F. Torriani, Ritratto di Giuseppe Verdi, 1843, olio su tela, 86,5 x 56,5 cm (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Prefazione
Francesco Degrada
Verdi è per ogni italiano, prima che il maggior operista dell'Ottocento, parte parte integrante della storia nazionale del suo
paese non meno che della sua storia intima: una figura incontrata sui banchi di scuola come protagonista e interprete del
Risorgimento, e forse anche prima, al tempo dell'infanzia, nelle melodie ascoltate dalla voce dei nonni e dei padri, dalle
bande, dai cori, dagli organetti, dalle pianole, dalle fisarmoniche domenicali, dai gracchianti settantotto giri, dalle emissioni
della radio ascoltate in famiglia in religioso silenzio. Poi l'emozione della prima rappresentazione in teatro e la spontanea
identificazione di Verdi con l'essenza stessa del melodramma. I versi dei suoi libretti sono entrati nel lessico quotidiano, i
suoi personaggi sono scesi dai palcoscenici dei teatri d'opera per aggirarsi come presenze familiari nella vita di ogni giorno,
le situazioni delle sue opere hanno acquisito una valenza esemplare e paradigmatica. La sua figura, burbera e austera, ha
assunto per diverse generazioni la dimensione di un simbolo, è assurta — nobile e solenne — nell'Olimpo dei "padri della
patria", dei geni tutelari della nazione. L'uomo Verdi e la sua opera sono diventati mito. Un mito che ha attraversato
indenne più di centocinquant'anni di storia, ha resistito alle straordinarie trasformazioni politiche, sociali, culturali,
tecnologiche vissute dal mondo moderno, si è progressivamente assestato — pur nelle progressive modificazioni —
nell'orizzonte culturale contemporaneo.
All'uomo Verdi, alla sua opera e al mito che ha generato ai livelli più diversi della cultura e della società nazionale e
internazionale, è appunto dedicata questa mostra, ,allestita in occasione del primo centenario della morte del musicista.
Sin dalla fase di ideazione dell'esposizione sono apparsi evidenti lo straordinario spessore e la formidabile complessità della
figura e dell'opera di Verdi, il peso del suo impatto sulla storia della cultura e della società, nonché la stretta interrelazione
che lega il loro sviluppo alle più diverse manifestazioni dell'arte del suo tempo e al cangiante assetto politico-sociale,
industriale, tecnologico europeo. Questa consapevolezza e la mole di documentazione disponibile è dovuta anche a quella
nuova Verdi-Renaissance degli ultimi decenni, che ha visto, insieme con la realizzazione di una monumentale edizione
critica delle sue opere, una fioritura di studi sulla biografia, il processo compositivo, la genesi e la struttura drammaturgica
del suo teatro musicale, le tecniche della sua messinscena che non ha eguali nel passato.
È apparso pertanto opportuno affiancare alla sezione espositiva non un semplice catalogo, quanto piuttosto una serie di
sintetici saggi interdisciplinari affidati ai maggiori studiosi della musica, dell'arte, della storia politica e sociale
dell'Ottocento, che approfondissero e puntualizzassero — in forma piana e discorsiva quanto non poteva essere affidato alla
sola suggestione visiva ed emozionale della mostra.
La prima parte di questo volume ha dunque il carattere di una sintetica monografia su Verdi, svolta per approcci
problematici ad alcuni temi chiave della sua vita e della sua carriera creativa. I contributi di Fernando Mazzocca e di Marta
Marri Tonelli ricostruiscono il volto della Milano romantica e mettono a fuoco da diverse prospettive le preziose suggestioni
e i molteplici stimoli che Verdi acquisì, negli anni di formazione, dal mondo dell'arte e dall'ambiente letterario e culturale
milanese, facendoli propri e trasformandoli in maniera oltremodo originale. Marcello Conati, John Rosselli e Gabriele Dotto
esplorano i modi nei quali il musicista si inserì nel complesso sistema dell'industria teatrale del tempo e nei canali della
diffusione del melodramma, anche attraverso il rapporto sempre più stretto con il mondo dell'editoria musicale. In
particolare emerge come fondamentale il rapporto con Casa Ricordi, in un momento nel quale l'industria editoriale
acquisiva dimensioni sempre più imponenti, controllava in modo sempre più stretto l'organizzazione teatrale, proteggeva
l'integrità dei testi operistici, favoriva la tutela del diritto d'autore. In questo contesto, Emanuele Senici ricostruisce il
rapporto privilegiato (ancorché tutt'altro che lineare) che Verdi intrattenne con il Teatro alla Scala (e potremmo dire con
l'ambiente musicale milanese), nel quale esordì e al quale si riaccostò dopo un lungo volontario esilio (al quale non furono
indifferenti anche le polemiche con Boito e con quel settore del pubblico e della critica fautori della tradizione sinfonica
tedesca e più tardi di Wagner), nell'ultima fase della sua parabola creativa. Roger Parker si addentra nel problema dei
rapporti tra Verdi e il Risorgimento e dimostra come sia da ascrivere al periodo post-unitario e a un contesto di
vagheggiamento nostalgico dell'epoca eroica delle guerre d'indipendenza l'idea di un diretto protagonismo del musicista e
delle sue opere nelle vicende politiche del Quarantotto. Giorgio Rumi riprende il tema da una prospettiva più ampia,
delineando lucidamente il percorso di Verdi da suddito parmense a cittadino italiano all'interno di un orizzonte d'attesa
aperto — prima del Quarantotto — a soluzioni molteplici, inclusa quella di un realistico accordo tra la monarchia sabauda
e l'impero austriaco, finalizzato alla creazione di un Regno Padano o dell'Alta Italia (auspicato, tra gli altri, dal giovane
Cavour). Dopo il 1859 Verdi accetterà realisticamente il corso della storia: adoratore di Manzoni, anche per la sua ferma
scelta patriottica, verrà onorato come effetto (e non come causa) di una non equivoca maturazione nazionale e diventerà un
simbolo dell'unità della nazione e della fedeltà alle istituzioni liberali: deputato, cavaliere dell'Ordine Civile di Savoia,
senatore del Regno, rimarrà legato sino alla fine al programma di ordine e di libertà propostogli da Cavour e suddito leale
della dinastia. Ai rapporti con il contesto politico-sociale, ma anche ideologico e culturale italiano dell'epoca, è dedicato il
saggio di John Rosselli sul problema dei rapporti di Verdi con la censura (del quale il contributo di David Rosen costituisce
un approfondimento centrato sulla tormentata genesi e sulla storia esecutiva di Un ballo in maschera).
Da qui in poi il libro si addentra più specificamente nell'officina artistica verdiana, con la messa a fuoco del rapporto di
Verdi con i grandi modelli drammaturgici europei e del suo primo incontro con Shakespeare (Petrobelli e Degrada): questo
tema ha offerto un'occasione per fare emergere anche l'inconsistenza dell'immagine (in parte costruita dallo stesso Verdi) di
un uomo di scarsa cultura letteraria e di compositore istintivo, all'oscuro degli sviluppi della musica e del pensiero europei;
laddove un semplice esame di quello straordinario documento che è il suo epistolario (Petrobelli) e una conoscenza della sua
ricchissima biblioteca (per non parlare delle sue stesse opere) documentano della sua curiosità intellettuale e della vigile
attenzione con la quale guardava al panorama culturale del suo tempo. Paolo Gallarati tratta poi della cosiddetta "trilogia
popolare" che sancì definitivamente il musicista come il più grande operista dell'epoca e consacrò la nascita del "canone"
verdiano. I saggi di Emilio Sala e di Wolfgang Osthoff, dedicati rispettivamente alle relazioni di Verdi con Parigi e con
Richard Wagner, esplorano il progressivo ampliarsi degli interessi di Verdi sul panorama musicale europeo. Mercedes Viale
Ferrero e Vittoria Crespi Morbio trattano infine l'aspetto della scenografia e della messa in scena nel lungo arco dell'attività
verdiana e il problema dei costumi e della gestualità attoriale (l'uno e l'altro legati alla concreta realizzazione della
concezione drammaturgica verdiana). I due saggi di Roberto Leydi e di Julian Budden sono dedicati infine rispettivamente
alla ricezione dell'opera verdiana nel mondo popolare e del varietà e alla cangiante immagine della sua figura e della sua
arte nel corso degli ultimi due secoli.
La seconda parte di questo libro è costituita da un'ampia documentazione iconografica della mostra, arricchita da schede
critiche sulle più importanti sezioni, da un prospetto delle opere verdiane e da una bibliografia generale.
Francesco Hayez, Ritratto della Contessa Matilde Juva Branca, 1851, olio su tela, 120 x 94 cm (Milano, Civica Galleria d'Arte Moderna)
L'ambiente culturale nella Milano del giovane Verdi
Marta Marri Tonelli
I1 periodo milanese del giovane Verdi, che copre — seppure in modo non continuativo — un arco temporale di circa sedici
anni (dal 1832 al 1848), è indubbiamente fondamentale non solo per il numero e la qualità delle opere prodotte, ma anche
perché fu in quella fase di duro apprendistato e di accanito lavoro che il musicista poté digrossare i suoi gusti, plasmare i
suoi interessi e acquisire piena coscienza dei suoi obiettivi.
Se nella scelta di Milano quale sede più adatta per il completamento e perfezionamento degli studi musicali avevano
senz'altro avuto un peso i consigli dell'affezionato mecenate Ba-rezzi, e ancor più quelli del maestro bussetano Provesi, è
certo che il diciottenne musicista, dal momento in cui ebbe preso contatto con la città, seppe subito che quella e solo quella
sarebbe stata l'arena in cui si sarebbe cimentato quando fosse riuscito a concretare le sue (per il momento velleitarie)
aspirazioni di carriera artistica. La capitale lombarda era infatti in quel periodo il più vivace centro culturale della penisola,
in grado di esercitare, specie sui giovani, un'eccezionale forza di richiamo. Fermamente decisa, dopo la svolta della
Restaurazione, a non abdicare alla sua vocazione di capitale europea, la città stava sperimentando una veloce espansione in
tutti i campi; un'espansione che, se vedeva coinvolta gran parte dell'imprenditoria locale, aveva comunque il suo fulcro in
una straordinaria e concorde mobilitazione delle forze culturali, convinte che il recupero dei valori liberali e nazionali
potesse concretarsi, dopo il fallimento della stagione cospirativa, in una decisa politica di sviluppo, di modernità economica
e sociale.
La forza di attrazione culturale di Milano era dunque da ascriversi sia all'effervescente vitalità dell'ambiente intellettuale,
sia alle concrete opportunità professionali che tale ambiente sapeva offrire. Non può stupire perciò che nella città
affluissero compositori provenienti da tutta la penisola, allettati da un ambiente musicale oltremodo stimolante; oppure
esponenti dell'arte figurativa, fiduciosi di poter risultare tra i prescelti degli annuali concorsi di Brera, o comunque certi di
trovare committenze grazie alla passione collezionistica di tanti aristocratici e ricchi borghesi. Ancor più considerevole era
poi l'affluenza di letterati, dal momento che la città continuava a essere non soltanto l'asse portante del dibattito letterario,
ma anche la sede della pubblicistica più agguerrita e il principale mercato del commercio librario.
Il grande sviluppo dell'editoria, che andava già assumendo una struttura di tipo industriale, era strettamente connesso, in
un rapporto di causa-effetto, all'incremento del pubblico dei lettori, ormai composto in parte non indifferente da quella
borghesia che sempre più rappresentava il nerbo produttivo della società. L'allargarsi dell'utenza esigeva naturalmente la
messa a punto di rinnovate strategie culturali; se da un lato servivano nuovi strumenti espressivi, più semplici e diretti,
dall'altro era anche necessaria un'offerta il più possibile diversificata, in grado di proporre, accanto alle tradizionali collane
di classici e alle opere d'impegno scientifico o comunque destinate a un mercato selezionato, una grande varietà di testi
adatti a soddisfare le richieste di un pubblico eterogeneo, che cercava nella lettura conoscenza e informazione ma anche
piacere, svago, coinvolgimento emotivo.
Indubbiamente legato all'espansione del pubblico dei lettori fu, proprio in quegli anni, il boom del romanzo storico, un
genere letterario nuovo, capace di suscitare entusiastici consensi grazie alla sua prosa semplice e suasiva e ai suoi intrecci
avventurosi. Sull'onda del successo dei romanzi di Walter Scott, contesi dagli editori (nel 1830 a Milano avevano visto la
luce contemporaneamente ben cinque raccolte di romanzi scottiani), anche la produzione in lingua italiana si era fatta via
via più massiccia. L'esempio dei Promessi sposi del Manzoni usciti nel 1827, che sembravano dare dignità letteraria e
sostanza morale a un genere — il romanzo — tradizionalmente considerato "basso" nella penisola, era stato del resto
determinante: ben pochi avevano resistito alla tentazione di cimentarsi con intricate vicende rievocative di un passato che,
quando non era il Medioevo, era comunque contrassegnato dal drammatico conflitto tra prepotenti tiranni e prodi
liberatori. Il castello di Trezzo e Il falco della rupe di Giovan Battista Bazzoni, Sibilla Odaleta di Carlo Varese, I
Lambertazzi e i Geremei di Defendente Sacchi, La figlia d'un ghibellino di Giovanni Campiglio, Caterina Medici di Brono di
Achille Mauri erano stati solo i primi esempi del pullulare di una produzione che, se pur lontana dallo scrupolo storiografico
e dall'equilibrio delle pagine manzoniane, era tuttavia più atta a incidere sulla sensibilità del pubblico medio. Tra l'altro il
messaggio civile di cui era portatore il romanzo storico, mettendo in relazione il passato con il presente, risultava spesso
potenziato dal trasferimento del tema e dei personaggi dall'ambito letterario a quello pittorico o musicale. Così ad esempio
Ettore Fieramosca ossia la disfida di Barletta di Massimo d'Azeglio, pubblicato a Milano nel 1833, aveva già ispirato allo
stesso d'Azeglio, che era anche un noto pittore, un quadro con lo stesso titolo. E il Marco Visconti di Tommaso Grossi,
uscito nel 1834, divenne nel giro di pochi anni fonte di ispirazione di io molti dipinti e di alcuni melodrammi.
Friedrich Schiller, Teatro e liriche, volume secondo, nella traduzione italiana di Andrea Maffei, Torino, Unione Tipografico-editrice torinese, 1911
(Parma, Istituto Nazionale dí Studi Verdiani)
La sperimentazione di moduli espressivi capaci di tradursi, attraverso la conquista di un vasto pubblico, in veicolo di
diffusione delle idealità romantiche e risorgimentali, tendeva dunque — secondo quello che è stato definito "programma
lombardo" a investire tutti i settori della produzione culturale. L'esigenza di un accostamento sempre più sensibile tra le
varie arti, che era stata l'ideologia portante dei maggiori teorici del Romanticismo d'oltralpe (in particolare di Madame de
Staél e dei fratelli Schlegel), aveva potuto diffondersi soprattutto grazie al lavoro, talvolta oscuro, dei non pochi letterati
che si erano incaricati di tradurre i loro scritti. Ma una funzione importante l'avevano svolta anche quelli che, accogliendo il
provocatorio invito a "sprovincializzare" e a rinnovare la cultura della penisola rivolto nel 1816 dalla Staél agli intellettuali
italiani, si erano dedicati alla traduzione dei drammaturghi inglesi e tedeschi contemporanei. In questo settore assume
particolare rilievo l'intensa attività di mediazione culturale esercitata a Milano da Andrea Maffei. Le sue versioni del Teatro
completo di Schiller e dei poemi di Byron e di Moore stavano divenendo, grazie allo straordinario successo editoriale e
anche in virtù dell'intensità delle relazioni culturali da lui stesso attivate, eccezionali veicoli di nuovi temi e di nuove
idealità. Altri personaggi entravano in campo: corsari, banditi, eroi ribelli. A temi schilleriani e byroniani, spesso intrisi di
irresistibili istanze libertarie e antitiranniche, cominciavano a ispirarsi, in un gioco scambievole di stimoli e suggestioni,
letteratura, arti figurative, teatro, melodramma.
Ogni forma espressiva, nell'esigenza di un contatto sempre più diretto ed emotivo con il pubblico, cercava di aggiornare i
suoi strumenti. Persino la poesia — che già aveva tentato l'avventura di una comunicazione immediata nella "teatralità"
dei Profughi di Parga del Berchet, o nel ricorso allo strumento del dialetto e della satira del Porta e del Grossi della Prineide
— assumeva ora, nella forma di novella in versi, di ballata, di romanza, cadenze facili e ritmate con inserzioni dialogiche e
con uno sviluppo talora quasi romanzesco dei contenuti.
