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Dante e la musica.
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ISBN: 978-88-6797-885-4

Redazione: Ornella Soncini


Copertina: Lorenzo Puliti
Sviluppo ePub: Michela Allia

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INDICE

Copertina
Frontespizio
Colophon
Presentazione
1 Musica e poesia: una lunga storia insieme
2 La teoria e la pratica della musica nel Medioevo
3 Dante fra Boezio e Casella
4 La danza nella “Divina Commedia”
5 La musica nell’Inferno
6 La musica nel Purgatorio
7 La musica nel Paradiso
Bibliografia essenziale (in ordine cronologico)
La musica della Commedia (progetto multimediale culturale)
Indice dei nomi e dei luoghi
PRESENTAZIONE

Il rapporto fra la musica e l’opera di Dante è uno degli aspetti meno indagati dalla critica, che spesso
ha considerato i riferimenti musicali un puro elemento ornamentale e non, come invece sono in
realtà, un componente strutturale dell’opera dantesca e in particolare, naturalmente, della Commedia.
Questo libro intende mostrare, attraverso un puntuale riscontro delle fonti e un’ampia messe di
citazioni, come il cammino del poeta nei tre regni dell’aldilà sia costantemente accompagnato e reso
comprensibile dalla musica che assume un ruolo di guida e di mediazione fra i limiti dell’intelletto
umano e i misteri del soprannaturale.

***
MARCO ROMANELLI, fiorentino, ha insegnato Lettere nei Licei e
Grammatica italiana presso il Dipartimento di Studi Umanistici
dell’Università di Firenze. Svolge un’intensa attività di collaboratore editoriale che lo ha portato a
curare classici italiani (Verga, Svevo, D’Annunzio) e stranieri (Defoe, Conrad, Maupassant). Frutto
più importante del suo impegno di italianista sono il commento ai Promessi Sposi (2005) e, con Hans
Honnacker, il commento alla Divina Commedia pubblicato nel 2007 dalla Società Editrice Dante
Alighieri. È inoltre autore di una Storia e Antologia della Letteratura Italiana su CD-ROM uscita in
allegato al settimanale “L’Espresso”. Suoi articoli di critica letteraria e di linguistica sono apparsi
sulle principali riviste di cultura (“Paragone”, “Studi Novecenteschi”, “Allegoria”,
“Otto/Novecento”, “MicroMega”, “Nuova Antologia”, “Lingua Nostra”). Da sempre appassionato
lettore di Dante, laureato con una tesi su un commento inedito alla Commedia , Romanelli ha
continuato negli anni a dedicare al grande poeta la sua attenzione di studioso, da cui sono nati, oltre a
questo libro e al già citato commento, una Analisi linguistica della Divina Commedia (con Angelo
Gianni) e una serie di conferenze di argomento dantesco in numerose e prestigiose sedi italiane e
straniere.
A Fabio Pacciani,
musicista e amico caro
1
MUSICA E POESIA:
UNA LUNGA STORIA INSIEME

Il rapporto che lega musica e poesia è saldo fino dalle origini: pensiamo al
mito archetipo di Orfeo , primo musico e insieme primo poeta, che con la
forza congiunta della musica e del verso ammansiva le belve e assoggettava
gli spiriti infernali.
Ma, a parte la leggenda di Orfeo , gli storici della cultura sono convinti
che musica e poesia abbiano sempre proceduto di pari passo, legate da
un’origine senza dubbio rituale e riconducibile alle formule magiche che
venivano recitate per assicurarsi il buon esito di azioni ed eventi rilevanti
(la caccia, la guerra, le nascite e le morti, la fertilità, il rapporto con le forze
naturali).
Il canto e il ritmo, che hanno un forte potere mnemonico, servivano a
tenere meglio a mente formule e invocazioni che potevano essere anche
lunghe e complesse e, in assenza della scrittura, creare difficoltà di
memorizzazione. Del resto, questo abbinamento fra musica e testo è vivo
ancora oggi nell’innografia civile e religiosa e nella comunicazione di
massa che, come accade con tutta evidenza nella pubblicità, ne fa largo uso
a scopo mnemonico e persuasivo. È quindi per un fine pratico e non estetico
che musica e poesia si associano, e il fatto che da questa unione si siano poi
sviluppate delle manifestazioni artistiche non è antropologicamente e
storicamente rilevante, ma va considerato piuttosto un effetto collaterale
dell’operazione.
E tuttavia, per il principio dell’eterogenesi dei fini, è accaduto che proprio
questo effetto collaterale non voluto e non previsto sia stato alla fine il
risultato principale dell’incontro fra musica e poesia e abbia prodotto alcune
delle più grandi realizzazioni artistiche della civiltà umana.
Col tempo i due linguaggi si sono separati e hanno acquistato una loro
specifica autonomia. Quando è avvenuta questa separazione? Secondo
alcuni studiosi (per esempio Gianfranco Contini ) il divorzio fra musica e
poesia si verifica nella letteratura italiana già all’inizio del XIII secolo.
A parere di altri, invece, il testo poetico continua a essere musicato fino a
epoche molto più tarde, e senza dubbio ancora nell’età di Dante.
Le testimonianze dantesche sembrerebbero inclinare verso questa seconda
ipotesi: già nella Vita Nova (XII ) troviamo che Amore prescrive al poeta di
non inviare a Beatrice le sue parole nude, ma di rivestirle di musica in modo
da raggiungere la donna amata in modo meno diretto e più delicato:
«Queste parole fa’ che siano quasi un mezzo, sì che tu non parli a lei immediatamente, che non è
degno; e no le mandare in parte sanza me, ove potessero essere intese da lei, ma falle adornare di
soave armonia, ne la quale io sarò tutte le volte che farà mestiere.»

C’è poi, oltre al celebre episodio di Casella (Purg. II , 106-114) di cui


parleremo più avanti, l’episodio di una stanza di canzone che Dante invia
all’amico musico Lippo Pasci de’ Bardi con la richiesta di rivestirla di note,
paragonandola a una
«pulcella nuda
che vien di dietro a me sì vergognosa,
ch’a torno gir non osa,
perch’ella non ha vesta in che si chiuda;
priego il gentil cor che ’n te riposa
che la rivesta e tegnala per druda»
Rime , XLVIII
Ma la testimonianza più esplicita del fatto che Dante destinava le sue
poesie a essere armonizzate ed eseguite musicalmente sembra essere quella
offerta dal De vulgari eloquentia là dove si affronta il tema della canzone.
Dice il testo:
«Cantio nichil aliud esse videtur quam actio completa dictantis verba modulationi armonizata»

ossia:
“La canzone non è altro che l’opera compiuta da chi compone con arte parole armonizzate
destinate a essere modulate musicalmente (II , 8);”

e più avanti (II ,10):


«Dicimus ergo quod omnis stantia ad quandam odam recipiendam armonizata est»

ossia:
“Affermo quindi che ogni stanza di canzone è costruita per ricevere una certa melodia.”

Dante aggiunge inoltre che il testo poetico è predisposto strutturalmente ad


accogliere la melodia in quanto il suo ritmo interno (la metrica) si accorda
con i tempi della musica senza provocare dissonanze e deformazioni: per
esempio nella canzone la divisione tra fronte e sirima, che Dante chiama
“diesis”, corrisponde alla variazione del testo musicale che, dopo avere
proceduto secondo un dato andamento, a un certo punto cambia melodia e
ritmo variando così anche la propria espressività.
Sembrerebbe dunque evidente che per Dante il testo poetico si fonda su
una armonia verbale e su una regolarità ritmica che lo predispongono a
essere rivestito di note ed eseguito in musica. Quale fosse l’importanza che
Dante attribuiva a questo accompagnamento musicale dei versi non è detto
esplicitamente e non è possibile ricavarlo con certezza dal contesto; si può
tuttavia pensare che la musica fosse considerata come un arricchimento del
testo, in grado di esprimere o di avvicinare quella verità, indicibile a parole,
che è l’obbiettivo principale di ogni operazione poetica.
Quanto poi a ricostruire queste melodie, l’operazione è impossibile dato
che di esse non ci è rimasta nessuna traccia; si può comunque supporre che
si trattasse di monodie molto semplici e lineari, dato che la necessità di
esprimere con chiarezza i complessi valori formali e ideologici del testo
poetico imponevano all’accompagnamento una musicalità strettamente
legata alla scansione sillabica e probabilmente vicina a quello che
nell’opera lirica si chiama il “recitativo”.
In ogni caso, comunque stiano le cose, musica e poesia hanno conservato
un terreno di incontro nella comune sensibilità ai valori ritmici e fonetici in
cui, per inciso, consiste la sostanziale differenza fra la poesia e la prosa.
La poesia infatti rivela la sua consanguineità con la musica nella
semantizzazione dei significanti, cioè nella capacità di utilizzare suoni e
ritmi, di per sé neutri, in modo che essi si carichino di significati ulteriori
rispetto a quelli grammaticali, rendendo così il messaggio complessivo più
ricco e intenso.
Secondo alcuni studiosi, anzi, il valore semantico dei suoni e dei ritmi
deriva dal fatto che la coscienza umana si fonda su archetipi derivati da
esperienze prenatali in cui il feto percepisce le pulsazioni del cuore della
madre sotto forma di onde sonore che lo raggiungono attraverso il liquido
amniotico: suono e ritmo andrebbero a costituire dunque lo strato profondo
e la fonte originaria della nostra coscienza.
Non è comunque difficile, anche per il non specialista, rendersi conto di
questa straordinaria potenza comunicativa della poesia raggiunta attraverso
le tecniche fonosimboliche: basta citare qualche verso che è nella memoria
di tutti per averne un’idea immediata e diretta. Consideriamo per esempio
l’ultimo verso del celebre sonetto foscoliano Alla sera :
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge

Non sfuggirà a nessuno l’alta presenza della /r/ (ve ne sono ben sei, di cui
due in raddoppiamento), assolutamente anomala rispetto alla normale
occorrenza statistica di questa consonante nel lessico italiano. È un caso?
Naturalmente no: è evidente come la allitterazione (ripetizione a distanza
ravvicinata) del fonema /r/ dal suono aspro e intenso produca un effetto
semantico evocante un sentimento ci ribellione e di concitazione spirituale
che incrementa e intensifica il dettato del testo: effetto che è esattamente
quello che il poeta si proponeva di raggiungere. Allo stesso modo possiamo
analizzare una fondamentale lirica di Eugenio Montale , Spesso il male di
vivere ho incontrato , dagli Ossi di seppia , in cui il poeta propone, come
unico antidoto alla sofferenza, la pratica dell’indifferenza. Ebbene,
l’opposizione fra le due dimensioni esistenziali è sottolineata e potenziata,
nella quartina dedicata al “male di vivere”, dal prevalere di aspri suoni
consonantici, spesso in raddoppiamento:
«era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia riarsa,
era il cavallo stramazzato.»

Per contro, i versi in cui esprime il sollievo prodotto dall’indifferenza si


caratterizzano per una fonetica imperniata su una alta frequenza della
consonante liquida /l/ e di vocali in successione ravvicinata:
«era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.»

Anche qui, dunque, è chiarissimo come la valenza del messaggio venga


esaltata da scelte fonetiche che trasformano i suoni in simboli in grado di
suggerire immagini e trasmettere emozioni.
L’attenzione agli effetti fonosimbolici non è certo una prerogativa della
poesia moderna, ma è costitutiva della forma poetica fino dalle sue origini.
Fra gli innumerevoli esempi ne proponiamo qui tre presi dalla Commedia .
Nel primo Dante esprime ed enfatizza attraverso l’asprezza dei suoni la
desolazione e la deprivazione di ogni impulso di vita che caratterizza la
selva dei suicidi:
«Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tosco»
Inferno , XIII , 4-6
Nel secondo, attraverso un gioco di rime che il poeta stesso definisce
“aspre e chiocce” ( Inferno , XXXII ,1), il testo realizza una sonorità stridente
che più di ogni descrizione diretta ci introduce nell’orrore e nell’abiezione
dell’abisso infernale:
«Quindi sentimmo gente che si nicchia
ne l’altra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia.
Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.»
Inferno , XVIII , 103-108
Nel terzo esempio, infine, l’armonia prodotta dalla successione di
consonanti liquide e di vocali diventa un’eco sonora della dolce visione
della luna che splende in un cielo stellato:
«Quale ne’ plenilunii sereni
Trivïa ride tra le ninfe eterne,
che dipingon lo ciel per tutti i seni»
Paradiso , XXIII , 25-27
Del resto, Dante è sempre attentissimo agli effetti fonetici e consapevole
della loro fondamentale funzione, come dimostra l’esplicita teorizzazione
che ne offre nel secondo libro del De Vulgari Eloquentia , quando distingue
i vocaboli in pexa (“pettinati”) e yrsuta (“villosi”), categorie necessarie
ambedue, attraverso un utilizzo equilibrato, a produrre quei valori di
armonia e di musicalità che sono propri del volgare illustre e della grande
poesia. Ed è da questo rapporto inscindibile fra significato e significante
che nasce l’intraducibilità della poesia, come con modernissima intuizione
viene affermato nel Convivio :
«E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può dalla sua
loquela in altra trasmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia.»
(I , VII )
Insomma, quando il gioco dei suoni viene cancellato passando da una
lingua a un’altra, si perde anche una consistente porzione del significato
originale del testo: “tradurre è tradire”, quindi, anche nel caso delle
traduzioni più fedeli ed eleganti.
Accanto al fonosimbolismo, l’altro territorio comune a musica e poesia è il
ritmo o, per usare un termine più tecnico, la prosodia: fenomeni prosodici in
poesia sono il timbro, l’intonazione (variazione dell’altezza dei suoni), la
durata, l’accentazione, tutti elementi che avvicinano il testo poetico al testo
musicale.
La struttura del verso viene quindi a essere definita dalle sillabe distribuite
secondo numeri e ritmi stabiliti dalle regole della metrica (anche se, come si
sa, a partire dalla fine dell’Ottocento, la stretta osservanza delle regole
metriche è stata abbandonata a favore di schemi più liberi), così come la
musica è definita dai suoni separati da spazi non casuali ma da intervalli di
tempo rigorosamente fissati.
Un antico commentatore della Commedia , Jacopo della Lana , coglie
questo nesso fra poesia e musica quando interpreta l’espressione aura sanza
tempo che Dante usa per descrivere l’atmosfera infernale ( Inf ., III , 29).
Ebbene, mentre tutti gli altri commentatori intendono sanza tempo nel senso
che nella dimensione eterna dell’Inferno il tempo non esiste, il Lana chiosa
in questo modo:
“E questo dice egli perché ogni suono attemperato per ragion di musica rende all’udire alcun
diletto, ché il tempo è in musica uno ordine lo quale fa consonare le voci con dolcezza. Or
dunque, se quel rumore è sanza tempo, seguesi che è sanza ordine e per conseguenza sanza
alcun diletto”.

Quindi il Lana, con una interpretazione che è quasi certamente erronea


rispetto al senso del testo ma assai significativa per l’analisi che stiamo
conducendo, identifica nel ritmo un valore comune che unifica musica e
poesia.
Certo, sarebbe ingenuo e fuorviante presupporre un rapporto meccanico
fra suoni, ritmi ed emozioni, tuttavia, pur all’interno di una rete di relazioni
e di stimoli percettivi assai complessa e che ha indubbiamente a che fare
con la psicologia del profondo, è innegabile che questo rapporto esista e che
sia proprio questo il terreno condiviso che testimonia la vicinanza della
poesia alla musica. E dunque, citando ancora una volta Montale, potremmo
retoricamente chiedere alla musica in riferimento alla poesia: puoi tu/non
crederla sorella?
Il rapporto simbiotico fra poesia e musica appare ancora più stretto se
consideriamo le origini della poesia moderna, cioè di quel modo di
intendere e praticare il linguaggio poetico che si forma con la crisi del
mondo classico a partire circa dal IX secolo.
Qui, per rendersi conto del fenomeno, bisognerà soffermarsi brevemente
su un aspetto strutturale che segna la differenza fra poesia classica e poesia
post-classica, cioè il passaggio dalla metrica quantitativa a quella sillabico-
accentuativa.
Naturalmente vi sono anche molte altre differenze, dalla scelta dei temi
alla destinazione delle composizioni, dalla nascita di nuovi generi alla
scomparsa di altri, ma ciò che sul piano tecnico divide e distingue la poesia
moderna da quella antica è essenzialmente questa trasformazione della
sensibilità ritmica.
Il verso classico infatti era costruito secondo criteri quantitativi, ossia su
una combinazione di sillabe “lunghe” e sillabe “brevi” (i cosiddetti
“piedi”): per esempio, una lunga seguita da due brevi costituiva un piede
detto “dattilo”, una lunga e una breve formavano un “trocheo”, due lunghe
uno “spondeo”. La “quantità” consisteva nella durata di un suono vocalico,
che poteva essere lungo o breve a seconda delle sue relazioni fonetiche e
ritmiche con i suoni immediatamente successivi: così, per esempio, una
sillaba che terminava con una consonante (sillaba chiusa) era sempre lunga,
mentre una sillaba che si chiudeva con una vocale (sillaba aperta) poteva
essere breve o lunga a seconda della quantità della vocale finale. Inoltre, le
sillabe contenenti un dittongo erano considerate sempre lunghe. La
differenza fra brevi e lunghe consisteva nella durata dell’emissione sonora,
per cui una vocale lunga era pronunciata in un tempo doppio rispetto a una
breve.
Questa sensibilità in grado di avvertire le differenti quantità dei suoni
vocalici andò perduta con il tramonto dell’età antica, tanto che noi oggi
nella scansione dei versi classici ricorriamo a uno schematismo che
meccanicamente cerca di riprodurre effetti ritmici ormai estranei al nostro
orecchio.
Ciò che prese il posto della metrica quantitativa fu la metrica sillabico-
accentuativa, cioè una scansione ritmica fondata non sulla durata ma sul
numero delle sillabe, sulla successione degli accenti e sulle rime. Ne risulta
una maggiore rigidità del verso moderno, che deve obbligatoriamente
contare su un numero predefinito di sillabe e su una specifica distribuzione
degli accenti, mentre il verso di tipo quantitativo oscillava e variava nel
numero delle sillabe e nella disposizione degli accenti, poiché le brevi e le
lunghe erano intercambiabili e sostituibili (due brevi equivalevano a una
lunga, e viceversa): ne conseguiva che il verso più illustre della tradizione
antica, l’esametro, poteva oscillare da tredici a diciassette sillabe, mentre
nella metrica moderna un endecasillabo resta sempre di undici e un
settenario di sette.
Ora, cosa ha a che fare tutto questo con la musica? Moltissimo, poiché
possiamo affermare con sicurezza che la nuova sensibilità sillabico-
accentuativa nasce proprio dalla musica, e più precisamente dall’incontro di
musica e parole all’interno della cosiddetta “sequenza”.
Si indicava con questo termine il prolungamento melodico con cui si
articolava la vocale finale di una formula liturgica intonata durante le
funzioni religiose: per esempio, la /a/ finale dell’“alleluia”.
Ora, a un certo momento, più o meno agli inizi del IX secolo, si cominciò
ad abbinare delle parole alle note di una sequenza, in modo da costruire un
testo cantabile. Ovviamente, dal momento che ad ogni nota doveva
corrispondere una sillaba (o l’articolazione vocalica di una sillaba) le parole
dovevano per forza seguire l’andamento ritmico del testo musicale,
rispettandone i tempi e, anzi, sottolineandoli con assonanze e rime
(elementi sconosciuti alla prosodia antica) ed è evidente che in questo
nuovo contesto la “quantità” diventa un elemento trascurabile, poiché la
successione delle sillabe è determinata non dalla durata dei suoni vocalici,
ma dai tempi del testo musicale: è così che nasce la metrica sillabico-
accentuativa che rapidamente prende il posto di quella quantitativa.
Le sequenze che abbinano musica e testo sono numerosissime a partire,
come abbiamo detto, dal IX secolo. Ne citiamo qui a titolo di esempio due
fra le più celebri. La prima è attribuita a san Noktero Balbulo (840-912),
monaco vissuto nel monastero di San Gallo. La sequenza si intitola In die
sancta Paschae (“Nel santo giorno di Pasqua”) e si canta ancora oggi
durante le celebrazioni pasquali. Ecco il testo:
«Dic nobis, Maria,
quid vidisti in via?
Sepulcrum Christi viventis,
et gloriam vidi resurgentis,
angelicos testes,
sudarium et vestes.
Surrexit Christus, spes mea,
Praecedet vos in Galileam.
Credendum est magis Mariae veraci,
quam Judaeorum turbae fallaci.»

Dopo la crocifissione e la resurrezione, gli apostoli, ancora ignari,


chiedono a Maria Maddalena che si è recata al sepolcro:
“Dicci, o Maria,
cosa hai visto lungo la strada?
E la Maddalena risponde:
Ho visto il sepolcro di Cristo vivente
e la gloria del risorto,
gli angeli come testimoni,
il sudario e le vesti.
Cristo, mia speranza,
è risorto e vi precede in Galilea.
Si deve credere più alla sincerità di Maria
che alla folla bugiarda dei Giudei.”

La seconda sequenza è il Veni Sancte Spiritus attribuito a Roberto di


Francia (996-1091), invocazione allo Spirito Santo di cui riportiamo tre
strofe:
«Veni Sancte Spiritus
et emitte coelitus
lucis tuae radium.
Lava quod est sordidum,
riga quod est aridum,
sana quod est saucium.
Flecte quod est rigidum,
fove quod est frigidum,
rege quod est devium.»

“Vieni o Santo Spirito


e manda dal cielo
il raggio della tua luce
Lava ciò che è sporco
irriga ciò che è arido
risana ciò che è ferito
Piega ciò che è rigido
riscalda ciò che è freddo
guida sulla via retta ciò che si smarrisce.”

Anche senza possedere specifiche nozioni tecniche, è evidente a qualsiasi


orecchio minimamente sensibile come questi testi siano ormai fuori dalle
leggi della metrica quantitativa: nella sequenza di san Noktero il ritmo è
dettato non dalla durata delle vocali ma dal numero delle sillabe, dalla
disposizione degli accenti e dalle rime baciate presenti in tutti i distici.
Allo stesso modo, anche la sequenza di Roberto di Francia segue una
logica ritmico-sillabica, essendo formata da un susseguirsi di senari
sdruccioli raggruppati in terzine con rima ripetuta in -um (tranne i primi due
versi che rimano in -us): siamo evidentemente di fronte a una struttura
prosodica che si forma in funzione dell’inserimento del testo poetico
all’interno del testo musicale.
Insomma, possiamo senz’altro dire che la poesia moderna nasce
direttamente dalla musica e in funzione della musica, e Dante dimostra di
avere piena coscienza di questo strettissimo rapporto quando nel De Vulgari
Eloquentia (II ,4) dichiara che la poesia:
«nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita»

“La poesia non è altro che una finzione costruita con la retorica e con la musica.”
2
LA TEORIA E LA PRATICA DELLA MUSICA NEL MEDIOEVO

Sbaglia chi pensa che il Medioevo sia stato un’epoca priva di cultura
musicale, con l’eccezione del canto gregoriano e delle rozze cantilene
popolari.
Del resto, si tratta di un errore di giudizio che non si limita alla musica ma
riguarda il complesso della civiltà medievale, che ancora oggi, nonostante il
lavoro di studio e divulgazione di una verità diversa da parte degli storici,
viene percepita nell’immaginario collettivo come un’epoca di barbarie.
Poco importa che il Medioevo sia stato, al contrario, una delle epoche più
luminose della storia, l’epoca di Tommaso d’Aquino , di Giotto , di Dante,
delle grandi cattedrali, delle università, dell’impero carolingio, della
rinascita delle città, dei primi contatti, drammatici ma anche fecondi,
dell’occidente col mondo islamico; poco importa che l’età medievale segni
l’apparizione dell’economia moderna, dei mercanti, dei grandi commerci,
delle banche e del credito, delle corporazioni e delle gilde, tutte realtà
sconosciute al mondo antico: al di là di tutto, resta il pregiudizio delle
“tenebre del Medioevo”, luogo comune tanto falso quanto difficile da
sfatare.
Per quanto in particolare riguarda la musica, basterebbe consultare il
monumentale catalogo di Charles-Edmond-Henri de Coussemaker
(Scriptores de musica medii aevi , 1876) che nei suoi quattro volumi
raccoglie i testi di oltre trecento studiosi di scienza musicale vissuti nel
Medioevo, oppure, più rapidamente, andare su Internet e digitare il
Thesaurus musicarum latinarum , meritoriamente messo in rete dalla
Indiana University, che rende immediatamente accessibili centinaia di testi
di musicologia medievale: si vedrebbe allora concretamente con quanta
attenzione, passione e dottrina la cultura del Medioevo si occupò di musica,
facendone uno degli elementi essenziali della formazione intellettuale.
Infatti la Musica, insieme alla Matematica, alla Geometria e
all’Astronomia, faceva parte delle “ Arti del Quadrivio ” che insieme a
Grammatica, Retorica e Dialettica (le “ Arti del Trivio”) costituivano le
sette “ Arti liberali”, cioè il sistema di conoscenze su cui si fondava la
cultura medievale.
Potrà forse stupire il lettore moderno vedere la musica collocata accanto a
discipline prettamente scientifiche come la matematica, la geometria e
l’astronomia. Il fatto è che ciò che la cultura medievale intendeva per
“musica” è qualcosa di molto diverso da quello che intendiamo noi oggi.
Per capire, è necessario rifarsi alla tradizione pitagorica e alla sua influenza
decisiva sulla teoria musicale del Medioevo.
Di Pitagora , nato a Samo e vissuto a Crotone nel V secolo a.C., non ci
rimane nessun testo (è peraltro assai dubbio che abbia scritto qualcosa) e
tutto quello che sappiamo del suo pensiero è dovuto alle testimonianze dei
suoi discepoli e soprattutto a Platone che ne tratta nel Timeo e nel Fedone .
Il punto essenziale della dottrina pitagorica si può individuare in quello che
scrive uno dei suoi più importanti seguaci, Filolao :
È il numero che ci guida alla conoscenza e che ci svela tutto ciò che è dubbio e ignoto. Nulla
sarebbe comprensibile, né le cose singole né le loro relazioni, se non ci fosse il numero e la sua
verità.

