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ISBN: 978-88-6797-885-4
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Presentazione
1 Musica e poesia: una lunga storia insieme
2 La teoria e la pratica della musica nel Medioevo
3 Dante fra Boezio e Casella
4 La danza nella “Divina Commedia”
5 La musica nell’Inferno
6 La musica nel Purgatorio
7 La musica nel Paradiso
Bibliografia essenziale (in ordine cronologico)
La musica della Commedia (progetto multimediale culturale)
Indice dei nomi e dei luoghi
PRESENTAZIONE
Il rapporto fra la musica e l’opera di Dante è uno degli aspetti meno indagati dalla critica, che spesso
ha considerato i riferimenti musicali un puro elemento ornamentale e non, come invece sono in
realtà, un componente strutturale dell’opera dantesca e in particolare, naturalmente, della Commedia.
Questo libro intende mostrare, attraverso un puntuale riscontro delle fonti e un’ampia messe di
citazioni, come il cammino del poeta nei tre regni dell’aldilà sia costantemente accompagnato e reso
comprensibile dalla musica che assume un ruolo di guida e di mediazione fra i limiti dell’intelletto
umano e i misteri del soprannaturale.
***
MARCO ROMANELLI, fiorentino, ha insegnato Lettere nei Licei e
Grammatica italiana presso il Dipartimento di Studi Umanistici
dell’Università di Firenze. Svolge un’intensa attività di collaboratore editoriale che lo ha portato a
curare classici italiani (Verga, Svevo, D’Annunzio) e stranieri (Defoe, Conrad, Maupassant). Frutto
più importante del suo impegno di italianista sono il commento ai Promessi Sposi (2005) e, con Hans
Honnacker, il commento alla Divina Commedia pubblicato nel 2007 dalla Società Editrice Dante
Alighieri. È inoltre autore di una Storia e Antologia della Letteratura Italiana su CD-ROM uscita in
allegato al settimanale “L’Espresso”. Suoi articoli di critica letteraria e di linguistica sono apparsi
sulle principali riviste di cultura (“Paragone”, “Studi Novecenteschi”, “Allegoria”,
“Otto/Novecento”, “MicroMega”, “Nuova Antologia”, “Lingua Nostra”). Da sempre appassionato
lettore di Dante, laureato con una tesi su un commento inedito alla Commedia , Romanelli ha
continuato negli anni a dedicare al grande poeta la sua attenzione di studioso, da cui sono nati, oltre a
questo libro e al già citato commento, una Analisi linguistica della Divina Commedia (con Angelo
Gianni) e una serie di conferenze di argomento dantesco in numerose e prestigiose sedi italiane e
straniere.
A Fabio Pacciani,
musicista e amico caro
1
MUSICA E POESIA:
UNA LUNGA STORIA INSIEME
Il rapporto che lega musica e poesia è saldo fino dalle origini: pensiamo al
mito archetipo di Orfeo , primo musico e insieme primo poeta, che con la
forza congiunta della musica e del verso ammansiva le belve e assoggettava
gli spiriti infernali.
Ma, a parte la leggenda di Orfeo , gli storici della cultura sono convinti
che musica e poesia abbiano sempre proceduto di pari passo, legate da
un’origine senza dubbio rituale e riconducibile alle formule magiche che
venivano recitate per assicurarsi il buon esito di azioni ed eventi rilevanti
(la caccia, la guerra, le nascite e le morti, la fertilità, il rapporto con le forze
naturali).
Il canto e il ritmo, che hanno un forte potere mnemonico, servivano a
tenere meglio a mente formule e invocazioni che potevano essere anche
lunghe e complesse e, in assenza della scrittura, creare difficoltà di
memorizzazione. Del resto, questo abbinamento fra musica e testo è vivo
ancora oggi nell’innografia civile e religiosa e nella comunicazione di
massa che, come accade con tutta evidenza nella pubblicità, ne fa largo uso
a scopo mnemonico e persuasivo. È quindi per un fine pratico e non estetico
che musica e poesia si associano, e il fatto che da questa unione si siano poi
sviluppate delle manifestazioni artistiche non è antropologicamente e
storicamente rilevante, ma va considerato piuttosto un effetto collaterale
dell’operazione.
E tuttavia, per il principio dell’eterogenesi dei fini, è accaduto che proprio
questo effetto collaterale non voluto e non previsto sia stato alla fine il
risultato principale dell’incontro fra musica e poesia e abbia prodotto alcune
delle più grandi realizzazioni artistiche della civiltà umana.
Col tempo i due linguaggi si sono separati e hanno acquistato una loro
specifica autonomia. Quando è avvenuta questa separazione? Secondo
alcuni studiosi (per esempio Gianfranco Contini ) il divorzio fra musica e
poesia si verifica nella letteratura italiana già all’inizio del XIII secolo.
A parere di altri, invece, il testo poetico continua a essere musicato fino a
epoche molto più tarde, e senza dubbio ancora nell’età di Dante.
Le testimonianze dantesche sembrerebbero inclinare verso questa seconda
ipotesi: già nella Vita Nova (XII ) troviamo che Amore prescrive al poeta di
non inviare a Beatrice le sue parole nude, ma di rivestirle di musica in modo
da raggiungere la donna amata in modo meno diretto e più delicato:
«Queste parole fa’ che siano quasi un mezzo, sì che tu non parli a lei immediatamente, che non è
degno; e no le mandare in parte sanza me, ove potessero essere intese da lei, ma falle adornare di
soave armonia, ne la quale io sarò tutte le volte che farà mestiere.»
ossia:
“La canzone non è altro che l’opera compiuta da chi compone con arte parole armonizzate
destinate a essere modulate musicalmente (II , 8);”
ossia:
“Affermo quindi che ogni stanza di canzone è costruita per ricevere una certa melodia.”
Non sfuggirà a nessuno l’alta presenza della /r/ (ve ne sono ben sei, di cui
due in raddoppiamento), assolutamente anomala rispetto alla normale
occorrenza statistica di questa consonante nel lessico italiano. È un caso?
Naturalmente no: è evidente come la allitterazione (ripetizione a distanza
ravvicinata) del fonema /r/ dal suono aspro e intenso produca un effetto
semantico evocante un sentimento ci ribellione e di concitazione spirituale
che incrementa e intensifica il dettato del testo: effetto che è esattamente
quello che il poeta si proponeva di raggiungere. Allo stesso modo possiamo
analizzare una fondamentale lirica di Eugenio Montale , Spesso il male di
vivere ho incontrato , dagli Ossi di seppia , in cui il poeta propone, come
unico antidoto alla sofferenza, la pratica dell’indifferenza. Ebbene,
l’opposizione fra le due dimensioni esistenziali è sottolineata e potenziata,
nella quartina dedicata al “male di vivere”, dal prevalere di aspri suoni
consonantici, spesso in raddoppiamento:
«era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia riarsa,
era il cavallo stramazzato.»
“La poesia non è altro che una finzione costruita con la retorica e con la musica.”
2
LA TEORIA E LA PRATICA DELLA MUSICA NEL MEDIOEVO
Sbaglia chi pensa che il Medioevo sia stato un’epoca priva di cultura
musicale, con l’eccezione del canto gregoriano e delle rozze cantilene
popolari.
Del resto, si tratta di un errore di giudizio che non si limita alla musica ma
riguarda il complesso della civiltà medievale, che ancora oggi, nonostante il
lavoro di studio e divulgazione di una verità diversa da parte degli storici,
viene percepita nell’immaginario collettivo come un’epoca di barbarie.
Poco importa che il Medioevo sia stato, al contrario, una delle epoche più
luminose della storia, l’epoca di Tommaso d’Aquino , di Giotto , di Dante,
delle grandi cattedrali, delle università, dell’impero carolingio, della
rinascita delle città, dei primi contatti, drammatici ma anche fecondi,
dell’occidente col mondo islamico; poco importa che l’età medievale segni
l’apparizione dell’economia moderna, dei mercanti, dei grandi commerci,
delle banche e del credito, delle corporazioni e delle gilde, tutte realtà
sconosciute al mondo antico: al di là di tutto, resta il pregiudizio delle
“tenebre del Medioevo”, luogo comune tanto falso quanto difficile da
sfatare.
Per quanto in particolare riguarda la musica, basterebbe consultare il
monumentale catalogo di Charles-Edmond-Henri de Coussemaker
(Scriptores de musica medii aevi , 1876) che nei suoi quattro volumi
raccoglie i testi di oltre trecento studiosi di scienza musicale vissuti nel
Medioevo, oppure, più rapidamente, andare su Internet e digitare il
Thesaurus musicarum latinarum , meritoriamente messo in rete dalla
Indiana University, che rende immediatamente accessibili centinaia di testi
di musicologia medievale: si vedrebbe allora concretamente con quanta
attenzione, passione e dottrina la cultura del Medioevo si occupò di musica,
facendone uno degli elementi essenziali della formazione intellettuale.
Infatti la Musica, insieme alla Matematica, alla Geometria e
all’Astronomia, faceva parte delle “ Arti del Quadrivio ” che insieme a
Grammatica, Retorica e Dialettica (le “ Arti del Trivio”) costituivano le
sette “ Arti liberali”, cioè il sistema di conoscenze su cui si fondava la
cultura medievale.
Potrà forse stupire il lettore moderno vedere la musica collocata accanto a
discipline prettamente scientifiche come la matematica, la geometria e
l’astronomia. Il fatto è che ciò che la cultura medievale intendeva per
“musica” è qualcosa di molto diverso da quello che intendiamo noi oggi.
