 'ideologia - come quella, appunto
napoleonica - in qualche modo dinamica, ma una borghesia
che ha assunto tali fasti (o che li ha riassunti) come elemento
celebrativo di se stessa, della propria, raggiunta stabilità.
Priva, in modo assoluto, di qualsiasi forza rivolta a ricercare
una dimensione comunitaria di carattere etico o politico, l'epo­
ca del Grand-Opéra si rivolge - data, ripeto, questa stabilità
- allo spettacolo . I grandiosi macchinari scenici ospitano
situazioni e creature concepite a propria immagine ; tutto viene
amplificato al fine di poter essere distribuito in canali magni­
loquenti, plastici, salvaguardati dalla volgarità per merito di
un gesto che conserva una finezza che può essere spacciata per
acutezza psicologica, e che articola una violenza positiva che
può essere spacciata per impegno epico .
L'eroe di questa contingenza, è Jacques Mayerbeer ( 1 791-
1 864 ), tedesco d'origine e autore di numerose opere anche in
collaborazione con quell'infaticabile e furbissimo fabbricatore
di lavori teatrali che si pongono come esempio fra i primi di
letteratura rotocalchistica borghese, che fu E. Scribe (ricor­
diamo Roberto il Diavolo , Gli Ugonotti, VAfricana, ecc.). Lo
stesso grande criticismo della letteratura, inserito in quel con­
testo s tabile, altro non faceva che liberare ulteriori risvolti
che, ben lungi dal mantenersi in una canalizzazione negativa
(quella originaria), fornivano ulteriori, e piu aggiornati e di­
sincantati, elementi sfruttabili in quel genere di «rotocalco » e,
quindi, di musica .
Schumann fu un censore severissimo di questo tipo di
musica, da lui definita «commerciale» . Ora, anche a dare per
eccessivamente partecipe la sua ripulsa, v'è da dire che, in
effetti, il Grand-Opéra rappresenta l'esatta - e splendidamen­
te sicura, nel suo cinismo - negazione di quei valori romanti­
ci che, ai primi del secolo, si ponevano come ideologia domi­
nante proprio in quanto democraticamente tesa a fare, della
musica come della cultura in generale, una testimonianza di un
reale progresso dell'umanità verso fini che, in quel momento,
apparivano ben presenti.
Da questo contesto, si stacca nettamente il primo composi­
tore francese dalle aspirazioni veramente internazionalistiche :
Hector Berlioz ( 1 803-1 869). La dimensione internazionalistica
è data dal fatto che Berlioz ha preso coscienza del messaggio
I GRANDI NAZIONALI SMI 1 17

beethoveniano non già nel senso etico che tocca in esclusiva i


tedeschi, ma in un senso piu squisitamente prassistico . La
musica, cioè, come fatto critico, come elemento chiarificatore
di concrete possibilità di approfondimento di un apparato
culturale che confluisce, perdendo l'esclusivismo del particolare
d'origine, in un àmbito, appunto, internazionale e, meglio,
sovranazionale .
Berlioz è uomo di cultura, prima che musicista. Shakespea­
re, Michelangelo, Virgilio : queste «divinità» culturali, in lui,
sono presenti in quanto vengono sottoposte a un processo di
appropriazione - che, ovviamente, culmina nella « traduzione»
musicale - dai tratti eminentemente critici.
Le composizioni piu importanti di Berlioz sono di contenuto
epico-narrativo (Sinfonia fantastica, Araldo in Italia, Lelio,
ecc.), o di tipo rappresentativo misto ( Romeo e Giulietta), o
d'una teatralità dilatata in senso oratoriale, esplicitamente di­
dattico-dimostrativo (B. Cellini, I Troiani), ovvero aperte (co­
me Les nuits d' été o altre composizioni vocali) a squisiti e
trepidanti episodi intimistici. L'elemento unificante è, appunto,
la verifica, per mezzo della musica, di possibili contenuti
culturali.
Critica, dunque, per una possibile verifica della cultura. l\1a
critica , anche, delle possibilità della musica. La lezione di
Beethoven in Berlioz, sta in questo : che il compositore france­
se acquisisce l'impossibilità di una musica cosi «astratta ».
Teorico acutissimo dell'orchestrazione , Berlioz studia questo
prezioso ma difficile strumento al fine di esplicitarne tutte le
possibilità in vista di quest'opera di appropriazione musicale.
Che sfocia in una capillarizzazione del discorso esplicitamente
descrittiva : tale, però, nella dimensione critico-realistica (come
disponibilità concreta, nella situazione presente, del prodotto
culturale) che abbiamo ricordato .
Insomma, una tensione intellettuale molto marcata ed e­
vidente soprattutto perché, in Berlioz, non si adegua al, non si
inserisce nel, veicolo privilegiato delle spinte positive dell'epo­
ca : cioè in un movimento di tipo nazionale o in un qualcosa
di rappresentativo di istanze, in ogni caso, comuni. Questa
rappresentatività era data in Francia, lo abbiamo visto, dal
Grand-Opéra, che, invece , si costituiva come zona di stasi :
assolutamente frustrante nei confronti delle esigenze di un
artista-intellettuale come Berlioz .
Tutti i suoi grandi assunti che pure rappresentano, e che in
certi casi portano avanti, le possibilità e le direttive liberate ed
118 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

elaborate dal nuovo concetto di libertà borghese e romantico


(il criticismo, le istanze realistiche, le volizioni fideistiche dello
stesso gigantismo che, pur risentendo inevitabilmente del eli�
ma del Grand-Opéra, non ne condivide certo gli scopi e la
destinazione ) - risultano, cosi, in una posizione ibrida che
non è, giustamente, conforme alla sensibilità comune leggibile,
con l'obbligatorietà che s 'è vista, come atteggiamento <<nazio�
nale»; in una posizione che, però, non ha neanche elementi
per poter essere difforme, per poter sviluppare una difformità
che non si esaurisca, come spesso càpita a Berlioz, in un mero
gesto letterario. Che non può essere difforme perché non
abituato, nei confronti delle cose, a quello stacco rigido e
negatorio, a quell'ironia dissociante che è necessaria allo svi­
luppo della stessa difformità, e che è possibile solo in chi -
come, per esempio, uno scrittore, un Balzac - non sia coin�
volto nell'irresistibile genesi di materia, della possibilità della
materia verso fini ideologici, che è tipica dei primi anni
dell'Ottocento. Un primo caso, quello di Berlioz, di prevarica­
zione della materia sull'uomo pur atteggiato, ideologicamente,
in senso progressista.
Un caso musicale di non facile collocazione, è quello di
Fryderyk Chopin ( 1 8 1 0-1849). Polacco, non ha, in patria,
grandi precedenti musicali a cui collegarsi. Studia a fondo, da
ragazzo, il Clavicembalo ben temperato di Bach, e assume una
forma mentale che lo abitua a considerare l'opera in senso
eminentemente compiuto, «oggettivo», autosufficiente nelle
sue leggi strutturali, esistente di per sé : quindi, priva di
cordone ombelicale che la unisca all'autore e - secondo una
dialettica tipicamente romantica che lega tutti gli episodi crea�
tivi - alle altre opere. In senso eminentemente anti�romanti­
co, dunque.
È indubbio che esista, in Chopin, una forte componente
nazionalistica : sia nell'evocazione di momenti tipicamente po�
lacchi ( per esempio, le Mazurke ), sia nel grande gesto plastico
e liberatorio presente, per esempio, nelle Polacche o nelle
Ballate. Senonché, il mirabile dinamismo interno di queste
composizioni, nulla ha a che vedere col dinamismo politico di
tipo nazionale quale abbiamo potuto incontrarlo, sia pure
sotto cieli diversissimi, in Germania e in I talla. È un dina­
mismo, quello di Chopin, che non si compie in un àmbito,
appunto, politico, ma che esiste indipendentemente dall'ester­
no : con cui mantiene, come unico rapporto, una trascinante e
innegabile forza evocativa che, ripetiamo, non interessa affatto
I GRANDI NAZIONALI SMI 119

i l processo genetico dell'opera. Non a caso, entrato in contatto


con due civiltà musicali e culturali diversissime , Chopin fu
molto amato a Parigi, e non fu compreso a Vienna. Non a
caso, ancora, la compiuta perfezione, egli la raggiunge soprat­
tutto in composizioni brevi (Studi, Notturni, ecc.), dove la
normativa strutturale autonoma , è piu evidente e piu facilmen­
te percorribile.
Anche il suo patetismo - che, chissà perché, dovrebbe
essere un irrefutabile certificato di stato romantico - ha il
valore di un qualcosa di acquisito : come «linguaggio degli
affetti», favorevole alla comunicazione piu ampia e, soprattut­
to, alla totale, libera manovrabilità. E tale da confermare, nella
plastica gerarchia delle sue gradazioni, il carattere dell' «ope­
ra» chopiniana nella sua mirabile e indisturbabile indipendenza
da qualsiasi «accidente» esterno.
Insomma, un anti-romantico (o, meglio , un a-romantico)
non polemico : ma tutto preso da questa freddezza, da que�ta
sorvegliata determinazione che supplisce alla dialettica forma­
tiva nazionale di cui Chopin, calato nella sua maturità in un
ambiente ( quello francese ) a lui favorevole ma in fondo estra­
neo, non aveva potuto godere . Un individualismo, una minac­
cia della solitudine subito neutralizzata dalla mirabile, e tale
da sfruttare ogni possibile ricchezza d'impulsi e di materiali,
possibilità di concepire e di articolare l' «opera» come oggetto
dotato di leggi attive (cioè formative ) e del tutto autosufficien­
ti. A spingere agli estremi (e forse, in altra sede, sarebbe
interessante ) questa interpretazione di Chopin, ci si trovereb­
:be fuori non solo dal romanticismo, ma anche dalla tendenza
dominante - provocatoria, esaustiva e ambigua nella denuncia
di questo - di tutta la concezione artistica occidentale.
1 1 . DOPO IL 1 848

Dopo il fallimento della rivoluzione del 1 848, la musica,


forse piu di ogni altra disciplina, dimostra, a una lettura
attenta , una capacità di testimonianza ricca come non mai. Il
ventenni o che va dal '28 al '48 (con il giovane Schumann in
evidenza assoluta) è perciò, in tal senso, delicatissimo : sono le
ultime espansioni della borghesia verso un possibile, e conti­
nuo, progresso ; ma sono, anche, le prime crepe che si delinea­
no in questa concezione, dietro la spinta di una tendenza
assolutamente contraria.
Si dànno anche casi in cui la ]ugend tedesca amministri il
grande patrimonio beethoveniano senza retorica, certo : ma in
una dimensione positivo-borghese del tutto priva di laceranti
problemi formativi. È il caso, per esempio, di Felix Mendel­
ssohn-Bartholdy ( 1 809- 1 847 ) : artista lineare, esemplare anche
nella sua azione culturale ( formò, a Lipsia, un centro per la
diffusione della nuova musica ; promosse una distributività di
idee che oggi chiameremmo interdisciplinare ; riscoprf e ripro­
pose fondamentali opere religiose di Bach) e nella sua bella
tendenza a disporre la godibilità morale (con tutte le contrad­
dizioni di questa espressione) di un patrimonio musicale la cui
luminosità aveva solo l'inconscio torto di concepire il mondo
fideisticamente privo di ombre. Ma Mendelssohn, in un certo
senso, si limita da sé: vogliamo dire che, esplicitamente, non
occulta nulla ; semplicemente, crede che la cultura, distribuita
in generosa e ricca analisi e senza le riserve di finalità conser­
vatrici, sia, nelle attuali e non interferenti condizioni, in grado
di contribuire al progesso dell'umanità. Una cultura, quindi ,
che , anche nei limiti del contesto borghese, non ha bisogno di
tensioni immanenti che non siano quelle che attengono alle
sue leggi - diciamo - tecniche.
Assolutamente diverso è il caso del suo amico e coetaneo
Robert Schumann ( 1 8 1 0- 1 856). Schumann è il vero eroe ro­
mantico , colui che concepisce la musica in un senso ideologico
DOPO IL r 848 121

assolutamente coinvolgente ; è l'artista che, a onta del tratto


aristocratico, incarna la possibile democrazia del momento
ponendosi in una dimensione che anticipa quella, gramsciana,
dell'intelle ttuale-guida. Uomo di cultura prima che musicista,
Robert incarna, come Mendelssohn, una presenza attiva, ma
anche, a differenza di Mendelssohn, selettiva della cultura
stessa. Vogliamo dire che non è solo un uomo che legge, ma
anche, e soprattutto, un uomo che sceglie la traducibilità
attiva, nella strada aperta e percorribile in quelle circostanze
storiche, delle grandi presenze intellettuali. Goethe, ovviamen­
te, è presente, ma ha, come controaltare nei confronti dell'in­
frangibile olimpicità della sua dialettica che sempre torna, il
senso della natura di Jean-Paul , piu trepidante, piu problema­
tico , piu ignoto e, ancorché ottimisticamente, piu rischioso.
Ancora, Heine : con la componente libertaria e liberatoria del
suo antischematismo rivolto a far emergere le pulsioni piu
antiche e piu democratiche di quella società; e Hoffmann, con
la coscienza del potenziale di ignoto che si cela, positivamente
anche se problematicamente, al di sotto di una realtà quoti­
diana che, in tal senso, appare disponibile a realizzare assunti
che le regole «filistee» opprimono ma non uccidono .
Se \Y/eber, come abbiamo visto, rappresenta l a «ragion
pratica» beethoveniana a livello popolare , Robert la rappresen­
ta a livello individuale : altrettanto prezioso e positivo . I
momenti oscuri che, nelle opere giovanili per pianoforte dai
titoli emblematici (Papillons, Carnaval, Davidsbiindler, Studi
sinfonici, Kreisleriana, ecc . }, tanto eccitano i cultori della
tematica irrazionalistica e reazionaria dell'oscuro «romantico»
e del fatale porto franco dell'arte a dispetto della vita -
questi momenti oscuri altro non sono che una fase di respon­
sabilizzazione individuale, una carica capace di allusività, ma
mai un indugio compiaciuto sulla stessa . Al contrario , si pon­
gono come segnali che già emergono prima che la regola
formale «filistea» sia stata superata : ecco perché il supera­
mento avviene senza traumi . Non si tratta, cioè, di una disso­
luzione formale, perché la presenza costruttiva, sia pur accom­
pagnata da un sorriso un po' irriverente, del giovane Robert,
può nascere solo da un qualcosa di sotterraneamente, hoffman­
nianamente accomunante ; si tratta della polverizzazione della
forma defunzionalizzata rispetto all'ideologia idealistica, cioè
ridotta a schema .
Ci sembra importante questo concetto : Schumann - sta
pure nell'àmbito idealistico-borghese - è un autentico demo-
122 S TORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

cratico perché, nel suo muoversi, aspetta, dal mondo, un'esatta


rispondenza, perché il divenire del suo pensiero è conformato
alle aspettative di quell 'età che sembrava antifeudale, antioscu­
rantistica e portata a un rapporto, a uno scambio privo di
riserve e di mezzitoni cautelativi. Anche sul piano linguistico,
Robert non fa altro che trarre le conseguenze dal dinamismo
implicito nell'armonia beethoveniana : conseguenze che, prive
della tragicità dello sbigottimento dello stesso Beethoven per
questa possibilità di mutazione ( s'è visto nel cap. 9 ) sin
« troppo» elastica, sembrano ora applicabili al mondo. E se, a
questa applicazione, si frappongono solo gli schemi formali,
ecco che tali schemi possono saltare con estrema facilità; non
solo, ma si rivelano - e, qui, la lezione di Heine e di
Hoffmann è fondamentale - in tutta la loro goffaggine, in
tutta la loro comicità.
Dinamismo ideologico : è qui il limite di Schumann, della
cultura idealistica, specie se vissuta fino in fondo, radicalmen­
te. Cioè : l'illusione che il mondo possa essere cambiato con le
idee, con le danze, con le meravigliose prospettive dei « segua­
ci di David» ; come se, per uccidere il Golia sociale, bastasse
una bella fiondata.
Già nel capitolo precedente, a proposito del breve ricordo
dell'opera Genoveva, abbiamo visto come l'attendere rispon­
denza dal mondo, da parte di Schumann, fallisca. Come il
mantenere implicito un certo discorso affidandone l'esplicita­
zione, appunto, al mondo, e senza insistere, da una prospettiva
diversa (cioè capace di generare godibilità e compiacimento :
«estetica», insomma), sul già acquisito - significhi ritrovarsi
assolutamente soli, e col mondo stesso che si rivela governato
da leggi assolutamente opposte a quelle della creatura « ideo­
logico-morale» Schumann.
Ecco, allora, alcune strane opere scritte intorno agli anni
Quaranta (per esempio, il Quartetto o il Quintetto : entrambi
per archi e pianoforte) che presentano momenti lirici di un'in­
tensità sconcertante, e per i quali la definizione di « pagine
assolutamente romantiche» suona come dileggio invocante un
equilibrio che oggi appare, piu che mai, come àncora di
salvezza inventata dalla nostra cultura contro chi, come Ro­
bert, ne mina le fondamenta. Vogliamo dire che questi mo­
menti sono, invece, il frutto di un assoluto squilibrio. V'è
ormai, nel mondo di Schumann, una vera e propria eccedenza
soggettiva, una carica di energie che non possono piu andare
nel mondo perché il mondo appare sempre piu - ci avvici-
DOPO I L 1 848 123

niamo al 1 848 orientato altrimenti . Questa carica di ener­


gie, allora, ricade, intatta e non consumata se non in una
forma di idealismo estremizzato (cioè reso quasi solipsistico ),
sull'artista. V'è da dire che Schumann, negli ultimi suoi anni ,
ritorna ancora al mondo magico della giovinezza , e presenta
ancora momenti di straordinaria e si gnificante , «davidica»
coesione formale . Per quanto riguarda il primo punto, questo
mondo magico {presente tanto in composizioni cameristhe
tipo Racconti di fate, quanto in grandi composizioni tipo Il
tJellegrinaggio della rosa) è come scheletrito e, in tal senso, è
l'esatta negazione di quello, giovanile, imperniato su un pre­
giudizio di comunicazione ; l'elemento magico non è neanche
un rifugio : esiste solo come dimensione frustrata, tolta via.
Per quanto attiene il secondo punto, si tratta di momenti di
coesione nati dall'antico rapporto fecondo con la cultura.
Tali momenti esistono, ma, semplicemente, non servono piu a
nulla.
Ed ecco, allora, la ricaduta del1e energie sull 'artista, di cui
si parlava : è questa l'unica realtà dell'ultimo Schumann , la sua
denuncia dolorosa e impotente delle contraddizioni di un
mondo ideologizzato in cui incominciano sempre piu chiara­
mente a prevalere le constatazioni della tendenza alla conser­
vazione del mondo «vero» , a una musica che «canti» ma che,
divisa dal resto , non coinvolga. Le energie che ricadono sono,
aopunto , quelle del coinvolgimento. L'imootenza, in tal senso,
di Robert è evidente in uno dei suoi ultimi lavori : in quel
Concerto per violoncello che, appunto, presenta un fraseggio
destinato a voli immani e, subito, reclinato sopra se stesso ,
senza che il prodotto, non deformato, possa testimoniare que­
sto definitivo stacco fra idealismo prima maniera e mentalità
borghese ormai avviata solo alla conservazione di se stessa.
Piu che solitudine, frustrazione . Ma la critica non ha inte­
resse a leggere questa testimonianza di Schumann : sazia dei
suoi «intensi momenti romantici» che hanno il pregio di non
modificare nulla. Eppoi , Robert fini' i suoi giorni in una casa
di cura per malattie mentali : se c'è pure, in lui, qualcosa di
difforme, la causa non è il mondo , ma il suo povero cervello
ammalato !

E appunto con Johannes Brahms ( 1833 - 1 897), prosecutore


di Schumann secondo · la logica linguistica e ·divisa del «ro­
manticismo» visto nell 'accezione di s opra , che la musica cam­
bia completamente di funzione. Da «politica» , diviene «este-
. 124 S TORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

ti ca» : non solo, ma sempre di piu tende a rifugiarsi in questi


nuovi , indisturbabili àmbiti.
Sarà bene sottolineare - a proposito di Brahms in partico­
lare, ma, in genere, di tutti gli altri musicisti - che il nostro
discorso prescinde completamente dal livello del loro talento
considerato all'interno d'una gerarchia autosufficiente, ma
prende in esame il loro ruolo nell'area di un processo di
chiarificazione delle possibilità reali dell'uomo attraverso l'uso
degli strumenti artistici nati nella società borghese, attraverso,
appunto, il divenire di tale uso .
Cosi Brahms, talento musicale fra i piu grandi , c'interessa,
ora, per il ruolo ch'egli rappresenta dopo Schumann: da cui
riceve in gioventu , allievo ideale, talune spinte fondamentali .
Innanzi tutto, la dialettica fra magniloquenza e intimismo
( pensiamo, per esempio, al Primo concerto per pianoforte ) :
dove la prima è totalmente in balla di generosissime pulsioni
provocatorie che sembrano saggiarne l'ampiezza rappresentati­
va; e dove il secondo è un esatto riscontro <<interno» e
consonante nei confronti di un mondo, appunto, rappresenta­
bile ancora senza riserve. Vi è pure, nel giovane autore di
Sonate per pianoforte o del primo dei due Sestetti per archi,
la fede in un gesto impetuoso e plastico che gode d'una
padronanza ideologica di se stesso forte a tal punto da poter
indulgere a un piu esplicito ricordo schumanniano : quello
d'una cantilenante irriverenza tanto generosa, nel suo fideismo
ideologico , da poter fare a meno di tesaurizzare un innato e
formidabile senso della forma.
Poi, mano a mano che Brahms entra nel mondo, gli equili­
bri si spostano. È proprio questo senso della forma che diven­
ta il centro d'un universo che considera l'arte un fatto statico
- o, meglio, dotato d'un dinamismo autonomo -, in nessun
rapporto col mondo . E non ci riferiamo al club di classicisti,
capeggiati da E. Hanslick, che Brahms formò intorno a sé a
Vienna quali propugnatori d'una musica «pura» di contro a
quella «spuria» di Wagner. La musica di Brahms è piena di
mondo : ma solo di ciò che, di tale mondo , è lasciato filtrare
dall'implicita rinunzia al coinvolgimento di esso nel fatto arti­
stico .
Brahms è un autore dalla spiccatissima sensibilità decaden­
tistica : coglie cioè, come poch1 altri , i motivi di sottile ango­
scia per un mondo individuato, piu che nel suo venir meno ,
negli spazi irreversibili ch'esso lascia del singolo non piu
conciliabile . Il compositore, nella sua maturità, approfondisce
DOPO IL 1 848 125

questa pos1z10ne : egli, dopo aver riconosciuto la struttura del


mondo nell'intangibilità delle auree dimensioni classiche e ac­
cademiche, vive intensamente i lembi di cose che, indisturbate,
possono essere di pertinenza dell'individuo. Ma vediamo di
approfondire meglio questa apparente dicotomia dei due carat­
teri fondamentali di Brahms : l'intimismo e l 'accademismo .
Intorno al perno centrale d'un universo indiscutibile,
Brahms può scatenare un drammatismo d'altissimo livello . Le
sue sinfonie e le altre pagine orchestrali ( per esempio , l'Ou­
verture tragica), drammatizzano, appunto, il contrasto dialetti­
co fra coesione, tendenza al centro, e articolazione , tendenza
centrifuga . Quest'ultima, anzi , ha una carica tragica in misura
della coscienza dell 'impossibilità di spezzare il cordone ombeli­
cale col centro. Un gioco esistenziale, dunque, dal drammati­
smo grandioso e sconvolto, epperò contingente dal momento
che l'esito è prefissato : il ritorno al centro, appunto . La
musica, non essendo piu - schumannianamente e beethove­
nianamente - un'avventura capace di coinvolgere il mondo ,
essendo, anzi, non-interferenza nei confronti di esso, non può
piu pensare che all'accumulo e alla distruzione di se stessa,
come «cultura», ormai sempre da scrivere , e da concepire , con
le virgolette .
Brahms è l'erede di Beethoven: deve esserlo perché il
mondo glielo richiede, perché vuole accumulare «cultura»
(ovviamente, in una certa direzione e solo in essa) meno -
diremmo - per rispecchiarsi nei suoi circuiti drammatici
tendenzialmente sempre piu accademici , che per farsi, di essa,
una barriera contro il «diverso» .
E come reagisce, Brahms, a questo? Appunto, col cameri­
smo : che non è piu complementare al sinfonismo, ma una
vera e propria fuga in un campo privato in cui sia possibile
dire cose diverse. Ma sono proprio diverse, le cose che Brahms
dice privatamente? Cioè: è dato uno spazio vitale all'autentici­
tà all'interno di questo mondo ? L'esigenza dell'autenticità , è
innegabile, ma la soluzione è contraddittoria. Vogliamo dire
che un'autenticità che nasca da una rinunzia, non interferente ,
al mondo, finisce sempre con l 'essere consonante col mondo
stesso : perché la rinunzia all'intervento non è guidata dalla
ricerca della verità (ormai dissonante . . . : si stanno formando
per esempio, alla fine dell 'Ottocento , i primi elementi dell'e­
spressionismo; il marxismo sta demistificando la cultura bor­
ghese, ecc.), ma dalla fuga, e senza piu rendiconti esterni e
accademici, dalla verità. Ecco che, allora, le ombre di Brahms,
126 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

ortgmariamente testimoni della sensibilità di cui si parlava,


tendono a disporsi come autentiche, e nuove, decorazioni. La
funzione della musica - e lo si può ripetere ora - è
irreversibilmente mutata ; Brahms, forse, aspira a qualcosa di
diverso : ma, cercandolo nell'individualismo dissociato e diviso,
finisce con l'essere risucchiato dalla tendenza all'accumulo dei
beni culturali, dalla tendenza alla costituzione dell' «estetica»
come zona franca ; e col contribuire a codesta concezione. La
sua « melanconia dell 'impotenza» (cosi Nietzsche) non è solo
diagnosi su un individuo sia our altamente emblematico, ma la
figurazione di una delle gabbie - la piu civile, quindi la piu
inespugnabile - della cultura tardo-borghese, che difende se
stessa e le proprie prerogative di fondo.