Era evidente che il luogo su cui meglio avrebbe potuto esprimersi quell'urgenza di rappresentazione diretta dei sentimenti e
delle passioni erano le scene teatrali. Ma nonostante la consapevolezza dell'importanza del teatro come veicolo di diffusione
culturale e di propaganda patriottica, ben raramente i letterati riuscivano a imporre la loro presenza sulle ribalte teatrali, le
quali, sebbene potessero contare su alcuni interpreti d'eccezione, risultavano sempre più dominate da autori stranieri.
Fortunatamente, oltre al teatro di prosa c'era quello musicale. Ed era proprio sul melodramma che si appuntavano gli
sguardi degli intellettuali progressisti. Quale altra manifestazione artistica era infatti in grado di raggiungere, e con tanta
immediatezza, così vasti strati di pubblico, oltre tutto non necessariamente alfabetizzato? Scriveva Carlo Tenca: "Non
possiamo condannare del tutto la moltitudine se, disdegnosa delle lettere che son parola morta per lei, si gettò
tumultuosamente nei teatri musicali a cercarvi le facili commozioni, la libera effusione del dolore e della gioia. Qui [...] l'arte
abbraccia tutta quanta la sfera degli af
Giuseppe Bernardino Bison, Caffè dei Servi a Milano, 1832 circa, 36,9 x55 cm (Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna)
fetti, e l'armonia tra la moltitudine e l'artista è intera e immediata". Le osservazioni di Tenca, scritte nel 1845, quando già
Giuseppe Verdi aveva dato prova di quale impatto la sua musica potesse avere sulla "moltitudine", dimostrano come fosse
ormai un dato ben assimilato nella cultura milanese più sensibile e civilmente impegnata il fatto che proprio nel
melodramma si dovesse cercare la vena più schiettamente romantica, democratica e popolare della cultura. E spiegano
anche l'attenzione e la sollecitudine con cui gli ambienti intellettuali della città avevano accolto nella loro cerchia il rustico e
spaesato apprendista compositore. Non era stata solo una "istrana combinazione" quella che aveva permesso a Giuseppe
Verdi, già nel 1834, di dirigere l'esecuzione della Creazione di Haydn presso il teatro dei Filodrammatici, con immediata
replica al Casino dei Nobili, alla presenza "di tutta la gran società d'allora". Se è vero che anche Donizetti e Bellini avevano
avuto grande familiarità con l'ambiente letterario milanese, nel caso di Verdi la cooptazione fu senz'altro più tempestiva e
più piena di quanto le scarsissime notizie biografiche sui suoi primi anni milanesi lascino trapelare.
L'inserimento graduale del giovane e promettente musicista nella colta società era avvenuto nei luoghi tradizionalmente
deputati all'incontro intellettuale. Nei teatri naturalmente — i già citati Filodrammatici, la Scala, la Canobbiana, il Re, il
Fiando, il Carcano — dove si entrava in contatto, oltre che con compositori, cantanti, librettisti e impresari, con tutta la
buona società appassionata di musica. Ma anche nelle sedi dei due principali editori musicali della città, Ricordi e Lucca. O
ancora nelle grandi librerie di Contrada Santa Margherita, quella dell'editore Silvestri sempre affollata di letterati, e quella
di Vallardi dove oltre a libri di pregio si potevano acquistare stampe, litografie, quadri e lussuose strenne illustrate. E poi
negli eleganti caffè e nelle gallerie del centro, nelle animate redazioni dei numerosi giornali e periodici (nel 1840 a Milano si
contavano ben ventitré testate), nelle sale dell'Accademia di Belle Arti e della Pinacoteca di Brera.
Luigi Bisi, Veduta di Piazza San Marco, 1845 circa, olio su tela, 41,5 x54,5 cm (Milano, Museo di Milano)
La non attestata ma certo assidua frequentazione, da parte di Verdi, dei circoli intellettuali e dei loro luoghi di ritrovo
pubblici o aperti al pubblico rendeva quasi d'obbligo il suo approdo ad altri spazi, in questo caso privati, la cui funzione
primaria era tuttavia quella dell'incontro, del dibattito, dello scambio culturale. Intendiamo riferirci ai salotti, i luoghi di
aggregazione intellettuale più tipici dell'Ottocento. Anche se i salotti non erano certo una prerogativa di Milano (ne
esistevano in ogni angolo della penisola), nella capitale lombarda essi assumevano, in quanto emanazione diretta del
fervido clima culturale sin qui delineato, un rilievo particolare. Per quanto l'eterogeneità dei frequentatori, appartenenti a
tutti i settori più attivamente impegnati nello sviluppo sociale e culturale della città, contribuisse a creare una fittissima
rete di rapporti e le discussioni vertessero naturalmente sui temi più svariati, la musica era comunque uno degli ingredienti
d'obbligo in qualsiasi salotto e poteva divenire il principale tramite aggregativo quando tra gli stessi padroni di casa c'era
chi si dedicava, da dilettante o professionalmente, alla composizione oppure al canto; così avveniva nei salotti dei
Belgiojoso, dei Litta, di Rosa Bargnani, di casa Branca. Ciò poteva verificarsi anche in occasione della presenza di qualche
famoso musicista o esecutore; memorabili erano rimaste, ad esempio, le esibizioni di Liszt e di Thalberg in casa Maffei, o le
"serate musicali" di Rossini.
Il cosiddetto "periodo salottiero" di Verdi, documentato a partire dal periodo immediatamente successivo al travolgente
successo del Nabucco, è stato spesso etichettato dai biografi come una sorta di momentanea "ubbriacatura mondana",
pressoché ininfluente sullo sviluppo della sua arte. Trascurando il fatto che proprio nei salotti il musicista ebbe non solo
l'opportunità di intrecciare proficui rapporti professionali e di consolidare amicizie che sarebbero durate tutta la vita, ma
anche di assorbire tutti gli stimoli culturali che a essi facevano capo. Del più noto e cosmopolita di questi ritrovi, il già
citato salotto Maffei, il gio-
Cristina Belgiojoso Trivulzio, Interno di casa Trivulzio, 1840-1850, tempera su carta, 30x36,5 cm
(Castello di Masino (To], FAI Fondo per l'Ambiente Italiano)
vane musicista divenne in breve uno degli ospiti più assidui, tra i pochi intimi che vi erano ammessi anche nelle ore non
deputate al ricevimento e che la sera solevano riunirsi intorno a un tavolo in accanite partite a carte. Testimonianza palese
dell'intimità di rapporti instauratasi con i letterati del salotto è il fatto che il nome di Verdi figura accanto a quello di Giulio
Carcano in calce all'atto, redatto da Tommaso Grossi nel 1846, che attesta la separazione legale tra Andrea Maffei e la
moglie Clara.
Nelle accoglienti sale di casa Maffei il musicista conobbe gran parte dei più reputati esponenti del mondo culturale. Tra i
letterati — oltre ai suddetti Carcano e Grossi, che erano stati tra i "fondatori" del salotto nel 1834 ed erano anche intrinseci
di casa Manzoni — Luigi Toccagni, traduttore di Scott e di Chateaubriand, il dotto filologo Francesco Ambrosoli, il
versatile e affascinante Massimo d'Azeglio, genero del Manzoni; e poi Achille Mauri, Paolo Maspero, e tanti altri che erano
anche giornalisti di vaglia e spesso direttori di importanti periodici: Carlo Cattaneo, Carlo Tenca, Opprandino Arrivabene,
Cesare Correnti, Gottardo Calvi, Angelo Fava, Giacinto Battaglia... Non pochi tra i frequentatori, sebbene già affermati,
erano giovani e praticamente coetanei di Verdi. L'interesse di Maffei per la musica (era fin dal 1828 tra i più autorevoli soci
dei Filodrammatici e godeva di notevole influenza nell'ambiente della Scala) faceva sì che frequentassero abitualmente il
salotto anche librettisti, come Temistocle Solera e il celebre Felice Romani, e molti musicisti, tra i quali Donizetti. E non
mancavano certo pittori, scultori e critici d'arte, considerata l'intensa attività di consulente e patrocinatore d'artisti, oltre
che di collezionista, svolta dal padrone di casa. Particolarmente assidua era la presenza di Francesco Hayez, il pittdre
romantico per eccellenza e il ritrattista più ambito della Milano aristocratica.
Henry Lehmann, Ritratto di Cristina Belgiojoso Trivulzio, 1844, olio su tela, 112 x 87,5cm (Castello di Masino [Tol, FAI Fondo per l'Ambiente Italiano)
Non è possibile pensare agli anni milanesi di Verdi senza tener conto di quanto il clima culturale che si trovò a condividere
abbia influito sulle sue scelte e determinato le sue propensioni. Lo stereotipo di artista istintivo e quasi incolto che troppo a
lungo lo ha accompagnato appare davvero inconsistente se rapportato al contesto della Milano in cui operò e alla qualità
delle frequentazioni. Fu nel contatto ravvicinato con quell'ambiente che si sviluppò il suo precoce interesse per i grandi
autori della produzione drammaturgica europea. Vi germogliò anche, grazie a precise sollecitazioni, la sua capacità di
cogliere la valenza metaforica di certe scelte e di farsi quindi portavoce delle istanze patriottiche che lievitavano nel
subconscio collettivo. Ma in quella varia e stimolante gamma di esperienze è soprattutto da ricercarsi la fondamentale e
mai abbastanza evidenziata matrice pluridisciplinare dell'apprendistato verdiano. Una prerogativa che permise al
musicista di divenire, secondo la definizione di Silvio D'Amico presa poi a prestito da tanti altri, "il più grande
drammaturgo, il più grande 'uomo di teatro' del secolo"; e insieme il simbolo stesso dell'epoca romantica e risorgimentale
italiana.
Giovanni Battista Dell'Acqua, Il Naviglio di Porta Romana, 1835 circa, olio su tela, 86 x76 cm, particolare (Milano, Museo di Milano)
Il volto della Milano romantica e il mondo dell'arte
Fernando Mazzocca
Quando Verdi, all'inizio del nuovo secolo, concludeva i suoi giorni nella camera dell'Henel de Milan, lasciava una città
profondamente cambiata rispetto a quella che aveva avuto occasione di conoscere e frequentare dal momento in cui l'aveva
eletta come propria patria artistica. Di quella piccola metropoli, racchiusa da una cintura di verde e ancora poi dal nastro
azzurro formato dalla cerchia dei navigli, ci hanno lasciato uno straordinario ritratto, attraverso le loro vedute, i numerosi
specialisti di quel genere di pittura. Tra essi spicca certamente un artista allora popolarissimo, il bresciano Angelo Inganni,
che è stato il maggior interprete del volto della Milano romantica. Oltre alla rappresentazione di piazza del Duomo, che fu
certamente il suo cavallo di battaglia, egli predilesse la città destinata a scomparire, quella dei navigli e degli angoli meno
monumentali che di lì a non molto sarebbero divenuti, con lo sviluppo urbanistico seguito soprattutto all'unità d'Italia,
oggetto del rimpianto e della nostalgia, come nelle struggenti pagine dedicate alla vecchia cara "Milanin" dal romanziere
Emilio De Marchi.
I navigli, gran parte dei quali verranno interrati nel secolo successivo eliminando quella caratteristica molto particolare che
faceva di Milano una città d'acque, rappresentavano allora il tratto più distintivo e particolare del panorama milanese. Per
questo furono molto amati e rappresentati dai vedutisti, come Giovanni Migliara, Luigi Bisi, Giuseppe Canella, Luigi
Bartezzati, che seguendo le suggestioni del nuovo realismo romantico preferirono contrapporre alla visione della città
monumentale l'aspetto umile e feriale di questa Milano minore, dove le vecchie case si riflettevano nelle acque e la vita
appariva scorrere silenziosa, cadenzata da ritmi antichi.
Ma questa dimensione popolare riusciva poi a penetrare sino nel cuore della città, in quella stessa piazza del Duomo di cui
fu ancora Inganni a fare uno straordinario osservatorio sociale, preferendo privilegiare, rispetto all'immagine della
grandiosa cattedrale gotica, la rappresentazione del cosiddetto "Coperto" o "Portico dei Figini", che con i suoi negozietti, i
venditori ambulanti e un
Francesco Hayez, Autoritratto, 1848, olio su tela, 124 x94 cm (Milano, Pinacoteca di Brera)
incredibile campionario di varia umanità costituiva un vero microcosmo. Egli sapeva sicuramente, quando si ostinò a
ripetere per tanti anni queste vedute particolari della piazza, di dover rappresentare un angolo di Milano destinato a
scomparire; un angolo che in realtà, dopo la demolizione nel 1863 del Coperto dei Figini e, dieci anni dopo, del popolare
quartiere del Rebecchino, continuerà a sopravvivere solo nel ricordo delle generazioni più vecchie e attraverso questi
splendidi quadri.
Molto probabilmente anche Verdi sarà rimasto legato, vivendola e poi rievocandola attraverso gli occhi di Inganni, a
questa che era la Milano, fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, che aveva visto i suoi successi. La gente che il pittore
bresciano aveva identificato con tanta maestria, ritraendola lungo le rive dei navigli, tra la facciata e i portici prospicienti il
Duomo, nelle piazze innevate, era quella stessa che invadeva i teatri e in particolare la Scala, anch'essa un luogo
privilegiato dall'attenzione di Inganni, il quale ce ne ha lasciato una serie di vedute diventate molto popolari.
A quella stessa folla, che era poi il suo pubblico, Verdi doveva mescolarsi agli inizi di settembre, giusto al ritorno dalla
campagna, quando si ritrovava — come tutti a Milano — nelle sale dove si tenevano le esposizioni annuali organizzate
dall'Accademia di Belle Arti di Brera. Che il grande musicista fosse un frequentatore abituale di simili rassegne va dato per
scontato, tanto più che molto tempo dopo lo ritroviamo acuto osservatore all'Esposizione Nazionale di Torino del 1880. Lo
testimonia una lettera all'amico pittore Domenico Morelli, al quale segnala quello che gli sembra il quadro più bello, una
vastissima tela eseguita a Milano dall'allora esordiente Previati dedicata a uno scabroso episodio della storia d'Italia, Cesare
Borgia a Capua. Nella risoluzione da parte dell'artista di questo tema addirittura orgiastico Verdi intravede un impeto —
notando come "vi è dell'intemperanza, troppa foga, ma vi è sangue" — che sente probabilmente molto vicino alla propria
forte sensibilità. Questa testimonianza è la riprova di un perdurante interesse per un linguaggio, quello della pittura storica,
che risulta molto affine a quello del melodramma, non solo per la coincidenza dei soggetti ma anche per i modi con cui
questi vengono rappresentati sulla superficie della tela e sul palcoscenico. Del resto, in quella stessa occasione,
l'osservazione su Previati concludeva una lunga compiaciuta carrellata sugli importanti dipinti storici presenti, che il
Maestro aveva privilegiato su tutti gli altri.
In questa luce si comprende come il rapporto — non certo secondario e non senza importanti risvolti per la sua produzione
operistica — tra Verdi e il mondo dell'arte sia soprattutto quello con i due grandi protagonisti, in due momenti diversi,
della pittura di storia: Francesco Hayez, per quanto riguarda la fase romantica, e appunto Morelli, per il realismo
successivo. Dei due sodalizi, che dalla sfera culturale sconfinarono nel privato, quello con il pittore napoletano, più vicino a
Verdi per età, sembra essere stato il più profondo, o almeno quello documentato da un carteggio sicuramente molto fitto e
ricco di importanti scambi d'opinione, stando alle diverse e notevoli lettere pubblicate nel 1906 dal biografo di Morelli,
Primo Levi, e in tempi più recenti da autorevoli studiosi verdiani come Massimo Mila. Ma bisogna pur tenere conto che
Hayez e Verdi vivevano nella stessa città, e quindi erano minori le occasioni di uno scambio epistolare.