Per capire, è necessario rifarsi alla tradizione pitagorica e alla sua influenza
decisiva sulla teoria musicale del Medioevo.
Di Pitagora , nato a Samo e vissuto a Crotone nel V secolo a.C., non ci
rimane nessun testo (è peraltro assai dubbio che abbia scritto qualcosa) e
tutto quello che sappiamo del suo pensiero è dovuto alle testimonianze dei
suoi discepoli e soprattutto a Platone che ne tratta nel Timeo e nel Fedone .
Il punto essenziale della dottrina pitagorica si può individuare in quello che
scrive uno dei suoi più importanti seguaci, Filolao :
È il numero che ci guida alla conoscenza e che ci svela tutto ciò che è dubbio e ignoto. Nulla
sarebbe comprensibile, né le cose singole né le loro relazioni, se non ci fosse il numero e la sua
verità.
non sarà quindi un caso che Tommaso sia autore di celebri inni eucaristici,
come il Pange lingua e l’Ecce panis che ancora oggi si cantano nelle chiese
cattoliche.
Anche il maestro di Dante, Brunetto Latini , parlando della musica nel suo
Trèsor ne sottolinea la componente matematica inserendola fra le arti del
quadrivio, ma subito dopo ne considera anche la natura “dilettevole”
dicendo che essa:
«ci insegna a produrre voci e suoni sugli organi o su altri strumenti accordabili fra di loro per il
diletto della gente.»
Citiamo ancora un altro grande teorico musicale del XIII secolo, Vincenzo
di Beauvais , il quale nel suo Speculum doctrinale torna a una rigida
concezione pitagorica sostenendo che l’essenza della musica va ricercata
più nella speculazione teorica che nella esecuzione pratica, perché, come
scrive riprendendo una frase di Boezio , “l’opera delle mani è vana se non è
guidata dalla ragione”.
Potremmo continuare a lungo in questo gioco di citazioni, dato che, come
abbiamo detto, gli studiosi che in età medievale si sono dedicati alla teoria
musicale sono numerosissimi. Ma già il rapido spoglio che abbiamo
condotto fin qui ci permette di stabilire il carattere bifronte della musica
medievale: da una parte teoria matematica e scienza delle proporzioni
fondata sul calcolo razionale, dall’altra pratica dilettevole fondata sulle
emozioni.
Dobbiamo però anche osservare, per comprendere l’intensità e la serietà
del confronto, che questo modo duplice di intendere la musica non è un
carattere arcaico che scompare con l’affermarsi della modernità: al
contrario, l’eco di questo dibattito è riscontrabile anche in età più vicine a
noi. Per citare un caso celebre, il “ Canone a sei voci ” che Johann
Sebastian Bach compose nel 1715 costituisce un esempio di musica pura
che non prevede alcuna esecuzione, una astrazione matematica non
destinata né alla voce umana né a qualsiasi altro strumento.
Ma anche nell’età contemporanea la questione resta aperta: John Cage ,
uno dei musicisti sperimentali più interessanti del Novecento, è arrivato a
teorizzare il silenzio come la più perfetta espressione musicale, e il
confronto-scontro fra la musica come pura razionalità e la musica come
emozione sensuale è al centro del grande romanzo di Thomas Mann Doktor
Faustus (1947) in cui il protagonista, il compositore Adrian Leverkühn,
fallisce tragicamente nel suo tentativo di razionalizzazione sopraffatto dalle
oscure forze demoniache che dominano nel profondo l’esperienza della
musica.
Ma tornando al Medioevo, se dovessimo indicare quale dei due versanti
risulta prevalente per numero e prestigio dei suoi sostenitori, non c’è dubbio
che quello neopitagorico risulterebbe largamente maggioritario, tanto da
trasformare il dibattito teorico fra specialisti in ratio comune come
dimostra, per esempio, un affresco trecentesco di Andrea di Bonaiuto nella
chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, in cui sono raffigurate le sette arti
liberali: ebbene, la musica nella sua versione “scientifica” è rappresentata
da una elegante fanciulla che studia la tastiera di un organo portatile, mentre
la musica come esecuzione strumentale è impersonata dal rozzo fabbro
Tubalcain al quale la Bibbia (Genesi , 4, 21) attribuisce l’invenzione degli
strumenti musicali, in una evidente sottovalutazione della musica “suonata”
rispetto alla musica “pensata”.
All’orientamento neopitagorico che dominò la musicologia medievale
dettero il loro contributo, come abbiamo visto, studiosi e maestri di grande
prestigio, ma senza dubbio la massima auctoritas fu rappresentata da
Severino Boezio il cui trattato De institutione musica (“Sui fondamenti
della musica”) fu per tutto il Medioevo il testo di riferimento obbligatorio
per chiunque si occupasse della materia.
Nato a Roma nel 480 da antica famiglia patrizia, Boezio visse a Ravenna
alla corte del re degli Ostrogoti Teodorico da cui fu onorato come uno dei
massimi eruditi del suo tempo. Caduto in disgrazia in seguito a un’accusa di
tradimento, fu processato, condannato a morte e giustiziato a Pavia nel 524.
Fu autore di numerose opere scientifiche, storiche e filosofiche di grande
mole e di profonda dottrina, fra cui spicca il De consolazione philosophiae
(“La consolazione della filosofia”, 520), uno dei testi cardine della cultura
medievale e certo fra i libri fondamentali della biblioteca ideale di Dante,
che nella Commedia celebra il grande filosofo esaltandone la figura di
sapiente e di santo.
«Per vedere ogne ben dentro vi gode
l’anima santa che ’l mondo fallace
fa manifesto a chi di lei ben ode.»
Paradiso X ,124-126
Allo scopo di redigere una summa del sapere scientifico che servisse di
introduzione alla filosofia, Boezio dedicò alle arti del quadrivio un ciclo di
quattro trattati, due dei quali ( sull’Astronomia e sulla Geometria) sono
andati perduti mentre quelli sull’Aritmetica e sulla Musica sono giunti fino
a noi. Il De institutione musica , composto intorno al 510 e formato da
cinque libri, analizza in modo approfondito la natura della musica a partire
dalle sue origini greche con particolare riguardo a Pitagora e a Platone,
giungendo a proporre un’idea della scienza musicale come fondamento di
un’austera educazione morale che rifugge da ogni compiacimento
edonistico e da ogni abbandono alle facili emozioni dei sensi: significativa
in questo senso è la condanna di Timoteo di Mileto che, scrive Boezio:
«Spregiò l’arte antica della musica: egli modificò la cetra a sette corde aggiungendone altre
quattro e introdusse così la modulazione di molte voci. Egli inventò la musica polifonica e la
insegnò ai fanciulli che aveva ricevuto da istruire allontanandoli dalla virtù e trasformando
l’austera armonia tradizionale nel genere cromatico che è più molle e tale da indebolire e
corrompere l’animo dei giovani.»
De institutione musica , I , 2
Sulla scorta dunque del pensiero pitagorico e platonico, per Boezio la
musica è prima di tutto un esercizio della ragione, una forma di spiritualità
che ci può guidare verso l’assoluto e farci comprendere la perfetta armonia
dell’universo.
Tre sono le forme in cui la musica si esprime: la più alta e nobile è la
musica mundana , quella che nasce dal ruotare delle sfere celesti e
dall’eterno movimento della grandiosa macchina del creato:
«Come potrebbe accadere – scrive Boezio – che la velocissima macchina dei cieli si muova nel
suo corso in tacito silenzio? E se quel suono non è percepibile dalle nostre orecchie, ciò
dipende da varie ragioni, e soprattutto dalla scarsa sensibilità dei nostri sensi.»
Ed ecco allora che Dante, nel Convivio (II , 13), assimila la musica al cielo
di Marte proprio in base a criteri di simmetria e proporzionalità:
«E lo cielo di Marte si può comparare a la Musica per due proprietadi: l’una si è la sua più
bella relazione, ché, annumerando li cieli mobili, da qualunque si comincia, o da l’infimo o dal
sommo, esso cielo di Marte è lo quinto, ed esso è lo mezzo di tutti, cioè de li primi, de li
secondi, de li terzi e de li quarti. L’altra si è che esso Marte dissecca e arde le cose perché lo
suo calore è simile a quello del fuoco; e questo è quello per che esso pare affocato di colore,
quando più e quando meno, secondo la spessezza e raritade de’ vapori che ’l seguono [...] E
queste due proprietadi sono ne la Musica, la quale è tutta relativa, sì come si vede ne le parole
armonizzate e ne li canti, de’ quali tanto più dolce armonia resulta, quanto più la relazione è
bella. Ancora, la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del
cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione.»
Dunque, l’eterna rotazione che Dio imprime ai cieli (la rota che tu
sempiterni ) attrae l’attenzione di Dante con una musica che al tempo stesso
è accordata e distinta nelle sue diverse componenti (con l’armonia che
temperi e discerni ): e questa armonia non può essere che la musica delle
sfere che qui, finalmente, diventa percepibile all’orecchio del poeta che ha
compiuto la sua definitiva purificazione sulla cima del Purgatorio ed ha
quindi acquisito la capacità di elevarsi dalle cose terrene a quelle celesti.