Ora, i numeri si dividono in due grandi gruppi, i pari e i dispari, in


opposizione fra loro (ad eccezione dell’uno, che non essendo né pari né
dispari è chiamato “parimpari”). Questa opposizione, che riflette la
dialettica oppositiva su cui si fonda l’intero universo (per esempio: limitato/
illimitato, unità/molteplicità, luce/tenebre, bene/male, destra/sinistra,
retto/curvo) condurrebbe al caos se non fosse conciliata da un principio di
armonia che rende possibile la coesistenza degli opposti: come si legge
ancora in Filolao, l’armonia è “l’unità del molteplice e la concordia del
discordante”.
Ebbene, la natura dell’armonia è rivelata dalla musica: gli accordi musicali
che uniscono note differenti in relazioni armoniose sono definiti da precise
costanti numeriche ed esprimono nel modo più evidente e comprensibile a
tutti la possibilità di trasformare le opposizioni in un insieme ordinato e
definito rigorosamente attraverso rapporti reciproci di carattere matematico.
È per questo che la musica, intesa come un sistema di relazioni equilibrate
ed un esatto calcolo dei rapporti fra le varie componenti di un insieme, è
assunta dai pitagorici come modello e paradigma dell’intera realtà
universale, ed è per questa sua natura matematica che essa ha potuto a buon
diritto essere compresa fra le “Arti del Quadrivio”.
Questa concezione della musica come pura astrazione metafisica fondata
sulla perfezione dei rapporti proporzionali fra i suoni e sulle relazioni
numeriche che li collegano in modo armonico non fu però la sola ad avere
corso nell’antichità: ad essa infatti si contrappose la teoria di Aristosseno di
Taranto (IV secolo a.C.), un discepolo di Aristotele secondo cui la musica
doveva essere valutata più che attraverso i suoi valori matematici, attraverso
le sensazioni (in greco, αίσθησισ , da cui “estetica”) che essa provoca
nell’ascoltatore: quindi, una percezione “estetica” legata ai sensi e alle
emozioni, non alla razionalità.
Questi due modi di interpretare la musica, quello matematico di Pitagora e
quello estetico di Aristosseno, hanno convissuto per tutta l’antichità,
instaurando una contraddizione che è ancora presente nella fase di crisi del
mondo antico e di transizione alla civiltà medievale. La ritroviamo, per
esempio, in Agostino che nei sei libri del trattato De Musica (387) studia i
fenomeni musicali essenzialmente sotto l’aspetto ritmico, mettendo in luce i
rapporti matematici che ne regolano la scansione: “La musica” si legge
all’inizio del primo libro “è la scienza del misurare ritmicamente secondo
l’arte”, ossia non l’espressione di emozioni estetiche, ma l’applicazione
rigorosa di precise competenze tecniche. Agostino pone la musica
addirittura alla base della creazione, come regola di superiore armonia su
cui si fonda l’universo, e Dio è visto come il musico supremo,
l’archimusicus , che detta le regole dell’armonia universale.
Tuttavia, questa esplicita posizione neopitagorica viene poi messa in
discussione nelle Confessioni , dove non si esita a riconoscere gli effetti
emotivi che la musica produce attraverso il piacere che da essa nasce. È un
diletto dei sensi ricco di fascino ma che può essere spiritualmente
pericoloso:
«Spesso – scrive Agostino – ascoltando i canti che accompagnano le cerimonie religiose il
piacere dei sensi fisici mi seduce, quando la sensazione, nell’accompagnare il pensiero, non si
rassegna a rimanere seconda ma tenta addirittura di precederlo e di guidarlo, e allora pecco
senza accorgermene. Quando però mi tornano alla mente le lacrime che i canti sacri mi
strapparono agli inizi della mia fede e la commozione che ancora oggi suscitano in me,
riconosco la grande utilità di questa pratica. Così oscillo fra il pericolo che nasce dal piacere
della musica e la constatazione dei suoi effetti salutari, e in conclusione inclino (ma non in
modo irrevocabile) ad approvare l’uso del canto in chiesa, con l’idea che lo spirito possa
innalzarsi a Dio attraverso il diletto delle orecchie.»
Confessioni , IX , 33
Una identica oscillazione fra i due poli della musica, quello spirituale e
quello sensuale, la ritroveremo anche in Dante quando, affascinato dal canto
dell’amico Casella, dimentica la sua missione di salvezza e riceve per
questo il severo rimprovero di Catone ( Purg. , II , 112-123). Dunque,
l’opposizione fra la musica/matematica di Pitagora e la musica/estetica di
Aristosseno passa senza soluzione di continuità dalla cultura antica a quella
cristiana, acquistando anzi, sulla spinta delle tendenze ascetiche e rigoriste
del cristianesimo medievale, una ancora più forte radicalità. Su posizioni
intransigenti di tipo neopitagorico si schiera per esempio un contemporaneo
di Agostino, l’africano Marziano Capella , che nel suo trattato De nuptiis
Mercurii et Philologiae (“Le nozze di Mercurio e Filologia”, 420 ca.) arriva
a rifiutare la natura fisica della musica perché essa nel momento in cui
viene eseguita perde la sua nobile essenza di pura speculazione matematica.
Idee analoghe esprimono molti altri grandi intellettuali del Medioevo, come
Isidoro di Siviglia (VII secolo) e Beda il Venerabile (VIII secolo): per il primo
la musica, riflesso dell’armonia celeste, è alla base di tutte le nostre
percezioni e il musico è colui che, grazie alla conoscenza dei segreti
dell’armonia, più si avvicina alla verità divina e si colloca su un livello
incomparabilmente più alto del semplice “musicante”, l’esecutore che si
limita alla pratica di un’esecuzione inconsapevole ed è sensibile solo a una
bellezza edonistica e superficiale. A sua volta Beda scrive che “può dirsi
musico solo chi insegna la scienza del canto usando le facoltà speculative
della ragione”.
Più possibilista nei confronti della musica intesa come concreta
manifestazione di suoni armoniosi appare invece Tommaso d’Aquino , che
nel De arte musica (1260 ca.) riconosce i benefici effetti spirituali del canto
e contro l’intellettualismo astratto dei teorici più rigorosi afferma che:
«sebbene alcuni non capiscano ciò che cantano, capiscono tuttavia perché si canta, cioè per
dare lode a Dio, e ciò basta per suscitare la devozione»

non sarà quindi un caso che Tommaso sia autore di celebri inni eucaristici,
come il Pange lingua e l’Ecce panis che ancora oggi si cantano nelle chiese
cattoliche.
Anche il maestro di Dante, Brunetto Latini , parlando della musica nel suo
Trèsor ne sottolinea la componente matematica inserendola fra le arti del
quadrivio, ma subito dopo ne considera anche la natura “dilettevole”
dicendo che essa:
«ci insegna a produrre voci e suoni sugli organi o su altri strumenti accordabili fra di loro per il
diletto della gente.»
Citiamo ancora un altro grande teorico musicale del XIII secolo, Vincenzo
di Beauvais , il quale nel suo Speculum doctrinale torna a una rigida
concezione pitagorica sostenendo che l’essenza della musica va ricercata
più nella speculazione teorica che nella esecuzione pratica, perché, come
scrive riprendendo una frase di Boezio , “l’opera delle mani è vana se non è
guidata dalla ragione”.
Potremmo continuare a lungo in questo gioco di citazioni, dato che, come
abbiamo detto, gli studiosi che in età medievale si sono dedicati alla teoria
musicale sono numerosissimi. Ma già il rapido spoglio che abbiamo
condotto fin qui ci permette di stabilire il carattere bifronte della musica
medievale: da una parte teoria matematica e scienza delle proporzioni
fondata sul calcolo razionale, dall’altra pratica dilettevole fondata sulle
emozioni.
Dobbiamo però anche osservare, per comprendere l’intensità e la serietà
del confronto, che questo modo duplice di intendere la musica non è un
carattere arcaico che scompare con l’affermarsi della modernità: al
contrario, l’eco di questo dibattito è riscontrabile anche in età più vicine a
noi. Per citare un caso celebre, il “ Canone a sei voci ” che Johann
Sebastian Bach compose nel 1715 costituisce un esempio di musica pura
che non prevede alcuna esecuzione, una astrazione matematica non
destinata né alla voce umana né a qualsiasi altro strumento.
Ma anche nell’età contemporanea la questione resta aperta: John Cage ,
uno dei musicisti sperimentali più interessanti del Novecento, è arrivato a
teorizzare il silenzio come la più perfetta espressione musicale, e il
confronto-scontro fra la musica come pura razionalità e la musica come
emozione sensuale è al centro del grande romanzo di Thomas Mann Doktor
Faustus (1947) in cui il protagonista, il compositore Adrian Leverkühn,
fallisce tragicamente nel suo tentativo di razionalizzazione sopraffatto dalle
oscure forze demoniache che dominano nel profondo l’esperienza della
musica.
Ma tornando al Medioevo, se dovessimo indicare quale dei due versanti
risulta prevalente per numero e prestigio dei suoi sostenitori, non c’è dubbio
che quello neopitagorico risulterebbe largamente maggioritario, tanto da
trasformare il dibattito teorico fra specialisti in ratio comune come
dimostra, per esempio, un affresco trecentesco di Andrea di Bonaiuto nella
chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, in cui sono raffigurate le sette arti
liberali: ebbene, la musica nella sua versione “scientifica” è rappresentata
da una elegante fanciulla che studia la tastiera di un organo portatile, mentre
la musica come esecuzione strumentale è impersonata dal rozzo fabbro
Tubalcain al quale la Bibbia (Genesi , 4, 21) attribuisce l’invenzione degli
strumenti musicali, in una evidente sottovalutazione della musica “suonata”
rispetto alla musica “pensata”.
All’orientamento neopitagorico che dominò la musicologia medievale
dettero il loro contributo, come abbiamo visto, studiosi e maestri di grande
prestigio, ma senza dubbio la massima auctoritas fu rappresentata da
Severino Boezio il cui trattato De institutione musica (“Sui fondamenti
della musica”) fu per tutto il Medioevo il testo di riferimento obbligatorio
per chiunque si occupasse della materia.
Nato a Roma nel 480 da antica famiglia patrizia, Boezio visse a Ravenna
alla corte del re degli Ostrogoti Teodorico da cui fu onorato come uno dei
massimi eruditi del suo tempo. Caduto in disgrazia in seguito a un’accusa di
tradimento, fu processato, condannato a morte e giustiziato a Pavia nel 524.
Fu autore di numerose opere scientifiche, storiche e filosofiche di grande
mole e di profonda dottrina, fra cui spicca il De consolazione philosophiae
(“La consolazione della filosofia”, 520), uno dei testi cardine della cultura
medievale e certo fra i libri fondamentali della biblioteca ideale di Dante,
che nella Commedia celebra il grande filosofo esaltandone la figura di
sapiente e di santo.
«Per vedere ogne ben dentro vi gode
l’anima santa che ’l mondo fallace
fa manifesto a chi di lei ben ode.»
Paradiso X ,124-126
Allo scopo di redigere una summa del sapere scientifico che servisse di
introduzione alla filosofia, Boezio dedicò alle arti del quadrivio un ciclo di
quattro trattati, due dei quali ( sull’Astronomia e sulla Geometria) sono
andati perduti mentre quelli sull’Aritmetica e sulla Musica sono giunti fino
a noi. Il De institutione musica , composto intorno al 510 e formato da
cinque libri, analizza in modo approfondito la natura della musica a partire
dalle sue origini greche con particolare riguardo a Pitagora e a Platone,
giungendo a proporre un’idea della scienza musicale come fondamento di
un’austera educazione morale che rifugge da ogni compiacimento
edonistico e da ogni abbandono alle facili emozioni dei sensi: significativa
in questo senso è la condanna di Timoteo di Mileto che, scrive Boezio:
«Spregiò l’arte antica della musica: egli modificò la cetra a sette corde aggiungendone altre
quattro e introdusse così la modulazione di molte voci. Egli inventò la musica polifonica e la
insegnò ai fanciulli che aveva ricevuto da istruire allontanandoli dalla virtù e trasformando
l’austera armonia tradizionale nel genere cromatico che è più molle e tale da indebolire e
corrompere l’animo dei giovani.»
De institutione musica , I , 2
Sulla scorta dunque del pensiero pitagorico e platonico, per Boezio la
musica è prima di tutto un esercizio della ragione, una forma di spiritualità
che ci può guidare verso l’assoluto e farci comprendere la perfetta armonia
dell’universo.
Tre sono le forme in cui la musica si esprime: la più alta e nobile è la
musica mundana , quella che nasce dal ruotare delle sfere celesti e
dall’eterno movimento della grandiosa macchina del creato:
«Come potrebbe accadere – scrive Boezio – che la velocissima macchina dei cieli si muova nel
suo corso in tacito silenzio? E se quel suono non è percepibile dalle nostre orecchie, ciò
dipende da varie ragioni, e soprattutto dalla scarsa sensibilità dei nostri sensi.»

Dunque, la musica mundana va intesa come l’armonia che regola i


movimenti celesti, l’alternarsi delle stagioni, del giorno e della notte, della
vita e della morte, il compenetrarsi e l’equilibrarsi dei quattro elementi nella
grandiosa macchina del creato. Non è, ovviamente, una musica
riproducibile, ma un’astrazione metafisica che vive solo nel pensiero e che
potremo ascoltare solo quando, liberato dal peso della carne, il nostro
spirito saprà affinare le sue percezioni e abbandonarsi al flusso dell’armonia
universale: un’antichissima aspirazione dell’uomo che fa venire in mente il
celebre verso con cui Giacomo Leopardi , tredici secoli dopo Boezio,
chiuderà l’Infinito :
«E il naufragar m’è dolce in questo mare.»

La seconda forma di musica che Boezio individua e analizza è la musica


humana , presente all’interno di ciascuno di noi e formata da quella
fittissima serie di accordi, equilibri, rapporti che uniscono armoniosamente
mente e corpo, spirito e materia, umano e divino, sensualità e razionalità, in
una sintesi di voci diverse che si armonizzano fino a raggiungere quella
miracolosa consonanza degli opposti in cui si realizza la perfetta umanità.
A differenza della musica mundana , la musica humana è percepibile:
“Chiunque guardi dentro se stesso” dice Boezio “può sentire la musica
umana”, può cioè compiacersi e godere di quella meravigliosa capacità che
ci è data, in quanto uomini, di conciliare e comporre in equilibrio forze
contrastanti che, lasciate a se stesse, produrrebbero il caos.
L’analisi boeziana delle forme musicali si conclude con una terza
tipologia, la musica instrumentalis , cioè l’esecuzione materiale di suoni
mediante voci o strumenti che costituisce l’esperienza concreta della musica
comunemente intesa, ma che si colloca intellettualmente e moralmente al
livello più basso, legata com’è all’effimero piacere dei sensi che poco o
niente ha a che fare con i nobili domini della ragione.
Questo disprezzo intellettuale per la musica instrumentalis è un luogo
comune della musicologia medievale che trova una delle sue espressioni più
colorite in una invettiva del già citato Beda il Venerabile, il quale nel
trattato musica mensurata scrive che:
«Chi canta o suona ciò che non capisce si può definire una bestia. Il vero musico non è creato
dal talento ma dallo studio.»

Tuttavia, nonostante questa condanna senza appello della pratica vocale e


strumentale non accompagnata da un’adeguata preparazione teorica, non si
deve pensare al Medioevo come a un’epoca priva di musica al di fuori della
sfera speculativa e specialistica: al contrario, anche dalla relativa povertà
dei documenti che sono giunti fino a noi si ricava l’impressione di una
grande ricchezza di esperienze musicali, di una quotidianità intrisa di
musica sia nell’ambito devozionale che in quello profano (e del resto, come
si spiegherebbe una così grande attenzione alla teoria se ad essa non avesse
corrisposto una altrettanto intensa presenza della pratica?).
Della musica profana in Italia ai tempi di Dante, però, non ci è rimasto
praticamente nulla: sappiamo che esisteva una tradizione di canto popolare
e di cantilene giullaresche, sappiamo che menestrelli e trovatori si
accompagnavano con strumenti musicali, sappiamo che la passione per la
danza (che ovviamente non può essere separata dalla musica) era diffusa a
tutti i livelli sociali, sappiamo che l’esecuzione musicale dei testi poetici
era, almeno fino al Trecento, una pratica comune, come dimostra l’episodio
di Casella che nel secondo canto del Purgatorio intona la canzone dantesca
Amor che ne la mente mi ragiona .
Di queste musiche, tuttavia, non ci è stato tramandato alcun esempio
diretto e non sapremo mai, quindi, di quali note Casella avesse rivestito la
canzone citata. Per avere una documentazione sicura bisogna spingersi oltre
l’età di Dante: la prima raccolta italiana di musiche profane, il Codice Rossi
, è del 1355 e il primo autore importante è il fiorentino Francesco Landini ,
vissuto dal 1330 al 1397.
Diverso è invece il caso della musica sacra che può contare sul grandioso
patrimonio del canto gregoriano, con cui la chiesa medievale accompagnò
le sue liturgie e che è giunto fino a noi con ricchezza di documentazione e
con la forza di una presenza ininterrotta nei secoli.
Il nome deriva da Gregorio Magno , papa dal 590 al 604 che, secondo la
tradizione, avrebbe raccolto i canti eseguiti durante la liturgia in un volume
detto Antifonario dettato, a quanto narra la pia leggenda, da un angelo. In
realtà sembra storicamente più probabile che la raccolta sia di origine
carolingia, successiva quindi di due secoli al pontificato di Gregorio e che
risponda all’esigenza di conciliare in una sintesi unitaria il rituale romano e
quello franco-germanico, secondo l’ideale universalistico del nascente
Sacro Romano Impero.
In effetti la regolarità e l’uniformità della musica gregoriana stupiscono se
messe in rapporto con le difficoltà di comunicazione e con la sostanziale
anarchia che caratterizzò l’alto Medioevo, e si possono spiegare solo come
il frutto di un progetto preciso sostenuto da una autorità politica
centralizzata quale fu quella dei sovrani carolingi.
Le norme alle quali il canto gregoriano doveva sottostare sono infatti
estremamente dettagliate e rigorose, come dimostrano per esempio le
istruzioni che san Bernardo dà ai suoi monaci in merito agli aspetti musicali
della liturgia. Scrive Bernardo introducendo l’antifonario gregoriano:
«Noi desideriamo che ciò che è contenuto in questo volume venga osservato nei nostri
monasteri sia per le parole che per la musica e proibiamo che sia modificato quando l’autorità
passa da un abate a un altro. Poiché infatti la musica è la corretta scienza del canto, siano
esclusi dalla nostra musica tutti quei canti che vengono eseguiti in maniera disordinata e non
conforme alle regole. Quindi non protraiamo troppo in lungo le salmodie, intoniamo insieme i
versetti e insieme terminiamoli. Nessuno tenga una nota più a lungo del dovuto. Dopo ogni
versetto facciamo una pausa ben marcata. Nessuno cominci a cantare prima degli altri o corra
troppo o indugi troppo nel canto dopo che gli altri hanno taciuto: cantiamo insieme, taciamo
insieme. Quando si comincia un’antifona, un salmo o un inno, un solista canti una o due parti
mentre gli altri tacciono, e gli altri comincino dal punto in cui il solista si è fermato, senza
ripetere quello che è stato già detto. Quando cantiamo inni, alleluia e responsori, soffermiamoci
molto sulle note finali, soprattutto nelle celebrazioni solenni dei giorni di festa.»

Sono prescrizioni antiche di molti secoli che tuttavia qualunque direttore


di coro farebbe proprie ancora oggi, ed è in base a questi canoni che
dobbiamo immaginare gran parte della musica descritta da Dante,
soprattutto le melodie, sia corali che solistiche, del Purgatorio .
Pensiamo dunque, quando cerchiamo di ricostruire la musica dantesca, a
un canto interpretato da un coro o da un solista (cantor ) senza
accompagnamento strumentale, non scandito da pause regolari (i “tempi”)
ma legato al ritmo delle parole e quindi nello stile di quello che nella
musica moderna si chiama un “recitativo”, poiché dal punto di vista
liturgico la parola è più importante della musica: tanto è vero che quando la
complessità dell’intreccio polifonico dei “mottetti” minacciò di
compromettere la comprensibilità del testo, papa Giovanni XXII proibì, con
una disposizione emanata nel 1320, l’esecuzione di questo genere di
composizioni durante la liturgia.
Il canto gregoriano, dunque, contrariamente ai precetti di Boezio,
privilegia la pratica sulla teoria e mette in prima fila tra i suoi valori la
semplicità e la facilità, il che ne fa una forma d’arte tendenzialmente
accessibile anche da parte dei non specialisti (come dimostrerà lo sviluppo
della “lauda”, che nasce dal gregoriano e ne rappresenta la traduzione in
termini popolari e spontanei). Il repertorio dei canti gregoriani
comprendeva i “ Canti dell’Ufficio” (Salmi, Antifone, Inni e Responsori) e i
“ Canti della Messa” (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Benedictus, Agnus
Dei) che si potevano eseguir e secondo tre stili: lo stile sillabico, in cui a
ogni sillaba del testo corrisponde una nota; lo stile neumatico, in cui a ogni
sillaba corrispondono piccoli gruppi di note detti “neumi”; lo stile
melismatico in cui a ogni sillaba corrispondono gruppi di molte note, detti
“fioriture”, come accade negli “Alleluia” e nelle formule responsoriali
scambiate fra celebrante e popolo. La conoscenza della tradizione
gregoriana ci permette dunque di immaginare l’universo musicale di Dante
e di ricostruire con buona approssimazione le melodie dei canti da lui citati
nella Commedia .
Come abbiamo già accennato, il gregoriano trovò una sua spontanea
espressione popolare nella tradizione della “lauda”, che si sviluppa a partire
dal XIII secolo soprattutto nell’Italia centro-settentrionale ( Umbria,
Toscana) per opera di gruppi di cantori associati in confraternite dette dei
“laudesi”.
Autori di laude furono personaggi celebri come san Francesco e Jacopone
da Todi , ma la massima parte di queste composizioni resta anonima. La
raccolta più famosa è il Laudario di Cortona (fine del XIII secolo) che
comprende sessantasei testi, venti dei quali sono accompagnati da una
notazione musicale e che furono attribuiti (ma l’attribuzione è molto
controversa) a Garzo da Incisa , bisnonno del Petrarca che ne parla
diffusamente nelle sue Lettere familiari .
Nella lauda il gregoriano, pur restando alla base del tessuto musicale,
attenua il suo rigore assumendo elementi di musica profana più orecchiabili
e più vicini alla sensibilità popolare; addirittura, si trovano laude in cui ai
testi religiosi sono adattate musiche da ballo o melodie che
accompagnavano le poesie d’amore dei trovatori con un procedimento detto
tecnicamente “contrafactio” o “parodia”.
Nella Commedia non vi sono esempi espliciti di laude, tuttavia è senza
dubbio ispirata a questo genere di canto religioso la preghiera alla Vergine
pronunciata da san Bernardo (Vergine madre, figlia del tuo figlio ) in
Paradiso , XXXIII , 1-39.
Il gregoriano dunque, in forma prevalentemente corale e omofona (ossia
tutti i cantori eseguono la stessa melodia) è di gran lunga la tradizione
musicale che domina la Commedia e in particolare il Purgatorio , ma
questo non significa che Dante ignorasse altri modi e altre tecniche che si
venivano affermando nella sua epoca e che anzi, soprattutto fuori dai
confini italiani, erano già largamente conosciuti e praticati.
Fino dagli inizi del XII secolo si era infatti sviluppata a Parigi intorno alla
cattedrale di Notre Dame una scuola di musica, conosciuta poi come “ Ars
antiqua”, che aveva cominciato a introdurre modifiche sempre più
consistenti alla tradizione del canto gregoriano. Per esempio il più celebre
esponente della scuola di Notre Dame, il magister Perotino, aveva
perfezionato una tecnica di canto innovativa che prevedeva sequenze in
gregoriano tradizionale cantate all’unisono dal coro dei fedeli alternate con
sequenze in cui la linea melodica fondamentale era tenuta da un solista
detto appunto tenor , mentre un altro cantore eseguiva delle fioriture
melismatiche a ritmo più rapido (il duplum ) e un terzo si inseriva a sua
volta con tempi ancora più veloci (il triplum ). Il risultato era il cosiddetto
“discanto”, la cui difficoltà esecutiva obbligava a ricorrere a specialisti che
si alternavano, come abbiamo detto, al coro unisono dei fedeli intervenendo
soprattutto nelle “clausole”, cioè nelle strofe conclusive del testo.
Il discanto rappresenta la prima forma della polifonia e la nascita della
scienza dell’armonia, in cui melodie diverse convivono armoniosamente
opponendo una nota (punctum ) contro un’altra nota, da cui il termine
“contrappunto” usato ancora oggi nel linguaggio musicale.
Una ulteriore evoluzione del discanto nata e perfezionata nell’ambiente
parigino fu il “mottetto”, in cui ognuna delle due, tre o quattro voci previste
cantava un testo diverso su una melodia diversa (talvolta erano addirittura
diverse anche le lingue), sempre però rispettando le regole dell’armonia:
cioè, in parole povere, senza provocare stonature con l’accostamento di
note reciprocamente incompatibili secondo i canoni della musica
occidentale.
Ora, è evidente che perché il contrappunto potesse produrre accordi
armoniosi era necessario il rispetto di tempi precisi nell’esecuzione, in
modo che ogni nota si opponesse a un’altra esattamente nel momento
previsto dall’autore. Questa esigenza fondamentale portò ad una ulteriore
innovazione: il “recitativo” gregoriano classico in cui, come abbiamo visto,
il ritmo del canto era dettato da quello delle parole, viene sostituito da
precisi “tempi” musicali che il testo deve rispettare. È la cosiddetta musica
mensurata , la musica sottoposta a una misura che ne scandisce
rigorosamente l’esecuzione, il cui primo teorico fu il musicista tedesco
Francone di Colonia autore nel 1260 del trattato intitolato appunto Musica
mensurabilis .
L’introduzione di queste novità non avvenne senza forti resistenze: ancora
agli inizi del XV secolo il monaco francese Dionigi il Certosino condannava
la fractio vocis , cioè il frazionamento polifonico delle voci, come una
manifestazione di lascivia animi , di “dissolutezza spirituale” paragonabile
ai capelli arricciati di un uomo o ai vestiti pieghettati delle donne: pura
vanità. Tuttavia, nonostante queste opposizioni dei tradizionalisti, le
innovazioni introdotte dalla scuola di Notre Dame ebbero un grande
successo e si diffusero rapidamente anche in Italia, dove a partire dal XIV
secolo il distacco dal gregoriano si fa ancora più netto dando origine alla “
Ars nova”, detta così per distinguerla dalla “antiqua” parigina.
Protagonista di questa ulteriore evoluzione fu Marchetto da Padova ,
contemporaneo di Dante, che pubblicò due trattati, il Lucidarium e il
Pomerium , in cui riprendeva e sviluppava molte delle innovazioni
introdotte dall’Ars antiqua: fra l’altro definiva la misura dei tempi in modo
più rigoroso, introduceva un sistema di notazione più preciso, perfezionava
la scala “cromatica” razionalizzando l’impiego dei semitoni, cioè di quelle
graduazioni del suono ascendenti (diesis) e discendenti (bemolle) che si
collocano fra una nota e l’altra delle sette che formano la scala tradizionale,
detta “diatonica”. Marchetto sanciva in questo modo il distacco definitivo
dal gregoriano e apriva la strada alla grande fioritura della polifonia
rinascimentale all’origine della musica moderna.
Fu Dante a conoscenza di questi sviluppi dell’arte musicale? Di sicuro,
come si può verificare da molti passi della Commedia , egli conobbe i
princìpi dell’Ars antiqua che avevano portato al discanto e al mottetto
(magari, se è vera la notizia di un suo viaggio a Parigi, documentandosi
direttamente alla fonte).
Quanto all’Ars nova, la possibilità che Dante ne abbia avuto notizia appare
meno probabile, visto che Marchetto pubblica i suoi trattati fra il 1317 e il
1318, ossia appena quattro anni prima della morte del poeta. C’è però da
dire che sia il Lucidarium che il Pomerium furono scritti a Verona proprio
nel periodo in cui Dante vi soggiornava e non si può escludere quindi che
egli abbia potuto conoscere in anteprima i testi fondativi dell’Ars nova,
come forse si potrebbe dedurre da alcuni versi del Paradiso .
In ogni caso, non c’è dubbio che Dante conoscesse bene la musica, come è
testimoniato dai suoi biografi più antichi e come del resto era d’obbligo per
gli intellettuali del Medioevo formati sulle sette arti liberali di cui, come
abbiamo visto, la musica faceva parte.
Ma qual era la scrittura musicale (la “notazione”) di cui il poeta si sarà
servito nei suoi studi? In altre parole: come si presentava ai tempi di Dante
quello che noi oggi chiamiamo “spartito”, cioè la trascrizione grafica di una
composizione musicale? Qui è bene fare un passo indietro per avere un
quadro più completo e quindi un’idea più chiara di come anche in questo
campo il Medioevo fu un’epoca di grandi scoperte e di progressi decisivi.
Nel mondo greco-romano, infatti, musiche e canti si tramandavano
affidandosi prevalentemente alla memoria, e la trasmissione mnemonica si
mantenne ancora per molti secoli dopo la fine dell’età antica.
È solo a partire dal IX secolo, con il gregoriano, che si cominciano a
utilizzare le prime forme di notazione musicale, i cosiddetti “neumi” (dal
greco νέυμα , “segno”). I neumi, costituiti da due segni fondamentali, la virga
e il punctum , in realtà non rappresentavano vere e proprie note ma erano
semplici richiami ad aspetti dell’esecuzione (salire o scendere di tono,
rallentare o velocizzare, più forte o più piano ecc.). Il neuma indicava anche
quante note dovevano essere impiegate per cantare una sillaba, e quindi
variava dal tipo monosonico (una sillaba, una nota) al tipo melismatico che
per ogni sillaba prevedeva gruppi di note a volte anche molto numerose (per
esempio negli “alleluia”).
Il sistema neumatico poteva funzionare, e in effetti funzionava, con le
melodie relativamente semplici del gregoriano ma poi, man mano che con
l’affermarsi del discanto, del mottetto e della polifonia le composizioni
cominciarono a farsi più complesse, si fece sentire l’esigenza di una
notazione che fosse più precisa e rigorosa di quella neumatica.
Ed ecco emergere, agli inizi dell’XI secolo, la grande figura di Guido
d’Arezzo , il monaco benedettino a cui si deve il fondamento della moderna
scrittura musicale.
Guido nacque intorno al 990 in un luogo che resta incerto, ma il centro
della sua attività fu la città toscana di Arezzo, da cui il nome. Doveva avere
un carattere polemico, come risulta dai suoi scritti e anche da quel poco che
conosciamo della sua vita, durante la quale fu spesso in urto con i
confratelli e con i colleghi musicisti, che egli accusava senza troppi giri di
parole di incompetenza e stoltezza.
Leggiamo per esempio nell’introduzione a una delle sue opere, il Prologus
in antiphonarium :
«Ai nostri tempi i più sciocchi fra gli uomini sono i musicisti. In tutte le arti sono più le cose
che si imparano da soli che quelle che ci vengono insegnate dai maestri. Degni di
compatimento sono invece i musicisti e i loro allievi, che anche se studiassero tutti i giorni per
cento anni, da soli non riuscirebbero mai a cantare neanche una piccolissima antifona.»