Non meno civile , ma certo meno morbida , è la gabbia di


Richard Wagner ( 1 8 13- 1 883 ) : artista omnirappresentativo nel
senso che, se in giovenru aveva aderito agli assunti liberali
rappresentati dal giovane teatro nazionale musicale (pagando
anche di persona , con l'esilio in Svizzera , per le sue idee
politiche ), al momento della sua maturità, che arriva dopo il
'48 , aderisce a una visione del mondo assolutamente diversa.
Anche Wagner è uomo colto e intelligente ; le sue opere
nascono, dal Tannhauser in poi , per puntellare , sviluppare e
approfondire una concezione che nega , sempre oiu recisamen­
te, una disposizione alla quotidianità (per intenderei , alla lotta
«politica » schumanniana) della musica. Fino ad arrivare alla
concezione di un positivo violento la cui genesi è degna di
essere segufta.
Attraverso varie letture (specie di Schopenhauer) , e attra­
verso il ripercorrere certi miti, Wagner arriva di fatto a quella
che i filosofi chiamano escatologia , cioè concezione delle ultime
cause, cioè all'assoluto . Ora , già in Schopenhauer (non lo si
dimentichi : irriducibile avversario di Hegel, del divenire idea­
listico e, soprattutto, delle implicazioni profondamente demo­
cratiche legate ai primi enunciati dell'iclealismo stesso) l'asso­
luto si pone come altro nei confronti del divenire medesimo,
come alternativa di contro al «fastidio» dello scorrere quoti­
diano. È la orima grande esplicitazione del bisogno di eternità
di una borghesia che , di fatto, ha accumulato e vuole conser­
vare . Wagner aderisce a questa concezione, ma le dà anche uno
sviluppo altamente drammatico: se l'assoluto è fisso, è possibi­
le una dialettica fra esso e l'uno . Ouella dell 'uno, quindi sarà
una peripezia , sf, rivolta alla conoscenza, passibile, appunto, di
DOPO IL 1 848 127

alto drammatismo, variegata nella molteplicità dei suoi acci­


denti : ma, anche e soprattutto, come una risoluzione già
prefissata . L'uno può anelare all'assoluto, staccarne - per
cosf dire - dei brani e intmderli nella contingenza : ma sarà
sempre opera vana, destinata, infine, a riconvergere nel tutto,
a sottoporsi alle leggi del tutto . La piu evidente, di queste
leggi, è il tempo : lo scorrere dell'assoluto che si sovrappone,
schiacciandolo, al tempo umano . Brani di assoluto, sono i suoi
eroi ( da Lohengrin a Tristano, da Sigfrido a Parsifal : con
Sigfrido, in particolare, inserito in una ciclicità che dà una
maggiore illusione di potersi appropriare, umanizzandolo, del
tempo del tutto ) : che momentaneamente si staccano dall'asso­
luto, che vivono nella contingenza, ma che, fatalmente, ricon­
fluiscono nel grande alveo nullificante ed esaltante insieme.
È questo l'elemento primo del grande dolore, del pessimi­
smo cosmico wagneriano, che ha tratto in inganno intere
generazioni di umanisti borghesi, e che ha avuto il suo culmi­
ne critico in Thomas Mann.
Perché abbiamo parlato di inganno ? Ma perché la dialettica
wagneriana uno-tutto è nettamente, abilmente viziata in par­
tenza . Se di pessimismo autentico si fosse trattato, le varie
peripezie dell'uno, dell'individuo, sarebbero state il centro di
un discorso che, cosf, non sarebbe apparso tutto teso verso
!'«altro», verso l'assoluto. Invece, la peripezia «dolorosa»
dell'eroe è narrata sub specie aeternitatis, come se tutto pro­
venisse dall'alto, come se tensioni, esaltazioni, tendenze, irrigi­
dimenti, amore, morte, ecc. - fossero :filtrati attraverso un'o­
pera di assolutizzazione che finisce - esatta antitesi delle
origini illuministiche, relativistiche , «a misura d'uomo» , di
quella cultura - col confondere gli àmbiti umani, col dissol­
verne i confini concreti, insomma con lo stagliarli in una
dimensione mistica.
Il linguaggio di Wagner realizza questo tipo di visione del
mondo : la sua armonia si allarga, il suo dinamismo si allenta ;
tutto diventa rappresentativo di quell'eterno, e porta l'umano
a un livello di !abilità, a una vicinanza al punto di rottura che,
però, non si verificherà mai : perché la rottura significa la
negazione, la morte, cioè attributi che non possono sfiorare
l'assoluto che si maschera da quotidiano, ovvero il quotidiano
che si vive in riferimento occulto all'assoluto.
E neanche, poi, tanto occulto. Il wagnerismo, che incarna la
cultura ufficiale finendo con l'esaltare violentemente (appunto
con l'assenza di un negativo capace di mediare quel positivo)
128 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

la situazione presente - è, appunto, il simbolo palese della


trasferibilità del cielo in terra. In quella terra. Il geniale
abbaglio di Nietzsche (che rigettò, dopo un amore folle, Wa­
gner perché traditore degli ideali pagani, perché creatore di
personaggi che portavano in capo troppa cenere dell'aborrito
cristianesimo) testimonia indirettamente la grande rappresenta­
tività del compositore : vale a dire il bisogno - da lui
incarnato - il bisogno di un diverso che si opponesse alla
pericolosità del quotidiano esaltato da Beethoven e dai primi
romantici. Nietzsche vedeva, in questo quotidiano, l'aspetto
dimesso, alla Brahms, ignorando, di fatto, la grandezza della
tematica precedente il '48 ; la maggioranza voleva, ripetiamo,
ipostatizzare il momento presente creandosi miti tragici da
vivere come autosufficienti, come passibili di un dialogo con
l'assoluto in grado, di fatto, ài coprire il mondo. Il quotidiano
diventa degenere; l'idealismo si è dissolto ; il romanticismo
diventa «eterno», e ciò che non è stagliato in confini netti
( l'oscuro, la notte), diviene oggetto di culto. Beethoven sem­
bra davvero appartenere a un altro pianeta : la ricchezza e il
conseguente istinto di conservazione, lo hanno posto - insie­
me a Lutero, a Goethe e a Bach - su un altare, neutralizzan­
done, di fatto, tutte le valenze .

Un altro autore che rappresenta l a crisi del passaggio di


valori dopo il 1 848, è Franz Liszt ( 1 8 1 1 - 1 866). Liszt vive nel
medesimo ambiente colto di Wagner, che anzi protegge e
porta avanti . Non solo, ma l'ombra wagneriana finisce con
l'opprimerlo per via della gerarchia di valori ch'essa crea :
Wagner è un grande mistico, Liszt è un retorico , un genio
disordinato, un principe dei salotti. Tutto questo è vero : però,
può mutare di valore col mutare delle prospettive critiche. La
cultura di Liszt, infatti, staziona nei salotti senza alcuna prete­
sa di elevarli al cielo o di trovarvi l 'assoluto : ma, anzi, con un
cinismo che la magniloquenza del grande gesto musicale non
solo vuole nascondere, ma anzi, alla fine, astutamente esaltare .
Liszt - vogliamo dire - naturalmente non crede piu alle
illusioni del suo coetaneo Schumann : ma ha il grandissimo
pregio di comportarsi conseguentemente ; e di concepire una
musica capace di trasmettere la cultura, di farsi veicolo di
essa. Ovviamente, nel modo piu pesante e privo di brividi, ma
degno di stima per la sua sincerità intellettuale, per il suo
realismo privo di illusioni circa un possibile modo di essere
diverso, di potersi affidare ad altro che a una plateale esibizio-
129

ne. Che Liszt, in tal modo, disattenda e frustri la sua stessa


potenza strutturale (che caratterizza, per esempio, la mirabile
Sonata in si minore), è un fatto ; ma è altrettanto evidente che
il suo gigionismo suona, in fondo, come un atto spregiativo di
quel contesto socio-culturale. Ricalcando, un po ', Paganini ,
Liszt è come il mondo vuole ch 'egli sia : il melange di grande
musica e di gesto esibizionistico nullificante è, in fondo , d'una
sconsolatezza senza limiti. Ma, almeno, non adotta la maschera
con la pretesa di presentare un volto umano .

La musica, ormai, si sta delineando come il fatto culturale


piu emblematico di un assetto sociale che non tollera alterna­
tive, e che si premunisce contro le stesse (che, in effetti, si
stanno già godendo ) prefigurandosi come eterno . Un'eternità,
in ogni caso, che promana da una parzialità rappresentativa
del fenomeno stesso : che, da Brahms e da Wagner in poi, non
è piu a misura d'uomo generico e proteso verso un ideale e
utopistico interclassismo, ma a misura d'uomo dominante,
d'uomo cittadino non piu nel senso rivoluzionario francese, ma
nel senso di inserito in un ingranaggio in cui il riconoscimen­
to, sempre piu difficile, può realizzarsi solo a livello individua­
listico, come sarebbe avvenuto con le avanguardie successive, e
anche, e proprio a Vienna, con la scuola di Freud.
In verità, all'interno del contesto che abbiamo delineato,
una linea alternativa c'è : una linea che possiamo definire
apolitica o «campagnola», e che unisce un compositore di cui
non abbiamo parlato nei capitoli precedenti (Franz Schubert:
1797- 1 828 ) a uno che appartiene alla generazione trattata ora
(Anton Bruckner : 1824-1 896 ) .
Apolitico , intanto, vale nel senso di una non-politicizzazione
secondo il significato or ora ricordato . Schubert parte come
mozartiano e haydniano, cioè come cultore della concezione
della Haus-Musik che, in lui, raggiunge un livello altissimo di
civile, levigata, plastica consapevolezza. Poi, vive la stagione
romantica : ma, in un certo senso, nel negativo. Le sue tensio­
ni drammatiche , cioè, non sono sostenute da «idealità politi­
che» alla Weber o alla Schumann; semmai, le presuppongono .
Sono sostenute - diremmo - come da un fantasma oscuro,
da un timore, negativo appunto, che qualcosa porti via le
stupende figurazioni plastiche cui tale tensione dà luogo . Sia
ben chiaro : non già una concezione irrazionale ; nel caso, un
timore di irrazionalità. Comunque , come risultato, un coinvol­
gimento di tale terrore nelle ragioni dinamiche del discorso,
130 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

che si pone, dopo questa dialettica tanto potente quanto non


saputa, in una splendida posizione affermativa. Infine, nell'ul­
timo anno della breve vita di Schubert, un superamento anche
di questo fantasma : col dinamismo musicale che sembra pren­
dere coscienza di se stesso, dell'autonomia del divenire delle
proprie strutture armoniche, delle semplici e grandiose possibi­
lità solo costruttive insite in quell'armonia che può manovrare
in senso univoco e, ora, pienamente cosciente, la propria,
altissima evoluzione . È l'anno in cui nascono le ultime grandi
«sonate» per pianoforte ( in do minore, in la magg. in si bem.
magg. ), il Quintetto per archi in do magg., la «Grande» Sin­
fonia in do magg. , il Trio op. 1 00, ecc.
In effetti, la vita di Schubert è stata troppo breve, specie
in considerazione del fatto che questo univoco fervore costrut­
tivo si pone soltanto nell'ultimo suo anno. Sta di fatto, che
,questa dimensione a-politica del viennese non è stata studiata
come pur sarebbe stato necessario. Certo, anche se Schubert
fosse riuscito a vivere quanto un uomo normale, non crediamo
proprio che la sua personalità, per quanto grande, avrebbe
potuto modificare il corso della storia o, meglio , il ruolo della
cultura all'interno del sistema borghese. Però, si sarebbe posta
con piu prepotenza la sua alternativa : quella di una musica
che si articola prescindendo dai mezzitoni problematici che
caratterizzano l'uomo inserito fra gli altri uomini, il farsi
struttura da parte di questi mezzitoni. Alternativa - ancora
- che evidenzia la musica come testimonianza non già d'uno
stato passivizzato o passivizzabile ( quello del cammino, sempre
piu frustrato, verso la chiarezza), ma di una chiarezza già data,
e mantenuta solo per costruire un discorso in verticale, pren­
dendo alla lettera, ancora una volta, la libertà de/tèra nuova.
Messaggio dunque, quello di Schubert, che, in ogni caso,
sarebbe necessariamente rimasto inevaso : in ciò, comunque,
evidenziando un'altra contraddizione della cultura borghese
che mostra la possibilità, e insieme la non fruibilità, di certi
rapporti che scaturiscono dallo stesso linguaggio di Schubert :
quelli della «dimensione soave», della gioia, del limpido (cioè
non politicamente tragico ) drammatismo, ecc.
Ci prova dunque, nella generazione successiva, Bruckner.
Non sappiamo bene per quale motivo questo musicis ta, che
pure è piu vecchio di Brahms, sia stato appaiato, dalla musico­
logia italiana, a Mahler (nato nel 1 860), dal quale è separato
da un'èra geologica. In realtà, Bruckner è la vera e propria,
ancorché impossibile, alternativa a Brahms .
DOPO IL 1 848 131

Autore di nove sinfonie, d i messe, di un Te Deum e di


altre (non numerose ) composizioni minori , Bruckner, austriaco
come Schubert, è su posizioni linguistiche wagneriane . Ma, ca­
ratterizzato da una disarmante ingenuità culturale, riesce a
capovolgere tale verbo e a organizzarlo in un senso univoco,
«crescente», narrativo, di preghiera. È la musica che, schuber­
tinanamente appunto, si dispone e si articola secondo sue
proprie leggi, aprendosi a una lunga , dettagliata analisi in cui
ogni singola componente risulta orientata verso il medesimo
fine : la crescita di se stessa, per la costituzine di un edificio
che assecondi Io scopo originario della musica immaginata in
un consorzio umano ideale. In un consorzio molto lontano da
quello degli anni di Bruckner : invischiati. o nel decadentismo
brahmsiano, o nella violenza wagneriana . Le lunghissime com­
posizioni di Bruckner - al pari, anche se con minor fascino,
i.H quelle di Schubert - sono un luminoso esempio di no­
bile inattualità, che anzi, rispetto agli anni di Schubert , è
venuta fuori con un'evidenza schiacciante : cioè la non-cittadi­
nanza, in quel contesto culturale. della componente ingenua,
«contadina», ovviamente priva di un carattere rivendicativo
che faccia leva su componenti extra-artistiche di quella società.

La musica francese di questo stesso periodo. è agitata da


t"'roblemi molto meno gravi : soprattutto per l'assestamento
diverso della borghesia di cui si parlava nel capitolo preceden­
te. Assest::�mento che. innanzi tutto, ribadisce il netto atteg­
giamento imprenditoriale che la musica si era dato, con , in
primo piano, la produzione operistica. In tal senso . a causa
degli scossoni molto meno violenti causati da una borghesia
che ha appreso . sempre di piu , a senarare da sé. negli slanci
rivoluzionari , l'elemento . . . non-borghese ( il proletariato), la
musica ha, anche dal punto di vista ideoloPko , uno spazio
molto minore ; il non-conformismo . come vedremo meglio, si
orienta verso una privacv che si differenzia dall'ufficialità per il
culto esclusivistico di ciò che resta di questo rapporto ormai
assestato : la delicatezza di tratto , la gentilezza . insomma la
«poesia» privata contrapposta aJJa «prosa�) pubblica .
Incominciamo col ricordo dei compositori «ufficiali». dei
grandi operisti . Innanzi tutto , Charles Gounod ( 1 8 1 8- 1 893),
�utore , o me�Iio «riduttore», di un Faust a misura plastica­
mente godibile da parte di tutta la olatea . Ciò che stupisce, in
auesto fortnn::�to comnositore , è la can:1cità di sern nlH1cMe
tutto, di schematizzare le storie piu grandiose e contraddittorie
132 STORIA S OCIALE DELLA MUS ICA

dell'uomo a livello di perfetto e godibile repertorio. Il Faust


non è certo casuale ; e, mentre è crudele e assurdo fare, in
astratto, il raffronto fra Goethe e Gounod, la riducibilità di
quello a questo si impone imperiosamente per prendere atto
del come la cultura borghese assestata legga un episodio della
cultura borghese estremisticamente crucializzato (sia pure, ov­
viamente, in senso goethiano, cioè altissimamente conservato­
re) . Del resto, l 'importanza, nel medesimo contesto , del mito
faustiano visitato da Goethe , è pari alla retoricità e alla
fortuna del Faust di Gounod.
Un altro autore-chiave è George Bizet ( 1 835-1 875). La sua
Carmen ebbe la fortuna di essere posta , dal piu grande ex­
wagneriano deluso (Nietzsche ), come controaltare nei confronti
del compositore tedesco. Nietzsche, cioè, vedeva, in Bizet,
l'incarnazione della paganità mediterranea . della solarità dioni­
siaca, delle pulsioni orgiastiche che un tempo si attendeva dai
cinerei eroi di Wagner. Abbiamo già visto come , oggi, i
termini di questa polemica ideologica-estetica non siano piu
proponibili . E, questo , non già perché la musica di Bizet non
sia solare, plastica, dionisiaca, ecc . : ma perché tali caratteri si
pongono in un contesto assolutamente diverso. Intendiamo
dire che il plasticismo di Bizet non è, in senso nietzscheano,
«anti-borghese» : al contrario, nur serbandosi un circuito ori­
ginale . finisce col confluire nelle aspettative di quel tipo di
pubblico, disponendosi nel «già-sanuto» (o, meglio, nel
«già-atteso» ), e serbandosi una finalità affatto contingente,
cioè condizionata dal tetto prefissato di auel pnrticolare rap­
porto teatrale. E sf che Bizet è, fra gli autori francesi di
questo periodo , il piu ricco. almeno potenzialmente , di spira­
gli. In lui , la dimensione intima ( nresente in altre opere come,
per esempio, I pescatori di perle) è l'altro capo autentico della
dialettica col plasticismo - dici::Jmo cosf - impresariale.
Però, questa dialettica non ha modo di svolgersi : resta, ao­
punto, uno spiraglio. E questo perché - lo ripetiamo - la
musica teatrale francese ha un terminus ad auem ri!:d.do e fisso
in misura della stabilità della classe. o della parte di classe ,
che nel teatro si vuole risoecchiare. Intendiamo dire che non
solo il prodotto francese n �n ha alcuna onssibilità di paragone
con quello tedesco (rappresentativo ddla medesima classe :
però ancora contraddittoria e, anche nelle sue punte piu retri­
ve . ancora condizionata dalle l!t:mdi potenzialità democratiche
dei primi del secolo) , ma che il raffronto non può farsi
neanche coi grandi maestri del realismo letterario del medesimo
DOPO IL ! 848 133

periodo. Anche i n questo caso, v'era il conforto del pubblico ,


v'era una potente organizzazione editoriale che guidava il
fenomeno; però, il fenomeno stesso risultava piu disponibile a
una forma di autonomia derivata da fratture individualistiche
che la letteratura poteva reggere, ma a cui la musica teatrale
era inibita, appunto perché la musica ( anche per un'antica
tradizione tutta francese) era l'ornamento del potere, un'arte
di affermazione e non di discussione. Nessuna censura, per
carità: ma solo la conferma di un ruolo. E il ruolo della
musica teatrale, era quello di celebrare un già esistente : di
rendere leggibili le sue modalità, diverse - ripetiamo - da
quelle tedesche o italiane.
Invero, una forma violentissima di criticismo, in quell'am­
biente, c'è, ed è rappresentata da .Tacques Offenbach ( 1 8 19-
1 880), operettista che mette alla berlina, secondo le antologie,
«vizi e difetti della crassa borghesia». Verissimo, ma è altret­
tanto vero che, per poter essere alternativa , la sua musica deve
assumere fino in fondo il ruolo di espressione becera e volga­
re . C'è, invero, l'opera estrema di Offenbach (I racconti di
Hoffmann ) , che pone, in una lancinante dimensione di lonta­
nanza, un mondo dai rapporti limpidi e puliti : ma, appunto
per questo, un mondo irreale, hoffmanniano nel senso piu
immediato - e, in fondo, piu tranquillo : dato che solo di
«pura fantasia» si tratta ! - del termine.
Eminentemente sinfonica è, invece, la mentalità di César
Franck ( 1 822-1890): un wagneriano che si propone di conci­
liare il verbo armonico del suo maestro ideale, con la sua fede
di tipo (oggi diremmo ) integralistico-cattolica. E l'operazione
•ben gli riesce, dal momento che la somma dei due positivi dà un
positivo dall'intenzionalità raddoppiata ancorché, in termini
algebrici, dal segno tautologico .
Un altro sinfonista, è il longevo Camille de Saint-Saens
( 1 835-1 92 1 ) , anch'egli formidabile fautore della scienza musi­
cale tedesca : che raggiunge un «in sé» per il quale il mondo
potrebbe, indifferentemente, esistere o non esistere . Magari c'è
qualche nota di troppo o qualche accordo rigurgitante che
però, sempre nell'assoluta indifferenza di mondo (si pensi : nel
contesto che abbiamo descritto, Saint-Saens era un «cerebra­
le» ! ) , possono disporsi e gestirsi anche come componente
sensualistica.
Assai diversi, in questo quadro , i casi di Jules Massenet
( 1 842- 1 9 1 2 ; autore, fra l'altro, di un Werther e di una Ma-
134 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

non), di Gabriel Fauré ( 1 845-1924) e persino del minore Er­


nest Chausson ( 1 855- 1 899). Sono autori che hanno, come
tendenza comune, una linea intimistica intesa come fuga dal
mondo , come negligenza e stanchezza dei rapporti <<Ufficiali»
dell'abituale teatro musicale e, anche e soprattutto , come ab­
bandono del mondo alle maggioritarie regole imprenditoriali,
nei confronti delle quali non v'è superamento , ma solo fatali­
stica impossibilità d'intervento. Sono autori degnissimi d'inte­
resse: specie Fauré, che sviluppa un intimismo dalle piegature
variegate e dal discorso acuto e sobrio. Però, resta l'assenza di
qualsiasi possibilità d'interferire : come se la musica fosse solo
una grande possibilità di consolazione. Limite, questo. che di­
scende dalle caratteristiche individuali, ma anche dall'impossi­
bilità, dalla disabitudine a trovare varchi alternativi piu ampi.
Fauré, per esempio, prepara la strada a Debussy, artista, come
vedremo, dall'autonomia ben piu ampia , ma anche condotto
(siamo alla fine del secolo), ai suoi risultati, dalle sperimenta­
zioni ohi radicali dei pittori e dei letterati. Per ora , nella
seconda metà dell'Ottocento, non si può che ribadire quanto
già detto sopra : che la «poesia» privata è l'unico, non inter­
ferente, rifugio contro la «prosa» pubblica, contro una certa
cultura incarnata dall'apparato imprenditoriale. Là dove l'arti­
sta «si rifugia» in un'intimità che , pur deliziosa , procede
sempre piu per sconsolate allusioni, vuoi dire che il suo ruolo
è diminuito , e che, sulla sua testa , c'è una realtà piu grande
che, semplicemente . non concepisce divergenze autentiche, vale
a dire latrici di effettive possibilità alternative.

In apparente continuità , dunque, con un passato, invero,


profondamente diverso, la musica . alla fine dell'Ottocento, si
presenta come un elemento, piu che semplicemente di conser­
vazione, di costituzione del patrimonio culturale come un che
di rappresentativo e, insieme, di autonomo. Autonomo - s'è
visto - nei confronti del quotidiano (da cui, pure, in Germa­
nia, era nata ); e rappresentativo di un accumulo di ricchezze
spirituali che contravvengono allo scopo della loro nascita:
consentire quel riconoscimento immediato in nome anche del
quale la giovane borghesia tedesca aveva strappato all'aristo­
crazia l'uso e la gestione degli strumenti culturali. Non è il
caso di insistere oltre · su questo concetto : ci preme , però ,
ricordare la prova di esso, che sarà svolta dal cap·. 1 3 in poi.
Da questo momento, cioè, ogni tentativo di riconoscimento
dell'artista, avverrà , di fatto, contro il patrimonio culturale
1 35

costituito, e non si potrà svolgere che su un piano sempre piu


individualistico. Questa è la caratteristica, e il limite costitu­
zionale, delle ormai incombenti avanguardie .
1 2 . I GRANDI MOVIMENTI SLAVI

La musica russa, che fino ai primi decenni dell'Ottocento


aveva orbitato intorno a interessi rappresentativi statici , e che
quindi aveva potuto vivere solo sulle importazioni di prodotti
europei - viene coinvolta, durante il Romanticismo, nel con­
traddittorio e problematico circuito dell'ideologia borghese, e
diviene subito uno dei veicoli fondamentali di tale ideologia.
Che , in Russia, si articola nella ben nota questione dell'occi­
dente e dell'oriente, della via dell'arte europea e della via
autonoma, slava.
n primo grande autore che incarna questa problematica
(Michael Glinka : 1 804- 1 857), è ancora di formazione italiana.
Una formazione ch'egli mantiene per quanto concerne la chia­
rezza delle strutture fondamentali, ma che rigetta totalmente,
almeno nelle intenzioni, per quanto concerne i materiali spe­
cifici da svolgere, se non proprio lo spirito di tali materiali.
Nelle sue opere piu importanti ( Una vita per lo zar, Ruslan e
Ludmila ), Glinka si rivela pienamente consapevole dell'esi­
stenza di materiali dotati di un vasto potenziale di ampia
autonomia rappresentativa ; e, semplicemente, porta sulla scena
questa rappresentatività. Si avvede che il teatro, molto piu
della musica strumentale, è, in Russia, il luogo deputato a
questo esercizio di autenticità piu che di esplicita democrazia ;
e accetta l'urto causato dalle abitudini che tale teatro aveva
assunto, col pubblico - aristocratico e anti-popolare : quindi,
con un ben lecito passaggio rozzo, di gusto filo-occidentalistico
- ch'esso aveva privilegiato.
Quando si dice che Glinka porta sulla scena il contadino
russo, non si vuoi certo dire ch 'egli abbia evidenziato il rivolu­
zionario problematicismo del contadino stesso ; no : il fatto
importante, e rivoluzionario, sta nell'aver invertito una ten­
denza, nell'aver proposto la questione in ambienti abituati a
tutt'altro, e nell'aver dimostrato che anche la musica - fin lf,
ripetiamo, esecutrice di interessi aristocratici ( nel senso di non
I GRANDI MOMENTI S LAVI 137

interferenti ) - poteva essere investita di problemi che , inve­


ce, agitavano la giovane borghesia liberale, e che avevano
avuto un campo di discussione e di articolazione solo nella
letteratura e nella pubblicistica politico-ideologica.
È l'esempio di Glinka che permise a Mili Balakirev
( 1 836- 1 9 1 0 ) di concepire la musica come un veicolo di cultura
democratica rivolta alla valorizzazione del patrimonio naziona­
le in alternativa ai contenuti d'importazione occidentale . Bala­
kirev fondò una scuola musicale popolare e una società di
concerti pure popolari : iniziative che fallirono per un'ovvia
mancanza di abitudine, a livello sociale, a un simile tipo di
discorso. Ma, nel 1 86 1 , riusd a unire, intorno a sé, quattro
amici, tutti musicisti dilettanti, coi quali impiantò , sempre nel
senso di una scelta democratico-nazionale, un discorso di
gruppo dall'importanza enorme : e per ciò che tale gruppo
riusciva, finalmente, a rappresentare ( appunto , la fascia di
intellettuali democratici rivolti a chiedere, al fatto artistico,
«contenuti» autentici e autenticamente articolabili : quindi,
popolari ), e per ciò che tale gruppo poteva portare avanti, nel
medesimo senso, giovandosi del ricchissimo, e fin li disatteso,
patrimonio musicale. Gli altri musicisti erano : Caesar Cui
( 1 835- 1 9 1 8 ) , Nicolai Rimski-Kosarkov ( 1 844- 1 908), Alexander
Borodin ( 1 837-1 887 ) e Modest Mussorgski ( 1 839- 1 88 1 ) .
Il «gruppo », come tale, non durò molto : riusd, però, a
porre il problema in termini espliciti, anche se inficiati dal
dilettantismo di quasi tutti . L'unico vero professionista, fu
Rimski-Korsakov : compositore dalla vena colorata e dal gesto
suggestivamente favolistico che, nelle sue sinfonie, nei suoi
concerti, nella sua musica da camera, ma soprattutto nei suoi
poemi (Antar, Sheherazade ) e nelle sue opere (La fanciulla di
Pskov, La fanciulla di neve, Sadko, ecc.), rivela una netta
tendenza a identificare il popolare con l'esotico, col fatato :
insomma, con quanto di piu integrabile, in modo affatto indo­
lore, in àmbiti borghesi occidenta1istici . Vero è che la funzione
di Rimski (maestro , fra l'altro, di Strawinski ) è stata di
un'enorme importanza per quanto concerne la diffusione della
professionalità della musica in Russia, e per la civile tolleranza
sovraintendente a tale professionalità ; sta di fatto , però, che,
nella sua capacità di attutire la forza d'urto del popolare, non
si può vedere altro che una resistenza, molto piu agguerrita
dell'antica concezione aristocratica, alla forza d'urto delle nuo­
ve idee.
Nuove idee che si pongono, in modo irresistibile, ne Il
138 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

principe Igor di Borodin e soprattutto nelle opere, complete e


incomplete, di Mussorgski (Boris Godunov, La fiera di Soro­
cinski, Kovantcina) . C'è questo, nei due compositori, di auten­
ticamente rivoluzionario : che il popolo - col suo linguaggio,
con le sue leggi, con le sue prospettive - è al centro dell'uni­
verso ideologico, è l'elemento-guida, è il catalizzatore dell'a­
zione. Se Borodin articola i suoi materiali in una distesa,
fluente epicità, Mussorgski li drammatizza con un'incombenza
tragica. Il Boris ( tratto da Puskin ) radicalizza la tematica
popolare : è il popolo, cioè, che racconta, che interpreta a sua
misura, il grandioso fatto storico, uniformando a sé tutta la
gamma di eventi che si diramano dall'accadimento centrale. E ,
questo, è u n portare alle estreme conseguenze quel potenziale
- ora assunto nella pienezza della coscienza - di democrazia
slavofila che caratterizzava le «origini» della nuova cultura
russa (Puskin e Glinka ) : potenziale che, appunto, viene scelto,
esplicitato, politicizzato. Non solo, ma è un contribu to allo
sviluppo, contemporaneo a Mussorgski, della medesima tema­
tica, a opera, per esempio, di un Turgheniev o di un Dosto­
jewski.
E anche, come tutti i grandi assunti, lo svelamento di
profondissime contraddizioni. Dicevamo che, in Mussorgski,
l'istanza popolare è autentica, e realizzata appieno. Si dovreb­
be parlare, però, di populismo. Infatti, se mediata da una
presenza intellettuale impegnata, anche a costo di coinvolgi­
menti capziosi, ad articolare anche le sue contraddizioni (ci
riferiamo a Turgheniev e a Dostojewski), questa istanza popo­
lare svela le precise modalità della sua traducibilità in azione
politica, cioè in un'alternativa pienamente realizzabile . E que­
sta traducibilità politica non può non gravitare intorno a, non
può non essere filtrata da, una mediazione intellettuale esaspe­
rata dall'assenza di dialettica intorno alla borghesia russa, da
una mediazione di tipo tendenzialmente nichilistico .
Questo deriva, appunto, dall'assenza di una borghesia « a­
stuta», in grado di assorbire , almeno entro certi limiti, una
dialettica democratica, e, quindi, di impedire la soluzione di
un estremismo nichilistico, sia pur orientato in senso popolare.
Insomma, fra le varie classi della società russa del secolo
scorso, si procede per salti; e questi salti non possono non
favorire la formazione di «ponti» individualistici e , appunto,
sfrenati. Questo è l'unico rapporto della borghesia democratica
russa col popolo : un rapporto che non gode, come per esem­
pio in Germania o in Italia, d�l filtro smorzante, ma anche
I GRANDI MOVIMENTI S LAVI 139

razionalizzante, dell'imprenditoria, della gestione del patrimo­


nio popolare, come abbiamo cercato di dimostrare nei capitoli
precedenti.
E notiamo di passata - andando fuori tema solo apparen­
temente - come Lenin avesse individuato, fra gli ostacoli piu
difficili per la Rivoluzione, proprio questi intellettuali indivi­
dualistici, estremistici, infine a-dialettici.
Non si tratta - in questa sede, ma, forse, in ogni sede -
di stabilire se il nichilismo anarchico fosse giusto o meno; si
tratta, ora, di spiegare, anche attraverso le manifestazioni
musicali, il suo perché, le modalità della sua presenza attraver­
so i consueti elementi storici e attraverso le testimonianze di
personalità come Turgheniev e Dostojewski.
Diremo, allora, che il gesto di Mussorgski non tiene conto
- cosf, proprio in senso populistico - dell'esistenza dell'uni­
co tipo possibile di mediazione borghese. O, meglio : il com­
positore riesce a rivivere le tematiche popolari, a fare, di esse,
un elemento di conduzione e di interpretazione del dramma.
Tutto questo, però, in modo ideologico, non già politico : vale
a dire, senza tener conto delle resistenze della mentalità bor­
ghese. Nella misura in cui il Boris è un'opera perfettamente
conseguenziale, restano scoperte vaste zone inquiete del sog­
getto : zone che non riguardano solo Mussorgski, ma che sono
tipiche dell'atipico sviluppo del borghese russo, anzi - piu
precisamente - del borghese russo democratico, spinto in
avanti.
Le prove di questo - la prova della resistenza della menta­
lità individualistico-borghese - sono offerte dalla produzione
cameristica, «privata», di Borodin e di Mussorgski : una pro­
duzione che non può essere dimenticata in una considerazione
critica globale, ma che, anzi, deve essere messa accanto alle
grandi opere popolari dei due compositori. E, cosf, l'intimità
di Borodin - quale risulta, per esempio, dal Quartetto n. 2
è orientata verso una quieta, amabile ed estatica sensiblerie
)
-

di tipo francese; mentre Mussorgski, che nei Quadri di un e­


sposizione dimostra chiare tendenze a una pittura di tipo
mirabilmente impressionistico (e queste componenti francesi
possono dirla lunga sull'antioccidentalismo dei due: riducibile,
forse, a un antigermanismo ), precipita, in certe impressionanti
liriche, in un pessimismo plumbeo, teso, allucinato. Tipico di
chi è vitale solo fintantoché rimane all 'opposizione .
Emerge dunque, nei due piu grandi compositori democratici
russi, un «io» non assestabile nella concezione popolare, che
140 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

fa da pendant alla disponibilità della tematica popolare non


articolata politicamente ma assunta in un'aspra, specie in Mus­
sorgski, dimensione ideologica. Queste sono le grandi contrad­
dizioni che sarebbero giunte, difficili e frustranti, fino ai diri­
genti della Rivoluzione d'Ottobre.