Ma si tratta di un suono del tutto estraneo all’esperienza umana (la novità
del suono ) e quindi inaccessibile ad ogni tentativo di riproduzione: siamo
ancora nell’universo metafisico della musica mundana di Boezio, ancora a
distanze siderali dall’umile quotidianità della musica instrumentalis . Una
musica, insomma, che, più che nei suoni, vive nelle simmetrie matematiche,
nelle proporzioni esattamente calcolate, nel rigoroso calcolo dei rapporti
numerici.
Del resto, l’attenzione vivissima che Dante ebbe per i numeri, le loro
corrispondenze e i loro significati riposti sembrerebbe confermare questa
interpretazione: tutti i lettori della Commedia sanno bene quanto giochino
nel poema le componenti numerologiche, sia a livello strutturale che
simbolico, con la ricorrenza ossessiva del tre, ma anche con riferimenti ad
altri numeri come il sette, il nove e soprattutto il dieci, definito nel Convivio
“lo perfetto numero” insieme col suo multiplo cento che “moltiplica lo
perfetto numero per sé medesimo”.
Non sarà quindi un caso, ad esempio, che i canti della Commedia siano
cento e che il primo canto dell’Inferno e l’ultimo del Paradiso contino
rispettivamente 136 e 145 versi, numeri che, considerando la somma delle
singole cifre che li compongono (1+3+6 e 1+4+5), danno ambedue dieci,
aprendo e chiudendo così il poema nel segno del numero perfetto. In
conclusione, poiché, come insegna Pitagora, l’universo è fondato sui
numeri, per Dante anche la musica non può che apparire come
un’espressione squisitamente matematica.
Giunti a questo punto, sembrerebbe inevitabile identificare la concezione
dantesca con quella di Boezio per il quale, come abbiamo visto, la musica
assumeva il carattere di un puro concetto filosofico e di un’astrazione
estranea all’esperienza pratica e al diletto dei sensi.
Ma se arrivassimo a questa conclusione commetteremmo un errore, perché
in realtà le cose non stanno così: Dante infatti, pur affascinato
intellettualmente dalle teorie pitagoriche e boeziane, fu ben lontano dal
ripudiare la musica instrumentalis che anzi conobbe, amò e forse anche
praticò, come attestano, oltre ai tanti passi della Commedia che
esamineremo a suo luogo, anche numerose testimonianze, a cominciare da
quella del suo più illustre biografo, Giovanni Boccaccio .
Scrive infatti Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante (1355):
«Sommamente si dilettò in suoni ed in canti nella sua giovinezza; e a ciascuno, che a que’
tempi era ottimo cantatore e sonatore, fu amico ed ebbe sua usanza; ed assai cose, da questo
diletto tirato, compose, le quali di piacevole e maestrevol nota a questi cotali faceva rivestire.»
chiedendogli di rivestire
«... esta pulcella nuda,
che vien di dietro a me sì vergognosa,
ch’a torno gir non osa,»
Siamo nel quarto cerchio, e questi spiriti che “riddano” sono quelli degli
avari e dei prodighi che si vengono incontro spingendo col petto e facendo
rotolare pesanti macigni, finché non cozzano gli uni contro gli altri
rinfacciandosi i rispettivi peccati per poi riprendere il loro eterno cammino
in senso inverso fino a scontrarsi di nuovo dalla parte opposta del cerchio.
È questo movimento di due schiere che avanzano e retrocedono che viene
rappresentato da Dante ricorrendo all’immagine della ridda , una danza
medievale in cui appunto i ballerini si avvicinavano e si respingevano con
movimenti molto energici e veloci.
Si trattava di un ballo caotico e sregolato, tanto che la parola “ridda” è
passata a indicare il ballo delle streghe durante il Sabba e poi, nell’italiano
moderno, un insieme confuso di elementi eterogenei e contradditori, in una
accezione negativa che doveva essere percepita già al tempo di Dante.
Non è quindi casuale che qui il termine sia usato per indicare il disordinato
incontro-scontro di avari e prodighi, con in più una sfumatura di derisione
nei confronti di questi dannati che subiscono la loro pena sotto forma di una
danza grottesca.
Un altro passo dell’Inferno in cui è presente un riferimento alla danza si
trova nel Canto XIV , 40-42. Siamo nel terzo girone, settimo cerchio,
occupato da un immenso deserto di sabbia rovente su cui scende un’eterna
pioggia di fuoco che tormenta i violenti:
«Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l’arsura fresca.»
La tresca era una danza campagnola che si ballava nelle feste di villaggio
con passi rapidi e saltellati simili a quelli della tarantella e viene qui
utilizzata metaforicamente da Dante per dare un’idea del frenetico
movimento delle mani con cui i dannati cercano di scuotere via ogni nuova
fiammella (l’arsura fresca ) che cade loro addosso.
Anche qui, come nell’esempio precedente, c’è un intento derisorio sia
nell’opporre la tresca , che doveva essere un ballo allegro e festoso, alle
misere mani dei dannati, sia nell’ossimoro arsura fresca che sembra
prendersi gioco della sofferenza provocata dalle sempre nuove fiamme che
scendono a bruciare i sodomiti.
Infine, c’è un ultimo luogo dell’Inferno in cui la danza, pur senza essere
citata esplicitamente come tale, sembra essere evocata dalle posture e dai
movimenti dei personaggi: nel Canto XVI , sempre nel girone dei violenti,
Dante è raggiunto dalle grida di tre sodomiti fiorentini che lo chiamano e
poi si soffermano a conversare con lui denunciando la corruzione di
Firenze. Poiché la loro pena li condanna a correre eternamente sotto la
pioggia di fuoco, i tre per parlare con il poeta formano una sorta di
girotondo intorno a lui come si faceva in un antico ballo danzato in cerchio,
la rota (XVI , 19-21):
«Ricominciar, come noi restammo, ei
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.»
Ma per poter guardare in faccia Dante mentre gli girano intorno, i tre
spiriti sono costretti a ruotare il collo in un senso sempre contrario a quello
in cui si muovono i piedi (XVI , 25-27):
«così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.»
Anche qui, come nei casi già esaminati della tresca e della ridda , la danza
dei tre dannati assume caratteri grotteschi: la ridda , la tresca e la rota ,
dunque, vengono stravolte e diventano, da manifestazioni in cui il corpo,
attraverso l’agilità e l’armonia dei movimenti esprime la gioia di vivere,
una sinistra parodia che umilia e deride i protagonisti.
È quanto accadrà, come vedremo, anche con la musica, secondo la
malvagia logica infernale che gode nel degradare e nell’insozzare tutto ciò
che è bello.
Ben diverso, come già si è detto, è il modo in cui la danza viene
rappresentata nel Purgatorio e nel Paradiso .
Per quanto riguarda il Purgatorio , le scene di danza sono concentrate nei
canti ambientati nel giardino dell’Eden, dal XXVIII in avanti. In precedenza
la danza fa una sola apparizione indiretta nel Canto X , 64-66, quando Dante
descrive i bassorilievi rappresentanti esempi di umiltà scolpiti nel fianco
della prima cornice. In uno di questi appare il re David che precede l’Arca
danzando con i panni alzati:
«Lì precedeva al benedetto vaso,
trescando alzato, l’umile salmista,
e più e men che re era in quel caso.»
Danzano e cantano, dunque, gli spiriti sapienti del cielo del Sole, proprio
come nel nostro mondo quelli che danzano a tondo (quei che vanno a rota ),
spinti da un eccesso di letizia, innalzano la voce cantando e accrescendo
l’allegria dei gesti. Il paragone non suoni irriverente: la perfetta letizia dei
beati, inesprimibile a parole, può trovare un correlativo accessibile alla
nostra comprensione solo nella musica e nella danza.
Certo, non dobbiamo cadere nell’errore di rappresentarci le danze
paradisiache come una sorta di spettacolare ed elegantissimo musical : la
tensione verso la totalità dell’essere che si sprigiona da questi grandiosi
scenari è scandita da un ritmo trascendentale che non ha niente a che fare
con le nostre esperienze sensibili, anche le più raffinate, e casomai, se è
lecito un accostamento filologicamente non pertinente ma forse adeguato
sul piano antropologico, richiama la grande tradizione orientale della danza
cosmica dell’universo, meravigliosamente sintetizzata nel mito induista
della danza creatrice di Shiva : nella gioiosa danza del dio si ritrovano tutte
le creature così come tutti gli spiriti beati si ritrovano negli immensi cerchi
che ruotano intorno alla benedetta fiamma di san Tommaso ( Paradiso , XII ,
1-6):
«Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola;
e nel suo giro tutta non si volse
prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse;»
La danza degli spiriti beati, alternando i suoi ritmi più o meno veloci, fa
comprendere al poeta la diversa misura della loro beatitudine, e svolge
quindi la sua fondamentale funzione di comunicare l’ineffabile, di significar
per verba l’indicibile.
Così avverrà anche al termine del poema, quando Dante, raggiunto
l’Empireo , potrà contemplare in una visione d’insieme il regno dei cieli
sotto forma di una candida rosa i cui petali sono formati dai vari ordini di
beati. L’immobilità estatica degli spiriti immersi nella contemplazione è in
rapporto dialettico con l’incessante volo degli angeli che scendono nella
rosa dei beati per poi risalire verso la luce divina, e ancora una volta la
metafora della danza soccorre il poeta che, venuto al divino dall’umano e
all’etterno dal tempo non trova le parole per descrivere ciò che ha visto (
Paradiso , XXXI , 1-12):
«In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa;
ma l’altra, che volando vede e canta
la gloria di colui che la ’nnamora
e la bontà che la fece cotanta,
sì come schiera d’ape, che s’infiora
una fiata e una si ritorna
là dove suo laboro s’insapora,
nel gran fior discendeva che s’addorna
di tante foglie, e quindi risaliva
là dove ’l suo amor sempre soggiorna.»