Il risultato di questa incapacità, che dipende essenzialmente dalla


mancanza di un metodo, è il caos:
«Nessuno – scrive ancora Guido con il consueto sarcasmo – va d’accordo con l’altro, non il
maestro con l’allievo né l’allievo con i compagni, per cui avviene che le stesse antifone siano
cantate non in un solo modo o almeno in pochi, ma in tanti modi quanti sono i cantori.»

Guido decide allora di intervenire per porre rimedio a questo disastro:


«Perciò, con l’aiuto di Dio, ho deciso di dare l’annotazione a questo antifonario affinché per
suo mezzo chiunque abbia buon senso e buona volontà impari facilmente i princìpi della
musica e poi proceda sicuramente da solo senza bisogno di maestro.»

Il primo passo compiuto da Guido in questa direzione è quello di fissare i


segni che rappresentano le sette note della scala diatonica, a cui dà i nomi
che usiamo ancora oggi ricavandoli dalle sillabe iniziali dei versi di un inno
a san Giovanni (a parte il “do” che verrà introdotto nel XVI secolo e che
nella versione di Guido era sostituito dalla parola “ut”).
Inoltre, inserisce questi segni all’interno di un rigo composto da quattro
linee parallele (il “tetragramma”) a differenza dei neumi che venivano
trascritti sulla pagina in spazio aperto. La nuova notazione proposta da
Guido, detta “sistematica”, permetteva di leggere le differenti note
determinandone l’altezza in base alla loro collocazione sul tetragramma.
Diventava quindi possibile a chiunque conoscesse il metodo leggere la
melodia sulla pagina e tradurre l’annotazione in suoni eseguendo un brano
musicale con sicurezza e senza bisogno di sentirlo prima cantato o suonato
da un maestro.
La cosa era così nuova che sembrò incredibile: resta celebre l’episodio di
papa Giovanni XIX che, convocato Guido a Roma in seguito alle polemiche
suscitate dai suoi scritti, volle provare di persona se veramente era possibile
“leggere” la musica senza sentirla. Fattosi dunque spiegare da Guido il
nuovo metodo di notazione, si fece dare lo spartito di un’antifona e con sua
grande meraviglia e gioia riuscì a comprenderne la melodia e a cantarla.
Questo accadeva nel 1030: da allora in poi, grazie al riconoscimento
ufficiale ricevuto dal pontefice, il metodo di Guido si diffuse ovunque, in
Italia e in Europa (anche se nel mondo anglosassone i nomi guidonici delle
note -do, re, mi, fa, sol, la sono sostituiti dalle prime lettere dell’alfabeto,
senza però che nella sostanza cambi nulla). Possiamo quindi essere sicuri
che anche Dante leggesse e studiasse la musica sulla base del tetragramma e
della scala diatonica elaborata dal grande maestro aretino.
Una volta fissato un efficace metodo di notazione ed elaborati i canoni
dell’armonia e della polifonia, le composizioni andavano eseguite. Ebbene,
per tutto il Medioevo l’esecuzione fu affidata fondamentalmente a quello
strumento naturale che è la voce umana: gli strumenti artificiali
(assolutamente esclusi dal gregoriano) avevano solo la funzione di
accompagnare i cori o le voci soliste che eseguivano la melodia, oppure di
scandire il ritmo delle danze.
I primi tentativi di affidare agli strumenti l’esecuzione completa di un
brano si avranno nel tardo rinascimento, ma per avere una vera fioritura di
musica concertistica bisognerà aspettare il XVII e il XVIII secolo con i
capolavori di Corelli , Vivaldi , Händel , Bach.
Tuttavia, nonostante questo ruolo limitato, anche nell’età di Dante furono
numerosi gli strumenti di uso comune, in parte ereditati dall’antichità e in
parte progettati ex novo, alcuni anche di notevole complessità come per
esempio l’organo.
Di tradizione antichissima, l’organo nasce nel III secolo a.C. in ambiente
ellenistico, probabilmente ad Alessandria, e resta in uso anche dopo la fine
del mondo antico in ambiente bizantino, per poi passare in occidente agli
inizi del Medioevo quando nel 747 un imperatore di Bisanzio ne donò un
esemplare al re franco Pipino il Breve che lo collocò nella chiesa di Santo
Stefano a Compiégne.
Da lì l’organo si diffuse poi in tutta l’Europa cristiana, perfezionandosi e
raggiungendo livelli di notevole evoluzione tecnica: per esempio Guglielmo
di Malmesbury ricorda nella sua cronaca “Gesta dei re degli Angli” (1130)
un organo costruito intorno al 990 da Gerberto di Aurillac , poi papa
Silvestro II , quando era vescovo di Reims:
«Costruì un organo idraulico – scrive Guglielmo – nel quale in modo mirabile il vapore che si
libera grazie all’energia dell’acqua bollente penetra nelle canne di bronzo emettendo suoni ben
modulati.»

In effetti il suono dell’organo nasce da una serie di canne che attraversate


dall’aria producono note diverse a seconda della loro lunghezza e del loro
diametro. L’apertura delle canne è comandata da una tastiera alla quale
siede l’organista, mentre l’aria viene immessa da mantici azionati in modi
diversi: a mano, o dalla forza dell’acqua, o dal vapore o, modernamente, da
motori elettrici. Nel XIII secolo fa poi la sua apparizione l’“organo
portativo”, una versione su scala ridotta che si poteva sorreggere su un
ginocchio e alimentare con un piccolo mantice azionato dalla mano sinistra,
mentre la destra percorreva la tastiera: un antenato della moderna
fisarmonica.
Accanto all’organo, fra gli strumenti più diffusi nel Medioevo ricordiamo
il liuto, presente fino dall’XI secolo. Di origine araba, il liuto era formato da
una grande cassa armonica a forma di pera sormontata da un manico corto e
tozzo a cui erano fissate le corde, in numero variabile da quattro a dodici. Si
suonava pizzicando le corde con le dita o con un plettro, ed era lo strumento
tipico con cui i trovatori accompagnavano le loro canzoni.
Un altro strumento a corda fu la ghironda, un imponente attrezzo lungo
fino a due metri formato da una cassa e da un manico che sosteneva cinque
coppie di corde. All’estremità della cassa era fissata una ruota a manovella
che girando azionava le varie corde secondo gli impulsi ricevuti da una
tastiera. Per suonare la ghironda occorrevano due persone, una che
comandava la tastiera e un’altra che si occupava di far girare la ruota.
Fra gli strumenti a corda pizzicata ricordiamo anche l’arpa e la cetra,
ambedue di origine antichissima (l’arpa è raffigurata in graffiti egiziani
risalenti al 3000 a.C., la cetra è lo strumento base della musica nel mondo
greco-romano).
L’età di Dante conobbe anche gli strumenti ad arco, come la giga, antenata
del moderno violino (che infatti in tedesco si chiama geige ) e che era
formata da una cassa armonica piatta con manico sottile e allungato su cui
erano fissati i pioli per l’accordatura delle cinque corde. La giga era usata
soprattutto per accompagnare le danze, come dimostra il suo nome che
indica anche uno dei più diffusi ritmi di ballo popolare.
Fra gli strumenti a fiato, il più diffuso era il flauto nelle sue due versioni ,
il “dolce”, che si suona posizionato in avanti, e il “traverso” che viene
invece tenuto dal flautista in posizione trasversale rispetto al corpo.
Erano poi usati la tromba e il corno, che a differenza delle loro versioni
moderne non avevano tasti ma ottenevano le diverse note variando
l’intensità del soffio e la posizione delle labbra sull’imboccatura dello
strumento.
Infine, il patrimonio strumentale del Medioevo era completato dagli
strumenti a percussione con le varie tipologie di tamburi, cembali e sonagli.
Come si vede, nonostante la sottovalutazione e quasi la condanna della
musica instrumentalis da parte delle auctoritates legate alle teorie
pitagoriche, la gamma di strumenti a disposizione per fare musica al tempo
di Dante era abbastanza ricca, ed era ben nota al poeta come dimostrano le
citazioni dalla Commedia e da altre opere che vedremo più avanti.
3
DANTE FRA BOEZIO E CASELLA

Dunque, come abbiamo visto nel capitolo precedente, la musica medievale


ha un carattere bifronte: da un lato, recuperando l’antica tradizione
pitagorica, si configura come pura speculazione, come un’astrazione che
considera un accidente trascurabile la trasformazione dei rapporti
matematici in suoni e melodie; dall’altro, però, l’esperienza musicale del
Medioevo dimostra anche di saper passare dalla speculazione teorica a
pratiche vocali e strumentali di altissima qualità e larga diffusione sia
nell’ambito sacro che in quello profano, con manifestazioni che vanno dal
gregoriano al mottetto, dall’ars antiqua all’ars nova , dalla monodia alla
polifonia.
Sarà quindi arrivato il momento di chiedersi quale fu la posizione di Dante
all’interno di questa dialettica oppositiva: su quale dei due versanti fra
quelli, per tornare alla distinzione boeziana, della musica mundana e della
musica instrumentalis , il poeta si attestò? Quale delle due concezioni della
musica fece propria e privilegiò nella sua formazione intellettuale?
La risposta è molto chiara e non lascia margine di equivoco: ambedue. Ma
andiamo per ordine. Certamente Dante lesse e meditò il De institutione
musica di Boezio e ne ricavò un chiaro indirizzo neopitagorico in cui la
musica è fondamentalmente percepita come scienza delle proporzioni,
realizzazione di un perfetto equilibrio fra i suoni, esatto calcolo dei rapporti.
È un concezione che Dante ricava non solo da Boezio ma, come già
abbiamo osservato, da tutta la musicologia medievale. Citiamo ancora, a
riscontro, una delle auctoritates fondamentali nella formazione del pensiero
dantesco, Tommaso d’Aquino:
«La musica – scrive l’Aquinate nel commento al De Trinitate di Boezio – considera i suoni non
in quanto suoni fisici, ma in quanto rapporti proporzionali definiti matematicamente. E quindi
essa è un movimento ordinato di suoni regolato dalla ragione.»

Ed ecco allora che Dante, nel Convivio (II , 13), assimila la musica al cielo
di Marte proprio in base a criteri di simmetria e proporzionalità:
«E lo cielo di Marte si può comparare a la Musica per due proprietadi: l’una si è la sua più
bella relazione, ché, annumerando li cieli mobili, da qualunque si comincia, o da l’infimo o dal
sommo, esso cielo di Marte è lo quinto, ed esso è lo mezzo di tutti, cioè de li primi, de li
secondi, de li terzi e de li quarti. L’altra si è che esso Marte dissecca e arde le cose perché lo
suo calore è simile a quello del fuoco; e questo è quello per che esso pare affocato di colore,
quando più e quando meno, secondo la spessezza e raritade de’ vapori che ’l seguono [...] E
queste due proprietadi sono ne la Musica, la quale è tutta relativa, sì come si vede ne le parole
armonizzate e ne li canti, de’ quali tanto più dolce armonia resulta, quanto più la relazione è
bella. Ancora, la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del
cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione.»

Il passo è fondamentale per capire il rapporto fra Dante e la musica.


Esaminiamolo da vicino. La comparazione istituita fra la musica e il cielo di
Marte si fonda su due proprietà di quest’ultimo: la prima è di carattere
squisitamente neopitagorico e boeziano, e consiste nel fatto che questo
cielo, essendo il quinto di nove, si trova esattamente al centro del sistema
fra i quattro cieli più bassi (Luna, Mercurio, Venere, Sole) e i quattro più
alti (Giove, Saturno, Stelle fisse, Primo Mobile). Dunque, una posizione
perfettamente simmetrica ed equilibrata, così come simmetrici ed equilibrati
devono essere nella musica i rapporti fra i suoni.
C’è però anche la seconda proprietà, ovvero la capacità che ha Marte di
infiammare e disseccare i vapori attraendoli a sé; ebbene, anche la musica
attrae a sé i sentimenti umani, i “vapori del cuore”, infiammandoli e
rendendoli incapaci di dedicarsi ad altre operazioni che non siano la
percezione dei suoni e l’abbandono al loro incanto.
Quindi, come si vede, in questo fondamentale passo del Convivio c’è
senz’altro una definizione della musica come astrazione matematica
definita da un sistema equilibrato di rapporti, ma c’è anche, altrettanto
marcata, la coscienza della natura della musica come fonte di un’emozione
sensuale e quasi di uno smarrimento delle facoltà razionali.
È una contraddizione che peraltro si ritrova anche in uno dei maestri di
Dante, sant’Agostino, che, come abbiamo già visto nel secondo capitolo,
nelle Confessioni si mostra estremamente sensibile alla seduzione sensuale
dei suoni, tanto da ricavarne un profondo turbamento spirituale. Siamo
evidentemente davanti alla stessa oscillazione o, per meglio dire,
ambivalenza che, sul tema della musica, si produce anche nella sensibilità
di Dante.
Tuttavia, nonostante la presenza di questo doppio registro, nelle opere
dottrinali al di fuori della Commedia la posizione dantesca resta
sostanzialmente affine a quella boeziana. Vediamo per esempio come, nel
De vulgari eloquentia (II ,8), affrontando il tema capitale della canzone,
Dante scriva:
«E intorno a questo si deve osservare che si può interpretare il termine canzone in due modi:
uno riguarda la forma che le ha dato il suo autore, e si può definire azione; l’altro invece si
riferisce alla forma che il testo assume quando viene recitato sia con modulazione musicale che
senza, e in questo caso si definisce passione. E poiché prima di essere recitata la canzone viene
fabbricata dal suo autore, appare evidente che essa vada attribuita al suo creatore piuttosto che
al suo interprete [...] Al quale proposito dico che la modulazione musicale di una canzone non
si chiama mai ‘canzone’ ma ‘suono’, ‘tono’, ‘nota’, o ‘melodia’ [...] E perciò appare chiaro che
la canzone non è altro che l’opera compiuta da chi compone con arte parole disposte secondo le
regole.»

Dove è evidente che nella concezione dantesca la musica è un sovrappiù,


l’ornamento gradevole ma non essenziale di una struttura di fondo che è un
testo formato da parole e non da suoni, o, per meglio dire, formato da parole
che sono di per sé anche suoni, senza che ci sia bisogno di ricorrere alla
tecnica musicale rivestendole di note. Infatti il poeta è tale perché sa
percepire e riprodurre la “musica verbale” (“Si fa sempre musica quando si
parla”, scriveva Guido d’Arezzo), cioè quella musicalità insita nelle parole
ben scelte e ben disposte che formano il linguaggio poetico.
E gioverà precisare che nella già citata affermazione del De vulgari
eloquentia , per cui la poesia non è altro che immaginazione rivestita di
musica, il termine “musica” va inteso non in senso tecnico ma come
musicalità insita nella fonetica, nei timbri, nei ritmi e nella disposizione
delle parole. Ed ecco quindi che, sempre nel De vulgari eloquentia (II , 7),
Dante insiste sul valore musicale dei vocaboli distinguendoli fra pexa
(“pettinati”) e yrsuta (“villosi”), cioè fra quelli che producono effetti
musicali morbidi e dolci e quelli che invece risuonano aspri e possenti: ma
si tratta comunque di musica verbale e non di note cantate o suonate.
La musica pura al di là delle parole torna invece ad imporsi nell’antico
mito della “armonia delle sfere”. Si tratta di una concezione di origine
pitagorica, poi ripresa e sviluppata da Platone e quindi da Cicerone nel
cosiddetto Somnium Scipionis all’interno del trattato De republica , assunta
poi da Macrobio e infine da Boezio e da lui autorevolmente introdotta nella
cultura medievale.
Secondo questa dottrina, la rotazione delle sfere celesti produce
un’armonia non percepibile dall’orecchio umano, troppo rozzo per
apprezzarne la sublime perfezione. Dante naturalmente conobbe la teoria
della musica delle sfere, ma non afferma esplicitamente di condividerla.
In effetti, Aristotele l’aveva categoricamente rifiutata, e in età medievale
la maggioranza dei filosofi, guidata da autorevoli commentatori come
Averroè , Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, era d’accordo nel giudicare
l’armonia delle sfere più una favola poetica che un’ipotesi scientificamente
verosimile.
D’altra parte, però, oltre a Boezio un’altra auctoritas prestigiosa come
sant’Ambrogio manifesta la sua condivisione di questa dottrina, scrivendo
che:
«Le sfere celesti ruotano sul loro asse con un concerto di perpetua dolcezza, tanto che il loro
suono si può sentire nelle più lontane parti della terra.»
Enarrationes in Psalmos , I
Su questa posizione sono anche altri importanti maestri come Marziano
Capella, Isidoro di Siviglia e Simplicio .
E Dante? Come abbiamo detto, l’opinione di Dante non è espressa in
modo esplicito, ma sembrerebbe più incline ad accogliere la dottrina
pitagorica e boeziana della musica delle sfere che a respingerla. Il luogo
fondamentale in cui l’argomento viene affrontato si trova nel Canto I del
Paradiso (76-84):
«Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e ’l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.»

Dunque, l’eterna rotazione che Dio imprime ai cieli (la rota che tu
sempiterni ) attrae l’attenzione di Dante con una musica che al tempo stesso
è accordata e distinta nelle sue diverse componenti (con l’armonia che
temperi e discerni ): e questa armonia non può essere che la musica delle
sfere che qui, finalmente, diventa percepibile all’orecchio del poeta che ha
compiuto la sua definitiva purificazione sulla cima del Purgatorio ed ha
quindi acquisito la capacità di elevarsi dalle cose terrene a quelle celesti.
Ma si tratta di un suono del tutto estraneo all’esperienza umana (la novità
del suono ) e quindi inaccessibile ad ogni tentativo di riproduzione: siamo
ancora nell’universo metafisico della musica mundana di Boezio, ancora a
distanze siderali dall’umile quotidianità della musica instrumentalis . Una
musica, insomma, che, più che nei suoni, vive nelle simmetrie matematiche,
nelle proporzioni esattamente calcolate, nel rigoroso calcolo dei rapporti
numerici.
Del resto, l’attenzione vivissima che Dante ebbe per i numeri, le loro
corrispondenze e i loro significati riposti sembrerebbe confermare questa
interpretazione: tutti i lettori della Commedia sanno bene quanto giochino
nel poema le componenti numerologiche, sia a livello strutturale che
simbolico, con la ricorrenza ossessiva del tre, ma anche con riferimenti ad
altri numeri come il sette, il nove e soprattutto il dieci, definito nel Convivio
“lo perfetto numero” insieme col suo multiplo cento che “moltiplica lo
perfetto numero per sé medesimo”.
Non sarà quindi un caso, ad esempio, che i canti della Commedia siano
cento e che il primo canto dell’Inferno e l’ultimo del Paradiso contino
rispettivamente 136 e 145 versi, numeri che, considerando la somma delle
singole cifre che li compongono (1+3+6 e 1+4+5), danno ambedue dieci,
aprendo e chiudendo così il poema nel segno del numero perfetto. In
conclusione, poiché, come insegna Pitagora, l’universo è fondato sui
numeri, per Dante anche la musica non può che apparire come
un’espressione squisitamente matematica.
Giunti a questo punto, sembrerebbe inevitabile identificare la concezione
dantesca con quella di Boezio per il quale, come abbiamo visto, la musica
assumeva il carattere di un puro concetto filosofico e di un’astrazione
estranea all’esperienza pratica e al diletto dei sensi.
Ma se arrivassimo a questa conclusione commetteremmo un errore, perché
in realtà le cose non stanno così: Dante infatti, pur affascinato
intellettualmente dalle teorie pitagoriche e boeziane, fu ben lontano dal
ripudiare la musica instrumentalis che anzi conobbe, amò e forse anche
praticò, come attestano, oltre ai tanti passi della Commedia che
esamineremo a suo luogo, anche numerose testimonianze, a cominciare da
quella del suo più illustre biografo, Giovanni Boccaccio .
Scrive infatti Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante (1355):
«Sommamente si dilettò in suoni ed in canti nella sua giovinezza; e a ciascuno, che a que’
tempi era ottimo cantatore e sonatore, fu amico ed ebbe sua usanza; ed assai cose, da questo
diletto tirato, compose, le quali di piacevole e maestrevol nota a questi cotali faceva rivestire.»

Un altro biografo, Leonardo Bruni , ricorda che “Dante dilettossi di


musica e suoni” ( Vita di Dante , 1436).
Giannozzo Manetti scrive a sua volta che:
«Nella sua adolescenza Dante si dedicò a tal punto alla musica e al canto che divenne amico
dei migliori maestri dei suoi tempi e compose molti bellissimi testi per musica in lingua
fiorentina.»
Vita di Dante Alighieri , 1450.
Ancora, Francesco Filelfo ( Vita Dantis , 1470) riporta che:
«Dante cantava con voce dolcissima e suonava con maestria l’organo e la cetra con cui soleva
dilettarsi nella solitudine della sua vecchiaia.»

Curiosamente, i dati biografici si fanno più dettagliati con l’aumentare


della distanza cronologica, mentre ci si aspetterebbe il contrario. Ma a ben
pensare è logico che sia così, dato che meno sono le notizie possedute dal
biografo, e più questo è portato a lavorare di fantasia, come è evidente, per
esempio, in quel particolare riferito dal Filelfo e chiaramente inventato, per
cui Dante da vecchio si consolava della sua solitudine suonando la cetra.
In ogni caso, al di là delle ricostruzioni fantasiose, è certo che Dante
conobbe e amò la musica, una delle sette arti liberali il cui studio, come
abbiamo visto, era parte essenziale della formazione intellettuale del
Medioevo. Anzi, secondo uno degli autori di riferimento di Dante, san
Tommaso, “la musica è la più nobile delle scienze ed ognuno la deve
conoscere bene e meglio di tutte le altre” ( De arte musica ). Come si
potrebbe dunque pensare che Dante, anche se non ne avesse dato (come ha
fatto) preciso riscontro nelle sue opere, ignorasse un’arte di tale rilevanza?
Ma c’è di più: come dice Boccaccio, Dante non solo fu competente di
musica strumentale, ma fu anche in contatto personale con i musicisti del
suo tempo (“a ciascuno, che a quei tempi era ottimo cantatore e sonatore, fu
amico”).
Si può dubitare della esattezza delle informazioni dell’autore del
Decameron (secondo Gianfranco Contini, Boccaccio riguardo a Dante non
ne sapeva molto più di noi), ma certo è indubbio che Dante fosse amico del
musico Casella (ce lo dice lui stesso) ed è molto probabile che fosse in
contatto con altri musicisti suoi contemporanei, come dimostra in un suo
saggio Mahmoud Elsheikh (I musicisti di Dante , in “Studi danteschi”, 48,
1971). Fra questi musicisti, elencati dal rimatore trevigiano Niccolò de’
Rossi in due sonetti studiati da Elsheikh, spiccano il già ricordato Casella e
Lippo. Vediamo di conoscerli meglio.
Riguardo a Casella, la sua presenza come personaggio della Commedia (
Purgatorio , II , 76-133) rende assurda ogni discussione sulla sua esistenza
storica. Si è molto discusso, invece, sul fatto che egli sia stato veramente un
musicista: in effetti, della sua attività di musico non resta nessuna traccia, se
non il riferimento contenuto in un antico codice (il Vaticano 3214) che, in
appendice a una stanza di canzone del rimatore pistoiese Lemmo Orlandi
riporta l’annotazione: “Et Casella diede il suono”.
Dal canto loro, i commentatori antichi sono concordi nel definire Casella
un musico fiorentino (ma c’è anche chi, come l’Anonimo, lo fa pistoiese).
Un’altra traccia porta a Siena, dove in un documento dell’archivio
comunale si annota che un Casella “uomo di corte” fu trovato il 13 luglio
1282 a vagabondare per la città dopo il coprifuoco e perciò multato: un
episodio che ben si accorda con l’immagine del bohémien dalla vita
avventurosa e sregolata che la tradizione attribuisce agli artisti. In ogni
caso, i sonetti di Niccolò de’ Rossi sembrano risolvere definitivamente la
questione testimoniando che nell’età di Dante ci fu effettivamente un
Casella musicista.
Più intricato è il caso di Lippo. Il personaggio storico è Lippo Paschi de’
Bardi, poeta fiorentino di cui ci restano quattro sonetti, morto intorno al
1330 e in rapporti di amicizia con Dante.
Per molto tempo non ci sono state prove che Lippo fosse, oltre che poeta,
anche musicista, tuttavia nel canzoniere dantesco si trova un sonetto in cui
l’autore si rivolge a lui:
«Se Lippo amico se’ tu che mi leggi»

chiedendogli di rivestire
«... esta pulcella nuda,
che vien di dietro a me sì vergognosa,
ch’a torno gir non osa,»