Se la relazione con Morelli sembra iniziasse nel 1858, in occasione della travagliata rappresentazione napoletana del Ballo in
maschera, quando insieme a Filippo Palizzi poté dipingere un ritratto del Maestro, quella con Hayez doveva risalire agli
esordi milanesi, anche se ne si ha una prima documentazione certa in una lettera del 1847. Verdi, entrando nel merito del
difficile allestimento di Macbeth, pretendeva che "i figurini sieno eseguiti bene, puoi essere certo che saranno fatti bene,
perché ho mandato a prenderne diversi a Londra, ho fatto consultare da letterati di primissimo ordine l'epoca e i costumi, e
poi saranno eseguiti da Hayez e dalli altri della commissione". Si trattava peraltro di una collaborazione anche
istituzionale, perché il pittore veneziano fu proprio il maggior referente della commissione, formata da altri professori
dell'Accademia di Brera, incaricata di seguire e controllare gli allestimenti scaligeri. Per esempio, tra le convocazioni
ritrovate nelle carte di Hayez c'è quella, datata 22 agosto 1858, relativa alla preparazione dei Due Foscari. Il fatto è molto
significativo, perché l'in
Francesco Hayez, Incontro tra Esaù e Giacobbe, 1844, olio su tela, 208 x300 cm (Brescia, Pinacoteca Civica Tosio Martinengo)
carico riguardava il popolare melodramma, allestito per la prima volta nel 1845, che presenta le più suggestive coincidenze,
insieme con I Lombardi del 1843 e I vespri siciliani del 1855, con la pittura di Hayez: cioè con le tre successive versioni (del
1840, 1844 e 1855) dei Foscari, con La sete dei crociati (1833-1850) e la seconda versione dei Vespri (1844-1846). L'immenso
dipinto, destinato al Palazzo Reale di Torino, che ritrae La sete patita dai primi crociati sotto Gerusalemme era ispirato ai
Lombardi di Tommaso Grossi e venne pensato da Hayez sin dagli inizi come il proprio capolavoro. Proprio durante la
lunghissima esecuzione del quadro, che non pareva avere mai fine, scoppiò il clamoroso successo dell'omonimo melodramma
verdiano, probabilmente influenzato dall'opera di Hayez, il quale a sua volta dovette ricevere nuovo slancio da quella
musica e dalla relativa messinscena, su cui non è da escludere un intervento diretto.
Un caso ancora più coinvolgente, all'interno della logica di queste suggestioni reciproche, riguarda un altro capolavoro di
Hayez, presentato a Brera nel 1844 dopo essere stato commissionato nel 1842 da un illustre esiliato, il marchese Filippo Ala
Ponzoni, con il lungo titolo Il doge Francesco Foscari destituito con decreto del senato Veneto, o sia, l'ultimo tratto della
vendetta dell'inquisitore Loredano contro quel principe della Veneta Repubblica. L'esposizione precedeva di pochi mesi la
"prima" (3 novembre 1844), al Teatro Argentina di Roma, dei Due Foscari verdiani. Ispirato al celebre dramma di Byron,
pubblicato nel 1821, il dipinto aveva voluto amplificare la tensione drammatica insita nel tristissimo epilogo della vicenda
umana e politica del venerando doge che, distrutto già negli affetti privati dalla perdita del figlio Jacopo (protagonista di
un altro popolare quadro di Hayez, eseguito nel 1838-1840 per l'imperatore d'Austria Ferdinando I), vedeva ora la propria
dignità e il proprio potere precipitare nell'infamia della destituzione. Ispirate entrambe alla stessa fonte letteraria, i versi
byroniani, la trascrizione pittorica e quella melodrammatica rivelano, nella trattazione del motivo comune della tragedia
del potere, molti punti di contatto e un'atmosfera sorprendentemente simile. Non è affatto da escludersi una suggestione
esercitata dal successo del dipinto sul librettista Francesco Maria Piave e su Verdi, in quei mesi nel pieno del loro fervore
creativo. In effetti, rispetto al testo letterario, i due media pittorico e musicale sembrano perseguire gli stessi effetti di
amplificazione emotiva e popolare del tema storico. Non a caso il musicista raccomandava al librettista, dopo aver
osservato "che in quel di Byron non c'è quella grandiosità scenica che è pur voluta dalle opere in musica", di mettere "alla
tortura il tuo ingegno" per trovare "qualche cosa che faccia un po' di fracasso".
La sintonia tra le opere di Verdi e la pittura di Hayez va certamente estesa anche alla straordinaria serie dei dipinti di tema
biblico che, a partire dall'Incontro tra Esaù e Giacobbe, si concentrano proprio nel corso degli anni Quaranta. Le
suggestioni orientaliste e l'estenuata sensualità suggeriscono atmosfere che si ritrovano in Nabucco o in Aida. In effetti la
sicura frequentazione da parte di Verdi delle esposizioni di Brera, o le visite negli studi degli artisti (non solo Hayez, ma
anche Cherubino Cornienti, Pietro Paoletti, Adeodato Malatesta), possono averne condizionato le scelte e stimolato una
fantasia visiva che doveva essere trasposta musicalmente. Il Maestro, proprio in anni decisivi per la propria formazione,
deve essersi servito in questi suoi itinerari nel mondo dell'arte di una guida di eccezione come Opprandino Arrivabene. È
nota, infatti, la profonda amicizia che lo unì a questo intellettuale mantovano esperto d'arte, che si era occupato di
esposizioni, come quando aveva recensito la rassegna braidense del 1838, avvertendo, proprio a proposito di Hayez, la
qualità scenica dei suoi dipinti storici, che trovava "come avvolti da un'atmosfera artificiale, e gli avvenimenti che
figurano, ci sembra di vederli piuttosto in un teatro che sulla grande scena del mondo: e questo voglio detto circa
l'intonazione e il colorito, non già per le altre parti che spettano al comporre, e alla espressione de' volti e alla dignità delle
movenze. Ma quando tu vieni innanzi ad uno di questi dipinti, e ti fermi e lo guardi a lungo, il tuo occhio si avvezza, dirò
cosi, a quella atmosfera artificiata, e quei visi e quegli atti parlano al tuo cuore, e quasi dimentichi di essere innanzi ad una
fredda tela, e credi a quel pianto o a quella letizia che il pittore ha voluto esprimere".
Questa straordinaria coincidenza, che fa di Hayez — se così si può dire — il pittore verdiano per eccellenza, non sembra
destinata a ripetersi neanche nel caso del grande amico Morelli. Nella sua opera non ritroviamo, infatti, alcuna coincidenza
con i temi verdiani, tranne che per I vespri siciliani, realizzati tra il 1859 e il 1860 ma così poco melodrammatici rispetto a
quelli di Hayez. Dunque, restano solo dei progetti, anche se a lungo vagheggiati e discussi tra i due amici, relativi a due
dipinti da dedicarsi al Trovatore e a Otello. Essi ne parlano a lungo nelle lettere; ne restano le tracce in una serie di bozzetti
dedicati a Otello che racconta le sue sventure a Desdemona, Otello svenuto a terra dopo le insinuazioni di Jago e Otello che
strangola Desdemona. Della mancata conversione del secondo di questi tre progetti in un'opera di vaste dimensioni ci dà
ragione lo stesso Morelli, confessando che il "quadro dovrebbe essere grande al vero, e dovrei avere coraggio di fare una cosa
scorretta, fatta male, perché desse l'impressione di quel che sento... ma cosa vuoi! C'è il professore, il commendatore, che mi
obbligherebbe a correggere, a far bene, a badare a tante cose, il quadro verrebbe forse buono, ma freddo".
Bisognerà allora attendere il 1880 perché un pittore veneto di grande talento, Pompeo Molmenti, seguace di Hayez, realizzi,
dopo averlo iniziato addirittura nel 1866, un monumentale dipinto sulla Morte di Otello. Fu inevitabile che ne risultasse
un'opera, anche se pittoricamente sontuosa, ormai fuori del tempo rispetto all'evoluzione dell'arte in quegli anni. Ma il
quadro è superbo proprio dal punto di vista scenico: dà infatti l'idea di essere la trascrizione di un allestimento operistico
contemporaneo. Non ci si spiega dunque perché Verdi, che l'aveva potuto vedere in quella stessa esposizione torinese dove
si era esaltato al Cesare Borgia di Previati, non lo menzioni, insieme agli altri dipinti da lui notati, nella lettera sopra citata
a Morelli. Ma era forse solo per un atto di delicatezza nei confronti dell'amico, che al suo Otello aveva dovuto rinunciare.
Sopra: Francesco Hayez, Il Doge Francesco Foscari destituito con decreto del Senato, 1842-1844, olio su tela, 274 x350 cm, particolare (Milano,
Pinacoteca di Brera) Sotto: Francesco Hayez, L'ultimo abboccamento di Jacopo Foscari, 1854, olio su tela, 120 x 167 cm (Firenze, Galleria d'Arte
Moderna)
Anonimo, Ritratto dell'impresario teatrale Bartolomeo Merelli, 1845 circa, olio su tela, 105 x88 cm, particolare (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Il sistema teatrale
Marcello Colla
Gli anni dell'apprendistato milanese di Verdi e del suo esordio in teatro (1832-1839) coincidono con un periodo di forte
crescita dell'"industria" del melodramma (così la definì in quel torno di tempo un attento osservatore della società italiana
quale Carlo Cattaneo) negli stati italiani del centro-nord, mai fino allora verificatosi con pari intensità e non più ripetutosi
in tali proporzioni, destinato a mantenersi oltre la crisi del Quarantotto, sino alla vigilia dell'unità. Alle basi di questo boom
stava, accanto al definitivo tramonto della committenza ecclesiastica, la grande ascesa dell'opera di Rossini nel corso degli
anni Venti, cui corrispose un processo più accentuato nell'istituzione di società filarmoniche, indispensabile punto di
riferimento per la formazione di orchestre locali da servire in occasione di stagioni teatrali e di "accademie", e
un'intensificazione dell'edilizia teatrale nei grandi, medi e fin piccoli centri. In quegli anni la capitale lombarda costituiva la
palestra ideale per intrecciare relazioni importanti e proficue con gli operatori del settore, per misurare le forze in campo,
per saggiare le proprie capacità. Di quegli stessi anni è la proliferazione, sempre in Milano, delle agenzie teatrali e la
crescente affermazione del giornalismo teatrale, spesso basato su un rapporto diretto con le stesse agenzie, sintomo
eloquente della progressiva concentrazione degli affari teatrali nella città della Scala, della Canobbiana, del Carcano, dei
Filodrammatici, del Teatro Re, che sta a conferma della funzione pilota che Milano veniva ormai assumendo sul piano
imprenditoriale ed editoriale, soppiantando quella Bologna che era stata il tradizionale punto di riferimento del ((mercato
del lavoro" teatrale. Tale situazione spiega perché il giovane Verdi non avesse esitato a orientarsi, per completare i propri
studi e iniziare la carriera, non — come sarebbe stato forse naturale per un musicista nato in terra emiliana — verso la
meno lontana Bologna, sede di un Liceo musicale nel quale s'erano formati Rossini, Pacini e Donizetti, bensì verso Milano;
una Milano ormai avviata a esercitare un vero e proprio monopolio del mercato operistico, sulla spinta del crescente
prestigio che la Scala ve-
Incisione ad acquatinta con i teatri di Milano (Filodrammatici, Scala, Stadera, Fiando, Carcano, Santa Radegonda, Re, Fossati, Canobbiana, dei
Giardini Pubblici), Milano, L. Cherubin "disegnò e incise, 1860" (Milano, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli)
niva acquistando con le opere dei tre maggiori compositori del momento: Bellini, Donizetti e Mercadante, e dell'attività di
due editori all'avanguardia sul piano della tecnologia della stampa, Giovanni Ricordi e Francesco Lucca, fra loro in
accanita concorrenza.
Ottima cosa sarebbe il Teatro a repertorio, ma non lo credo realizzabile. Gli esempi dell'Opéra e della Germania
hanno per me pochissimo valore perché in tutti questi teatri gli spettacoli sono deplorabili. All'Opéra splendida la
mise en scène, superiore per esattezza di costume e di buon gusto a tutti i Teatri, ma la parte musicale pessima.
Cantanti sempre mediocrissimi (toltone da qualche anno Faure), orchestra e cori svogliati e senza disciplina. [...l In
Germania le Orchestre ed i cori sono più attenti e coscienziosi,. eseguiscono esattamente e bene; malgrado ciò io ho
visto a Berlino spettacoli deplorabili. L'orchestra è grossa e suona grosso. [...] Cantanti... oh cantanti poi,' cattivi,
assolutamente cattivi. [...] A Vienna (è ora il primo teatro di Germania) le cose sono migliori dal lato dei Cori e
Orchestra (eccellentissimi). Io ho assistito a diversi spettacoli, ed ho trovato esecuzione delle masse buonissima,
mise en scène mediocre, cantanti al di sotto del mediocre, ma lo spettacolo ordinariamente costa poco, il Pubblico
(lo mettono all'oscuro durante lo spettacolo) dorme e s'annoia, applaude un po' alla fine d'ogni atto, ed alla fine
dello spettacolo se ne va a casa senza disgusto e senza entusiasmo. E ciò può andare bene per quelle nature
nordiche; ma porta un po' uno spettacolo simile in uno dei nostri teatri, e vedrai che sinfonie ti comporrà il
Pubblico! Il Pubblico nostro è troppo inquieto e non si contenterebbe mai d'una prima Donna come in Germania,
che costa 18 o 20 mila fiorini all'anno. Ci vogliono le prime donne che vanno al Cairo, a Pietroburgo, a Lisbona, a
Londra etc. per 25 o 30 mila franchi al mese, ed allora come si fa a pagarle? [...] Ora ti domando se coi nostri
Pubblici è possibile una compagnia fissa stabile almeno per tre anni! E poi sai cosa costerebbe all'anno una
compagnia come quella che è ora alla Scala? (Giuseppe Verdi a Opprandino Arrivabene, 5 febbraio 1876)
A differenza dei teatri del centro e del nord Europa, che agivano sulla base di un repertorio stabile, l'attività dei teatri
italiani si basava — secondo una prassi già secentesca, destinata a perpetuarsi fino ai nostri giorni — sulla "stagione", con
un numero limitato di spettacoli (di solito da due a quattro opere), ma caratterizzata da un alto numero di repliche
(mediamente da quaranta a cinquanta per stagione) e da un continuo ricambio di titoli e di interpreti (unica parziale
eccezione al sistema stagionale, i teatri reali del Regno delle Due Sicilie, in particolare a Napoli e a Palermo, la cui attività
si basava su un nucleo di opere in repertorio, con contratti di durata semestrale o annuale). A partire dalla Restaurazione il
sistema stagionale si resse su un'organizzazione consolidata, destinata a durare con una certa regolarità (fatta eccezione per
i trambusti determinati dal Quarantotto) fino all'unità. I teatri erano di proprietà privata, o meglio condominiale: fossero
gestiti direttamente dalla casa regnante o sostenuti, anche se municipali o comunicativi, dalle nobili società, la loro attività
dipendeva dai proprietari dei palchi attraverso una commissione artistica che di stagione in stagione, o di anno in anno,
procedeva alla gara d'appalto, cui gli impresari concorrevano versando, in caso di aggiudicazione, una sostanziosa cauzione
a garanzia dei contratti. Non mancavano tuttavia teatri a conduzione interamente privata, quali il Carcano di Milano, il
San Benedetto di Venezia, il Paglia-no di Firenze, e altri ancora.
La "stagione" era sottoposta a una sorta di ordinamento gerarchico che procedeva dal periodo dell'anno (il periodo di
carnevale, con o senza quaresima, nelle capitali e nelle città più importanti; il periodo di fiera in altre località) e che a sua
volta rispecchiava la gerarchia dei generi teatrali. Stagione primaria era considerata quella di opera seria con ballo
(sostituito, nei teatri di minore importanza, dai passi di danza). Erano considerate secondarie le stagioni con opera senza
ballo, generalmente limitate, ma non sempre, alla rappresentazione di opere semiserie e buffe, e la stagione con commedie. I
regolamenti per le orchestre fissavano gli organici sulla base, perlopiù, di tre tipi di spettacolo: uno per le opere serie (vale a
dire l'organico al gran completo), uno per le opere semiserie e buffe e per la commedia (più ridotto), uno per i veglioni
(solitamente diviso in due piccole formazioni strumentali). Nel corso dell'anno teatrale vi potevano essere una o più stagioni
primarie intervallate o seguite da una o più stagioni secondarie. Ad esempio alla Scala si davano solitamente due stagioni
primarie, entrambe con ballo grande: in carnevale-quaresima e in autunno. In primavera la stagione d'opera si spostava,
spesso con le stesse maestranze artistiche e tecniche della Scala, alla Canobbiana. A sua volta la vera stagione primaria
della Canobbiana cadeva in carnevale ed era costituita, così come al Carignano di Torino nello stesso periodo, da commedia
con ballo grande. Sempre a Milano, al Carcano le stagioni d'opera si succedevano senza una regola prestabilita: tuttavia in
questo teatro era tradizionale la stagione cosiddetta "di autunnino" che si collegava direttamente con il periodo di
carnevale. Spettacoli d'opera si allestivano anche al Teatro Re, principalmente votato alla prosa, al Lentasio, allo Stadera e
ai Giardini Pubblici. Alla Scala, alla Fenice di Venezia, al Carlo Felice di Genova, al Regio di Torino, al Regio di Parma, al
Filarmonico di Verona, al Comunale di Modena, al Sociale di Mantova, al Municipale di Piacenza, a Pesaro, a Vercelli, a
Cremona, la stagione primaria coincideva con la stagione di carnevale. In altri teatri la stagione primaria coincideva con il
periodo di fiera: in primavera a Reggio Emilia, a Ferrara, a Ravenna; in estate a Bergamo (la fiera più importante del
Lombardo-Veneto), a Brescia, a Padova, a Trento, a Vicenza, a Lugo, a Senigallia, a Macerata; in autunno a Bologna, a
Treviso, a Rovigo, a Varese e altrove.