Discendono e risalgono gli angeli, si raccolgono i beati nella candida rosa,
ruotano i cieli e le stelle, tutto si muove al ritmo di un’armonia universale,
in una tempra perfettamente accordata ed equilibrata, ed è la danza l’unico
strumento disponibile per descrivere lo spettacolo ineffabile della
perfezione dell’essere.
E anche al limite estremo, di fronte alla manifestazione diretta di Dio,
quando l’immaginazione ha ormai esaurito ogni risorsa, è ancora un
immagine ritmica, un tempo di danza che soccorre la fantasia stremata del
poeta ( Paradiso , XXXIII , 142-145):
«A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.»
5
LA MUSICA NELL’INFERNO
Ma ancora prima di iniziare la sua discesa agli inferi Dante ci indica una
chiave interpretativa dell’intera cantica quando, nel canto proemiale, per
descrivere le tenebre che oscurano il mondo dei dannati usa la sinestesia là
dove ’l sol tace (Inferno , I, 60).
L’attribuire alla scomparsa del sole una connotazione auditiva non è un
semplice accorgimento retorico: il “tacere” del sole, infatti, qui non è solo
mancanza di luce, ma mancanza di armonia, allusione allo stato di caos e di
disordine in cui le cose sono ridotte dall’assenza di Dio che si identifica
appunto con l’armonia dell’universo.
A conferma, lo stesso procedimento sinestetico che associa il buio al
silenzio lo ritroviamo poco più avanti, quando Dante descrive le tenebre del
girone dei lussuriosi con il verso:
«Io venni in loco d’ogne luce muto»
Inferno , V , 60
La cifra dell’inferno, dunque, la sua connotazione più pervasiva e
onnipresente, è il caos originato dalla distruzione dei rapporti armoniosi che
regolano l’universo (la musica mundana di Boezio) e che sono sinonimo di
bene e di bellezza.
Ne consegue che, poiché la musica è essenzialmente manifestazione di
ordine, nell’universo del caos essa non può esistere. È significativo a questo
riguardo quanto dice un antico commentatore della Commedia , Jacopo
della Lana, a proposito dei versi 25-30 del Canto III dell’Inferno :
«Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.»
Questa immagine dell’aria che sembra tremare è poi ripresa ancora due
volte nel Canto IV :
«Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l’aura etterna facevan tremare;»
Inferno , IV , 25-27
E ancora:
«La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l’aura che trema.»
Inferno , IV , 148-150
Ora, l’aria che trema in presenza di manifestazioni eccezionali è
un’immagine ricorrente nella tradizione dello stilnovismo: la ritroviamo per
esempio, espressa con parole quasi uguali ma portatrice di un ben diverso
messaggio, nel meraviglioso incipit di un sonetto di Guido Cavalcanti:
«Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
e fa tremar di chiaritate l’are?»
Dunque, per descrivere le urla dei dannati sofferenti Dante usa accanto al
termine guai , degradante perché usualmente riferito ai latrati animaleschi
(da cui, per esempio, “guaito”), il termine lai , tratto dalla tradizione lirica
in lingua d’oeil in cui indicava un lamento d’amore (celebri per esempio i
lais di Maria di Francia).
Il fatto che siamo nel girone dei lussuriosi rende evidente l’intento
parodico della scelta: l’accostamento degli armoniosi lai agli animaleschi
guai ci suggerisce come la lussuria sia una degradante parodia dell’amore,
la trasformazione di un sentimento nobilitante in una passione abietta degna
delle bestie. Ancora una volta, la rappresentazione del male è affidata alla
sua identificazione con una musicalità corrotta e deformata.
Lo stesso meccanismo lo ritroviamo in azione nel Canto VII , dove gli
accidiosi immersi nel fango rantolano i versi di una cantilena che Dante
ironicamente chiama inno (121-126):
«Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra”.
Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra».
O voi che passate lungo la via, considerate e guardate se esiste un dolore paragonabile al mio.
Dunque, una volta di più, l’inferno appare come il regno della non-musica,
dei suoni “indiscreti” che si sottraggono all’analisi razionale e si risolvono
nel caos: l’inizio del canto seguente, il XXII , con il suo elenco di strumenti
che emettono suoni “discreti” (le trombe, le campane, i tamburi) per
segnalare e coordinare i movimenti di forze militari, serve a sottolineare
con la massima evidenza l’estraneità fra l’universo dell’ordine e quello del
disordine.
Ma nello stravolto mondo infernale anche i suoni di per sé più melodiosi
assumono una connotazione sinistra e minacciosa: fra tutti gli strumenti
ricordati nell’Inferno , uno solo è rappresentato in azione e non
semplicemente citato, ed è il corno del gigante Nembrot nel Canto XXXI (10-
18):
«Quiv’era men che notte e men che giorno,
sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
ma io senti’ sonare un alto corno,
tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
non sonò sì terribilmente Orlando.»
Sono parole tratte dal Didascalicon di Ugo da San Vittore , un testo del XII
secolo che Dante molto probabilmente conosceva, e chiariscono bene il
ruolo centrale che la musica riveste nel Purgatorio e il senso profondo della
sua presenza lungo tutto l’arco della seconda cantica.
Il Purgatorio infatti è il luogo in cui l’anima si riconcilia con il corpo e il
conflitto fra materiale e spirituale viene superato in una sintesi armoniosa
che annulla ogni contraddizione fra la purezza dello spirito e gli impulsi
passionali che si sprigionano dalla nostra natura corporea segnata dal
peccato originale.
Ora, è proprio la musica che prefigura già nella vita mortale il processo di
purificazione attraverso cui, nelle varie forme dell’espiazione purgatoriale,
viene ristabilita una nuova e stavolta eterna alleanza fra anima e corpo:
quella musica che attraverso l’udito, cioè sfruttando un senso corporeo, è
capace di influire sull’animo di chi la ascolta separandolo da ogni interesse
materiale e che, come dice Dante nel Convivio :
«Trae a sé li spiriti umani [...] sì che quasi cessano da ogni operazione.»
Dante chiede l’aiuto di Calliope, la musa del canto epico, a cui si rivolge
per poter trovare le parole adatte a descrivere, dopo l’orrore dell’Inferno , la
nuova realtà che si troverà davanti nel Purgatorio .
Ma questo appello è strutturato in modo da preavvisarci che la musica di
cui il poeta invoca il soccorso e il sostegno si può presentare in due diverse
versioni, una moralmente positiva e l’altra negativa: la prima versione è
rappresentata appunto dal canto di Calliope, conforto e sostegno prezioso
sulla via che conduce a Dio; la seconda, al contrario, costituisce un ostacolo
e un intralcio lungo questo cammino, perché si fonda su princìpi e valori
mondani fuorvianti rispetto al percorso di purificazione che le anime del
Purgatorio devono compiere.
Questa variante negativa della musica è qui evocata nel mito (che Dante
conosceva attraverso le Metamorfosi di Ovidio ) delle figlie dell’antico re di
Tessaglia, Pierio, le quali sfidarono Calliope a una gara di canto; sconfitte,
furono per punizione trasformate in gazze (“ Piche”) diventando simbolo di
vanità e di peccaminoso orgoglio.
Il riferimento al mito delle Piche e alla loro perdizione è in sostanza un
monito con cui Dante mette in guardia contro i pericoli che possono nascere
da un uso sbagliato della musica, tema che sarà subito ripreso e
approfondito nel canto seguente e che, a riprova della sua importanza,
tornerà ad essere affrontato anche successivamente.
La denuncia dei pericoli insiti nella musica non è del resto una prerogativa
di Dante, ma fa parte di una sensibilità che si prolunga dall’antichità al
Medioevo: ne abbiamo già trovato le tracce quando abbiamo ricordato la
condanna platonica di Timoteo di Mileto che, aggiungendo altre corde alle
sette della cetra classica, aveva dato luogo a una musica diseducativa
perché edonistica e sensuale; sullo stesso piano abbiamo anche visto
collocarsi Boezio, sant’Agostino, san Tommaso e i teorici dell’“ethos
modale” che, sostenendo la tesi delle influenze spirituali della musica,
accettano implicitamente il fatto che esse possano essere sia positive che
negative.
Si potrebbe dunque dire che Dante a questo proposito si muove nel solco
di una tradizione da lungo tempo stabilita e consolidata senza aggiungervi
niente di nuovo. Tuttavia, all’inizio del Purgatorio il poeta affronta la
questione con una tale intensità e con una tale partecipazione personale da
trasformare la discussione filosofica in una emozionante vicenda di vita
vissuta.
Ci riferiamo naturalmente all’episodio di Casella, l’amico musico a cui
Dante chiede di intonare ancora una volta una delle melodie che lo avevano
tanto dilettato al tempo della loro amicizia. Ecco i versi ( Canto II , 106-
114):
«E io: “Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso all’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!”
“Amor che ne la mente mi ragiona”
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti
come a nessun toccasse altro la mente.»