Per il <<Gruppo dei cinque», il nemico da battere era Piotr


Ilic Ciaikovski ( 1840-1 893 ) , l'incarnazione dell'infiltrazione
della cultura occidentale in Russia, il rappresentante della
cultura borghese maggioritaria.
Ma Ciaikovski non è solo il «cultore del bello» denuncia­
to da Mussorgski, il formalista, lo strangolatore, coi moduli
occidentalistici, della sensibilità popolare russa. Pur non ap­
partenendo all'ala progressista , il compositore palesa, da un
altro versante, le medesime contraddizioni del suo collega-riva­
le.
Innanzi tutto è disponibile, fino allo scandalo, non già per
civetteria o per calcolo, ma per una tremenda insicurezza
esistenziale : è disponibile a un ipersviluppo individualistico
che oscilla fra le lusinghe facili delle belle forme e un nichi­
lismo furibondo che sempre emerge dall'agevole a vasta con­
sumabilità di tali belle forme.
Le lusinghe facili, diventano non piu tali non appena ci si
accorga della continua opera di estremizzazione, di «inutile» e
adialettica tensione, che le stesse «belle forme», ricercate con
scoperta impudicizia, subiscono . Esaminiamo, per esempio, le
due opere ciaikovskiane piu famose : Eugenio Onieghin e La
dama di picche: tratte da Puskin, ma da un Puskin assoluta­
mente ridotto a merce di scambio per educande, con la dimen­
sione ironica del primo lavoro che si riduce a una storia
d'amore, e con la magia splendidamente «giocata» del secondo
che si riduce a banale vizio del gioco ; se esaminiamo anche i
tre balletti (Il lago dei cigni) Lo schiaccianoci e La bella addor­
mentata), ci accorgeremo che la fatuità degli argomenti viene,
appunto, estremizzata, viene esasperata molto piu del necessa­
rio, grazie all'intrusione, accanto alla dimensione «bella», del
suo esatto fantasma. Quasi una paura, un'insicurezza derivata
dal fatto che un qualcosa, sempre, possa essere tolto, negato.
Un'insicurezza esistenziale, un fatto isterico , certo, ma che,
intanto , illuminano un certo tipo di rapporto - il perché
dell'iperindividualizzazione di esso - con le cose, con la
cultura .
E si noti che la riduttività è una caratteristica di Ciaiko-
I GRANDI MOVIMENTI S LAVI 141

vski : non soltanto Puskin, m a anche una forma come la


«sinfonia» viene « adattata» a confessione dell'anima, a diario
personale . Ciò che stupisce, però, è lo stato di contraddittoria
irrequietezza che emerge anche dopo questo processo riduttivo
che, sulla carta, avrebbe dovuto adattare le forme prescelte al
compositore. Ecco, allora, il punto : Ciaikovski si costituisce
un universo piccolo-borghese, pieno di lusinghe e di sfoghi
concepiti in tal senso. Le invettive di Mussorgski, da questo
punto di vista, sono giuste. Però, nei confronti di questo
universo costituito a propria immagine, il musicista mostra le
medesime inquietudini, il medesimo disadattamento.
Da questo disadattamento, nasce un processo che tende a
ribattere continuamente frasi di per sé vuote. Pensiamo, per
esempio, al « tema del fato» ( Quarta sinfonia ), ovvero alla
ciclicità del medesimo disegno ( Quinta sinfonia), ovvero al
« tema della morte» (Sesta sinfonia), ecc. Enunciati cosf, que­
sti momenti sono, ripetiamo, di un'assoluta vuotaggine, e
illustrano alla perfezione il rapporto di Ciaikovski coi salotti
pietroburghesi e moscoviti, il suo squallido epistolario con
Madame von Meck, la sua monomaniaca e terrificante pro­
tettrice, quella per cui la musica aveva l'effetto di un «bic­
chiere di sherry». Diciamo pure che questo aspetto della
personalità di Ciaikovski è tipico di un certo « romanticismo»
borghese russo, o, meglio, della cattiva assimilazione, da parte
della borghesia russa, di certi elementi della cultura occidenta­
le. Ma il dramma vero viene subito dopo : l 'insistenza su
questi concetti insulsi e vuoti, come se si trattasse di concetti
importantissimi, fornisce effettivamente, agli stessi, un'impor­
tanza isterica ed esistenziale di cui incomincia a interessare
non piu l 'oggetto, ma la zona di provenienza. E questa zona di
provenienza è una mancata identificazione con le cose - ora,
quali che esse siano - che abbiamo visto emergere anche dal
contesto, oggettivamente molto piu democratico, di Borodin e
di Mussorgski . Di qui, in Ciaikovski, le allucinazioni di situa­
zioni musicali che, nella misura in cui sembrano plasticamente
possedute, rivelano situazioni di totale lontananza.
È ovvio che questa disponibilità - che nasce dal mancato
adattamento, di un rappresentante tipico della piccola borghe­
sia, a forme e a modi che dovrebbero essergli assolutamente
congeniali - si dimostra, alla fine, rivelatoria di uno stato
caratterizzato da quel potere di accumulo di beni culturali, da
quella tendenza a fare, di essi, una barriera anche sociale
142 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

contro il «diverso», che abbiamo visto tipico della borghesia


piu avanzata: di quella francese e di quella tedesca .
Con questo, non vogliamo certo ridurre Mussorgski e Ciai­
kovski alla generica e qualunquistica matrice del «russismo».
Vogliamo solo ricordare come emerga, da questi due piu
grandi assolutamente antitetici rappresentanti dell'Ottocento
musicale russo, la polivocità di una tendenza a un adattamento
impossibile a causa dell'assenza di mediazione di una classe
che, nel bene o nel male, nel progresso o nella conservazione
- gestisca un patrimonio comune. Anzi, meglio , come emerga
l'assenza di una classe intesa in senso occidentale.

Una vita musicale nazionale si sviluppa anche in Boemia.


Bedrich Smetana ( 1 824-1 884) ne può essere considerato, a
buon diritto, il fondatore, anche se - come vedremo - il
fondatore disatteso. Intanto, per Smetana, una vita musicale
incentrata, come per la scuola nazionale russa, sul patrimonio
popolare, non può prescindere dal coinvolgimento diretto del
popolo stesso. Fonda cosf, avendo anche a soffrire per le
reazioni poliziesche dell'Impero centrale, una scuola nazionale
e un teatro ceko, per il quale scrive le sue opere (La sposa
venduta, Dalibor, Il segreto, ecc . ).
Stilisticamente, Smetana sviluppa le proprie strutture assi­
milando la lezione della musica tedesca ( specie attraverso
Liszt, col quale ebbe buoni contatti); ma si rivela veramente
grande quando separa queste imprescindibili strutture dalla
particolare spiritualità tedesca, sostituendo quest'ultima con
una vera e propria diretti va ideologico-culturale dedotta dal
significato dell'espressione popolare boema. Questa formidabile
determinazione, riesce a informare di sé non solo le opere e i
grandi poemi sinfonici (ricordiamo il ciclo intitolato La mia
patria), ma anche l'espressione cameristica, all'interno della
quale Smetana ricerca un vero e proprio riconoscimento, coi
parametri intimistici, della propria identità di boemo .
Il fatto è, però, che gli ambienti in cui Smetana agiva, non
erano portati, nella loro maggioranza, a una simile ricerca di
identità necessariamente rivoluzionaria; le grandi alternative
nazionali non toccavano la borghesia boema ( si pensi che il
piu grande scrittore di questa terra, Kafka, nato nel 187 4, si
esprime in tedesco ! ) ; o, meglio, l'avrebbero toccata piu tardi,
durante la prima guerra mondiale, e sarebbero state una delle
cause dell'improvvisa polverizzazione dell'Impero . Sta di fatto
che, fra i grandi nazionalismi della borghesia rivoluzionaria
I GRANDI MOVIMENTI S LAVI 143

della metà del secolo, manca ripetiamo : a livello di mag-


gioranza - quello boemo .
Smetana è dunque, nella sua pur grandiosa e autentica
presa di coscienza della realtà popolare-nazionale alternativa,
un solitario ; gli manca, intorno, una borghesia in grado di
fondare i propri slanci, consonanti rispetto a quelli del singolo
artista, su una realtà concreta, se vogliamo anche di tipo
impresariale, cioè rispondente a una produttività economica­
mente autosufficiente e, quindi, in grado di sostenere i moti di
cui sopra si parlava . Di sostenerli e anche, nel caso, di ripro­
durli in trascinante autenticità libertaria .
Sta di fatto, che il «successore» di Smetana - Anton
Dvorak ( 1 841-1904) , non solo neutralizza il maestro, ma
-

ne capovolge la tematica. Tutta la sua musica ( splendidamente


espansa in un sapido e aproblematico plasticismo) è piena di
temi, di spunti popolari : che, però, non hanno piu neanche il
sospetto di significare una realtà diversa rispetto a quella in
cui convergono. Perché la realtà in cui convergono è quella
della musica ufficiale , «centrale» , brahmsiana : con Brahms che
è, in questo contesto, il simbolo di uno stile oggettivo valido
per tutti, destituito di ogni aderenza a una problematica
potenzialmente non convergente e, anzi, tale da assorbire in
sé, come splendido elemento decorativo, l'antico elemento po­
polare ridotto ora, nel senso piu statico del termine, a mero
«folclore» .
1 3 . FRA OTTOCENTO E NOVECENTO :
CRISI E DEGENERAZIONE

Quando si dice che Gusta v Mahler ( 1 860- 1 9 1 1 ) è il primo


musicista moderno, si vuole indicare, ancora una volta, un
mutato atteggiamento nei confronti della materia sonora, e,
precisamente, un'esplicitazione «scandalosa» (si pensi ai con­
dizionamenti del pensiero colto e, a Vienna, della musica :
giunta a livello-Brahms) di ciò che era implicito, vale a dire
integrato.
Uomo di cultura, grande direttore d 'orchestra, audace orga­
nizzatore culturale ( fu lui che, ai vertici dell 'Opera di Stato di
Vienna , incominciò a concepire le regie teatrali come parte
integrante dello spettacolo), Mahler non scrisse molto : raccol­
te di Lieder (su testi, quasi sempre, non euro-colti : popolari ,
cinesi, ecc.) e nove sinfonie e mezza che, esteriormente e
interiormente, distruggono il «concetto» di, appunto, sinfonia.
Esteriormente perché, senza piu tenere conto della classica
ripartizione, si dilatano oltre misura seguendo idee «esterne»
e affidandosi , spesso, alla voce umana; interiormente, perché
Mahler, esplicitando - si diceva - ciò che era implicito ,
nascosto, ne accetta il ruolo assolutamente antitetico nei con­
fronti della cultura tradizionale che, cosf, esce del tutto scon­
volta dalle sue mani.
La grandezza di Mahler sta, appunto, in questa esplicitazio­
ne, in questo dichiarare l'inadattabilità dell'individuo ai para­
metri della cultura tradizionale, nell'individuazione degli spa­
zi vuoti, che ormai sono piu grandi e piu profondi delle
tessere del mosaico ; e nel portare alle estreme conseguenze
tutto questo. Però, sul piano individualistico , esistenziale.
Fra le formule usate dalla critica per spiegare Mahler , ce n'è
una molto fortunata: Mahler , cioè, si è rivolto a un mondo fu­
turo, usando gli strumenti del mondo passato. Una formula,
niente di piu. Infatti, la frasetta esemplare non parla dell'as­
soluta mancanza di alternative che grava su chi si trova in uno
stato di disadattamento nei confronti delle strutture culturali
FRA OTTO E NOVECENTO 145

tradizionali; e non parla, quindi, del conseguente stato di soli­


tudine comportante un lavorio abnorme - appunto, secondo
una dialettica diversa - su tali strutture .
Con Mahler, cioè, si esplicita in pieno un elemento che, da
ora in poi , sarà la guida fondamentale delle nostre pagine :
vale a dire, l'assenza di ricambio per la cultura tradizionale, la
stanchezza di essa rappresentativa della stanchezza del mondo
da cui proviene e, insieme, la non rivendicazione della stessa
da parte delle nuove classi (proletarie) che si affacciano, orga­
nizzate, sulla scena del mondo . Non si verifica, cioè, quanto si
era verificato nell'èra precedente, di Beethoven : l'appropria­
zione , da parte della nuova classe borghese, degli strumenti di
produzione culturale che appartenevano all'antica classe ari­
stocratica. Neanche un tentativo di appropriazione.
E, infatti, il disadattamento solo individuale ed esistenziale
di Mahler, nel momento in cui scopre baratri immani, scon­
volgenti equivalenze di ciò che sembrava antitetico (e, quindi,
utilizzabile dialetticamente) , conseguenti possibilità demonia­
che di ironizzare il sacro - non può fare altro, appunto per
quella solitudine, che cercare di riconfluire disperatamente nel
grembo dell'antica cultura, delle vecchie forme. Ecco, cosf, i
disperati tentativi di ricomporre, e magari alla fine di espe­
rienze le piu distruttive (per esempio, le Sinfonie n. 5 e n. 7 ),
un antico disegno contrappuntistico, di ricucite, secondo le
antiche norme , lembi di un discorso ormai stracciato, ovvero
(come nei grandi movimenti lenti o nell'ultima raccolta liede­
ristica : Il canto della terra) di distendersi, di narrare il dram­
ma secondo un'antica disposizione umanistica.
Ovviamente, questo tipo di ricomposizione non riesce . La
cultura borghese. che si è fondata , nella sua eccezionalità, su
grandi individualità potenzialmente integrabili, non può sot­
trarsi a questa regola neanche nei momenti estremi : e la
grande individualità, potenzialmente latrice di un essenziale
ricambio, viene risucchiata, integrata appunto.
L'arte di Mahler è grande nella misura in cui è negativa : e,
soprattutto , nella misura in cui questa negatività - ben diver­
samente da guanto era accaduto durante l'ultima stagione di
Bee thoven - incomincia a essere una condizione diffusiva ( an­
che in altre discipline, la situa7:ione è analoga : forse, piu
avanzata) per la formazione di indi vidm�.Iità sempre piu nume­
rose, però atom izzate, cioè non in grado di fare massa alterna­
tiva in quanto prive di possibilità «diverse» concrete. In
quest'area di grandi individualità di fatto dissociate - di cui
1 46 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

Mahler è capofila non solo per i diritti che gli derivano dal
rappresentare una disciplina, la musica, piu carica di resistenze
e quindi di astratta e mistificante autosufficienza, ma anche per
la sua autentica forza -, sono pochi gli artisti che credettero
a una reale alternativa comportandosi di conseguenza : Hein­
rich Mann, B. Brecht, K. Weill e H . Eisler ; e tutti, o quasi,
della generazione successiva. Questo , a indicare quanto potente
fosse il risucchio del mondo culturale che riverberava la men­
talità, l'ideologia, e, a monte, i rapporti di produzione della
classe dominante. A tal punto che questo stare a mezzo,
questo denunciare con immensa forza intellettuale e anche
civile - è diventato, nella nostra storia culturale, una vera e
propria categoria.
Da qui, comunque, discende un invito alla lettura (di Mah­
ler e degli altri ) ; che vale come codice di comportamento.
Ancora attratti - cioè - dalle lusinghe di una cultura che, se
è ormai ( oggi) priva di rappresentatività, non per questo ha
cessato di essere strumento di qualcosa - noi dobbiamo
tendere a leggere Mahler ( e proprio lui : il piu analiticamente
plastico, il piu generoso) , non in base alle risultanze del suo
comportamento, risucchiate grazie al processo di cui s 'è detto,
ma in base alla negatività emergente, cioè in base alla vera e
propria denuncia. Una denuncia destinata a non essere raccolta
da un apparato in grado di fronteggiare, con pari forza, quello
antico; e che si porta appresso, anche, le contraddizioni e le
omissioni, forse storicamente fatali, del processo di appropria­
zione tentato dalla nuova cultura organizzata sulle rivendica­
zioni e, soprattutto, sulle reali conquiste dei movimenti operai.
Hugo Wolf ( 1 860- 1 903 ) , viennese , amico e coetaneo di
Mahler, rivela lo stesso tipo di disadattamento esistenziale :
però canalizzato in modi e in forme piu tenui, piu intimizzate
e lasciate vivere in quell'allusività, alla fine ambigua e difficil­
mente afferrabile, che è tipica di tanta produzione , specie
letteraria, del decadentismo. A parte qualche lavoro strumenta­
le (Serenata italiana, Quartetto, Pentesilea) e un'opera (Der
Corregidor) , tutta la produzione di Wolf è affidata al veicolo,
duttile e allusivo quanto ambiguo e nebulizzato, del Lied.
E nel Lied, Wolf articola la sua melanconiosa visione del
mondo ; destinata a non giungere a una chiara determinazione
intellettuale proprio perché del tutto risucchiata dalle leggi di
un'allusività che, alla fin fine, appaga e placa ogni turbamento.
Lo appaga perché, essendo l'origine del disadattamento un
qualcosa di non integrabile nella specificazione della cultura
·FRA OTTO E NOVECENTO 147

tradizionale, la canalizzazione nello sfumato del Lied risulta


un'ideale risoluzione di tale disadattamento. Solo che, in que­
sta soluzione, avvengono delle identificazioni - per dir cosi
- «astute» : soprattutto con un ordine domestico, familiare,
dolcemente abbrunato che, pur avendo origini del tutto scal­
zanti, diviene leggibile in senso piccolo-borghese, con una
supervalutazione restaurante - cioè, di fatto, con una ridu­
zione rispetto al disadattamento iniziale - delle piccole ansie,
dei civilissimi languori che se, in realtà, sforzano il mezzo
espressivo (il Lied ), all'apparenza e in vista dell'integrazione
della voce discorde nell'àmbito globale, vengono, da esso ,
nobilitati e sistemati . Wolf insomma, che è molto di piu ,
diventa un melanconico evocatore ( si pensi alle due sue piu
famose raccolte: Canzoniere italiano e Canzoniere spagnolo ) di
climi mediterranei, solari, cosi familiari, nella loro «lontanan­
za» concettuale e non piu esistenziale, alla cultura classica
tedesca, da Goethe a Mendelssohn.
Nella misura in cui, nei Lieder di Wolf, c'è un aproblemati­
co rispetto per la forma, c'è anche un dolce annichilimento
progressivo dell'inquietudine. Annichilimento negativo , non
già soluzione. Il che, sul piano culturale, è molto nobile, ma,
sul piano dei rapporti, sempre piu incombenti, della cultura
col mondo, molto triste .
'Il terzo musicista di questa generazione , Richard Strauss
( 1864- 1 949), è esattamente il contrario. Compositore modello
di tre Germanie (quella di Bismarck, quella di Weimar e
quella di Hitler), Strauss riesce a integrare, come elemento
rafforzativo, ogni possibile «disturbo» allo scorrere del lin­
guaggio wagneriano assunto come fatto eterno e, quindi, sotto­
lineato nella sua violenza. Il suo grandioso sinfonismo giovani­
le (realizzato nei «poemi sonori» Una vita d'eroe, Cosi parlò
Zarathustra, Don Giovanni, Till Eulenspiegel, ecc.) è, in tal
senso, una vera e propria risposta al negativo di Mahler : una
risposta di cui, oggi, si nota piu la volgarità magniloquente
che la pur indubbia abilità, ma che, allora, apparve come una
«logica» prosecuzione, come la realizzazione di un bisogno
d'eterno sia pur presente a livello grossolano, di rappresentati­
vità macroscopica.
Invero , il mondo maturo di R. Strauss è piu articolato.
Durante l'espressionismo, alcune sue opere (Salame ed Elettra)
parvero collocabili sul versante dell'arte nuova : tanto potenti
erano le pulsioni sotterranee che il compositore era riuscito a
portare alla luce fino a trasformarle in elemento direttivo.
148 S TORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

Senonché, le sue pulsioni, ben lungi dal porsi (come accadeva


per gli espressionisti) a mo' di elemento alternativo e negati­
vo, erano solo il pretesto per l'evocazione di un'ulteriore
violenza estroversa, perfettamente integrabile nella positività di
un edificio artistico esistente solo - anche nella sua ricerca di
nuovi spunti - per accrescere la propria potenza rappresenta­
tiva di uno stato indiscutibile.
Prima degli anni Venti, del resto, lo stesso R. Strauss
provvide a togliere ogni illusione circa il segno della sua arte,
componendo altre opere (Il cavaliere della rosa, Arianna a
Nassa, ecc. ) di segno piu « raffinato» e ancor piu esplicito
nella sua tendenza restauratrice di quel medesimo mondo
inamovibile che ora, addirittura, appare «sfogliabile» .
L a violenza dell'unicità di R . Strauss, del resto, è elemento
assolutamente necessario in quel contesto socio-culturale che
con Mahler, e ormai anche con le avanguardie della Scuola di
Vienna ( Schonberg, Webern e Berg), nonché, ovviamente, con
ogni possibile manifestazione del pensiero artistico e scien­
tifico, appare paurosamente minato . La reazione violenta di R.
Strauss - si noti - appare tanto piu occhiutamente politica
nella sua esplicita opera volta a ipostatizzare il momento
presente, potente e onnirappresentativo (il linguaggio di Wa­
gner, del resto, ha proprio questa funzione postuma) , quanto
meno esplicitamente «politica» era l'azione di Schonberg. Lo
vedremo meglio nel prossimo capitolo; però, sin da ora si può
notare una dissociazione fra la restaurazione umanistica di
Schonberg e la reazione volgarmente - anche se non priva di
sfaccettature rese possibili dall'obiettiva ricchezza di quel lin­
guaggio, di quel mondo - politica di R. Strauss . È il paralle­
lismo di questi due restauratori che decreta la fine della
cultura umanistica : assolutamente incapace di rivolgersi, di
tentare di far capo (anche per colpa dell'interlocutore mancan­
te ) alle nuove classi alternative.

Un altro caso importante di crisi, è quello di Ferruccio


Busoni ( 1 866- 1 924), italiano di nome e di nascita, ma tedesco
per concezione e per gusto musicali. Il suo stato artistico­
anagrafico ambiguo, si riflette - non in modo meccanico, è
ovvio - sul carattere della sua arte : eternamente inappagata
a onta della molteplicità dei suoi aspetti.
Busoni è il classico «pezzo di cultura», il «museo vivente»
( secondo le espressioni di T. Mann ). Intellettualmente, è di
un'ambizione senza limiti. Nelle sue opere (La sposa sorteggia-
FRA OTTO E NOVECENTO 149

ta, Arlecchino, Turandot, Dottor Faustus), egli cerca un dialo­


go con le piu alte realizzazioni della cultura classica ( da
Hoffmann a Goethe ); pianista grandissimo in un'epoca che
vede il ritorno del virtuosismo metafisica, elabora il «concet­
to» del concettismo di bravura imperniato sull'elaborazione di
materiali scaturenti dalla piu alta concezione armonica tradi­
zionale, ch'egli ripropone o in partiture «astratte» (una per
tutte : la Fantasia contrappuntistica, da Bach), o in elaborati
(per esempio, il Concerto per pianof. e coro ) aperti persino a
movenze popolari . E cosi via fino a coprire, in pratica, tutta la
gamma delle possibilità compositive : dal liederismo al quartet­
to per archi.
All'apparenza, dunque, un rapporto positivo, pressoché ine­
sauribile, col mondo della classicità; eppure, Busoni viene
considerato uno dei piu tipici rappresentanti della grande crisi
musicale, anzi culturale, a cavallo fra i due secoli.
'Il perché di questa giustissima cifra critica, sta nel partico­
lare approccio (un approccio alla lettera) del compositore con
la classicità. Egli, cioè, la fa rivivere integralmente nella pro­
pria testa, assume su di sé la duplicità di «io» e di mondo. Si
verifica, cosi, un paradosso abnorme : quel mondo classico,
quel mondo che viveva - spinozianamente, si potrebbe dire
- nell'estensione, viene ora preso - ripetiamo : alla lettera
- e trasferito nel cervello di un individuo. E, quel che piu
conta, ne esce con la fisionomia intatta. Ma, anche, col ruolo
stravolto, cosi come sono stravolti non già le sue leggi, ma i
termini finali di tali leggi.
Il mondo della classicità, nel momento in cui si presta a
essere vissuto in questo modo ( e tale suo «restauro» è, manco
a dirlo, profondamente diverso da quello di R. Strauss : fonda­
to sul ruolo di cementazione politico-regressiva della cultura ),
rivela la sua capacità di generare creature «faustiane», ch'esso,
però, manovra con astuzia diabolica. Se è vero, infatti, che
Busoni è un tipico uomo-crisi, è altrettanto vero che la duttili­
tà del mondo umanistico-borghese appare in tutta la sua
capacità di superare tale crisi nel senso piu regressivo immagi­
nabile. Busoni infatti, in quest'opera gigantesca di assunzione,
non sviluppa, e a maggior ragione non trasmette, la causa
prima di essa : cioè, una crisi da lui pur profondamente
avvertita. Sviluppa e trasmette, invece , proprio quel mondo :
intatto.
È, il suo, un umanesimo - per cosi dire - al quadrato, di
difficile percezione e di ancor piu difficile articolazione critica.
150 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

Ma, appunto per questa profondissima elaborazione, il suo


caso può essere inquadrato - e, nell'economia della cultura
classica, di fatto lo è - come un'estrema, grandissima possibi­
lità dell 'umanesimo stesso quale si incomincia chiaramente a
leggere (e non solo nei casi plateali di uno Strauss o di un
Pfitzner ) nella sua funzione di scoperto sostegno al mondo
borghese.

