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MUSICALE
DI GAETANO MANARA
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provvisato, ossia, vedere la dialettica che nasce tra le proprie conoscenze
pregresse e l’idea di un fare artistico che si svolge sul momento. Mi spiego
meglio: improvvisazione è un termine che non di rado viene caricato di
una sfumatura negativa. Colui che improvvisa, comunemente, sembra na-
scondere una mancanza di preparazione, una qualche inadeguatezza, o la
poca cura nello svolgimento di un’azione. Non di rado, poi, tale modo di
pensare considera l’improvvisazione un miracolo della spontaneità. Essa
richiede invece, da parte dell’artista, una grossa mole di studio precedente
al suo atto di creazione-esecuzione. Non solo: l’improvvisazione oltre a
richiedere una lunga preparazione e conoscenza specifica, non è avulsa dal
riferimento alla tradizione ed ai modelli.
Questo articolo dapprima giustificherà l’esistenza di modelli para-
digmatici e di trame che scorrono all’interno della spontaneità e creatività
che l’artista è chiamato ad evocare, e in un secondo momento li indagherà
in maniera più profonda, mettendoli in contatto con le necessità di un’arte
estemporanea, quell’arte che, come si è sopra detto, fa della spontaneità
uno dei motivi di maggiore interesse.
Preludio
Una musica. Soave, armoniosa. I suoni dei timbri più acuti salivano
e scendevano ritmicamente sulla tastiera dell’organo della Sankt Katharinen
Kirche della città di Amburgo. Le dita del musicista, si rincorrevano rapide
seguendo un ordito non fissato su alcun foglio di carta, i pedali dell’orga-
no invece facevano da soffuso tappeto alla lucida materia delle canne più
alte. Lui sedeva lì; sembrava che il suo stesso gesto fosse musica e i tasti
prolungamento delle sue dita, guardava fisso davanti a sé, traendo dalla sua
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stessa fantasia immagini lontane che univa alle melodie che gli sgorgavano
sul momento dal cuore. Il vecchio maestro Reincken, seduto in prima fila,
ormai centenario, non credeva a ciò che stava ascoltando. Senza l’aiuto
di spartito alcuno, questo famoso musicista improvvisava magistralmente
sulle note del corale che qualche anno prima egli stesso aveva composto
e suonato, An Wasserflüssen Babylon, “Sui Fiumi di Babilonia”, il lamento
degli Ebrei deportati lungo le rive dell’Eufrate. Tutto in suo onore. L’im-
pasto sonoro aveva ammaliato tutti, la forza e la facilità con cui i suoni si
susseguivano uno dopo l’altro illudeva che quella melodia fosse scritta da
molto tempo, anzi, che fosse da sempre incisa sulla volta della navata. Un
miracolo a cui solo loro, seduti sugli scranni di quella chiesa nel novembre
di quel freddo 1720, avrebbero potuto assistere. Nessun orecchio umano
avrebbe più udito quelle note e questo probabilmente lo stesso Reincken
lo sapeva bene.1
Nel corto circuito dei secoli un’altra musica si sovrappone, cam-
biano i generi, tramontano gli uomini, ma l’intenzione rimane la stessa:
creare stupore. Dal nulla una tromba dal timbro alto e squillante, richiama
dentro uno dei Club della Cinquantaduesima strada, The Street, negli anni
quaranta del secolo scorso. La notte newyorkese rimane in ascolto delle
star del jazz, ed in particolare delle improvvisazioni melodiche del principe
delle tenebre2 come venne poi chiamato. Dall’altro lato della strada, gli
1 Episodio storico narrato nel necrologio per Johann Sebastian Bach (1685-1750)
scritto dal figlio. Si narra che al termine dell’esecuzione Reincken si avvicinò a Bach
dicendogli: «Credevo che quest’arte fosse morta, ma vedo che vive ancora in voi!»