Dunque, la prima musica che Dante ode nel Purgatorio non è l’amoroso
canto di Casella ma il Salmo 113 che celebra la liberazione del popolo di
Israele dalla schiavitù degli egiziani:
«Quando Israele uscì dall’Egitto,
i figli di Giacobbe da una terra straniera,
Giuda divenne il popolo santo,
e Israele dominio del Signore.»
Chi presta orecchio al canto della sirena, dunque, non riesce a separarsene
tanto si sente appagato in tutti i suoi desideri (ricordiamo cosa dice Dante a
proposito dell’amoroso canto di Casella, che mi solea quetar tutte mie
voglie ). Ma Virgilio interviene a risvegliare il poeta facendogli riprendere il
cammino e guidandolo all’ingresso della quinta cornice, e lì, appena
entrato, Dante incontra le anime degli avari e dei prodighi che, distese
bocconi a terra, cantano sommessamente il versetto di un Salmo, Adhaesit
pavimento anima mea , “L’anima mia è prostrata al suolo”(70-75):
«Com’io nel quinto giro fui dischiuso,
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso.
“Adhaesit pavimento anima mea”
sentia dir lor con sì alti sospiri,
che la parola a pena s’intendea.»
Nella Bibbia (Genesi , 29, 15-30) Lia e Rachele sono le due sorelle spose
di Giacobbe, e rappresentano allegoricamente una la vita attiva e l’altra la
vita contemplativa. Lia infatti, nell’immagine dantesca, si dedica a
raccogliere fiori con i quali intreccia ghirlande, mentre Rachele non si
stacca dallo specchio in cui contempla i suoi begli occhi.
Sia la prima che la seconda sono simboli di un diverso grado di felicità,
come lo stesso Dante scrive nel Convivio (IV , 17):
Noi potemo avere in questa vita due felicitadi, secondo due diversi cammini, buono e ottimo,
che a ciò ne menano: l’una è la vita attiva, l’altra la contemplativa.
Il primo verso di questa terzina riprende quasi alla lettera una “pastorella”
di Guido Cavalcanti (“In un boschetto trova’ pasturella”) il cui verso 7
suona: “cantava come fosse ’namorata”. La citazione del testo stilnovistico
del Cavalcanti è seguita subito, al verso 3, dal testo liturgico del Salmo 31,
accostando così due mondi fino a quel punto separati e, anzi, antagonisti: è
un’altra dimostrazione, attraverso la musica, di come ormai, al termine del
percorso purgatoriale, ogni contrapposizione fra esperienza del corpo e
esperienza dello spirito sia svanita per ricomporsi armoniosamente nel
canto di Matelda.
È attraverso la musica, dunque, che si esprime il significato profondo del
Purgatorio : i canti di Lia e di Matelda sono il punto di arrivo di un lungo
cammino di redenzione che, iniziato nel Canto II con l’opposizione fra il
Salmo “In exitu Israel de Aegypto ” e l’amoroso canto di Casella, prosegue
lungo tutto l’arco della Cantica come una sorta di terapia musicale che,
secondo i dettami dell’“ethos modale”, asseconda il processo di
purificazione.
Vediamo quindi le anime (o in alcuni casi le voci degli angeli) intonare
canti liturgici (Salmi, Inni, Antifone, Beatitudini, parti dell’ordinario della
Messa come l’“ Agnus Dei ”, il “ Sanctus ”, il “ Gloria”) adeguati alle
diverse forme di penitenza con cui i diversi peccati vengono espiati: così
nel Canto V gli spiriti dei “morti per forza” cantano mestamente il
“Miserere”; nel Canto VIII , al calar della notte le anime dei principi
intonano l’inno “ Te lucis ante ” composto da sant’Ambrogio contro i
pericoli delle tenebre; nel Canto IX l’ingresso nel Purgatorio è
accompagnato da un esultante “ Te Deum”; nel Canto XII voci di un
indescrivibile soavità cantano la prima beatitudine, “Beati i poveri di
spirito”, come ammonimento ai superbi; nel Canto XII gli spiriti degli
iracondi intonano l’“ Agnus Dei” in un coro unisono che manifesta il
ritrovato spirito di concordia; nel Canto XXIII i golosi cantano il Salmo 50 ,
in cui i penitenti promettono di aprire la bocca solo per pronunciare le lodi
del Signore.
Tutti questi canti sono intonati da una voce solista o, più frequentemente,
da un coro di anime che cantano all’unisono, in segno di umiltà e di
sottomissione a una concorde volontà di espiazione; tuttavia, nella parte
finale del Purgatorio cominciano a emergere accenni a esecuzioni
polifoniche, cioè all’accordo di più voci o di più strumenti che eseguono
melodie diverse, anticipando quella che sarà la musica dominante nel
Paradiso .
Il primo riferimento alla tecnica polifonica lo troviamo nel Canto XXVIII (7-
18):
«Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;
non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;
ma con piena letizia l’ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime.»
La scena, di una serena e intatta bellezza quale doveva essere quella del
mondo prima del peccato, è ravvivata da una nota musicale introdotta dal
canto degli uccelli che salutano l’alba. Le voci degli augelletti sono
accompagnate dall’uniforme fruscìo delle foglie mosse dal vento: come in
un canto polifonico, gli uccelli interpretano la parte solistica mentre lo
stormire delle foglie costituisce il “bordone”, cioè la nota fissa detta anche
“basso continuo” che accompagna e sostiene le fioriture melismatiche dei
solisti.
Più avanti, nel Canto XXX , si ha un’anticipazione della musica mundana
che domina nel Paradiso attraverso un richiamo alla musica delle sfere
prodotta secondo l’antica tradizione pitagorica dal ruotare delle sfere
celesti, e subito dopo un altro riferimento alla polifonia (91-96):
«così fui sanza lagrime e sospiri
anzi ’l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;
ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre
lor compartire a me, par che se detto
avesser: “Donna, perché sì lo stempre?”»
Perciò la penna del poeta passa oltre, perché la fantasia umana, nonché il
linguaggio, sono strumenti troppo grossolani per riprodurre tale raffinata
bellezza (25-27):
«Però salta la penna e non lo scrivo:
ché l’imagine nostra a cotai pieghe,
non che ’l parlare, è troppo color vivo.»
Questo infinito eccesso del verbo di Dio non può essere colmato dalla
debolezza della mente umana: come si legge in san Paolo (Corinzi , I, 12),
una conoscenza diretta di Dio facie ad faciem è impossibile, e noi possiamo
avvicinarci alla verità solo in modo mediato, per speculum , di riflesso
come in uno specchio.
È quindi solo a partire dalla realtà materiale, riflesso della perfezione
divina, attraverso una sua interpretazione e rielaborazione che all’uomo è
concesso di spingersi al di là di essa e di superare i suoi limiti, fino ad avere
una parziale visione della verità ( Canto XIX , 52-57):
«Dunque vostra veduta, che convene
essere alcun de’ raggi della mente
di che tutte le cose son ripiene,
non po’da sua natura esser possente
tanto, che suo principio non discerna
molto di là di quel che l’è parvente
Dunque, se la musica paradisiaca (le mie note ) come la giustizia divina (il
giudicio etterno ) sono inaccessibili al limitato intelletto degli uomini, per
parlarne occorrerà, come dice san Paolo, tentare un’osservazione per
speculum , cioè fare ricorso a una via indiretta che, partendo dalla realtà
sperimentabile con i sensi, e quindi dal naturale (quel che l’è parvente ), sia
capace di offrire elementi parziali di conoscenza del soprannaturale.
La via indiretta scelta da Dante è di utilizzare quello che nel linguaggio
delle moderne scienze naturali si chiama un isomorfismo, cioè, nella
elegante definizione adottata dagli epistemologi, quel processo in cui si
verifica una trasformazione che conserva l’informazione. Schematizzando:
un soggetto A, portatore dell’informazione X , si trasforma in un soggetto B
portatore dell’informazione X 1, la quale corrisponde parzialmente a X .
“Parzialmente”, si noti bene, perché secondo la teoria dell’informazione
ogni volta che avviene un trasferimento da un emittente a un destinatario
una parte dell’informazione stessa si perde.
Si tratta insomma di un fenomeno per cui due soggetti diversi conservano
in comune una parte dell’informazione originaria pur mantenendo la loro
fondamentale estraneità reciproca.
Un esempio banale di isomorfismo è la relazione che si stabilisce fra
l’esecuzione di un brano di musica e la sua registrazione su un CD : la
trasformazione del primo nella seconda dà origine a due soggetti
fisicamente diversi che però conservano la stessa informazione (ma,
ricordiamolo ancora, solo parzialmente, perché il brano musicale non potrà
mai essere riprodotto perfettamente, come dimostra in un suo celebre
teorema Claude Shannon , il padre della teoria dell’informazione).
Ebbene, l’isomorfismo assunto da Dante per rappresentare la musica
sovrumana del Paradiso è la polifonia: il passaggio dalle melodie unisone
dominanti nel Purgatorio alle armonie polifoniche del Paradiso configura
appunto un isomorfismo perché la polifonia, pur senza essere in grado di
riprodurre la musica paradisiaca nei suoi aspetti fattuali, ne riproduce le
strutture formali, quali la perfezione degli equilibri e dei rapporti reciproci,
la concordia e l’armonia dei diversi, la capacità di ciascuna delle parti di
conservare la propria soggettività e, al tempo stesso, di integrarsi con il
tutto.