Nel cap. 1 0 , a proposito di Verdi, abbiamo parlato della


crisi italiana post-unitaria, e dei riverberi ch'essa ebbe anche
sul grande melodrammaturgo. Riberberi, però, mai letti come
tali dal grande pubblico : che, anzi, ha tutto l'interesse a non
capire che cosa ne sia stato della grande epica romantica.
L' « ltalietta» post-unitaria è ammalata perché si porta ap­
presso gli squilibri del suo concepimento e della sua nascita;
da questi squilibri - che concernono la distribuzione delle
forze produttive e, quindi, lo sviluppo di una cultura adeguata
e non in balia del riemergere delle intatte caratteristiche
preunitarie - nasce una forma di gretto individualismo fata­
listico e conservativo che se, da una parte, genera grandi
individualità staccate ( Svevo, Pirandello e, piu tardi, Malipie­
ro), dall'altra parte conserva un qualche interesse storico solo
, come preparazione, e spiegazione, di questa arretratezza ogget­
tivata in categoria : cioè, del fascismo.
Giacomo Puccini ( 1 85 8- 1 924), sembra contraddire questo
quadro storico cupo : ma solo all'apparenza. Che la sua indivi­
dualità sia rilevantissima, è del tutto fuor di dubbio : ma è lo
sviluppo di essa, ciò che conferma il quadro storico di cui ci
stiamo occupando.
Puccini è una creatura tendenzialmente eslege e apropriati­
va : la sua cultura è improvvisata, ancorché ricchissima di colpi
d'ala; la sua formazione è composita, ancorché non condiziona­
ta dall'ombra , grandissima e incombente, di Verdi.
Puccini - è stato detto fino alla codificazione - si appro­
pria e gestisce intensivamente l'individualismo piccolo-borghe­
se. In opere come Bohème, M. Butterfly, La fanciulla del
West, riesce ad articolare, molto piu che nella prepotente e
passionaria Tosca, le minuzie di questa piccola quotidianità,
evincendo da essa la direttiva rettilinea e a volte anche esclu­
sivamente intensa, di un «sentimento» intellettualmente - e,
anche, civilmente - statico, ma confortato dall'impulso gene­
ratore di continue scoperte.
La piu recente critica pucciniana tende a valorizzare in
FRA OTTO E NOVECENTO 151

esclusiva questo «sentimento» : facendone un consapevole e­


lemento alternativo - serbato, quindi , come in una teca il cui
rapporto con la vita è quanto meno degno di essere sottolinea­
to - a quella quotidianità nei confronti della quale, cosf, il
musicista toscano ha, almeno, un rapporto diveniente e ambi­
guo . E, questo , fino a fare , di tale «sentimento», un vero e
proprio spiraglio esistenziale della piccola borghesia italiana;
fino a presentarlo, richiamandosi specie a un Pascoli, come una
vera e propria categoria nazionale . Il che è, francamente ,
un'esagerazione. Non certo per quel che concerne l'autenticità
di tale «sentimento», ma per quel che concerne la sua avven­
turosità nel mondo, la sua capacità di farsi, appunto, categoria
attiva non in senso diretto, idealistico, ma in un piu sottile
senso esistenziale.
In realtà, Puccini vive astutamente, e anche genialmente,
queste possibilità «sentimentali» quali risultano da un arresto
totale - forse unico, per quel che concerne l'Europa - della
borghesia italiana, da un suo ridursi a passiva, fatalistica ed
egoistica spettatrice di possibilità connesse a una contempla­
zione di se stessa come corpo morto, da cui emergono possibi­
lità facilmente spacciabili, ancora, per comuni (il «sentimen­
to»).
Due considerazioni comprovano il ruolo di questa compo­
nente pucciniana. Innanzi tutto, l 'assenza di una qualsiasi
possibilità di proposta come che sia diveniente anche in senso
negativo, come, per esempio, dimostrano il protervo e sempre
piu chiuso comportamento di Verdi, la germanizzazione di
Busoni e la già ricordata presenza di grandi individualità che,
per comunicare autenticamente , non possono far altro che
proporre un negativo impopolare (una grande individualità
germanica, per esempio T. Mann, poteva avere una qualche
consonanza col suo quotidiano) . Eppoi , lo stesso Puccini nelle
sue opere culturalmente piu evolute (Trittico , Turando!) . Sono
opere (e specie, a nostro avviso, il Tabarro ) che accolgono
taluni motivi di drammatismo piu dilatato e piu rappresentati­
vo di un certo stato della cultura europea. Opere , però, che
sono sempre ordinate in una leggibilità gerarchica al vertice
della quale c'è sempre il medesimo «sentimento». Del resto,
gioca anche il ruolo che l'Italia ha agli occhi degli Europei : il
ruolo - scandalosamente ammanierato e, anche, un po' razzi­
sta : ma, quel ch'è peggio , accettato con irresponsabile cini­
smo dagli Italiani stessi - di terra del canto, della passione,
dell'amore, ecc. Schonberg , per esempio, tes timonia la sua
152 S TORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

ammirazione per la Tasca. Che questo tipo di considerazione


sia il frutto di una divisione dei ruoli inconcepibile e oscuran ­
tistica, è un fatto ; ma che gli artisti italiani lo abbiano, di
fatto, accettato acriticamente e grettamente ; e che le nostre
strutture impresariali - discendenti da quelle della borghesia
liberale dell'Ottocento - lo abbiano sfruttato intensivamente,
è un altro fatto, emblematico e fuorviante. Perché la nostra
cultura, che pure presenta sintomi chiari di gretto egoismo
riversati in una comunitarietà « sentimentale» reazionaria
proprio in quanto disponibile a tutto , è anche - e lo dimo­
stra in quegli anni e negli anni successivi al fascismo - una
cultura delle grandi individualità contrapposte, in antitesi dram­
matica e impoetica, al mondo. È la cultura di Galilei, di
Bruno, di De Sanctis, di Settembrini, di Svevo, di Malipiero,
ecc. La diagnosi successiva - che non riguarda l'argomento
specifico di questo scritto - dovrebbe mettere in evidenza il
perché della non avvenuta leggibilità, anche a opera di molti
storici italiani, di questa componente.
Col verismo , a cui Puccini partecipa in una certa misura, la
borghesia si illude di avere scoperto il quotidiano. Ma è un
quotidiano adialettico, bassamente naturalistico (e con tutte le
.differenze che separano il naturalismo dal realismo) : non il
momento di partenza per un'indagine su certe contraddizioni,
ma un approdo aproblematico da articolare in una disponibili­
tà che, nella misura in cui instaura il «regno dell'arte» su]
quotidiano stesso, sottrae quest'ultimo a ogni azione di riven­
dicazione civile o, anche solo, intellettuale.
È l'epoca del fascismo , dei Mascagni ( 1 863-1945), dei Leon­
cavallo ( 1 858- 1 9 1 9), dei Giordano , Cilea, ecc. Se questi autori
( escluso , ovviamente, Leoncavallo ) fossero , personalmente, fa­
scisti, è cosa che proprio non ci interessa. Il fascismo è una
categoria; è, nel senso che si diceva sopra, una mancanza di
intervento, di rivendicazione problematica sul quotidiano reso
disponibile grazie all'azione « antica» del melodramma. Man­
canza di rivendicazione, si diceva, anche intellettuale : come
dimostra l'insipienza culturale, e anche meramente tecnica, di
quasi tutti i veristi. Un'insipienza spacciata - anche nel senso
sopra ricordato - per «piglio naturale». In realtà, un'enne­
sima dimostrazione della non interferenza dell'artista nelle
questioni della vita ; o, meglio , una celebrazione del momento
presente : con quella ottusa e greve in rapporto all'ottusità e
alla grevità di questo.
FRA OTTO E NOVECENTO 153

Con Leos Janacek ( 1 854- 1 92 8 ), si pone una forma di na­


zionalismo moderno che, impossibilitato a svilupparsi in canali
ormai esauriti (quelli di tipo risorgimentale : che abbiamo
visto, nel capitolo scorso, mancanti in Boemia), oscilla fra
esacerbate istanze soggettive e un tipo di liberazione nuova,
fondata su una presa di coscienza che ha piu d'un elemento
marxista.
Janacek assiste, in vecchiaia, alla spaccatura, anzi alla polve­
rizzazione, dell'Impero centrale, e si può dire che tutta la sua
attività, eccezionalmente grande negli ultimi anni (con lavori,
per esempio, come la Sinfonietta, la Messa glagolitica o il
Quartetto n. 2), ruoti intorno a questo evento storico : evi­
denziando, come conseguenza di esso, lo stato libero, epperò
come sguarnito, in cui si trova il suddito «periferico» , cioè
non di lingua tedesca .
Nelle sue opere (] enufa, Katia Kabanova, Da una casa di
morti, ecc.), si libera un'umanità carica di autonomia potenzia­
le, però - ripetiamo - come a totale disposizione di even­
tualità incontrollabili. L'antico, ottocentesco nazionalismo, è
ben presente : ma come corroso da una critica novecentesca,
capace di minarne le fondamenta con ragguagli esistenziali
raggelanti. V'è, della civiltà del nostro secolo, la coscienza di
una forma di alienazione metropolitana, della forza straniante
di elementi scivolosi, notturni, irriconoscibili ( si pensi alla
Sinfonietta); e questi elementi, quando non portano a un 'iro­
nia sfatta e rimpicciolente (si pensi all'opera Il viaggio del
signor Broucek), rendendo problematica e lontana la pur pre­
sente consapevolezza della grandiosità rappresentativa del, to­
talmente ora autonomo , linguaggio nazionale ( Messa glagoliti­
ca), o complicano l'intimità raggiunta per mezzo di esso
( Quartetto n. 2).
Questa enorme carica conflittuale, che trova un linguaggio
relativamente docile perché privo di legami con una Mitteleu­
ropa che di fatto non c'è piu , Janacek sembra risolverla
politicamente . Nel senso che ha le idee chiare e lucide sui
destini futuri dell'Europa, e nel senso - piu specifico - che
guarda con simpatia carica di consapevolezza storica alla Rivo­
luzione d'Ottobre. Di qui la vivacità intellettuale del composi­
tore, il suo svolgere una tematica che mai, neanche per un
attimo, si acquieta in una contemplazione di se stessa che pure
certi ambienti - e soprattutto una certa disponibilità di
materiali «liberati» dalla dissoluzione del vecchio Impero -
avrebbero naturalmente favorito .
154 S TORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

Però, se da una parte Janacek è positivo nel suo rapporto


esclusivistico ( esclusivistico a tal punto da aver al musicista
tolto una capacità interlocutoria paritetica, che pure la sua
statura obiettiva avrebbe ben meritato, nei confronti degli
altri maestri a cavallo fra i due secoli) con una certa ideologia
socio-politica contemporanea, se, con questo apparato cultura­
le, egli riesce a dar corpo a un «nazionalismo» aggiornato e
consapevole di se stesso - dall'altra parte, ripetiamo, v'è il
condizionamento della realtà presente che la sua struttura
politico-culturale gli consente di vedere lucidamente e con
estrema esattezza : quello - ripetiamo - dell'alienante condi­
zione metropolitana, dell 'emergere, dal selciato delle strade
cittadine, dei vermi sotterranei, o anche di uomini «comica­
mente» atteggiati a vermi, che fanno parte del patrimonio
diagnostico della civiltà boema, e che emergono dalle pagine di
Kafka e anche di Hasek. C'è perciò, in Janacek, uno stato
conflittuale, fra positivo e negativo, che ci impedisce di «cata­
logare» il grande compositore boemo e che, anzi, lo ingabbia
nelle contraddizioni non delle « due» culture (come, per esem­
pio, Mahler), ma di due aspetti complementari, e per questo
laceranti, di una cultura novecentesca posseduta e articolata
con grandiosa pienezza.

Nella Russia prerivoluzionaria, l'aspetto culturale piu rile­


vante è quello delle avanguardie rappresentate, soprattutto ma
non in esclusiva, da poeti come Blok, Esenin, Pasternak,
Majakovski, ecc. Queste avanguardie, che recidono la tematica
ottocentesca russa a suo tempo già ricordata, sono tuttavia una
conseguenza dell'esasperato individualismo legato al vuoto bor­
ghese di cui si diceva nel capitolo precedente. Assolutamente
privi di illusioni modificanti o, quanto meno, articolabili in
prospettiva, questi artisti pongono un'immediatezza bruciante :
ciò che si fa, si individua, si pone, è valido solo in quanto
immediatamente consumabile senza alcun ricordo dialettico di
esso . Non v'è irrazionalismo, ma, piuttosto, un secco e a-reto­
rico (in quanto non testimoniato in analisi ) pessimismo che
deriva dallo scarsissimo margine di utilizzabilità di una cultura
borghese che continua a presentarsi come assolutamente priva
di alternative e tale da generare solo prospettive desertiche,
autodivorantesi (è stato già ricordato come Lenin vedesse, in
questa estrema ed emblematica incarnazione del nichilismo,
uno degli avversari piu pericolosi del comunismo).
Di questo ambiente fa parte anche Alexander Scriabin
FRA OTTO E NOVECENTO 155

( 1 872- 1 9 1 5 ). Musicalmente, e m minoranza, nel senso che i


compositori prerivoluzionari sono per lo piu orientati - come
dimostra il suo coetaneo Sergei Rachmaninov ( 1 87 3 194 3) -
-

verso un piatto, ancorché episodicamente «ancora» interessan­


te, ciaikovskismo.
Le origini stilistiche di Scriabin sono eurocolte ; le sue
prime esperienze, soprattutto pianistiche , mostrano evidenti
legami col romanticismo tedesco e con Chopin . Poi , a poco a
poco, le sue strutture si assottigliano, il suo discorso si fa oiu
breve , e caratterizzato da un intimi smo drammatico (ci rife­
riamo alle sue sonate per pianoforte dal numero cinaue, e ai
suoi piccoli «poemi» , sempre per il medesimo strumento, dai
titoli emblematici : Poema alato, satanico, Vers la flamme, ecc.)
che non è piu un corrispettivo dialettico del mondo esterno,
bensf un unicum onnivoro , semore oiu schiacci�nte. che vive
le sue ragioni strutturali al solo fine di consumarle, che nega ,
insomma, i fondamenti dell'armonia romantica : la quale , nel
momento in cui poneva, prospettava oltre. La concezione
armonica di Scriabin, è rovesciata : non solo non progetta
oltre, ma pone per distruggere. Molto raramente, il composito­
re può espandere questa sua concezione in un sinfonismo che
sia portato a tradurre tale concezione in una ben piu imponen­
te opera di scalzamento : là dove invece , come nel Prometeo,
l'operazione gli riesce, noi assistiamo a uno sbalorditivo accar­
tocciarsi dell'armonia su se stessa, a un'autosufficienza del
timbro , nei confronti del legame con la totalità della struttura,
che porta il linguaggio scriabiniano a un livello di dissoluzio­
ne straordinariamente vicina a quella che, negli stessi anni,
stava raggiungendo Schonberg.
Con la differenza che Scriabin, morto alla vigilia della
Rivoluzione d'Ottobre, non ha assolutamente prospettive di
ricostruzione. Egli vive e percorre , con lucidità assoluta, la
strada che porta alla morte dell'arte intesa, nel senso borghe­
se-colto, come testimonianza costruttiva e . da Brahms in poi
( s 'è visto), ambiguamente alternativa . E in questo, come
rappresentante della cultura russa, Scriabin è di una coerenza
indicibile . La sua tendenza a raggiungere il cuore delle cose
senza la mediazione deviante della cultura borghese, evidenzia
la mancanza di alternative, borghesi appunto , che avrebbe
avuto come esito finale la Rivoluzione ovvero, in un senso
estremistico-anarchico molto piu definitivo e preoccupa nte , un
cupio dissolvi realizzato proprio nel cuore delle cose : nella
testimonianza che viene meno.
1 56 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

Se Scriabin muore alla vigilia della Rivoluzione, Igor Stra­


winski ( 1 882- 1 97 1 ) non la vive affatto, palesando subito,
anche come esasperazione attiva della lezione del suo maestro
Rimski, una tendenza europea, internazionalistica, che può
interessare anche come negazione di un residuo di vincolo
nazionale equivalente a una sorta di impegno di tipo vagamen­
te, ancora, idealistico, proteso a realizzare, con la musica, un
rapporto dialetticamente positivo.
Strawinski, infatti, brucia ogni possibile dialettica : ma non
nel senso russo-scriabiniano, bensl in quello che contempla un
pronto riscontro «estetico» a quest'opera di polverizzazione .
Si noti : l' «estetico» di Strawinski non è godibile secondo
canoni antichi ; semmai, se lascia intravvedere una possibilità
in tal senso, lo fa in modo assolutamente congruente col suo
assunto primo: che è quello di un cinismo che nega in favore
di una sconvolgente consumabilità. È noto che Adorno, con­
trapponendo il «regressivo» Strawinski al «progressista»
Schonberg, ha voluto sottolineare, del primo, appunto questa
tendenza alla consumabilità che dovrebbe corrispondere a]
gestualismo d'una borghesia che, nel momento in cui dissacra
formalmente, neutralizza effetti ben piu acuti e problematici
della presenza artistica . Talché, la stessa dissacrazione è sole
l'effetto d'una effettiva impotenza .
Oggi, il binomio Strawinski-Schonberg non ha piu ragione
di esis tere. Schonberg, lo vedremo nel prossimo capitolo, è
,soprattutto un umanista restauratore ; e Strawinski mostra la
co rda proprio come grande virtuoso del «gioco» compositivo
che si esaurisce in se stesso senza volersi drammatizzare in
senso piu ampio.
Abbiamo collocato Strawinski in questo capitolo della no­
stra storia della musica - anche a costo di sfalsare un po' la
cronologia - perché, a conti fatti, la collocazione del musici­
sta tocca pur sempre un àmbito russo, o, piu precisamente, ciò
che resta, grazie proprio a lui , di tale àmbito.
La sua storia è esemplare . Dopo un breve indugio ciaikov­
skiano (Sinfonia in mi bemolle) e rimskiano ma già autonomo
(L'Uccello di fuoco ), nel momento in cui la crisi di Vienna
sembra sciogliere l'uomo dal vincolo univoco ottocentesco , egli
pone , soprattutto con La sagra della primavera ( 1 9 1 3 ) , uno
squassante tellurismo anarchico al termine del quale l'uomo si
ritrova col nulla determinato da questa sua esplosione : cioè,
con una maneggiabilità totale dei materiali il cui «disordine
rivoluzionario» ha questo, di caratteristico : che lascia le cose
FRA OTTO E NOVECENTO 157

esattamente come stavano. In séguito, il compositore cerca di


ricostruire Ja disponibilità dei materiali : è l'epoca del neoclas­
sicismo degli anni Venti e degli ambienti parigini. Il risultato
dà, ancora , una materia docile a essere giocata con la prova
del nove : cioè, con una dissociazione ironica dai riverberi
contrari all'enunciato classicistico ( ricostruttivo ) , ma, anche,
leggibili - ::�.dornianamente - come disimpegno esistenziale a
uso del divertissement a cui, di fatto, la borghesia ha ridotto
l'arte . Strawinski , cioè, è piu avanzato della media, borghese
appunto, perché è piu acuto e conseguenziale diagnosta . Egli
batte tutte le strade : le grandi esperienze religiose, il ripristi­
no di un'oggettività ciaikovskiana, il teatro moralistico ovvia­
mente «riprodotto » (La carriera del libertino) , ecc. I suoi
ultimi esiti ( per esempio, l'Elepia per .J F. Kennedy) sono
profondamente rivelatori dell'effetto esistenziale della totale
disponibilità delia materia: la ricerca impossibilie di un rap­
porto radicato alla terra, e il reperto costituito da un filone
del tutto prosciugato. .
Sia mo ai limiti del oatetismo. La ricerca , da parte di Stra­
winski , di un legame, la sua reazione, nella giovinezza, realiz­
zata con l'esibizione. riccamente e «genialmente» materica,
delle conseguenze dell'assenza di tale legame (la sua disinvol­
tura , letta anche come cinismo ), il suo vagare da uno stile a
un altro (e persino con una puntata nelh serialità ), la facilità
di questo vagare, indice di una disponibilità della musica , e
quindi della mancanza di un legame formativo - tutto que­
sto, avvicina Strawinski, molto piu di quanto non si credesse
fino a poco tempo fa, alle sue oriv.ini russe, all'opera di
ndlificazione che aveva avuto , in Scriabin, il grande campione
negativo . Che l'obiettiva grandezza musicale di Strawinski
abbia imoedito, fino a ora . una diagnosi del genere , è un fatto
comorensibile , anche se indicativo di una diffusa mentalità
reazionaria, o, almeno , non consaoevole . Arrivare a determina­
re, però, le oriP-ini e i perché del compositore, ci sembra piu
imcortante dell'indubbio piacere che può dare la sua musica.

In Francia. i musicisti di questo periodo si dissociano espli­


citamente dal romanticismo rappresentato da Franck ; né è da
meravigliarsi, dal momento che - come si è visto in orece­
denza - il romanticismo musicale aveva avuto uno sviluppo
molto piu fastidiosamente ufficiale e P-rettamente perbenistico
che in Germania, e nelle stesse Russia e Italia. Ancora una
volta, si cercano spiragli nei pertugi di un positivo col quale
158 S TORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

'l'identificazione dialettica (del genere di quella che i «nuovi»


musicisti tedeschi avevano, in partenza, con Wagner) , è im­
possibile. È in essi, che la borghesia ritrova la parte piu viva e
piu riconoscibile di se stessa : in essi, che postulano - pur
senza esplicitamente compierla - una frattura di tale positivo
ufficiale. Ed è talmente abituata, la borghesia francese, a
vivere di spiragli, che anche questa volta riesce a farsi subito
grandissima con essi.
Senza voler proporre parallelismi pericolosi perché troppo
facili, ricorderemo, tuttavia, che è uno spiraglio la frattura,
solo postulata, della rappresentatività ancora classicistica, la
grande stagione dell'impressionismo pittorico ; cosi come è uno
spiraglio - anche se esistenzialmente ancora piu arduo e
vericistico - la ricerca di essenzialità nel tempo diverso di un
Proust : tempo diverso che scorre accanto a quello normale,
senza modificarlo e, anzi, sfruttandone la positività per ravvi­
vare il soffuso drammatismo del suo scorrere clandestino,
recepibile, appunto, in una situazione schiacciata e distorta.
Cosf, la musica privilegia l'intimismo che abbiamo visto in
Fauré e in Massenet. Anzi, ora lo esalta e cerca di fare, di
esso, un filtro riduttore, in nome d'una possibile appropriazio­
ne, del mondo. Il grande protagonista di questo momento, è
Claude Debussy ( 1 862- 1 9 1 8 ) . Per lui, dunque, l'intimismo è
una ricerca di autonomia al di fuori dell'aborrita «totalità» di
tipo romantico-tedesco . Intimismo, si noti : non quotidianità,
anche se i rapporti con quest'ultima rimangono non chiariti,
eQUlVOCl.
-
La « totalità» romantica, probabilmente, «spiega» la natu­
ra ; di certo, non la vive, o non la vive piu . Per rendere chiaro
a se stesso quanto sia lontana questa totalità, Debussy deve
assumere piena coscienza dell'inattualità di Wagner, deve ren­
dersi conto del fatto che è Wagner il nemico da battere.
L'«altro», rispetto alla totalità, deve essere duttile. a misura
d'uomo, transeunte. Ed è, appunto, l'impressione, la capacità
di fissare qualcosa di istantaneo e di vivo : che, però, Debussy
si rassegna a cercare , e a trovare, nelle pieghe di un contesto
sociale che non gli interessa.
La grandezza del compositore è nella quantità e nella con­
gruenza logica (che, appunto, «fa» linguaggio) della sfaccetta­
tura impressionistica ; non solo l'orchestra ( La Mer, Prélude à
l'après-midi d'un faune, Images, ecc.) , ma anche il pianoforte
(Préludes, Images, Estampes, ecc.) si aprono a una realtà che,
nella dimensione inedita in cui viene colta, dovrebbe prorom-
FRA OTTO E NOVECENTO 159

pere in tutta la sua ricchezza. «Dovrebbe», perché, invero,


essa si pone con un carattere languido , esausto, quasi rassegna­
to, di un mediterraneismo vissuto tutto di testa.
V'è da dire che, evidentemente , questa nuova contingenza
non basta. A onta della novità d'atteggiamento ch'essa pre­
suppone, e della novità di materiali ch'essa comporta, tale
contingenza non può essere rigenerativa, e risulta coinvolta
nella crisi d'una società al tramonto . E Debussy deve essersi
reso conto per primo di questa fondamentale impotenza del
fatto d'arte.
Se ricordiamo quanto s 'è detto nei capitoli precedenti (e
specialmente nel Iv), circa la storia sociale dell'arte francese,
comprenderemo bene come questa ennesima denunzia della
decadenza del pensiero borghese , e con questi moduli cosf
promettenti a causa della loro contingente ricchezza, si sia
manifestata proprio in Francia. Meno portata, rispetto a quella
tedesca o italiana, a lasciarsi coinvolgere in potenzialità pro­
gressistiche (e sia pur illusoriamente tali), la borghesia france­
se - dell'Ottocento : la piu esplicitamente e cinicamente
gastronomica - paga il prezzo della costituzione dell'alibi
della sua privacy, paga, cioè, l 'accettazione dell'ufficialità, con
quest'assenza di fede nel ritrovamento di orizzonti nuovi, o
meglio con la costituzione subito estenuata, e subito coinvolta
nella decadenza generale, che abbiamo visto in Debussy. È , in
pratica , la rinunzia a ogni forma di autonomia autentica pur
ottenuta solo con lo strumento artistico .
Ancora piu radicale, è l'azione di Maurice Ravel
( 1 87 5- 1 9 3 7 ). Radicale nel senso di una chiarificazione total­
mente negativa del rapporto, o, meglio, della disponibilità
dell'uomo nei confronti del suo mondo. Un mondo ricapitola­
tivo. Infatti, se prendiamo il catalogo di Ravel, vi troveremo
di tutto : ricordi classici (Sonatina), stilemi jazzistici ( Concerto
per la mano sinistra), esasperazione ma anche accettazione di
una certa realtà banale (Bolero ), atteggiamenti di sogno di un
mondo lontano nel tempo e nello spazio (la Vienna degli
Strauss de La Valse), ecc. Insomma, una disponibilità totale a
ogni possibile esperienza: ma anche l'impossibilità di viverne a
fondo una. Fra l'uomo e la situazione, fra l'uomo e la musica,
v'è uno spazio vuoto : e questo spazio vuoto permette il
«gioco», cioè consente l'accesso agli aspetti della realtà che
l'unione diretta (fra l'uomo e la musica) in un certo senso
selezionava e riduceva a un che di comune . Lo «stile» era la
risultanza di tutto questo . Ora, in Ravel, lo stile stesso è come
1 60 S TORIA SOCIALE DELLA MU SICA

estrapolato : è cosa a sé; è una specie di à plomb personale, un


segno di riconoscibilità che prescinde da tutto il resto, vale a
dire, dalla contingenza che lo ha occasionato e comprovato .
Nei confronti dell'ideologia romantica, questa forma di cinica
non-interferenza, questo sapido intervento non-modificante -