perch’ella non ha veste in che si chiuda. 
La “pulcella nuda” è la


personificazione allegorica di una stanza di canzone che segue subito dopo
e che Dante chiede all’amico di rivestire: di che cosa? Di note musicali? Di
un commento? O magari, come qualcuno ha pensato, di fregi e miniature?
Ebbene, la scoperta dei sonetti di Niccolò de’ Rossi, confermando che
Lippo era un musico, ha risolto la questione: Dante chiede che i suoi versi
siano musicati.
Dunque, in accordo con quanto riferiscono i biografi, appare provata la
familiarità di Dante con l’ambiente musicale fiorentino, avvalorata anche da
un altro rapporto di amicizia, quello con Belacqua (citato in Purgatorio , IV
,106–135), personaggio del quale non abbiamo notizie certe ma che
secondo molti fra gli antichi commentatori ( Benvenuto da Imola ,
Anonimo Fiorentino ) era un liutaio, cioè un artigiano costruttore di
strumenti musicali che teneva bottega a Firenze.
Partendo dall’atteggiamento di confidenza scherzosa e di affettuosa
complicità che Dante mostra nei confronti di questo suo vecchio amico,
benevolmente preso in giro per la sua pigrizia
«Li atti suoi pigri e le corte parole
mosson le labbra mie un poco a riso»
vv. 121-122
possiamo immaginare il poeta che negli anni della giovinezza si intrattiene
piacevolmente nella bottega di Belacqua insieme ad altri appassionati di
musica (magari anche con Casella e Lippo) provando strumenti,
accennando melodie, leggendo spartiti: fantasie? Forse, ma non troppo,
considerando il costume del tempo e il ruolo di incontro e di aggregazione
che avevano all’epoca le botteghe, ruolo conservato del resto fino a tempi
recenti.
La figura del liutaio Belacqua ci porta a riprendere il tema degli strumenti
musicali. Ne abbiamo già parlato nel capitolo precedente da un punto di
vista storico generale, indicando e descrivendo quelli più diffusi nell’età
medievale. Ora, venendo in particolare a Dante, non c’è dubbio che egli
ebbe una buona conoscenza degli strumenti musicali del suo tempo, come
dimostra l’ampia serie di citazioni presenti nella Commedia .
Cominciamo dall’Inferno che, nonostante sia fra le tre cantiche quella in
cui la musica ha meno spazio, presenta tuttavia una ricca galleria di
strumenti, anche se, come vedremo, tutti tranne due, uno proprio e un altro,
per così dire, improprio, sono solo citati e non presentati in azione. Di
questi due, lo strumento improprio è la celeberrima “trombetta” del Canto
XXI , 139 (ed elli avea del cul fatto trombetta ). Lo strumento proprio di cui
Dante ode il suono è invece il corno di Nembrot, Canto XXXI , 12 (ma io
senti’ sonare un alto corno ). Oltre a questi, fra gli strumenti citati abbiamo
la tromba ( VI , 95, XIX , 5 e XXII , 7), la campana (XXII , 7), la cennamella
(XXII , 10), il liuto ( XXX , 49), il tamburo (XXII , 8 e XXX , 103).
Nel Purgatorio , ricchissimo di musica, le melodie sono affidate alla voce
delle anime penitenti piuttosto che agli strumenti, di cui abbiamo solo tre
citazioni: la squilla (campana, VIII , 5), l’organo ( IX , 144) e la tuba (tromba,
XVII , 15).
Infine nel Paradiso vengono citati la tuba ( VI , 72 e XXX , 35), l’arpa ( XIV ,
118), la giga (XIV , 118), la lira ( XV , 4 e XXIII , 100), l’organo (XVII , 40), i
flailli (flauti, XX , 14), la cetra (XX , 22), la sampogna (XX , 24). Come si
vede, praticamente tutti gli strumenti dell’“orchestra” medievale rientrano
nelle conoscenze di Dante.
Ma quali melodie, quali armonie eseguivano gli strumenti e le voci citate
dal poeta nella Commedia ? Qui il discorso rischia di farsi molto
complicato. Innanzi tutto dobbiamo distinguere fra musica sacra e musica
profana: nel primo caso abbiamo la possibilità di ricostruire con buona
approssimazione, e in qualche occasione con sicurezza, gli “spartiti” delle
musiche dantesche. Nel secondo, invece, questa ricostruzione appare assai
difficile se non impossibile.
Per quanto riguarda la musica sacra, il primo punto di riferimento è
naturalmente il canto gregoriano che dalle sue origini è giunto fino a noi
sostanzialmente immutato.
In più, la musica di molti degli inni, delle antifone e dei salmi citati da
Dante può essere ricostruita attraverso la notazione trascritta in alcune
raccolte medievali, come l’Innario della biblioteca capitolare di Verona (XI
secolo), in cui è contenuto l’inno Summae Deus clementiae ( Purgatorio ,
XXV , 121); l’Antifonario della biblioteca della cattedrale di Worcester (XIII
secolo), che riporta il salmo Asperges me ( Purgatorio , XXXI , 98);
l’Antifonario della biblioteca capitolare di Lucca, dove si trovano il salmo
Venite, benedicti Patris mei ( Purgatorio , XXVII , 58) e l’antifona Beati
mundo corde (Purgatorio , XXVII , 8).
Certamente non fu estranea a Dante la tradizione delle laude, la cui
massima testimonianza è il Laudario di Cortona in cui molti testi sono
accompagnati da una notazione che ci permette di ricostruirne la melodia;
ancora, per quanto riguarda una delle preghiere mariane più diffuse citate da
Dante, la Salve Regina ( Purgatorio , VII , 82), è molto probabile che la
melodia con cui viene cantata ancora oggi in forma solenne (altra cosa è la
forma popolare di origine ottocentesca) corrisponda a quella originale (e lo
stesso si può dire per il Te Deum udito dal poeta in Purgatorio , IX , 141).
Possiamo anche pensare che Dante sia stato influenzato musicalmente
dalle Cantigas de Sancta Maria , una raccolta di inni mariani dovuta al re di
Castiglia Alfonso x e che fu introdotta a Firenze da Brunetto Latini di
ritorno da un’ambasceria presso quel sovrano. Il manoscritto è conservato
oggi alla Biblioteca Nazionale di Firenze e Dante, che di Brunetto fu
allievo, lo dovette certamente conoscere.
Dunque, nell’ambito della musica sacra possiamo farci un’idea abbastanza
verosimile di quello che Dante aveva in mente quando inseriva riferimenti
musicali nei versi della Commedia , anche se in più occasioni il poeta
dichiara esplicitamente che quelle musiche erano talmente sublimi che
nessun essere umano potrebbe ripeterle.
Diverso appare invece il caso della musica profana. Intanto dobbiamo dire
che la sua presenza nella Commedia è estremamente limitata, riducendosi a
tre casi. Il primo e più celebre è il canto intonato da Casella sul testo della
canzone dantesca Amor che nella mente mi ragiona ( Purgatorio , II , 112-
114).
C’è poi il canto della deforme femmina balba tramutata in affascinante
sirena che appare al poeta nel Canto XIX del Purgatorio (19-24):
«Io sono son dolce serena,
che ’ marinari in mezzo mar dismago.»

Infine abbiamo la canzone cantata da Lia quando appare in sogno a Dante


nel Paradiso Terrestre:
«Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda»
Purgatorio , XXVII , 100-108
Il canto della sirena, anche per la doppia personalità della protagonista
(orribile femmina balbuziente e insieme dolce sirena) potrebbe richiamare
la struttura del mottetto, in cui si intrecciavano due o più voci armonizzate
con melodie e parole diverse.
Invece la canzone di Lia sembra più ispirarsi a un modello madrigalesco,
assumendo del madrigale le caratteristiche idillico-pastorali e
l’ambientazione bucolica, con un recupero delle atmosfere stilnovistiche
che, completamente scomparse nell’Inferno , riemergono con forza nel
Purgatorio .
In ogni caso, non abbiamo alcuna idea delle melodie che Dante aveva in
mente quando immaginava questi canti (se non per Casella, che forse il
poeta avrà ascoltato cantare la sua canzone, se davvero fu da lui messa in
musica).
Tuttavia, una traccia per immaginare il tipo di melodie a cui Dante
pensava la possiamo ricavare dalle raccolte trecentesche di musiche profane
che ci sono rimaste, tutte però posteriori alla morte del poeta (la prima è il
cosiddetto “ Codice Rossi ” del 1355).
Fra i compositori della seconda metà del Trecento, tutti esponenti dell’“
Ars nova”, ricordiamo Gherardello da Firenze e Jacopo da Bologna , ma
probabilmente le composizioni profane che più si avvicinano a quelle del
tempo di Dante sono opera del fiorentino Francesco Landini (13301397),
autore di oltre centocinquanta fra ballate, madrigali e mottetti: la grazia e la
dolcezza del suo famoso madrigale Ecco la primavera potrebbero
benissimo adattarsi al canto di Lia.
Dunque, come abbiamo visto, l’ipotesi che avevamo formulato a inizio
capitolo di un Dante musicalmente bifronte, attratto sia dalla musica
intellettuale di Boezio che dalle seduzioni della musica instrumentalis ,
appare confermata dai fatti che abbiamo fin qui esaminato: il filosofo del
Convivio e il poeta della Commedia , la rigorosa teoria boeziana e la
commossa rievocazione dell’amico Casella si fondono nella stessa persona.
Non è né una contraddizione né una debolezza teorica, ma la
testimonianza che il genio dantesco era in grado di padroneggiare e
armonizzare prospettive diverse con la stessa lucidità intellettuale e la stessa
profonda umanità.
4
LA DANZA NELLA “DIVINA COMMEDIA”

Una intelligente definizione della danza è stata data ricorrendo a una


sinestesia, cioè all’accostamento di due campi percettivi diversi (in questo
caso l’udito e la vista): “musica visibile”.
Di fatto, per quanto se ne sa, fino dalle loro origini rituali queste due
espressioni dello spirito umano, la musica e la danza, si sono manifestate
insieme, in una stretta associazione di reciproca dipendenza.
È quindi sbagliato (anche se si tratta di un’idea molto diffusa) credere che
nell’ambito del cristianesimo medievale la danza sia stata bandita in quanto
veicolo di immoralità: la condanna dei balli promiscui è semmai il frutto
dell’ossessione sessuofobica della Controriforma ed entra a far parte del
repertorio dei grandi predicatori cattolici solo dopo il Concilio di Trento .
Valga l’esempio del padre gesuita Paolo Segneri , che in una predica del suo
celebre Quaresimale (1679) dice:
«Non hai pregato tu per sapere qual sia quell’occasione in cui più si pecchi dalla gioventù
licenziosa? È il ballo. Osserva ad uno ad uno tutti i peccati: il moto impudico de’ piedi, lo
stringimento malizioso delle mani, la vanità delle donne, i guardi, i ghigni, e soprattutto il
cuore acceso di desideri malvagi.»

In età medievale, invece, questo pregiudizio contro il ballo è del tutto


assente, se si fa eccezione per il divieto ecclesiastico di partecipare a feste e
danze di natura orgiastica e di chiara ispirazione pagana, in genere
sopravvivenze dei culti della fertilità.
Al contrario, troviamo che per tutto il Medioevo la danza non solo fu
permessa dalla Chiesa, ma era addirittura praticata nelle cerimonie religiose
come accompagnamento della liturgia: sono numerose le testimonianze
documentali che lo attestano, a partire dal termine “presule” che indica il
vescovo e che deriva da prae salire , ossia “danzare davanti”, a
dimostrazione che in antico fra le prerogative del vescovo c’era anche
quella di guidare la danza nelle processioni cerimoniali. Anche nella
patristica troviamo un chiaro apprezzamento della danza: Tertulliano la
giudica utile per rafforzare la fede attraverso l’entusiasmo, san Basilio la
dichiara l’occupazione prediletta degli angeli e dei beati, sant’Agostino la
mette, insieme al canto melismatico (fatto di puri suoni), fra gli elementi
costitutivi dello jubilus , ossia di quel modo di celebrare la grandezza
ineffabile di Dio che va oltre le parole attraverso la manifestazione di un
abundantissimum et inenarrabile gaudium . E naturalmente non dobbiamo
dimenticare la Bibbia quando ci presenta il re David che danza davanti
all’Arca (Samuele II , 6, 14).
Non c’è quindi da meravigliarsi se Dante torna più volte nella Commedia
(in particolare nel Paradiso ma anche in più luoghi del Purgatorio ) a
rappresentare scene di danza di cui almeno una volta, come vedremo, è lui
stesso protagonista.
Tuttavia, nonostante la sua larga diffusione, della danza medievale
sappiamo davvero poco: il primo trattato dedicato all’argomento è di epoca
umanistica, il De arte saltandi et choreas ducendi di Domenico da Ferrara
(1420) e per i secoli precedenti dobbiamo affidarci alle rappresentazioni
figurative (soprattutto miniature) e a qualche accenno contenuto in studi
musicologici come il De Musica di Giovanni di Grouchy (XIV secolo).
Il quadro che ne emerge ci mostra tre modi fondamentali di danzare: il
“ballo a tondo”, come la carola che si eseguiva disponendosi in cerchio in
una sorta di girotondo; il “ballo a catena” che invece si ballava in linea di
fila, come ad esempio la farandola eseguita con rapidi movimenti dei piedi
e tenendosi per mano; infine il “ballo a doppio”, come la estampie (o
stampita ) in cui due file di danzatori si fronteggiavano avanzando e
retrocedendo a passi lenti e strisciati al suolo.
Una delle immagini più eloquenti di danza medievale la possiamo
ammirare in un affresco di Andrea di Bonaiuto in Santa Maria Novella a
Firenze (1365), in cui sono raffigurate due scene di ballo, una a tondo e
l’altra a catena . Da notare che non c’è commistione di sessi: le fanciulle
danzano tutte insieme da una parte, gli uomini da un’altra, come
probabilmente avveniva nella realtà.
Oltre a questi balli che venivano praticati negli ambienti aristocratici e di
corte, c’erano poi le danze popolari di tradizione contadina come il trescone
, la ridda , la giga , il saltarello , estremamente movimentate e veloci, in cui
i ballerini saltavano battendo le mani senza dover rispettare particolari
figure, raggiungendo punte di frenesia parossistica come possiamo vedere
ancora oggi in alcune tradizioni regionali sopravvissute (per esempio la
taranta pugliese).
Ma torniamo a Dante. Come abbiamo già detto, le scene di danza sono
numerose nella Commedia , ma prima di analizzarle partitamente sarà
opportuno sottolineare subito un dato, cioè che il poeta non solo apprezzò la
danza intellettualmente considerandola una manifestazione visibile della
felicità nella beatitudine, ma la amò anche sotto il profilo estetico, come
espressione di una grazia, di una leggiadria e di una gioia di vivere tutte
umane e indipendenti da significati teologici e ultramondani. Ecco un
esempio tratto dal Paradiso (X , 79-81):
«donne mi parver, non da ballo sciolte,
ma che s’arrestin tacite, ascoltando
fin che le nove note hanno ricolte.»

Il fascino di queste aggraziate figure di fanciulle colte mentre, concluso il


brano musicale sul cui ritmo hanno ballato, ascoltano assorte in un attimo di
silenziosa sospensione la nuova musica prima di riprendere la danza ha un
valore assoluto: non ha più importanza che, in realtà, le donne qui
raffigurate siano solo il termine di una similitudine per rappresentare gli
spiriti sapienti del cielo del Sole mentre interrompono momentaneamente la
loro eterna danza per permettere a uno di essi (san Tommaso) di parlare con
Dante.
Di fronte alla dolcezza e all’eleganza di queste immagini ogni mediazione
del significato si dissolve per lasciare il posto alla concretezza di una scena
a cui Dante avrà certamente assistito dal vivo e che ha lasciato impressa
nella sua memoria una traccia indelebile di bellezza.
Lavorando di immaginazione (ma con qualche fondamento documentale)
si può ipotizzare che qui Dante avesse in mente il quadro di una “ canzone a
ballo”, che era alla sua epoca una delle forme di danza più praticate e che fu
perfezionata proprio a Firenze nell’ambiente degli stilnovisti. La “canzone a
ballo” (o “ballata”) iniziava con un ritornello cantato dal coro che danzava
in cerchio; seguiva una strofa intonata da un solista e formata da due parti
dette “piedi”, poi di nuovo il ritornello corale e così via fino a un massimo
di cinque/sei strofe. Il coro effettuava un giro completo muovendo da
sinistra verso destra al canto del ritornello, poi, per ciascuna strofa, mezzo
giro a sinistra al canto del primo “piede” e mezzo giro a destra al canto del
secondo. La ballata si concludeva con la “replicazione”, cioè una breve
strofa indipendente ma simile al ritornello per il numero dei versi e lo
schema delle rime, anche questa danzata in cerchio con un giro completo.
È verosimile che la scena descritta da Dante raffiguri le fanciulle del coro
in una delle pause che si verificavano tra la fine del ritornello e l’inizio di
una strofa o tra un “piede” e l’altro della stessa strofa, mentre attendono che
la musica riprenda.
Del resto, al poeta non saranno certo mancate negli anni della sua
giovinezza fiorentina le occasioni per partecipare a feste e trattenimenti in
cui musica e danza avevano la parte principale, come ad esempio le “liete
brigate” che il primo giorno del mese di maggio (“ Calendimaggio”) si
riunivano nelle sale dei palazzi o nelle piazze per festeggiare l’arrivo della
primavera: e secondo quanto racconta il Boccaccio, fu proprio durante il
Calendimaggio del 1274 in occasione di una festa nel palazzo di messer
Folco Portinari che Dante incontrò per la prima volta Beatrice.
L’atmosfera aggraziata e gioiosa in cui si svolgono le sequenze di danza
del Purgatorio e del Paradiso non poteva naturalmente illuminare i cupi
scenari dell’Inferno . Tuttavia, anche nella prima cantica si trovano
riferimenti alla danza, inseriti però in un contesto in cui le note dominanti
sono quelle del grottesco e del deforme che si sostituiscono all’eleganza e
all’armonia. Il primo riferimento lo troviamo nel Canto VII , 22-27:
«Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa,
così convien che qui la gente riddi.
Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’urli,
voltando pesi per forza di poppa.»

Siamo nel quarto cerchio, e questi spiriti che “riddano” sono quelli degli
avari e dei prodighi che si vengono incontro spingendo col petto e facendo
rotolare pesanti macigni, finché non cozzano gli uni contro gli altri
rinfacciandosi i rispettivi peccati per poi riprendere il loro eterno cammino
in senso inverso fino a scontrarsi di nuovo dalla parte opposta del cerchio.
È questo movimento di due schiere che avanzano e retrocedono che viene
rappresentato da Dante ricorrendo all’immagine della ridda , una danza
medievale in cui appunto i ballerini si avvicinavano e si respingevano con
movimenti molto energici e veloci.
Si trattava di un ballo caotico e sregolato, tanto che la parola “ridda” è
passata a indicare il ballo delle streghe durante il Sabba e poi, nell’italiano
moderno, un insieme confuso di elementi eterogenei e contradditori, in una
accezione negativa che doveva essere percepita già al tempo di Dante.
Non è quindi casuale che qui il termine sia usato per indicare il disordinato
incontro-scontro di avari e prodighi, con in più una sfumatura di derisione
nei confronti di questi dannati che subiscono la loro pena sotto forma di una
danza grottesca.
Un altro passo dell’Inferno in cui è presente un riferimento alla danza si
trova nel Canto XIV , 40-42. Siamo nel terzo girone, settimo cerchio,
occupato da un immenso deserto di sabbia rovente su cui scende un’eterna
pioggia di fuoco che tormenta i violenti:
«Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l’arsura fresca.»

La tresca era una danza campagnola che si ballava nelle feste di villaggio
con passi rapidi e saltellati simili a quelli della tarantella e viene qui
utilizzata metaforicamente da Dante per dare un’idea del frenetico
movimento delle mani con cui i dannati cercano di scuotere via ogni nuova
fiammella (l’arsura fresca ) che cade loro addosso.
Anche qui, come nell’esempio precedente, c’è un intento derisorio sia
nell’opporre la tresca , che doveva essere un ballo allegro e festoso, alle
misere mani dei dannati, sia nell’ossimoro arsura fresca che sembra
prendersi gioco della sofferenza provocata dalle sempre nuove fiamme che
scendono a bruciare i sodomiti.
Infine, c’è un ultimo luogo dell’Inferno in cui la danza, pur senza essere
citata esplicitamente come tale, sembra essere evocata dalle posture e dai
movimenti dei personaggi: nel Canto XVI , sempre nel girone dei violenti,
Dante è raggiunto dalle grida di tre sodomiti fiorentini che lo chiamano e
poi si soffermano a conversare con lui denunciando la corruzione di
Firenze. Poiché la loro pena li condanna a correre eternamente sotto la
pioggia di fuoco, i tre per parlare con il poeta formano una sorta di
girotondo intorno a lui come si faceva in un antico ballo danzato in cerchio,
la rota (XVI , 19-21):
«Ricominciar, come noi restammo, ei
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.»

Ma per poter guardare in faccia Dante mentre gli girano intorno, i tre
spiriti sono costretti a ruotare il collo in un senso sempre contrario a quello
in cui si muovono i piedi (XVI , 25-27):
«così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.»
Anche qui, come nei casi già esaminati della tresca e della ridda , la danza
dei tre dannati assume caratteri grotteschi: la ridda , la tresca e la rota ,
dunque, vengono stravolte e diventano, da manifestazioni in cui il corpo,
attraverso l’agilità e l’armonia dei movimenti esprime la gioia di vivere,
una sinistra parodia che umilia e deride i protagonisti.
È quanto accadrà, come vedremo, anche con la musica, secondo la
malvagia logica infernale che gode nel degradare e nell’insozzare tutto ciò
che è bello.
Ben diverso, come già si è detto, è il modo in cui la danza viene
rappresentata nel Purgatorio e nel Paradiso .
Per quanto riguarda il Purgatorio , le scene di danza sono concentrate nei
canti ambientati nel giardino dell’Eden, dal XXVIII in avanti. In precedenza
la danza fa una sola apparizione indiretta nel Canto X , 64-66, quando Dante
descrive i bassorilievi rappresentanti esempi di umiltà scolpiti nel fianco
della prima cornice. In uno di questi appare il re David che precede l’Arca
danzando con i panni alzati:
«Lì precedeva al benedetto vaso,
trescando alzato, l’umile salmista,
e più e men che re era in quel caso.»

Il ballo di David è la tresca , una danza popolare saltata (ecco perché il


ballerino doveva danzare “alzato”, cioè con i panni sollevati per favorire il
movimento delle gambe) che abbiamo già trovato nell’Inferno (XIV , 40): lì
però la tresca era metafora di una condizione umiliante di sofferenza e di
degrado, mentre qui diventa il simbolo di una virtù, l’umiltà, che
apparentemente abbassa, ma in realtà innalza la dignità regale.
Ed è proprio questa, infatti, una caratteristica della danza ogni volta che
appare nel Purgatorio , di sottolineare, cioè, la nobiltà e l’altezza spirituale
dei personaggi coinvolti. Lo vediamo subito alla prima descrizione “in
diretta” di una scena di danza: siamo nel Canto XXVIII , 40-42, e davanti agli
occhi stupiti di Dante appare
«una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’ era pinta tutta la sua via.»

È Matelda , e anche se in questa prima apparizione non è menzionata la


danza, è implicito che una persona che cammina cantando adegui i suoi
passi al ritmo della canzone. Comunque, pochi versi dopo (52-57), una
deliziosa similitudine ci mostra come quello di Matelda fosse
effettivamente un procedere a passo di danza:
«Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette,
volsesi in su i vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli;»

Vale anche in questo caso l’osservazione che abbiamo fatto sopra a


proposito dell’immagine di donna danzante nel Canto X del Paradiso : la
sequenza, anche se strutturalmente costituisce il termine di una similitudine,
acquista per spontaneità e vivezza un valore assoluto di realtà.
«Così anche questa immagine di fanciulla danzante che, con gli occhi
pudicamente abbassati, si volta leggera senza staccare da terra i piedi uniti
può derivare solo da un’esperienza vissuta, da una “cosa vista”.»
Il fascino di Matelda nasce proprio da questo accostamento di elementi
esoterici (la sua improvvisa apparizione nell’arcana foresta dell’Eden) con
elementi realistici (l’immagine della fanciulla danzante). E forse è proprio
partendo dal quoziente di realtà contenuto in questa figura di danza che si
può pensare che con Matelda Dante abbia voluto riferirsi a una persona vera
e non a una creatura puramente simbolica.
Del resto, fra i personaggi della Commedia nessuno è frutto esclusivo della
fantasia dell’autore, derivando tutti dalla Storia, o dalla Letteratura, o dalle
Scritture, o dalla Mitologia, e non si vede perché Matelda dovrebbe fare
eccezione.
E dunque, qual è il personaggio che ha ispirato Matelda? Molti
commentatori hanno pensato a Matilde di Canossa , che sembra però essere
una candidata poco attendibile per il coinvolgimento nelle battaglia
politiche del suo tempo e per il carattere energico e risoluto: una “dama di
ferro” assai lontana dalla sognante dolcezza della Matelda dantesca.
Un’altra ipotesi che ha avuto un certo credito è quella di Matilde di
Magdeburgo , una mistica tedesca in fama di santità che poteva essere nota
a Dante, ma anche in questo caso l’identificazione avrebbe come elemento
probante solo l’affinità dei nomi, un indizio di scarso rilievo.
Molto più suggestiva appare la proposta di identificare Matelda con
Matilde di Hackeborn (1240-1298), una monaca benedettina famosa per il
suo talento musicale e la voce dolcissima, tanto da essere chiamata dalle
consorelle “l’usignolo di Cristo”.
Matilde visse nel monastero di Helfta in Sassonia dove fu maestra di canto
(domina cantrix ) e autrice di meditazioni mistiche raccolte in un libro
intitolato Liber Gratiae Specialis che ebbe larga diffusione anche a Firenze
sul finire del ’200 col titolo di Laude di Dama Matelda (lo attesta
Boccaccio).
Può essere anche significativo notare, per avvalorare l’ipotesi di una
relazione con Dante, il fatto che nel libro di Matilde si trovi la sola
descrizione precedente a quella dantesca in cui il Purgatorio è suddiviso in
sette cerchi disposti su una montagna dove si trovano anche fonti che
cancellano i peccati, esattamente come nella Commedia ( Liber Gratiae
Specialis , I , 13).
E infine, è innegabile che l’atmosfera onirica che pervade gli ultimi canti
del Purgatorio a partire dal XXVIII appaia ispirata da un simbolismo che ha
senza dubbio molti punti di contatto con le visioni descritte da Matilde di
Hackeborn. Un solo esempio: l’apparizione di Beatrice nel Canto XXXI , 31-
33:
«sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.»

Se confrontiamo questi versi con una delle visioni di Matilde, vediamo


come i punti di contatto siano evidenti:
D’un tratto il Signore apparve nel cielo sotto la forma di un giovane di grande bellezza, cinto di
un manto di seta bianco, verde e rosso.
Liber Gratiae Specialis, I , 4
Così come l’apparizione di Matelda è accompagnata dalla danza, tale è
anche il suo commiato: nel Canto XXXI , 103-105, dopo avere immerso
Dante nelle acque del fiume Lete, Matelda lo fa uscire dal bagno
purificatore e lo conduce nel gruppo delle quattro donne alla sinistra del
carro simbolico della Chiesa, le quali lo abbracciano e lo introducono nella
loro danza:
«Indi mi tolse, e bagnato m’offerse
dentro a la danza de le quattro belle;
e ciascuna del braccio mi coperse.»

La danza diventa così il motivo conduttore di tutta la lunga sequenza


dell’Eden articolata nei canti dal XXVIII al XXXIII : danza Matelda, danzano le
quattro donne alla sinistra del carro allegorico (le virtù cardinali), danzano
le tre alla destra (le virtù teologali); addirittura Dante, nel Canto XXIX , 121-
129, descrive una sorta di coreografia che contiene un preciso messaggio
teologico:
«Tre donne in giro da la destra rota
venian danzando; l’una tanto rossa
ch’a pena fora dentro al foco nota;
l’altr’ era come se le carni e l’ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa;
e or parëan da la bianca tratte,
or da la rossa; e dal canto di questa
l’altre toglien l’andare e tarde e ratte.»

