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Letterature straniere &

issn 2038–6389
isbn 978–88–255–1588–6
doi 10.4399/97888255158866
pag. 121-142

Le due musiche della Comedìa


di Davide Fara


Presentazione del lavoro

Tempo fa, inoltrandomi nella lettura di Dante, colpì la mia attenzione la forte valenza
musicale del verso della Divina Commedia. A questo proposito tornarono utili le parole
del Contini: «Dante è un “impegnato” la cui parola è musica: ritmo e timbro, non solo
melodia» .
Il termine impegnato, qui, rende giustizia del clima storico in cui Dante operava,
al punto da diventare chiave di lettura e cifra simbolica politico–culturale di quel
tempo. Era un ambiente vivace, quello, in cui anche la musica, o meglio, il rapporto
musica–testo (col suo doppio carattere elitario e popolare) orbitava.
Ma col passare del tempo, quella che inizialmente appariva come una semplice
intuizione, ai miei occhi acquistò contorni sempre più evidenti, avendo di lì a poco
avuto conferma delle infinite possibilità che l’applicazione di una lettura musicale nella
Comedìa aveva . Dico da subito che vari ambiti disciplinari sono interessati da questo
tipo di approccio, legati sia al testo che alla musica. L’intento è quello di trovare per essi
un terreno comune di confronto, tra le diverse materie, intorno al testo dantesco: testo
che per sua natura accomuna più discipline. Si prospetta quindi — nella più rosea delle
ipotesi — anche la possibilità di prevedere uno studio integrato intorno al soggetto
dantesco.


Musica e poesia in Dante nella ricerca

Dopo un lungo e accumulato ritardo nel corso dei decenni è stato più volte affrontato
il tema della musica in Dante. Accanto al carattere più prettamente storico e musi-
cologico, nei passi individuati dagli studiosi , sono emersi anche gli aspetti legati alla
versificazione. Tuttavia, ad oggi, non esiste un lavoro sistemico sulla doppia (a volte
anche tripla) valenza musicale all’interno del verso dantesco.
Tra gli studiosi, che si sono occupati del tema, c’è — però — sostanziale accordo
circa il fatto che la musica in Dante non sia da leggere indipendentemente dalla sua
scrittura. Del resto è il poeta stesso ad affermarlo fin a partire dalla sua definizione di
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poesia: «poesim nichil aliud est quam fictio retorica musicaque poita» (De vulgari eloquentia,
II, IV, ). Nonostante questa indicazione dantesca, per certi versi chiara, oggi non
c’è accordo circa il significato proprio di tale affermazione. In generale si argomenta
l’attribuzione specifica del valore del tema della musica in poesia, perché in tal caso
— è stato osservato — si rischia di cadere nell’impressionismo, oppure di ampliare al
limite dello sconfinamento i contorni di una disciplina con un’“altra”, senza così poter
indicare con certezza il limite di dove inizi l’una e dove finisca l’altra.
È certo che la mole di lavoro per uno studio come questo ha dovuto imporre un
approccio settoriale al tema, per definizione quindi “limitato” alla porzione dell’argo-
mento trattato. E forse è stato proprio questo il must metologico che non ha consentito
di render pienamente conto del potenziale filosofico, pratico, compositivo che il tema
della musica impone a forma, stilistica, significato nella poesia dantesca.


La Musica nella Divina Commedia

Fondamentale è notare come ci siano almeno due tipi di applicazione della musica
nella Divina Commedia: ciascuno dei quali con degli sviluppi propri.

a) La musica tradizionale (ars musica), che comprende in parte anche quella delle
sfere, insieme ai fenomeni dei suoni extramusicali (o inframusicali) — e cioè
l’anti–musica infernale — diametralmente opposta a quella sinfonica descritta
in Paradiso .
b) La musica poetica (o musica verbale), che alla prima applicazione è legata.

Ma per inquadrare bene la questione risulta utile portare qui alcuni esempi inerenti
a ciascun tipo di musica.

.
Ars musica

L’ars musica viene citata in maniera diretta, descritta nella forma e nel modo rappresen-
tativo:

Esempio 

Purgatorio, XXX, vv. –:

Ella si tacque; e li angeli cantaro


di sùbito ‘In te, Domine, speravi’;
ma oltre “pedes meos” non passaro. 
[. . . ]
così fui sanza lagrime e sospiri


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anzi ‘l cantar di quei che notan sempre


dietro a le note de li etterni giri; 
ma poi che ‘ntesi ne le dolci tempre
lor compartire a me, par che se detto
avesser: “Donna, perché sì lo stempre?”, 

Il salmo XXXI, unito alla citazione boeziana della musica delle sfere, è esempio di
musica pratica. Interessante notare l’espediente narrativo usato: basato sul contrasto
musicale presente tra il silenzio iniziale, lo smettere del parlare dei protagonisti e il
canto che ne segue.
Vi sono, però, dei casi in cui alla citazione musicale si unisce alla funzione poetico–
descrittiva della musica:

Esempio 

Purgatorio, Canto XVI, vv. –:

Io sentia voci, e ciascuna pareva


pregar per pace e per misericordia
l’Agnel di Dio che le peccata leva. 
Pur “Agnus Dei” eran le loro essordia;
una parola in tutte era e un modo,
sì che parea tra esse ogne concordia. 
“Quei sono spirti, maestro, ch’i’odo?” ,
diss’io.

In altri casi v’è un puro accostamento tra fenomeni acustici (extramusicali) e


fenomeni musicali veri e propri:

Esempio 

Purgatorio, Canto IX, vv. –:

E quando fuor ne’ cardini distorti


li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti, 
non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra. 
Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e “Te Deum laudamus” mi parea
udire in voce mista al dolce suono. 


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Tale imagine a punto mi rendea


ciò ch’io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea; 
ch’or sì or no s’intendon le parole.

Nella prima parte del brano l’attenzione nei confronti dell’elemento sonoro non
verte specificatamente su un tema musicale vero e proprio. Ma il rumore dei cardini
distorti, gli spigoli, che son di metallo sonanti e forti, rende conto dell’attenzione di Dante
verso l’effetto acustico rappresentato nella scena (effetto sonoro che qui definisco
extramusicale), il quale viene riprodotto con una appropriata scelta terminologica nel
verso: che è di tipo onomatopeico.
Si noti come la parola tuono diventi il trait d’union tra la prima manifestazione
sonora (quella del rumore) e la seconda (il canto Te Deum realmente sentito).
Il passo in questione è stato variamente interpretato dai critici, per molti, infatti,
tuono si riferisce al rumore dei cardini , per altri al suono musicale effettivamente
sentito da Dante nel passo . Eppure, proprio questo passaggio suggerisce l’utilità di
una lettura “musicale” del testo, la quale è l’unica, forse, che può aiutare a dirimere la
controversia interpretativa. È evidente, infatti, che l’attenzione del poeta e del protago-
nista si soffermi sul fenomeno sonoro, per cui le manifestazioni acustiche della scena
diventano centrali nell’intero passo. Si veda, per esempio, come da un tipo di manife-
stazione acustica non sofisticata (la prima), si arrivi all’ascolto di una manifestazione
musicale più complessa (la seconda), per una musica descritta come vera o presunta:
vocale e/o strumentale insieme .
Ma nel suo differente grado di complessità il tema della musica è, spesso, ac-
compagnato anche da altre manifestazioni. Nel passo che segue il riferimento diventa
esplicitamente collegato, per esempio, alla luce e al movimento:

Esempio 

Paradiso, XXI, vv. –:

A questa voce vid’io più fiammelle


di grado in grado scendere e girarsi,
e ogne giro le facea più belle. 
Dintorno a questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi; 
né io lo ‘ntesi, sì mi vinse il tuono .