Tu dovresti scrivere al Sr Conte Boldù Podestà [...1 che preferiresti sempre di avere una compagnia alla moderna
cioè 1' Donna, 1° Tenore, 1° Baritono, ed una buona Donna di spalla soprano, invece di due prime Donne,
essendovi di queste troppa scarsità. (l'impresario Alessandro Lanari a Gaetano Donizetti, 25 febbraio 1837)
Se nel primo Ottocento la stagione era imperniata sul "musico" (castrato o prima donna contralto) affiancato da una prima
donna assoluta e da un primo tenore, oppure sulla coppia di due prime donne assolute, nel corso degli anni Trenta le
compagnie di canto scritturate per la "stagione" cominciarono a basarsi prevalentemente su una triade di cantanti formata
da una prima donna assoluta, da un primo tenore assoluto e da un primo "basso cantante" (ovvero baritono) assoluto; assai
più raramente su due prime donne. Ma non mancavano eccezioni: ad esempio alla Fenice di Venezia nella stagione 1845-
1846 furono scritturati quattro primi cantanti, per i quali Verdi compose Attila. In quella successiva, alla Pergola di
Firenze, i cantanti primari erano solo due, una prima donna e un basso cantante; per loro Verdi compose Macbeth . Anche
nelle compagnie di canto esistevano delle precise gerarchie: non solo v'era sostanziale differenza fra una prima donna
assoluta e una semplice prima donna (oggi diremmo una comprimaria), ma ve n'erano anche nel livello professionale; era
definito "di gran cartello" l'artista che cantava nei grandi teatri primari (che erano soprattutto la Scala, il San Carlo, la
Fenice, l'Apollo, la Pergola), e solo "di cartello" chi aveva raggiunto notorietà in stagioni primarie di importanti piazze
(quali ad esempio Bergamo, Padova, Brescia, Cremona, Reggio Emilia, Lucca).
Coi grandi vantaggi dell'orchestra invisibile si potrebbero tollerare anche le mancanze inevitabili di forza e
sonorità, il suono nasale ed infantile che assumerebbe l'orchestra messa, dirò così, coi sordini. Ma se l'orchestra
completamente invisibile non è possibile, come lo dimostrano non solo l'Opéra, [mal molti teatri in Germania, e
perfino Monaco e Berlino (ripeto completamente), tutte le modificazioni che farete sono puerili, non hanno nulla a
fare coll'arte; ed ahimè, credo che da qui a 30 anni si riderà di questi nostri trovati. (Giuseppe Verdi al maestro
Edoardo Mascheroni, 8 dicembre 1893)
Giovanni Pividor, Veduta della sala teatrale della Fenice con la "tendina" di Giovanni Busato raffigurante Enrico Dandolo che rinuncia alla corona
d'Oriente, 1837, litografia colorata, 27 x36 cm (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
È soprattutto sul nesso pressoché indissolubile tra fiera e stagione che si innesta il grande incremento produttivo degli anni
Trenta e Quaranta, cui parallelamente corrisponde la crescita dell'edilizia teatrale, particolarmente nelle medie e piccole
località del centro-nord d'Italia. La struttura di questi nuovi teatri, quali ne fossero dimensioni e capacità, rispecchia la
tradizionale struttura del teatro ad alveare ovvero all'uso di Venezia affermatosi fin dalla seconda metà del Seicento, vale a
dire con tre o più file di palchi, conforme tuttavia una struttura interna a ferro di cavallo, concepita sia in termini di
socialità (in riferimento al carattere pubblico-privato del luogo), sia in termini di visibilità dello spettacolo, sia soprattutto
in termini di acustica, secondo una dimensione architettonica perfezionatasi alla fine del Settecento sulla base della lezione
esemplare di Piermarini (Scala, 1778) e di Selva (La Fenice, 1792). La struttura interna di quei teatri storici, che tuttora
sopravvivono, solo in apparenza ci è pervenuta inalterata. In realtà essa ha subito, a cominciare dagli ultimi anni del secolo
scorso, modifiche profonde che ne hanno radicalmente alterato i rapporti acustici originari, attraverso il taglio del proscenio
originale per far luogo, dietro le forti suggestioni esercitate dai fautori del dramma wagneriano e dell'orchestra invisibile, al
cosiddetto "golfo mistico" ovvero alla fossa orchestrale, vale a dire a una cassa armonica supplementare che si sovrappone a
quella originariamente concepita all'interno della sala del teatro, con immediati e irrimediabili riflessi sui rapporti fra le voci
(cui viene così sottratto il proscenio, luogo deputato al canto protagonistico) e gli strumenti, e con decisive conseguenze
sulla tecnica vocale sviluppatasi fra Sette e Ottocento. Oltre che dannoso, l'aspetto risibile della trasformazione subita dai
teatri storici in omaggio alle esigenze del cosiddetto "dramma musicale" (adattamento entro il quale sono ormai costrette,
come su un letto di Procuste, anche le opere anteriori alla riforma wagneriana) sta nel fatto che l'orchestra non è del tutto
invisibile, almeno dal settore dei palchi (ben altra logica e coerenza aveva mostrato Wagner nel far costruire a Bayreuth un
teatro ad hoc, destinato esclusivamente — almeno nelle sue intenzioni — all'esecuzione del Ring e del Parsifal).
Ernani, locandina per la prima rappresentazione, Venezia, Teatro La Fenice, 1844 (Venezia, Archivio Storico Fenice)
So benissimo che i tempi sono critici […] ma tu pure sai che ho dieci anni avanti di me, ed in questo tempo le vicende
teatrali possono migliorare […] Non voglio nonostante ostinarmi e accetterò le tue proposizioni, cioè di darmi per dieci anni
il 30 per cento per ogni nolo che farai, ed il 40 per cento sulle vendite in tutti i paesi […] Se ciò ti conviene, bisognerà
aggiustare i conti fino a questo momento, indi tu terrai la scrittura di ogni nolo e d'ogni vendita che farai, le quali saranno
da me o da persona da me delegata riviste due volte all'anno: alla fine di Giugno e di Dicembre tu sborserai il denaro a me
devoluto". (Giuseppe Verdi a Giovanni Ricordi, 31 gennaio 1850)
In dieci anni Verdi ha realizzato una di quelle fortune colossali che non si guadagnano d'ordinario che alla Borsa. Il
prezzo delle sue partiture ha preso un tale sviluppo, che le sue ultime opere gli sono state pagate 60.000 franchi da
Ricordi, di Milano. Inoltre egli percepisce dei diritti d'autore. In Italia, ecco in quale modo si esercitano tali diritti.
Un compositore fa un'opera, ne vende la partitura a un editore; questi la noleggia per stagione di tre mesi a
differenti direttori. Su questi noli Verdi si riserva la metà del prezzo: il Trovatore non si noleggia a meno di 5000
franchi a stagione; vi sono quattro stagioni e ottanta teatri in Italia; fate i conti. Ma tutti i teatri non sono in
condizione di pagare 5000 franchi il nolo d'una partitura; il mestiere del compositore sarebbe troppo bello; ciò non
ha tuttavia impedito al Trovatore di incassare, da parte sua, in un anno, 80.000 franchi.
Si comprende che guadagnando tanto facilmente così grandi somme nei teatri d'Italia, Verdi non si preoccupa che
mediocremente di lavorare per l'Opéra di Parigi, dove i diritti del compositore sono abbassati ai diritti del
paroliere, dove tutti i vantaggi pecuniari sono per i cantanti. Nello spazio di venticinque anni, cosa pensate
abbiano reso le quattrocento rappresentazioni di Roberto il Diavolo, il più grande successo conosciuto, a
Meyerbeer? 45.000 franchi! quaranta rappresentazioni a 250 franchi, cioè 10.000 franchi! trecento sessanta a 100
franchi, cioè 36.000 franchi! Paragonate dunque i venticinque anni di Roberto con un solo anno del Trovatore!
L..1 Oggi Verdi è, con Meyerbeer, il primo compositore di Francia, d'Allemagna e d'Italia. Ma Meyerbeer sta
invecchiando, mentre Verdi è in tutta la forza dell'età. (Charles de Boigne, Petits mémoires de l'Opéra, Librarie
Nouvelle, Paris 1857, pp. 334-336)
Si calcola che intorno al 1840 fossero attivi in Italia (compresi Nizza, il Trentino, Trieste e Fiume) non meno di 150 teatri.
Sulla base dei dati ricavati dallo spoglio dei giornali teatrali dell'epoca oltre 170 furono in quell'anno le stagioni d'opera, di
cui 67 in carnevale. Dieci anni dopo la cifra aumenta a oltre 220, di cui 77 in carnevale e ben 68 in autunno. Da una
statistica pubblicata nel 1865 da "Le Monde musical" di Pietroburgo risulta che in Italia c'erano 347 teatri, contro 337 in
Francia, 168 in Spagna, 150 nell'impero austriaco, 150 in Gran Bretagna, 76 in Prussia, 115 negli altri stati tedeschi. Ma a
differenza degli altri paesi, dove l'attività prevalente si svolgeva sul versante del teatro di prosa, in Italia la quasi totalità
dei teatri era votata, almeno per una o due stagioni all'anno, all'opera.
Notificazione di Francesco Lucca all'Imperiale Regia Censura Centrale relativamente alle "Sei Romanze per Canto e Pianoforte", 11 novembre 1845
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Il libretto relativo sarà a carico del Maestro L.] gli conterà L. austriache 12.000 dodicimila in tre eguali rate. La
prima all'arrivo alla piazza, la seconda alla prima prova d'orchestra, la terza fatta la prova generale. Gli artisti che
dovranno eseguire l'opera nuova del M.° Verdi saranno scelti dal M.° stesso dall'elenco della compagnia. (dal
contratto con il Gran Teatro La Fenice di Venezia per Emani, 25 maggio 1843)
Si parla di monopolio, di abuso di proprietà, e se ne parla con tanta impudenza quale non si adoperò maggiore per
condannare i Ladri della proprietà altrui. Mentre gli sforzi degli Italiani sono rivolti a mettersi a livello delle grandi
nazioni che garantiscono e rispettano i diritti d'autore (il frutto dell'intelletto, la più legittima delle proprietà)
sarebbe curioso che io non potessi disporre delle note mie nel modo che mi pare più conveniente! (Giuseppe Verdi a
Tito Ricordi, 7 febbraio 1862)
Sin quasi dagli esordi Verdi introdusse alcune radicali innovazioni nei suoi rapporti con il mondo del teatro: innanzitutto
trattò sempre direttamente i propri affari con editori, impresari, direttori di teatro, senza mai rivolgersi a intermediari.
Stabilì per contratto i modi di pagamento; si riservò, sempre per contratto, la scelta degli interpreti (a partire dall'Emani);
fissò le modalità delle prove. Infine, dopo l'esperienza parigina della Jérusalem, introdusse nei contratti editoriali il
principio del diritto d'autore attraverso il nolo della partitura (e ciò a partire appunto da Jérusalem e dalla Battaglia di
Legnano).
La crisi economica e finanziaria che durante il primo periodo unitario si abbatté sull'industria operistica (e su quella
musicale in genere), crisi segnata dalla soppressione delle sovvenzioni governative ai teatri delle nobili società (1867) e
aggravata dall'introduzione di una tassa erariale del 10 per cento sui biglietti (1868), ebbe immediato riflesso sulla gestione
dei teatri di proprietà condominiale. Ne conseguì il crollo verticale, in fatto di livello artistico, di teatri primari quali la
Canobbiana di Milano, il Carignano di Torino, La Fenice di Venezia (che rimase chiusa dal 1860 al 1866), il Giglio di Lucca,
il Comunale di Modena, la Fenice di Senigallia, per citarne solo alcuni. La liberalizzazione economica attuata nel settore
teatrale consentì tuttavia una maggiore iniziativa alle imprese private. Mutata la situazione politica e amministrativa,
scomparso il mecenatismo delle corti, venuto meno il sostegno economico delle famiglie patrizie, l'attività teatrale si apriva
ancor più all'iniziativa privata, che peraltro necessitava di nuovi spazi teatrali non gravati da oneri condominiali. Da qui la
nascita di nuovi edifici teatrali, perlopiù politeami, di più agile gestione e di meno onerosa conduzione economica, destinati
a fare concorrenza ai teatri storici di proprietà condominiale: il Brunetti a Bologna, il Pagliano a Firenze, il Paganini à
Genova, il Vittorio Emanuele a Torino, il Mauroner a Trieste, il Ristori a Verona, il Dal Verme a Milano, e così via. Anche
la struttura di questi teatri rispecchiava nella sostanza l'architettura a ferro di cavallo, con proscenio avanzante oltre
l'arcoscenico in direzione della sala; ma non sempre rifletteva la tipica struttura ad alveare del teatro all'uso di Venezia nella
disposizione dei palchi, sempre più sostituiti dalle logge, dalle cosiddette "barcacce", infine dalle balconate.
Ma un altro importante fenomeno distingue l'ultimo quarantennio dell'Ottocento rispetto al periodo preunitario. Si tratta
di una rivoluzione a suo modo epocale, verificatasi a partire dalla raggiunta unità politica italiana. Nel nuovo clima
economico i veri datori di lavoro per gli operisti non erano più gli impresari, non più le direzioni teatrali, bensì gli editori.
Erano essi che commissionavano le opere nuove, stendevano contratti, stipendiavano i giovani esordienti, organizzavano
direttamente o, più spesso, indirettamente le stagioni d'opera dei principali teatri italiani. In particolare Ricordi e Lucca,
l'un contro l'altro armati, ai quali veniva ad aggiungersi giusto in quegli anni — nel 1874, per la precisione — Edoardo
Sonzogno, che già si stava procurando velocemente l'esclusiva per l'Italia dei lavori di alcuni autori francesi e che di lì a
poco avrebbe organizzato (1883), alla febbrile ricerca di giovani talenti, un concorso nazionale per un'opera in un atto,
muovendo una guerra senza quartiere nei confronti di Ricordi, in specie dopo che questi avrà assorbito Casa Lucca (1888)
con tutto il suo imponente repertorio, compresi tutti i contratti in corso.
Questi impresari non hanno ancora capito che quando le opere non si possono dare nella loro integrità, come sono
state ideate dall'autore, è meglio non darle; non sanno che la trasposizione di un pezzo, di una scena è quasi sempre
la causa del non successo d'un'opera. Immaginati quando si tratta di cambiare argomenti!! (Giuseppe Verdi a
Vincenzo Luccardi, 1 dicembre 1851)
Nelle musiche attuali la Direzione musicale e drammatica è una vera necessità. Una volta una prima Donna un
tenore con una cavatina, un Rondò, un Duetto etc. etc. potevano sostenere un'opera (se era un'opera); oggi no. Le
opere moderne, buone o cattive, hanno intendimenti ben diversi! [...l Predicate il bisogno assoluto di uomini capaci
alla Direzione delle musiche teatrali, mostrate l'impossibilità dei successi senza un'interpretazione intelligente.
(Giuseppe Verdi a Giulio Ricordi, 5 febbraio 1871)
1-...] ho cercato di rimontare alcuni dei nostri Teatri e darvi spettacoli un po' convenienti [...]. Tu sai che a Milano
ed a Parma io v'era di persona, a Padova no, ma io mandai là gli stessi coristi di Parma, lo stesso scenografo,
macchinista, attrezzi, vestiari come a Parma. Mandai Faccio che aveva diretta l'opera a Milano. Stavo tutti i
giorni in carteggio di quanto succedeva e l'opera andò bene. Folla al teatro e guadagni. L'impresario venne ieri fin
qui a ringraziarmi ed apparentemente non mi doveva nulla. Così ho fatto ora per la Forza del Destino a Brescia.
Stando qui ho sorvegliato a tutto [...]. Ora mi occuperò di Napoli e qui è un po' più difficile. A Napoli come a
Roma perché hanno avuto Palestrina, Scarlatti, Pergolese credono di saperne più degli altri.. (Giuseppe Verdi a
Opprandino Arrivabene, 29 agosto 1872)
In questo nuovo clima, contando sulla collaborazione di Giulio Ricordi, Verdi procedette con maggiore determinazione nel
tentativo di riformare i sistemi esecutivi, musicali e scenici, in uso nei teatri italiani. Avviato alla Scala con la nuova
versione della Forza del destino nel 1869, il tentativo trovò in Aida la circostanza più propizia. In tal senso l'" operazione
Aida" può essere interpretata come una sorta di Bayreuth italiana (per singolare coincidenza il 22 maggio 1872, a pochi
mesi dalla "prima" scaligera di Aida, veniva posta a Bayreuth la prima pietra del Biihnenfestspielhaus). Il tentativo di
riforma — avviato negli anni in cui in Italia si stavano affermando i primi direttori d'orchestra in senso moderno: Mariani,
Faccio, Pedrotti, Usiglio, Rossi, Mascheroni, Mancinelli, Martucci — mirava soprattutto a elevare la qualità delle masse
orchestrali e corali, a sottoporre la messinscena al servizio del dramma musicale, a migliorare tecnicamente gli strumenti
d'orchestra, a disporre l'organico orchestrale per sezioni unite, a unificare il diapason (e a quest'ultimo proposito è
significativo che nei contratti per Aida l'editore Ricordi, adeguandosi a una precisa istanza dell'autore, imponesse la
clausola del diapason normale, che a quel tempo era, sull'esempio del diapason francese, di 435 Hz).