Le tre donne rappresentano la Carità (in rosso), la Speranza (in verde) e la


Fede (in bianco); la danza è guidata a turno dalla Fede e dalla Carità e il
ritmo più o meno veloce è scandito dal canto di quest’ultima. Il significato è
complesso ma chiaro: la danza, allegoria della vita, è condotta dalla Fede e
dalla Carità; la Speranza, per sua natura, non può che muoversi al seguito
dell’una o dell’altra, mentre a dare il ritmo sarà la Carità, che è la virtù più
importante per aprire il cammino verso Dio.
La descrizione è così minuziosa che tutta la scena si potrebbe agevolmente
rappresentare in un balletto: sono specificati i colori dei costumi, i passi
delle danzatrici, l’alternarsi dei ritmi. Addirittura, nel Canto XXXI (131-132),
Dante indica anche il tipo di ballo che viene eseguito, il caribo , una danza
dal ritmo vivace e capriccioso (e infatti abbiamo visto che le tre donne
vanno ora tarde ora ratte ):
«... l’altre tre si fero avanti,
danzando al loro angelico caribo.»

Come si è già osservato, i sei canti finali del Purgatorio (dall’ingresso di


Dante nel Paradiso Terrestre alla sua ascensione verso il Paradiso Celeste)
hanno come filo conduttore la danza, che fino a quel punto era stata assente.
C’è un senso e un messaggio in questa nuova presenza: la danza è il segno
tangibile della riconciliazione di anima e corpo avvenuta al termine del
processo di purificazione che porta le anime a raggiungere il culmine della
montagna purgatoriale.
Ora, nel sereno splendore dell’Eden, quel corpo che per Adamo ed Eva era
divenuto, dopo la caduta, motivo di vergogna e fonte di peccato, torna a
essere ciò che era in origine, una sintesi di bellezza e di grazia in cui
armoniosamente si uniscono il materiale e lo spirituale, e la danza ne è la
più immediata e felice testimonianza.
Questa riconquistata armonia subisce nel Paradiso un ulteriore
affinamento: qui la danza, abbandonato ogni mimetismo corporeo, si
spiritualizza fino a diventare espressione di una letizia e di una gioia
ineffabili, che non possono essere espresse a parole, non si possono
significar per verba e che quindi, come nello jubilus agostiniano, devono
trovare strumenti alternativi per manifestarsi. La danza, con il canto, è uno
di questi ( Paradiso , XIV , 19-24):
«Come, da più letizia pinti e tratti,
a la fïata quei che vanno a rota
levan la voce e rallegrano li atti,
così, a l’orazion pronta e divota,
li santi cerchi mostrar nova gioia
nel torneare e ne la mira nota.»

Danzano e cantano, dunque, gli spiriti sapienti del cielo del Sole, proprio
come nel nostro mondo quelli che danzano a tondo (quei che vanno a rota ),
spinti da un eccesso di letizia, innalzano la voce cantando e accrescendo
l’allegria dei gesti. Il paragone non suoni irriverente: la perfetta letizia dei
beati, inesprimibile a parole, può trovare un correlativo accessibile alla
nostra comprensione solo nella musica e nella danza.
Certo, non dobbiamo cadere nell’errore di rappresentarci le danze
paradisiache come una sorta di spettacolare ed elegantissimo musical : la
tensione verso la totalità dell’essere che si sprigiona da questi grandiosi
scenari è scandita da un ritmo trascendentale che non ha niente a che fare
con le nostre esperienze sensibili, anche le più raffinate, e casomai, se è
lecito un accostamento filologicamente non pertinente ma forse adeguato
sul piano antropologico, richiama la grande tradizione orientale della danza
cosmica dell’universo, meravigliosamente sintetizzata nel mito induista
della danza creatrice di Shiva : nella gioiosa danza del dio si ritrovano tutte
le creature così come tutti gli spiriti beati si ritrovano negli immensi cerchi
che ruotano intorno alla benedetta fiamma di san Tommaso ( Paradiso , XII ,
1-6):
«Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola;
e nel suo giro tutta non si volse
prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse;»

Questa perfetta organizzazione di suoni e di movimenti che si sintetizza


nella danza e che Dante chiama tempra , è il modo di essere degli spiriti
beati ed esprime in una sublime metafora quella meravigliosa armonia del
cosmo che in forma propria la nostra mente non saprebbe percepire. E
allora i beati danzano, partecipando anche agli occhi mortali di Dante il
mistero ineffabile della beatitudine ( Paradiso , XXIV , 13-18):
«E come cerchi in tempra d’orïuoli
si giran sì, che ’l primo a chi pon mente
quïeto pare, e l’ultimo che voli;
così quelle carole, differente-
mente danzando, de la sua ricchezza
mi facieno stimar, veloci e lente.»

La danza degli spiriti beati, alternando i suoi ritmi più o meno veloci, fa
comprendere al poeta la diversa misura della loro beatitudine, e svolge
quindi la sua fondamentale funzione di comunicare l’ineffabile, di significar
per verba l’indicibile.
Così avverrà anche al termine del poema, quando Dante, raggiunto
l’Empireo , potrà contemplare in una visione d’insieme il regno dei cieli
sotto forma di una candida rosa i cui petali sono formati dai vari ordini di
beati. L’immobilità estatica degli spiriti immersi nella contemplazione è in
rapporto dialettico con l’incessante volo degli angeli che scendono nella
rosa dei beati per poi risalire verso la luce divina, e ancora una volta la
metafora della danza soccorre il poeta che, venuto al divino dall’umano e
all’etterno dal tempo non trova le parole per descrivere ciò che ha visto (
Paradiso , XXXI , 1-12):
«In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa;
ma l’altra, che volando vede e canta
la gloria di colui che la ’nnamora
e la bontà che la fece cotanta,
sì come schiera d’ape, che s’infiora
una fiata e una si ritorna
là dove suo laboro s’insapora,
nel gran fior discendeva che s’addorna
di tante foglie, e quindi risaliva
là dove ’l suo amor sempre soggiorna.»
Discendono e risalgono gli angeli, si raccolgono i beati nella candida rosa,
ruotano i cieli e le stelle, tutto si muove al ritmo di un’armonia universale,
in una tempra perfettamente accordata ed equilibrata, ed è la danza l’unico
strumento disponibile per descrivere lo spettacolo ineffabile della
perfezione dell’essere.
E anche al limite estremo, di fronte alla manifestazione diretta di Dio,
quando l’immaginazione ha ormai esaurito ogni risorsa, è ancora un
immagine ritmica, un tempo di danza che soccorre la fantasia stremata del
poeta ( Paradiso , XXXIII , 142-145):
«A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.»
5
LA MUSICA NELL’INFERNO

È opinione largamente accettata che l’Inferno dantesco sia privo di musica.


In realtà, se consideriamo il termine “musica” nel significato che
comunemente gli viene attribuito, il giudizio è indubbiamente corretto: la
musica in senso proprio compare nell’Inferno una sola volta, quando il
gigante Nembrot fa risuonare cupamente il suo corno ( Canto XXXI , 12-13).
E tuttavia, i suoni hanno nella prima cantica un ruolo essenziale e anzi, in
molte occasioni sono l’unico modo di conoscenza a disposizione di Dante
in un universo in cui la vista è resa inerte dalle tenebre.
Basterebbero a dimostrarlo le prime sensazioni che il poeta avverte non
appena varca la porta dell’Inferno, sensazioni che sono appunto
esclusivamente acustiche ( Canto III , 22-24):
«Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.»

Ma ancora prima di iniziare la sua discesa agli inferi Dante ci indica una
chiave interpretativa dell’intera cantica quando, nel canto proemiale, per
descrivere le tenebre che oscurano il mondo dei dannati usa la sinestesia là
dove ’l sol tace (Inferno , I, 60).
L’attribuire alla scomparsa del sole una connotazione auditiva non è un
semplice accorgimento retorico: il “tacere” del sole, infatti, qui non è solo
mancanza di luce, ma mancanza di armonia, allusione allo stato di caos e di
disordine in cui le cose sono ridotte dall’assenza di Dio che si identifica
appunto con l’armonia dell’universo.
A conferma, lo stesso procedimento sinestetico che associa il buio al
silenzio lo ritroviamo poco più avanti, quando Dante descrive le tenebre del
girone dei lussuriosi con il verso:
«Io venni in loco d’ogne luce muto»
Inferno , V , 60
La cifra dell’inferno, dunque, la sua connotazione più pervasiva e
onnipresente, è il caos originato dalla distruzione dei rapporti armoniosi che
regolano l’universo (la musica mundana di Boezio) e che sono sinonimo di
bene e di bellezza.
Ne consegue che, poiché la musica è essenzialmente manifestazione di
ordine, nell’universo del caos essa non può esistere. È significativo a questo
riguardo quanto dice un antico commentatore della Commedia , Jacopo
della Lana, a proposito dei versi 25-30 del Canto III dell’Inferno :
«Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.»

Ebbene, come abbiamo visto nel primo capitolo, il Lana interpreta la


locuzione sanza tempo dando al termine tempo il senso di “ritmo”, “tempo
musicale”. L’inferno così si caratterizzerebbe per l’assenza di un ritmo
misurabile, di un tempo regolare che scandisca l’ordine armonioso
dell’esistenza, ed è questa assenza a originare il tumulto, l’orrendo caos
delle voci alte e fioche .
Si tratta di una interpretazione, come già si è notato, quasi certamente
sbagliata: Dante con l’espressione sanza tempo intendeva indicare
l’immutabilità dell’atmosfera infernale, che non conosce l’alternarsi del
giorno e della notte ma resta eternamente tinta , cioè oscura e plumbea;
oppure, come sostengono altri interpreti, avrebbe potuto alludere alla
immobilità del tempo nella dimensione dell’eternità.
Tuttavia, anche se non corrisponde all’intentio auctoris , la lettura del
Lana resta significativa perché si collega al concetto di armonia cosmica
che si esprime nella musica, fondata sui rapporti proporzionali fra le note
definiti matematicamente secondo l’antica dottrina pitagorica. Insomma,
l’inferno si caratterizza non tanto per l’assenza di musica, quanto per
l’egemonia del suo contrario, il caos.
Il concetto risulta ancora più chiaro nei versi successivi, quando Virgilio
spiega a Dante chi siano quegli sciagurati che sembrano così oppressi dal
dolore (34-39):
«Ed elli a me: “Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro”»

È possibile una lettura di questi versi che ci ricondurrebbe al commento


del Lana, forse meno fuorviante di quanto potrebbe sembrare a prima vista:
infatti, potremmo intendere il termine modo (v. 34) non come
“comportamento” ma, secondo la terminologia musicale del Medioevo,
come “ritmo”, definito misero perché sanza tempo , cioè, come chiosa il
Lana, disordinato, informe, caotico.
Questa lettura sarebbe inoltre coerente con la successiva definizione degli
angeli ribelli (v.37) come cattivo coro , dove il sostantivo coro andrebbe
inteso non nel senso traslato di “gruppo”, “schiera”, ma nel senso proprio di
un insieme di persone che cantano sanza tempo e quindi in un misero modo
, cioè in assenza di ritmo misurabile: ancora una volta, l’ordine armonioso
della musica è sostituito dal caos.
Comincia così a emergere la funzione strutturale della musica nella
Commedia : una sorta di linea guida, una road map seguendo la quale
giungeremo dalla caotica non-musica dell’Inferno, attraverso la musica
instrumentalis delle monodie e dei cori unisoni del Purgatorio , fino alla
perfezione delle sublimi armonie polifoniche del Paradiso.
Ma allora, se è corretto assegnare alla musica questo ruolo strutturale
all’interno del poema dantesco, come potremmo condividere l’opinione
comune per cui l’Inferno è privo di musica?
E infatti non è così: la non-musica infernale non è il silenzio e l’assenza
della musica, ma la sua perversione, la sua contraffazione grottesca, la sua
maligna caricatura: è la musica diaboli , la musica del diavolo.
Recita una celebre formula patristica: Satana simia Dei , “Satana è la
scimmia di Dio”, cioè la sua scimmiottatura, la sua imitazione deforme:
così nell’Inferno non regna il silenzio, ma la musica diaboli , miserabile
parodia della celestiale musica delle sfere.
È attraverso questa aberrazione che Dante può comunicarci
immediatamente la caratteristica fondamentale della dannazione, cioè la sua
disarmonia, la sua perdita di sintonia con i ritmi dell’essere, il suo intimo
disordine in grado di produrre solo disperate cacofonie:
«Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle»
Inferno , III , 25-27
L’atteggiamento parodistico, così centrale per comprendere la natura
profonda dell’Inferno, appare subito, sia pure in modo indiretto, nei versi
che descrivono l’apparizione della seconda delle tre fiere, il leone ( Canto I ,
46-48):
«Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.»

Questa immagine dell’aria che sembra tremare è poi ripresa ancora due
volte nel Canto IV :
«Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l’aura etterna facevan tremare;»
Inferno , IV , 25-27
E ancora:
«La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l’aura che trema.»
Inferno , IV , 148-150
Ora, l’aria che trema in presenza di manifestazioni eccezionali è
un’immagine ricorrente nella tradizione dello stilnovismo: la ritroviamo per
esempio, espressa con parole quasi uguali ma portatrice di un ben diverso
messaggio, nel meraviglioso incipit di un sonetto di Guido Cavalcanti:
«Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
e fa tremar di chiaritate l’are?»

Ebbene, quell’aria che nell’estatico mondo cavalcantiano trema


all’apparire della donna amata, è scossa qui nell’Inferno da un tremore di
spavento o turbata dai sospiri: è una tragica parodia della sognante stagione
stilnovistica che ha lasciato il posto allo smarrimento e al terrore.
La centralità della connotazione musicale è evidente: siamo in presenza di
una variazione sul tema che passa dalla armoniosa vibrazione cavalcantiana
(non presente nel testo di Dante, ma certo presente alla sua memoria) al
rabbioso ruggito che sconvolge la cupa atmosfera infernale per poi ripiegare
nel sommesso lamento delle anime del Limbo. La traiettoria della musica
segue e riflette quella dello spirito: quell’armonia che accompagnò il poeta
quando egli era “accordato” con se stesso, nell’età favolosa della giovinezza
fiorentina, quando l’aria tremava “di chiaritate”, si trasforma, ora che il suo
spirito si è smarrito, in uno spaventoso urlo di belva o in un amaro sospiro
di sconforto.
Ancora uno stravolgimento caricaturale lo incontriamo nel Canto V ,
quando i lamenti dei lussuriosi travolti dalla bufera infernale vengono
paragonati al verso emesso dalle gru in volo (46-49):
«E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;»

Dunque, per descrivere le urla dei dannati sofferenti Dante usa accanto al
termine guai , degradante perché usualmente riferito ai latrati animaleschi
(da cui, per esempio, “guaito”), il termine lai , tratto dalla tradizione lirica
in lingua d’oeil in cui indicava un lamento d’amore (celebri per esempio i
lais di Maria di Francia).
Il fatto che siamo nel girone dei lussuriosi rende evidente l’intento
parodico della scelta: l’accostamento degli armoniosi lai agli animaleschi
guai ci suggerisce come la lussuria sia una degradante parodia dell’amore,
la trasformazione di un sentimento nobilitante in una passione abietta degna
delle bestie. Ancora una volta, la rappresentazione del male è affidata alla
sua identificazione con una musicalità corrotta e deformata.
Lo stesso meccanismo lo ritroviamo in azione nel Canto VII , dove gli
accidiosi immersi nel fango rantolano i versi di una cantilena che Dante
ironicamente chiama inno (121-126):
«Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra”.
Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra».

L’“inno” è, nella tradizione medievale, un canto corale religioso


solitamente armonizzato secondo la regola gregoriana; qui, invece, le
cadenze solenni della tradizione vengono sostituite da un grottesco
gorgoglìo reso con scelte lessicali evocative di una condizione di ripugnante
degrado (limo , fummo , belletta , gorgoglian , strozza ): ancora una volta, la
deformazione parodistica di una nobile esperienza musicale segnala il
trionfo del male e la disperazione che nasce dal tentativo eternamente
frustrato di riprodurre nell’inferno le forme perdute per sempre della
bellezza e dell’armonia, sostituite da sinistre caricature: Satana simia Dei .
Un altro caso impressionante di contraffazione e di tragica caricatura della
musica è quello di Bertran de Born , il trovatore provenzale che Dante
incontra nel Canto XXVIII , in cui vengono puniti i seminatori di discordia.
Qui la rottura e la disgregazione di ogni relazione armoniosa fra le parti e
il tutto si manifesta con intensità parossistica attraverso orrende mutilazioni:
in vita Bertran de Born fu uno dei più celebrati trovatori, vigoroso cantore
di gesta guerresche, e Dante lo ricorda nel De Vulgari Eloquentia (II , 2)
come un poeta dedito ai più alti temi, “prodezza d’armi, fiamma d’amore,
forza della volontà”. Ma qui i suoi peccati lo hanno trasformato in una
figura mostruosa che procede reggendo per i capelli la propria testa staccata
dal busto. Ecco i versi (118-135):
«Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;
e ’l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: “Oh me!”.
Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com’esser può, quei sa che sì governa.
Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ’l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,
che fuoro: “Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s’alcuna è grande come questa.
E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma’ conforti.»

Il corpo umano, massima espressione e sintesi dell’armonia dell’universo,


viene brutalmente smembrato: si può immaginare una più drastica
negazione dell’equilibrio fra le parti, di quell’equilibrio che è al fondo
dell’esperienza musicale e che fu certo decisivo nell’esperienza poetica di
Bertran?
Questa è dunque la massima perversione infernale, il trasfigurare in orrida
parodia ciò che originariamente era stata una manifestazione di bellezza
raggiunta attraverso la sintesi armoniosa delle diverse parti che
compongono il tutto: ed è indicativo del ruolo esemplare che Dante assegna
alla musica il fatto che questa sorte tocchi proprio a un poeta-musico come
Bertran de Born.
L’alterazione dell’armonia attraverso una grottesca deformazione del
corpo torna nel Canto XXX , e anche qui il collegamento con la musica è
evidente: Maestro Adamo , il falsario che coniò fiorini falsi per i Conti di
Romena e fu per questo condannato al rogo, è punito con una forma di
idropisia che altera mostruosamente la sua figura facendolo assomigliare a
un liuto (49-51):
«Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.»

Dunque, Maestro Adamo ha il ventre talmente gonfio che, se non avesse


avuto le gambe che spuntano dal tronco, sarebbe sembrato un liuto,
strumento musicale molto diffuso nel Medioevo (come abbiamo visto nel
secondo capitolo) formato da una grossa cassa armonica arrotondata (il
ventre) e sormontata da un breve manico inclinato all’indietro (la testa del
falsario rovesciata nella spasmodica ricerca dell’acqua).
Quello di Maestro Adamo, che studi recenti hanno identificato con un
alchimista inglese (magister Adam de Anglia si legge in un documento
bolognese del 1273), è un personaggio assai complesso: in contrasto con la
sua figura grottescamente deforme vibra in lui una nota elegiaca che lo
porta a rievocare e rimpiangere i dolci paesaggi del Casentino dove sorge il
castello di Romena (64-69):
«Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che ’l male ond’io nel volto mi discarno.»

In tutta la prima parte della sua apparizione Maestro Adamo cerca di


camuffare la sua vera natura attraverso una abilissima quanto ipocrita
operazione di travestimento linguistico, teso a riscattare la sua immagine
ripugnante trasformandola da quella di uno spregevole falsario in quella di
vittima di una pena umiliante e indegna della sua statura umana e
intellettuale.
In questo quadro va inserita sia la raffinata rievocazione paesaggistica che
abbiamo appena visto, sia la presentazione che egli fa di se stesso nei versi
immediatamente precedenti (58-63):
«“O voi che sanz’alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo”,
diss’elli a noi, “guardate e attendete
a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo”»

Il tentativo del dannato di proporsi in una apparenza di dignità (sia pur


decaduta), si manifesta nell’alto registro delle scelte lessicali e soprattutto
nei versi 58-61 che sono una citazione biblica dalle Lamentazioni del
profeta Geremia:
«O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus.»

O voi che passate lungo la via, considerate e guardate se esiste un dolore paragonabile al mio.

La solennità del linguaggio scritturale si comunica all’immagine del


personaggio che, benché deforme, mantiene inizialmente una sua
imponenza. Ma l’inganno non tarda a crollare miseramente: l’alterco con
Sinone , infarcito di insulti e culminante in una volgare rissa smaschera la
vera natura del falsario (100-108):
«E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia.
Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,
dicendo a lui: «Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto».

La metamorfosi di Maestro Adamo è dunque visualizzata attraverso il


riferimento a due strumenti musicali: prima il liuto, poi il tamburo.
Le similitudini non sono scelte a caso o per puro effetto impressionistico,
ma ci comunicano un preciso contenuto simbolico: nella sensibilità
medievale, infatti, il tamburo occupa nella gerarchia degli strumenti
musicali un grado di nobiltà molto inferiore al liuto, che, come tutti gli
strumenti a corda, discende dall’antichissima lira nobilitata da Apollo e da
Orfeo e associata con le sue sette corde alla perfezione delle sette sfere
celesti.
Il tamburo, invece, produce suoni disarmonici ed era considerato
strumento rozzo e plebeo. Non è dunque un caso che, fino a quando
Maestro Adamo cerca di nascondere la sua abiezione sotto la maschera di
una sofferente dignità, il termine di paragone sia il raffinato liuto, che però,
quando la maschera cade, si trasforma in un volgare tamburo: ancora una
volta, il rovesciamento della musica in non-musica, dell’ordine armonioso
in disordine rumoroso si fa trasparente metafora della dannazione.
Ma un esempio ancor più clamoroso della non-musica infernale si ha nel
Canto XXI con il celeberrimo episodio di Barbariccia e del suo osceno
segnale (136-139):
«Per l’argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.»

L’episodio è un esempio meritatamente famoso di quanto sia flessibile e


poliedrico il talento dantesco, capace di fare poesia con i materiali più
disparati, dalle luminose visioni paradisiache allo scurrile peto di
Barbariccia, ma, come sempre nella Commedia , il messaggio è più
profondo di quel che appare.
Questi versi non sono solo la rappresentazione senza veli della sconcia
volgarità del male, ma contengono una riflessione più generale sulla natura
dell’inferno come assenza di ordine e di armonia.
La trombetta di Barbariccia rientra infatti in quei suoni disarmonici e
informi che Guido d’Arezzo chiama “indiscreti”, cioè privi di struttura
interna e impossibili da analizzare:
«Si dice indiscreto – scrive il grande musicologo nel Micrologus – un suono al cui interno non
è possibile individuare alcun rapporto di consonanza, come accade nel riso, o nel pianto, o nel
latrato di un cane o nel ruggito di un leone, mentre al contrario il suono discreto è quello che
appartiene alla musica.»

Dunque, una volta di più, l’inferno appare come il regno della non-musica,
dei suoni “indiscreti” che si sottraggono all’analisi razionale e si risolvono
nel caos: l’inizio del canto seguente, il XXII , con il suo elenco di strumenti
che emettono suoni “discreti” (le trombe, le campane, i tamburi) per
segnalare e coordinare i movimenti di forze militari, serve a sottolineare
con la massima evidenza l’estraneità fra l’universo dell’ordine e quello del
disordine.
Ma nello stravolto mondo infernale anche i suoni di per sé più melodiosi
assumono una connotazione sinistra e minacciosa: fra tutti gli strumenti
ricordati nell’Inferno , uno solo è rappresentato in azione e non
semplicemente citato, ed è il corno del gigante Nembrot nel Canto XXXI (10-
18):
«Quiv’era men che notte e men che giorno,
sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
ma io senti’ sonare un alto corno,
tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
non sonò sì terribilmente Orlando.»

L’alto corno che rimbomba cupamente nelle tenebre è l’“olifante”, così


detto perché ricavato secondo la tradizione da una zanna di elefante e fatto
risuonare da Orlando, come narra la Chanson de Roland , per segnalare al
re Carlo l’imminenza della fine sua e dei paladini caduti nell’agguato di
Roncisvalle.
Tuttavia, anche se il corno è uno strumento musicale a tutti gli effetti,
nemmeno in questo caso siamo in presenza della musica: il tuono
dell’olifante non evoca nessuna armonia, ma richiama da un lato una storia
di morte e di tradimento, perfetta introduzione all’incontro con i traditori
che avverrà nel canto seguente, e dall’altro si ricollega, attraverso Nembrot,
costruttore della biblica torre di Babele, all’origine della confusio
linguarum e quindi all’esatto contrario dell’armonia, cioè la confusione e il
caos (e del resto, l’olifante era presumibilmente un corno naturale con la
possibilità di emettere una sola nota, dunque incapace di elaborare una
melodia).
Siamo, come si vede, sul versante opposto a quello della musica, come
testimoniano gli epiteti con cui Virgilio apostrofa Nembrot (anima sciocca ,
v. 70, e anima confusa , v. 74) e come mostrano le parole incomprensibili
gridate dallo stesso gigante (67-69):
«Raphèl maì amècche zabì almi»,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi.»

Ancora una contraffazione, quindi, ancora una sinistra parodia: i dolci


salmi diventano, nella bocca del gigante, un confuso e grottesco vocìo, la
musica diaboli .
L’opposizione fra armonia e disarmonia, fra musica Dei e musica diaboli
viene ribadita nel canto seguente, il XXXII , il quale si apre con una pausa
che interrompe la narrazione per lasciare spazio a una riflessione sul
conflitto irriducibile fra la disarmonia infernale, che richiede un linguaggio
anche foneticamente adeguato, e la divina armonia. Ecco i versi (1-12):
«S’io avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’io non l’abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfione a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.»

Consideriamo i due aggettivi che qualificano il tipo di suoni (e quindi di


musica verbale) più adatti a rappresentare il mondo infernale: aspre e
chiocce , cioè disarmoniche e animalesche sono le rime che occorrerebbero
qui a Dante e che lui dichiara di non possedere.
Ma questa carenza non dipende da una debolezza tecnica, da una
mancanza di mestiere, bensì dal fatto che qui sarebbe necessario un
linguaggio non umano, un linguaggio bestiale (“indiscreto”, direbbe Guido
d’Arezzo), mentre il poeta, proprio in quanto poeta, non può abbandonare
l’armonia del linguaggio umano.
Ecco perché egli chiede l’aiuto delle Muse (Ma quelle donne aiutino il mio
verso ) affinché, grazie alla divina armonia della loro musica, rendano
possibile rappresentare l’universo caotico e disumano dell’inferno più
profondo.
Il riferimento all’episodio di Anfione chiarisce perfettamente il concetto:
secondo il mito (citato da Stazio nella Tebaide e da Orazio nell’Ars poetica
), il poeta Anfione riuscì con il suono melodioso della sua cetra a muovere
le pietre del monte Citerone facendole scendere fino a Tebe dove formarono
le mura della città. L’ordine armonioso della musica, insomma, vince il caos
disarmonico conferendo alle cose inanimate uno scopo e un senso, e il
tentativo di stravolgere l’ordine divino attraverso la sua contraffazione è
destinato a fallire.
La contraffazione e la maligna parodia sono le armi più potenti di cui
dispone il regno delle tenebre per combattere il regno della luce, e il
conflitto fra gli equilibri armoniosi della musica e la sistematica caricatura a
cui essi sono sottoposti nell’inferno ne sono la dimostrazione più evidente.
L’esempio forse più esplicito lo abbiamo nell’incipit dell’ultimo Canto,
quando Virgilio annuncia a Dante l’imminente apparizione dell’immagine
spaventosa di Lucifero (1-3):
«Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira,
disse ’l maestro mio “se tu ’l discerni”.»