citato in D. YEARSLEY, Bach’s Feet: The Organ Pedals in European Culture, Cambridge
Univ Pr, Cambridge, 2012. Per un ascolto del brano su cui probabilmente
improvvisò Bach https://www.youtube.com/watch?v=dw2lfN_Knn4
2 Prince of Darkness, soprannome dato a Miles Davis (1926-1991) grande
compositore e trombettista Jazz. Allude alla qualità “notturna” della sua musica,
alla sua voce roca e raschiante, le sue sonorità languide e melodiche. Ascolto
https://www.youtube.com/watch?v=bCa3iyBekCs
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fanno eco altre musiche colte anch’esse sulle ali del presente imprevisto: il
suono strozzato del sax, quello di un pianoforte dagli accordi vibranti, un
clarinetto che cerca di attrarre a sé le attenzioni del pubblico. Insieme cre-
ano un’atmosfera, l’atmosfera della notte che lì è viva e sembra non voler
lasciar spazio al giorno. È il periodo d’oro della musica jazz e siamo invitati
all’interno di questi locali in jam session3 che termineranno solo quando
l’alba spunterà, lontano, all’inizio della Strada.
Due uomini: l’immortale Bach e Miles Davis. Il loro prodotto
artistico appare distantissimo, forse si tratta anche di un accostamento
imbarazzante: il genio della musica occidentale e uno dei maggiori espo-
nenti di una corrente musicale, più recente e considerata meno colta ri-
spetto alla grande tradizione strumentale. Tradizione che fissa il proprio
prodotto sulla carta, perché venga udito anche da coloro che vengono
dopo. Diversi strumenti, storie lontane, vissuti inconciliabili, la polvere
dei secoli li separa eppure, presi insieme, ci parlano di qualcosa che non
è sono la grandezza di quell’arte che è la musica, capace di muovere mi-
lioni di sensibilità più di ogni altra forma artistica. Qualcosa in grado di
tenere legate strettamente le solenni note proferite all’organo di Bach e
quelle melodiose e stravaganti della tromba di Miles. Esiste questa unio-
ne, ed essa affonda le radici alle origini della cultura musicale del nostro
occidente, delle stesse potenze cui l’arte attinge per tenere a battesimo
se stessa. Essa è la prassi musicale dell’improvvisazione. Intuito, genio,
tradizione e memoria, forma e colore in essa tutto si unisce e dà sen-
so. Un senso antico perché è quello che non è legato alla perfezione, è
quello che nasce e si nutre della stessa occasione, dello stesso evento,
quello imprevedibile, come sono, tra l’altro, tutte le nostre azioni umane.
3 Riunione di musicisti che si ritrovano per una performance musicale senza aver
nulla di preordinato, di solito improvvisando su griglie di accordi e temi conosciuti
(standard).
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Una sorta di primum, l’inizio dell’arte stessa e della sua modo di essere
tramandata.
L’improvvisazione
4 G. Zen, L’improvvisazione musicale come nemica del platonismo musicale, Università Ca’
Foscari di Venezia, Paper.
5 Cfr. D. SPARTI, Suoni inauditi. L’ improvvisazione nel Jazz e nella vita quotidiana, il Mulino,
2005, Bologna, pp. 118-119.
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1. Inseparabilità. Come primo criterio per parlare dell’improvvisazione
egli mette a confronto i due poli della composizione e dell’esecuzio-
ne di un brano musicale. Si dirà che un materiale è improvvisazione
in base “al grado in cui composizione ed esecuzione convergono nel
tempo”, il caso limite è la loro coincidenza.6
L’atto del comporre e l’atto dell’eseguire sono nell’improvvisazio-
ne inseparabili. Questa è una prima caratteristica che distingue in
maniera radicale l’improvvisazione dalla creatività compositiva che
implica un lavoro anche piuttosto lungo di rifinitura. Uguale pen-
siero è condiviso da Alberto Braida, noto pianista italiano che dice:
“Le due cose [composizione ed esecuzione] si fondono così tanto
l’una con l’altra che è difficile pensarle come dimensioni distinte
dell’improvvisare”.7 Possiamo specificare che tale inseparabilità va
ad indicare anche la persona che compone con quella che esegue,
anzi, di fatto, porta a un legame così stretto da poter affermare che
tale persona sarà anche l’unica che eseguirà tale lavoro. Lo stesso
vale per il pubblico che sarà anche l’unico che ascolterà dal vivo
quella musica. Il pubblico, in questo caso, ha anche la possibilità di
trovarsi di fronte allo stesso processo creativo del musicista. Cosa
che invece non accade quando si ha a che fare con una musica quale
prodotto distinto di un compositore e di un esecutore. Una bella
espressione di Emanuela Ferrari contribuisce a farci cogliere la par-
ticolarità della congiunzione di questi due momenti e che possiamo
utilizzare come una prima definizione dell’improvvisazione: “Dare
forma nell’istante”.8
6 Ivi, p. 117.
7 A. BRAIDA, L’improvvisazione: pratica di libertà e gioia di vivere? All’interno di F. Cappa-C.
Negro (a cura di), Il senso nell’istante, improvvisazione e formazione, ed. Angelo Guarini,
Milano, 2006.