Il cielo di Saturno, il settimo, è pieno di suoni, ma è avvolto da un silenzio tutto


concettuale. Solo a Dante–protagonista, infatti, è impedito di sentire i suoni che il
Dante–poeta, invece, descrive. La sinfonia del Paradiso — dice il poeta — è talmente


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forte che se venisse udita dal Dante–protagonista potrebbe sopraffare i sensi del pel-
legrino dei cieli. È per questo motivo che, alla fine del Canto, Beatrice rinuncerà a
ridere .
Il poeta, poi, conclude una scena già irreale in maniera quasi paradossale: mediante
l’introduzione di un altro elemento sonoro, il grido dall’alto suono (v.). Questo
elemento extramusicale, per contrasto, richiama tutta l’importanza del suono presente
nel Canto XXI, che al protagonista non è dato di sentire. Quel grido, infatti, per il
lettore, si interpone tra due momenti di silenzio: il silenzio letterario, che è fittizio,
tra tanta musica descritta nel passo, e quello metaletterario, reale, invece, ottenuto per
effetto dell’utilizzo del punto fermo alla conclusione del Canto.
Un procedimento contrastivo —questo— voluto, e non casuale. Tra la descrizione
testuale, nell’alternanza suono/silenzio, si cerca, cioè, lo stesso effetto contrastivo
anche a livello di metatesto. Il contrasto suono/silenzio è però evidenziato a livello
letterario anche da altri elementi: e cioè il fermarsi delle anime, opposto al ruotare
vertiginoso delle fiammelle lucenti. È l’arrestarsi di quel movimento che preannuncia a
livello visivo, a mo’ di danza, l‘imminente rottura di quel silenzio. Come si vede, a più
livelli, qui si creano ricche interconnessioni semiotiche, rappresentate per contrasti, che
si concludono al termine del Canto sul livello metaletterario che sconfina il testo stesso.
Il risultato ottenuto è quello di creare movimento, accelerare, arricchire in dinamismo
la descrizione degli avvenimenti che si succedono: si ricerca, in pratica, un gioco di
continui interscambi sonori e contenutistici, legati alla musica, in cui il dinamismo
diventa centrale anche quando descritto per opposti.

.
Musica verbale

Visti i due tipi di musica, da riferire ai fenomeni acustici, è il momento, ora, di


considerare il terzo tipo di musica, oggetto specifico di questo saggio: la musica verbale.
L’esempio  è un passo esemplificativo dello stile dell’Inferno. Qui Dante, segue la
teoria della convenientia, che esplicita proprio nel verbo paradigmatico converrebbe:

Esempio 

Inferno, XXXII, vv. –:

S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,


come si converrebbe al tristo buco
sovra ‘l qual pontan tutte l’altre rocce, 
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente. . .


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Al tristo buco “convengono” le rime aspre e chiocce (quelle più vicine all’esperienza
del trobar clus — le rime difficili, le allitterazioni consonantiche dei suoni occlusivi e
quelle liquide) .
Al contrario, la parlata angelica di Beatrice, è rappresentata dall’espressione dantesca
“dir soave e piana”, Inf. II, . Proviene dal Paradiso, e ha uno stile completamente
diverso da quello appena visto nell’Esempio .
Lo stile piano lo s’incontra qui:

Esempio 

Paradiso, XXIII, vv. – :

Quale ne’ plenilunïi sereni


Trivïa ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni, 
vid’i’ sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l’accendea,
come fa ‘l nostro le viste superne; 
e per la viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
nel viso mio, che non la sostenea.

Come si vede, l’esempio , rispetto all’esempio , trova in rima per lo più parole
trisillabe, foneticamente scelte in base alla loro dulcedo , non più, come prima, rispetto
all’asprezza di suoni “chiocci”.
Si noti anche come la concentrazione vocalica e/i, visibile in particolare nel primo
verso, sia dapprima proiettata foneticamente nelle terzine, e poi recuperata “semanti-
camente” col tema della luce, vv. –. Lungo il prosieguo del passo infatti si legge:
lucerne, sol, accendea, viva luce trasparea, lucente [. . . ] tanto chiara. Parrebbe, dunque, che
l’effetto della luce venga dapprima anticipato dal significante, tramite il gioco ripetuto
delle vocali alte /i/, o /u/, combinate con le mediane /e/, del v.  , e poi tramutato
in significato, con i termini relativi al campo semantico della luce.
Tuttavia se — per una lettura critica del passo — questo tipo di analisi non convin-
cesse del tutto, si prenda in considerazione il fatto che nel brano in questione v’è la
totale assenza di concentrazione di suoni aspri che, invece, risulta prolifica nel passo
dell’Inferno prima analizzato. Rispetto alla precedente concentrazione consonantica di
rime aspre, infatti, ora vi sono solo le vocali a produrre una sorta di legame sonoro tra
le parole del verso. Questo è ciò che in musica si chiama “colore” del suono. Che qui
viene rappresentato dalle vocali, e poi collegato al valore semantico delle parole scelte
e utilizzate. Si vede bene, dunque, come — rispetto all’ambientazione contestuale
del passo — il differente “colore sonoro” in questo caso trasmetta al brano una cifra
stilistica di segno totalmente opposto rispetto allo stile “infernale” precedentemente
analizzato.


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Da questo punto di vista si può già ricavare una prima considerazione: il Dante–
poeta ricerca la musica del verso nel “legame delle parole” che — dice — esser dato
dalle vocali, “anima delle parole” . Infine — secondo sua stessa indicazione — l’arte
di combinare vocali e consonanti insieme nel verso poetico, quella di comporre versi,
cioè, per lui afferisce all’arte musaica. D’altronde è lui stesso, quando parla della com-
posizione della Canzone, a spiegare quale fosse il compito dei musici nelle varie fasi
dell’opera composta in accordo con i poeti . Nello scrivere la poesia — legata all’arte
musicale — il poeta è investito di un compito che racchiude competenze di Rètore,
Musico, Grammatico. Si ricordi la già incontrata citazione iniziale in questo lavoro,
secondo cui per Dante musica e rethorica (Dve, II, IV, ) costituiscono la poesia, formata
dall’intima fusione tra queste arti.
Tutto ciò, però, agli occhi di un moderno, viene confermato per via retorica dal
fatto che, ancora oggi, si può riscontrare il risultato teoricamente espresso da Dante nei
suoi trattati teorici prima della Commedia, circa il legame “musicale” nella costituzione
del verso. Questo è infatti l’uso delle figure retoriche di suono, che ci testimoniano
della effettiva riuscita dell’applicazione di quel metodo di operare dantesco in tale
direzione.
Vediamone qui alcune.