è spaventoso. È la fine reale dell'antica funzione dell'«opera» ;


e stupisce che, nella polemica adorniana sull'arte moderna,
quest'opera elegantemente e implacabilmente distruttiva di
Ravel non abbia trovato la sua esatta collocazione ( impedita,
probabilmente, dal privilegio accordato, dall'istinto di soprav­
vivenza, al primo dei due avverbi di sopra ).
In un certo senso, Ravel sviluppa Debussy; ne accetta, cioè,
la negazione infastidita dei legami con la totalità romantica;
ma supera questo stadio perché, senza accontentarsi del resi­
duo personalistico-impressionistico di tale negazione, ammi­
nistra la ricchezza di beni che gli è precipitata addosso dalla
frattura del mondo romantico . Ma, nel momento stesso in cui
lo fa, liquida, in tal senso, ogni possibile sviluppo dialettico,
ogni possibile divenire : li consuma e li butta via. E gli resta,
di essi, solo l'impronta di tale liquidazione : l'unica forma di
comportamento attivo che prenda tutto. Vale a dire, appunto ,
lo stile.
E, per colmo d'ironia, la musica di Ravel continua a essere
consumata come se nulla fosse accaduto : perché in effetti, sul
piano strutturale, nulla è accaduto. Non v'è alcun interesse a
distruggere esplicitamente ciò che, di fatto, esiste solo a livello
di fantasma.
Il conto presentato da Ravel alla civiltà, è molto ambiguo.
Perché, dopo di lui e a onta di lui, la musica - ripetiamo -
può continuare a essere esplicitata, «delibata», in pieno. È
solo questione di consapevolezza di ruoli. Per Ravel, è liquida­
ta come fatto di presenza civile; per il mondo, si tratta d'una
conferma benefica perché la denuncia può anche non essere
letta come tale, può non disporsi in un atteggiamento critica­
mente e moralmente aggtessivo. Forse, nel contesto francese
che abbiamo esaminato, non sa farlo : ed è questa l'oscura -

perché non spartibile e neanche, in fondo, credibile - co­


scienza che porta Ravel nel tunnel dove il radicalismo non può
disgiungersi - a onta di tutte le possibili, ma non esperite
per inutilità, esasperazioni - dall'ambiguità legata a un anti­
co, antichissimo non-intervento.
'La musica francese vive, subendo le conseguenze delle po­
tenzialità ma anche dei limiti della mentalità razionale-illumi-
FRA OTTO E NOVECENTO 161

nistica, altri episodi d i ribellismo contingente, o , in modo piu


esatto, di chiarificazione priva di remore ma anche di prospet­
tive legate a un coinvolgimento piu rigoroso. In questo àmbito
è da ricordare, soprattutto, Eric Satie ( 1860-1925) : l'incarna­
zione di una genialità risolutiva polemica e non implicata.
·La distruzione, da parte di Satie, degli orpelli romantici, e
la riduzione della musica a un fatto di mero, e sempre diverti­
to, scheletrismo combinatorio ( ché non si può piu dire : armo­
nico ) - deriva da una visione del mondo implacabilmente
razionale : che è tale, però, solo in quanto interviene sugli
effetti, inibendosi, per la sua stessa natura culturale, a ogni
estensione dell'indagine sulle cause. ·In tal modo, l 'umorismo,
anzi l' ésprit ( involontariamente e fatalmente categorizzato ) di
Satie, non fa altro che avallare, da una posizione deterministi­
camente e cinicamente «moderna» ma d'un modernismo da
parola d'ordine, una falsa proprietà del fatto d'arte. Esso, sf,
può essere polverizzato, ridicolizzato senza pudori reverenziali :
ma è un intervento che si realizza sui rami secchi della cultura
occidentale. I guasti ch'essi ha prodotto, sono avallati dall'in­
tervento reso possibile dalle illusioni di questa falsa proprietà.
Le cause vere, almeno quelle che si frappongono all'indagine
sui perché della difficile appropriazione responsabilizzante del
fatto d 'arte, rimangono intoccabili.
Figlio di questa stessa mentalità, è il «Gruppo dei Sei» :
una specie di consorzio di musicisti fra i quali spiccano indub­
bi talenti come Artur Honegger ( 1 892-1955), Darius Milhaud
( 1892- 1974) e Francis Poulenc ( 1899-1963 ). Appartengono
alla generazione successiva rispetto a quella dei compositori
presi in esame nel presente capitolo; ma preferiamo egualmen­
te parlarne ora perché, tutti, hanno un legame indiretto col
tentativo anti-romantico di Debussy. Hanno trovato, cioè, una
arte secca, razionale, aperta a recuperi di tutto ( del tragico,
del religioso, del sentimentale , ecc.). Sono, quindi, l'incarna­
zione della disinvoltura e del sorriso deresponsabilizzante di
fronte alla languida musoneria di Debussy. Atteggiamento, il
loro, perfettamente conseguente . La rinunzia all'intervento non
è piu neanche una piaga. La loro capacità - sempre ben
razionale, s'intende - di lavorare tranquilli e soddisfatti sulle
briciole elevate a visione del mondo, ha realizzato un perfetto
intervento di plastica sulla piaga stessa : che , cosf, è assoluta­
mente invisibile, caso mai ci fosse stato bisogno di un occul­
tamento .
Da questo atteggiamento , si può riproporre la concezione -
162 STORIA SOCIALE DELLA M U SICA

di cui Strawinski, s'è visto, non può essere ritenuto complice


- dell'art pour l'art : che è, senza bisogno di spiegazioni
nobilitanti, una non-politicizzazione ben politica. Ogni legame
della musica con possibilità di dialogo con ciò che musica non
è - è troncata. E senza che vi sia una forma di, sia pur
impotente o ipocrita, consapevolezza.
Un caso un po' a parte, invece, è rappresentato da Manuel
de Falla ( 1 876- 1 946), primo musicista spagnolo in grado -
dopo le esperienze di l . Albéniz ( 1 860- 1 909 ) e di E. Granados
( 1 867- 1 9 1 6) - di proporre il folclore del suo Paese in una
dimensione europea . Esperienza, la sua, interessante sul piano
stilistico, ma valida solo in quanto confluente, appunto, in una
tematica internazionalistica. In una tematica, cioè, che smorza
e che riduce. Il valore di Falla è indiscutibile : ma neanche
esso interessa il nostro discorso (o, meglio, il livello a cui,
ormai, è giunto il pensiero europeo), se non per quanto
concerne la sua riduttività: un calco di quanto - s 'è visto -
era successo al ben piu grande Debussy.

Coi musicisti che abbiamo esaminato in questo capitolo, la


nostra civiltà affronta la curva che la porta in dirittura d'arri­
vo, cioè alla sua fine. Intanto, l'arte, il pensiero, si stanno
sempre piu configurando come elemento di salvezza personale,
e, ora, in senso esplicito . Esplicito come dissociazione, nei
confronti della sensibilità dei piu, che non si sviluppa ( e che,
quindi, ricade sopra se stessa: generando quei dettagli innatu­
rali che sono tipici del decadentismo ) per mancanza di spazi
alternativi. Infatti, sta crescendo la nuova classe proletaria; la
visione del mondo di Marx sta demistificando l'orizzonte bor­
ghese. Ma la nuova classe (ripetiamo), a differenza di quanto
aveva fatto la borghesia dopo la Rivoluzione francese, non
rivendica a sé - a parte poche eccezioni che vedremo - la
gestione e la riconoscibilità del fatto artistico .
L'arte, insomma, si sta rivelando un fatto solo borghese . Lo
è sempre stato, ma la situazione rende drammatico anche
questo concetto elementare. Perché gli artisti rifiutano, quando
sono veramente grandi, la percezione e il consumo ottusi , e
veramente distruttivi, della maggioranza borghese nei confron­
ti del fatto d'arte ( « tradizionale» ), e, come élites prive di
sbocchi dialettici, incrudeliscono sempre di piu sopra se stessi.
Il fatto che un processo critico analiticamente e disperatamen­
te sincero come quello di Mahler, non trovi uno sbocco , è
indicativo di questo stato di impasse. Come lo sono il coinvol-
FRA OTTO E NOVECENTO 163

gimento della «nuova» prospettiva di Debussy nella cupa


tristezza globale ; o il disinvolto processo di liberazione di
Strawinski che, però, tende sempre piu all'agognato rapporto
testimoniante antico anche quando questo rapporto è contrad­
detto dagli «splendidi » risultati precedenti ; o il gioco critico e
svuotante di Ravel.
L'assenza di mondo : è questo il cerchio entro cui si muove,
con giri sempre piu stretti, l'arte moderna, apparentemente
piu ricca di mondo. Essa, che pare respirare solo quando può
liberare da sé, e farne un corpo separato e potenzialmente
ostile, la «cultura» .
14. LE ILLUSIONI DEL NUOVO UMANESIMO

Nei musicisti che vedremo in questo capitolo, si pone, per


la prima volta in senso del tutto esplicito, un atteggiamento
restaurativo, una presenza artistica che sa di insistere su un
mondo in rovina , e che si muove cercando di ricucirne, per
quanto è possibile, l 'antico tessuto connettivo. Possiamo indi­
care questa tendenza con l'espressione <mmanesimo borghe­
se» : dove l 'aggettivo intende sottolineare questo spirito di
ricostruzione di contro alle alternative che il mondo (non piu ,
ora , esclusivamente «occidentale» ) incomincia a presentare al
di fuori del contesto, , appunto , borghese.
Di appena un anno piu vecchio di Schonberg, Max Reger
( 1 873- 1 9 1 6 ) rappresenta un versante - quello che crede
nell'autosufficienza tout-court della cultura -, di auesta crisi ,
che la critica latina, sensibile soprattutto alle e�plicitazioni
violente, di qualsiasi segno, non riesce assolutamente a recepi­
re, e che la critica aglosassone, dal canto suo , celebra seriosa­
mente, confondendo la tensione accademica con l'accademismo
in sé, e il povero Reger con Walton, con Sibelius, ecc.
In effetti, Reger è il musicista professionale di un contrap­
punto sapiente e «giocato» fino alla piu crudele e quasi
aberrante astrattezza, di una forma che regolamenta la condot­
ta dei suoni togliendo loro qualsiasi licenza non diciamo e­
spressiva, ma persino umorale ; di una conseguenzialità impla­
cabile e tale da sovraintendere persino al ritmo d'emissione
delle battute .
E questo non è accademismo semplice : perché l'accademi­
smo, specie in quegli anni, porta con sé l'inespressività d'u­
n'incoscienza beota, là dove Reger mantiene una seriosità al
limite innaturale. Non accademismo, il suo : piuttosto, un qual­
cosa che, dell'accademismo stesso, porta il peso. Nelle sue
opere piu importanti (per esempio, le Variazioni su temi di
Hiller e di Mozart; o i grandi lavori per organo ; o alcune
composizioni cameristiche), questa tensione si qualifica come
LE ILLUS IONI DEL NUOVO UMANES IMO 165

uno sforzo di tenere la musica lontana dalla vita. Ma non uno


sforzo compiuto una volta per tutte, o gratuito ; al contrario,
un qualcosa che deve rinnovarsi a ogni battuta, e che si
testimonia in questo modo con un eccesso di richiesta «colta»
alla musica stessa. Cioè, la tensione è bifronte: da una parte,
questo eccesso di richiesta; e, dall'altra parte, un'altra richiesta
eccedente : vòlta a crearsi uno spazio per questo, diremmo
quasi violento, esercizio contrappuntistico.
È proprio dal mancato commercio con la vita, che Reger
palesa, della vita stessa, l'incoercibile presenza sulla cultura
musicale. Perché è, la sua, una cultura musicale eccitata a
comprovare se stessa, le sue pur intatte e infinite ( astrattamen­
te) possibilità, ben oltre i limiti e le richieste di un «norma­
le» esercizio contrappuntistico .
Reger - che pure, emblematicamente, è indicato da Schon­
berg fra i musicisti moderni da tenere in attenta considerazio­
ne - nulla enuncia, in modo esplicito, di un suo possibile
stato problematico : né, data la constatazione dei suoi rapporti
con la musica, lo potrebbe. Eppure, in un senso totalmente
contrario a quello schonberghiano (per noi, che studiamo e
viviamo le cose dopo), è d'un'importanza eccezionale. Nella
misura in cui la sua «scienza» rivela l'impossibilità di una
musica «naturale», si nota la tipica reazione umanistica vòlta
a fortificare la culturfl., a giustificarne il circuito, a cementarne
l'area ; e, questo , nel momento stesso in cui proprio l'area
della cultura recepisce (reagendo con un'inversione di segno)
Pindifierenza della vita, è indicativo del formarsi di una nor­
mativa autonoma del mondo umanistico : cioè, uno scorrere
accanto al mondo reale rifiutando, e vedremo con quali conse­
guenze , ogni interferenza lesiva dell'equilibrio - «eroicamen­
te» teso : come massima testimonianza - di tale scorrere. È
incominciata l'èra di quella che Vittorini chiamava <�cultura
complice » .

A i suoi esordi, Arnold Schonberg ( 1 874- 1 95 1 ) è u n wagne­


riano. La sintassi dei suoi primi lavori (Notte trasfigurata,
Gurre-Lieder, Pelleas, ecc.), che la critica ha visto «forzata»
col senno del poi, è, in realtà, molto meno avanzata di quella
di Mahler, che, nei medesimi anni (i primi del secolo) , sta
arrivando al massimo del suo tragico processo di disvelamento
di una possibile realtà «vera» . È interessante. piuttosto, il
particolare tipo di wagnerismo di Schonberg. V'è come un'a ­
desione pre-musicale a questo linguaggio che forma una koinè,
1166 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

un'adesione di carattere ideologico-culturale : con la cultura


che si costituisce accanto alla musica, cioè senza essere prede­
terminata in essa. Questa dissociazione, da una parte pone
l'elemento-base della figura dell'artista moderno, scientemente
problematico ; ma, dall'altra , contribuisce a isolare, del pari
esplici tamente, la musica come campo staccato. L'area, digià,
del futuro intervento umanistico.
Intorno al 1 906, si pone la prima grande scelta. Schonberg
- che è anche saggista e pittore, e che lavora in stretto
contatto con l'intellighentia viennese - entra nel periodo
espressionistico . Non gli interessa, di questa corrente, la de­
nuncia sociale, ma, piuttosto, la capacità introspettiva impavi­
da, lo sforzo teso a portare alla luce gli elementi dell'incon­
scio, di esplicitare le difformità al fine di venirne a capo
razionalmente. Vienna è anche la città in cui Freud. in quei
medesimi anni, sta licenziando i suoi lavori fondamentali.
Schonberg ne recepisce le direttive generali, ma si distacca da
lui (che, del resto, è un terapeuta) appunto per questa colloca­
zione della ragione al centro, o meglio al di sopra, dei materia­
li difformi emersi ali'analisi .
Nei lavori di questo periodo (fondamentali : come, per e­
sempio, la Kammersymphonie op. 9 e Erwartun[!.: meno­
dramma su libretto di Marie Pappenheim, assistente di Freud) ,
vi è l'emergere del magma incandescente di ciò che era stato a
lungo nascosto e compresso. Se Schonberg ne accetta la terri­
bile e inquinante virulenza, se - anche - sfida, a costo di
difficoltà personali, l'opinione pubblica inferocita e già portata
all'utilizzo di argomenti razzisti ( « arte degenerata , tipicamente
ebrea» ) - vuoi dire che ha chiare alcune cose fondamentali.
Innanzi tutto , l'accettazione dell'idea di élite: però, di contro
a un . consumo di musica «facile» che distrugge la grande
tradizione ; il già ricordato ruolo finale della ragione chia­
rificatrice ; e - importantissimo - la precostituzione di tale
ruolo grazie alla strutturazione di precise gerarchie. Per quan­
to il linguaggio, nelle composizioni di questo periodo, risulti
dissociato e centrifugo, altrettanto fa capo a un oreciso, rigido,
conseguenziale ordine interno. È quest'ordine che consente lo
sfruttamento intensivo della carica del subconscio, e che salva,
anzi rafforza, la posizione tradizionale dell'artista a petto della
materia , quale che essa sia.
È, questo, il momento piu avanzato non solo di Schonberg,
ma di tutta la cultura mitteleuropea : che viene a capo della
sua ab normità, che riesce a venirne a capo appunto perché
LE ILLUS IONI DEL NUOVO UMANE S IMO 1 67

disattende le abnormità provenienti dall' «altro», dall'urto del­


l' « altro», da una nuova possibile dialettica con esso, ma al di
fuori di priorità classiste indiscutibili (dialettica affrontata da
Berg : che, proprio per questo, è da collocare in altro capito­
lo ).
Nel 1 808, nel finale del Quartetto n. 2 ( su testo di Stefan
George), Schonberg perviene alla, ormai necessaria, liquidazio­
ne definitiva della malintesa tradizione : liquida, cioè, i nessi
tonali, dimostrando che nulla è dato «per natura» e in modo
definitivo e immodificabile, ma anche chiarificando il concetto
finale della civiltà borghese: l' «opera» chiusa, piu importante
della sua realizzazione musicale piu clamorosa, la tonalità
appunto.
Le note che, «libere, fluttuano nello spazio dissociato»,
dànno l'idea piu grande e perfetta dello stato pallido e fati­
scente della cultura europea, dell'uomo europeo di quegli anni.
È l'epoca culminata nel Pierrot lunaire. Ma la sicurezza del­
l' « opera» rischia molto dinanzi a questo «libero fluttuare»,
cosi vicino al simile movimento del pensiero. Schonberg, in
nome dei valori dell'umanesimo, ne ha paura. Un lungo silen­
zio, un ripercorrere teorico della storia del pensiero musicale
(Trattato di armonia) e, poi, la dodecafonia : che si deve
concepire, soprattutto, come la costituzione di un rapporto
gerarchico chiaro ( le note, cessato il rapporto col centro,
hanno rapporti reciproci), di un metodo compositivo che man­
tenga un tipo di riconoscibilità, appunto, gerarchica.
A questo punto, la parabola di Schonberg (che diceva, di se
stesso, di comportarsi in modo rivoluzionario al fine di poter
essere un conservatore) è conclusa. Le Variazioni op. 3 1 ,
massimo esempio di realizzazione contrappuntistica realizzata
col metodo dodecafonico, sono del 1 92 8 . Il metodo ha una
funzione restauratrice dell'ordine, e, una volta compiuto que­
sto processo di chiarificazione dei vari rapporti, non lo si deve
considerare irreversibile . Questo motiva il ritorno di Schon­
berg, negli anni americani, alla tonalità. Ma, soprattutto, spie­
ga il solipsismo della sua mirabile costruzione di un universo
compositivo regolamentato alla perfezione, ma completamente
stravolto nei suoi valori che se, una volta, erano nati dal
mondo, ora fanno capo all'individuo .
Sin dall'epoca dei due ultimi grandi ortodossi (Wagner e
Brahms ), la musica era diventata la disciplina che, piu di ogni
altra rappresentava le caratteristiche essenziali del mondo
168 STORIA SOCIALE DELLA MU S ICA

borghese : di espansione ma, soprattutto, di conservazione, di


capacità allusiva ambigua, ecc.
Schonberg ha avuto il doppio merito di riconoscere questa
essenziale tendenza conservativa, e di scinderla dalla falsa e
abbrutente conservazione della maggioranza, realizzata e at­
traverso il culto violento dell'eternità di un R. Strauss, e
attraverso il cattivo, pianificante consumo dei classici. La sua
illusione sta in questo : nell'aver creduto che, una volta elimi­
nati codesti ostacoli contingenti, la musica potesse essere auto­
sufficiente, e nell'aver diagnosticato le aberrazioni del momen­
to come tali, cioè come assestabili grazie all 'intervento di un
singolo, e non già come logica conseguenza di un mondo
inevitabilmente, ormai, disposto in tal senso, e, anzi, sostenu­
to, in tali aberrazioni, proprio dal ruolo, eminentemente e
inevitabilmente conservativo, della musica, della cultu­
ra.
Non ci si faccia ingannare dai pur grandi lavori che impli­
cano, in Schonberg, un'attenta e appassionata coscienza civile :
come la satira an ti-borghese di Dall'oggi al domani o le grandi
denunce anti-naziste dell' Ode a Napoleone o di Un Sopravvis­
suto di Varsavia. Il grande conservatorismo umanistico ( quello
di Thomas Mann, di Zweig, ecc . ), può essere, è, autenticamen­
te democratico : solo, non concepisce una gestione democratica
«normale », alternativa, che rifiuti il ruolo di un'arte che tende
a conservarsi, all'apparenza, di contro a un mondo in dissolu­
zione, ma, in realtà, in modo tale da perpetuare questo mon­
do, dal rapporto col quale essa trae il suo sostentamentq.
Il fatto che Schonberg abbia dilatato al massimo - nella
grande opera incompiuta Mosè e Aronne - la sua visione
della gerarchia, fino a reinterpretare il verticismo supremo
della « Legge» - non deve farci dimenticare il dettaglio della
gerarchia stessa : che, unica, sopraintende all'operare artistico
proponendo una riconoscibilità che, sia pur ricercata attraverso
un immane travaglio, conferma il rapporto antico, appesantito
dal solipsismo. Il tragico quale lo si può evincere dalla grande
lezione di Schonberg, è nella necessità di conservazione dell'i­
solato patrimonio umanistico che, ripetiamo, pur fluttuante
nell'area del «gioco» individuale (da T. Mann, per esempio, a
Schonberg stesso), finisce col confermare il mondo esistente,
col farsene «complice» : ulteriormente rinforzandolo nella sua
capacità dialettica, anzi, con la propria costituzione a élite.

Anton Webern ( 1 885-1945), allievo di Schonberg, radicaliz-


LE ILLUS IONI DEL NUOVO UMANE S IMO 1 69

za il metodo del maestro, e riduce la musica a una logica,


rigorosissima, basata su rapporti ridotti all'osso . Questo può
accadere perché in lui, rispetto a Schonberg, l'ostacolo contin­
gente e «accidentale» che si frappone alla restaurazione uma­
nistica, è meno pesante ; e tale restaurazione, cosi, può essere
piu netta, piu palmare, piu evidente e, nelle sue strutture
fondamentali, piu apodittica. I nove anni che lo separano da
Schonberg, fanno sf ch'egli sia meno condizionato dal wagne­
rismo, dall'oppio della «totalità» . Il suo discorrere è breve e
rettilineo ; gli sconquassi del mondo, quando - ma molto
raramente - appaiono nella sua musica, sono come l'eco
lontana di un qualcosa che si può concepire come consumato
e, comunque, non interferente. E questo suo mondo che si
pone in senso aforistico (e che avrebbe avuto un peso enorme
e imprescindibile nella formazione delle avanguardie dell'ulti­
mo dopoguerra ), è già strutturato prima ch'egli adotti il meto­
do dodecafonico del suo maestro. La scrittura atonale , cosi
preoccupante in Schonberg, è, in lui, la possibilità di regola­
mentare un rapporto , fra i suoni, privo di interferenze. Un
rapporto minuto ma compiutissimo : si sa che le sue composi­
zioni venivano definite, da Schonberg, «un romanzo in un
sospiro».
Webern, insomma, è l'artista goethiano che descrive il di­
schiudersi di una rosa ; goethiano : perché questo dischiudersi è
concepito come una parte che presuppone un rapporto assesta­
to - ridotto perché salvaguardato, conservato in scala - col
tutto. Questa perfetta compiutezza, che ha trasmesso alle
ultime avanguardie l'illusione di una risolvibilità del mondo
per mezzo di un intervento sul linguaggio, è, in realtà, una
messa in parentesi del mondo stesso, una sospensione del
coinvolgimento dell'arte in esso, resa possibile dal momento
barbaro che l'Europa stava attraversando, e che poteva unifica­
re tutti i democratici in uno sforzo di superamento capace,
legittimamente, di tenere lontana la questione di fondo della
forza rappresentativa della concezione umanistica.
In tal senso, e in Webern massimamente, il «privato», che
la stessa barbarie costituisce come hortus conclusus, si cruda­
lizza, si essenzializza: e diventa il campo ideale di scorrimento
di qualcosa di depurato e di riferibile a ciò che , in quelle
condizioni, poteva ben apparire eterno e ideale : la mentalità
goethiana, per esempio.
Che tutto questo sia mirabilmente conseguenziale è, però,
solo un fatto «estetico», sia pur eroicamente civilizzato dal
170 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

contesto esterno. Cessata la contingenza particolarmente nega­


tiva del quale, i problemi ritornano come prima, piu forti di
prima.
L'umanesimo si rifugia in campagna e, perduti i legami
negativi col barbaro momento presente, produce il meglio di
sé; ma questo rapporto «campagnolo» è provvisoriamente
decontestualizzante : in realtà, è menzognero , perché quella
musica non può avere valore come proiezione di un mondo
che, superata la contingenza negativa, ritorna tal quale era
prima. Che quel mondo abbia ancora tantissime risorse de­
mocraticamente ( cioè, anti-straussianamente, antiviolentemen­
te) «estetiche», è proprio Webern che lo dimostra. Ma è una
dimostrazione provvisoria che la civiltà umanistica ha avuto
la contraddizione di leggere in modo completamente distorto,
cioè come viatico per una generazione abilitata a ignorare il
resto . E questo spiega le ultime avanguardie «cittadine » , oltre
che le «vie di mezzo» dei quasi coetanei (come Krenek,
Blacher, ecc.). Ancora una volta, la cultura umanistica - e,
ripetiamo, nelle sue accezioni piu democratiche - rivela il suo
viziante legame col mondo borghese : anche quando, soprattut­
to quando, questo boccheggia e quella trova spazio per una
nuova, grandiosa vitalità che ignora il boccheggiare .