Mi vien da ridere quando leggo, o sento dire "un effetto che l'autore non s'era immaginato"! Poveri innocenti! Per
quelli che non conoscono né canto né orchestra può darsi, ma per me non ho mai trovato né cantante né orchestra
che m'abbiano reso tutto quello che domandavo. (Giuseppe Verdi a Giulio Ricordi, 5 febbraio 1871)
L. De Vegni, Giuseppe Verdi all'epoca di Nabucco, 1842, litografia realizzata da un disegno di G. Turchi, 37 x27 cm (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Il "vate del Risorgimento": Nabucco e "Va pensiero"
Roger Parker
Nabucco, rappresentato per la prima volta alla Scala di Milano nel marzo del 1842, ha sempre rivestito un ruolo particolare
nella produzione del primo Verdi; questa sua collocazione può darci informazioni importanti sull'atteggiamento deí critici
nei confronti del compositore e delle sue opere. Il caso di Nabucco e le particolari ragioni della sua posizione di privilegio
sono evidenti. Nella mente di molti è questa l'opera verdiana più significativa, per ragioni che vanno al di là della somma
dei suoi aspetti verbali, scenici e musicali. Nonostante siano spesso citate la discontinuità drammatica e l'impeto ritmico e
melodico (elementi che avrebbero potuto, in altre circostanze, relegarla fra le opere minori del giovane Verdi), l'opera è
stata alimentata e sostenuta da uno straordinario accumulo di significati extramusicali; gli italiani la trattano con quel
misto dí condiscendenza e timore reverenziale che contraddistingue un vero monumento nazionale.
La ragione di questa attenzione e di questo affetto tutti speciali non è difficile da individuare: risiede fondamentalmente nel
persistente legame dell'opera (nell'immaginario popolare ma anche in molta della letteratura specialistica) con radicali
mutamenti politici e sociali; il riferimento specifico è naturalmente al Risorgimento italiano, a quella grande propulsione
verso l'unità nazionale che ebbe un suo primo culmine nel periodo dei primi successi di Verdi, nella seconda metà degli anni
Quaranta. Questa connessione dí musica e politica, di arte e vita è quasi rituale, e nessuna discussione o rappresentazione
del lavoro può sottrarvisi. L'idea di Nabucco, in breve, è centrale per l'immagine di Verdi come artista "impegnato", come
"vate del Risorgimento", il bardo della lunga lotta dell'Italia per diventare qualcosa di più di una semplice espressione
geografica. Ai funerali di Verdi, nel 1901, le migliaia di persone in lutto che scesero in strada avrebbero potuto onorare il
loro massimo compositore con una qualsiasi delle sue popolarissime melodie; ma, proprio in quell'occasione, cantarono le
melodie del Nabucco.
In parte, questa immagine si è conservata così tenacemente anche fra gli specialisti verdiani perché la recente proliferazione
di studi su Verdi non ha portato alla luce fatti particolarmente rilevanti riguardo all'opera e alla sua genesi. L'assenza di
materiale documentario (corrispondenza, memorie e aneddoti contemporanei) ci rammenta di continuo che Verdi divenne
famoso solo con Nabucco; durante la sua composizione era infatti ancora un personaggio sconosciuto, ignorato dall'élite
culturale milanese, in contatto per lo più solo con gli amici della provinciale Busseto. Lungi dunque dall'essere "l'opera
successiva", Nabucco divenne "la prima opera": un lavoro senza precedenti significativi, slegato dalle consuete implicazioni
della carriera e della continuità. Come afferma Verdi verso la fine di un racconto autobiografico, "Con quest'opera si può
dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica". Una tale strategia, intenzionale o meno, ci ha indotti ad
associare a Nabucco una serie di vicende politiche, religiose e personali, a sostituire i dati documentari con l'aneddoto, le
osservazioni critiche con le metafore.
Non appena esaminiamo il fenomeno più da vicino, ci accorgiamo di un fatto curioso: che il mito di Nabucco ruota in gran
parte intorno a un solo brano. Più di qualsiasi altra opera di Verdi, Nabucco è immaginato essenzialmente come un unico
momento, una ispirazione lirica che rappresenta (e forse, per qualcuno, giustifica) tutto il resto. Ci riferiamo, ovviamente, al
famoso coro del terzo atto "Va pensiero sull'ali dorate", nel quale gli schiavi ebrei in esilio lamentano la perdita della patria:
è proprio questo il brano che migliaia di persone cantarono accompagnando la salma di Verdi nel 1901. Quasi ogni volta
che "Va pensiero" è evocato, ci vengono fornite indicazioni sul suo significato: lo scenario biblico, la storia di
Nabucodonosor e degli ebrei ridotti in schiavitù erano e sono, ci dicono, trasparenti. La metafora è di nuovo spiegata: è
vero che Verdi e il suo librettista danno apertamente voce agli "schiavi ebrei" che lamentano il loro esilio da Israele, ma in
realtà si tratta di un dialogo segreto con il pubblico. Tutti sapevano che gli schiavi ebrei erano nient'altro che una finzione,
un puro e semplice travestimento operistico. Il vero intento del coro era quello di espriinere i profondi sentimenti degli
italiani dell'epoca, la "perdita" della loro patria, allora sotto il giogo di una dominazione straniera.
Questo significato di "Va pensiero", inserito in un contesto politico del tutto indipendente da quello musicale, si riflette in
tutte le versioni a stampa di Nabucco che precedono la recente edizione critica. In quelle prime stampe difatti al coro è
assegnato il titolo "Coro di schiavi ebrei", ed esso compare isolato, come "numero" a sé. Ma, se consideriamo le versioni
originali del testo letterario e musicale, appare chiaro che Solera e Verdi, quando scrissero questo pezzo, concepirono il coro
come inscindibile dalla "Profezia" dí Zaccaria che segue. In effetti, il titolo che Verdi appose nella partitura autografa
unisce esplicitamente i due momenti come "Coro e Profezia". Uno sguardo all'intero testo verbale del "numero" conferma
l'interdipendenza esistente fra il coro e la successiva profezia: entrambi sono interamente costituiti
da quartine, e i loro schemi ritmici sono quasi identici. Anche il soggetto della scena concorre a creare questo senso di
continuità: il coro è caratterizzato dalla nostalgia per una patria perduta, una patria ricordata con una sorta di inno
arcadico alla natura, ma si conclude su una nota di tristezza, l'evocazione del dolore presente alla luce di una felicità
passata:
Zaccaria (che non ha un preciso equivalente biblico, ma è chiaramente modellato sul profeta Geremia) risponde poi al coro
in modo diretto ed energico, biasimandone la passività e offrendo una sanguinaria immagine della vendetta del Signore. Le
sue prime parole non sono altro che la versione italiana di "nicht diese Thne", e la sua macabra visione della terra desolata
che diverrà Babilonia è in forte ma ovvio contrasto con l'idilliaca descrizione della patria perduta fatta dal coro. La profezia
è, in breve, chiaramente intesa come un'alternativa positiva alle velleità del coro, una reazione necessariamente violenta al
problema dell'esilio.
A questo punto sorge spontanea la domanda: che cosa in "Va pensiero" può aver dato origine alla sua collocazione speciale
nel corpus verdiano? È possibile individuare gli ingredienti verbali, musicali o forse addirittura (anche se sembra
all'apparenza improbabile) drammatici che hanno portato a farne quasi una reliquia? Perché proprio questo brano, e non i
numerosi altri che esprimono sentimenti simili, ha assunto un significato così straordinario? Indubbiamente, la musica
stessa è in grande misura responsabile di quanto si è verificato.
I versi corali sono messi in musica nella più semplice delle forme ternarie; la risposta di Zaccaria è formalmente meno
statica, e si suddivide sostanzialmente in due sezioni. L'indizio più evidente del fatto che la profezia riprenderà elementi di
"Va pensiero" si manifesta nelle prime misure di Zaccaria, nelle quali la linea vocale e il sostegno armonico riprendono con
vigore idee tratte dalla coda del coro immediatamente precedente. La tendenza di Zaccaria a enfatizzare alcuni elementi
musicali del coro, a introdurre in essi un nuovo slancio tonale e ritmico, è chiaramente in linea con il contesto drammatico,
con il fatto che Zaccaria incoraggia all'azione piuttosto che a un lamento passivo. Non solo: essa si dimostra paradigmatica,
come risulta evidente a diversi livelli musicali. Da questo punto di vista, "Va pensiero" funziona in un contesto più ampio; a
dispetto del suo status futuro, della sua idealizzazione e del coinvolgimento in questioni extra-musicali, esso risulta
musicalmente dipendente dal brano al quale è collegato nella partitura verdiana.
Comunque sia, non ci sono dubbi sul fatto che "Va pensiero" sia un coro dalle qualità inedite: prevalentemente all'unisono,
molto lento, sembra aspirare ad assumere il carattere di un inno. Cosa ancora più importante, lungi dal manifestare
qualsiasi sforzo di ottenere varietà ritmica, di neutralizzare la ripe-
Manifesto della stagione scaligera 13 agosto - 30 novembre 1842, in cui si evidenzia, dato il successo ottenuto, il titolo di Nabucodonosor (Milano, Museo
Teatrale alla Scala)
tizione anapestica insita nella forma metrica del testo, "Va pensiero" sembra accettarne pienamente i vincoli e i
procedimenti ripetitivi. È interamente costituito da frasi di quattro misure (non meno di otto consecutive); inoltre ogni
frase (tutte, eccetto due delle semifrasi) comincia con lo stesso ritmo di ottavo puntato e sedicesimo. Non c'è mai un
tentativo di manipolare l'andamento ritmico, e tutta la varietà sgorga dal graduale prevalere del ritmo di terzina su quello
puntato. Non può passare inosservato il fatto che "Va pensiero" crei deliberatamente un effetto incantatorio, in cui
ripetizioni ritmiche su scala ampia e ridotta si combinano per evitare la varietà, per offrire ciò che ci si aspetta.
Ancora una volta la profezia funge da catarsi, mettendo in rilievo l'estrema stabilità e prevedibilità ritmica del coro
attraverso una violenta contrapposizione. Il recitativo e la prima parte lirica ("Del futuro nel buio discerno") hanno una
nuova tensione dinamica. Quindi, a "Niuna pietra ove surse l'altera", Zaccaria riprende un caratteristico elemento ritmico
di superficie di "Va pensiero", ma con un ritmo armonico più serrato e con sincopi drammatiche che liberano finalmente la
musica dal dominio della semifrase di due misure.
La questione centrale è stata ormai sufficientemente sottolineata: dal punto di vista musicale, "Va pensiero" è tutt'altro che
un brano indipendente. In realtà, se si considera l'intero numero ("Coro e Profezia") come un'unità musicale, assumono un
senso la staticità e la monocromia, intenzionali e necessarie, del coro. Per dirla in altro modo, forse più alla moda, il coro è
connotato proprio dalle sue assenze, dal contrasto che evita di offrire, dalla varietà che non si preoccupa di conseguire.
Estrapolare "Va pensiero", separarlo dal suo scioglimento testuale e musicale, sembrerebbe far violenza, sul piano musicale,
alle intenzioni drammatiche di Verdi.
Siamo giunti, evidentemente, a un punto cruciale. È chiaro che "analisi" e "ricezione" sembrano contraddirsi. La nostra
indagine musicale suggerisce che "Va pensiero" è musicalmente anomalo, se considerato in sé, e ché evidenzia una forte
dipendenza dal suo immediato contesto musicale. La storia della ricezione, d'altro canto, ha messo in rilievo l'opposto:
l'appropriazione del coro, la sua idealizzazione e collocazione in una sorta di empireo. La ricerca soggettiva, la descrizione
musicale, devono indubbiamente arrendersi ai fatti. E i fatti sembrano suggerire che, sin dalla prima rappresentazione, il
pubblico si impadronisse di "Va pensiero", lo isolasse dal suo contesto, ne facesse un appello per il defraudato popolo
italiano. Franco Abbiati, ancora oggi il principale biografo italiano di Verdi, convalida questa ipotesi. Cita una recensione
alla "prima" di Nabucco alla Scala, nel marzo 1842, in cui si riferisce che il pubblico richiese un bis del coro, nonostante un
proclama austriaco vietasse tali manifestazioni pubbliche. La vicenda è ripresa da molti altri; in realtà, è solo un luogo
comune nella storia della ricezione verdiana.
Tuttavia, come diversi autori hanno recentemente rilevato, uno sguardo ravvicinato e obiettivo ai documenti precedenti il
1848 mostra un'imbarazzante scarsità di prove che Verdi lanciasse un appello in favore di un nazionalismo italiano; molti
sono invece i riscontri che inducono a conclusioni opposte. Gli stessi aneddoti sono ripetuti così spesso da assumere il ruolo
di una "testimonianza storica", che lo meritino o no. La questione di "Va pensiero" non costituisce eccezione. In effetti il
passo citato da Abbiati, riferito a un ipotetico bis del coro, non compare affatto nella recensione alla quale sostiene di
attingere: Abbiati se lo inventò, o piuttosto (esempio interessante di etica dello studioso) lo trasse da tutt'altra recensione,
riferita a un coro diverso. Ma la ricezione contemporanea di "Va pensiero" coinvolge questioni più profonde, che non si
limitano certo alla recensione falsificata di una rappresentazione. Di fatto, un attento esame di tutte le recensioni della
prima rappresentazione non rivela alcuna accoglienza insolita del coro; "Va pensiero" fu indubbiamente citato e lodato, ma
non c'è alcun accenno al fatto che sollevasse un entusiasmo particolare. Lo stesso può dirsi per la seconda serie di
rappresentazioni a Milano, nell'autunno del 1842, la stagione nella quale l'opera ebbe ben cinquantasette repliche, un
numero senza precedenti, e pose un sigillo al successo milanese di Verdi. Si potrebbe continuare così per tutta la storia delle
rappresentazioni di Nabucco fino al 1848: per il periodo, cioè, in cui si dice che i famosi cori di Verdi divenne-
Giuseppe Bertoja, Orti pensili, bozzetto per Nabucco, parte terza, 4 [Venezia, Teatro Apollo, 1850] (Collezione privata)
ro un simbolo delle aspirazioni politiche degli italiani. In tutto questo tempo, in tutte le recensioni per le centinaia di riprese
di Nabucco nella penisola, le circostanze in cui "Va pensiero" fu isolato per tesserne particolari lodi, o citato per aver
suscitato particolare entusiasmo, sono sorprendentemente limitate. Molto spesso si legge del duetto di Abigaille e Nabucco
nel terzo atto, degli impressionanti finali concertati, dell'inno conclusivo "Immenso Jeovha" o addirittura del fulmine che
colpisce Nabucco nel secondo atto; ma del simbolo per eccellenza del nazionalismo italiano non c'è praticamente traccia.
L'ipotesi che questa assenza di testimonianze sia semplicemente conseguenza della censura è di primo acchito allettante, ma
in ultima analisi del tutto inaccettabile. Abbiamo troppi riferimenti ad altri cori di Rossini, Mercadante e dello stesso Verdi
che si suppone "infiammassero" gli animi, perché questa ipotesi sia credibile. La prova più evidente, la prova che da sola
mette in dubbio, di fatto, tutta la reputazione di Verdi come "bardo del Risorgimento", giunge dal momento di massima
crisi, proprio dal 1848. Allora — pensiamo noi — la voce di Verdi avrebbe finalmente potuto farsi sentire libera da ogni
limitazione, allora si sarebbero potuti conoscere i veri sentimenti degli italiani nei confronti del loro eroe nazionale. La
documentazione relativa agli eventi operistici in questo periodo è purtroppo difficile da reperire, dal momento che la
maggior parte dei giornali teatrali fu chiusa nella fase di crisi; ma la famosa testata bolognese "Teatri, arti e letteratura"
riuscì in qualche modo a mantenere la sua attività. L'Italia (e naturalmente molte altre parti d'Europa) era in piena
rivoluzione; la censura sulla stampa a Bologna era scomparsa e il giornale poteva finalmente esprimere le proprie opinioni
politiche e musicali. Quasi a titolo di risposta, nel maggio 1848 vi apparve un lungo articolo che riassumeva gli eventi
musicali della penisola. La maggior parte dei teatri era chiusa per motivi economici: non sorprende
Anonimo, La barca dell'indipendenza italiana, composizione allegorica a olio, 62 x 50 cm (Milano, Museo del Risorgimento)
che questa fosse la principale preoccupazione per l'estensore dell'articolo. Si toccavano però anche questioni politiche: "In
Italia se v'è canto, è per lo più patriottico. A Bologna si lasciavano I Lombardi per cantare cori nazionali per la città. A
Napoli si è cantato il Nabucco con mediocre successo, perché il pubblico chiede al Verdi le tradizioni d'Italia e non
dell'antico Oriente, e vuole che la sua facoltà musicale sì rara nel dar voce e potenza alle moltitudini, rappresenti quel soffio
di vita, fosse anche con un oragano d'orchestra, che investa e faccia giganteggiare il popolo italiano. Oh sorgerà il Paesiello
[sic] della nostra libertà, e l'Alfieri dei libretti!"