8 E. FERR ARI , Esecuzione musicale ed improvvisazione, in F. C APPA-C. NEGRO (a cura
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2. Originalità. Ogni improvvisazione è differente dagli altri atti di com-
posizione/esecuzione che la precedono e da quello che la seguiran-
no. Potere di sorprendere, capacità di spingersi nell’ignoto, desiderio
di andare verso qualcosa di nuovo, di esplorare nuove strade. Un
processo che mentre si svolge inventa il proprio modo di procede-
re9. Come sottolinea Sparti, però, non si tratta mai di un’originalità
assoluta, ma sempre di un’originalità che ha ben presente la tradizio-
ne e i richiami che ad essa si ascrivono. Di questo si tratterà meglio
in un secondo momento.
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se si farà un’incisione di quel breve attimo. Sarà riproducibile solo
nelle fredde casse acustiche di qualche apparecchio perdendo il con-
tatto vivo con lo strumento e con l’evento stesso.
Sparti definisce questa componente anche situazionalità.10 Si vuole
così sottolineare come l’agire nel qui ed ora comporta una notevole
influenza sulla musica da parte del luogo dove si suona e del pubbli-
co. Se si esegue la Pastorale di Beethoven a Roma o a Vienna, l’esito
rimane simile, ed in ogni caso non attacca la sostanza del brano, ma
il fatto stesso che il brano improvvisato venga deciso in situ com-
porta invece un certo peso dell’ambiente nella ricerca dell’artista.11
4. Irreversibilità. In generale tutto il nostro umano agire rimane irrever-
sibile, cioè siamo sempre costretti a percorrere la linea temporale in
un solo verso. Ma dal punto di vista della musica, il compositore nel
suo studio non si trova sotto i riflettori del pubblico e può quindi
beneficiare della possibilità di cancellare una battuta, ritornare indie-
tro, riscrivere. Chi improvvisa non può tornare a suonare lo stesso
brano correggendosi, almeno non davanti allo stesso pubblico. Per
l’improvvisazione non esiste l’istituto del perdono. I tentativi di re-
visione possono essere fatti in itinere, ma diventano parte integrante
della stessa musicalità e della stessa opera.
A questo proposito Sparti dice in maniera magistrale: “Per questo
il jazzista vive il tempo della sua improvvisazione come il tempo ef-
fimero della sua esistenza; un tempo che ha il marchio del divenire
umano, contrassegnato dal fascino della natalità, di ciò che si ma-
nifesta per la prima volta, e dalla tragedia della caducità, di ciò che
- dopo essersi delineato – è destinato a scomparire per sempre.”12
10 Ibidem.
11 Ivi, p. 126.
12 Ibidem.
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5. Responsività. Il carattere fondamentale, ma anche quello i cui mec-
canismi sono più oscuri da comprendere: l’improvvisazione com-
porta una grossa componente attenzionale e la responsività è quella
capacità di reagire repentinamente ai cambiamenti introdotti nella
musica, riuscire a prendere decisioni immediate che influenzino il
corso del brano. Questo processo non è tipico dalla razionalità ma-
tematica, ma passa attraverso una razionalità eminentemente prati-
ca. Chi compone infatti ha la possibilità di ragionare molto a lungo,
di tornare su quanto scritto, di vedere e provare al pianoforte che
le combinazioni armoniche trovate siano adatte e rispettino tutti i
canoni che l’orecchio richiede. Chi improvvisa, invece, è un decisore
coatto, costantemente indotto a fare scelte su come andare avanti.