Insomma, la trasformazione della musica mundana in musica polifonica
conserva invariato un quantum di informazione che permette di avvicinarsi
a una parziale comprensione di ciò che altrimenti resterebbe inaccessibile
alle nostre limitate capacità intellettuali.
Ovviamente siamo di fronte a un’operazione di conoscenza che va ben
oltre la musica: come nel Purgatorio Dante utilizzava la capacità, propria
della musica, di unire in una sintesi armoniosa facoltà sensuali e facoltà
spirituali per rappresentare la riconciliazione dell’anima con il corpo, così
nel Paradiso l’isomorfismo fra musica delle sfere e polifonia si dilata a
comprendere l’intero assetto del regno dei cieli e a offrirne, attraverso
analogie e similarità formali, un’immagine accessibile agli intelletti umani.
Si tratta certo di un proposito di difficoltà estrema, come viene dichiarato
subito all’inizio del Canto I (4-9):
«Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là su discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.»
In questi versi, nonostante che si parli di danza e non di musica (ma, come
vedremo, nel Paradiso la musica è sovente coniugata con percezioni di
movimento come la danza), è riprodotta perfettamente la struttura di un
mottetto polifonico, in cui al “tenor” basso e lento si intrecciano le altre
voci con un ritmo tanto più rapido quanto più alto è il loro tono, esattamente
come fanno gli ingranaggi di un orologio in cui la ruota che sta alla base
gira così lentamente da parere ferma, mentre quella che riceve l’impulso per
ultima gira tanto vorticosamente che sembra volare.
E che qui Dante, benché descriva dei movimenti di danza, abbia in mente
la musica è dimostrato dall’uso del termine tempra , che, come abbiamo già
visto, indica la compresenza di suoni diversi armonizzati in un accordo.
Può stupire che per riprodurre i meccanismi del canto polifonico Dante
ricorra per ben due volte a una similitudine in cui il termine di paragone è
l’orologio: l’orologio meccanico, l’abbiamo già detto, era all’epoca ancora
poco comune e probabilmente ignoto a molti dei primi lettori della
Commedia (i grandi orologi sui campanili delle chiese e sulle torri dei
palazzi pubblici si diffusero nelle città italiane solo nella seconda metà del
Trecento).
Tuttavia, la similitudine con l’orologio offre al poeta la possibilità di
oggettivare l’innovazione fondamentale introdotta in campo musicale dalla
polifonia, e cioè la misurazione precisa dei tempi di esecuzione: è evidente
infatti che nel canto polifonico, a differenza di quanto accadeva nel canto
unisono gregoriano, per accordare due o più voci che eseguono melodie
diverse è assolutamente necessario il rispetto di un ritmo che regoli
esattamente il succedersi delle note di ciascuna melodia, rendendole
reciprocamente compatibili.
È la cosiddetta musica mensurabilis , “musica misurabile”, che viene
teoricamente studiata da numerosi trattatisti fino dal XII secolo, si consolida
nel secolo successivo soprattutto in Francia (celebri fra gli altri furono i
trattati di Giovanni di Garlandia , De mensurabili musica , 1240, e di
Francone di Colonia, Ars cantus mensurabilis , 1260) per diventare una
pratica comune anche in Italia nel corso del Trecento.
I ritmi calcolati sui tempi certi del canto polifonico sono un evidente
isomorfismo degli armoniosi sincronismi che regolano il movimento dei
cieli, delle schiere angeliche e degli spiriti beati.
Così, quando Beatrice spiega a Dante la natura e i movimenti del nono
cielo, il Primo Mobile , le sue parole riflettono perfettamente i rapporti che
legano le diverse voci all’interno di una struttura polifonica ( Canto XXVII ,
112-120):
«Luce e amor d’un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
colui che ’l cinge solamente intende.
Non è suo moto per altro distinto,
ma li altri son mensurati da questo,
sì come diece da mezzo e da quinto;
e come il tempo tegna in cotal testo l
e sue radici e ne li altri le fronde,
omai a te può esser manifesto.»
Il solenne registro teologico rende ardua la comprensione dei versi, né
potrebbe essere altrimenti vista la complessità del tema, ma grazie
all’isomorfismo fra il moto delle sfere celesti e i rapporti “mensurabili” che
collegano le diverse voci nel canto polifonico, il significato può essere colto
con chiarezza.
Spiega dunque Beatrice che l’ultimo dei nove cieli, il Primo Mobile, è
circondato dall’amore e dalla luce che provengono dall’Empireo, sede della
Divinità; il Primo Mobile, a sua volta, circonda di amore e di luce i cieli
sottostanti, e solo Dio che lo contiene in sé può comprendere ciò che vi è
contenuto (e quel precinto / colui che ’l cinge solamente intende ). Il
movimento del Primo Mobile non è determinato da quello degli altri cieli,
ma sono gli altri a misurare i loro movimenti in rapporto al suo, così come
il numero dieci è in rapporto con la sua metà, il cinque, e con la sua quinta
parte, il due; qui è l’origine del tempo e della sua misura, e da qui nascono
tutti gli altri criteri di misurazione come le fronde nascono dalle radici.
L’isomorfismo è evidente: il Primo Mobile scandisce il tempo
dell’universo così come in polifonia il “tenor” determina il tempo delle altre
voci, e gli altri cieli misurano sul Primo Mobile i propri movimenti così
come le diverse voci nel canto polifonico si accordano reciprocamente sulla
base del tempo fissato dal “tenor”.
E così come Dio comprende e domina nel suo insieme il significato ultimo
dell’universo unificando le sue diverse componenti, allo stesso modo
l’ascoltatore, nel momento in cui è raggiunto dall’effetto finale dell’accordo
polifonico, percepisce suoni diversi uniti in una sintesi armoniosa.
Il punto di maggior complessità raggiunto dall’isomorfismo polifonico
applicato alla rappresentazione dell’armonia celeste si ha nel Canto XXVIII ,
quando i cori angelici glorificano Dio intonando un perpetuo Osanna (115-
120):
«L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Arïete non dispoglia,
perpetüalmente “Osanna” sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s’interna.»
Il ternaro che rifulge nell’eterna primavera del cielo, mai offuscata dalla
costellazione autunnale dell’Ariete, è una delle tre terne da cui è formato
ciascuno dei tre ordini angelici descritti da Dante nei versi precedenti,
riprendendo la rappresentazione che ne dà Dionigi l’Aeropagita nel suo
trattato De coelesti ierarchia (“Sulla gerarchia celeste”). Secondo Dionigi,
vi sono tre ordini di angeli, ciascuno dei quali comprende tre Cori: la prima
triade è formata da Serafini, Cherubini e Troni; la seconda da Dominazioni,
Virtù e Potestà; la terza da Principati, Arcangeli e Angeli.
Sono dunque nove Cori, ognuno dei quali, nella visione dantesca, canta
gioiosamente (sberna , come fanno gli uccelli alla fine dell’inverno) un “
Osanna” perpetuo con una melodia diversa, così che ne risulta una
grandiosa polifonia a nove voci unita a un corrispondente movimento
rotatorio di tutti i Cori intorno a un punto centrale in cui risplende la visione
di Dio: ancora una volta, la complessità dell’intreccio di suoni e di luci è
tale che l’intelletto umano può tentarne una rappresentazione solo attraverso
l’isomorfismo delle strutture polifoniche. Un analogo procedimento
isomorfico (anche se meno spettacolare) viene utilizzato nel Canto XII ,
sempre per esprimere l’ineffabilità della visione celeste.
Qui lo spirito di san Tommaso, dopo avere fatto nel Canto precedente
l’apologia di san Francesco, riprende il suo posto nel cerchio formato da
dodici spiriti sapienti che inizia a ruotare cantando; prima che la rotazione
sia conclusa, un secondo cerchio di altri dodici spiriti circonda il primo, e i
movimenti e il canto dei ventiquattro beati si coordinano così perfettamente
da produrre un’armonia che supera di tanto la musica terrena quanto la luce
emessa direttamente da una sorgente luminosa supera il suo riflesso (1-9):
«Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola;
e nel suo giro tutta non si volse
prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse;
canto che tanto vince nostre muse,
nostre serene in quelle dolci tube,
quanto primo splendor quel ch’e’ refuse.»
Allo stesso modo gli spiriti amanti nel cielo di Venere appaiono al poeta in
una danza di luci che rimanda isomorficamente all’intreccio delle voci in
un’esecuzione polifonica, che in questo caso sembrerebbe essere improntata
alla tecnica del “discanto” in cui una voce tiene ferma una nota di base
mentre un’altra si sovrappone con variazioni melismatiche ( Canto VIII , 16-
21):
«E come in fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si discerne,
quand’una è ferma e l’altra va e riede,
vid’io in essa luce altre lucerne
muoversi in giro più e men correnti,
al modo, credo, di lor viste interne.»
Per offrire un parziale riscontro del mondo celeste, troppo superiore alla
nostra ragione per essere descritto con gli strumenti del linguaggio naturale,
Dante ricorre dunque ad approssimazioni e strategie oblique che permettono
di cogliere i riflessi di una visione soprannaturale inaccessibile per via
diretta; e come si è cercato di dimostrare fin qui, l’isomorfismo polifonico è
la principale di queste strategie.
Ma Dante non è un metafisico né un neoplatonico: per lui la realtà non si
trova in un mondo delle idee separato dall’esperienza sensibile, e le cose e
le storie degli uomini su questa terra sono molto di più che un pallido
simulacro della verità iperurania.