Onomatopea

Ben conosciuta è l’azione del graffiare di Cerbero.

Esempio 

Inferno, Canto VI, v. :

graffia li spirti, iscoia ed isquatra

Grazie al rafforzamento allitterativo di is, unito all’impiego del gruppo sonoro tr o


gr, di spirti, isquatra, si ottiene l’effetto stridulo del suono generato dall’azione violenta
di Cerbero.

Esempio 

Inferno, Canto V, vv. –:

Io venni in loco d’ogne luce muto,


che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.

L’onomatopea viene sprigionata dai termini mugghia e combattuto (in cui prevale il
colore cupo della vocale posteriore u, rafforzato dal suono prolungato della occlusiva


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nasale m). La sinestesia, scaturita dall’unione di ciò che non si sente (muto) e ciò che
non si vede (luce), enfatizza il senso peggiorativo dell’intera terzina. Quasi un ossimoro
nella sua trasposizione semantica (catacresi).
In Paradiso, invece, si trovano gli unici esempi di onomatopea primaria applicata ad
azioni o cose :

Esempio 

Paradiso, X, v. :

tin tin sonando con sì dolce nota.

Il verso evoca la descrizione del meccanismo dell’orologio che sveglia di primo


mattino la Chiesa — sposa di Dio — nel richiamo letterario al genere occitanico
delle albe. Il passo è particolarmente ricco di riferimenti musicali: l’onomatopea viene
associata al tema della musica, la nota — anticipata visivamente nella vergatura delle
lettere di sonando, e idealmente nell’immaginazione che questa suscita — è dolce , e
amplifica narrativamente il raddoppiamento onomatopeico che lo stesso scorrere delle
lancette riproduce.

Consonanza

Spesso è posta in rima, in tal modo triplica — a livello fonetico — gli effetti della terzina,
a volte già moltiplicati dalla rima interna.

Esempio 

Paradiso, II, vv. –:

. . . così come color torna per vetro,


lo qual di retro a sé piombo nasconde.
Or dirai tu ch’el si dimostra tetro. . .

In altri casi — come in quello che segue — la consonanza viene invece utilizzata in
una rima inclusiva.

Esempio 

Paradiso, III, v. :

come dal fabbro l’arte del martello

La consonanza interna, invece, è di difficile riscontro. Alcuni esempi qui per tutti:


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Esempio 

Inferno, XXV, vv. – :

Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,


ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ‘nvidio; 

Esempio 

Purgatorio, II, vv. :

Quando la nova gente alzò la fronte

Esempio 

Paradiso, XIX, v. :

non rimanesse in infinito eccesso

Di particolare rilevanza il seguente v., in quanto, oltre alle consonanze, si registra


un esempio di assonanza capovolta tra inizio e fine verso: vero/fiore.

Esempio 

Paradiso, Canto XXVII, v. :

e vero frutto verrà dopo ‘l fiore.

.
Assonanza

Esempio 

Paradiso, Canto X, v. :

Leva dunque, lettore, a l’alte rote

Qui il contrasto tra due piani distinti: il cambio di prospettiva presentato nel lettore
è dato dalla divisione in emistichi, per cui anche l’incisiva facilita questa separazione.
Ciò, però, avviene esattamente nel mezzo di un accordo assonanzato tra due sostantivi
lettore e rote.
Una simile incisiva, in una relazione di dipendente e subordinata, si ha anche nel
verso seguente:


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Esempio 

Paradiso, III, v. :

ma te rivolve, come suole, a vòto

Si noti qui che tripla è la ripetizione assonanzata, stabilita anche da parole consecuti-
ve.
Nel passo che segue si osserva, invece, un tipo di assonanza e allitterazione interna
— doppia e invertita — per due versi tra loro consecutivi.

Esempio 

Paradiso, III, vv. –:

Quali per vetri trasparenti e tersi,


o ver per acque nitide e tranquille

Altro esempio suggestivo è quello di assonanza intera tra due parole successive, in
cui l’ultima è amplificata dalla rima.

Esempio 

Paradiso, XI, v. :

e quanto come le sue pecore remote

Un esempio di assonanza atona, invece, è il seguente, amplificato dalle figure


retoriche dell’omeottoto e dell’anafora.

Esempio 

Paradiso, XII, v. :

con due campioni, al cui fare, al cui dire

.
Ripetizione

Ma il verso assume un’efficacia particolare quando più figure retoriche di suono


convergono nello stesso passo. È ciò che si osserva nel brano seguente, in cui è anche
presente la musica tradizionale.


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Esempio 

Paradiso, XXVII, vv. –:

La provedenza, che quivi comparte


vice e officio, nel beato coro
silenzio posto avea da ogne parte, 
quand’ïo udi’: “Se io mi trascoloro,
non ti maravigliar, ché, dicend’io,
vedrai trascolorar tutti costoro. 
Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio, 
fatt’ ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ‘l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa”. 

Si noti come Il mio luogo, v.  — già ripetuto tre volte — sia in assonanza con la
terza rima di coro, v. , quasi a prolungare nel verso gli effetti fonici di quel canto
sentito nella finzione letteraria. È presente tra l’altro il contrasto musica/silenzio, cui
segue l’ascolto della sola parlata che segue (quand’io udì).
Si faccia anche attenzione alla scelta terminologica: a partire dal termine trascoloro
in poi, infatti, il mutamento di scena richiede a Dante anche un cambiamento di
gradazione stilistico–formale più vicino ai canoni semantici che abbiamo qui stabilito
essere propri dell’asperità infernale. La prospettiva tematica peggiorativa, infatti, in
cui versa lo stato morale della Chiesa detta al poeta questa esigenza stilistica (vv.
–), imponendo una tale terminologia. Il climax, come si vede, è discendente:
dal trascolorare (dopo un canto festoso che contagia tutti), si arriva a termini come
cloaca, cimitero, usurpa, vaca, puzza, perverso, cadde, placa, sangue. V’è un’abbondanza
di fricative, occlusive (muta con liquida, in cloaca), costrittive geminate o scempie, che
sono per l’appunto i canoni dell’asperità così come Dante li aveva già indicati nel Dve
II, VII, – .
A questo, poi, si deve aggiungere il contrasto semantico delle parole monosillabe
accentate (sottolineate qui) nel loro particolare andamento ritmico e contrastivo: “che
cadde di qua sù, là giù si placa”.
Ma non sono solo i suoni aspri a rompere, o reimpostare su altro tipo di parametri,
quel legame già stabilito prima dalla dolcezza delle parole (in particolare si notino le
vocali nei vv. –), anche le strutture sintattiche tendenti alla complessità, infatti,
portano a spezzare quella linearità melodica del verso. Siamo di fronte a un effetto
musicale complesso, giocato a livello narrativo (sul contrasto suono/silenzio/ascolto),
e a livello testuale, fonologicamente variato da diversi artifici retorici: per cui diventa
anche significativa la disposizione sintattica delle parole.