Il merito grandissimo di Bela Bartòk ( 1 88 1-1945 ), sta,


soprattutto , nell 'aver individuato, attraverso lo studio del fol­
clore, un mondo «altro », articolabile in base a leggi struttura­
li proprie che hanno la medesima forza di quelle, abituali,
eurocolte, e che, anzi, convivono accanto a queste generando
urti immani.
Insieme al suo connazionale Zoltan Kodaly ( 1 882-1 967 ),
Bartòk si dedicò allo studio, alla raccolta e alla catalogazione
dei materiali popolari non solo della sua Ungheria, ma anche
di vaste zone slave circumvicine . 'Intanto, c'è da togliere via il
folclore «romantico», specie d'origine ungherese, che Liszt e
Brahms avevano disinvoltamente, e senza alcuna coscienza
etnologica, saccheggiato e ridotto a elegante elemento decora­
tivo. E questa era una questione di mentalità, prima che di
musica . Eppoi, non ci si poteva limitare, anche al termine di
questo grandioso sforzo strutturalistico , a porre il «nuovo»
mondo in un circuito a sé stante . Dal momento che questo
«nuovo» mondo viene individuato e studiato, da Bartòk (che
incomincia a comporre sotto un segno poderosamente mitte­
leuropeo, «centrale»), vuoi dire che il mondo «vecchio» è,
LE ILLUS IONI DEL NUOVO UMANE S IMO 171

ormai, rilevato in una certa stanchezza, in un certo stato di


esaurimento.
Ecco : la caducità romantica. Bartòk vi perviene assecon­
dando - si direbbe, senza sforzo - la sua natura di «suddi­
to periferico» dell'Impero centrale. Esordisce come nazionali­
sta : ma, considerate le tendenze non chiaramente rivoluziona­
rie (o, almeno, autonomistiche) della borghesia ungherese,
abbandona questo veicolo tutto sommato ancora ottocentesco.
E si rivolge, appunto, al folclore.
Siamo giunti al grande impatto di Bartòk : che ovviamente è
nutrito, come Schonberg e come tanti altri, di cultura classica,
di segno, però, beethoveniano (il segno apparentemente ato­
mizzato, ma nel nome d'una coesione vista come possibile
terminus ad quem, dei quartetti per archi dell'estrema stagio­
ne ). L'impatto, dunque, avviene fra questo mondo classico
(che le primissime esperienze nazionalistiche avevano necessa­
riamente lasciato intatto ), e il mondo «altro» della vita popo­
lare : con le sue leggi, coi suoi equilibri, insomma con la sua
totalità.
Da questo impatto, nascono composizioni come i primi due
«concerti» per pianoforte, la Rapsodia, i Quattro pezzi, le
Danze popolari, Musica per archi, celesta e percussioni, ecc.
Composizioni che rivelano quasi un palleggio di parametri
contrari : glaciali distensioni provenienti da altri mondi incre­
spati da brividi individualistici ; ferree tendenze costruttive
frustrate da possibili esiti «altri» da tale costruttività; pulsio­
ni ritmiche popolari e «barbare» a cui solo un infìnitesimale
diaframma «colto» impedisce di essere adottate come abito
morale e intellettuale. Da questo palleggio, da questo confron­
to aspro e bruciante di due mondi, di un mondo - quello
umanistico - che si sa esausto, e un mondo - quello a cui
fa capo la musica popolare - che si sa autenticamente alter­
nativo - il vincitore è uno solo, è quest'ultimo : che, anzi,
essenzializza l'universo umanistico di partenza visto come resi­
duo, e fatto agire come tale, cioè in una posizione subordinata,
di esplicita richiesta.
Fin qui, la grande avventura intellettuale di Bartòk è asso­
lutamente esemplare. Infatti, i rapporti fra i due mondi,
ancorché profondamente problematici e difficili, sono situabili
in una dimensione dialettica : la quale, anzi , mette in crisi,
esemplarmente appunto, il mondo umanistico, facendogli cari­
co, anche, di una non totale capacità di utilizzo del mondo
«altro» .
172 S TORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

Il dramma di Bartòk incomincia quando si tratti di risolvere


questa dialettica nel senso di una scelta definitiva sull'esito
della quale gli stessi schieramenti iniziali non lasciano dubbi di
sorta. Bartòk - s'è già ricordato - fa parte di quegli
intellettuali che furono costretti a lasciare l'Europa per l' Ame­
rica. E in America, dove visse in una povertà sintomatica della
coerenza del suo personale operare artistico, Bartòk rivela
l'insostenibilità del mondo umanistico di partenz11 . Un mondo
che ha coltivato il diverso senza potere, senza sapere prepara­
re, per esso, prospettive complete, autenticamente alternative.
In pratica, il compositore si rivela come assolutamente biso­
gnoso del suo mondo originario ; nella solitudine, è a esso che
fa ricorso, a onta della sua decadenza, delle sue gigantesche e
non piu colmabili contraddizioni. A onta della sua morte
completa. Infatti, Bartòk ricorre a tale mondo ( pensiamo alla
sua ultima opera : il Concerto per viola) come oggetto, come
serba torio per una lamentela che, di esso stesso, canta l' affie­
volimento , il venir meno. Seccamente, senza devianti autocon­
servazioni, senza narcisismi: secondo quella linea di altissima
congruenza morale di cui si parlava; ma in modo assolutamen­
te netto e privo di spiragli.
Le grandi speranze suscitate dai suoi lavori piu grandiosa..
mente drammatici, si rivelano per quello che sono: non un
accoglimento dell' «altro», ma, a onta di tutto, un uso del­
l' «altro» da parte dell'umanesimo : inestinguibile ove solo si
accenni a un compromesso che non lo distrugga completamen­
te come rappresentante dell'ordine antico.

Paul Hindemith ( 1 895- 1963 ) esordisce in pieno clima e­


spressionistico; esordisce come dissacratore di sacri miti, dis­
sacratore la cui pericolosità è data dalla conoscenza perfetta
dei meccanismi di tali miti. Specie in campo teatrale (Assassi­
nio� speranza delle donne/ Sancta Susanna), lo Hindemith
attivo negli anni Venti ci consente di far risalire lo spirito
dissacrante, alla coscienza dell'inadeguatezza culturale e morale
della Germania ufficiale. Egli si mantiene entro i limiti della
tonalità , sia pur elasticizzata : ma, proprio per questo, l'ele­
mento viscido ch'egli porta alla luce, è piu riconoscibile, piu
clamoroso, piu travolgente.
Poi, cadono le illusioni : illusioni - intendiamo - di
risolvere problemi «generali» grazie all'operare artistico; tanto
piu che proprio l'operare artistico che mostra, accanto alla
LE ILLUS IONI DEL NUOVO UMANE S IMO 173

radiografia della situazione, l'area piu ampia di autonomia


operativa e intellettuale .
Cosi Hindemith - che, nel frattempo, si è dissociato com­
pletamente dall'esito dodecafonico di Schonberg - si rivolge
piu indietro, e salta la linea di demarcazione oltre la quale
incomincia, per la musica, l'inquinamento soggettivo, romanti­
co. L'opera Cardillac, carica di turbamenti vecchi però risolti
col nuovo spirito «poeticm>, è 11 porto ; in questo processo
ricostruttivo di una musica «autonoma>>, scissa dal divenire,
dalla coscienza del divenire del mondo che l'ha determinata,
Hindemith giunge al momento primo dell'operatività artigiana­
le, a Bach.
Il compositore lavora a stretto contatto col gruppo di W.
Gropius e della «Bauhaus» : accetta, cioè, il principio del
funzionalismo che, in musica, porta in evidenza il «fare», la
libertà e la semplicità intellettuale dell 'esercizio , del «musizie­
ren» . In questo ritorno allo spirito originario dell'antica musi­
ca luterana, convergono anche espliciti motivi di caldo amor
intellectualis realizzato nella grande opera Mathis der Maler;
però, al fondo , v'è effettivamente il desiderio di una possibile
laboriosità scissa da tutti i motivi che, dopo Bach, la allonta­
narono dall'orizzonte operativo dell'uomo. O, almeno, una
possibile laboriosità che appaia scindibile da tali moti­
VI .
Le innumerevoli « musiche da camera » di Hintemith, testi­
moniano la costanza di questo grande sforzo, di questa altissi­
ma illusione dell'autosufficienza della musica e, quindi, della
fede in una sua intrinseca possibilità di riscatto di tutte le
ragioni che la facevano rappresentativa, e complice, di un'u­
manità molto poco esemplare (è appena il caso di ricordare
che, durante il nazismo, anche Hindemith ebbe serie difficol­
tà. ).
Perché abbiamo parlato, ancora una volta, di illusioni? Ma
perché, ancora una volta, la cultura musicale - e proprio
nelle sue piu alte e democratiche accezioni umanistiche -
funge da filtro che, in realtà, allontana il vero bersaglio , e che
propone obiettivi falsi, fuorvianti, incapaci di modificare il
vero ordine delle cose.
Non è, infatti, l'ipersoggettivismo romantico, non è l'aber­
razione contingente ( che si vuole superare con un atto di alta
eticità) , ciò che determina la situazione per cui Hindemith
concepisce il ritorno allo spirito musicale bachiano . La vera
causa è la situabilità della musica, la sua ineliminabile rappre-
174 STORIA SOCIALE DELLA MUSICA

sentatività di una situazione autoconservativa che ci si illude


sia incarnata solo da autori come R. Strauss. Là dove, invece,
la musica, intesa come concezione e non già come singola
realizzazione, non è altro che la celebrazione di uno stato dal
quale non ci si può staccare con un impotente scatto indivi­
dualistico.
Questo scatto individualistico - anche negli àmbiti comu­
nitari presupposti e praticati da Hindemith - ha il potere di
prendere momentanea distanza dalla belva, ma non già di
esorcizzarla o, piu esattamente, di eliminarne le cause. Perché
le cause stesse sono in un patrimonio artistico che ha staccato
il proprio divenire da quello della vita o che, piu precisamen­
te, si è costruito in modo tale da formare un diaframma
sempre piu spesso ( piu «ricco» e piu «autonomo» ) nei con-.
fronti di una possibilità non diciamo di intervento, ma anche,
semplicemente, di critica nei confronti della costituzione della
vita, di quella vita.
Con Hindemith, l'umanesimo tocca una delle sue vette piu
democratiche ; ma pur sempre di umanesimo si tratta, cioè di
una concezione dell'arte costituita con queste finalità. E Hin­
demith cade nell'illusione che l'artista, in virtu di questa
pericolosa « autonomia» di ciò che sta manovrando, sia in
realtà in grado di modificare qualcosa. Là dove, invece , gesti­
sce solo se stesso, gli elementi - splendidi - della sua
separazione. Non è che Beethoven e il giovane Schumann
fossero piu incisivi nella società : è la società che, allora, non
aveva posto ancora il formidabile blocco del non intervento
nei confronti delle proprie caratteristiche non del tutto assunte
dalla coscienza; e che non aveva ancora trovato, nel fatto
d'arte nato dal suo seno come frutto migliore, un formidabile
alleato .

L'artista borghese democratico, da un lato, si ritira in


solitudine, costrettovi dal livello di degradazione raggiunto da
una tradizione nei confronti della quale egli non vede alterna­
tive se non totalmente distruttive ; e, ritirandosi in solitudine
e facendo sempre di piu, del fatto d'arte, una questione di
sopravvivenza individuale, forma un mondo (quello delle élites
d'avanguardia) tanto, appunto, democratico quanto, nei con­
fronti del contesto generale che si considera un «diverso» a
petto delle leggi umanistiche, impotente. Però, dall'altro lato,
risolti i problemi di questo àmbito limitato, l'artista borghese
si illude di essere un protagonista.
LE ILLUS IONI DEL NUOVO UMANE S IMO 175

E, di fatto, lo è: cosf come lo sono i musicisti esaminati in


questo capitolo , e, ovviamente , anche i rappresentanti di altre
discipline ed esperienze artistiche. Si tratta, però, del protago­
nismo piu ambiguo e pericoloso, piu illusorio e aprentesi a
intensi e sazianti drammatismi : del protagonismo individuali­
stico. Nessun particolare sforzo deduttivo per capire come, alla
fine, tale protagonismo possa essere «contemplato» e, poi,
assorbito da una società che continua a strutturarsi secondo le
sue non mutabili (da questa angolazione) leggi.
La musica - s'è già detto - garantisce, piu di ogni altra
esperienza, la formazione di, e il circuito specifico all'interno
di, quest'area : e ciò, a causa non, come si crede, della sua
natura astratta e sfuggente, ma, al contrario, della sua possibi­
lità di riferimento e di appropriazione di significati altri rispet­
to alla singola realtà del suono, del segno. Cioè alla sua
capacità di creare quella che Walter Benjamin - come già
ricordammo - chiamava «aura».
Il processo è di tipo autodivoratorio, autodistruttivo : come
possiamo constatare oggi , al termine storico e inappellabile di
esso. Però, garantisce quell'eroica, assurda e, nei confronti del
progresso della civiltà a cui si vuoi credere, controproducente
sopravvivenza che ha, come pendant, la mancata appropriazio­
ne del fatto artistico da parte delle nuove classi che, all'inizio
del secolo, incominciano ad assumere piena coscienza socio­
politica di sé. È questo l'àmbito contraddittorio che fa da
sfondo agli ultimi cinquanta anni di storia della civiltà euro­
pea.
15. L'ALTERNATIVA PROLETARIA

I compositori di questo capitolo si staccano nettamente - e


anche, come nel caso di Berg, a onta delle classificazioni
ufficiali - da un quadro che pur sta incominciando a presen­
tare la diversità come categoria fondamentale. E ciò perché,
per questi artisti, l'«altro», il «diverso », hanno un peso e un
valore maggiori. L'esito dell'urto di elementi di questo nuovo
equilibrio ( ovvero, di questo importantissimo squilibrio), lo
vedremo nell'esame dei singoli casi. Per ora, basti averlo posto
in rilievo privilegiato.
Alban Berg ( 1885- 1 935) è, con Webern , l'allievo piu grande
di Schonberg; ma anche l'artista che, in misura maggiore
rispetto agli altri due rappresentanti della «Scuola di Vienna»,
ha legami viscerali col mondo del pre-espressionismo : col
mondo, intendiamo, di Wolf e specie di Mahler. Si tratta,
cioè, di un musicista portato a un'esasperazione soggettiva
abnorme, a tensioni lancinanti , a fratture clamorosamente tra­
giche. Questo ha dato luogo a un diffuso giudizio riduttivo,
determinato, anche, dal fatto che Berg usa in modo molto
libero l'atonalità e la dodecafonia, con frequenti ritorni «e­
spressivi» al linguaggio tonale : essere cioè, il piu «romantico»
dei musicisti moderni. Giudizio riduttivo soprattutto in vista
di ciò che, in rapporto con l'oggetto di questo capitolo,
significa tale libertà linguistica. Oggi, per fortuna, questo giu­
dizio ( causato anche dall'esclusivismo dell'analisi adorniana)
tende a rientrare ; sta di fatto, però, che la dirompente, e in
una certa misura non umanistica, tragicità di Berg, è stata
disattesa dai compositori delle generazioni successive : forse -
e, oggi, questa motivazione può apparire chiara - per motivi
di salvaguardia del patrimonio umanistico, tradizionale , che il
«romanticismO>> del compositore non garantiva sufficientemen­
te.
Anche Berg è una figura centrale dell'espressionismo musi-,
cale ; però, vi aderisce da una prospettiva del tutto opposta a
'
L ALTERNATIVA PROLETARIA 177

quella del suo maestro. Cioè - come già si diceva - da una


prospettiva piu politica, piu sociale, piu tesa a scoperchiare le
contraddizioni della società. La scelta degli argomenti delle sue
due opere, è, del resto, apoditticamente indicativa.
Per il Wozzeck ( 1 925 ), Berg si rivolge alla quasi omonima
( Woyzeck) tragedia di Georg Biichner ( 1 8 13- 1 837), il dram­
maturgo antesignano di un tipo di funzione alternativa dell'ar­
tista nella società. Di Biichner, Berg accetta l'impostazione
fondamentale e gelidamente razionale : la militarizzazione,
frutto d'una società gerarchizzata in senso repressivo, produce
mostri . Non v'è alcun posto per la pietà, in fondo mistificante,
nei loro confronti : ma solo per una denuncia che deve essere
implacabile. E si noti una cosa che Berg evidenzia in modo
grandioso : non è che la razionalità gelida della denunzia
assorba e risolva il dolore per questa condizione umana; al
contrario, questo dolore esiste, ma è schiacciato, alla lettera,
dalla denuncia stessa, dall'obbligo di essa . In questa scelta
politica, Berg è veramente determinato. Egli ha un tempera­
mento assolutamente lirico : e spazio per il lirismo c'è, nella
dolorosa vicenda del povero soldato, soprattutto nel ruolo
della sua donna, d'una dolcezza acutissima e frustrata . Solo
che il lirismo viene compresso , ripetiamo, di un qualcosa di
«altro» e di non risolvibile negli equilibri dell'opera d 'arte
tradizionale : dalla denuncia che scoperchia e che lascia aperti i
problemi .
In Lulu, opera che Berg lasciò incompiuta, il meccanismo si
perfeziona. La vicenda è tratta da due drammi di Frank
Wedekind (Lo spirito della terra e Il vaso di Pandora), autore
espressionista molto piu vicino, nel tempo, a Berg. Qui, i
meccanismi della società che produce mostri, sono evidenziati
in modo piu sottile e implacabile. Non v'è piu spazio neanche
per un lirismo - diciamo cosi - di passaggio. E, questo,
perché la razionalità è diventata del tutto elemento chiarifican­
te e unico del compito che spetta all'artista, compito che, in
Lulu, si rivela in tutto il suo grande umanesimo alternativo :
l'opera d'arte, cioè, non è piu il momento risolutivo e finale
della peripezia. Lo scoperchiamento si avvia a diventare un
fatto permanente : drammaticamente , nel senso che intendiamo
nel nostro discorso, «anticulturale».
«Ur-Schrei» : urlo primigenio . Quello della creatura nasco­
sta e sordida evocata dalle paludi dell'inconscio. L' <mrlo» di
Berg, è molto diverso, e nulla ha a che fare con quello di
Schonberg. In Schonberg, infatti, esso è iniziale ; in Berg, è
178 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

finale. Cioè, sopravvive come simbolo della non piu completa


risolvibilità del tutto nell'opera d'arte. E, questo, semplice­
mente perché il tutto di Berg sopravanza di gran lunga il
« tutto» del contesto umanistico-borghese. È suggestiva, ma
incompleta, la lettura del mondo del soldato Wozzeck come il
mondo dei «dannati della terra» ; incompleta perché questo
mondo - nella successiva Lulu, e anche in lavori strumentali
tesi come la Suite lirica, Der Wein, il Concerto per violino,
ecc. - risulta, di fatto, «superato» da altro: da un 'impossibi­
lità di categorizzare, e quindi - anche in un senso brechtiano
- di risolvere.
Il diverso, l'alternativa di Berg, vogliamo dire, non si esau­
riscono nella pittura di una situazione disperata e « altra»,
nella fattispecie sottoproletaria. No : il «diverso» è altrove, è
nell'impulso del compositore all'indagine, è negli interessi
ch'egli si costituisce come elemento-guida. E sono questi inte­
ressi che si pongono al di fuori del contesto umanistico-bor­
ghese, e che generano il conto che non torna, l'implacabilità,
la non risoluzione del tutto nell'opera.
Abbiamo ricordato che il contesto di provenienza di Berg, è
tipicamente borghese; né si può scorgere, nel suo sviluppo
intellettuale, una forma di interesse esplicito per modi di
pensiero orientati in senso anti-borghese (se non, ma questo è
di peso non rilevante , il rifiuto della psicoanalisi : ch'egli
definisce «scienza truffaldina» ). Ma, appunto per questo, il
problema ch'egli lascia aperto, è una denuncia - diciamo cosi
- «spontanea» e gravissima non solo dell'insufficienza dell'a­
rea umanistico-borghese, ma anche delle prospettive di salvez­
za e di autoconservazione , a petto del mondo che sta cambian­
do, ch'essa, con Schonberg e poi con le avanguardie successive,
si costruisce, sia pur a costo di dolori immani e di problemi
spaventosi, in prospettiva.
L'umanesimo , insomma, «chiude» là dove Berg, invece ,
lascia aperto il problema : e proprio per l'impossibilità di
risolverlo, non già per un'esplicita volontà di rottura (anzi, il
suo dolore «romantico», se vogliamo mantenere questa e­
spressione limitativa e mistificante, è leggibile come residuo di
questa operazione che non può riuscire, come dolore « antico»
liberato da una denunzia assolutamente «moderna») : la diffe­
renza sta tutta qui.
Questo fatto spieg� un altro settore molto esemplare della
vicenda di Berg, a cui, del resto, si è già accennato. Cioè, il
suo essere stato del tutto disatteso, in favore di Schonberg e
'
L ALTERNATIVA PROLETARIA 179

di Webern, da parte delle avanguardie successive (e, come


pendant, il suo essere stato preso a modello da parte della
critica meno avanzata).
Vicenda, questa, che dice molto (come meglio si vedrà
nell'ultimo capitolo) sulla fase estrema, rappresentata dalle
avanguardie dell'ultimo dopoguerra, della storia umanistica. Il
vizio dell'umanesimo stesso, è stato sempre quello di conside­
rare l'area di partenza sufficiente a risolvere ogni accidente
incontrato per la strada. Risoluzione possibile, certo : ma che
ha, come prezzo, il possibile misconoscimento dell'accidente
stesso. In questo, Berg pone un precedente contrario di im­
portanza eccezionale .

Kurt Weill ( 1 900- 1 950 ), Hanns Eisler ( 1 898-1 962) e Paul


Dessau ( 1 894) sono i tre piu importanti compositori che si
siano fatti interpreti di istanze provenienti dall'ideologia mar­
xista. Non, la loro, una presenza di tipo solo critico : ma,
subito dopo questo atto iniziale, una lucida costruzione su nna
realtà dalle leggi, e quindi dai destinatari, diversi. Per tutti e
tre, è fondamentale la presenza di B. Brecht : del suo organiz­
zare la parola in senso «politico», del suo funzionalizzarla,
dopo averne reciso l'aura, in senso implacabilmente chiarifica­
tore degli ostacoli che si frappongono fra l'uomo e il raggiun­
gimento di una dimensione autentica, e poi, delle direttive
conseguenti.
I tre autori sono profondamente diversi, all'interno di que­
sta tematica comune. Dessau, infatti, incontra Brecht solo nel
1942, e scrive le sue opere piu importanti già nella Repubbli­
ca Democratica Tedesca, cioè in un'area comunista : La con­
danna di Lucullo, nel 1 95 1 , e Puntila, nel 1 966. La sua
risoluzione, cioè, avviene in una zona già positiva, con la
musica che può ricoprire un ruolo costruttivo : e che, quindi,
si costituisce in un senso epidittico-esemplare non molto lon­
tano dai dettami del Realismo Socialista. Si sente, certo, che
Dessau è un musicista di formazione eurocolta, che ha vissuto
l'espressionismo, che ha assimilato la lezione delle avanguardie
storiche. Ma questo suo passato problematico, viene risolto,
diremmo definitivamente dall'adesione a una realtà politica
'
«altra » . Cosi ' in lui il « suono ambiguo» risolve le vorticanti
. .
'
ragioni di tale ambiguità, funzionalizzandosi in senso, npetla-
mo esemplare assumendo tratti descrittivi di un negativo che
qu�lla stessa r�altà politica ha già esorcizzato . Insomma, Des-
1 80 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

sau ci presenta una risoluzione già avvenuta, un assestamento


che ha già liquidato i motivi d'inquietitudine .
Assolutamente diverso è il caso di Kurt Weill e di Hanns
Eisler: i quali aderiscono al marxismo quando questo è ancora
uno strumento di lotta per una battaglia il cui esito è ancora
lontano, e in un'area che l'interpretazione a opera dello stesso
marxismo rivela in tutta la sua tragicità.
Sono, anch'essi, di formazione colta. Weill studia con Buso­
ni e si accosta a Schonberg cercando , un po' contraddittoria­
mente, di diluirne i nodi irrisolti in un discorso piu dilatato
(Prima sinfonia), o di ricomporli in una visione ottativamente
limpida, quasi neomozartiana (Seconda sinfonia ). Anche per
lui, si diceva, l'incontro con Brecht è decisivo : scrive le
musiche per VOpera da tre soldi, per Mahagonny, e per
l'opera-balletto I sette peccati capitali (forse, il suo capolavo­
ro) ; fuori del teatro, il grandioso Berliner Requiem.
La musica di Weill è di una forza suggestiva immensa, e
tale da resistere perfettamente all'analisi dei nessi di tale
suggestività. Egli adotta, quando lavora con Brecht, metri
dedotti dalla musica di consumo (ballabili, ecc.) degli anni
Trenta ; la sua enorme capacità armonica, però, gli consente di
esplicitare ciò che, di quella musica, è nascosto e compresso : il
senso di angoscia e di frustrazione, il dolore. V'è, cosf, un
ribaltamento dei «rapporti commerciali» di quella musica,
apparentemente intatta; v'è il ripristino della reale condizione
umana (la frustrazione, ecc.) come soggetto, non piu come
oggetto. E questo, ripetiamo, col prodotto intatto, perché è il
prodotto intatto, lo specchio della situazione reale. Ma Weill
compie questo lavoro sotto il segno inevitabile dell'operazione
culturale : cioè - da perfetto allievo di Busoni, diresti -
controlla questo ribaltamento di valori, questa esplicitazione
rivoluzionaria dell'angoscia, inserendo il tutto in una forma
ferrea. Piu all'interno è torbido e dolorosamente «umano»,
piu la forma è implacabile . Ed è la forma, allora, che proietta
questo mondo in un'area resa disponibile dal controllo perfet­
to, e resa autentica dal convincimento ideologico : in un'area,
però, che la forma stessa - elemento umanistico : che spesso
è stato recepito dal marxismo senza un adeguato controllo -
alla fine, distanzia dall'artista. 'l ponti, certo, rimangono ben
percorribili, ma coscienti di essere solo tali. Di qui, la dimen­
sione struggente e provvisoria - e saputa come tale - di
Weill; di qui, vogliamo dire, il suo carattere, ancora, eurocolto
«su» una realtà marxianamente giudicata.
'
L ALTERNATIVA PROLETARIA 181

Eisler fu, addirittura, allievo di Schonberg, anche se il


rapporto si estinse ben presto. Per Brecht, compose le musiche
p er La madre, G. Galilei, e Schweyck, e musicò - riuscendo
addirittura a influenzare musicalmente il drammaturgo - mol­
te poesie .
La linea di Eisler, si fonda sulla parola priva, nel senso che
si diceva sopra, di aura. La musica nasce da essa, e si sviluppa
'nella sua funzione peculiare : quella di sottolinearne l'accettabi­
lità politica attraverso uno sviluppo dell'elemento unificante e
accomunante. L'elemento, appunto, musicale inteso in senso
bachiano.
In questa spoliazione della cultura, dell'aura che ne circo­
scrive, allontanandoli, gli elementi costituenti {parola e musi­
ca), sta la grande forza alternativa di Eisler. La sua musica
toglie via la questione maggioranza-élite, e diventa assoluta­
mente disponibile, in questa sua costituzione, per coloro che
prendono coscienza non tanto di uno stato sottomesso, quanto
della propria capacità positivamente alternativa . In quel mo­
mento particolare della Germania - in cui la repubblica
umanistico-democratica di Weimer si stava polverizzando di­
nanzi all'avanzata dei nazisti - Eisler rinunzia al processo
dialettico dell'appropriazione, individualistica, del fatto d'arte :
semplicemente, lo sfronda, e lo fa partecipe di una possibile e
concreta realtà di uomini che vogliono solo riconoscersi in se
stessi e nel proprio lavoro. La soluzione è là, a portata di
mano : fondata su una realtà esistente, consapevole e ricchis­
sima. Eppure, è una realtà perduta.
Questo caso, evidentemente, non è stato studiato se non in
termini ottativi : non, cioè, come alternativa che è, anche, la
proiezione estrema dell'umanesimo .
La musica di Eisler, vogliamo dire, è una possibilità del
compositore che, come intellettuale umanista, ha fatto certe
scelte politico-culturali, le ha collocate come perno del proprio
mondo, e si è spinto fino all'alternativa, fino a una società in
cui la musica abbia un 'altra funzione, un altro potere di
associazione, ecc. Ora, questa alternativa, in tanto è umanistica
( sia pure, ripetiamo, come massima espansione dell'umanesi­
mo, come negazione dei rapporti dell'umanesimo) , in quanto
·proviene da un artista singolo, in quanto attende, si prefìgura
l'alternativa di altra provenienza, l'alternativa che venga dal
mondo. Là dove si verifica codesta alternativa, questo libro
deve arrestarsi, perché il tema diventa un altro ; ma, del nostro
tema, Eisler fa pienamente parte, anche se da una posizione
182 S TORIA SOCIALE DELLA MU S ICA

estrema. Egli non può spingersi oltre, non può compiere piu
di qualcosa che superi la negazione della sua base di partenza.
Le altre alternative, quelle che vengono dal basso, non fron­
teggiano ancora a parità il fenomeno eurocolto; e costringono
ancora gli intellettuali a tentativi di cui questo libro è un
modesto, ma calzante, esempio. Eisler - ripetiamo -, piu di
ogni altro musicista fin qui esaminato, ha avuto il merito di
farci toccare con mano la situazione reale.