Qui la dissacrante confusione del mondo sotterraneo raggiunge il suo


vertice: l’apparizione del principe delle tenebre è introdotta con le parole
con cui la liturgia celebra il simbolo della luce, la croce di Cristo: Vexilla
regis prodeunt (“Avanzano le insegne del sovrano”) è infatti il primo verso
dell’Inno della Santa Croce composto da Venanzio Fortunato sul finire del
VI secolo.
Nella versione di Virgilio, però, il verso è alterato dall’inserimento del
genitivo inferni , e quindi le insegne che si scorgono non sono quelle di
Cristo ma quelle del diavolo, e cioè le immense ali di pipistrello di
Lucifero, mostruosa parodia della croce.
Si noti, per accentuare la natura parodistica della citazione, che l’Inno
della Santa Croce viene cantato nella liturgia del sabato santo, ed è proprio
in questo giorno del 1300 che Dante immagina di giungere al cospetto di
Lucifero dopo la discesa nell’abisso infernale.
La parodia musicale è dunque la metafora con cui viene rappresentata la
natura complessiva dell’universo infernale, e il rovesciamento dell’Inno
della Santa Croce da esaltazione delle insegne cristiane a anticipazione di
quelle sataniche ne è la prova decisiva.
E infine, a dimostrazione della funzione fondamentale che nella prima
cantica hanno le percezioni acustiche (Dante è un viaggiatore che esplora
con l’udito, più che con la vista), l’Inferno che si era aperto con una serie di
sensazioni sonore (sospiri, pianti e alti guai , Canto III , 22) si chiude ancora
con un suono: è il rumore del ruscello che non per vista, ma per suono è
noto ( Canto XXXIV , 129) risalendo il cui corso Dante e Virgilio possono
lasciarsi alle spalle il mondo sotterraneo e uscire a riveder le stelle .
6
LA MUSICA NEL PURGATORIO

Apriamo questo capitolo con una citazione:


La musica unisce in un rapporto naturale di amicizia anima e corpo, che si collegano non
attraverso vincoli materiali, ma attraverso emozioni e sentimenti.

Sono parole tratte dal Didascalicon di Ugo da San Vittore , un testo del XII
secolo che Dante molto probabilmente conosceva, e chiariscono bene il
ruolo centrale che la musica riveste nel Purgatorio e il senso profondo della
sua presenza lungo tutto l’arco della seconda cantica.
Il Purgatorio infatti è il luogo in cui l’anima si riconcilia con il corpo e il
conflitto fra materiale e spirituale viene superato in una sintesi armoniosa
che annulla ogni contraddizione fra la purezza dello spirito e gli impulsi
passionali che si sprigionano dalla nostra natura corporea segnata dal
peccato originale.
Ora, è proprio la musica che prefigura già nella vita mortale il processo di
purificazione attraverso cui, nelle varie forme dell’espiazione purgatoriale,
viene ristabilita una nuova e stavolta eterna alleanza fra anima e corpo:
quella musica che attraverso l’udito, cioè sfruttando un senso corporeo, è
capace di influire sull’animo di chi la ascolta separandolo da ogni interesse
materiale e che, come dice Dante nel Convivio :
«Trae a sé li spiriti umani [...] sì che quasi cessano da ogni operazione.»

Con la musica, insomma, sensualità e spiritualità cessano di essere in


opposizione e si ricompongono in una sintesi unitaria che solleva l’uomo al
di là di ogni contingenza di luoghi, tempi, persone e fatti, come si legge nel
Canto IV del Purgatorio (7-9):
«E però, quando s’ode cosa o vede
che tegna forte a sé l’anima volta,
vassene ’l tempo e l’uom non se n’avvede.»

Oltre a simboleggiare il recupero della perduta armonia fra anima e corpo,


la musica nel Purgatorio ha anche un’altra importante funzione, quella cioè
di rappresentare un processo dialettico di perfezionamento che conduce dai
primi incerti passi degli spiriti nell’Antipurgatorio al definitivo compimento
del percorso di purificazione nel Paradiso Terrestre.
In altre parole, le melodie che accompagnano le anime penitenti o che le
stesse anime intonano non sono una costante che fluisce uniformemente per
tutti i trentatre canti del Purgatorio : esse, come vedremo, ubbidiscono a
una evoluzione che riflette la trasformazione spirituale di cui si fanno
protagoniste le anime espianti, in modo tale che la musica che risuona
nell’Antipurgatorio è diversa da quella del Purgatorio vero e proprio e
ancora diversa da quella che Dante ode nel Paradiso Terrestre.
Si tratta di una dinamica evolutiva perfettamente adeguata alla natura del
“secondo regno” dell’Aldilà che, a differenza degli altri due, è fondato
appunto su una logica di movimento e di trasformazione: infatti mentre
nell’Inferno e nel Paradiso le anime hanno ormai ricevuto il loro destino
definitivo e si collocano in una dimensione di eternità in cui non esistono
più la storia e il tempo, nel Purgatorio il tempo torna a scorrere, il sole
sorge e tramonta, Dante ritrova le esperienze del sonno, del sogno e del
risveglio che erano scomparse nell’Inferno e che torneranno a scomparire
nel Paradiso.
E così come ritorna il tempo, nel Purgatorio torna anche la storia perché le
anime sono in cammino verso una meta da raggiungere e i loro valori
spirituali sono in evoluzione sotto la spinta delle sofferenze purificatrici: gli
ospiti del Purgatorio si trasformano, si “affinano”, come dirà Dante a
proposito di Arnaut Daniel nel Canto XXVI (148):
«Poi s’ascose nel foco che li affina.»

Ebbene, la musica contribuisce a questo processo di “affinamento”,


secondo l’antica teoria dell’“ethos modale”, cioè degli effetti morali che i
diversi modi musicali producono su chi li ascolta. Si tratta di un concetto
già presente in Pitagora e in Platone e poi ripreso concordemente da tutti i
trattatisti medievali. Scrive per esempio Isidoro di Siviglia:
«La musica muove i sentimenti e provoca emozioni di diverso tipo. Nelle battaglie il suono
delle trombe eccita i combattenti, e quanto più forte esse risuonano, tanto più l’animo si
dispone al combattimento. Allo stesso modo i rematori sono aiutati dal canto a sopportare la
fatica. La musica addolcisce l’animo e la modulazione della voce reca sollievo a chi lavora. La
musica è anche capace di calmare gli animi eccitati, come si legge di David che con l’arte dei
suoni liberò Saul dalla possessione di uno spirito maligno. La musica inoltre può affascinare
anche le bestie, come serpenti, uccelli e delfini. Insomma, tutto quello che diciamo e sentiamo
è provocato dalla virtù delle modulazioni musicali.»
Sententiae de musica , III
La musicologia medievale definì otto “modi”, cioè otto schemi melodici
che si applicavano alla musica liturgica ed erano perciò detti “modi
ecclesiastici”; ciascuno di questi otto “modi” era costruito intorno a una
nota dominante detta repercussa e concluso da una nota detta finalis , e
veniva tradizionalmente associato a un determinato stato d’animo: secondo
Guido d’Arezzo, che ne tratta nel Micrologus :
«Il primo è grave, il secondo triste, il terzo mistico, il quarto armonioso, il quinto allegro, il
sesto devoto, il settimo angelico e l’ottavo perfetto.»

Visto il contesto, si può presumere che, sebbene Dante non lo dica, i


“modi” delle musiche purgatoriali oscillino fra il settimo e l’ottavo, cioè fra
l’“angelico” e il “perfetto”. Gli straordinari effetti che i diversi modi
musicali producono sull’animo umano si spiegano con il fatto che sia la
musica che l’anima si fondano sugli stessi principi squisitamente
matematici di armonia e di equilibrio fra le parti, ed è questa
corrispondenza a mettere il mondo dei suoni in relazione diretta con il
mondo delle emozioni.
Dunque, riassumendo, la musica nel Purgatorio ha una duplice funzione:
la prima è quella di esprimere la ritrovata armonia fra anima e corpo, la
seconda quella di accompagnare e assecondare, quasi come una colonna
sonora, un processo di purificazione che si svolge in modi e tempi diversi a
seconda delle diverse categorie di peccati e di peccatori.
La musica non rappresenta quindi un semplice dettaglio descrittivo o un
espediente esornativo, ma un elemento di tipo strutturale ed è per questo
che la presenza musicale nel Purgatorio risulta così ricca e insistita (sono
esattamente trentadue le melodie udite da Dante, quasi una per canto).
Questo ruolo centrale della musica risulta subito chiaro all’inizio del Canto I
(7-12):
«Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calïopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.»

Dante chiede l’aiuto di Calliope, la musa del canto epico, a cui si rivolge
per poter trovare le parole adatte a descrivere, dopo l’orrore dell’Inferno , la
nuova realtà che si troverà davanti nel Purgatorio .
Ma questo appello è strutturato in modo da preavvisarci che la musica di
cui il poeta invoca il soccorso e il sostegno si può presentare in due diverse
versioni, una moralmente positiva e l’altra negativa: la prima versione è
rappresentata appunto dal canto di Calliope, conforto e sostegno prezioso
sulla via che conduce a Dio; la seconda, al contrario, costituisce un ostacolo
e un intralcio lungo questo cammino, perché si fonda su princìpi e valori
mondani fuorvianti rispetto al percorso di purificazione che le anime del
Purgatorio devono compiere.
Questa variante negativa della musica è qui evocata nel mito (che Dante
conosceva attraverso le Metamorfosi di Ovidio ) delle figlie dell’antico re di
Tessaglia, Pierio, le quali sfidarono Calliope a una gara di canto; sconfitte,
furono per punizione trasformate in gazze (“ Piche”) diventando simbolo di
vanità e di peccaminoso orgoglio.
Il riferimento al mito delle Piche e alla loro perdizione è in sostanza un
monito con cui Dante mette in guardia contro i pericoli che possono nascere
da un uso sbagliato della musica, tema che sarà subito ripreso e
approfondito nel canto seguente e che, a riprova della sua importanza,
tornerà ad essere affrontato anche successivamente.
La denuncia dei pericoli insiti nella musica non è del resto una prerogativa
di Dante, ma fa parte di una sensibilità che si prolunga dall’antichità al
Medioevo: ne abbiamo già trovato le tracce quando abbiamo ricordato la
condanna platonica di Timoteo di Mileto che, aggiungendo altre corde alle
sette della cetra classica, aveva dato luogo a una musica diseducativa
perché edonistica e sensuale; sullo stesso piano abbiamo anche visto
collocarsi Boezio, sant’Agostino, san Tommaso e i teorici dell’“ethos
modale” che, sostenendo la tesi delle influenze spirituali della musica,
accettano implicitamente il fatto che esse possano essere sia positive che
negative.
Si potrebbe dunque dire che Dante a questo proposito si muove nel solco
di una tradizione da lungo tempo stabilita e consolidata senza aggiungervi
niente di nuovo. Tuttavia, all’inizio del Purgatorio il poeta affronta la
questione con una tale intensità e con una tale partecipazione personale da
trasformare la discussione filosofica in una emozionante vicenda di vita
vissuta.
Ci riferiamo naturalmente all’episodio di Casella, l’amico musico a cui
Dante chiede di intonare ancora una volta una delle melodie che lo avevano
tanto dilettato al tempo della loro amicizia. Ecco i versi ( Canto II , 106-
114):
«E io: “Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso all’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!”
“Amor che ne la mente mi ragiona”
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti
come a nessun toccasse altro la mente.»

Prima di dedicarci all’analisi di questo passo capitale, sarà però utile


affrontare una questione che ha fatto a lungo discutere, cioè quella di
decidere se la canzone dantesca intonata da Casella è stata da lui
effettivamente musicata oppure se si tratta di un’invenzione poetica
funzionale alla costruzione dell’episodio ma non rispondente alla realtà
storica.
In proposito le opinioni degli studiosi e dei commentatori sono divise in
due schieramenti pressoché equivalenti: secondo alcuni, Casella non ha mai
veramente messo in musica i versi di Dante, in primo luogo perché già dagli
inizi del Duecento era avvenuto nella tradizione italiana il divorzio fra
poesia e musica (che invece nella tradizione francese e provenzale
avrebbero continuato ancora a lungo il loro percorso comune); in secondo
luogo perché, anche se fosse stata ancora valida l’usanza di musicare i testi
poetici, essa si sarebbe comunque applicata solo ai versi d’amore e non alle
canzoni dottrinali com’è appunto Amor che ne la mente mi ragiona , posta
in apertura del terzo trattato del Convivio e in esso commentata.
I sostenitori della realtà storica del canto di Casella replicano però che il
divorzio fra musica e poesia è stato progressivo e non immediato, tanto che
possediamo indizi probanti di almeno tre poesie di Dante rivestite di note da
musicisti del suo tempo: la stanza di canzone Lo meo servente core (su
richiesta dello stesso Dante attraverso un sonetto rivolto all’amico musico
Lippo de’ Bardi); la ballata Per una ghirlandetta , in cui il poeta confessa
che il suo testo si è appropriato di una “veste” altrui, cioè di una melodia
composta per un’altra poesia:
«Le parolette mie novelle
che di fior fatto han ballata,
per leggiadria ci hanno tolt’elle
una veste ch’altrui fu data»

La ballata Deh, Violetta, che in ombra d’Amore che, secondo quanto


annotato in un codice oggi perduto ma visto dall’erudito settecentesco
Giovanni Crescimbeni , fu musicata dall’ “intonatore” Scochetto.
In modo ancora più esplicito, Dante stesso nel De vulgari eloquentia (II ,
8) dichiara che la forma poetica di maggior nobiltà, la canzone, può essere
sia recitata che cantata senza che vi sia nessun obbligo né in un senso né
nell’altro (sive cum soni modulazione ... sive non ).
E infine, la già citata testimonianza di Boccaccio sulla consuetudine di
Dante di far mettere in musica le sue poesie, con tutte le riserve che si
possono fare sulla sua attendibilità, dimostra almeno che ancora nella
seconda metà del Trecento risultava normale l’idea che musica e poesia
potessero convivere.
Quanto poi all’obiezione che in ogni caso le canzoni dottrinali non
venivano musicate, si può replicare che Amor che ne la mente mi ragiona
poteva benissimo essere letta come una genuina composizione amorosa al
di là dei suoi significati filosofici, che verranno esplicitati da Dante nel
Convivio (1304-1307) e quindi molti anni dopo che il testo era stato
composto ed eventualmente conosciuto e musicato da Casella, certamente
morto prima del ’300 se in quell’anno Dante lo ritrova nell’aldilà.
Insomma, sembrerebbe proprio, a nostro avviso, che il canto di Casella
non sia un’invenzione dantesca ma la commossa rievocazione di
un’esperienza vissuta.
Ma torniamo ai versi che Dante dedica al suo incontro con lo spirito
dell’amico musico. La prima cosa da notare è che per definire il canto di
Casella viene usato l’aggettivo amoroso : con ciò si introduce una
distinzione precisa fra musica sacra e musica profana, e si fa capire subito
come all’inizio del cammino purgatoriale Dante sia ancora tenacemente
legato alle memorie e agli affetti di questa vita e non si sia ancora
pienamente inserito nella dimensione del superamento e dell’abbandono di
ogni passione terrena che invece è condizione irrinunciabile del cammino di
espiazione.
Questa errata disposizione dell’animo è ribadita subito dopo
dall’apposizione, sempre riferita al canto di Casella, che mi solea quetar
tutte mie doglie : dunque, in quel tempo della sua vita era la musica profana
di soggetto amoroso che offriva al poeta conforto e sollievo alle sue
sofferenze; se poi al posto di doglie si accetta la lezione voglie , attestata da
numerosi manoscritti, ne deduciamo che il canto di Casella era tale da
appagare tutti i desideri e le aspirazioni di Dante.
In ambedue i casi, si tratta di una deviazione rispetto al ruolo di
perfezionamento spirituale che la buona musica deve rivestire: nel caso del
canto di Casella, infatti, la musica diventa un richiamo agli affetti e alle
passioni terrene, affascinante ma ingannevole e moralmente pericoloso. A
dimostrazione della sua potenza, questo fascino ingannatore si esercita non
solo su Dante ma anche su Virgilio e sugli spiriti appena incontrati dai due
poeti (115-117):
«Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.»

Per capire il profondo simbolismo che la musica riveste in questo Canto,


bisogna ricordare che, prima dell’incontro con Casella, Dante ha assistito
all’arrivo della barca guidata dall’angelo che trasporta un gran numero di
anime alle rive del Purgatorio (43-48):
«Da poppa stava il celestial nocchiero,
tal che faria beato pur descripto;
e più di cento spirti entro sediero.
“In exitu Isräel de Aegypto”
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.»

Dunque, la prima musica che Dante ode nel Purgatorio non è l’amoroso
canto di Casella ma il Salmo 113 che celebra la liberazione del popolo di
Israele dalla schiavitù degli egiziani:
«Quando Israele uscì dall’Egitto,
i figli di Giacobbe da una terra straniera,
Giuda divenne il popolo santo,
e Israele dominio del Signore.»

Il libro biblico dei Salmi ne contiene centocinquanta: perché Dante ha


scelto di far cantare proprio questo ai più di cento spirti che siedono sulla
barca condotta dall’angelo alle rive del Purgatorio ? La risposta ce la dà lo
stesso Dante in due diverse occasioni: la prima è in un passo del Convivio
in cui si afferma che le Scritture possiedono sia un significato letterale che
un significato allegorico, come dimostra appunto il Salmo 113 che dice che,
ne l’uscita del popolo
«d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Che avvegna essere vero secondo la lettera sia
manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s’intende, cioè che ne l’uscita de l’anima
dal peccato, essa sia fatta santa e libera.»
II ,1
L’altro riscontro lo troviamo nell’Epistola XIII a Cangrande della Scala :
qui, sempre a proposito della interpretazione delle Scritture, Dante cita
ancora il Salmo 113 scrivendo
Se consideriamo solo il significato letterale, il testo ci narra l’uscita di Israele dall’Egitto al
tempo di Mosè; ma se guardiamo al significato allegorico, ci viene descritta la nostra
redenzione operata per mezzo di Cristo [...] e l’uscita dell’anima purificata dalla schiavitù del
peccato alla libertà della gloria eterna.

Dunque, la scelta del Salmo 113 non è casuale ma legata al percorso


purgatoriale di espiazione e di liberazione dal male che la musica
accompagna e asseconda.
Non solo, ma gli spiriti cantano tutti insieme ad una voce esprimendo così
una comunione di intenti e un sentimento di fraternità, mentre l’amoroso
canto di Casella è intonato a solo, ed è quindi espressione di una sensibilità
limitata dall’individualismo e incapace di condividere il valore universale
dell’amore.
Nella contrapposizione fra il canto sacro/corale delle anime e il canto
profano/solistico di Casella si esprime quindi la polarità fra visione
spirituale/etica e visione materiale/estetica, che è il vero e profondo
significato dell’episodio e dell’intero Purgatorio , una opposizione che si
ricomporrà, come vedremo, solo nel Paradiso Terrestre al termine della
Cantica.
È chiaro, a questo punto, perché Catone intervenga a rimproverare Dante,
Virgilio e le anime che si erano attardate ad ascoltare a Casella con una
violenza che a un lettore “ingenuo” può sembrare sproporzionata: ma
l’indugio, in realtà, era la prova di una grave debolezza spirituale perché
dimostrava che la volontà non si era ancora liberata dal richiamo delle
passioni terrene.
A dimostrazione della sua centralità, l’opposizione fra visione spirituale e
visione materiale viene riproposta, sempre musicalmente, in altri due
episodi del Purgatorio , nel Canto IX e nel Canto XIX .
Nel Canto IX (133-145) vediamo spalancarsi con un cupo rimbombo
davanti a Dante e Virgilio la sacra porta che immette nel Purgatorio : i
battenti ruotano sui cardini emettendo un ruggito ancora più forte di quello
emesso dalla porta della rupe Tarpea, quando Cesare la forzò per
impadronirsi del tesoro di Roma.
Questo fragore tonante è l’epitome sonora delle passioni terrene che
travolgono l’uomo, un’eco minacciosa in cui si concentra tutto il male del
mondo.
Ma Dante è ormai oltre il richiamo delle passioni, e la sua attenzione si
volge al primo suono udibile al di là della porta: è il Te Deum , l’antico inno
attribuito a sant’Ambrogio che viene cantato in lode e ringraziamento a
Dio.
Le voci celestiali sono accompagnate da una dolce melodia che ricorda al
poeta ciò che avviene quando un organo unisce il suo suono alle voci dei
cantori, tanto che le parole si capiscono solo a tratti:
«E quando fuor ne’ cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,
non rugghiò sì né si mostrò si acra
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.
Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e “ Te Deum laudamus” mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a punto mi rendea
ciò ch’io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea;
ch’or sì or no s’intendon le parole.»

A questo punto l’accesso alla purificazione è finalmente aperto e il


cammino verso la beatitudine può cominciare al canto gioioso del Te Deum
che sommerge e cancella il richiamo del peccato simboleggiato dal cupo
fragore della porta che si schiude.
Il tema dell’opposizione fra musica sacra e musica profana, metaforico
rispetto alla più vasta opposizione fra mondo terreno e mondo celeste, viene
ancora affrontato, come abbiamo detto, nel Canto XIX .
Qui a Dante, addormentatosi alla fine del Canto precedente, appare in
sogno una orribile donna balbuziente (la femmina balba ) che però si
trasforma rapidamente in una ammaliante sirena che affascina il poeta con il
suo canto armonioso (16-24):
«Poi ch’ella avea ’l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
“Io son”, cantava “io son dolce serena,
che ’marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!”»

Chi presta orecchio al canto della sirena, dunque, non riesce a separarsene
tanto si sente appagato in tutti i suoi desideri (ricordiamo cosa dice Dante a
proposito dell’amoroso canto di Casella, che mi solea quetar tutte mie
voglie ). Ma Virgilio interviene a risvegliare il poeta facendogli riprendere il
cammino e guidandolo all’ingresso della quinta cornice, e lì, appena
entrato, Dante incontra le anime degli avari e dei prodighi che, distese
bocconi a terra, cantano sommessamente il versetto di un Salmo, Adhaesit
pavimento anima mea , “L’anima mia è prostrata al suolo”(70-75):
«Com’io nel quinto giro fui dischiuso,
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso.
“Adhaesit pavimento anima mea”
sentia dir lor con sì alti sospiri,
che la parola a pena s’intendea.»

Nel Salmo 118 , da cui è tratto il versetto 25 qui citato da Dante, è


celebrata la totale sottomissione alla legge divina e l’abbandono di ogni
velleità di contrapporsi ad essa. I versetti finali del Salmo assolutizzano
questa scelta di riconoscersi nella volontà di Dio, in un canto che si
contrappone con tutta evidenza al messaggio edonistico e individualistico
della sirena:
«La mia lingua canti la tua parola
perché i tuoi comandamenti sono giusti.
Dammi sempre il tuo aiuto
perché ho scelto i tuoi decreti.
Questo desidero: salvami o Signore,
nella tua legge trovo la mia gioia.»

Il canto di sottomissione del salmista, opposto a quello tentatore della


sirena, mostra ancora una volta come le scelte musicali di Dante non siano
semplici arricchimenti del contesto ambientale, ma esprimano sempre un
preciso messaggio morale.
Tutti gli inserti musicali del Purgatorio , infatti, si inseriscono
strutturalmente in un disegno di affinamento spirituale che culmina nel
Paradiso Terrestre con la ricomposizione del canto sacro e del canto profano
come segnale della riconciliazione fra anima e corpo: prende forma così la
musica humana di Boezio, cioè quell’armonia delle componenti spirituali e
di quelle materiali che ripropone nel microcosmo dell’uomo la musica
mundana espressione dell’armonia universale.
Il conseguimento di questo equilibrio, che è al tempo stesso condizione e
conseguenza della purificazione, è espresso da due figure che Dante
incontra al termine della sua ascesa, Lia e Matelda: la prima appare in
sogno al poeta addormentato sulle soglie dell’Eden, la seconda lo condurrà
all’interno del Paradiso Terrestre fino all’incontro con Beatrice. Ambedue i
personaggi sono connotati attraverso la musica e la danza di cui si servono
per comunicare la riconquista dell’armonia interiore dopo il percorso
purgatoriale.
Lia è un’immagine onirica di fanciulla che cammina in un prato cogliendo
fiori e cantando ( Canto XXVII , 97-108):
«giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
“Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a lo specchio qui m’addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto il giorno.
Ell’è di suoi belli occhi veder vaga
com’io dell’addornarmi co le mani;
lei lo vedere, e me l’ovrare appaga.»

Nella Bibbia (Genesi , 29, 15-30) Lia e Rachele sono le due sorelle spose
di Giacobbe, e rappresentano allegoricamente una la vita attiva e l’altra la
vita contemplativa. Lia infatti, nell’immagine dantesca, si dedica a
raccogliere fiori con i quali intreccia ghirlande, mentre Rachele non si
stacca dallo specchio in cui contempla i suoi begli occhi.
Sia la prima che la seconda sono simboli di un diverso grado di felicità,
come lo stesso Dante scrive nel Convivio (IV , 17):
Noi potemo avere in questa vita due felicitadi, secondo due diversi cammini, buono e ottimo,
che a ciò ne menano: l’una è la vita attiva, l’altra la contemplativa.

Dunque, Lia rappresenta la felicità che ognuno può raggiungere operando


concretamente in questa vita sulla via del bene, ed esprime questo suo stato
di grazia in un canto in forma di madrigale nella variante della “pastorella”,
un componimento di origine provenzale in cui veniva cantato l’incontro fra
un cavaliere e una giovane e graziosa pastorella in un paesaggio di
primaverile bellezza.
È evidente come nel canto di Lia vengano recuperati tutti quei caratteri
stilnovistici che erano stati invece condannati nel canto di Casella in quanto
espressione dell’amore profano, mentre qui sono esaltati come espressione
di quello divino. Mondo terreno e mondo celeste, materia e spirito, bellezza
del corpo e bellezza dell’anima si ricompongono dunque in una sintesi che
supera ogni contraddizione fra le diverse dimensioni dell’essere: la
riconquista dell’innocenza originaria, quando, prima del peccato originale,
Adamo ed Eva potevano godere della loro nudità senza provare vergogna,
torna qui a rivivere nella leggiadra figura di Lia e nel puro compiacersi
della propria bellezza espresso nel canto:
«Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno.»

Ma è con Matelda che la rappresentazione della felicità edenica, frutto


della riconciliazione fra anima e corpo, tocca il suo culmine.
Fino dalla sua prima apparizione nel Canto XXVIII Matelda incarna questa
perfetta armonia (37-42):
«e là m’apparve, sì com’elli appare
subitamente cosa che disvia
per meraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’era pinta tutta la sua via.»

È una scena di bellezza percepita concretamente con i sensi, non un sogno


né un simbolo: quella che Dante vede non è un’apparizione celeste ma una
donna vera che si muove in un paesaggio incontaminato, e il suo canto
risuona dolcemente all’orecchio del poeta (52-60):
«Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sé donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette,
volsesi in su i vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli;
e fece i prieghi miei esser contenti,
sì appressando sé, che ’l dolce suono
veniva a me co’ suoi intendimenti.»