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La figura retorica della ripetizione, in particolare, è importante se appare a proposito


dell’effetto acustico–musicale che suggerisce, in quanto prodotto dal canto o dal dialogo
intrapreso dai suoi protagonisti.
Nel passo citato di seguito si trovano numerose conferme di quanto detto finora
qui:

Esempio 

Paradiso, Canto XXVI, vv. –:

Le fronde onde s’infronda tutto l’orto


de l’ortolano etterno, am’io cotanto
quanto da lui a lor di bene è porto”. 
Sì com’io tacqui, un dolcissimo canto
risonò per lo cielo, e la mia donna
dicea con li altri: “Santo, santo, santo!”. 

Dal punto di vista fonologico la figura retorica del poliptoto, usata per due volte a
inizio citazione, fronde (con ripetizione di onde)/ s’infronda e orto/ortolano, imbastisce
una dichiarata ripetizione fonetica.
Si ha poi ancora un contrasto acustico tra i verbi concernenti la sfera del suono:
tacqui/risuonò. La ripetizione della parola cantata santo, infine, amplifica l’effetto musi-
cale dell’intero passo in quanto in rima; anche perché, nel suo perfectus ritmo ternario,
evoca quel coro che canta e ripete la parola santo (forse) all’unisono. È questa una
funzione che chiamerò metamusicale del testo, in quanto è proprio il testo a riprodurre
per via imitativa e compositiva la musica della scena che descrive.
Altri esempi di ripetizione si possono trovare lì dove anche altri elementi musicali e
verbali —nella loro variata complessità — ricorrono sistematicamente: siamo al limite
di una funzione simbolico–semantica della musica.

Esempio 

Paradiso, Canto VII, vv. –:

Così, volgendosi a la nota sua,


fu viso a me cantare essa sustanza,
sopra la qual doppio lume s’addua; 
ed essa e l’altre mossero a sua danza,
e quasi velocissime faville
mi si velar di sùbita distanza. 
Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’
fra me, ‘dille’ dicea, ‘a la mia donna
che mi diseta con le dolci stille’.


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In questo passo la variazione è data dal fatto che dall’azione del cantare descritta si
passa rapidamente alla rappresentazione della luminosità, che è preludio all’immagine
del movimento, della danza, e poi ancora del movimento della luce. La musica, la luce,
il movimento e, infine, il parlare che è dolce (come visto sopra) appaga l’ascolto.
Importante notare, sotto il profilo sintattico, il raddoppiamento dell’imperativo
enclitico dille, spezzato alla seconda ripetizione in rima, con l’ultima ripetizione voluta
in una posizione predominate, staccata a centro verso, con effetto di enfasi rispetto alle
altre. Un caso simile, di dislocazione sintattica a centro verso, si registra un poco oltre,
lì dove però è ancora più esplicito il riferimento ritmico–musicale rispetto all’effetto
che si intende raggiungere .

Esempio 

Paradiso, XXVII, vv. –:

‘Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo’,


cominciò, ‘gloria!’, tutto ‘l paradiso,
sì che m’inebrïava il dolce canto. 
Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso
de l’universo; per che mia ebbrezza
intrava per l’udire e per lo viso.

Anche in questo passo, così come visto prima, torna l’accostamento vista/ascolto
per via narrativa, ma torna anche, per via testuale, rispetto alla disposizione solenne ed
elencativa dell’asindeto — la cadenza tripartita del verso iniziale — cui segue ancora
un’esemplificazione visivo–sonora, per via formale, che è data dal Gloria, che si è scelto
di porre in maniera ricercata al centro del verso.
Una tale disposizione sintattica ci permettere di capire meglio quale sia la potente
immagine descritta da Dante nel passo, e tradotta musicalmente a livello verbale
prima ancora che si menzioni esplicitamente il fatto che quelle anime del Paradiso
stessero cantando. È chiaro, dunque, che qui ci si riferisce a un coro cantato all’unisono,
espresso dall’aggettivo tutto, ma poeticamente già rappresentato per via sintattica.
Per una lettura musicale di questo tipo sono tantissimi i passi che vanno in que-
sta direzione. Impossibile qui farli rientrare entro i limiti di un lavoro come que-
sto. Sarebbero perfino più numerosi se si dovesse tenere conto anche del contorno
ritmico–prosodico e/o della ritmica–metrica.
Ma, come si vede, anche in un’analisi come questa, un taglio di lettura simile
aggiunge complessità a complessità, col fine di metter in risalto le scelte poetiche
operate dall’autore, secondo una regola compositiva che, ancora al tempo di Dante,
accomunava la musica del testo alle conoscenze musicali del periodo; e, per Dante in
particolare, alle conoscenze personali della musica che l’autore aveva. Ne scaturisce,
così, un variegato armamentario di soluzioni poetiche, e tecniche compositive, che
il poeta aveva a disposizione per creare, ricreare, produrre e/o riprodurre gli effetti


 

sonori voluti, insieme alle impressioni di un ascolto da lui personalmente fatto, o anche
solo immaginato di quella musica, che venivano suggerite al suo estro creativo.
Si tratta di strumenti poetici che l’endecasillabo in terza rima, eletto da Dante per
la Commedia come il migliore, rende “facondi”, in quanto consentiva innumerevoli rese
metrico–stilistiche di cui qui, in parte, si è solo accennato.
A mero titolo esemplificativo è però utile accennare — anche brevemente — alla
sezione metrico–musicale della Commedia cui si riferisce il ritmo.
Si legga, per esempio, il seguente passo:

Esempio 

Purgatorio, Canto XXVIII, vv. –:

* * * *
Come si volge, con le piante strette
* * * *
a terra e intra sé, donna che balli
* * *
e piede innanzi piede a pena mette, 
* * *
vòlsesi in su i vermigli e in su i gialli
* * *
fioretti verso me, non altrimenti
* * *
che vergine che li occhi onesti avvalli; 
* * *
e fece i prieghi miei esser contenti
* * *
sì appressando sé, che ‘l dolce suono
* * *
veniva a me co’ suoi intendimenti. 

Il brano si riferisce alla danza di Matelda. Come si vede, i versi in successione paiono
riprodurre, ma variandola per via accentuativa, la cadenza tipica dell’incedere di una
donna che danza.
Dalle prominenze ritmiche (qui messe in evidenza attraverso gli asterischi) emerge
che a rendere il passo particolarmente efficace è una cadenza di tipo variato, qua-
ternario e ternario nel verso, per un contorno ritmico che esplicita imitativamente
il contenuto del passo rappresentato. Questo lo si capisce, in parte, dai tipi ritmici
utilizzati, particolarmente visibili negli attacchi dei versi. Seguendo la legenda in nota ,
infatti, dal v.  in giù si ha il seguente schema: D, G, G, D, G, A, G, D, A.