I tratti fondamentali della musica sovietica, sono ancora


contraddittori : nel senso che subiscono due tipi di attuazione
dai rapporti non sempre dialettici. Quello della cultura occi­
dentale, e quello del Realismo Socialista : indirizzo, quest'ulti­
mo, che prevede una funzionalizzazione, positiva ed esemplare,
dell'arte all'interno della società comunistica.
Nessuno, in occidente, conosce bene la produzione dei com­
positori sovietici piu giovani : che comunque, come è evidente,
forse neanche dovrebbe rientrare in questo libro. Ci limitere­
mo perciò, in vista della tematica che ci sta a cuore, a
ricordare la fase delicatissima del trapasso dalle tematiche
occidentale e russo-prerivoluzionarie, ai dettami del Realismo
Socialista; e, questo, attraverso il ricordo delle due piu grandi
individualità russo-sovietiche della musica del Novecento :
Prokofìev e Sciostakovic.
Sergei Prokofiev ( 18 9 1 - 1 953 ), ha un rapporto composito
con la Russia, anche sul piano personale. Esordisce all'insegna
di un vago, ironico, ma plasticamente determinato, neo-classi­
cismo occidentale (Sinfonia classica); intorno agli anni Venti,
chiede e ottiene dalle autorità il permesso di stabilirsi per
qualche tempo in Europa. Produce, nel frattempo, lavori
difformi : di carattere magico-favolistico (L'amore delle tre
me/arance ), o di preoccupanti intenti scabroso-demoniaci
(L'angelo di fuoco, del 1 922 ); ovvero, come nei concerti e
nelle prime sinfonie, caratterizzati da una violenza motoria la
cui linea però, a onta di apparenti fratture, tende sempre a
tornare al «centro» costituito da un robusto, prepotente natu­
ralismo lirico . Nel 1 933, torna volontariamente in Urss, e si
adatta - senza grossi scossoni, anche se non senza qualche
urto con la censura ufficiale - alle esigenze del Realismo
Socialista. Produce grandi affreschi (sinfonie, balletti, opere di
grande respiro come Simeon Kotko, del 1 940, e come Guerra
e pace, del 1 946), i cui tratti linguistico-strutturali sono sem­
plificati al massimo, e sostenuti da quel vasto respiro nervo-
'
L ALTERNATIVA PROLETARIA 183

samente lirico che si può individuare come una delle ragioni


fondamentali, indipendentemente anche dalle direttive delle
autorità, del suo temperamento artistico .
Piu complessa e drammatica, è la storia di Dimitri Sciostako­
vic ( 1 906- 1 975), talento ironico e demoniaco eccezionale (e, in
questo, erede della cultura russa prerivoluzionaria: solo, e­
stremizzata ed esasperata), che si impone giovanissimo con la
Prima sinfonia e con l'opera Il naso { da Gogol) . In questi
lavori, egli dimostra di conoscere molto bene i termini lingui­
stici delle avanguardie ; i termini linguistici, abbiamo detto :
cioè i vettori centrifughi, squassanti, esplosivi. Ché i termini
ideologici e morali gli sono, semplicemente, indifferenti. Egli
adotta grandiose, perfettamente controllate, strutture formali,
al fine di polverizzarle e di divertirsi e ricostruire, con questa
polvere, edifici altrettanto grandiosi . In pratica, il processo
intellettuale e morale della costruzione, del rapporto uomo-ma­
teria, è del tutto saltato in aria. Sciostakovic , in séguito,
produce un'altra opera, Caterina Ismailova : una torbida storia
di violenza ch'egli può scatenare nella piu eccitante indifferen­
za morale ; e scrive la Quarta sinfonia: la summa di quest'or­
gia dis truttiva e omnivanificante: dal lirismo allo spirito con­
trappuntistico. Allora, interviene Zdanov. Occorre dire che
questa indifferente distruzione della forma è tale da scatenare
ogni tipo di moralismo repressivo, sia esso guidato da motiva­
zioni di ordine politico-sociale (come in Zdanov), sia esso
guidato da beghinismo formalistico-accademico . Sta di fatto
che, nel 1 936, Sciostakovic fu costretto a fare l'autocritica e
ad allinearsi a direttive che, salvo qualche sottile anche se ben
percepibile brivido di reminiscenza, avrebbe tenuto presenti
per tutto il resto della sua vita : dedicata all'evocazione e alla
testimonianza musicali dei piu grandi momenti del popolo
sovietico. Il resto scorre - terrificante - sotto il linguaggio.
Il problema rappresentato da Zdanov - nel suo intervento
soffocatorio della trasformazione , del liberismo ideologico oc­
cidentale, in scatenamento ossessivo che aggredisce, compia­
cendosi lividamente della loro distruttibilità, i gangli di tale
libertà - va considerato con coraggio e con un atteggiamento
responsabile, e, soprattutto, senza fermarsi molto sul fatto
repressivo in sé (la cui condannabilità è un assioma, ma non,
per i nostri problemi, un argomento se non fuorviante e
mistificatoriamente consolatorio), né, tanto meno, sulla rozzez­
za del linguaggio usato per le accuse a Sciostakovic ( « forma­
lismo piccolo-borghese», ecc.). Vogliamo dire che non deve
184 S TORIA SOCIALE DELLA M U S ICA

interessarci, almeno nella sede già di per sé problematica del


nostro argomento, stabilire se Zdanov avesse «ragione» o
avesse « torto». Dobbiamo , piuttosto, affrontare il problema
della discriminante ch'egli contribuisce a porre nel corso della
storia dell'arte occidentale, una discriminante che ci obbliga a
essere assolutamente sinceri e disincantati proprio perché, di
fatto, continuiamo a vivere in un contesto socio-culturale che
continua a volersi affidare a talenti individuali e scatenati
come quello di Sciostakovic.
A proposito di Eisler, poco sopra, abbiamo detto ch'egli
rappresenta, piu di ogni altro, la grande alternativa politico­
culturale : vista, però, dall'eterna prospettiva individuale. Cioè,
del tutto priva di una costituzione maggioritaria già esistente.
Eisler, ricordammo, è l'ultimo esempio di umanesimo : di
umanesimo sforzato , negato, al limite anche distrutto e messo
in mora da una lucida diagnosi, ma pur sempre tale .
Al contrario, il caso Sciostakovic-Zdanov, è esemplare : l'in­
dividuo è riluttante, mentre la base e l'organizzazione della
società, stanno già vivendo l'alternativa, la grande alternativa
socialista che ha superato i rapporti di scambio e di produzio­
ne ( che, non dimentichiamolo , ci avevano condotto allo stato
teso e schizoide che stiamo cercando di illustrare) della società
liberistica : articolatasi, con qualche sensata speranza positiva
(e decisivamente, però, contraddetta dalle esperienze «profe­
tiche» di Beethoven e di Schumann ), nel periodo che va dalla
Rivoluzione francese al 1 848.
La prima constatazione, dunque, condotta con sincerità, è
sconsolante: la musica «ufficiale» dei compositori sovietici,
non ci interessa , non ci tocca, non ci coinvolge. E non può
essere che cosi (a onta delle patetiche e penose letture-interpre­
tazioni «coinvolte» di certa critica nostrana) : dal momento
che noi, rimasti in una civiltà borghese, non possiamo avere
rapporti con un'arte funzionalizzata nei confronti di un ribal­
tamento della situazione.
Anche in questo caso , dunque, un altro arresto . L'alternati­
va, in Urss, è scattata ; la nostra fame di sensazioni ci consente
di consumare ogni tipo di esperienza (non a caso, Sciostakovic
era membro onorario, e di sicuro benevolmente ignaro , di una
delle piu retrive accademie italiane): ma neanche questo può
interessare il nostro discorso. Solo un fatto, negativo o, piu
esattamente, sospensivo : che le esperienze, le piu autentica­
mente democratiche, consumate all'interno dell'umanesimo
borghese, hanno finalità conservative della situazione di base :
'
L ALTERNATIVA PROLETARIA 185

cioè, non possono sanare la frattura fra politica ed «estetica»,


forse sempre esistente e, comunque, manifestatasi dopo il
1 848. Con questa che, non potendo interferire su, modificare,
quella, l'ha, di fatto, abbandonata, però cementandola nel suo
assetto fondamentale . Zdanov aveva ragione : e non è, questo,
un riconoscimento personale, ma un prendere atto d'una lettu­
ra che ha un solo pregio : quello di essere disinteressata, e di
«amare» meno l'arte, e l'istinto di salvezza individuale che in
essa inerisce, che la realtà politica che è riuscita a esistere.
1 6 . L'AFFRATELLAMENTO NELLA BARBARIE

La guerra, ma soprattutto la barbarie nazista e fascista che


prepararono la guerra, furono come un elemento affratellante
che, per un attimo, consenti alla cultura europea di abbando­
nare i vorticanti problemi che fin qui abbiamo ricordato.
Di abbandonarli - intendiamo - in favore di questioni
piu vitali e piu essenziali : come la sopravvivenza fisica della
civiltà umanistica, minacciata dalla barbarie stessa. Si realizzò,
insomma, una specie di tacita intesa non molto dissimile dal
fronte comune antifascista in politica, che, nel nome della
necessità di superare quel momento mostruoso, mise da parte
le diagnosi - pure ineccepibili - della discendenza legittima
del mostro stesso dall'ideologia borghese, e riusd a trovare
un'area comune per mentalità comprese in un arco che andava
dai liberali ai comunisti .
Da un lato , quindi , un'altissima e civilissima - ancora -
funzione della cultura umanistica ; dall'altro lato, tale funzione
resa possibile dal momento cruciale, sopra-normale, dall'intero
contesto della civiltà europea.
Mentre i protagonisti tedeschi di questo periodo storico {già
trattati in precedenza), affrontano il problema alle radici, altri
artisti drammatizzano la loro posizione nel senso e nell'area
che si sono descritti. È il caso degli italiani Ildebrando Pizzet­
ti, Alfredo Casella e Gian Francesco Malipiero, a cui possiamo
aggiungere Ottorino Respighi ( 1 879- 1 936) e il piu giovane
Giorgio Federico Ghedini ( 1 892- 1 965 ). Ovviamente, non si
tratta solo di fascismo inteso in senso cronologico, ma di tutto
quel processo di provincializzazione che, iniziato in pratica
dopo l'Unità, pone il nucleo di quella che si definisce l' « lta­
lietta» prefascista. In musica, è il momento del teatro verista,
sul quale abbiamo avuto modo di soffermarci nel cap. 1 3 .
Di fronte a questo vero e proprio momento buio, Pizzetti
( 1 880- 1 968 ) reagisce con la costruzione di un'area di gelida
aulicità assolutamente sciolta dal contesto inquinante, ma, an-
'
L AFFRATELLAMENTO NELLA BARBARIE 187

che, tale da porsi in modo statico, e, quindi , facilmente


ignorabile, in quanto assorbibile, da parte del gusto dominan­
te : per il auale . Pizzetti stesso poteva essere considerato come
un fiore all'occhiello, e, la sua inavvicinabilità, come un'area
privilegiata ma non dissonante nei confronti del gusto corren­
te.
Molto piu mobile è la presenza di Alfredo Casella
( 1 883- 1 947), col suo doppio ruolo rivolto a internazionalizzare
(anche con una professione didattica che merita di essere
ricordata) la musica italiana e, al tempo medesimo , a provarne,
e anche a provocarne, l'attendibilità all'interno di un contesto
internazionalizzato, anche se, per la verità, solo in senso neo­
classico-francese. La presenza di Casella viene molto ridimen­
sionata dalla predeterminazione volontaristica e positiva che la
sua musica - non ignara del richiamo all'estroversione a tutti
i costi del fascismo - riceve. Però , la problematizzazione
internazionalistica non solo la salva dalla volgarità dominante,
ma le conferisce un ruolo prorompente degno di interesse e
perfettamente e profondamente recepito da Petrassi.
Ma il caso senza dubbio piu interessante, è quello di Gian
Francesco Malipiero ( 1 882-1973 ) . L'isolamento di questo
compositore, dopo un certo interessamento iniziale per talune
tematiche para-espressionistiche , è totale. Nella sua solitudine,
Malipiero s i avvolge di un tono grigio. brumoso , tristissimo :
ma è un grigio, per cosf dire, attivo. Nel senso che non solo
mantiene sempre vivo il perché del distacco dal mondo. da
quel mondo, ma anche che fa, del soliloquio , un sottile e
centellinante elemento di verifica deJla cultura : cultura della
musica italiana antica, di Monteverdi, di Gesualdo. Verifica
non già per far circolare quella musica in un mondo che non
vuole e che non sa recepirla, ma per riproporla, appunto, in
una lettura-dialogo che, svolgendosi con le ombre ( ché tale è
la cultura che fa capo all'individuo). mal maschera la sua
caratteristica , come si diceva, di monologo. Eppure, Malipiero
- anche se finisce con l'assumere in via permanente , cioè a
prescindere dalle mutate condizioni esterne, tale solitudine :
come una medicina una volta necessaria e, ora. imprescindibile
come una droga ·- in una cosa è riuscito : nella dimostrazione
di una spartibilità attuale della cultura, che non è piu un · alibi
in realtà violento, ma un qualcosa di altamente fattivo, anche
se - ripetiamo .....:. reso possibile da condizionanti circostanze
esterne che Malipiero , del resto in riga col suo personaggio ,
dimentica troppo nettamente.
188 STORIA S OCIALE DELLA MUS ICA

Da questa azione ritratta - da una parte, s'è visto, neces­


saria, dall'altra compiaciuta - un risultato si pone subito : la
presenza di Goffredo Petrassi ( 1 904) e di Luigi Dalla piccola
( 1 904- 1 975), due compositori dell�. generazione successiva che,
sempre in vista della situazione di barbarie e delle conseguen­
ze di essa, a un compito ben preciso, indipendente dai meriti
personali, hanno assolto : quello di riportare la musica italiana
- <�serbata» soprattutto da Malipiero e da Casella - a un
livello interlocutorio internazionale. Tanto per restare nel te­
ma specifico di questo capitolo ( non privo di importanza
nell'economia residua della cultura europea), occorrerà ulte­
riormente precisare : ciò che il contesto umanistico internazio­
nale può dirci (o, meglio, non può dirci ), è una questione che,
ora, abbiamo lasciato in sospeso. Ci interessa, in questo mo­
mento, rimarcare che, con Petrassi e con Dallapiccola, la
musica viene riportata su un piano autenticamente interlocuto­
rio . E ciò è doppiamente importante : primo perché, come
vedremo in séguito, l'esperienza italiana può effettivamente
interloquire nel contesto storico internazionale; secondo, per­
ché l'opera per questo raggiungimento , costituisce, ripetiamo,
la cultura tradizionale in un senso finalmente politico : sia pur
solo come momento opposto alla brutalità .
Petrassi può giustificare la sua tendenza a una pittura posi­
tiva e ricca (barocca , è stata definita ), trasformando la stessa,
da storicamente decorativa, in un qualcosa di diveniente, di
rischioso, di drammatico pur sempre all'interno di un preciso
rapporto con la materia e solo con la fisicità di essa. E per far
questo, nel dopoguerra, rischia il proprio passato - ch'egli
aveva costruito con una profonda assimilazione delle lezioni
specie di Bartòk, di Hindemith e di Casella - per considera­
re, come fonte primaria, le avanguardie , rappresentate da
musicisti che hanno occupato i banchi deJla su� '1ula di c-on­
servatorio .
Questa eccezionale vitalità di Petrassi, e anche questo suo
costituirsi sui dettami di un'indefettibile onestà intellettuale ,
sono tipici dell'artista in fondo sempre positivo : ma che
capisce essere, la positività, non un qualcosa di già dato , e
quindi di regressivo , ma il frutto di una ricerca di elementi
rappresentativi resi garanti dal loro grado di drammatismo, e
non imoorta se si tratti di un drammatismo vissuto da altri.
Voglia �o dire che Petrassi non può accogliere, delle avan­
guardie dell'ultimo dopoguerra, il messaggio negativo, la vi­
sione del mondo pessimistica, presupponente, in partenza ( si
'
L AFFRATELLAMENTO NELLA BARBARIE 189

vedrà ) il riscatto. Ma il linguaggio, sf: le possibilità d 'inven­


zione e di organizzazione del suono , l'emancipazione dello
stesso. E non si tratta di un processo riduttivo, ma della
conferma di un ruolo : quello dell'artista come grande decora­
tore. Perché questo ruolo viene da lui rivalutato nelle sue
antiche accezioni tipicamente italiane: quelle che hanno un
rapporto, con la materia, basato sulle possibilità ch'essa ha di
vivere autonomamente, di essere drammatizzata. La crucialità
del compositore romano, sta in questo : che, mentre le avan­
guardie, negando ideologicamente questo ruolo della materia
nel mondo, e provvedendo a toglierla via . ne strappavano , oer
<:osf dire, la pelle palesando nuovi possibili centri nervosi che
subito venivano recisi, Petrassi rivaluta questi centri nervosi.
E li dispone nel senso voluto dalla sua visione del mondo.
Egli, con la sua felicità materica e con la sua vitalità formale,
ha un interessante rapporto con le avanguardie : queste , infat­
ti, negano ideologicamente, pregiudizi almente , un certo legame
col mondo . Petrassi, invece , deduce dai frutti di codesta nega­
zione ( il linguaggio ), la possibilità concreta di ricostruzione del
suo antico universo decorativo . Un universo, cosi. motorio ,
perpetuamente portato a un autorinnovamento : anche se con
ragioni del tutto diverse. È la materia «astuta» che vive la sua
ultima funzione. Dopo di essa, c'è veramente il nulla.
Il ruolo di Dallapiccola è completamente diverso. Egli giun­
ge, a poco a poco, ad attivare, sempre piu essenzialmente , i
suoi legami con la Mitteleuropa, fino a far collimare i destini
di essa coi destini dell'uomo italiano uscito distrutto dalla
guerra. E, allora , incomincia il processo ricostruttivo. Il lin­
guaggio della «Scuola di Vienna», viene calato nella realtà
italiana di quegli anni ; in tal modo , questo linguaggio sfrutta
le sue grandissime - e raramente esperite in tal senso -
possibilità di analisi e di ricostruzione minuta. Infatti, ciò che
deve, e che può, essere ricostruito, non è un universo, ma un
lembo infinitesimale di esso . L'universo appare come terminus
ad quem, come termine di tensione finale. Certe volte, il
viatico per questo cammino , è eccedente e non del tutto
assestato (ci riferiamo , per esempio, al1a religiosit8. del musi­
cista : spesso culturalmente ossessiva) . Però, il ruolo di Da1Ia­
piccola è importante per questo : perché il compo�itore , adot­
tando un linguaggio ( viennese) che descrive il dissesto, ne
isola i lembi pregnanti, ritrova in essi (anche nella fresca
storicità di essi) uno stato presente, e li retroverte in una
possibile costruttività. È il ruolo «eroico» (di cui si parlava
1 90 STORIA SOCIALE DELLA M U S ICA

all 'inizio del capitolo ) di chi si ritrova, dopo la guerra, distrut­


to e alla ricerca di elementi per una possibile ricostruzione.
Questo processo (che ha un culmine nel 1 950 : con l'opera Il
prif!,ioniero ), basterebbe, da solo , a rivalutare il ruolo umani­
stico della cultura : se lo stesso Dallapiccola non ne avesse
mostrato i limiti protraendo , o presupponendo la protrattibili­
tà di auesto stato provvisoriamente drammatico anche al ter­
mine dell'assestamento post-bellico . In ogni caso, la questione
del ruolo della cultura , è stata posta , e risolta, nel modo piu
completo. E tale , anche, da coinvolgere in questo lavoro (di
ricostruzione o di adeguamento : sempre essenziali. cioè tali da
avvicinare al mondo la normativa umanistica) anche composi­
tori piu giovani come Turchi, Veretti, ecc.

La guerra, e lo stato di barbarie che l'aveva preparata,


diedero una carica di essenzialità a moltissimi compositori che,
di una generazione circa piu giovani di Schonberg, trovarono
nelle sue proooste - giustamente, in auel momento, sfronda­
te di ogni ambiguità e di ogni elemento sottilmente regressivo
- un atto di autonomia, un riconoscimento dell'uomo nella
cultura. E varrebbe la pena , qui. di parlare piu a lungo di un
Ernst Krenek ( 1 900) o di un Boris Blacher ( 1 903-1975 ), se
l'economia di auesto libro non ci costringesse a completare in
modo diverso il panorama della cultura musicale contempora­
nea .
Cosi, un breve cenno merita Jan Sibelius ( 1 865-1957),
compositore linguisticamente fermo a Brahms, però tale da
contestualizzare il particolare momento linguistico della storia
della musica nel quale egli si insinua, e da funzionalizzarlo in
modo comnletamente diverso : come proiezione di una realtà
( quella della Finlandia) completamente staccata dal resto
d'Europa e, quindi, dotata di sue proprie leggi, caratteristiche
spazio-temporali, ecc. Non , quindi ; un omaggio accademico a
Brahms - che, come tale, non avrebbe meritato neanche un
breve ricordo - ma, anzi, un volgere le spalle a una partico­
lare funzione della musica ( come contemplatività decadentisti­
ca, ecc . ), e un adattare parte della stessa (che, quindi, nega, di
fatto, la propria totalità) a un contesto e a una funzione
affatto diversi. Valeva la pena di ricordare questo caso , ahche
se il prosieguo della sua eventuale trattazione sarebbe . di
competenza dell'antropologo musicale. Ci interessava soltanto
rimarcare un caso di cessazione dell'eurocultura.
'
L AFFRATELLAMENTO NELLA BARBARIE 191

L'urgenza drammatica, anzi tragica, di una ricapitolazione


sulla, conseguente una fine della, materia, è rappresentata da
Edgar Varèse ( 1 883-1965 ) , d'origine francese, isolato per tutta
la vita, di sicuro uno dei piu grandi compositori del secolo .
Egli taglia di netto tutti i ponti, non diciamo col passato, ma
anche, e soprattutto, col futuro. La materia, cioè, esce dalle
sue mani quale è in realtà : cioè priva di mediabilità umana.
Quindi, è rigidamente determinata nelle sue leggi che, per non
essere piu oggetto di interferenza umana, prescindono dai
limiti del sistema temperato (e aprono un campo che le
successive avanguardie avrebbero percorso appieno ). Una mate­
ria secca, non-umana nel piu rigoroso senso spinoziano. Ma
che dà una terrificante impressione «desertica» derivata dal­
l'improvvisa cessazione di una presenza umana se si vuole
illogica e falsa, ma tale da generare un'abitudine antropomor­
fica, assente la quale c'è, appunto, lo smarrimento sia pur nel
bel mezzo di un rapporto, con questa <<nuova» materia, per­
fettamente esperito.
È un caso, quello di Varèse, di eroismo, di radicalismo
culturale negativo : ma che, per questo, è capace di riportare
- per l 'ultima volta : è proprio il caso di dirlo - la cultura a
livello di interlocutrice ultimativa.

Abbiamo visto, dunque, la rivalutazione di un altissimo


ruolo della cultura, in un senso, per cosf dire, non tradiziona­
le : cioè, esplicitamente non-ambiguo, di dimensionamento civi­
le, di determinazione politica fondamentale. Anche Varèse, in
un certo senso, può rientrare in questo discorso : perché la sua
solitudine è tale da richiedere, alla cultura , soluzioni, prese di
posizione definitive, anche se, dopo di esse, v'è il deserto .
Abbiamo detto , all'inizio del capitolo , che tutti i grandi
autori moderni subiscono questo affratellamento anti-barbaro,
«politico », da parte della vecchia cultura. Schonberg può
comporre un'opera politica come Un sopravvissuto di Varsa­
via, T. Mann può realizzare un impegno esplicito nei suoi
discorsi, irradiati dalle emittenti Usa, sul popolo tedesco. Pe­
rò, mentre autori come, appunto, Schonberg e T. Mann
affrontano alle radici il problema della cultura e finiscono,
cosf, col cadere nella ricordata ambiguità progresso-conserva­
zione, i musicisti trattati in questo capitolo riescono, vuoi per
circostanze biografiche vuoi per la loro appartenenza a partico­
lari civiltà culturali , a crucializzare - per cosf dire - la
questione, fino a ricostruire, appunto, la coesione della cultura
1 92 STORIA SOCIALE DELLA MU S ICA

nel nome di un elemento «esterno » : la lotta comune contro


la barbarie. È, questa, l 'ultima , altissima funzione del mondo
umanistico-borghese. La sottolineatura del secondo aggettivo,
non è necessaria, perché è stata abbondantemente compiuta; è
necessario fermare l 'attenzione sul primo : e pensare che, forse,
da esso è dipesa la realizzazione del secondo , e che questa
condizione non è piu ripetibile : o che, almeno, non lo è piu
stata negli ultimi venti anni.
1 7 . LA FINE DELLA CULTURA

In questo capitolo, parleremo soltanto della nuova musica, e


cercheremo di parlarne a fondo, anche se con una trattazione
diversa rispetto a quella delle pagine precedenti. Non si tratta,
da parte nostra, di una «scelta» per un linguaggio, ma di una
semplice constatazione : il prosieguo del processo culturale che
fino a ora abbiamo tentato di descrivere, nell'ultimo ventennio
è stato portato avanti dalla nuova musica. Se gli esiti sono
quelli che sono, coi precedenti che abbiamo ricordato , la
«: colpa» non è certo del linguaggio che fa storcere la bocca ai
bempensanti. Il linguaggio stesso, semmai, è solo una conse­
guenza. E, se non apparirà chiaro lo sviluppo in direzione
della fine, da Schonberg a oggi, la responsabilità sarà della
nostra esposizione insufficiente, e non già del fenomeno che, di
per sé, è chiaro fino alla crudeltà. Crudeltà, è ovvio, nei
confronti di un sogno del passato che non può incoscientemen­
te, e anche criminalmente, essere opposto a uno sviluppo che
segue passo per passo il grafico della nostra società. Del resto,
chi storce la bocca, appartiene alla medesima categoria di
persone che mai e poi mai riconoscerebbero la funzione nega­
tiva di eroi del passato come Beethoven e come Schumann.