6. Aggiungerò infine un’altra caratteristica fondamentale che viene
citata da Sparti in un suo lavoro successivo.13 L’improvvisazione
è tipicamente processuale.14 Il compositore ha tutto il tempo di ri-
pensare la propria opera, il processo passa in secondo piano e di-
venta invece rilevante, anche ai fini della valutazione, il testo più
o meno elaborato che produce. L’improvvisazione, invece, non
risolvendosi in un prodotto esterno, è costantemente produtti-
va ed espone al pubblico la sua stessa pratica. “Una performance
improvvisata esporrà non un’opera d’arte, ma l’esposizione stes-
sa come forma d’arte”. Si capisce quindi un’ultima caratteristica
dell’improvvisazione: essa non è strettamente teleologica: non va alla
ricerca di un fine, e l’arresto del processo non è detto che coincida
con il suo compimento. La composizione non va oltre il tempo
più o meno lungo determinato dallo spartito, l’improvvisazione
13 Ibidem.
14 Cfr. PH. A LPERSON, On musical improvisation, in “Journal of Aesthetics and Art
criticism” 43 (1) p. 24
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invece è probabilmente interminabile a prescindere che le energie
fisiche vengano meno, perché non fa che esporre continuamente
se stessa, in una continua ricerca.
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realizza”.16 Bertinetto17 osserva come questa definizione data dal Pareyson
dell’opera d’arte sia incredibilmente simile alla formula che lo stesso Sparti
adotta per descrivere l’improvvisazione: “agire che mentre si svolge in-
venta il proprio modo di procedere”,1819 e infatti l’improvvisazione crea
da sé la propria regola d’agire e il proprio contesto mentre si pone in atto.
Ecco quindi che l’improvvisazione non è più un territorio estraneo all’ar-
te, anzi, forse ne diventa l’esemplificazione più chiara. Bertinetto va oltre:
l’improvvisazione può, nell’ottica della formatività, essere assunta come il
modello esemplificativo del fare artistico tout court.
Chimere
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mente analizzabile poiché saldamente ancorato ad una indeterminatezza
che si rifà alla singolarità irripetibile dell’uomo. Questa posizione non è
cosi peregrina come appare: lo stesso Sparti cita l’esistenza di manuali e
dizionari del jazz in cui spesso l’improvvisazione viene vista come una
sorta di “miracolo della spontaneità”.20
Esiste quindi una buona mitologia intorno all’improvvisazione,
anche nelle mente della gente comune, che esalta l’esistenza di una inter-
pretazione pura, scevra da qualsiasi passato e da qualsiasi insegnamento.
Berliner non solo precisa come le definizioni popolari dell’improvvisa-
zione enfatizzino unilateralmente la sua natura spontanea ed intuitiva, ma
anche condanna l’incompletezza di tali espressioni.21 Infatti, come sotto-
linea bene Emanuela Ferrari, “l’improvvisazione pura è una chimera”22
almeno quanto l’idea che sia possibile cancellare totalmente, fare tabula
rasa di noi stessi e del nostro passato. Presa di posizione condivisa dalla
maggior parte della letteratura sul tema. Sempre il nostro Sparti mette
in guardia dal non farsi sedurre dalla “mitologia dell’improvvisazione
come qualcosa di assolutamente germinale, che avrebbe luogo nel regno
dell’assoluta libertà, senza l’ausilio di memoria”.23
Forse il più grande organista del ventesimo secolo, Jean Langlais,24
ripeteva spesso che l’improvvisazione non si improvvisa25 e si potrebbero
riportare molti altri celebri aforismi in proposito.
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L’improvvisazione non è mai qualcosa di nativo in sé; parte portante
della nostra analisi è voler indagare allora quali siano le basi, il sostrato che
un musicista deve avere a disposizione per improvvisare.
È un’apparente contraddizione, rispetto al concetto di improv-
visazione, fornire regole rigide, schemi, ma non si può immaginare che
nell’improvvisazione appunto ci sia un libero creare, un fluire di idee e di
sensazioni che si ritrovano poi unite in un’invenzione musicale. La nostra
musica infatti per come è nata, il nostro stesso orecchio, obbediscono a
precise regole di linguaggio da cui anche l’improvvisazione non può pre-
scindere, o almeno non in maniera completa.