Risultati altrettanto eloquenti emergono dalla lettura del quotidiano ufficiale del governo austriaco in Lombardia, la
"Gazzetta privilegiata di Milano". Come suggerisce il nome, la "Gazzetta" aveva il monopolio della cronaca degli
avvenimenti politici; ma, in parte per contrastare la crescente influenza delle numerose riviste specializzate alla fine degli
anni Trenta e nel decennio successivo, pubblicava anche una Appendice che si occupava principalmente di eventi artistici.
Nel febbraio 1848 la capitale stava diventando sempre più inquieta, e a volte le rappresentazioni teatrali diventavano
inevitabili focolai di dimostrazioni contro il governo austriaco. L'ultima edizione della "Gazzetta privilegiata" uscì il 18
marzo, il giorno in cui furono innalzate le barricate; dopo cinque giorni di scontri nelle strade (le famose Cinque Giornate) i
milanesi cacciarono gli austriaci dalla città. Il 23 marzo la ribattezzata "Gazzetta di Milano", ora in mani italiane, cominciò
le sue pubblicazioni quotidiane.
L'attività artistica, durante questi giorni esaltanti, è riportata in modo abbastanza dettagliato. Il primo evento teatrale, il
30 marzo, fu uno spettacolo di prosa patriottico creato appositamente per l'oc- casione, rappresentato al Teatro Carcano
dalla "Drammatica Compagnia Nazionale Lombarda, diretta dal Patrizio G. Moncalvo", seguito da "un grazioso Dialogo
fra Radetzky e Metternich, con Meneghino locandiere". Altri teatri ripresero l'attività subito dopo con drammi patriottici.
L'8 aprile l'Appendice riportava un'ode ad Alessandro Manzoni. La prima opera in musica andò in scena il 24 aprile, ancora
al Teatro Carcano: si trattò della Muta di Portici (una versione italiana dell'opera francese di Auber del 1828), la cui trama,
ambientata nel XVII secolo, racconta di un napoletano che si ribella agli oppressori spagnoli; si riteneva che l'opera avesse
sollevato una rivolta popolare a Bruxelles, quando vi fu rappresentata durante la rivoluzione del 1830. Dopo la
rappresentazione furono eseguiti due inni a Pio IX, il papa "liberale" allora in carica. Due giorni dopo Ricordi, l'editore di
Verdi, annunciò la pubblicazione di una lunga serie di pezzi patriottici, compreso un inno a Pio IX composto da Rossini. Il
20 maggio, circa due mesi dopo la sollevazione di Milano, fu orgogliosamente annunciato il grande scritto rivoluzionario di
Silvio Pellico, Le mie prigioni. Dal 18 marzo Milano aveva vissuto due mesi di tensione e di azione; come possiamo vedere
dalla "Gazzetta di Milano", tutto l'impegno artistico era inequivocabilmente assestato sulla situazione politica contingente.
E in tutto questo periodo il nome di Verdi non compare mai. Il compositore che si ritiene abbia spinto le masse sulle
barricate, il simbolo artistico per eccellenza del Risorgimento, sembra essere dimenticato proprio nel fervore dell'azione.
Sviluppare le implicazioni di questi ultimi paragrafi richiederebbe una profonda (e da tempo attesa) riconsiderazione della
posizione e dell'influenza "politica" di Verdi nei primi anni della sua carriera; e una tale rivalutazione dovrebbe ricercare,
temo inutilmente, qualche livello di interazione fra musica e politica al di là di quelli puramente metaforici messi di solito in
rilievo. In questa sede riteniamo sia sufficiente esprimere l'insoddisfazione per il modo in cui le prime opere di Verdi sono
abitualmente associate ai sommovimenti politici e sociali.
Comunque sia, resta di fronte a noi il caso curioso di "Va pensiero": un pezzo che sembra aver attraversato tranquillamente
un periodo storico di forte tensione politica, per emergere poi quale musica rappresentativa di quello stesso periodo. Ancora
una volta c'è una sensazione di assenza: assenza di un significato retrospettivo che colmi il vuoto del suo rimanere,
all'epoca, in ombra. Forse è proprio qui che le apparenti contraddizioni possono finalmente rivelarsi coerenti. Quando ai
funerali di Verdi, nel 1901, migliaia di italiani proruppero in questo coro, l'inebriante atmosfera rivoluzionaria della fine
degli anni Quaranta era ormai lontana. Le battaglie per l'unità italiana erano state vinte; non solo, si era poi verificato un
forte declino economico e culturale, visto da molti come la diretta conseguenza dell'unificazione. In quest'ottica,
l'appropriazione postuma di "Va pensiero" acquisisce un nuovo significato. Si trattava di un brano fondamentalmente
inadatto al fervore dell'epoca in cui vide la luce: come possiamo vedere dalla "Gazzetta di Milano" e da altri giornali
teatrali, nello slancio della battaglia gli italiani non volevano e non avevano bisogno di metafore; volevano caricature
teatrali degli sconfitti, opere come La muta di Portici, insomma un'arte che ritraesse la loro situazione presente in modo
diretto e inequivocabile.
D'altro canto, una volta lontani i bagliori degli eventi contemporanei, la curiosa assenza di una centralità musicale di "Va
pensiero" perde il suo senso di paradosso e diventa un punto di forza. Rende il coro un oggetto ideale, con il quale rievocare
alle future generazioni quel periodo di azione. La sua forza, in breve, non risiede nell'essere un pezzo "di quei tempi", bensì
un veicolo della nostalgia: un'evocazione non tanto di una patria perduta, quanto di un tempo perduto. La nostalgia è
un'emozione umana particolare, della quale poco si parla, forse perché, come "Va pensiero", si sviluppa sull'ambiguità, su
contraddittorie stratificazioni di significato. Heidegger ha così chiarito, con disinvoltura, il paradosso: "A coloro che vivono
all'estero è negata una relazione domiciliare con la patria. Manca il legame dato dal vivere in patria. Ma proprio in
quest'asenza individuiamo una intima condizione tipica di questo rapporto, ovvero la nostalgia della patria. Così è proprio
la mancanza della relazione che le garantisce l'esistenza". Quando consideriamo poi le vie sulle quali la nostalgia viaggia,
un'ulteriore ambiguità, altrettanto condizionante, diventa evidente: la nostalgia raggiunge la sua massima intensità
quando è indirizzata a un oggetto che non è mai esistito. Da una parte, il fatto che "Va pensiero" fosse relativamente
slegato dagli eventi reali ne rese più facile, più probabile, più intensa l'appropriazione da parte delle generazioni future.
Dall'altra, la tendenza di "Va pensiero" a cercare sempre una risposta al di fuori di sé è ciò che fece di questo coro una
rappresentazione non solo della conquista, ma anche delle ambigue conseguenze del cammino dell'Italia verso l'unità
nazionale.
[Filippo Peroni], Violetta, figurino per La traviata, Milano, Teatro alla Canobbiana, autunno 1856 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Verdi e la censura
John Rosselli
L’ Italia bacchettona degli anni Cinquanta, dove la polizia controllava sulle spiagge le dimensioni dei costumi da bagno,
ci aiuta a capire le difficoltà che, circa un secolo prima, Giuseppe Verdi ebbe con la censura. Infatti tali difficoltà
riguardarono soprattutto episodi delle sue opere che la censura riteneva contrari alla morale, alla religione e al buon
costume, mentre altre erano riconducibili alla mentalità classicheggiante dei censori, infastidita e offesa dalle innovazioni
artistiche dell'età romantica; i timori di quei funzionari si inserivano in una lunga tradizione, prettamente italiana, di
ostilità al trasgressivo, al nuovo, alla parola troppo cruda. Solo in un secondo momento, soprattutto dopo le rivoluzioni del
1848-1849, Verdi dovette confrontarsi con una censura propriamente politica.
In tutti i vecchi stati italiani la polizia da sempre assoggettava il teatro a censura preventiva, tranne per pochi mesi dopo
l'invasione dell'esercito rivoluzionario francese nel 1796-1797. Sotto tutti i regimi, quello francese come quello austriaco del
Regno Lombardo-Veneto subentratogli nel 1814, coloro che esercitavano la censura erano funzionari italiani, generalmente
letterati; a Roma fu censore nientemeno che il grande poeta Belli.
Prima della Rivoluzione francese l'opera seria, incardinata sulla storia antica, esprimeva perfettamente l'etica di corte e,
diciamo, dava ai censori ben poco lavoro. L'opera buffa ai suoi inizi, verso il 1740-1750, aveva destato qualche
preoccupazione poiché si faceva beffe di gruppi o personaggi in vista, per esempio gli ordini religiosi o un rinomato ed
eccentrico poeta. La repressione presto esercitata dalla censura spiega l'insulsaggine di tanti libretti comici: infatti, in un
sistema produttivo che chiedeva continuamente nuove opere, impresari e librettisti, per proprio conto, praticavano
l'autocensura.
E l'autocensura costituiva la norma nell'Italia assolutista degli anni Trenta dell'Ottocento, ovvero il periodo della
formazione culturale di Verdi. Il ricordo della Rivoluzione francese del 1789, rinnovato dall'ulteriore rivoluzione del 1830 e
dai moti italiani del
A sinistra: Orietta di Lesbo, frontespizio del libretto nella versione censurata di Giovanna d'Arco,
Milano, Ricordi, 1855 (Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
A destra: Viscardello, frontespizio del libretto nella versione censurata di Rigoletto, Milano, Ricordi, 1851 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
1820-1821 e del 1831, rendeva inammissibile qualsiasi riferimento a libertà, ribellione o tirannide, salvo in ambientazioni
remote come la Gallia antica, nella Norma di Bellini. Tuttavia, nessuno pensava ancora di potersi servire di tali "eccezioni"
per manifestare contro il regime costituito, come sarebbe invece successo nel 18471848: dei Puritani, scritti da Bellini per la
Parigi liberaleggiante, il duetto patriottico "Suoni la tromba" venne eseguito in Italia sostituendo "gloria" a "patria" e
"lealtà" a "libertà".
Con le sue prime opere, spesso definite "risorgimentali", Verdi ebbe poche difficoltà. Attila (1846), certamente la più
risorgimentale di tutte per la sua potente irruenza, ebbe addirittura il visto della censura senza nessuna richiesta o esigenza
di cambiamenti. Per Ernani (1844) il librettista fu invece costretto a modificare alcuni versi, nei quali i congiurati si
richiamavano ai Bruti e ai Gracchi, eroi della Roma repubblicana; tuttavia, la congiura contro il sovrano venne accettata,
così come il "Si ridesti il leon di Castiglia", l'inno patriottico dei congiurati (è pur vero che la congiura poi "finisce bene", con
il sovrano che soggioga tutti con la sua audacia e magnanimità). Decisamente moderata la censura fu di fronte a Nabucco
(1842), se si pensa alla successiva fama del "Va pensiero" come inno nazionalista: essa si limitò infatti a chiedere discrezione
nei gesti compiuti dal gran pontefice degli ebrei, Zaccaria, e dallo stesso re sacrilego Nabucco. Inoltre, la censura non si
oppose nemmeno alle parole "O mia patria, sì bella e perduta" del "Va pensiero", così come non si sarebbe opposta, in
Attila, al famoso "Avrai tu l'universo, resti l'Italia a me".
Per comprendere queste apparenti incongruenze, bisognerà considerare (e lo si farà in altra sede) come effettivamente si
sviluppò il sentimento politico, di Verdi e di altri, negli anni antecedenti il 1848. Per dirla in due parole, fu a unità d'Italia
avvenuta che nacque il mito delle prime opere verdiane portatrici di accesi messaggi nazionalisti. Prima d'allora l'energia
della musica, e la carica di brani come "Va pensiero", trasmisero sì al pubblico un sentimento di riscatto collettivo, ma un
riscatto che era
A sinistra: Don Alvaro, frontespizio del libretto per la prima rappresentazione nella versione censurata della Forza del destino al Teatro Apollo di Roma
il 7 febbraio 1863, Roma, Tip. di G. Olivieri al Corso (Milano, Archivio Storico Ricordi)
A destra: Una pagina dell'opuscolo con una difesa di Verdi a proposito di Un ballo ín maschera [Napoli; Tipografia del Vesuvio), 1858
(Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
tutto di natura culturale, e non politica; e in tale senso, naturalmente, la censura lombardo-veneta, nelle tre opere già
citate, trovò poco o nulla da ridire. Questa censura era invero la più intelligente d'Italia; Verdi in seguito avrebbe patito
ben peggio da quelle di Roma e di Napoli.
In questo periodo sia i librettisti sia lo stesso Verdi praticavano l'autocensura, circoscrivendola tuttavia ai soli campi della
religione e della morale, poiché erano proibite le rappresentazioni del clero o di riti religiosi; ben ricordavano, i censori, il
celebre Ballo del papa messo in scena alla Scala nel breve periodo di libertà rivoluzionaria, e paventavano qualsiasi
eventuale contaminazione fra chiesa e teatro. La letteratura romantica, dal canto suo, attingeva volentieri dalla sfera
religiosa, specie nel suo aspetto pittoresco (preghiere, chiostri gotici, rovine), e dato che i librettisti vi facevano spesso
riferimento, non mancarono le occasioni di scontro. È molto probabile che in Nabucco la censura temesse gestualità
sacerdotali: e il librettista Temistocle Solera badò a non fare di Zaccaria un gran sacerdote, e in Attila avrebbe camuffato
papa Leone, salvatore di Roma, trasformandolo in "antico romano". Nei Lombardi alla prima crociata (1843) l'"Ave
Maria" della protagonista fu saggiamente trasformato in un meno liturgico "Salve Maria", così come bastò tacere nelle
didascalie il fatto che all'eroe pagano morente viene somministrato il battesimo.
Un altro tipo di autocensura evitava il più possibile il suicidio in scena, inviso alle autorità come ogni eccessiva violenza:
alla fine di Emani, per esempio, si suicida il tenore ma non, come nel dramma originale di Hugo, il soprano né il basso; in
Luisa Miller (1849), come in molti altri allestimenti dell'epoca, il veleno doveva rimanere praticamente invisibile. Provetti,
infine, i librettisti a invocare "numi" e "cielo" evitando la parola "Dio".
La reazione, che dopo il 1849 si fece sentire ovunque tranne che in Piemonte, diede a Giuseppe Verdi molto più filo da
torcere. Fu bandito dalle scene il regicidio, anche solo progettato: prima in Rigoletto, a Venezia nel 1851, e poi ancora a
Napoli nel 1858, quando, nell'opera poi diventata Un ballo in maschera, i censori intendevano sostituire l'assassinio di
Gustavo III di Svezia con una trama che non c'entrava quasi nulla. Tuttavia, non era il regicidio in sé e per sé a provocare i
problemi più gravi: in effetti Verdi e i suoi librettisti poterono agevolmente sostituire ai personaggi regali prima un duca di
Mantova (uno stato molto opportunamente estintosi dal 1707) e poi, in occasione della trasferta della prima
rappresentazione da Napoli a Roma, un semi-mitico nobile governatore di Boston. Ciò che invece provocò le grane
maggiori — che terminarono solo dopo l'unità d'Italia — fu l'aspetto più prettamente morale ed estetico, e non ci riferiamo
soltanto a Un ballo in maschera e a Rigoletto. Il nostro, sempre alla ricerca del "nuovo", in tutte le sue manifestazioni, lo
trovava soprattutto nel teatro parigino, dove la stagione romantica mescolava volentieri il tragico e il sublime con il
malvagio e il grottesco. Fu proprio questo accostamento, qui specialmente cercato e voluto da Verdi, ad attirare su
Rigoletto la furia del capo della polizia veneziana, Martello, il quale in un primo momento vietò una simile "ributtante
immoralità ed oscena trivialità". Con questo, Martello e i suoi censori si riferivano al protagonista buffone, "difforme",
insieme malvagio e paterno (quindi grottesco), alla maledizione (sacrilega) e al sacco (oggetto triviale, contrario al decoro
classico). E mentre nel Lombardo-Veneto questi caratteri vennero alla fine accettati, anche perché Verdi difese
vigorosamente le proprie ragioni estetiche, a Roma e a Napoli l'opera dovette viaggiare sotto tre altri titoli, con trame
quasi completamente nuove, senza buffone, senza maledizione e senza sacco.