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Dal momento, però, che i versi giambici e gli anapestici hanno una progressione
ascendente, mentre i dattilici ce l’hanno discendente, si capisce come sia variato
l’andamento accentuativo del passo.
In particolar modo, nei versi che descrivono il ballo (vv. –) gli ictus ritmici
cadono sulle prime sillabe delle parole, che, come si vede, sono caratterizzate in modo
emblematico dal rafforzamento fonetico costituito nei suoni forti dalle occlusive p, b, t,
d, k di come, piante, strette, terra, donna, balli, piede (ripetuto), pena. Le occlusive forti
nell’intero passo si trovano in un rapporto di  a , dove le uniche eccezioni sono: volge
e mette . Se nella prima terzina ciò risulta maggiormente evidente, la ripetizione della
parola piede — che produce un movimento cadenzato — anticipa il doppio spostamento
sintattico dei due enjambement presenti successivamente, vv. –, e dell’ultimo del
v. . Siamo, cioè, di fronte alla rappresentazione metrico–poetica del passo, in cui si
rappresenta ritmicamente l’incedere irregolare e preciso tipico di chi cammina, canta,
coglie fiori e si muove danzando.


Conclusioni

Seppur per indicazioni somme, in questo lavoro si è voluto mettere in evidenza la


molteplice (a volte doppia e tripla) funzionalità della musica all’interno del verso dan-
tesco nella sua opera maggiore. Come visto negli esempi riportati la musica opera
nella Commedia in maniera concomitante, e per certi aspetti complementare con gli
elementi compositivi utilizzati dal poeta per la versificazione. Sono elementi diver-
samente variati che nel loro insieme concorrono alla funzionalità della descrizione
poetica in questione, con l’obiettivo di ottenere l’effetto narrativo proprio legato al-
l’immagine sonora rappresentata. Ciò accade, in particolare, nel riprodurre all’interno
del verso gli effetti acustici e/o sonori, o anche per dare enfasi al già presente tema
musicale. Abbiamo visto, in particolare, come, sia la musica tradizionalmente intesa
(anche quando se ne indica l’assenza), sia la musica verbale di boeziana memoria siano
presenti nel poema. Da ciò è emerso come il tema musicale nella Commedia non debba
unicamente limitarsi a un’analisi di tipo musicologico (cosa per lo più fatta dalla critica
dantesca fino ad adesso), ma dovrebbe estendere gli aspetti formali, linguistici ed
estetici della versificazione a una disciplina capace di valorizzare la lettura comune dei
vari ambiti interessati. Anche il livello metaletterario, unitamente a quello prosodico,
appare interessante per uno studio di tipo metrico–verbale della versificazione rispetto
al contenuto e allo stile del linguaggio musicale della Commedia.
Se questo fosse vero, allora, si potrebbe condurre uno studio della composizione
dantesca sulla funzione pratica e formale della sua scrittura, secondo la pratica della
convenientia, che sancisce l’aderenza della scrittura all’oggetto descritto, per cui la
stessa versificazione diventa sistematicamente visione filosofica e cosmologica della
Commedia. Sospetto che anche la componente musicale nella Divina Commedia sia da
leggere nell’alveo del realismo del linguaggio dantesco, inteso come aderenza della for-
ma/composizione alla rappresentazione descritta. Credo sia questo quello che permise


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a Dante di creare il sistema di linguaggio plurivalente che ancora stupisce e affascina


il lettore moderno. Un sistema polisemico della lingua, che anche quando chiuso
all’interno della sua funzionale intelaiatura, appare libero e originale nel rispondere
alle strutture ideologiche e dogmatiche del testo proprie della cultura del tempo.
La musica in Dante è un linguaggio nel linguaggio, che si inserisce all’interno di
un sistema linguistico appositamente creato per la nuova lingua poetica. Da studioso
ed erudita del suo tempo Dante conosceva la musica: e dalla collocazione e dispo-
sizione dei passi musicali nella Commedia, noi capiamo, oggi, come della musica il
poeta riconobbe una valenza teologica. Lo si evince dalla distribuzione delle tipologie
musicali presenti nel poema, unita e corroborata dalla carica simbolica e semiotica
dell’arte musicale nella poesia. A questo si accosta il linguaggio: diviso tra linguaggio
infernale e linguaggio paradisiaco. Siamo di fronte, cioè, a una concezione ontologica
del linguaggio, per cui la visione musicale del poeta ha un peso decisivo: in quanto lo
stesso linguaggio poetico per Dante è musica. Ma così come “teologica” è la musica, e
cioè mirata alla salvezza dei protagonisti nella Commedia, “teologico” diventa anche il
linguaggio poetico–musicale della sua scrittura.
Se le parole armonizzate, cioè, tra loro corrispondenti, obbediscono alle regole della
musica relativa , anche il verso viene costruito su un gioco di “richiamo” costante
di suoni e voci che si riprendono di continuo: sia come negazione, o come rottura
antimusicale, tipica della dannazione, che come enfasi della dulcedo salvifica, per cui
entrambi questi elementi rispondono a prerogative legate alla logica compositiva del
verso. È questo, penso, ciò che sprigiona il fascino della variegata “musica” verbale che
descrive bene i diversi luoghi fisici e morali dell’universo dantesco.
A partire dal legame con la prassi del tempo, quindi — quella di una musica
composta per la Canzone tragica — Dante dimostra che anche nella Commedia è
forte la valenza di un linguaggio poetico accostato alla concezione musicale del
periodo. Del resto la stessa composizione del verso veniva inserita in una tradizione
di musica profana prettamente orale, quando veniva scritta principalmente la musica
sacra. Non da solo credo che proprio qui stia la vera novità della Commedia: la creazione
di un luogo letterario, cioè, diretto al popolo in cui canto, cantica, canzon hanno
(forse) una funzione ben precisa legata alla pratica divulgativa della musica che Dante
intese recuperare. Per quanto riguarda il mezzo attraverso cui si intense trasmettere
il messaggio salvifico in poesia. Questo parrebbe attestare lo stesso titolo del poema:
Comedìa. Una lettura etimologica del termine, infatti, riconduce all’indicazione di
“canto villereccio”, non solo di canto in volgare, a lieto fine, ma anche pratica ed
espressione ludica di quel canto . Uno strumento volgare, cioè, utilizzato da Dante per
veicolare i contenuti divini.
La musica in Dante, come si vede, è tema complesso. Tutto quello che verrà messo
in luce su questo terreno potrà forse liberare il testo della Commedia dalle nebbie
ideologiche che uno studio del poema a tratti solo “contemplativo” o “contenutistico”
ha elargito negli anni a diverse generazioni di studenti. Al contrario studiare il tema
della musica in Dante richiede, come si vede, una pluralità di competenze e prospettive
che esulano dalla critica “ordinaria”. Si richiedono, infatti, competenze che siano in