Da qualche parte infatti si deve cominciare, l’idea stessa di una totale
libertà musicale probabilmente toglierebbe la stessa possibilità di incomin-
ciare un’improvvisazione, sono infatti necessari dei confini, dei riferimenti,
o meglio dei modelli, altrimenti l’impresa sarebbe la stessa di scalare una
parete completamente liscia, che non dia la possibilità di alcun appiglio. “Si
improvvisa sempre su qualcosa”.26
E' interessante notare come sul rovescio della medaglia, ovvero nel
campo della composizione scritta, confrontandoci con la quale nella prima
parte si sono trovati gli elementi caratterizzanti dell’improvvisazione, non
esiste neanche un’esecuzione completamente fedele ed attaccata allo spar-
tito musicale. Non esiste cioè un’esecuzione pura quanto non esiste l’im-
provvisazione totale. La notazione non permette di determinare tutti gli
elementi in gioco nell’esecuzione di un brano, il compositore non lascerà
mai a chi suona una sola possibilità di realizzazione. Si tratta di un’insuffi-
cienza della notazione musicale27.
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Tradizione e memoria
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2. Lo stile a cui ci si ispira.
3. Un repertorio di brani che colui che si esibisce conosce già, cioè che ha
nella propria memoria ed in un modo o nell’altro ad essi si richiama.
4. Molto spesso anche degli standards. Questi sono brani divenuti clas-
sici e che fungono da test per la bravura dell’esecutore.
5. La grammatica, citata per ultima, ma in realtà la vera e propria base,
anche solo per incominciare, di un’improvvisazione. Si parla, per
esempio, della definizione della tonalità, cioè il complesso dei rap-
porti che legano le note e gli accordi ad una nota chiamata fonda-
mentale sulla base di una scala (nel nostro sistema musicale mag-
giore o minore). Ancora fanno parte della grammatica la struttura
ritmica del brano che nella nostra musica si misura con una precisa
notazione (per esempio 4/4 o 3/8). Anche la struttura ritmica è
fondamentale, essa è la sequenza degli accordi su cui il brano si fon-
da, in maniera colloquiale si usa dire “il giro di accordi”. C’è poi la
forma della melodia cioè il modo in cui il brano verrà suddiviso, per
esempio sei battute di strofa e quattro di ritornello.
I gradi dell'improvvisazione
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ne. Sparti parla di “gradi di improvvisazione” nel continuum che si rivela nella
prassi tra composizione e improvvisazione.31 Si tratta di gradi crescenti di
cambiamento e se ne possono individuare almeno quattro:
31 Ivi, p. 124.
32 Termine tecnico nel jazz significa modello e come tale deve essere considerato; è
in pratica un suggerimento melodico scritto dal quale trarre idee per cercare un
linguaggio personale.
33 Cfr. H. BECKER, The Etiquette of Improvisation, in “Mind, Culture and Activity”, 2000,
vol. 7, n. 3, pp. 171-176.
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in secondo piano, non che essi scompaiano, ma diventano più spontanei e
permettono invece di godere dei piccoli dettagli del paesaggio, addirittura
di scoprire scorciatoie ed angoli nascosti. Tutti gli elementi e i model-
li indicati in precedenza sono proprio i landmakers dell’improvvisazione.
Ecco che appare chiaro come l’improvvisazione si basi sempre su una
solida struttura, e che essa necessiti di una profonda assimilazione di tutti
questi componenti. Ma non si parla solamente di jazz! Spero che riportare
un’esperienza personale possa essere utile a comprendere meglio la gene-
si si un’improvvisazione. Preparando forse uno dei concerti più belli per
violoncello solo, il concerto n. 1 in do maggiore di Haydn, alla fine del
primo tempo, il moderato, è richiesta una cadenza. La cadenza è una va-
riazione virtuosistica svolta dal solista nella fase finale di un brano. Prima
del diciannovesimo secolo non veniva messa per iscritto perché si lasciava
tutto all’estro improvvisato dell’esecutore.34 Ora, in genere, è riportata in
piccolo, alla fine dello spartito, una cadenza spesso trascritta dallo stesso
compositore, che è ormai prassi eseguire senza lasciar spazio a fantasie. E
perché non provare a creare una cadenza propria? All’inizio si ha un vuoto
pneumatico, non si sa cosa fare, si prova ad ascoltare qualche esecuzione
famosa, molti eseguono quella scritta, altri, pochi, si discostano35… vengo-
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no ripetuti stilemi tipici del brano, come in questo caso le sestine ribattute
sulla corda vuota, si aggiunge, ecco un primo punto di riferimento, poi si
suona un gruppetto, un abbellimento, e si va così a tentativi… ogni volta
qualcosa di diverso, alcune volte per nulla soddisfacente, altre volte si sal-
vano le parti che piacciono di più e si cercano di riproporre variate nella
successiva esecuzione. Si esplora, ed esplorando il testo sembra più vivo, la
musica inizia a diventare propria. Nessun miracolo, ci si accorge di quanto
lavoro sia necessario per improvvisare sul serio. Sono piccoli tentativi, un
punto di partenza… insomma una base all’improvvisazione.