Nella concezione dantesca, vita mortale e vita eterna, anima e corpo si
fondono nell’unità della persona che, una volta compiuto il suo cammino in
questa vita, porta con sé nell’aldilà le sue vicende individuali fissate per
sempre in un destino che il giudizio finale rende immutabile.
Dante, dunque, è il poeta del mondo celeste ma è anche, secondo la
memorabile definizione di Erich Auerbach , il “poeta del mondo terreno”: i
sentimenti, le emozioni, le memorie di questa vita non possono essere
cancellate e perdute nell’altra, dove ognuno di noi conserverà con la
massima intensità il proprio carattere individuale attraverso la
perpetuazione dei gesti del corpo che a questo stesso carattere fu legato e
che con esso si è formato.
La sopravvivenza delle memorie e delle emozioni legate alle vicende
personali è un segno che distingue l’aldilà dantesco da tutte le precedenti
rappresentazioni dell’oltretomba, in cui le anime vivono una realtà oscura e
indistinta o smarriscono completamente la propria identità fondendosi con
la totalità dell’Essere: al contrario, Dante resta “poeta del mondo terreno”
anche nel più spirituale dei tre regni, quel Paradiso che pure il poeta stesso
più volte definisce al di là della comprensione umana.
Anche in questa dimensione metafisica, tuttavia, la potente esperienza
della vita terrena non è dimenticata, e ancora una volta è la musica a
offrircene la prova nel modo più esplicito: non le armonie celestiali
adombrate attraverso le grandiose strutture polifoniche, ma quell’umile
musica instrumentalis che Boezio aveva posto al livello più basso
dell’esperienza musicale ma che Dante amò così tanto da non
dimenticarsene neppure davanti ai cori angelici e alle visioni paradisiache.
Non sarà un caso, allora, che la maestosa apparizione dell’Aquila che
occupa i Canti XVIII , XIX e XX faccia udire la sua voce attraverso la
similitudine con due strumenti familiari ai musici, la nobile cetra e l’umile
zampogna (Canto XX , 22-24), e che altri strumenti che Dante avrà
sicuramente conosciuto e amato (ricordiamo la testimonianza di Boccaccio)
siano presenti anche nelle eteree regioni del Paradiso (oltre alla cetra e alla
zampogna, anche l’arpa, i flailli o flauti, la lira, la tuba, e addirittura il tin
tin della suoneria dell’orologio).
Ma c’è di più: inaspettatamente, nel Canto XX fa la sua apparizione una
canzone del trovatore provenzale Bernart de Ventadorn, ripresa nei versi
che descrivono il volo gioioso dell’allodola (73-75):
«Quale allodetta che ’n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l’ultima dolcezza che la sazia»
A
Adamo, Maestro 1 , 2 , 3 , 4
Adhaesit pavimento anima mea 1
Agnus Dei 1 , 2 , 3
Agostino d’Ippona, san 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6
Alessandria 1
Alfonso X , il Saggio 1
Alighieri, Dante 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11 , 12 , 13 , 14 , 15 , 16 , 17 , 18 , 19 , 20 , 21 , 22 ,
23 , 24 , 25 , 26 , 27 , 28 , 29 , 30 , 31 , 32 , 33 , 34 , 35 , 36 , 37 , 38 , 39 , 40 , 41 , 42 , 43 , 44 , 45 ,
46 , 47 , 48 , 49 , 50 , 51 , 52 , 53 , 54 , 55 , 56 , 57 , 58 , 59 , 60 , 61 , 62 , 63 , 64 , 65 , 66 , 67 , 68 ,
69 , 70 , 71 , 72 , 73 , 74 , 75 , 76 , 77 , 78 , 79 , 80 , 81 , 82 , 83 , 84 , 85 , 86 , 87 , 88 , 89 , 90 , 91 ,
92 , 93 , 94 , 95 , 96 , 97 , 98
Ambrogio, san 1 , 2 , 3
Andrea di Bonaiuto 1 , 2
Anfione 1 , 2
Anonimo Fiorentino 1 , 2
Antifonario 1 , 2
Antifonario della biblioteca capitolare di Lucca 1
Antipurgatorio 1
Apollo 1 , 2
Arezzo 1 , 2 , 3 , 4
Aristosseno di Taranto 1 , 2
Aristotele 1 , 2
Aritmetica 1
Ars antiqua 1 , 2
Ars cantus mensurabilis 1
Ars nova 1 , 2 , 3
Ars poetica 1
Arti del Trivio 1
Arti liberali 1
Asperges me 1
Astronomia 1 , 2
Auerbach, Erich 1
Ave Maria 1 , 2
Averroè 1
B
Bach, Johann Sebastian 1 , 2
Barbariccia 1
Basilio di Cesarea, san 1
Beati mundo corde 1
Beatrice 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10
Beda, il Venerabile 1 , 2
Belacqua 1
Benvenuto da Imola 1
Bernardo 1
Bernardo di Chiaravalle, san 1 , 2
Bernart de Ventadorn 1
Bertran de Born 1 , 2
Bibbia 1 , 2 , 3
Biblioteca Nazionale di Firenze 1
Bisanzio 1
Boccaccio, Giovanni 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6
Boezio, Severino 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11 , 12 , 13 , 14 , 15 , 16 , 17 , 18
Brunetto Latini 1 , 2
C
Cacciaguida 1
Cage, John 1
Calendimaggio 1
Calliope 1 , 2 , 3
Cangrande 1
Canti della Messa 1
Canti dell’Ufficio 1
Cantigas de Sancta Maria 1
Cantus planus 1
Canzone a ballo 1
Capella, Minneo Felice Marziano 1 , 2
Carità 1
Carlomagno 1
Casella 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11 , 12 , 13 , 14 , 15 , 16 , 17 , 18 , 19 , 20
Casentino 1
Castiglia 1
Catone, Marco Porcio 1 , 2
Cattedrale di Notre Dame 1
Cattedrale di Worcester 1
Cavalcanti, Guido 1 , 2
Chanson de Roland 1
Chiesa di Santa Maria Novella 1
Cicerone, Marco Tullio 1
Codice Rossi 1 , 2
Commedia 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11 , 12 , 13 , 14 , 15 , 16 , 17 , 18 , 19 , 20 , 21 , 22 , 23
Compiégne 1
Concilio di Trento 1
Confessioni 1 , 2 , 3
Conti di Romena 1
Contini, Gianfranco 1 , 2
Controriforma 1
Convivio 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10
Corelli, Arcangelo 1
Coussemaker, Charles-Edmond-Henri de 1
Crescimbeni, Giovanni 1
Crotone 1
D
David 1 , 2
De arte musica 1 , 2
De arte saltandi et choreas ducendi 1
Decameron 1
De coelesti ierarchia 1
De consolazione philosophiae 1
De institutione musica 1 , 2 , 3 , 4
De mensurabili musica 1
De Musica 1 , 2
De nuptiis Mercurii et Philologiae 1
De republica 1
De vulgari eloquentia 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7
Dialettica 1
Didascalicon 1
Dionigi il Certosino 1
Dionigi l’Areopagita 1
Doktor Faustus 1
Dolce stil nuovo 1
Domenico da Ferrara 1
Donati, Piccarda 1 , 2
Duecento 1 , 2
E
Ecco la primavera 1
Egitto 1 , 2
Elsheikh 1
Elsheikh, Mahmoud 1
Empireo 1 , 2
Episodio di Casella 1 , 2 , 3
Europa 1 , 2
F
Fede 1
Filelfo, Francesco 1
Filolao di Crotone 1
Firenze 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10
Fiume Lete 1
Francesco d’Assisi, san 1 , 2
Francia 1 , 2 , 3 , 4 , 5
Francone di Colonia 1 , 2
G
Geometria 1 , 2
Gerberto di Aurillac 1
Geremia 1
Gherardello da Firenze 1
Giacobbe 1 , 2
Giotto 1
Giovanni Battista, san 1
Giovanni di Garlandia 1
Giovanni di Grouchy 1
Giovanni XIX , papa 1
Giovanni XXII , papa 1
Giudea 1
Giustiniano i 1
Gloria 1 , 2
Grammatica 1
Gregorio, Magno 1
Guglielmo di Malmesbury 1
Guido d’Arezzo 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7
H
Händel, Georg Friedrich 1
I
Indiana University 1
Inf ., III 1
Inf ., XXXII 1
Inf ., I 1
Inf ., III 1 , 2 , 3 , 4
Inf ., V 1 , 2
Inf ., VI 1
Inf ., VII 1
Inf ., X 1
Inf ., XII 1
Inf ., XIV 1 , 2
Inf ., XIX 1
Inf ., XVI 1
Inf ., XXI 1
Inf ., XXII 1
Inf ., XXX 1
Inf ., XXXI 1 , 2
Inf ., XXXIV 1
Inf ., XVIII 1
Inno della Santa Croce 1
Isidoro di Siviglia, san 1 , 2 , 3
Israel 1 , 2
Israele 1 , 2
Italia 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6
J
Jacopo da Bologna 1
Jacopone da Todi 1
L
Lamentazioni 1
Lana, Jacopo della 1 , 2 , 3 , 4
Landini, Francesco 1 , 2
Latini, Brunetto 1 , 2
Laudario di Cortona 1 , 2
Laude di Dama Matelda 1
Leopardi, Giacomo 1
Leverkühn, Adrian 1
Lia 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6
Liber Gratiae Specialis 1 , 2
Limbo 1
Lucidarium 1
M
Macrobio, Ambrosio Teodosio 1
Manetti, Giannozzo 1