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grado di attestare varie discipline che interagiscono tra loro: musicologia, storia e
filologia della musica, storia della letteratura, della critica letteraria, sociologia della
letteratura, storia della lingua, analisi linguistica, formale ed estetica. Servirebbe, di
fatto, una lettura pluridisciplinare della Commedia di modo che tutte le discipline inte-
ressate possano convergere in un unico lavoro di analisi sistematica del verso. In tal
modo si sarà in grado di “aprire” a numerose “novità” che l’aspetto musicale porta nella
Commedia, fin a partire dalla sua genesi, per arrivare così alla funzione, alla finalità, alla
fruizione e alla interpretazione storica del poema.
Di fatto Dante creò una neolingua poetica in volgare legata all’esecuzione orale.
Indagare, cioè, sulla dimensione storica e funzionale del verso della Commedia porterà,
di conseguenza, a ricostruire la dimensione culturale della genesi del verso dantesco.
Questo è possibile farlo sulla base di ciò che del verso dantesco ci è rimasto oggi:
contenuto, forma, stile. Un approccio che permetterà di svincolare il verso della
Commedia da una lettura solo “mentale”, e quindi silenziosa, e che considera anche lo
studio della musicalità insieme a tutte le implicazioni che vanno in direzione del suo
dichiarato scopo poetico. Un atteggiamento opposto, al contrario, impoverirà tutta la
potenza evocativa e coinvolgente del linguaggio “teatrale” di Dante.
Davanti a un aspetto così affascinante della materia musica/poesia, dunque, solo
uno studio congiunto tra più discipline potrà ambire a completare quel quadro così
vasto e complesso che interessa la musica del linguaggio dantesco e il linguaggio
della musica all’interno del verso della Commedia. Se è vero, infatti, che l’oralità della
musica del tempo, in cui testo e Canzone profana gravitavano, è ora irrimediabilmente
perduta, è anche vero, però, che la musica del verso di quel volgare che ambiva al divino
— proprio in quanto scritto — è ancora oggi da noi in parte recuperabile.

Note

. Articolo presentato — qui con qualche adattamento — a Barcellona nel corso della conferenza
internazionale di musicologia «Med & Ren, Medieval and Renaissance International Music Conference
», organizzata da Institut d’Estudis Catalans (IEC) Institució Milà i Fontanals, Consejo Superior de
Investigaciones Científicas (CSIC) in collaborazione con l’International Musicological Society.
. Contini (, p. ). Commenti di questo tenore arrivano da più parti; si legga per esempio Eco
(, p. ): «Tutta la contraddizione in cui si dibatte De Sanctis è dovuta a due malintesi: primo che quel
tentare di rappresentare il divino per sole intensità di luce e di colore, sia uno sforzo dantesco (originale,
ma quasi impossibile) per umanizzare ciò che gli umani non possono concepire; secondo, che ci sia poesia
solo nella rappresentazione delle passioni della carne e del cuore, e non ci possa essere poesia nella pura
intelligenza, perché in tal caso si finisce nella musica». Ciò che il Contini, ancora, chiamò engagement di
Dante suggerisce essere proprio alla base della costituzione di quel tipo di poesia: «Ma l’engagement dantesco
ha una connotazione essenziale finora non adeguatamente indagata, la concomitanza con l’assolutezza dei
valori formali».
. Questo studio è una sintesi del lavoro di dottorato presentato nel  all’Università di Dublino U.C.D.,
in cui condividerò alcuni specimen che provino a chiarire le motivazioni e lo scopo finale di una lettura in tal
senso della Divina Commedia.
. Tutti gli studiosi che hanno trattato il tema negli ultimi anni lamentano questo ritardo: Monterosso
(, pp. –) ha rotto il silenzio con il suo lavoro sul Dve. Poi seguito dall’intera opera del Pirrotta
(–, , , , , a, b, , , ). Gli studi sulla musicologia dantesca (si veda qui


 

in Bibliografia), in particolare, permettono un ulteriore passo in avanti nella lettura integrale del fenomeno
musicale all’interno della Commedia.
. Per una lettura sistematica dei fenomeni musicali della Commedia si vedano: Monterosso (–),
Atti del convegno a cura di Luigi Pestalozza (), i contributi di Salvetti (), Shurr (), Bacciagaluppi
().
. Sanguinetti (, p. ). Bacciagaluppi (, p. ) chiama questo fenomeno contro–musica.
. Inf. III, vv. – ss: «Quivi sospiri, pianti e alti guai/risonavan per l’aere sanza stelle,/per ch’io al
cominciar ne lagrimai. /Diverse lingue, orribili favelle/ parole di dolore, accenti d’ira,/ voci alte e fioche, e suon di
man con elle/facevano un tumulto, il qual s’aggira/ sempre in quell’aura sanza tempo tinta,/ come la rena
quando turbo spira». Pur. XII, vv. –: «Ahi quanto son diverse quelle foci/ da l’infernali! ché quivi per
canti/ s’entra, e là giù per lamenti feroci», Par. XXI, vv. –: «. . . e dì perché si tace in questa rota/la dolce
sinfonia di paradiso,/ che giù per l’altre suona sì divota», (miei i corsivi ndr.).
. I versi in questione sono quelli del salmo XXXI: «In te, Domine, speravi», come indica il Monterosso
(). Per Richter (, p. ), invece, il canto è un responsorio. Il canto In te, Domine è in ogni caso una
totale devozione dell’anima penitente a Dio, in questo senso è canto funzionale alla trama, in perfetto
accordo con la situazione rappresentata.
. Numerosi sono i passi in cui, nelle varie vicende narrate, il procedere del Dante–protagonista verso
i tre regni passa attraverso la via cognitiva dell’ascolto. Questo esempio rende giustizia di almeno due
aspetti importanti che riguardano più strettamente il ruolo della musica nella Commedia: ) La competenza
musicale del poeta; ) L’attenzione concreta di Dante poeta e protagonista al fatto sonoro, poiché incline
all’atto dell’ascoltare descritto come espediente narrativo, al punto che questo atto diventa parte integrante
nello sviluppo della fabula. La conoscenza per via uditiva, cioè, acquisita attraverso il fenomeno musicale o
extramusicale, viene narrata da Dante come ottenuta dall’ascolto diretto, descritto e interpretato da lui in vari
modi, a seconda dei fenomeni sonori (o extrasonori) che incontra nel suo viaggio. È, questa, una situazione
presente almeno  volte nel Poema, in particolare in: Inf. III, v. ; IV, vv. –; IX, vv. –; X, v. ; XIII, vv.
–; XXVII, v. ; XXXIV, vv. –. Purg. XI, v. ; XIV, vv. –; XVI, vv. –, v. ; XXIX, v. . Par. V,
vv. –; XXVI, vv. –; XXXII, vv. –.
. Sono di questa opinione Momigliano (, pp. –) e Barbi (, p. ), nelle rispettive edi-
zioni della Divina Commedia a loro cura, in cui entrambi, per Pur. IX, vv. –, protendono per questa
interpretazione.
. Sono di questo avviso Sapegno (, p. ) e Chiavacci Leonardi (, pp. –) rispettivamente
nelle note di Pur. IX, vv. – delle edizioni della Commedia a loro cura.
. È l’organizzazione del materiale acustico che arriva a toccare l’incomprensibilità del testo cantato
per cui Dante descrive l’immagine di quando nelle esecuzioni delle composizioni per organo non si
comprendono esattamente le parole. Questo tipo di esecuzioni venivano eseguite in chiese e cattedrali la cui
architettura, per risonanza, portava a rendere incomprensibile la parola cantata. Una lettura di tipo musicale
del passo in questione dà forse una interpretazione più precisa del senso proprio di questo momento dantesco.
Il passaggio verso l’ineffabilità — massimo grado di sublimazione nella concezione di Dante — è breve.
. Come visto in precedenza in Purgatorio, IX, vv. –, l’abbinamento in rima delle parole tuono /
suono indica un fenomeno acustico in sé. In questo caso è dato dalla voce o dal canto, non dai cardini. Può
essere questa un’ulteriore conferma dell’interpretazione fatta nella nota precedente.
. Par, XXI, vv. –: «‘Tu hai l’udir mortal sì come il viso’,/ rispuose a me; «onde qui non si canta/
per quel che Bëatrice non ha riso».
. Generale è l’accordo tra gli studiosi in merito al fatto che tale stile derivi dall’esperienza delle Petrose.
Si veda a riguardo il completo e complesso studio di Masini (, pp. –).
. A proposito della dulcedo si legga Cv I, VII, –: «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame
musaico armonizzata si può della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia.
E questa è la cagione per che Omero non si mutò di greco in latino, come l’altre scritture che avemo da loro.
E questa è la cagione per che i versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d’armonia: ché essi furono
transmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e nella prima transmutazione tutta quella dolcezza venne
meno». Si noti in particolare come il campo semantico della “dolcezza” qui sia unito a quello della musica e