Al di là dei modelli
L’episodio appena narrato può essere utile perché ci apre una nuova
strada. Nella cadenza di Haydn non ci si deve limitare a riproporre la melodia
già esposta grazie allo studio nel corso del brano, bisogna scoprire e cercare
una svolgimento sulla traccia di una nuova originalità. L’ordito dell’improv-
visazione infatti da una parte è composto dalla trama della tradizione e della
memoria, dall’altra da quella dell’innovazione: l'ostinata ricerca di qualcosa di
nuovo. L’improvvisazione non consiste, infatti, soltanto nella combinazione
di modelli e di linee melodiche preconfezionate36 come si trattasse solo di un
magazzino a cui attingere le risorse. Se l’improvvisazione consistesse soltan-
to in un assembramento di frasi preconfezionate i risultati sarebbero cata-
strofici: non ci sarebbe alcuna continuità, la musica risulterebbe poco fluida,
farraginosa, come se chi improvvisa dovesse “consultare il catalogo delle
sue frasi fatte” per poi stabilire con una procedura dispendiosa quali fare.37
www.youtube.com/watch?v=72JClSO5fPM
e quella eseguita ed ideata da Mstislav Rostropovich, forse il più grande violoncellista
di sempre, al minuto 7:26 https://www.youtube.com/watch?v=eU5KdY_04kU
36 D. SPARTI, Suoni inauditi, cit., p. 133.
37 Ibidem.
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Una celebre frase di Miles Davis ci fa capire che c’è qualcosa che ci
fa superare questo stallo: “L’improvvisazione è andare al di là di ciò che
si sa”.38
È in questa componente va trovata l’originalità del jazz e dell’im-
provvisazione in generale.39 La tradizione, per quanto indispensabile, deve
essere solamente un trampolino di lancio per l’originalità vera e propria e
per la creatività.
L'improvvisazione: le forme
38 Riportato da P. DAMIANI nel saggio L’arte dell’improvvisazione, un sapere nel mentre si fa,
in G. L A FACE BIANCONI-A. SCALFARO, La musica tra conoscere e fare, ed. FrancoAngeli,
2011.
39 Vedi capitolo primo, p. 4.
40 E. FERRARI, op.cit., p. 126.
41 A. WILLS, L’organo, la storia e la pratica esecutiva, Franco Muzio editore, Padova, 1987,
p. 211.
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Bruckner erano noti improvvisatori e si può essere sicuri che quest’arte
veniva praticata anche dai loro contemporanei meno dotati.42 Le due
forme di improvvisazione che si analizzeranno in questo capitolo sono
quelle che oggi godono ancora di una certa vivacità, cioè vengono an-
cora praticate e il loro studio viene trasmesso ed ascoltato. Sto parlando
della grande prassi organistica e dell’improvvisazione nel jazz. Questa
scelta, per quanto riduttiva, servirà a darci almeno un assaggio di cosa
significhino nel concreto i modelli che nel secondo capitolo abbiamo
enunciato in maniera generale. Il bacino di raccolta dell’improvvisazione
infatti è molto ampio, quindi mostrare le differenze e, perché no, anche
le dissonanze che questa pratica tiene unite aiuta a dare un quadro com-
pleto a questo lavoro.
L’organo
42 Ibidem.
43 A. WILLS, op.cit., p. 212.
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dalla tradizione liturgica che pescano sia nella musica medievale, il canto
gregoriano, e poi via via a tutte le composizioni sul genere fino a quelle di
anni più recenti. Non di rado l’organista si basa su una melodia che poi
ritornerà nel corso della messa, per esempio durante la comunione di un
eventuale coro viene richiesto un preludio basato sull’inno che poi deve se-
guire o magari può essere necessario aggiungere qualche rigo alla fine di un
inno per coprire il tempo in cui si completa il raccoglimento, o ancora un
postludio di una certa estensione alla fine del servizio.44 Questi brani, una
volta immagazzinati e memorizzati, uniti ad una approfondita conoscenza
dello strumento, permettono quindi all’esecutore di realizzare pienamente
le proprie idee che nascono sull’estro del momento.