Matelda canta prima il Salmo 91 ( Canto XXVIII , 80), poi il Salmo 31 (


Canto XXIX , 1-3). Si tratta di due testi accomunati da un gioioso sentimento
di gratitudine verso la bontà di Dio: in uno si esulta per la magnificenza del
creato, nell’altro per l’innocenza ritrovata dopo la purificazione.
Ambedue i Salmi sono evidentemente connessi con il contesto in cui
vengono cantati: il primo evoca lo splendore della natura nel Paradiso
Terrestre, il secondo la liberazione dal peccato, unificando, come è
caratteristica costante della parte finale del Purgatorio , bellezza materiale e
bellezza spirituale.
Per rendere ancora più esplicita questa ritrovata armonia, Dante apre il
Canto XXIX con un riferimento testuale che ci proietta direttamente nel
mondo del dolce stil nuovo (1-3):
«Cantando come donna innamorata,
continuò col fin di sue parole:
“Beati quorum tecta sunt peccata!”»

Il primo verso di questa terzina riprende quasi alla lettera una “pastorella”
di Guido Cavalcanti (“In un boschetto trova’ pasturella”) il cui verso 7
suona: “cantava come fosse ’namorata”. La citazione del testo stilnovistico
del Cavalcanti è seguita subito, al verso 3, dal testo liturgico del Salmo 31,
accostando così due mondi fino a quel punto separati e, anzi, antagonisti: è
un’altra dimostrazione, attraverso la musica, di come ormai, al termine del
percorso purgatoriale, ogni contrapposizione fra esperienza del corpo e
esperienza dello spirito sia svanita per ricomporsi armoniosamente nel
canto di Matelda.
È attraverso la musica, dunque, che si esprime il significato profondo del
Purgatorio : i canti di Lia e di Matelda sono il punto di arrivo di un lungo
cammino di redenzione che, iniziato nel Canto II con l’opposizione fra il
Salmo “In exitu Israel de Aegypto ” e l’amoroso canto di Casella, prosegue
lungo tutto l’arco della Cantica come una sorta di terapia musicale che,
secondo i dettami dell’“ethos modale”, asseconda il processo di
purificazione.
Vediamo quindi le anime (o in alcuni casi le voci degli angeli) intonare
canti liturgici (Salmi, Inni, Antifone, Beatitudini, parti dell’ordinario della
Messa come l’“ Agnus Dei ”, il “ Sanctus ”, il “ Gloria”) adeguati alle
diverse forme di penitenza con cui i diversi peccati vengono espiati: così
nel Canto V gli spiriti dei “morti per forza” cantano mestamente il
“Miserere”; nel Canto VIII , al calar della notte le anime dei principi
intonano l’inno “ Te lucis ante ” composto da sant’Ambrogio contro i
pericoli delle tenebre; nel Canto IX l’ingresso nel Purgatorio è
accompagnato da un esultante “ Te Deum”; nel Canto XII voci di un
indescrivibile soavità cantano la prima beatitudine, “Beati i poveri di
spirito”, come ammonimento ai superbi; nel Canto XII gli spiriti degli
iracondi intonano l’“ Agnus Dei” in un coro unisono che manifesta il
ritrovato spirito di concordia; nel Canto XXIII i golosi cantano il Salmo 50 ,
in cui i penitenti promettono di aprire la bocca solo per pronunciare le lodi
del Signore.
Tutti questi canti sono intonati da una voce solista o, più frequentemente,
da un coro di anime che cantano all’unisono, in segno di umiltà e di
sottomissione a una concorde volontà di espiazione; tuttavia, nella parte
finale del Purgatorio cominciano a emergere accenni a esecuzioni
polifoniche, cioè all’accordo di più voci o di più strumenti che eseguono
melodie diverse, anticipando quella che sarà la musica dominante nel
Paradiso .
Il primo riferimento alla tecnica polifonica lo troviamo nel Canto XXVIII (7-
18):
«Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;
non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;
ma con piena letizia l’ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime.»

La scena, di una serena e intatta bellezza quale doveva essere quella del
mondo prima del peccato, è ravvivata da una nota musicale introdotta dal
canto degli uccelli che salutano l’alba. Le voci degli augelletti sono
accompagnate dall’uniforme fruscìo delle foglie mosse dal vento: come in
un canto polifonico, gli uccelli interpretano la parte solistica mentre lo
stormire delle foglie costituisce il “bordone”, cioè la nota fissa detta anche
“basso continuo” che accompagna e sostiene le fioriture melismatiche dei
solisti.
Più avanti, nel Canto XXX , si ha un’anticipazione della musica mundana
che domina nel Paradiso attraverso un richiamo alla musica delle sfere
prodotta secondo l’antica tradizione pitagorica dal ruotare delle sfere
celesti, e subito dopo un altro riferimento alla polifonia (91-96):
«così fui sanza lagrime e sospiri
anzi ’l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;
ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre
lor compartire a me, par che se detto
avesser: “Donna, perché sì lo stempre?”»

È apparsa Beatrice, e Dante rimane come folgorato e incapace di qualsiasi


reazione (sanza lagrime e sospiri ), fino a quando non lo conforta una
melodia celeste: sono gli angeli che, accompagnati dalla musica delle sfere
(dietro a le note de li etterni giri ), cantano un Salmo; sembra al poeta che i
dolci accordi (le dolci tempre ) delle armonie angeliche si rivolgano a
Beatrice pregandola di non scoraggiare con il suo atteggiamento sdegnoso
colui che le è sempre stato fedele (“Donna, perché sì lo stempre?” ).
La presenza della voce tempre è un chiaro riferimento alla tecnica
polifonica: con questo termine infatti la dottrina musicale del Medioevo
intendeva un accordo, cioè un insieme armonizzato di note differenti, e se
ne deduce quindi che il coro degli angeli canta non all’unisono, come è
sempre avvenuto fin qui nei precedenti Canti del Purgatorio , ma in
polifonia.
Osserviamo infine che nel Canto XXXIII (1-3) il Salmo 78 “ Deus venerunt
gentes ” è cantato a versetti alternati dalle tre virtù teologali e dalle quattro
cardinali: non è espressamente un esecuzione polifonica, ma siamo
comunque in una dimensione musicale diversa, più mossa e articolata
rispetto alle severe melodie unisone che abbiamo incontrato fin qui.
Dunque, se è un dato indiscutibile che tutto il percorso della seconda
Cantica è accompagnato dalla musica, è altrettanto evidente che la natura di
questa “colonna sonora” cambia profondamente nei Canti conclusivi,
trasformandosi da unisona a polifonica: è l’apparizione di Beatrice nel
Canto XXX che dà il segnale della svolta, anticipando quelle armonie
cosmiche che Dante udrà risuonare nel Paradiso e che concluderanno,
sempre nel segno di una grandiosa metafora musicale, il suo cammino di
redenzione.
7
LA MUSICA NEL PARADISO

Il profilo musicale del Paradiso presenta una contraddizione di fondo:


buona parte delle musiche presenti nella Cantica, nello stesso momento in
cui sono citate vengono anche dichiarate irriproducibili e indescrivibili
perché al di là della comprensione umana.
Citiamo subito un esempio fra i molti: nel Canto XXIV (22-24) lo spirito di
san Pietro ruota per tre volte intorno a Beatrice cantando una melodia così
sublime che Dante si dichiara incapace di richiamarla alla memoria:
«e tre fïate intorno di Beatrice
si volse con un canto tanto divo,
che la mia fantasia non mi ridice.»

Perciò la penna del poeta passa oltre, perché la fantasia umana, nonché il
linguaggio, sono strumenti troppo grossolani per riprodurre tale raffinata
bellezza (25-27):
«Però salta la penna e non lo scrivo:
ché l’imagine nostra a cotai pieghe,
non che ’l parlare, è troppo color vivo.»

Dunque, di quale musica si parla? Ha senso parlare di una musica che va


al di là delle nostre capacità di intenderla? Non equivale a parlare del
silenzio e, anzi, a elevare il silenzio a massima espressione musicale?
Per trovare risposta a queste domande e sciogliere l’apparente
contraddizione bisogna tornare a Boezio. La musica del Paradiso
corrisponde infatti a quella musica mundana che il grande filosofo e
musicologo ha indicato nel De institutione musica come l’esperienza
musicale più alta, quell’armonia cioè che nasce dal perfetto equilibrio
dell’universo e delle reciproche relazioni in cui si trovano le sue
componenti e che raggiunge la sua massima espressione con la “musica
delle sfere”.
Ora, come sappiamo, la musica delle sfere non è percepibile dal rozzo
orecchio umano, e qualora un uomo riuscisse pure a percepirla, come
accade a Dante grazie al suo progressivo affinamento spirituale, egli non
saprebbe comunque riprodurla.
Di fronte a questa musica “aliena”, dunque, sono possibili solo due
alternative: o rinunciare a descriverla, e quindi il silenzio, oppure tentare di
darne un riscontro, sia pure parziale, per via indiretta, ricorrendo a
comparazioni, analogie, procedimenti metaforici.
Del resto, questa incapacità di accedere a una conoscenza diretta è il
destino a cui va incontro chiunque cerchi, con i mezzi umani, di
comprendere una realtà sovrumana: lo dichiara a Dante con la massima
chiarezza la voce corale dell’Aquila nel cielo di Giove ( Canto XIX , 40-45):
«Poi cominciò: “Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto,
non poté suo valor sì fare impresso
in tutto l’universo, che ’l suo verbo
non rimanesse in infinito eccesso”.»

Questo infinito eccesso del verbo di Dio non può essere colmato dalla
debolezza della mente umana: come si legge in san Paolo (Corinzi , I, 12),
una conoscenza diretta di Dio facie ad faciem è impossibile, e noi possiamo
avvicinarci alla verità solo in modo mediato, per speculum , di riflesso
come in uno specchio.
È quindi solo a partire dalla realtà materiale, riflesso della perfezione
divina, attraverso una sua interpretazione e rielaborazione che all’uomo è
concesso di spingersi al di là di essa e di superare i suoi limiti, fino ad avere
una parziale visione della verità ( Canto XIX , 52-57):
«Dunque vostra veduta, che convene
essere alcun de’ raggi della mente
di che tutte le cose son ripiene,
non po’da sua natura esser possente
tanto, che suo principio non discerna
molto di là di quel che l’è parvente

E la conclusione del discorso dell’Aquila non potrebbe essere più esplicita


(97-99):
Roteando cantava e dicea: “Quali
son le mie note a te, che non le ’ntendi,
tal è il giudicio etterno a voi mortali”»

Dunque, se la musica paradisiaca (le mie note ) come la giustizia divina (il
giudicio etterno ) sono inaccessibili al limitato intelletto degli uomini, per
parlarne occorrerà, come dice san Paolo, tentare un’osservazione per
speculum , cioè fare ricorso a una via indiretta che, partendo dalla realtà
sperimentabile con i sensi, e quindi dal naturale (quel che l’è parvente ), sia
capace di offrire elementi parziali di conoscenza del soprannaturale.
La via indiretta scelta da Dante è di utilizzare quello che nel linguaggio
delle moderne scienze naturali si chiama un isomorfismo, cioè, nella
elegante definizione adottata dagli epistemologi, quel processo in cui si
verifica una trasformazione che conserva l’informazione. Schematizzando:
un soggetto A, portatore dell’informazione X , si trasforma in un soggetto B
portatore dell’informazione X 1, la quale corrisponde parzialmente a X .
“Parzialmente”, si noti bene, perché secondo la teoria dell’informazione
ogni volta che avviene un trasferimento da un emittente a un destinatario
una parte dell’informazione stessa si perde.
Si tratta insomma di un fenomeno per cui due soggetti diversi conservano
in comune una parte dell’informazione originaria pur mantenendo la loro
fondamentale estraneità reciproca.
Un esempio banale di isomorfismo è la relazione che si stabilisce fra
l’esecuzione di un brano di musica e la sua registrazione su un CD : la
trasformazione del primo nella seconda dà origine a due soggetti
fisicamente diversi che però conservano la stessa informazione (ma,
ricordiamolo ancora, solo parzialmente, perché il brano musicale non potrà
mai essere riprodotto perfettamente, come dimostra in un suo celebre
teorema Claude Shannon , il padre della teoria dell’informazione).
Ebbene, l’isomorfismo assunto da Dante per rappresentare la musica
sovrumana del Paradiso è la polifonia: il passaggio dalle melodie unisone
dominanti nel Purgatorio alle armonie polifoniche del Paradiso configura
appunto un isomorfismo perché la polifonia, pur senza essere in grado di
riprodurre la musica paradisiaca nei suoi aspetti fattuali, ne riproduce le
strutture formali, quali la perfezione degli equilibri e dei rapporti reciproci,
la concordia e l’armonia dei diversi, la capacità di ciascuna delle parti di
conservare la propria soggettività e, al tempo stesso, di integrarsi con il
tutto.
Insomma, la trasformazione della musica mundana in musica polifonica
conserva invariato un quantum di informazione che permette di avvicinarsi
a una parziale comprensione di ciò che altrimenti resterebbe inaccessibile
alle nostre limitate capacità intellettuali.
Ovviamente siamo di fronte a un’operazione di conoscenza che va ben
oltre la musica: come nel Purgatorio Dante utilizzava la capacità, propria
della musica, di unire in una sintesi armoniosa facoltà sensuali e facoltà
spirituali per rappresentare la riconciliazione dell’anima con il corpo, così
nel Paradiso l’isomorfismo fra musica delle sfere e polifonia si dilata a
comprendere l’intero assetto del regno dei cieli e a offrirne, attraverso
analogie e similarità formali, un’immagine accessibile agli intelletti umani.
Si tratta certo di un proposito di difficoltà estrema, come viene dichiarato
subito all’inizio del Canto I (4-9):
«Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là su discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.»

Per affrontare l’ardua impresa che lo attende, Dante chiede l’aiuto di


Apollo che è invocato attraverso la rievocazione del mito di Marsia , il
satiro suonatore di flauto che osò sfidare il dio, maestro della cetra, a una
gara di bravura. Apollo lo sconfisse e per punirlo della sua superbia, lo
spellò vivo: l’episodio è simile a quello che apre il Purgatorio (la musa
Calliope che punisce le Piche dalle quali era stata sfidata nel canto) e
conferma per la musica un ruolo di guida e orientamento nel percorso
straordinario che attende il poeta ( Canto I, 19-21):
«Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.»

Ed ecco che, subito dopo l’invocazione, Dante insieme a Beatrice si


solleva attraverso la sfera del fuoco verso il primo cielo, iniziando quella
esperienza del “trasumanare” che non si può significar per verba e la cui
descrizione viene quindi affidata alla musica (76-84):
«Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e ’l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.»

La musica, dunque, diventa l’unica possibilità di parlare dell’ineffabile, e


l’armonizzazione polifonica si propone come isomorfismo dell’armonia
delle sfere: il verso 78, con l’armonia che temperi e discerni , esprime con
la massima precisione la natura polifonica della musica celestiale udita da
Dante. I verbi “temperare” e “discernere” indicano infatti due operazioni
tipiche della polifonia: con il primo si allude all’accordo di suoni diversi in
un insieme armonioso, con il secondo si specifica che i suoni emessi dalle
sfere sono diversi fra loro e conservano questa differenza restando discreti,
cioè singolarmente distinguibili, pur all’interno dell’insieme unitario
rappresentato dall’accordo polifonico.
Come abbiamo già osservato nel secondo capitolo, Dante conosceva i
princìpi della polifonia che, elaborati in Francia dalla scuola di Notre Dame
(XII secolo), ai suoi tempi cominciavano a diffondersi anche in Italia e in
particolar modo a Firenze: una competenza, la sua, che lo colloca in una
posizione di avanguardia, dato che il cantus planus unisono di tradizione
gregoriana era ancora largamente dominante e le prime codificazioni delle
tecniche polifoniche faranno la loro apparizione da noi solo a partire dalla
seconda metà del Duecento.
Tuttavia, nonostante che il canto in polifonia (che nel linguaggio musicale
del Medioevo era definito “organo”, mentre l’omonimo strumento viene
sempre indicato con il plurale “organi”) fosse ancora ai suoi esordi, Dante
ne aveva una conoscenza sicura.
Lo dimostrano indiscutibilmente numerosi passi del Paradiso , come
quando, nel Canto X (139-148), il cerchio glorioso dei dodici spiriti sapienti
inizia cantando un movimento rotatorio paragonato a quello degli
ingranaggi di un orologio:
«Indi, come orologio che ne chiami
ne l’ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l’ami,
che l’una parte e l’altra tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
che ’l ben disposto spirto d’amor turge;
così vid’ïo la gloriosa rota
muoversi e render voce a voce in tempra
e in dolcezza ch’esser non pò nota
se non colà dove gioir s’insempra.»

La similitudine è vivacissima e anche di estrema originalità, poiché al


tempo di Dante gli orologi meccanici erano una nuova invenzione ancora
poco diffusa; allo stesso modo è originale e sorprendentemente moderno
l’uso della etimologia pura tin tin , riproducente la soneria dell’orologio
che, all’alba, chiama la sposa di Dio (la Chiesa) a cantare le lodi del suo
sposo (Cristo); notevole anche l’uso del verbo “mattinare”, che
propriamente indicava l’uso di presentarsi al mattino davanti alla casa della
donna amata per renderle omaggio: nella dimensione paradisiaca, amore
sacro e amore profano, dunque, non sono più due realtà separate come
accadeva nel Canto II del Purgatorio con la canzone di Casella contrapposta
al Salmo degli spiriti penitenti, ma confluiscono in un’unica esperienza di
perfezione spirituale. Quello che però colpisce dal punto di vista musicale è
che qui la descrizione del canto dei beati si presenta come una tipica
esecuzione polifonica in cui ogni voce si corrisponde con le altre (render
voce a voce ) in un accordo di tale dolcezza che non si può concepire se non
in cielo dove regna la gioia eterna
«in dolcezza ch’esser non pò nota
se non colà dove gioir s’insempra.»

Insomma, siamo davanti a un’armonia indescrivibile che solo la polifonia,


attraverso
l’isomorfismo delle strutture, può lontanamente evocare.
Ancora l’immagine dell’orologio torna nel Canto XXIV (13-18) per
descrivere la danza dei beati intorno a Beatrice:
«E come cerchi in tempra d’orïuoli
si giran sì, che ’l primo a chi pon mente
quïeto pare, e l’ultimo che voli;
così quelle carole differentemente
danzando, de la sua ricchezza
mi facieno stimar, veloci e lente.»

In questi versi, nonostante che si parli di danza e non di musica (ma, come
vedremo, nel Paradiso la musica è sovente coniugata con percezioni di
movimento come la danza), è riprodotta perfettamente la struttura di un
mottetto polifonico, in cui al “tenor” basso e lento si intrecciano le altre
voci con un ritmo tanto più rapido quanto più alto è il loro tono, esattamente
come fanno gli ingranaggi di un orologio in cui la ruota che sta alla base
gira così lentamente da parere ferma, mentre quella che riceve l’impulso per
ultima gira tanto vorticosamente che sembra volare.
E che qui Dante, benché descriva dei movimenti di danza, abbia in mente
la musica è dimostrato dall’uso del termine tempra , che, come abbiamo già
visto, indica la compresenza di suoni diversi armonizzati in un accordo.
Può stupire che per riprodurre i meccanismi del canto polifonico Dante
ricorra per ben due volte a una similitudine in cui il termine di paragone è
l’orologio: l’orologio meccanico, l’abbiamo già detto, era all’epoca ancora
poco comune e probabilmente ignoto a molti dei primi lettori della
Commedia (i grandi orologi sui campanili delle chiese e sulle torri dei
palazzi pubblici si diffusero nelle città italiane solo nella seconda metà del
Trecento).
Tuttavia, la similitudine con l’orologio offre al poeta la possibilità di
oggettivare l’innovazione fondamentale introdotta in campo musicale dalla
polifonia, e cioè la misurazione precisa dei tempi di esecuzione: è evidente
infatti che nel canto polifonico, a differenza di quanto accadeva nel canto
unisono gregoriano, per accordare due o più voci che eseguono melodie
diverse è assolutamente necessario il rispetto di un ritmo che regoli
esattamente il succedersi delle note di ciascuna melodia, rendendole
reciprocamente compatibili.
È la cosiddetta musica mensurabilis , “musica misurabile”, che viene
teoricamente studiata da numerosi trattatisti fino dal XII secolo, si consolida
nel secolo successivo soprattutto in Francia (celebri fra gli altri furono i
trattati di Giovanni di Garlandia , De mensurabili musica , 1240, e di
Francone di Colonia, Ars cantus mensurabilis , 1260) per diventare una
pratica comune anche in Italia nel corso del Trecento.
I ritmi calcolati sui tempi certi del canto polifonico sono un evidente
isomorfismo degli armoniosi sincronismi che regolano il movimento dei
cieli, delle schiere angeliche e degli spiriti beati.
Così, quando Beatrice spiega a Dante la natura e i movimenti del nono
cielo, il Primo Mobile , le sue parole riflettono perfettamente i rapporti che
legano le diverse voci all’interno di una struttura polifonica ( Canto XXVII ,
112-120):
«Luce e amor d’un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
colui che ’l cinge solamente intende.
Non è suo moto per altro distinto,
ma li altri son mensurati da questo,
sì come diece da mezzo e da quinto;
e come il tempo tegna in cotal testo l
e sue radici e ne li altri le fronde,
omai a te può esser manifesto.»
Il solenne registro teologico rende ardua la comprensione dei versi, né
potrebbe essere altrimenti vista la complessità del tema, ma grazie
all’isomorfismo fra il moto delle sfere celesti e i rapporti “mensurabili” che
collegano le diverse voci nel canto polifonico, il significato può essere colto
con chiarezza.
Spiega dunque Beatrice che l’ultimo dei nove cieli, il Primo Mobile, è
circondato dall’amore e dalla luce che provengono dall’Empireo, sede della
Divinità; il Primo Mobile, a sua volta, circonda di amore e di luce i cieli
sottostanti, e solo Dio che lo contiene in sé può comprendere ciò che vi è
contenuto (e quel precinto / colui che ’l cinge solamente intende ). Il
movimento del Primo Mobile non è determinato da quello degli altri cieli,
ma sono gli altri a misurare i loro movimenti in rapporto al suo, così come
il numero dieci è in rapporto con la sua metà, il cinque, e con la sua quinta
parte, il due; qui è l’origine del tempo e della sua misura, e da qui nascono
tutti gli altri criteri di misurazione come le fronde nascono dalle radici.
L’isomorfismo è evidente: il Primo Mobile scandisce il tempo
dell’universo così come in polifonia il “tenor” determina il tempo delle altre
voci, e gli altri cieli misurano sul Primo Mobile i propri movimenti così
come le diverse voci nel canto polifonico si accordano reciprocamente sulla
base del tempo fissato dal “tenor”.
E così come Dio comprende e domina nel suo insieme il significato ultimo
dell’universo unificando le sue diverse componenti, allo stesso modo
l’ascoltatore, nel momento in cui è raggiunto dall’effetto finale dell’accordo
polifonico, percepisce suoni diversi uniti in una sintesi armoniosa.
Il punto di maggior complessità raggiunto dall’isomorfismo polifonico
applicato alla rappresentazione dell’armonia celeste si ha nel Canto XXVIII ,
quando i cori angelici glorificano Dio intonando un perpetuo Osanna (115-
120):
«L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Arïete non dispoglia,
perpetüalmente “Osanna” sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s’interna.»

Il ternaro che rifulge nell’eterna primavera del cielo, mai offuscata dalla
costellazione autunnale dell’Ariete, è una delle tre terne da cui è formato
ciascuno dei tre ordini angelici descritti da Dante nei versi precedenti,
riprendendo la rappresentazione che ne dà Dionigi l’Aeropagita nel suo
trattato De coelesti ierarchia (“Sulla gerarchia celeste”). Secondo Dionigi,
vi sono tre ordini di angeli, ciascuno dei quali comprende tre Cori: la prima
triade è formata da Serafini, Cherubini e Troni; la seconda da Dominazioni,
Virtù e Potestà; la terza da Principati, Arcangeli e Angeli.
Sono dunque nove Cori, ognuno dei quali, nella visione dantesca, canta
gioiosamente (sberna , come fanno gli uccelli alla fine dell’inverno) un “
Osanna” perpetuo con una melodia diversa, così che ne risulta una
grandiosa polifonia a nove voci unita a un corrispondente movimento
rotatorio di tutti i Cori intorno a un punto centrale in cui risplende la visione
di Dio: ancora una volta, la complessità dell’intreccio di suoni e di luci è
tale che l’intelletto umano può tentarne una rappresentazione solo attraverso
l’isomorfismo delle strutture polifoniche. Un analogo procedimento
isomorfico (anche se meno spettacolare) viene utilizzato nel Canto XII ,
sempre per esprimere l’ineffabilità della visione celeste.
Qui lo spirito di san Tommaso, dopo avere fatto nel Canto precedente
l’apologia di san Francesco, riprende il suo posto nel cerchio formato da
dodici spiriti sapienti che inizia a ruotare cantando; prima che la rotazione
sia conclusa, un secondo cerchio di altri dodici spiriti circonda il primo, e i
movimenti e il canto dei ventiquattro beati si coordinano così perfettamente
da produrre un’armonia che supera di tanto la musica terrena quanto la luce
emessa direttamente da una sorgente luminosa supera il suo riflesso (1-9):
«Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola;
e nel suo giro tutta non si volse
prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse;
canto che tanto vince nostre muse,
nostre serene in quelle dolci tube,
quanto primo splendor quel ch’e’ refuse.»

Dunque, là dove le parole fallirebbero, musica e danza possono riuscire a


riprodurre un sia pur pallido riflesso degli splendori paradisiaci, l’immagine
di una bellezza che, anche se non può essere pienamente compresa, lascia
comunque una traccia di dolcezza che rapisce l’anima.
Un procedimento analogo viene applicato anche nel Canto XIV (118-123),
in cui la sovrapposizione isomorfica fra i dolci suoni prodotti da una giga e
da un’arpa ben accordate (in tempra tesa / di molte corde ) e la musica
mundana originata dalla perfezione delle armonie celesti viene utilizzata
per descrivere i canti dei beati che si muovono lungo i bracci di una croce
luminosa apparsa nel cielo di Marte:
«E come giga e arpa in tempra tesa
di molte corde fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,
così da’ lumi che lì m’apparinno
s’accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender l’inno.

E all’inizio del Canto XV l’isomorfismo polifonico viene di nuovo


impiegato per descrivere ancora il canto dei beati, momentaneamente
sospeso perché Dante possa parlare con lo spirito di Cacciaguida (1-6):
Benigna volontade in che si liqua
sempre l’amor che drittamente spira,
come cupidità fa nella iniqua,
silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira.»

Qui Dio, il supremo regolatore dell’universo, è rappresentato


pitagoricamente come l’archimusicus , il “musico supremo”, colui che
allenta e tira le corde della dolce lira ed è quindi all’origine di
quell’armonia cosmica che si esprime sensibilmente nella musica delle
sfere, la musica mundana di Boezio. Questa musica, che non può essere
compresa da una mente mortale, esprime però una dolcezza tale che, anche
senza l’intervento della ragione (sanza intender l’inno ), Dante dichiara di
restarne affascinato, esattamente come avviene quando qui sulla terra siamo
conquistati dalla melodia di un canto anche se non ne capiamo le parole.
È una forma di percezione intuitiva che va oltre la rielaborazione
intellettuale, una conoscenza in “presa diretta” in cui la musica è chiamata a
suggerire un “al di là” della parola, tanto che alla fine la parola si fa puro
suono e il testo riesce, attraverso la suggestione musicale, a delineare una
realtà sovrumana non comunicabile con gli strumenti del linguaggio
verbale.
Così, per esempio, nel Canto XXXIII (124-126) il mistero della Trinità si
traduce in una “musica verbale” che supera l’ordine logico del discorso per
assumere le cadenze musicali di un inno:
«O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami ed arridi!»