Mann, Thomas 1
Marchetto da Padova 1
Matelda 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8
Matematica 1
Matilde di Canossa 1
Matilde di Hackeborn, santa 1 , 2
Matilde di Magdeburgo 1
Medioevo 1 , 2
Metamorfosi 1
Micrologus 1 , 2
Milano 1
Mileto 1 , 2
Mito di Marsia 1
Monastero di Helfta 1
Montale, Eugenio 1 , 2
Monte Citerone 1
Mosè 1
Musica 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9
Musica humana 1
Musica instrumentalis 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9
Musica mensurabilis 1 , 2
Musica mensurata 1
Musica mundana 1 , 2 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11
N
Nembrot 1 , 2 , 3 , 4
Noktero 1 , 2
Noktero Balbulo 1
Notre Dame 1 , 2 , 3
O
Orfeo 1 , 2
Orlandi, Lemmo 1
Orlando 1
Osanna 1 , 2
Ovidio Nasone, Publio 1
P
Paolo di Tarso, san 1 , 2
Par ., 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11 , 12 , 13 , 14 , 15 , 16 , 17 , 18 , 19 , 20 , 21 , 22 , 23 , 24 ,
25 , 26 , 27 , 28 , 29 , 30
Par ., I 1 , 2 , 3
Par ., III 1
Par ., VII 1
Par ., X 1 , 2 , 3
Par ., XII 1
Par ., XIV 1 , 2 , 3
Par ., XIX 1
Par ., XV 1
Par ., XVIII 1 , 2
Par ., XX 1 , 2
Par ., XXIII 1 , 2
Par ., XXIV 1 , 2
Par ., XXVII 1
Par ., XXVIII 1
Par ., XXXI 1
Par ., XXXIII 1 , 2 , 3 , 4
Paradiso Terrestre 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6
Par ., XXIII 1
Parigi 1 , 2
Pasci de’ Bardi, Lippo 1 , 2 , 3 , 4 , 5
Pavia 1
Perotino, magister 1
Petrarca, Francesco 1
Piche 1 , 2 , 3
Pierio 1
Pipino III , il Breve 1
Pitagora 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6
Platone 1 , 2 , 3 , 4
Pomerium 1
Portinari, Folco 1
Primo Mobile 1 , 2 , 3
Prologus 1
Purg ., 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11 , 12 , 13 , 14 , 15 , 16 , 17 , 18 , 19 , 20 , 21 , 22 , 23 , 24
, 25 , 26 , 27 , 28 , 29 , 30 , 31 , 32 , 33 , 34 , 35
Purg ., I 1
Purg ., II 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7
Purg ., IV 1 , 2
Purg ., IX 1 , 2 , 3 , 4
Purg ., V 1
Purg ., VI 1
Purg ., VII 1
Purg ., VIII 1 , 2
Purg., X 1
Purg ., XII 1
Purg ., XIX 1 , 2 , 3 , 4 , 5
Purg ., XV 1
Purg ., XVII 1
Purg ., XXI 1 , 2
Purg ., XXIII 1
Purg ., XXIV 1
Purg ., XXIX 1 , 2
Purg ., XXV 1
Purg ., XXVI 1
Purg ., XXVII 1 , 2 , 3
Purg ., XXVIII 1 , 2 , 3 , 4 , 5
Purg ., XXX 1 , 2 , 3
Purg ., XXXI 1
Purg ., XXXII 1
Q
Quaresimale 1
R
Rachele 1
Ravenna 1
Retorica 1
Roberto II di Francia, il Pio 1 , 2
Roncisvalle 1
Rossi, Niccolò de’ 1 , 2
S
Sabatini, Francesco 1
Sacro Romano Impero 1
Salmo 31 1 , 2
Salmo 50 1
Salmo 78 1
Salmo 91 1
Salmo 113 1 , 2
Salmo 118 1
Salve Regina 1
Samo 1
Sanctus 1 , 2
Sassonia 1
Scuola di Notre Dame 1 , 2 , 3
Segneri, Paolo 1
Sententiae de musica 1
Shannon, Claude 1
Shiva 1
Siena 1
Silvestro II , papa 1
Simplicio 1
Sinone 1
Speranza 1
Stile neumatico 1
Stile sillabico 1
Summae Deus clementiae 1
T
Tebaide 1
Tebe 1 , 2
Te Deum 1 , 2 , 3 , 4
Te lucis ante 1
Tertulliano, Quinto Settimio Florente 1
Tessaglia 1
Timeo 1
Timoteo di Mileto 1 , 2
Tommaso d’Aquino, san 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9
Torre di Babele 1
Toscana 1
Trattatello in laude di Dante 1
Trecento 1 , 2 , 3 , 4
Tubalcain 1
U
Ugo da San Vittore 1
Umbria 1
V
Vaticano 1
Venite, benedicti Patris mei 1
Verona 1 , 2
Vescovo di Reims 1
Vincenzo di Beauvais 1
Virgilio Marone, Publio 1 , 2 , 3
Vita Dantis 1
Vita di Dante 1 , 2
Vita Nova 1
Vivaldi, Antonio 1
***
Le 20 occorrenze più frequenti
goWare <e-book> team
goWare è una startup costituita da autori, editor, redattori e sviluppatori che condividono la visione
sul futuro delle nuove tecnologie e la passione per l’editoria.
Raccogliere, selezionare e organizzare i contenuti allo scopo di renderli a portata di touch è la sfida
quotidiana di goWare come casa editrice digitale.
Operativamente goWare è costituita da due team: goWare <app> team, che si occupa di concepire e
sviluppare applicazioni per iPhone e iPad e goWare <e-book> team, specializzato in editoria digitale,
creazione di ebook, consulenza e formazione in campo editoriale. Il goWare team è composto da
Marco Arrighi, Roberto Avanzi, Elisa Baglioni, Stefano Cipriani, Valeria Filippi, Giacomo Fontani,
Mirella Francalanci, Patrizia Ghilardi, Mario Mancini, Alice Mazzoni, Alessio Orlando, Lorenzo
Puliti, Maria Concetta Ranieri.
Manifesto di goWare
Il contenuto in digitale è un’altra cosa
Pensiamo che i contenuti digitali siano differenti da quelli distribuiti attraverso i media tradizionali,
diversi nel formato, nel design, nel pubblico che li fruisce.
Lavoriamo per valorizzare questa diversità, curando nel dettaglio la realizzazione di ebook ed
enhanced book pensati per un’esperienza di lettura autenticamente digitale.
“Surpass the print experience”
Non c’è bisogno di tradurlo, le parole del team iBooks della Apple suonano come l’11°
comandamento. La chiave è la generosità. Ci sono tanti piccoli-grandi accorgimenti per migliorare la
lettura dell’ebook. Per esempio non c’è più il vincolo della foliazione, si può essere generosi con
l’interlinea, gli spazi, le paragrafature, i colori: la costipazione è finita, coloriamo le parole e
arieggiamo la pagina! È il vero trionfo della volontà sulla necessità.
Abbasso il piombo!
Gli ebook di goWare sono progettati e realizzati per vivere in un ecosistema digitale. Ci ispiriamo a
Wikipedia: la lettura digitale ha bisogno di link per farci spaziare da un contesto a un altro. È inoltre
sincopata: la cementificazione del testo è finita! Abbasso il piombo, viva il link. La partecipazione
distratta non ci spaventa.
Il valore di un ebook non sta solo nel contenuto ma nella relazione
All’interno di un ecosistema digitale, il valore economico di un libro non sta più soltanto nella
quantità di copie che il suo editore/produttore riesce a vendere a un prezzo massimizzato, quanto
nelle idee e nella relazione che riesce a creare con il proprio pubblico e i media sociali; lavoriamo su
questa relazione in modo che diventi il veicolo per costruire il rapporto economico.
Siamo nomadi
Sia i nativi che gli immigrati digitali non sono per niente stanziali, sono nomadi, si spostano
continuamente da un dispositivo all’altro e da una piattaforma all’altra. I nostri contenuti sono
pensati per spostarsi con loro.
Dillo subito, e con una narrazione possibilmente visuale
Curati, interessanti e veloci da leggere, gli ebook di goWare vanno al sodo e non contemplano solo il
testo: la narrazione visuale e quella musicale sono parte integrante della progettazione.
Dove stiamo andando?
«Where we going man? I don’t know, but we gotta go» scrive Jack Kerouac in On the road. Il team di
goWare ha sempre in mente queste parole da cui ha tratto anche parte del suo nome. Innumerevoli
sono le incognite che gravano sul presente e sul futuro dell’editoria digitale: nessuno sa bene dove
approderemo, per ora occorre andare e occorre sperimentare.
Salve, lettore globale
I nostri ebook sono rivolti ai lettori italiani esigenti che pensano globalmente, convinti che siamo tutti
parte di un medesimo insieme economico, culturale se non ancora linguistico: il mondo. La
rivoluzione digitale significa prima di tutto questo. Tutte le opinioni sono un patrimonio, meglio se
differenti, ancor meglio se fuori dal coro.
Detto altrimenti...
... cioè con le parole della poetessa inglese Ruth Padel
Di’ addio al potrebbe-esser-stato [...]
vai perché sei vivo,
perché stai morendo o sei, forse, già morto
Vai perché devi.
goWare – D/Alighieri