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dell’armonia. A questo proposito Mengaldo (, pp. –) si stupiva della critica che dava interpretazioni
contrarie: «È sorprendente che (se non sbaglio) i commentatori del trattato dantesco, fino al Busnelli e al
recentissimo Pézard, intendano all’unisono musaico, connettendolo naturalmente a Musa, come equivalente
di “poetico” [. . . ]; neppure ho trovato un’interpretazione diversa da questa in lavori che riguardino il Convivio
o la terminologia retorica e musicale di Dante (per es. il volume di M. Pazzaglia, Il verso e l’arte della canzone
nel De vulgari eloquentia, Firenze, , che pure ha un capitolo, pp.  ss., dove in particolare si affrontano
temi connessi al primo passo in questione del Convivio, esplicitamente citato e discusso)».
. C’è tutta una letteratura critica che si è sviluppata in questa direzione, ma non c’è generale accordo
tra gli studiosi. Beccaria (, p. ), nel dissentire sull’idea di simbolismo fonologico valido ovunque nella
Commedia, cita Thovez: «Thovez diceva che c’erano i suoni chiari e cupi delle vocali acute a trasmettere
l’incanto». A questo riguardo, inoltre, da parte di Robey (, p. ), sono stati fatti degli studi di analisi
computazionale circa la distribuzione dei suoni vocalici e consonantici lungo l’arco del Poema. Il suo
contributo amplifica di molto in termini matematici la nostra percezione del fenomeno in questione. Tenta
di dare, infatti, una risposta che riguarda l’uso dei suoni verbali evidenziando la loro “collocazione” nella
distinzione tra Cantiche. Siamo lontani dal dare, però, un quadro sostanziale circa la valenza semiotica legata
alla sfera musicale cui afferiscono.
. Convivio IV, VI, –: «È dunque da sapere che “autoritade” non è altro che “atto d’autore”. Questo
vocabulo, cioè “autore”, sanza quella terza lettera C, può discendere da due principii: l’uno si è uno verbo
molto lasciato dall’uso in gramatica, che significa tanto quanto “legare parole”, cioè “auieo”. E chi ben
guarda lui, nella sua prima voce apertamente vedrà che elli stesso lo dimostra, ché solo di legame di parole è
fatto, cioè di sole cinque vocali, che sono anima e legame d’ogni parole, e composto d’esse per modo volubile, a
figurare imagine di legame. Ché, cominciando dall’A, nell’U quindi si rivolve, e viene diritto per I nell’E, quindi
si rivolve e torna nell’O: sì che veramente imagina questa figura: A, E, I, O, U, la quale è figura di legame. E in
quanto “autore” viene e discende da questo verbo, si prende solo per li poeti, che coll’arte musaica le loro parole
hanno legate; e di questa significazione al presente non s’intende».
. Dve II, IX : «Tota igitur ars cantionis circa tria videtur consistere: primo, circa cantus divisionem;
secundo, circa partium habitudinem; tertio, circa numerum carminum et sillabarum». Si vedano in partico-
lare i Capitoli IX, X, XI del Dve e Convivio, II, XI, –: «Ora appresso amonisco lei e dico: se per aventura
incontra che tu vadi là dove persone sieno che dubitare ti paiano nella tua ragione, non ti smarrire, ma dì
loro: poi che non vedete la mia bontade, ponete mente almeno la mia bellezza. che non voglio in ciò altro
dire, secondo che è detto di sopra, se non: o uomini, che vedere non potete la sentenza di questa canzone,
non la rifiutate però; ma ponete mente la sua bellezza, che è grande sì per [la] construzione, la quale si
pertiene alli gramatici, sì per l’ordine del sermone, che si pertiene alli rettorici, sì per lo numero delle sue
parti, che si pertiene alli musici. Le quali cose in essa si possono belle vedere, per chi ben guarda».
. A meno che non si voglia considerare onomatopeico il parlare di Pluto all’inizio di Inf. VII.
. In Convivio, come visto, si parla di dolcezza ed armonia (I, VII, v. ), mentre nella Commedia troviamo
ancora dolce armonia (Par. VI, ; Par. XVII, ). Il concetto è espresso anche nel De Vulgari Eloquentia, II,
XIII, : «Et primo sciendum est quod in hoc amplissimam sibi licentiam fere omnes assumunt; et ex hoc
maxime totius armonie dulcedo intenditur». All’opposto della “dolcezza” del Paradiso vi è “amarezza”
nell’Inferno, espressa in Inf. I, v. .
. Dve, II, VII, –: «In quorum numero, nec puerilia, propter sui simplicitatem, ut mamma et babbo,
mate et pate; nec muliebria, propter sui mollitiem, ut dolciada et placevole; nec silvestria, propter hausteritatem,
ut greggia et cetra; nec urbana lubrica et reburra, ut femina et corpo, ullo modo poteris conlocare. Sola etenim
pexa irsutaque urbana tibi restare videbis, que nobilissima sunt et membra vulgaris illustris. Et pexa vocamus
illa, que trisillaba, vel vicinissima trisillabitati, sine aspiratione, sine accentu acuto vel circumflexo, sine z
vel x duplicibus, sine duarum liquidarum geminatione vel posizione inmediate post mutam, dolata quasi,
loquentem cum quadam suavitate relinquunt: ut amore, donna, disio, vertute, donare, letitia, salute, securitate,
defesa. Irsuta quoque dicimus omnia preter hec, que vel necessaria, vel ornativa videntur vulgaris illustris. Et
necessaria quidem appellamus que campsare non possumus; ut quedam monosillaba, ut sì, no, me, te, se, a, e, i,
o, u, interiectiones, et alia multa. Ornativa vero dicimus omnia polisillaba que mixta cum pexis pulcram faciunt
armoniam compaginis, quamvis asperitatem habeant adspirationis, et accentus, et duplicium, et liquidarum,