Le paronomasie (etterna... te... t’intendi... te... intelletta ), le


annominazioni (intendi…intendente ), le anafore (sola... sola ), la
costruzione vocativa, definiscono un contesto semantico in cui il linguaggio
razionale diventa impotente: la dimensione sovrumana dell’oggetto da
conoscere soverchia le parole svuotandole del loro significato e lascia
sopravvivere solo i significanti trasformati in puri ritmi e puri suoni.
L’insufficienza del linguaggio naturale nel tentare di descrivere l’armonia
celeste è una costante del Paradiso , e abbiamo visto fin qui come Dante
cerchi di sopperirvi parzialmente ricorrendo all’isomorfismo polifonico.
Tuttavia questa, anche se è la soluzione più adottata, non è l’unica: accanto
alla polifonia il poeta utilizza anche altre suggestioni collegate con un
ambito percettivo diverso, che non è più l’udito ma la vista.
Le sensazioni sonore sono infatti spesso integrate e arricchite da visioni
dinamiche (movimenti di danza, di avvicinamento, di allontanamento) e
luminose, con cui l’ineffabile armonia paradisiaca viene resa comprensibile
mettendola in relazione, generalmente mediante una similitudine visiva, con
le nostre facoltà sensibili.
Vediamo per esempio nel Canto III lo spirito di Piccarda che dopo il
colloquio con Dante si allontana cantando l’“ Ave Maria” (121-123):
«Così parlommi, e poi cominciò “Ave
Maria” cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.»

La dolcezza del canto di Piccarda non è descrivibile a parole, ma la


stupenda similitudine della cosa grave che svanisce affondando in un’acqua
scura acquista, attraverso il movimento, anche un effetto musicale
implementato dai valori fonici (i suoni a e i di Maria sono ripresi nel verbo
vanio creano l’impressione di un canto in progressivo allontanamento).
Nel Canto VII , invece, la stessa sinergia di musica, luce e movimento
produce un effetto molto diverso: non la struggente dolcezza dell’Ave Maria
di Piccarda, ma una sensazione di imperiosa maestà nel fulmineo congedo
di Giustiniano che, dopo aver cantato un solenne inno di gloria a Dio,
velocemente si allontana insieme agli altri spiriti dei potenti della terra (4-
9):
«Così, volgendosi a la nota sua,
fu viso a me cantare essa sustanza,
sopra la qual doppio lume s’addua;
ed essa e l’altre mossero a sua danza,
e quasi velocissime faville
mi si velar di sùbita distanza.»

Allo stesso modo gli spiriti amanti nel cielo di Venere appaiono al poeta in
una danza di luci che rimanda isomorficamente all’intreccio delle voci in
un’esecuzione polifonica, che in questo caso sembrerebbe essere improntata
alla tecnica del “discanto” in cui una voce tiene ferma una nota di base
mentre un’altra si sovrappone con variazioni melismatiche ( Canto VIII , 16-
21):
«E come in fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si discerne,
quand’una è ferma e l’altra va e riede,
vid’io in essa luce altre lucerne
muoversi in giro più e men correnti,
al modo, credo, di lor viste interne.»

Ancora, nel Canto XXIII (103-111) suono e movimento si sovrappongono


nell’immagine di un angelo che rotea intorno alla Vergine intonando una
circulata melodia , seguito poi da tutti gli altri beati:
«Io sono amore angelico, che giro
l’alta letizia che spira del ventre
che fu albergo del nostro disiro;
e girerommi, donna del ciel, mentre
che seguirai tuo figlio e fari dia
più la spera suprema perché lì entre”.
Così la circulata melodia
si sigillava, e tutti li altri lumi
facean sonare il nome di Maria.»

Per offrire un parziale riscontro del mondo celeste, troppo superiore alla
nostra ragione per essere descritto con gli strumenti del linguaggio naturale,
Dante ricorre dunque ad approssimazioni e strategie oblique che permettono
di cogliere i riflessi di una visione soprannaturale inaccessibile per via
diretta; e come si è cercato di dimostrare fin qui, l’isomorfismo polifonico è
la principale di queste strategie.
Ma Dante non è un metafisico né un neoplatonico: per lui la realtà non si
trova in un mondo delle idee separato dall’esperienza sensibile, e le cose e
le storie degli uomini su questa terra sono molto di più che un pallido
simulacro della verità iperurania.
Nella concezione dantesca, vita mortale e vita eterna, anima e corpo si
fondono nell’unità della persona che, una volta compiuto il suo cammino in
questa vita, porta con sé nell’aldilà le sue vicende individuali fissate per
sempre in un destino che il giudizio finale rende immutabile.
Dante, dunque, è il poeta del mondo celeste ma è anche, secondo la
memorabile definizione di Erich Auerbach , il “poeta del mondo terreno”: i
sentimenti, le emozioni, le memorie di questa vita non possono essere
cancellate e perdute nell’altra, dove ognuno di noi conserverà con la
massima intensità il proprio carattere individuale attraverso la
perpetuazione dei gesti del corpo che a questo stesso carattere fu legato e
che con esso si è formato.
La sopravvivenza delle memorie e delle emozioni legate alle vicende
personali è un segno che distingue l’aldilà dantesco da tutte le precedenti
rappresentazioni dell’oltretomba, in cui le anime vivono una realtà oscura e
indistinta o smarriscono completamente la propria identità fondendosi con
la totalità dell’Essere: al contrario, Dante resta “poeta del mondo terreno”
anche nel più spirituale dei tre regni, quel Paradiso che pure il poeta stesso
più volte definisce al di là della comprensione umana.
Anche in questa dimensione metafisica, tuttavia, la potente esperienza
della vita terrena non è dimenticata, e ancora una volta è la musica a
offrircene la prova nel modo più esplicito: non le armonie celestiali
adombrate attraverso le grandiose strutture polifoniche, ma quell’umile
musica instrumentalis che Boezio aveva posto al livello più basso
dell’esperienza musicale ma che Dante amò così tanto da non
dimenticarsene neppure davanti ai cori angelici e alle visioni paradisiache.
Non sarà un caso, allora, che la maestosa apparizione dell’Aquila che
occupa i Canti XVIII , XIX e XX faccia udire la sua voce attraverso la
similitudine con due strumenti familiari ai musici, la nobile cetra e l’umile
zampogna (Canto XX , 22-24), e che altri strumenti che Dante avrà
sicuramente conosciuto e amato (ricordiamo la testimonianza di Boccaccio)
siano presenti anche nelle eteree regioni del Paradiso (oltre alla cetra e alla
zampogna, anche l’arpa, i flailli o flauti, la lira, la tuba, e addirittura il tin
tin della suoneria dell’orologio).
Ma c’è di più: inaspettatamente, nel Canto XX fa la sua apparizione una
canzone del trovatore provenzale Bernart de Ventadorn, ripresa nei versi
che descrivono il volo gioioso dell’allodola (73-75):
«Quale allodetta che ’n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l’ultima dolcezza che la sazia»

Ed ecco, a riprova, i versi della canzone di Bernart de Ventadorn (di cui ci


resta anche la musica che Dante poteva benissimo aver sentito e ricordare):
«Can vei la lauzeta mover
de joi sas alas contra al rai
que s’oblid e ’s laissa chazer
per la doussor c’al cor li vai»
(Quando vedo la lodoletta muovere
gioiosa le ali contro il sole,
e poi tacere e lasciarsi prendere
per la dolcezza che le riempie il cuore)

E dunque, concludendo il nostro percorso all’interno della musica


dantesca, ci piace pensare che il poeta abbia voluto, con questa inserzione
in pieno Paradiso di una canzone trobadorica accanto alle maestose
armonie polifoniche, ricordare che la grandezza dell’uomo sta proprio in
questa sua capacità di unire armoniosamente sacro e profano, anima e
corpo, tempo ed eterno per poter più altamente onorare l’amor che move il
sole e l’altre stelle .
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Divina Commedia , Perugia, 1994
Di Fonzo C., Della musica e di Dante: paralipomeni lievi , in Scritti offerti a Francesco Mazzoni
dagli allievi fiorentini , Società Dantesca Italiana, Firenze, 1998
De Benedictis R., Ordine e struttura musicale nella Divina Commedia , EPAP , Firenze, 2000
Bacciagaluppi C., Le funzioni delle immagini musicali della Commedia, in “Rivista di studi
danteschi”, II , 2, 2002
Cappuccio C., Gli effetti psicologici della musica sui personaggi del Purgatorio, in “Tenzone”, 6,
2005
Ciabattoni F., Dante’s Journey to Polyphony , University of Toronto Press, Toronto, 2010
Bolton Holloway J., Dante as Timotheus: Purgatorio II and the music of the Commedia , Ensemble
San Felice, Firenze, 2015
Bardazzi F., Di Manno M., Bolton Holloway J., La musica della Commedia , Ensemble San Felice,
Firenze, 2015
LA MUSICA DELLA COMMEDIA
(PROGETTO MULTIMEDIALE CULTURALE)

La musica della Commedia è uno spettacolo basato sulle musiche citate da


Dante nella sua opera più conosciuta. Progetto a cura di suor Julia Bolton
Holloway, Federico Bardazzi e Marco Di Manno, in collaborazione con
Cantus Posterius e con la consulenza artistica di Carla Zanin.
L’Ensemble San Felice ha eseguito i brani sotto la direzione di Federico
Bardazzi, con le voci recitanti di Cristina Borgogni e Stefano Mascalchi e
con i puer cantores della cattedrale di Santa Maria in Sarzana, diretti dal
maestro del coro Alessandra Montali. I quaranta brani di seguito elencati
sono collegati a video ufficiali su YouTube, disponibili all’ascolto:
☐ 01 – Inferno ;
☐ 02 – Vexilla regis ;
☐ 03 – Purgatorio ;
☐ 04 – Officium peregrinorum ;
☐ 05 – Nos qui vivimus ;
☐ 06 – Amor che nella mente ;
☐ 07 – Miserere mei, Domine ;
☐ 08 – Salve, Regina ;
☐ 09 – Te lucis ante terminum ;
☐ 10 – Te Deum laudamus ;
☐ 11 – O Padre Nostro ;
☐ 12 – Beati pauperes ;
☐ 13 – Agnus Dei ;
☐ 14 – Io son dolce Sirena ;
☐ 15 – Domine, labia mea ;
☐ 16 – Donne ch’avete intelletto ;
☐ 17 – Summae Deus clementiae ;
☐ 18 – Tan m’abellis vostre cortes ;
☐ 19 – Beati mundo corde ;
☐ 20 – Venite, benedicti Patris mei ;
☐ 21 – Sappia qualunque ;
☐ 22 – Nunc gaudeant ;
☐ 23 – Hosanna ;
☐ 24 – Benedicta tu ;
☐ 25 – Veni, de Libano ;
☐ 26 – Benedictus, Manibus ;
☐ 27 – Alleluia alto re di Gloria ;
☐ 28 – Asperges me hyssopo ;
☐ 29 – Deus venerunt gentes ;
☐ 30 – Paradiso ;
☐ 31 – Ave Maria ;
☐ 32 – Agios o Theos ;
☐ 33 – Voi che ’ntendendo ;
☐ 34 – O Virgo splendens ;
☐ 35 – Regina Coeli ;
☐ 36 – Gratiosus Sanctus ;
☐ 37 – Egardus Gloria spiritus ;
☐ 38 – Gratiosus Sanctus ;
☐ 39 – Ave, Maria, gratia plena ;
☐ 40 – Vergine madre .
INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI
Su ciascun numero è attivo un link che porta all’occorrenza del termine.

A
Adamo, Maestro 1 , 2 , 3 , 4
Adhaesit pavimento anima mea 1
Agnus Dei 1 , 2 , 3
Agostino d’Ippona, san 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6
Alessandria 1
Alfonso X , il Saggio 1
Alighieri, Dante 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11 , 12 , 13 , 14 , 15 , 16 , 17 , 18 , 19 , 20 , 21 , 22 ,
23 , 24 , 25 , 26 , 27 , 28 , 29 , 30 , 31 , 32 , 33 , 34 , 35 , 36 , 37 , 38 , 39 , 40 , 41 , 42 , 43 , 44 , 45 ,
46 , 47 , 48 , 49 , 50 , 51 , 52 , 53 , 54 , 55 , 56 , 57 , 58 , 59 , 60 , 61 , 62 , 63 , 64 , 65 , 66 , 67 , 68 ,
69 , 70 , 71 , 72 , 73 , 74 , 75 , 76 , 77 , 78 , 79 , 80 , 81 , 82 , 83 , 84 , 85 , 86 , 87 , 88 , 89 , 90 , 91 ,
92 , 93 , 94 , 95 , 96 , 97 , 98
Ambrogio, san 1 , 2 , 3
Andrea di Bonaiuto 1 , 2
Anfione 1 , 2
Anonimo Fiorentino 1 , 2
Antifonario 1 , 2
Antifonario della biblioteca capitolare di Lucca 1
Antipurgatorio 1
Apollo 1 , 2
Arezzo 1 , 2 , 3 , 4
Aristosseno di Taranto 1 , 2
Aristotele 1 , 2
Aritmetica 1
Ars antiqua 1 , 2
Ars cantus mensurabilis 1
Ars nova 1 , 2 , 3
Ars poetica 1
Arti del Trivio 1
Arti liberali 1
Asperges me 1
Astronomia 1 , 2
Auerbach, Erich 1
Ave Maria 1 , 2
Averroè 1
B
Bach, Johann Sebastian 1 , 2
Barbariccia 1
Basilio di Cesarea, san 1
Beati mundo corde 1
Beatrice 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10
Beda, il Venerabile 1 , 2
Belacqua 1
Benvenuto da Imola 1
Bernardo 1
Bernardo di Chiaravalle, san 1 , 2
Bernart de Ventadorn 1
Bertran de Born 1 , 2
Bibbia 1 , 2 , 3
Biblioteca Nazionale di Firenze 1
Bisanzio 1
Boccaccio, Giovanni 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6
Boezio, Severino 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11 , 12 , 13 , 14 , 15 , 16 , 17 , 18
Brunetto Latini 1 , 2
C
Cacciaguida 1
Cage, John 1
Calendimaggio 1
Calliope 1 , 2 , 3
Cangrande 1
Canti della Messa 1
Canti dell’Ufficio 1
Cantigas de Sancta Maria 1
Cantus planus 1
Canzone a ballo 1
Capella, Minneo Felice Marziano 1 , 2
Carità 1
Carlomagno 1
Casella 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11 , 12 , 13 , 14 , 15 , 16 , 17 , 18 , 19 , 20
Casentino 1
Castiglia 1
Catone, Marco Porcio 1 , 2
Cattedrale di Notre Dame 1
Cattedrale di Worcester 1
Cavalcanti, Guido 1 , 2
Chanson de Roland 1
Chiesa di Santa Maria Novella 1
Cicerone, Marco Tullio 1
Codice Rossi 1 , 2
Commedia 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11 , 12 , 13 , 14 , 15 , 16 , 17 , 18 , 19 , 20 , 21 , 22 , 23
Compiégne 1
Concilio di Trento 1
Confessioni 1 , 2 , 3
Conti di Romena 1
Contini, Gianfranco 1 , 2
Controriforma 1
Convivio 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10
Corelli, Arcangelo 1
Coussemaker, Charles-Edmond-Henri de 1
Crescimbeni, Giovanni 1
Crotone 1
D
David 1 , 2
De arte musica 1 , 2
De arte saltandi et choreas ducendi 1
Decameron 1
De coelesti ierarchia 1
De consolazione philosophiae 1
De institutione musica 1 , 2 , 3 , 4
De mensurabili musica 1
De Musica 1 , 2
De nuptiis Mercurii et Philologiae 1
De republica 1
De vulgari eloquentia 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7
Dialettica 1
Didascalicon 1
Dionigi il Certosino 1
Dionigi l’Areopagita 1
Doktor Faustus 1
Dolce stil nuovo 1
Domenico da Ferrara 1
Donati, Piccarda 1 , 2
Duecento 1 , 2
E
Ecco la primavera 1
Egitto 1 , 2
Elsheikh 1
Elsheikh, Mahmoud 1
Empireo 1 , 2
Episodio di Casella 1 , 2 , 3
Europa 1 , 2
F
Fede 1
Filelfo, Francesco 1
Filolao di Crotone 1
Firenze 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10
Fiume Lete 1
Francesco d’Assisi, san 1 , 2
Francia 1 , 2 , 3 , 4 , 5
Francone di Colonia 1 , 2
G
Geometria 1 , 2
Gerberto di Aurillac 1
Geremia 1
Gherardello da Firenze 1
Giacobbe 1 , 2
Giotto 1
Giovanni Battista, san 1
Giovanni di Garlandia 1
Giovanni di Grouchy 1
Giovanni XIX , papa 1
Giovanni XXII , papa 1
Giudea 1
Giustiniano i 1
Gloria 1 , 2
Grammatica 1
Gregorio, Magno 1
Guglielmo di Malmesbury 1
Guido d’Arezzo 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7
H
Händel, Georg Friedrich 1
I
Indiana University 1
Inf ., III 1
Inf ., XXXII 1
Inf ., I 1
Inf ., III 1 , 2 , 3 , 4
Inf ., V 1 , 2
Inf ., VI 1
Inf ., VII 1
Inf ., X 1
Inf ., XII 1
Inf ., XIV 1 , 2
Inf ., XIX 1
Inf ., XVI 1
Inf ., XXI 1
Inf ., XXII 1
Inf ., XXX 1
Inf ., XXXI 1 , 2
Inf ., XXXIV 1
Inf ., XVIII 1
Inno della Santa Croce 1
Isidoro di Siviglia, san 1 , 2 , 3
Israel 1 , 2
Israele 1 , 2
Italia 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6
J
Jacopo da Bologna 1
Jacopone da Todi 1
L
Lamentazioni 1
Lana, Jacopo della 1 , 2 , 3 , 4
Landini, Francesco 1 , 2
Latini, Brunetto 1 , 2
Laudario di Cortona 1 , 2
Laude di Dama Matelda 1
Leopardi, Giacomo 1
Leverkühn, Adrian 1
Lia 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6
Liber Gratiae Specialis 1 , 2
Limbo 1
Lucidarium 1
M
Macrobio, Ambrosio Teodosio 1
Manetti, Giannozzo 1
Mann, Thomas 1
Marchetto da Padova 1
Matelda 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8
Matematica 1
Matilde di Canossa 1
Matilde di Hackeborn, santa 1 , 2
Matilde di Magdeburgo 1
Medioevo 1 , 2
Metamorfosi 1
Micrologus 1 , 2
Milano 1
Mileto 1 , 2
Mito di Marsia 1
Monastero di Helfta 1
Montale, Eugenio 1 , 2
Monte Citerone 1
Mosè 1
Musica 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9
Musica humana 1
Musica instrumentalis 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9
Musica mensurabilis 1 , 2
Musica mensurata 1
Musica mundana 1 , 2 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11
N
Nembrot 1 , 2 , 3 , 4
Noktero 1 , 2
Noktero Balbulo 1
Notre Dame 1 , 2 , 3
O
Orfeo 1 , 2
Orlandi, Lemmo 1
Orlando 1
Osanna 1 , 2
Ovidio Nasone, Publio 1
P
Paolo di Tarso, san 1 , 2
Par ., 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11 , 12 , 13 , 14 , 15 , 16 , 17 , 18 , 19 , 20 , 21 , 22 , 23 , 24 ,
25 , 26 , 27 , 28 , 29 , 30
Par ., I 1 , 2 , 3
Par ., III 1
Par ., VII 1
Par ., X 1 , 2 , 3
Par ., XII 1
Par ., XIV 1 , 2 , 3
Par ., XIX 1
Par ., XV 1
Par ., XVIII 1 , 2
Par ., XX 1 , 2
Par ., XXIII 1 , 2
Par ., XXIV 1 , 2
Par ., XXVII 1
Par ., XXVIII 1
Par ., XXXI 1
Par ., XXXIII 1 , 2 , 3 , 4
Paradiso Terrestre 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6
Par ., XXIII 1
Parigi 1 , 2
Pasci de’ Bardi, Lippo 1 , 2 , 3 , 4 , 5
Pavia 1
Perotino, magister 1
Petrarca, Francesco 1
Piche 1 , 2 , 3
Pierio 1
Pipino III , il Breve 1
Pitagora 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6
Platone 1 , 2 , 3 , 4
Pomerium 1
Portinari, Folco 1
Primo Mobile 1 , 2 , 3
Prologus 1
Purg ., 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9 , 10 , 11 , 12 , 13 , 14 , 15 , 16 , 17 , 18 , 19 , 20 , 21 , 22 , 23 , 24
, 25 , 26 , 27 , 28 , 29 , 30 , 31 , 32 , 33 , 34 , 35
Purg ., I 1
Purg ., II 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7
Purg ., IV 1 , 2
Purg ., IX 1 , 2 , 3 , 4
Purg ., V 1
Purg ., VI 1
Purg ., VII 1
Purg ., VIII 1 , 2
Purg., X 1
Purg ., XII 1
Purg ., XIX 1 , 2 , 3 , 4 , 5
Purg ., XV 1
Purg ., XVII 1
Purg ., XXI 1 , 2
Purg ., XXIII 1
Purg ., XXIV 1
Purg ., XXIX 1 , 2
Purg ., XXV 1
Purg ., XXVI 1
Purg ., XXVII 1 , 2 , 3
Purg ., XXVIII 1 , 2 , 3 , 4 , 5
Purg ., XXX 1 , 2 , 3
Purg ., XXXI 1
Purg ., XXXII 1
Q
Quaresimale 1
R
Rachele 1
Ravenna 1
Retorica 1
Roberto II di Francia, il Pio 1 , 2
Roncisvalle 1
Rossi, Niccolò de’ 1 , 2
S
Sabatini, Francesco 1
Sacro Romano Impero 1
Salmo 31 1 , 2
Salmo 50 1
Salmo 78 1
Salmo 91 1
Salmo 113 1 , 2
Salmo 118 1
Salve Regina 1
Samo 1
Sanctus 1 , 2
Sassonia 1
Scuola di Notre Dame 1 , 2 , 3
Segneri, Paolo 1
Sententiae de musica 1
Shannon, Claude 1
Shiva 1
Siena 1
Silvestro II , papa 1
Simplicio 1
Sinone 1
Speranza 1
Stile neumatico 1
Stile sillabico 1
Summae Deus clementiae 1
T
Tebaide 1
Tebe 1 , 2
Te Deum 1 , 2 , 3 , 4
Te lucis ante 1
Tertulliano, Quinto Settimio Florente 1
Tessaglia 1
Timeo 1
Timoteo di Mileto 1 , 2
Tommaso d’Aquino, san 1 , 2 , 3 , 4 , 5 , 6 , 7 , 8 , 9
Torre di Babele 1
Toscana 1
Trattatello in laude di Dante 1
Trecento 1 , 2 , 3 , 4
Tubalcain 1
U
Ugo da San Vittore 1
Umbria 1
V
Vaticano 1
Venite, benedicti Patris mei 1
Verona 1 , 2
Vescovo di Reims 1
Vincenzo di Beauvais 1
Virgilio Marone, Publio 1 , 2 , 3
Vita Dantis 1
Vita di Dante 1 , 2
Vita Nova 1
Vivaldi, Antonio 1

***
Le 20 occorrenze più frequenti
goWare <e-book> team
goWare è una startup costituita da autori, editor, redattori e sviluppatori che condividono la visione
sul futuro delle nuove tecnologie e la passione per l’editoria.
Raccogliere, selezionare e organizzare i contenuti allo scopo di renderli a portata di touch è la sfida
quotidiana di goWare come casa editrice digitale.
Operativamente goWare è costituita da due team: goWare <app> team, che si occupa di concepire e
sviluppare applicazioni per iPhone e iPad e goWare <e-book> team, specializzato in editoria digitale,
creazione di ebook, consulenza e formazione in campo editoriale. Il goWare team è composto da
Marco Arrighi, Roberto Avanzi, Elisa Baglioni, Stefano Cipriani, Valeria Filippi, Giacomo Fontani,
Mirella Francalanci, Patrizia Ghilardi, Mario Mancini, Alice Mazzoni, Alessio Orlando, Lorenzo
Puliti, Maria Concetta Ranieri.
Manifesto di goWare
Il contenuto in digitale è un’altra cosa
Pensiamo che i contenuti digitali siano differenti da quelli distribuiti attraverso i media tradizionali,
diversi nel formato, nel design, nel pubblico che li fruisce.
Lavoriamo per valorizzare questa diversità, curando nel dettaglio la realizzazione di ebook ed
enhanced book pensati per un’esperienza di lettura autenticamente digitale.
“Surpass the print experience”
Non c’è bisogno di tradurlo, le parole del team iBooks della Apple suonano come l’11°
comandamento. La chiave è la generosità. Ci sono tanti piccoli-grandi accorgimenti per migliorare la
lettura dell’ebook. Per esempio non c’è più il vincolo della foliazione, si può essere generosi con
l’interlinea, gli spazi, le paragrafature, i colori: la costipazione è finita, coloriamo le parole e
arieggiamo la pagina! È il vero trionfo della volontà sulla necessità.
Abbasso il piombo!
Gli ebook di goWare sono progettati e realizzati per vivere in un ecosistema digitale. Ci ispiriamo a
Wikipedia: la lettura digitale ha bisogno di link per farci spaziare da un contesto a un altro. È inoltre
sincopata: la cementificazione del testo è finita! Abbasso il piombo, viva il link. La partecipazione
distratta non ci spaventa.
Il valore di un ebook non sta solo nel contenuto ma nella relazione
All’interno di un ecosistema digitale, il valore economico di un libro non sta più soltanto nella
quantità di copie che il suo editore/produttore riesce a vendere a un prezzo massimizzato, quanto
nelle idee e nella relazione che riesce a creare con il proprio pubblico e i media sociali; lavoriamo su
questa relazione in modo che diventi il veicolo per costruire il rapporto economico.
Siamo nomadi
Sia i nativi che gli immigrati digitali non sono per niente stanziali, sono nomadi, si spostano
continuamente da un dispositivo all’altro e da una piattaforma all’altra. I nostri contenuti sono
pensati per spostarsi con loro.
Dillo subito, e con una narrazione possibilmente visuale
Curati, interessanti e veloci da leggere, gli ebook di goWare vanno al sodo e non contemplano solo il
testo: la narrazione visuale e quella musicale sono parte integrante della progettazione.
Dove stiamo andando?
«Where we going man? I don’t know, but we gotta go» scrive Jack Kerouac in On the road. Il team di
goWare ha sempre in mente queste parole da cui ha tratto anche parte del suo nome. Innumerevoli
sono le incognite che gravano sul presente e sul futuro dell’editoria digitale: nessuno sa bene dove
approderemo, per ora occorre andare e occorre sperimentare.
Salve, lettore globale
I nostri ebook sono rivolti ai lettori italiani esigenti che pensano globalmente, convinti che siamo tutti
parte di un medesimo insieme economico, culturale se non ancora linguistico: il mondo. La
rivoluzione digitale significa prima di tutto questo. Tutte le opinioni sono un patrimonio, meglio se
differenti, ancor meglio se fuori dal coro.
Detto altrimenti...
... cioè con le parole della poetessa inglese Ruth Padel
Di’ addio al potrebbe-esser-stato [...]
vai perché sei vivo,
perché stai morendo o sei, forse, già morto
Vai perché devi.
goWare – D/Alighieri

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