Nel secondo dopoguerra, la nuova musica si sviluppa sotto


il segno della libertà : della ricchezza di materiali, cioè, e della
possibilità di organizzazione degli stessi . La fonte è - come si
ricordava - la lezione di Schonberg, e soprattutto l'integra­
lismo di questa lezione realizzato da Webern. Ma c'è dell'al­
tro : c'è, addirittura, la possibilità di attingere ad altre fonti
( al di fuori del sistema temperato) del suono : fonti elettroni­
che, bruitistiche (da bruit: rumore); c'è la possibilità di mani­
polare questo, e altri tipi, di suono con svariate tecniche di
elaborazione di nastri, di collage, ecc. E c'è anche, proposta
dall'americano John Cage ( 1 9 1 2 ), una diversità che risiede a
monte del tutto : diversità di concezione spazio-temporale, e,
1 94 STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

quindi, di funzionalizzazione del suono : dalle sue accezioni piu


semplici e nude, all'organizzazione piu elaborata.
La nuova musica, specie in Europa {e specie in Italia: paese
che si ricolloca a un alto livello internazionale ), appare forte­
mente ideologizzata, se non, addirittura, politicizzata. Sono gli
anni dei vari «miracoli economici», che i rappresentanti delle
avanguardie fissano, con un rigore esemplare, nella loro essen­
za contraddittoria e mistificante. Si che produrre musica in un
certo modo, proporre un certo tipo di indagine e, quindi, di
discorso - vuol dire ( detto molto alla buona ) sottrarsi alla
pianificazione del consumismo, e riacquistare quell'autonomia
morale e intellettuale che la società neo-borghese tende com­
pletamente ad appiattire.
È ovvio che si tratta di soluzioni individualistiche : anzi,
d'un individualismo sempre piu teso ed esclusivo . Però, ben
cosciente di essere tale : dal momento che, come soluzione
alternativa e «comunitaria», c 'è, appunto, l'integrazione piu
squallida, la morte dell'individuo stesso. Il rapporto con la
società, è, in realtà, insostenibile proprio per l'impossibilità di
divenire, nel mondo, (e quindi , attingendo a esso, a ciò che è
comune, ecc.), di tale dialettica . E, oggi, noi possiamo compu­
tare piuttosto esattamente tale impossibilità. Però, lo ripetia­
mo, allora la ricchezza dei materiali poteva veramente generare
l'idea di un'autonomia e di una libertà che, da sole, potevano
ben eludere ogni altro problema.
I nomi che faremo, avranno soprattutto lo scopo di fungere
da esempio. Cosi, il francese Pierre Boulez ( 1 925 ) porta avan­
ti , evidenziandone la struttura in modo solo apparentemente
contraddittorio, un certo decorativismo statico alla Debussy :
un decorativismo che, ben lungi dall'isolare la ricerca, riesce
anche a proporre una lettura retroattiva, in chiave appunto
strutturalistica, dello stesso Debussy.
Piu rigorosa è la ricerca, sinanco arcigna, di Aldo Clementi
( 1 925 ) e di Franco Evangelisti ( 1 926 ): compositori che, oggi,
hanno compiuto il circolo di questo rapporto, hanno constatato
la riducibilità di questa «libertà» a un che di sovrastrutturale
e di non interferente, e che hanno scelto, il secondo, un
volontario silenzio, e, il primo, una soluzione che ci sembra
trasfondere in una pratica contrappuntistica dai presupposti
jnnaturalmente (cioè contro la natura stessa dell'operatore con­
trappuntistico ) tesi, i presupposti, infine, cosi, schiacciati, delle
avanguardie. Là dove, invece, ingegni scatenati come Luciano
Berio ( 1 926) e Karl Heinz Stockhausen ( 1 928 ) hanno abdicato
LA FINE DELLA CULTURA 195

alla libertà di cui sopra e hanno accettato il ruolo non interfe­


rente, però saziato da questa grande potenzialità materica. Con
cinismo consumistico , Berio : che, ormai, è in grado di « recu­
perare» anche gli stilemi del passato ; con pretese mistiche e
sovrarazionali, Stockhausen : al limite ridicolo nella sua vellei­
tà di giustificare il proprio managerismo sonoro con pretese -
peggio che socialdemocratiche - di fratellanza universa­
le.
Ma il quadro è ancora piu vasto. V'è un affrancamento
verso l 'espressività che viene proposto da alcuni compositori
originari dell'Europa orientale, come l'ungherese Gyorgy Li­
geti e come il piu giovane polacco Krysztof Penderecki
( 193 3 ) ; v'è la soluzione, contingentemente interessantissima ,
di compositori giapponesi (e il Giappone, non a caso , è, sul
piano delle strutture neocapitalistiche, un lembo d'Europa
occidentale in Asia) che sposano gli stilemi della nuova musica
con atteggiamenti timbrici e figurativi estrapolati dalla loro
cultura (Matsudaira, Fukushima , ecc. ). V'è un chiaro impegno,
di tipo neo-espressionistico, all'esplicito assunto politico che
prevede un forte carico espressivo di strutture musicali che
risentono del loro «innaturale» allontanamento dal centro
eurocolto : ed è il caso di Luigi Nono ( 1 924), di Gentilucd,
Fellegara, Manzoni, Bortolotti, Guàccero (anche se, in que­
st'ultimo compositore , tale impegno viene contrastato da u­
n'insistenza ossessiva di ricerca il cui elemento piu interessante
è dato da un inespresso odio per l'intero apparato organizzati­
ve del «suono» europeo). V'è, ancora, un centellinante e ricco
recupero umanistico portato avanti da Camillo Togni ( 1 922) e
da Boris Porena ( 1 927). E, forse piu grande di tutti, la
presenza di Bruno Maderna ( 1 920- 1 973), il compositore che,
piu profondamente d'ogni altro , si è calato, facendo moralis­
sima violenza al suo forte istinto positivo, nell'inferno della
dissociazione, riemergendone con una toccante proposta di
riorganizzazione anti-idealistica, cioè umilmente, ma anche fatti­
bilmente, artigianale.
E cosi via. Non è la completezza dell'elencÒ� che ci interes­
sa, bensf un'esemplificazione delle possibilità e un elementare
rendiconto del molto, del moltissimo che è stato fatto . Nonché
delle rigorose modalità di alta presenza civile che sovrainten­
dono a una gamt;na di possibilità molto estesa.
Intanto; una prima constatazione. I compositori di cui ab­
biamo parlato sono tutti - poco piu, poco meno - cinquan-
196 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

tenni. I successori, maturati nello spazio che va dal '68 a oggi,


battono strade diverse .
Questa assoluta diversità ( di cui parleremo), è il primo
indice aritmetico di una crisi che va intesa non già in senso
tradizionale, bensf come venir meno delle possibilità di un
ruolo che, anche nelle sue ultime manifestazioni, si era rivelato
come facente parte di un rapporto umanistico.
Si pensi alla già ricordata, enorme ricchezza obiettiva della
materia nell'àmbito post-weberniano. Questa ricchezza si è
tramutata, sommergendo un autentico criticismo, in fede asso­
luta nell'autosufficienza materica; e l'autosufficienza materica,
già insistente su una concezione d'élite che abbiamo visto
drammaticamente essenziale proprio per fini di sopravvivenza
individuale, ha sottolineato una divisione del lavoro che ha
lasciato intatto il contesto, borghese, di partenza. Un corpo
separato, autonomo : se si vuole, un ritorno alla simmetria
illuministica che finisce col mettere fra parentesi, col conside­
rarlo eccezionale , proprio il breve periodo ( da Beethoven al
primo Schumann ) in cui ci si illudeva che l 'artista potesse
veramente intervenire sulla società in modo non solo ideologi­
co .
Ma nel frattempo, appunto per gli attriti di codesto stato
ambiguo e se si vuole per le illusioni ritornanti pendolarmen­
te, il potenziale critico è enormemente aumentato ; ed è, forse,
proprio questo grande potenziale critico che, oggi, ha messo in
mora un certo rapporto con la materia : per quanto grande e
ricca essa sia.
L'illusione del riscatto morale, intellettuale e, nel senso piu
ampio del termine, politico, c'è stato, e ha scritto, nei venti­
cinque anni dell'ultimo dopoguerra, una delle piu ricche pagine
della storia d'occidente.
Si è agito in un contesto che continuava, umanisticamente, a
coprire , a chiudere i problemi; e questo spiega il già ricordato
legame dei compositori della nuova musica con la «chiusura»
di Schonberg e con quella, ancora piu radicale, di Webern,
nonché la scarsa attenzione per il significato delle aperture ( o,
se. si preferisce, per la problematica non chiusa dall'opera
artistica) di Berg e di Mahler: apertura che - e anche questo
è un fatto che significa qualcosa - sono · riproposte solo ora,
nella loro altissima emblematicità, dalla coscienza critica. Ora,
questa «chiusura», questa risolutività organizzatrice, ed evo­
catrice , a sua volta, di ricchissimi materiali - ha dato effe tti-
LA FINE DELLA CULTURA 197

vamente, ai compositori, la possibilità e la prospettiva di un


ruolo .
Ruolo che ha potuto, a un certo punto, «aprire» l 'opera,
vale a dire, !asciarne fluttuante e affidata a una, evidentemente
dominabile o quanto meno integrabile, contingenza, l'ultimo ( o
gli ultimi) tassello. È l'epoca, appunto, della musica aleatoria:
che viene letta come estrema riprova di certe possibilità, e non
come dichiarazione d'insufficienza della «chiusura». Nacque,
cosf, la pratica improvvisati va (e occorre ricordare , qui , il
«Gruppo d'improvvisazione di Nuova Consonanza» : fondato
da quel Franco Evangelisti che fu il primo, negli anni Sessan­
ta, a dichiarare chiusa, non piu percorribile, la pratica compo­
sitiva tradizionale) : e questa fu, forse, la prima presa di
coscienza di certi limiti concreti del ruolo dell'operare artisti-
-
co, d�ll'insoddisfazione «altra» dalla sua soddisfatta nienezza
materica, la prima denuncia di contraddizioni (quelle testé
ricordate ) che, oggi, si palesano in tutta la loro pienezza.
Ma vi sono anche altri casi. Per esempio, quello di Luigi
Nono : artista che ha accettato una totale responsabilizzgzione
politica e che, negli anni Sessanta ( con lavori come I n tolleran­
za, ma anche piu lirici come il Canto sostJeso, o pill. intimi
come Canciones para Silvia) , ha accettato lo scontro frontale
fra una musica ch'egli aveva riscoperto come «parlante agli
uomini» , e una situazione politico-economica che rendeva im­
uossibile questo dialogo disalienante - rioetiamo - a portata
di mano . Anche Nono (da La fabbrica illuminata a Al ;,ran
sole carico d'amore), ci sembra sia entrato in una netta situa­
zione di stalla : e, stavolta, a causa di un «diverso » che,
democraticamente, può apparire del tutto poshivo . Cioè, la
presa di coscienza, da parte- del mondo del lavoro , e la
costituzione di una netta tendenza al dialogo con una contro­
parte che, senza perdere i caratteri di mostruosità denunciati
da Nono stesso, disessenzializza la durezza del mondo del.
lavoro, che il compositore aveva elevato a categoria estetica
formante . Anche q- u i, con una netta dose di fiducia in quello
che è pur sempre un campo di conflittuali tà e di risolutività
umanistiche e che pertanto, ripetiamo, risulta completamente
negletto da quella porzione di « altro» ( rispetto all'umanesimo
stesso) rappresentata, appunto, dal mondo del lavoro. E cosi
Nono , che pure aveva portato la musica a un altissimo livello
di rappresentatività, è il caso pil-l clamoroso (perché, in fondo,
meno cosciente : cioè meno dotato di elementi per una presa
198 S TORIA SOCIALE DELLA M U S ICA

di coscienza) di una presenza artistica che, intatta e defunzio­


nalizzata, sopravvive a se stessa.
E infine , ma ne abbiamo già parlato, le conversioni al
positivo di Berio e di Stockhausen : per parlare opportunamen­
te del dettaglio delle quali, occorrerebbe assumere una menta­
lità manageriale - magari , da ufficio stampa! - inconciliabile
con gli scopi di questo libro.
È molto piu importante constatare la crisi della musica che
appare da tanti versanti i quali - tutti - riconvergono
nell'alveo produttivo umanistico : anzi, meglio, nell'alveo (nei
due ultimi casi ) produttivo tout-court.
Crisi della musica, fine della musica. Il che, tecnicamente,
non è vero. Allora, piu precisamente, fine della musica come
cultura, delle illusioni connesse a una possibile funzione ( dura­
ta quattrocento anni, circa) della musica come cultura.
Le avanguardie, dall'epoca di Schonberg, hanno avuto anche
un'altra funzione, a tutt'oggi valida : cioè la fine della possibi­
lità, della musica, di riferirsi altro che a se stessa, alla propria
fisicità allargata (con una serie di richiami, di rinvii, di allu­
sioni : tutti indipendenti da una concreta, ed effettivamente
esperita, fattualità) in aura. E questo ampliamento auratico
( individuato per la prima volta, si diceva, da Benjamin, e poi,
per evidenti motivi di autodifesa, disatteso da tutti) ha gene­
rato una vitalità del suono espansa in ogni settore, compreso
quello relativo a una reale possibilità di intervento sui pro­
blemi del mondo .
C'è un compositore, Vittorio Gelmetti ( 1 926 ), il quale ha
tentato di proporre una musica priva di aura, secca e impudica
(da una prospettiva auratica, s'intende ! ) nella propria gracilità.
Un eccellente, fedelissimo grafico di uno stato cadaverico che
ha soltanto uno scopo : quellò di constatare l'avvenuta consu­
mazione di qualcosa. E anche , eventualmente , di riproporla
cosz.
Solo che quest'ultimo fatto , indipendentemente anche da
Gelmetti, è impossibile . E non già solo perché manchi la
volontà ( nel senso autodifensivo di cui si parlava sopra) di
prendere coscienza di questo stato , ma anche perché questo
tipo di demistificazione presupporrebbe l'unicità, ancora, di un
mondo : là dove, invece , certe cose sono, ormai, di per sé
chiare appunto per la presenza, sempre piu prepotente, del
«diverso».
·

Infatti, l'aura rimanda a un mondo, là dove il problema


che, al momento, la cultura umanistica ( in musica o in altro)
LA FINE DELLA CULTURA 199

non può piu risolvere, riguarda la possibilità di venire a capo,


di assumere, di acquisire, di «risolvere» la diversità dei mondi
che oggi, tutti e a parità di diritti, contribuiscono a formare
gli elementi del nostro essere ( che intanto, emblematicamente,
all'interno dello stesso mondo umanistico, è diventato, anche,
per esempio, politico ) .
I n questo contesto, è ovvio che la musica - «nuova»,
come possibilità linguistica : ma ben vecchia come potenzialità
di rapporti, anzi piu vecchia nella misura in cui deve essere
piu elitaria - non possa piu comunicare . E che finisca ;
dapprima come opera <<chiusa» (però, s'è visto, con !'«aper­
tura» sempre, disperatamente, voluta come integrabile ) ; poi,
come «opera» tout-court.
Si noti bene : non è che sia finita la comunicazione, come,
del resto , la grandiosità della presa di coscienza dei mondi
diversi, e la richiesta di lettura storica di cui queste pagine
sono un modestissimo esempio - dimostrano. È finita la
comunicazione attraverso l' <<opera». Oppure, se si vuole atte­
nuare una diagnosi che a nostro avviso resta comunque identi­
ca, attraverso l' «opera» come testimonianza privilegiata. Lo
sviluppo, per esempio, delle cosiddette «arti minori», o me­
glio arti applicate, che studiano la diffusione - e anche la
discesa, l'abbandono dei vertici - maggioritaria delle idee per
tradizione tramandate solo attraverso un'esigua minoranza, e
l'influenza ch'esse finiscono con l'avere su una retta concezione
della storia dell'arte tradizionale - è solo un altro esempio
dell'ammissione di mondi diversi nel passato.
E questa diversità, appunto , scavalca oggi lo strumento
privilegiato, e ormai irrelato, della cultura umanistica. Non
sappiamo proprio come, a causa dell'allargamento della stessa
coscienza umanistica, della coscienza «colta», che si è verifica­
to ai primi del secolo, e non importa, poi, se, come si è visto,
in qualche modo colmato - come la musica, nell'accezione
sempre piu «tradizionale» del termine, avrebbe potuto soprav­
vivere.

Dunque, vediamo un po' i giovanissimi, di cui abbiamo già


ricordato la formazione nell'area successiva al '68. Qualche
nome di questi artisti, nati dal '47-'48 al '50-'5 1 : Salvatore
Sciarrino (che, però, inizia giovanissimo : fianco a fianco coi
«capi storici» delle avanguardie ), Antonello Neri, Giuseppe
Sinopoli, Gilberto Bosco, Lorenzo Perrero, Fabio Vacchi, A­
driano Guarnieri, Luca Lombardi, P. A. Cattaneo, ecc. Nessun
200 S TORIA SOCIALE DELLA MUSICA

discorso critico personale, per ovvi motivi : solo, una linea di


tendenza ( chiamiamola ancora cosi) che discende da quanto
abbiamo detto circa un certo nuovo rapporto col materiale e
col mondo : che discende, cioè, dall'assenza dell'aura.
Rinunzia alla conflittualità umanistica e impossibilità (come
dicevamo a proposito di Gelmetti : che, emblematicamente, ha
sempre vissuto al di fuori degli ambienti della «nuova musi­
ca» ) di articolazione del discorso secondo certi schemi. E con,
per risultato, una musica «innocente», «sbalordita», «sguar­
nita», «verginale». Una liberazione di ciò «che si può fare» e
che mai si era fatto per il blocco etico di leggi che abbiamo
visto di derivazione pur sempre umanistica. Ora, tutto è
fattibile ( di qui, un certo sbigottimento di quella musica, la
ricordata «innocenza» che noi, chissà perché, non sappiamo
scrivere senza virgolette ! ) , e tutto viene fatto. Caduta l'aura, è
caduto anche il fatto conflittuale, cioè la legge fondamentale
dell' «opera».
I casi sono due : o il «diverso», appunto per il venir meno
della barriera auratica, sta per intrudere veramente, cioè por­
tando le proprie leggi, nel fatto d'arte ; o il fatto d'arte si
avvia verso un'ennesima riedizione del neopositivismo. Nel
secondo caso, la questione è risolta a-priori nella vecchia
passivizzazione sociale ; nel primo caso (che, al momento, ci
sembra il piu probabile) non v'è, a maggior ragione, materia
per il contendere : perché questa nuova storia incomincia esat­
tamente da dove finisce questo libro, da dove finisce -
nettamente - l'oggetto di questo libro.

La :fine della cultura è anche un modo diverso, si diceva, di


viverne la storia : forse per l'ultima volta, per prosciugarla e
per dichiararla sconfitta. È, questa, una verità ( e non un
merito scientifico ) che non si può disattendere, anche a costo
di restare, dopo, paralizzati.
BIBLIOGRAFIA *

Testi di carattere generale:


F. ABBIA TI, Storia della musica ( 4 voli., Milano, 1967)
A. GENTILUCCI, Guida all'ascolto della musica contemporanea (Milano,
1969)

Cap. l

T. GÉROLD, Les pères de l'Eglise et la musique (Paris, 193 1 )


F. GHISI, «Un frammento musicale dell'Ars nova italiana». I n «R.M.L»,
1938

Cap. 2
F. DEGRADA, «Nota critica ai madrigali di Gesualdo» (Disco Arcophon,
Milano, 1969)
F. FANO, La Camerata Fiorentina (Milano, 1934)
v. GALILEI, Dialogo della musica antica e della moderna (Milano, 1947)
N. PIRROTTA, Tragédie et comédie dans la Camerata Fiorentina (Musique
et poésie ai XVI siècle. Paris, 1954)
c. SARTORI, Monteverdi (Brescia, 1953)

Cap. 3
A. CAMETTI, Palestrina (Milano, 1925)

* Dato il carattere di questo studio, la bibliografia non si configura


come un elenco di tutto ciò che è stato scritto sui singoli argomenti,
ma come un'indicazione per l'approfondimento con testi che l'autore
consiglia e che, nei limiti del possibile, siano scritti in italiano
e risultino reperibili. Per quanto concerne i testi di carattere non mu­
sicale ( per esempio : Nievo), è ovvio che un'indicazione completa del
genere, avrebbe portato via un intero volume. E allora diremo che
si tratta, qui piu che mai, di un suggerimento nettamente parziale : che
indica non solo la formazione culturale dell'autore '(cosa, questa, neanche
tanto interessante) ma, soprattutto, gli elementi-chiave dell'interpreta­
zione (ed è il caso di ribadire che questo sostantivo ingloba in sé il
concetto di parzialità) del fenomeno. Cosa, questa, del resto, tutti
fanno, anche se non tutti sanno di farlo o, quel ch'è peggio, anche
se non tutti ammettono di farlo.
202 BIBLIOGRAFIA

A. CAPRI, Il '600 musicale italiano (Milano, 1935)

Cap. 4
n. DIDEROT, Il nipote di Rameau (Milano, 1957)
H. DUPRÉ , Purcell (Paris, 1926)
J. GARDIEN, Rameau (Paris, 1949)
R. PAGANO e L. BIANCHI, A. Scarlatti (Torino, 1972)
G. PESTELLI, Le sonate di D. Scarlatti (Torino, 1967)
A. PIRRO, Les clavecinistes (�Paris, 1924)
L. RONGA, Frescobaldi (Milano, 1930)
c. VALABREGA, D. Scarlatti (Parma, 1955)

Cap. 5
G. BARBLAN, Guida al «Clavicembalo ben temperato» di Bach (Milano,
1961)
A. BAsso, L'età di Bach e di Haendel (Torino, 1977)
L. RONGA, Bach, Mozart, Beethoven (Venezia, 1956)
A. SCHWEITZER, Bach, il musicista poeta (Milano, s.d.)
M. WEBER, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo ( Firenze,
1969)

Cap. 6
A. BASSO, vedi sopra
'
D ALEMBERT-DIDEROT, La filosofia dell'enciclopedia (Bari, 1964)
'
A. n ANGELO, B. Marcello (Milano, 1940)
B. MARCELLO, Il teatro alla moda (Milano, 1959)
H. B. MOSER, Gluck '(Stoccarda, 1940)

Cap. 7
R. GIAZOTTO, AJbinoni (Milano, 1945)
R. GIAZOTTO, Vivaldi (Torino, 1973)
1. NIEVO, Le confessioni d'un italiano (Milano, 1954)

Cap. 8
R. ALLORTO, Le sonate per pianoforte di M. Clementi ( Firenze, 1959)
R. BACCHELLI, Rossini (Torino, 194 1 )
A. BONAVENTURA, Boccherini (Milano, 1931)
A. CODIGNOLA, Paganini intimo '(Genova, 1935)
P. FRAGAPANE , Spontini (Firenze, 1954)
L. ROGNONI, Rossini (Parma, 1956)
F. S CHLITZER, Ricerche su Cherubini (Siena, 1954)
P. SPADA, Le opere sinfoniche di M. Clementi (Milano, 1975)
P. TORREFRANCA, Le origini italiane del romanticismo musicale (Milano,
1930)

Cap. 9
C. BELLAIGUE, Mozart (Milano, 1955)
BIBLIOGRAFIA 203

G. CARLI BALLOLA, Beethoven (Milano, 1967)


M . CHOP, Le nove sinfonie di Beethoven (Milano, 1953)
L. DA PONTE, Memorie (Milano, 1960)
A. EINSTEIN, Mozart (Milano, 195 1 )
c . FUSERO, Mozart (Torino, 1947 )
K. GEIRINGER, Haydn .. (London, 1946)
.

J. v. HOCQUARD, Mozart (Milano, 1960)


s . KIERKEGAARD, L'eros in musica (Genova, 1913 )
L. MAGNANI, I quaderni di conversazione di Beethoven (Milano, 1962)
L. MAGNANI, Goethe, Beethoven e il demoniaco (Torino, 1976)
E. MO RICKE, Mozart in viaggio verso Praga (Milano, 1955)
B. PAUMGARTNER, Mozart (Torino, 1956)
R. ROLLAND, Vita di Beethoven (Milano, 1949)
L. RONGA, Bach, Mozart e Beethoven (V. sopra)
G. SCUDERI, Le sonate per pianoforte di Beethoven (Milano, 1933 )
L. VALETTA, I quartetti di Beethoven (Milano, 1948)
G. ZÀCCARO, Beethoven, o della sconvenienza (Roma, 1979)

Cap. 10
F. ABBIATI, Verdi (Milano, 1959)
H. BERLIOZ, L'Europa musicale da Gluck a Wagner (Torino, 1950)
c. BOURNIQUEL, Chopin (Mihmo, 1962)
G. CARLI BALLOLA, «Mercadante e Il Bravo», ne Il melodramma ita-
liano dell'Ottocento (Torino, 1977)
C. GATTI, Verdi (Milano, 195 1 )
G. GAVAZZENI, Donizetti (Milano, 1937)
A. GRAMSCI, Il Risorgimento (Torino, 1954)
A. GRAMSCI, Letteratura e vita nazionale (Torino, 1950)
z. JACHIMECKI, Chopin {Milano, 1962)
M. MILA, Il melodramma di Verdi (Bari, 1933)
H. J. MOSER, Weber (Lipsia, 1955 )
B. NOTARNICOLA, Mercadante (Roma, 1945)
F. PASTURA, Bellini secondo la storia (Parma, 1955)
'
J. G. PROD HOMME, Berlioz (Paris, 1904)
G. VERDI, Autobiografia dalle lettere (Milano, 1951)
G . ZAVADINI, Donizetti (Bergamo, 1948)

Cap. 1 1
T. w. ADORNO, Wagner e Mahler (Torino, 1966)
M. BRION, Schttmann (Milano, 1958)
A. BRUNEAU, Massenet (Paris, 1935)
A. EINSTEIN, Schubert (Milano, 1970)
K. GEIRINGER, Brahms {Milano, 1952)
T. MANN, «Grandezza e dolore di R. Wagner», in Nobiltà dello spi-
rito (Milano, 1953)
s. MARTINOTTI, La musica sacra di Bruckner (Torino, 1965)
S. MARTINOTTI, A. Bruckner (Parma, 1973 )
A. OBERDORFER, Wagner (Milano, 1933)
C. ROSTAND, Liszt (Milano, 196 1)
R. SCHUMANN, La musica romantica (Milano, 1958)
R. WAGNER, La mia vita (Torino, 1953 )
R. WAGNER, L'opera d'arte dell'avvenire (Milano, 1963)
204 BIBLIOGRAFIA

VARI, A. Bruckner: Symposium (Genova, 1958)

Cap. 12
BIELINSKI, HERZEN, CERNICEWSKI, Jl pensiero democratico russo del
XIX secolo (Firenze, 1950)
L. PESTALOZZA, La scuola nazionale russa (Milano, 1958)
]. TIERSOT, Smetana ( Paris, 1926)
K. V. WOLFURT, Ciaikovski (Milano, 1961)
G . ZÀCCARO, Ciaikovski (Caltanissetta, 1967)

Cap. 13
T. w. ADORNO, Wagner e Mahler (v. sopra)
M. CARNER, Puccini ('Milano, 1961)
u. DUSEW, Mahler (Padova, 1962)
o. ERHARDT, R. Strauss (Milano, 1957)
G. GUERRINI, Busoni {Firenze, 1944)
v. JANKÉLÉVITCH, Ravel (Milano, 1962)
A. MACHABEY, Ravel (Parma, 195 1 )
A. MAHLER, Gustav Mahler, ricordi e lettere (Milano, 1960)
J. PAHISSA, Manuel De Falla (Milano, 1961)
L. PINZAUTI, Puccini {Torino, 1975)
G. PUGLIESE, Mahler (Milano, 1976)
E. SICILIANO, Puccini (Milano, 1976)
1. sTRAWINSKI, Poetica della musica (Milano, 1954)
L VALLAS , Debussy (Parma, 1952)
R. VLAD, Strawinski (Torino, 1958)
G. ZÀCCARo, Mahler (Milano, 1971)

Cap. 14
T. w. ADoRNo, Filosofia della musica moderna (Torino, 1959)
F. CAGIANELLI, Fra fenomenologia e strutturalismo: l'opera temica di
A. Schonberg (Perugia, 197 1 )
W . FURTWANGLER, Il caso Hindemith (Milano, 1958)
T. MANN, Doctor Faustus {Milano, 1949)
T. MANN, Romanzo di un romanzo (La genesi del «Doctor Faustus» )
(Milano, s.d.)
G. MANZoNI, Schonberg (Milano, 1975)
L. ROGNONI, La scuola musicale di Vienna (Torino, 1966)
L. ROGNONI, Fenomenologia della musica radicale (Bari, 1966)
J. RUFER, Teoria della composizione dodecafonica (Milano, 1962)
F. w. STEIN, Reger ('Potsdam, 1959)
R. VLAD, Modernità e tradizione della musica contemporanea ( Torino,
1955)
A. WEBERN, Verso la nuova musica (Milano, 1963)
G. ZÀCCARo, Schonberg e la nostra coscienza critica (Roma, 1977)

Cap. 15
A. BERG, Lettere alla moglie (Milano, 1976)
BIBliOGRAFIA 20)

H. EISLER, Con Brecht (Roma, 1978 )


H. EIS LER, Musica della rivoluzione (Milano, 1978)
M. R. HOFMANN, Prokoftev {Paris, 1963)
L. LOMBARDI, «Rivoluzione della musica e musica della rivoluzione.
H. Eisler o di un'alternativa». In «N.RM.l.» n. 3-4, 1973
L. LOMBARDI, «A colloquio con P. Dessau». In «N.RM.l.» n. 2, 1974
P. PETAZZI, Berg ( Milano, 1977)
L. POLIAKOVA, La musique soviétique (Mosca, 196 1 )

Cap. 16
G. M. GATTI, Pizzetti (Milano, 1954)
G. F. MALIPIERO, Il filo di Arianna (Torino, 1966)
Fascicolo dell'«Approdo musicale» dedicato a A. Casella (Torino, 1958)
Fascicolo dell' «Approdo musicale« dedicato a Malipiero (Torino, 1960)
Quaderno della «Rassegna Musicale» dedicato a Petrassi {Torino, 1964)
Quaderno della «Rassegna Musicale» dedicato a Dallapiccola (Torino,
1965 )
VARI, Luigi Dallapiccola (Mil-.mo, 1975 )

Cap. 17
M. BORTOLOTTO, Fase seconda (Torino, 1968)
J. CAGE, Silenzio {Milano, 1971)
c . CARDEW, Stockhausen al servizio dell'imperialismo (Milano, 1976)
F. DONATONI, Questo (Milano, 1970)
M. MILA, Maderna, musicista europeo (Torino, 1976)
G. ZÀCCARO, In nome della falsità, e poi, se possibile, della verità
(Studio sulla nuova e nuovissima musica) ( Latina, 1978)
INDICE

p. 7 Premessa

STORIA SOCIALE DELLA MUS ICA

15 l . Prima del Cinquecento


22 2. L'aristocrazia del Cinquecento
33 3. La grande crisi religiosa : Riforma e Controriforma
43 4. I l profano nel Sei e nel Settecento
54 5. Lo sviluppo della borghesia luterana
63 6. Lo sviluppo del pubblico e dell'imprenditoria
72 7. Conquiste e contraddizioni dell'Illuminismo
80 8. L'Italia lacerata : i suoi esuli e il suo passato
90 9. Tardo Illuminismo ed èra nuova
l O5 l O . I grandi nazionalismi
120 1 1 . Dopo il 1848
136 12. I grandi movimenti slavi
144 13. Fra Ottocento e Novecento : crisi e degenerazione
164 14. Le illusioni del nuovo Umanesimo
176 1 5 . L'alternativa proletaria
186 16. L'affratellamento nella barbarie
1 93 l 7 . La fine della cultura

20 1 Bibliografia
Paperbacks
Pubblicazione settimanale, 28 luglio 1979
Direttore responsabile: G. A. Cibotto
Registrazione del Tribunale di Roma n. 16024 del 27 agosto 197.5
Stampato per conto della Newton Compton editori s.r.l., Roma
dalla Tipografia «A. C. Grafiche», Città di Castello

Potrebbero piacerti anche