Un anno prima di Rigoletto, rappresentando a Trieste Stiffelio, altra opera dalle situazioni "forti" (anch'esse tratte da un
dramma parigino), Verdi si era probabilmente illuso: la moglie adultera che viene perdonata dal marito, un prete
protestante, durante una funzione religiosa, sicuramente infrangeva tutta una serie di tabù per un paese cattolico come era
l'Italia; il compositore tuttavia aveva creduto forse che nell'Austria non italiana sarebbe prevalsa la politica tradizionale
degli Asburgo, particolarmente severa verso la gerarchia ecclesiastica. Invece il governo di Vienna, impaurito dalle
rivoluzioni, si accingeva a stipulare un nuovo concordato che fosse più favorevole alla Chiesa. E una volta eliminato dalla
censura quello che in effetti costituiva l'argomento centrale di tutto il dramma, Stiffelio divenne decisamente improponibile
e Verdi, dopo qualche rappresentazione, lo ritirò per riciclarlo: lo "medievalizzò" (sempre, beninteso, senza prete sposato), e
gli diede il titolo di Aroldo.
Naturalmente, dopo Rigoletto, anche La traviata (1853) dovette fare i conti con i censori, turbati e sconcertati da Violetta,
la protagonista mantenuta. Fuori dall'illuminato Lombardo-Veneto dovettero scomparire "Dio", "angeli" e "spiriti"
(sostituiti con il solito "cielo"), come pure la "croce" di "croce e delizia" (che divenne "pena") e il riferimento al "pio
ministro" che consola la morente "traviata" (pure soppressa). Ma se a Firenze, Bologna e Roma fu conservata per lo meno
la trama, a Napoli da cortigiana Violetta si trasformò in una "nubile" che la famiglia dell'amato giovane rifiuta perché non
aristocratica, con effetto certamente disastrante sulla potenza del dramma. Anche per Un ballo in maschera la censura
napoletana aveva in animo di sopprimere l'amore adulterino, movente — anche se non consumato — dell'intero dramma.
Ma questa volta Verdi si fece beffa delle autorità borboniche: ritirò l'opera e la fece rappresentare nella vicina e un po' meno
reazionaria Roma.
Pochi mesi dopo, l'unità d'Italia pose fine a tutto questo; o meglio, non alla censura in toto, ma almeno a quella
decisamente retriva dei vecchi stati; la "rivincita" non si sarebbe esercitata sull'opera ma, seppur in misura minore, sul
cinema degli anni 1950-1960.
A sinistra: L'Assedio di Arlem, frontespizio del libretto nella versione censurata di Luisa Miller, Milano, Ricordi, 1849 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
A destra: Violetta, frontespizio del libretto nella versione censurata della Traviata per la rappresentazione di Bologna il 3 agosto 1853, Milano, Ricordi;
1853 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
William Shakespeare in un'incisione realizzata dal ritratto di John Taylor, pubblicata in Falstaff, numero speciale della "Illustrazione Italiana", 1893
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Un caso esemplare: Macbeth
Francesco Degrada
Quando Verdi si accinse alla composizione del Macbeth, i drammi shakespeariani avevano scarsa circolazione sui
palcoscenici di prosa italiani o venivano presentati in versioni profondamente rimaneggiate rispetto agli originali. Del
Macbeth esistevano diverse traduzioni, ma la tragedia non aveva nel nostro paese una tradizione rappresentativa. A
Milano sarebbe stata messa in scena per la prima volta nel dicembre del 1849, due anni dopo la rappresentazione fiorentina
e a ridosso della ripresa dell'opera verdiana alla Scala, su iniziativa di Alamanno Morelli.' Tuttavia Emanuele Muzio poteva
affermare nel 1846 che tra le due ipotesi che si presentavano a Verdi per una nuova opera, I masnadieri e il Macbeth,
quest'ultimo sarebbe stato preferibile "perché è un soggetto conosciuto da tutto il mondo".2 Ma si trattava di una
conoscenza — da parte del grande pubblico — sommaria e indiretta della tragedia shakespeariana. La maggioranza dei
letterati italiani, d'altra parte, dava del Macbeth un'interpretazione parziale e mistificante, gravemente inficiata da
pregiudizi classicistici.
La tendenza era quella di porre nello sfondo il dramma squisitamente morale del protagonista per portare in primo piano il
momento — necessitante e incontrollabile — del destino e della fatalità, incarnato dalle streghe, viste come le Parche della
mitologia greca o le Nome del mito nordico, nonché la loro connotazione "meravigliosa", "magica", "fantastica". Questo
modo di porsi di fronte a Macbeth denuncia anzitutto la resistenza, squisitamente cattolica, ad accettare l'aspetto
inquietante e propriamente religioso (di una religiosità che volentieri sí definirebbe luterana o calvinista) del confronto
straziato ma sempre lucidissimo del protagonista con la propria coscienza, dal momento dell'esaltazione illusoria a quello
della certezza tragica della disfatta.
Nel 1830 Giuseppe Niccolini, licenziando una sua traduzione della tragedia shakespeariana, scriveva: "È piaciuto al poeta
nell'ordire il disegno del suo lavoro di accettarvi altresì questa parte favolosa della leggenda; anzi, se ne valse per modo che
vi fondò sopra, senza manco, tutto l'edificio drammatico. Il qual partito di
' Cfr. Hilary Gatti, Shakespeare nei teatri milanesi dell'Ottocento, Adriatica, Bari 1968, pp. 20, 54.
Cfr. Verdi's "Macbeth": A Sourcebook, a cura di David Rosen e Andrew Porter, Norton, New York 1984, p. 8.
Da Francesco Hayez, L'apparizione dei fantasmi regali a Macbeth nella grotta delle streghe (Sant'Agata, Archivio di Villa Verdi)
fare del meraviglioso il nodo principale dell'azione se, generalmente parlando, è cosa da biasimarsi, in questo caso speciale,
la critica ne ha fatto lode all'autore come di un concetto sublime e artificioso. E veramente l'assassinio di un vecchio
venerabile, di un re d'indole dolcissima, trucidato in grembo al sonno, in onta alla santa ospitalità di un vassallo, da un suo
congiunto, da un suo beneficiato, sarebbesi appena potuto spiegare, o almeno rendere sopportabile alla rappresentazione,
senza farlo apparire come un'opera macchinata e condotta dalle potenze del male, e recare all'azione irresistibile del destino
l'effetto delle maturate passioni dell'animo. Shakspeare [sic] fece delle streghe tante ministre dell'inferno in un'impresa
ordinata al sagrifizio dell'innocenza e alla rovina dello stesso colpevole. E così venne a salvare in qualche modo l'orrore della
specie Umana, e ridusse nei termini del terribile ciò che altrimenti sarebbe stato orribile; e diede grandezza e solennità ad
un'azione per sé stessa non altro che atroce".3
In termini molto simili si esprimeva più di trent'anni dopo Andrea Maffei nella prefazione alla propria traduzione in versi
italiani del Macbeth, pubblicata solo nel 1863:4 una traduzione che si rifaceva, anziché all'originale inglese, all'opinabile
adattamento offertone da Friedrich Schiller per il teatro di Weimar. La mediazione schilleriana costituiva — ex professo —
per il Maffei una sorta di indispensabile schermo nei confronti degli aspetti più crudi e violenti di una poesia che,
nonostante la sua frequentazione della più grande letteratura europea, non riuscì mai a essergli congeniale.
E addirittura sorprendente che anche Piave, in una sua nota "Ai lettori" inviata a Ricordi il 28 gennaio 1847 perché la
premettesse al libretto (ma rimasta significativamente inedita), utilizzasse gli stessi concetti e quasi le stesse parole.' Ma le
categorie del "meraviglioso" e del "fantastico" apparivano a loro volta inusitate ed estranee al gusto nazionale. Giuseppe
Giusti, che era tra gli spettatori della "prima" fiorentina del 1847 e che inviò a Verdi una lettera generalmente citata
soprattutto per l'invito rivolto al musicista ad approfondire il filone patriottico, finiva significativamente
52 per metterlo in guardia dal "fantastico", che — osservava — "è co-
Macbet. Tragedia di Guglielmo Shakspeare [sic] recata in italiano da Giuseppe Niccolini, F. Cavalieri, Brescia
1830, pp. XVI-XVIII. Macbeth. Tragedia di Guglielmo Shakspeare [sic] - Turandot Fola tragicomica di Carlo
Gozzi imitate da Federico Schiller e tradotte dal Cav. Andrea Maffei, Le Monnier, Firenze 1863, p. 1.
'Cfr. Verdi's "Macbeth"... cit., pp. 38-39.
sa che può provare l'ingegno", mentre "il vero prova l'ingegno e l'animo".`' Verdi si poneva in una posizione molto più
avanzata rispetto alla cultura letteraria del suo tempo e molto più aderente allo spirito del dramma di Shakespeare. Con il
poeta inglese aveva avuto una lunga frequentazione e non a caso poteva affermare con orgoglio: "È un poeta di mia
predilezione, che ho avuto fra le mani dalla mia prima gioventù e che leggo e rileggo continuamente": È noto che oltre alle
tre opere shakespeariane realizzate da Verdi, rimasero allo stato di progetto un Amleto, una Tempesta, e dolorosamente,
dopo una lunga serie di non risolti dubbi trascinatisi per anni, il più verdiano dramma di Shakespeare, Re Lear Tra le
diverse traduzioni disponibili aveva optato (e vi rimarrà fedele per tutta la vita) per quella di Carlo Rusconi,s una
traduzione in prosa che lo poneva a contatto — meglio di altre in versi più direttamente con la parola shakespeariana. Nel
corso del viaggio a Londra del 1847 per la messa in scena della "prima" dei Masnadieri aveva potuto assistere dal vivo a una
rappresentazione di Macbeth: un'esperienza che dovette colpirlo profondamente e alla quale fece spesso riferimento in
occasione della prima e delle successive messe in scena della sua opera.'
Certo, questa capacità di autonomo orientamento culturale in un ambito per tante e diverse ragioni così problematico non
può essere spiegato e giustificato facendo ricorso solo alle ragioni di un'intuizione artistica di qualità eminentemente
irrazionale, proiettata sorprendentemente verso il futuro. Macbeth ci fa comprendere quale peso abbia avuto su Verdi la
frequentazione dell'ambiente culturale milanese, ma anche la sua straordinaria capacità di elaborazione originale degli
stimoli che ne aveva tratto. Se si analizza nel dettaglio la genesi del libretto, ricostruendone il percorso creativo, si apprezza
la sicura chiarezza delle coordinate culturali cui Verdi faceva riferimento: che non poggiavano certo sull'apporto del Piave,
che fu nullo, e nemmeno sugli ipotetici consigli del Maffei, ma si rifacevano piuttosto a uno dei testi chiave della critica
romantica, il trattato Uber dramatische Kunst und Literatur (1809-1811) di August Wilhelm Schlegel."
Verdi leggeva probabilmente le pagine di Schlegel sul Macbeth in appendice alla traduzione in prosa delle opere di
Shakespeare curata dal Rusconi. Non solo il musicista seguì Schlegel nella delineazione della struttura formale ed espressiva
del proprio lavoro sin dalla "selva" (il primo riassunto in prosa della tragedia con l'individuazione delle fondamentali
"posizioni", o situazioni drammatiche, e dei corrispondenti numeri musicali), ma ne parafrasò i concetti chiave o addirittura
ne riprese puntualmente le espressioni nelle lettere di istruzioni al Piave e ai primi interpreti. La stessa polemica prefazione
che Verdi fece premettere al libretto per la rappresentazione milanese del 1849 ne è un fedele riassunto."
L'idea che Shakespeare evochi attraverso le streghe, proiezione di tradizioni popolari profondamente radicate nel cuore
umano, "lo spavento dell'ignoto, il segreto presentimento di una parte misteriosa della natura", che crei per esse "un
linguaggio particolare" che dà "l'idea della sorda musica che accompagna le danze notturne di quegli esseri tenebrosi"; che
esse "parlino tra di loro co-
Ibid., p. 56.
' Ibid., p. 119.
Teatro completo . .1 tradotto dall'originale inglese in prosa italiana da Carlo Rusconi, tip. La Minerva, Padova
1838.
Cfr. le lettere di Verdi a Lanari, 22 dicembre 1846 (Verdi's "Macbeth"... cit., p. 27) e a Cammarano, 23 novembre
1848 (ibid., pp. 66-67). Nel 1865 scriveva all'Escudier: "Ho visto recitare più volte questo dramma in Francia, in
Inghilterra, in ha-ha" (ibid., p. 90).
i" Il trattato di Schlegel era apparso in traduzione italiana nel 1817: Corso di letteratura drammatica, tradotto da
Giovanni Gherardini, 3 voli., stamp. Paolo Emilio Giusti, Milano 1817.
MACBETH / Melodramma in 4 Atti / Musica del Maestro / Giuseppe Verdi / da rappresentarsi / NelPlmp. Regio
Teatro alla Scala / Il Carnovale del 1849 / Milano Tipografia Valentini e C.
me donnicciuole", ma che "il loro stile si solleva quando si rivolgono a Macbeth"; che "le profezie che pronunziano esse
medesime o che fanno pronunziare ai fantasimi hanno quell'oscura brevità, quella solennità maestosa che si trova in tutte le
parole degli oracoli"; che rappresentino un momento nodale del dramma, siano cioè — come dirà Verdi — "un
personaggio"; che Macbeth sia "un eroe pieno di grandezza [...] che conserva il segno della primitiva nobiltà del suo animo
in tutti gli eccessi a cui è trascinato dalle necessarie conseguenze del suo delitto"; sì che "con raccapriccio noi vediamo quel
guerriero che prima sfidava la morte [...] attenersi con ansietà alla sua esistenza terrestre e rovesciare spietatamente tutto
ciò che, secondo i suoi neri sospetti, lo minaccia di qualche pericolo", per cui "non possiamo senza pietà riguardare lo stato
dell'anima sua"; o ancora l'idea che Lady Macbeth sia "la più colpevole dei complici del regicidio", mentre Macbeth "è
giudicato ancor degno di soccombere alla morte degli eroi sul campo di battaglia": tutto questo combacia perfettamente
con l'interpretazione verdiana. E quali sono, secondo Schlegel, le scene più memorabili del dramma? "L'uccisione di
Duncano, il simulacro del pugnale che volteggia innanzi agli occhi di Macbeth, l'apparizione di Banco nel convito, l'arrivo
notturno di Lady Macbeth addormentata", un elenco che suona di fatto come un'epitome delle pagine più alte, appunto,
del Macbeth verdiano.
Ora, forte di questo punto di riferimento ideale e di una concezione del dramma perfettamente compiuta nelle sue linee
essenziali, Verdi richiese ai propri collaboratori — sia all'appiedato Piave sia al tanto più celebre, più esperto e scaltrito
Maffei — una funzione subordinata, di carattere puramente esecutivo. In una lettera del 1857 Verdi riassumeva in questi
termini l'apporto di Andrea Maffei: "Son or dieci anni, mi venne in capo di fare il Macbeth: ne feci io stesso la selva; anzi,
più della selva feci distesamente il dramma in prosa colla distribuzione di atti, scene, pezzi, etc. etc...; poi lo diedi a Piave da
verseggiare. Come io trovai a ridire su questa verseggiatura pregai Maffei, col consenso dello stesso Piave, di ripassare quei
versi e di rifarmi di peso il Coro delle streghe, Atto 3° ed il Sonnambulismo" .
Si desume dunque che Maffei intervenne quando l'opera nelle sue linee strutturali aveva preso forma; il suo compito fu di
versificare due episodi particolarmente problematici (uno dei quali tuttavia — la scena del sonnambulismo — esisteva già
in uno schizzo che Verdi riteneva nella sostanza soddisfacente)" e di rivedere, per dargli forma più congrua con l'intuizione
del musicista, l'intero libretto, stendendovi una patina di decoro letterario assente dalla versione di Piave. Il Maffei scrisse
con ogni probabilità anche un'intera scena del secondo atto, la quarta, aggiunta all'ultimo momento, forse addirittura dopo
l'inizio delle prove a Firenze.