 

et prolixitatis; ut terra, honore, speranza, gravitate, alleviato, impossibilità, impossibilitate, benaventuratissimo,


inanimatissimamente, disaventuratissimamente, sovramagnificentissimamente, quod endecasillabum est. Posset
adhuc inveniri plurium sillabarum vocabulum, sive verbum; sed quia capacitatem nostrorum omnium
carminum superexcedit, rationi presenti non videtur obnoxium, sicut est illud honorificabilitudinitate, quod
duodena perficitur sillaba in vulgari et in gramatica tredena perficitur in duobus obliquis. Quomodo autem
pexis irsuta huiusmodi sint armonizanda per metra, inferius instruendum relinquimus. Et que iam dicta
sunt de fastigiositate vocabulorum, ingenue discretioni sufficiant».
. Questo passo viene presentato da Dante prima di quello qui già analizzato del “beato coro”, per questa
ragione dovrebbe esser letto nella sua interezza, facendo cura in particolar modo alla variazione in crescendo
di tutte le connotazioni musicali lì presenti che conferiscono a quei canti danteschi un climax musicale unico
rispetto alla sapienza compositiva e alla conoscenza da parte del poeta degli effetti che il linguaggio della
musica può portare nell’ascoltatore/lettore.
. Legenda: G = Giambico; D = dattilico; A = Anapestico. Si considera qui solo l’incipt seguendo
Elwert (, p. ): «L’analisi più precisa dei tipi ritmici dell’endecasillabo l’ha fatta il Sesini. Egli distingue
dodici tipi e li raggruppa in base alla struttura ritmica del primo emistichio: – con incipt giambico, –
anapestico, – trocaico,  e  dattilico». Cfr. Sesini ().
. Anche volge e mette, però, sono strettamente connessi all’andamento ritmico e sonoro del passo. Il
primo rappresenta il movimento della danza, riferendosi in assonanza alla venuta precedente; il secondo
rappresenta il passo della danza, con l’utilizzo di una parola in rima, che poggia sull’altra, perciò connessa al
ritmo e alla sonorità della terzina cui appartiene.
. Convivio, II, XIII, : «E queste due propietadi sono nella Musica: la quale è tutta relativa, sì come si
vede nelle parole armonizzate e nelli canti, de’ quali tanto più dolce armonia resulta quanto più la relazione è
bella: la quale in essa scienza massimamente è bella, perché massimamente in essa s’intende». Si veda anche
Dve, II, VII –.
. Monterosso (, p. ): «Così è fuor di dubbio che le definizioni date sopra si riferiscono, in senso
stretto, al rivestimento musicale dei versi, e che per metonimia esse sono state successivamente assegnate
alla struttura strofica testuale, anche perché il poeta–musico aveva cura, nella maggior parte dei casi, che le
suddivisioni melodiche avessero il loro esatto corrispettivo nella morfologia poetica».
. Gorni (, p. ): «Ma se cantilena non significa né canzone di settenari (e d’altra parte ben a
ragione “è escluso che Dante pensasse a canzonette a carattere popolaresco”), né canzone lirica illustre,
[. . . ] è proprio arbitrario congetturare che “cum comice fiat hec coniugatio” cantilena stia a monte della
catena: Commedia= [cantilena] «canticas» cantus [. . . ] dichiarata nel celebre passo (“forma tractatus est triplex”)
dell’Epistola a Cangrande (XIII, )? Preciso che si tratta di un’ipotesi, ma a me pare che sia la più congruente
con i dati a nostra disposizione, e insieme atta a risolvere l’aporia del silenzio di Dante sulla terza rima,
altrimenti ingiustificabile. D’altra parte l’unica occorrenza di cantilena nell’opera volgare dantesca (Par.
XXXII,  “Rispose a divina cantilena / da tutte le parti la beata corte”) si riferisce all’Ave Maria latina, la cui
eventuale traslitterazione non potrebbe esser pensata che in un capitolo ternario, a norma dell’orazione
di San Bernardo e del Padre nostro dell’XI del Purgatorio». Baransky (, I, pp. –): «La terminologia
dantesca li lascia talmente perplessi che, anche tra quei pochi, come Guido da Pisa, Boccaccio, e Francesco
Buti, che non cambiano i termini del poeta, mancano quasi completamente tentativi di spiegazione; ci
troviamo così davanti ad un fenomeno stranissimo di commentatori che “non commentano”. È ovvio che
i primi lettori di Dante si trovino a disagio di fronte alle scelte di Dante». «La vera analisi di come Dante
sfruttò la musica per chiarire la novitas del suo poema è ancora quasi completamente da svolgere».
. La lettura etimologica del termine Comedìa riporta a un canto “villereccio”, che arriva dalla villa, dal
villaggio. Non solamente la Comedìa allude a un poema vernacolare felice, ma probabilmente si riferisce
anche alla tradizione ludica di quelle composizioni che venivano declamate e cantate. Così Toynbee (, p.
) nella sua traduzione inglese delle Epistole di Dante: «‘Ad cuius notitiam sciendum est quod comedia
dicitur a ‘comos’ villa et ‘oda’ quod est cantus, unde comedia quasi ‘villanus cantus’ (XIII, )’. [For the
understanding of which it must be noted that ‘comedy’ is so called from comos, a village, and oda, a song;
whence comedy is as it were a ‘rustic song’]. Di Fonzo (, p. ) cita a questo proposito il commento in
vernacolare di Jacopo della Lana: «L’altro modo è la forma poetica la quale è fittiva e di esempli positivi


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dalla qual forma ello tolle lo nome overo titulo cioè Comedia che è quasi a dire villano dittato, cioè che
anticamente li villani sonando sue sestole overo pive si ritimavano». A tal proposito è importante citare
Ferroni (, p. ) sulle forme popolari dei cantari: «Componimenti narrativi in ottava rima, recitati sulle
piazze cittadine, soprattutto in Toscana nei secoli XIV e XV. Dopo una fase di trasmissione di tipo orale, le
prime manifestazioni scritte risalgono alla metà del secolo XIV [. . . ] Il nome cantare deriva dal “canto” che
facevano i giullari (chiamati più specificatamente canterini) sulle piazze; le narrazioni potevano assumere
anche misure molto vaste, arrivare alle dimensioni di poemi, divisi però in singoli cantari, ciascuno della
durata media di una seduta di recitazione orale. La materia era assai varia, legandosi ai differenti filoni della
narrativa romanza, soprattutto francese: si avevano cantari novellistici, leggendari, romanzeschi, religiosi o
addirittura dedicati a eventi della cronaca contemporanea. Il racconto procedeva in modo schematico, con
formule ripetitive e frequenti richiami al pubblico degli ascoltatori, proponendo immagini di comportamento
semplici e ingenue o prove di forza e di eroismo esagerate, e accogliendo il “meraviglioso”, ma anche violente
e maliziose deformazioni comiche».

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