Ma i modelli in questo caso fungono anche da punto di partenza per
imparare la stessa pratica. La base dello studio si fonda infatti sull’utilizza-
zione del materiale preesistente e sull’approccio contrappuntistico. Questo
materiale preesistente può essere un cantus firmus o una melodia corale45.
Riporto l’esempio di un cantus firmus al quale si chiede per esempio
di aggiungere una o più parti superiori al basso senza l’ausilio della nota-
zione (le note in piccolo sono un possibile svolgimento dell’esercizio).
44 Ivi P. 226.
45 Ibidem.
46 Ivi p. 213
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Il modello presentato è elementare, ma ci permette di fare qualche
veloce considerazione.
• Con esso si impara a pensare con un certo anticipo le note che segui-
ranno. Le note vengono lasciate alla libera creatività dell’artista nel ri-
spetto delle regole armoniche dettate dalla nostra tradizione musicale.
• Il basso in qualche modo, in seguito a vari tentativi, entra a far parte
della memoria dell’artista, che poi potrà riprodurlo tutto o in parte
durante una successiva esecuzione.
• L’esecuzione sarà sempre diversa, si terrà memoria di quelle preceden-
ti, ma mai in maniera nitida e questo permette la continua creatività.
• Si comprende bene cosa si intendesse quando si parlava di riferi-
menti, il modello diventa punto di partenza e di riferimento.
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Salve regina, frammento in notazione gregoriana.50
Al minuto 1:31 è evidente il tema d’inizio del “Salve” che viene ri-
proposto immediatamente per imitazione su una diversa ottava, ma con
differente conclusione. Tale inizio viene poi riproposto al minuto 3:14 ma
con un ampia aggiunta di note che formano una scala sulla tastiera. Il resto
del brano è slegato dal tema originale, ma un orecchio allenato sarà capace
di ritrovare brevissimi richiami al tema principale, di cui si cerca di dare
un’ampia armonizzazione.
A volte l’esecutore può decidere di non riferirsi in maniera espli-
cita ad un tema preesistente. Posto che in realtà, anche se in maniera
latente, forse perfino allo stesso esecutore esso si riferirà a qualche
melodia presente nella memoria, anche in questo caso non si esula da
modelli di riferimento. All’organista è sempre richiesta prima di tutto
un’utilizzazione coerente e proporzionata del materiale che vuole utiliz-
zare e la capacità di tracciare uno schema di tonalità logico e bilanciato.
Per esempio un’improvvisazione di tipo contrappuntistico si centra sul-
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lo sviluppo di una singola linea melodica che può seguire per esempio
questo schema.51
Nel corso della sua storia evolutiva, iniziata nel secolo scorso, il Jazz vanta
una ramificazione in una gran quantità di stili e sottogeneri, non tutti com-
pletamente capiti, approfonditi, sviluppati. Solamente per darne un’idea si
possono ricordare alcuni tra i più importanti: Bebop, Cool Jazz, Hard bop,
Jazz modale, Free Jazz, Jazz-rock etc… Descrivere il Jazz risulta così un’im-
presa ardua come anche rintracciare i modelli caratterizzanti ogni singola
corrente. Faremo quindi alcuni esempi paradigmatici.
Già nelle sue origini il Jazz ha dei modelli a cui riferirsi: la sua strut-
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tura, infatti, nasce sicuramente dal Blues e ad esso si richiama, ma spesso si
rifà anche alla reinterpretazione di brani popular.52
Sparti ci fornisce alcuni degli schemi tipici. Un brano Jazz consiste
in una melodia eseguita sopra una sequenza o progressione di accordi.53
Il brano è spesso scomponibile in quattro sezioni, le quali, nel complesso,
formano un chorus, che di solito ha un modello metrico di trentadue battu-
te. Si tratta di quattro cicli di otto battute così suddivisi:
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come delle frasi di riserva per colmare i vuoti ed intervenire quando si è
a corto di idee.55
Richiamandoci al capitolo secondo dei possibili standards possono
essere canzoni provenienti da musical di Broadway o le ballata scritte da
Gerschwin,56 ma non solo.
Storicamente, nell’epoca in cui il Jazz era soprattutto una musica da
club trasmessa oralmente, i musicisti passavano ora ed ora e praticare la
musica a confrontarsi con i colleghi. In quel momento più che ora c’era
un’ampia circolazione di modelli. Esisteva una sorta di idolatria per i musi-
cisti più anziani e si imparava gli uni d’agli altri nelle jam session. È quella che
Sparti chiama “la comunità Jazz”.57 In essa molti brani venivano ascoltati
ed imitati. Gli strumentisti apprendevano quindi le trame della loro musica
nel confronto con gli altri anche all’interno delle vere e proprie esecuzioni.
Anche l’errore, in questo tipo di musica più che in altri, può poi
diventare esso stesso modello creato all’interno dell’esecuzione sul quale
poi insistere e svilupparsi. Riporto un aneddoto: durante un concerto del
secondo quintetto di Davis, Herbie Hancock suonò un accordo sbagliato.
Nel sentire l’insolita configurazione dei suoni, Davis, la usò come vettore
per la sua immaginazione musicale, elaborando una linea melodica del tut-
to inattesa.58 Nel jazz appare quindi rilevante non il fatto di aver commesso
un errore, ma il modo di suonare dopo che l’errore è stato commesso.
L’errore in una performance successiva potrebbe poi essere riproposto come
un vero e proprio modello.
Ora che il Jazz non è più una pratica tramandata solo oralmente, è
possibile anche con una semplice ricerca, trovare una notevole quantità di
55 Ivi, p. 157.
56 Ivi, p. 126.
57 Ivi, p. 128.
58 Ivi, p. 184.
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patterns. Come già accennato si tratta di suggerimenti melodici scritti da
memorizzare per poi trovare un linguaggio proprio.
Conclusioni
59 http://mattotto.org/modern-jazz-vocabulary-vol-2-ii-v-i/
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la creatività e la spontaneità di cui si parlava nell’introduzione, invece di
essere bloccate o in qualche modo offuscate dai modelli, sono in realtà
rese possibile da questi: senza non potrebbero esprimersi. In questo modo
si risolve anche la contraddizione di una prassi che riesca a conciliare il
massimo della spontaneità con l’uso degli schemi pregressi.
Dalla prima considerazione ne discende di conseguenza la seconda:
i modelli sono quelli che permettono che ci sia un’intesa tra artista e frui-
tore e tra artista ed altro artista. Sono il linguaggio comune che permette di
scambiare significato e che quindi rende l’improvvisazione dotata di senso.
Senza di essi, che fungono da base comune, il pubblico farebbe fatica a
comprendere l’artista.
Un altro spunto interessante: ancora una volta, anche nel campo
che sembra più lontano dall’interessarla, viene ribadita l’importanza della
tradizione. Come spesso si dice che non è possibile fare filosofia senza
conoscere la storia stessa del pensiero, così si può dire che non è possibile
improvvisare senza conoscere la storia del proprio genere, averne acquisi-
to i paradigmi, le tracce e i modelli che vengono trasmessi da esso.
Infine sono gli stessi modelli la condizione di possibilità della tra-
smissione della pratica dell’improvvisazione. Sono la costante, il punto in
comune, quelli che ne permettono la sua stessa apprensione. Su questo
punto si trovano d’accordo sia il lavoro sul Jazz di Sparti che quello sull’or-
gano di Wills.
Concludo con delle idee suggerite in “L’orgue, souvenir et avenir”
di Jean Guillou60
L’arte dell’improvvisazione si accorda con il suo interprete e aderi-
sce alla sua personalità fino a creare una nuova opera, l’improvvisazione
è sempre nuova creazione, essa tiene vivace l’arte stessa e il suo stesso
60 J. GUILLOU, L’Orgue, souvenir et avenir, Buchet/ Chastel, Paris, 1996, p. 246 e seguenti.
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divenire, è in grado di ridonare all’opera scritta e sepolta da tempo, una fre-
schezza che non guarda al passato, ma verso l’avvenire. L’improvvisazio-
ne quale furore poetico, movimento quasi mistico, dà nuova espressione
al sapere estetico dischiudendo strade non ancora provate, terre vergini
da esplorare. L’improvvisazione grazie ai suoi ingranaggi, il meccanismo
dell’immaginazione, i processi di elaborazione, l’esecuzione spontanea, ci
ricorda la stessa libertà dell’arte e della vita. Si formano infatti elementi che
obbediscono a leggi del loro proprio sviluppo e che determinano i loro
criteri immanenti.
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