Per molto tempo fu opinione comune che Verdi, lasciato solo, dovesse soccombere nel confronto immane con Shakespeare e
mancasse degli strumenti culturali per ridurre nei limiti di un melodramma — senza falsarne il significato — una tra le sue
tragedie più problematiche e complesse. Sì che, non bastando il Maffei, si fece spesso riferimento a non meglio specificati
apporti di un altro letterato ami-
" Verdi's "Macbeth"... cit., p. 69. " Si veda la lettera di Verdi a Piave del 10 dicembre 1846 (ibid., p. 22): "La scena
del sonnambulismo va bene come è nello schizzo che hai, se non che bisogna fare qualche piccolo cambiamento..."
Luigi Bartezago, Le streghe, figurini per Macbeth, Milano, Teatro alla Scala, 28 gennaio 1874 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
co di Verdi, anch'egli traduttore di vaglia, Giulio Carcano: solo per il fatto che si sa di un comune soggiorno di Verdi e di
Carcano, sul finire del 1846, presso la villa di Clarina Maffei a Clusone." Voci in questo senso incominciarono a circolare
addirittura ancor prima che l'opera fosse rappresentata, tanto che il 27 febbraio 1847 il Carcano si affrettava a informare il
Maffei del fatto che era stato costretto a smentire ogni sua collaborazione alla stesura del libretto: "Ho dovuto protestare
che [nel Macbeth] non c'era una sillaba del mio e ch'io non feci altro che parlare di questa tragedia coll'amico Verdi"." Non è
nemmeno sicuro che Verdi avesse a disposizione la traduzione del Carcano (mentre questi presumibilmente poté procurarsi
il libretto una volta che fu edito nel febbraio 1847). Ne sono una conferma inconfutabile non solo le testimonianze dei
carteggi, ma quell'importantissimo documento, per lungo tempo trascurato dalla critica, che è il libretto autografo del
Macbeth, contenente le correzioni del Maffei, conservato al Museo Teatrale della Scala, da me analiticamente studiato e
integralmente pubblicato altrove.'
Da esso emerge, tra l'altro, che il processo di progressiva messa a fuoco della struttura librettistica del Macbeth avvenne
secondo una logica immanente al primitivo e già compiutamente definito progetto verdiano, sulla base di considerazioni di
natura eminentemente drammatico-musicale, piuttosto che puramente letteraria. In ogni caso Verdi fu così poco
acquiescente al Maffei da non esitare ad andare esplicitamente contro — in molti luoghi — ai suoi suggerimenti. Un unico
esempio tra moltissimi possibili, la scena decima del primo atto. In un primo momento essa mancava completamente,
l'incontro con Duncano era dato per sottinteso; poi il musicista sentì il bisogno di un momento di pausa nel turbinoso
susseguirsi e precipitare degli eventi. Verdi si era limitato ad annotare: "Scena muta. Arrivo di Duncano". Maffei, che
ritoccò in genere solo da un punto di vista formale tutte le didascalie del libretto, qui fece di più, suggerendo un
cambiamento di scena e annotando: "Esterno del Castello di Macbeth col ponte levatoio calato. Scena muta nella quale al
suono di una marcia guerresca [poi corretto addirittura in `trionfale'] vedesi passare il Re Duncano con seguito pom-
" Franco Abbiati, Giuseppe Verdi, 4 voli, Ricordi, Milano 1959, I, pp. 637-638, 666-667.
" Lettera di Giulio Carcano a Maffei, in Opere complete. Pubblicate per cura della famiglia dell'autore, 10 voli., tip.
F.L. Cogliati, Milano 1892-1896, X, pp. 10, 37; Verdi's "Macbeth" cit., p. 46.
" ai. Francesco Degrada, The "Macbeth" Scala Libretto. A Genetic Edition, in Verdi's "Macbeth" cit., pp. 306-338.
Una pagina dell'autografo verdiano del libretto di Macbeth con le correzioni di Andrea Maffei
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
poso". Noi sappiamo quello che Verdi fece di questo episodio, tenendo fissa la scena e inondandola, in luogo della banale
"marcia guerresca" o "trionfale", di quella sublime "musica villereccia la quale avanzandosi a poco a poco annuncia l'arrivo
del Re". Il quale ultimo "trapassa" accompagnato, anziché dal convenzionale "seguito pomposo", dalle inquietanti presenze
di Banco, Macduff, Malcolm, Macbeth, Lady Macbeth e seguito, in un episodio che giustamente Gabriele Baldini giudicava
una delle gemme dell'opera.
Ma ecco le linee del nuovo progetto drammatico: condensati gli interventi delle streghe in due soli momenti nodali
dell'azione (I,1 e 4; III,1); eliminato il personaggio di Ecate (che verrà recuperato nei balli per l'edizione parigina del 1865)
così come, purtroppo, quello del Portiere; ridotta con un'idea senza meno geniale la figura di Duncan a una pura
apparizione scenica, muta e chiusa nell'ambiguo splendore della regalità (quasi che il primo delitto di Macbeth non si attui
su un personaggio singolarmente individuato e anche per questo grandeggi subito nella sua dimensione superumana, si
ponga quale preludio smisurato all'incontrollabile libidine di distruzione destinata a tingere l'intero orizzonte
Macbeth, frontespizio del libretto, Milano, Ricordi, 1847
(Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
di sangue); sfoltiti infine gli interventi dei personaggi laterali, limitandoli in sostanza alle presenze di Banco e di Macduff e
agli interventi corali, Verdi può concentrare il fuoco dell'attenzione sui due protagonisti, inondandoli di una luce accecante,
che scava crudelmente sui loro visi disfatti e nelle loro anime sconvolte.
Talmente violenta era stata la scarnificazione del dramma, la riduzione alla sua nuda essenzialità nel primo momento della
delineazione del libretto (quello della "selva"), che all'atto della composizione Verdi si vide costretto ad ampliarne in più
punti la struttura verbale. Con tutto questo rimane alla tragedia di Macbeth e di Lady Macbeth una delineazione per tagli
netti, secondo scansioni che possiedono un ritmo insieme lucido e convulso. Con stupore si osserva come le stazioni della
loro passione infernale tendano a dislocarsi all'interno degli atti, sotto forma di grandi blocchi scenici che seguono una
misteriosa ritmazione ternaria. Questa delinea oscure e inquietanti simmetrie interne. Soprattutto, suggerisce il senso di
un'ossessiva ripetizione circolare delle situazioni chiave (la tentazione, la risoluzione, il delitto, il rimorso) che sembra
concretamente anticipare, sul piano teatrale, la sottile interpretazione del Macbeth avanzata ai nostri giorni in sede critica
da Jan Kott: secondo il quale la tragedia shakespeariana è una rappresentazione del mondo della storia non più — come
nelle Histories — sotto la prospettiva di "Grand Mechanism", ma sotto quella, sconvolta, del "nightmare", dell'incubo."
La versione fiorentina del 1847 precipitava verso il finale mediante gli scatti precisi e secchi del meccanismo scenico-
musicale, i gesti scabri e sommari di una musica violentemente timbrata e contrastata, che sottolineavano con evidenza
icastica l'aspetto in qualche modo costringente, automatico connesso alla scelta iniziale di Macbeth, alla progressione
inarrestabile degli assassinii. La versione parigina — che documenta lo straordinario processo di maturazione stilistica di
Verdi intercorso tra il 1847 e il 1865 — non smentisce questa ritmazione nuda e impietosa della vicenda, ma apre al suo
interno vaste zone che si direbbero più di riflusso che di stasi drammatica; esse sembrano arrestare i personaggi sulla soglia
liminare dell'azione per coglierne il senso metafisico di vertigine, o sorprenderne, ormai al di là della linea che separa il
progetto dalla sua immodificabile realizzazione, l'orrore sbigottito e impotente. Secondo i due emblematici luoghi
shakespeariani affidati rispettivamente a Macbeth e a Lady Macbeth: "If it were done, when `tis done, then `twere well / It
were done quickly" e "What's done cannot be undone". Questi due momenti inquadrano, si diceva, l'azione vera e propria,
che ripropone sempre di nuovo un unico gesto: quello dell'assassinio. Nel delirio dell'incubo il mondo della storia, "viscoso e
spesso come una bottiglia di sangue", trascorre insensibilmente nel mondo "fantastico" delle streghe e delle apparizioni: i
due universi si penetrano e si permutano.
L'epistolario verdiano contiene un corpus imponente di prescrizioni in senso lato "registiche", che concorrono a delineare nel
loro insieme l'opera come spettacolo sintetico e unitario. È singolare che Verdi, mentre da un lato aveva l'intuizione di una
tragedia ridotta genialmente a uno scarno, lucido, impietoso diagramma psicologico, dall'altro concepisse Macbeth come
spettacolo teatralmente complesso, articolato su una pluralità di piani che dalla dimensione puramente musicale
trascorrevano (chiudendole, almeno sul piano programmatico, in un cerchio ferreo) a quelle della recitazione,
dell'ambientazione scenica, dei costumi, del ballo.
Da qui le raccomandazioni all'impresario sulla cura da dedicare al "Coro" e al "Macchinismo" e la meticolosa ricerca di lumi
sulla messinscena da parte di artisti come il pittore Francesco Hayez e lo scenografo Alessandro Sanquirico; che si
concretarono in raffinatezze quali l'uso della "fantasmagoria" (un apparecchio ottico da proiezione) per la scena delle
apparizioni ("... se la cosa riesce bene come me l'ha descritta Sanquirico, sarà un affare da sbalordire e da far correre un
mondo di gente soltanto per quello...")' o il divieto di usare "seta" o "velluto" nella realizzazione dei costumi, per rispetto
della realtà storica. Questa concezione globale dello spettacolo ha tra le sue conseguenze un'articolazione complessa di tutti
i parametri drammatici, nessuno dei quali è più lasciato, almeno programmaticamente, fuo-
ri del controllo dell'autore. Colpisce il fatto che questo processo non si fondi solo su estrinseci elementi scenotecnica, o in
senso lato registici, ma miri propriamente a fare della musica la base di una drammaturgia totale.
Ma gli sforzi più consistenti e più direttamente destinati a influire sulla struttura musicale dell'opera sono rilevabili nella
ricerca di un nuovo strettissimo nesso tra canto e declamazione e tra declamazione e gesto scenico: come dire di un nuovo
rapporto tra musica e dramma. Un vero e proprio "trattato di regia verdiana" sono state definite da Massimo Mila° le
lettere che Verdi spedì al primo interprete di Macbeth, Felice Varesi, erudendolo sulle particolarità minute dello stile di
canto e dell'azione mimica legate al suo ruolo. La prima si apre con l'affermazione programmatica: "Io non cesserò mai di
raccomandarti di studiare bene la posizione e le parole: la musica viene da sé. Insomma, ho piacere che servi meglio il poeta
del maestro" .20 Non potrebbe essere espresso con maggiore decisione il rifiuto — che sappiamo lentamente e
progressivamente preparato da esperienze precedenti coagulate in pagine non secondarie di Nabucco,Ernani,Giovanna
d'Arco e Attila — di un ideale di canto chiuso nelle proprie astratte ragioni musicali, e il perseguimento di una nuova
misura espressiva attenta alla modellazione della voce (e, beninteso, dell'orchestra) sulla parola e sulla cangiante tensione
drammatica della situazione scenica.
Questa analitica attenzione ai particolari della recitazione (diretta conseguenza di un ideale di canto volto alla
valorizzazione di quella che un giorno Verdi avrebbe efficacemente definito "la parola scenica"), la volontà che anche i pezzi
chiusi fossero "più discorsi che cantati", l'insistere, sin dalla prima fase di progettazione dell'opera, che la parte del
protagonista "sarebbe quasi tutta declamata"," ebbero come conseguenza una enorme quantità di indicazioni espressive
sparse con generosa dovizia nella partitura, a beneficio d'interpreti prevedibilmente bisognosi, su questo terreno
relativamente inesplorato, di una guida autorevole: ciò che conferma una volta di più la chiara coscienza nel musicista del
carattere progressivo e in certo senso "inattuale" del Macbeth; più precisamente, la sua disposizione "sperimentale".
Nonostante le sue incertezze e le sue contraddizioni si avvertono pur sempre in Macbeth valori che ne fanno qualche cosa di
sostanzialmente diverso sia dalle prove giovanili sia dagli estremi confronti shakespeariani, sui quali si stende nel bene e nel
male l'invadente presenza di Boito. Macbeth è in qualche misura un'esperienza unica e irripetibile nella carriera artistica
verdiana. Come ebbe a scrivere lo stesso compositore alla prima interprete di Lady Macbeth, "questo è un dramma che non
ha nulla di comune cogli altri, e tutti dobbiamo fare ogni sforzo per renderlo nel modo più originale possibile"." Nella
feconda problematicità del confronto che in questo momento nodale della vita Verdi instaurò — nel nome di Shakespeare
— con se stesso e con la sua epoca, risiedono le ragioni dell'interesse acuto di Macbeth per la comprensione di aspetti
fondamentali della sue qualità umane e artistiche e del suo universo culturale
Fin dall'inizio della carriera, e a differenza dei suoi grandi immediati predecessori (Rossini, Bellini, e anche in parte
Donizetti), Verdi si rivolse, per la fabula delle sue opere, ad autori e testi, soprattutto delle letterature straniere, che
avevano assunto una rilevanza autentica nella cultura a lui contemporanea. Una intensa e partecipe attenzione a questo
tipo di modelli si comprende — a mio modo di vedere — se si considerano queste fonti della drammaturgia verdiana (molte
rimaste allo stadio di ipotesi, di modello non realizzato per un libretto), più che come testi letterari, come espressione e come
risultante di una concezione drammatica, come inveramento di una poetica che trova la sua manifestazione nella forma del
teatro. L'interesse per testi di questo genere venne certamente stimolato, e forse addirittura provocato, dall'ambiente
culturale milanese degli anni Quaranta, ambiente nel quale era avvenuta, nel decennio precedente, la formazione
professionale del giovane compositore bussetano. Dall'ambiente musicale milanese nel periodo iniziale di soggiorno erano
giunti altri e altrettanto potenti stimoli di carattere più strettamente professionale, come l'apprendimento ferreo del
contrappunto con La-vigna, il contatto e il confronto con la musica dei "classici" viennesi, la conoscenza delle realizzazioni
più recenti del teatro musicale, italiano e non solo italiano. A questa formazione musicale e operistica corrisponde — nel
decennio successivo — una straordinaria esposizione a esperienze riguardanti la concezione drammatica dell'opera in
musica. L'apertura culturale e intellettuale di alcuni esponenti della nobiltà e dell'alta borghesia della città lombarda diede
a Verdi la possibilità di conoscere testi, letterari e soprattutto drammatici, irraggiungibili in qualsiasi altra sede che non
fosse Milano. Si deve subito aggiungere che la lettura degli autori che non erano francesi avvenne in forma mediata,
attraverso traduzioni, o anche riassunti e parafrasi in lingua diversa dall'originale. Una personalità a tutt'oggi non
sufficientemente valorizzata, a questo proposito, è Carlo Rusconi, in quegli anni giovane patriota e letterato bolognese, in
tempi successivi uomo impegnato politi-
La vergine d'Orléans (Milano 1830), traduzione italiana di Andrea Maffei di Die Jungfrau von Orléans di Friedrich Schiller
(Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
camente alla costruzione del nuovo stato, dopo l'unità d'Italia. All'età di ventisei anni, nel 1838, Rusconi pubblicò a
Padova la prima traduzione — in prosa — dell'intero corpus del teatro shakespeariano; pochi anni dopo, nel 1842, diede
alle stampe la traduzione di una sostanziosa antologia di testi — teatrali e non — di Lord Byron, ivi compresa quella di
The Two Foscari. La traduzione di questa tragedia fu certamente il punto di partenza per il libretto dell'opera verdiana
omonima. Rusconi si cimentò pure con testi in tedesco, in particolare con il teatro di Schiller. Che queste traduzioni siano
effettivamente servite a Verdi come punto di partenza nella scelta delle vicende per le sue opere è provato non solo dalla
presenza di alcune di esse nella biblioteca di Sant'Agata, ma soprattutto dal fatto che, prima di esse, non esisteva di quei
testi alcuna versione in lingua italiana.
Altro canale di fondamentale importanza per la conoscenza del teatro drammatico tedesco sono i capitoli conclusivi della
prima parte del De l'Allemagne di Madame de Staèl, nei quali la celebre scrittrice francese riassume e commenta con dovizia
di particolari i principali testi teatrali della letteratura tedesca contemporanea, di Goethe, di Schiller, di Zacharias Werner.
Per quanto riguarda quest'ultimo autore, fu certamente il riassunto della sua tragedia Atti-la, K6nig der Hunnen che portò
alla stesura del libretto dell'opera verdiana. Il compositore stesso ce lo dice in una sua lettera a Piave del marzo 1845;
inoltre molti particolari significativi, che non si trovano nel testo tedesco e che fanno parte invece dei commenti nel
riassunto della scrittrice francese, si ritrovano puntualmente rispecchiati nel libretto abbozzato da Piave e poi completato
da Solera. Così pure la scintilla iniziale che portò, nel 1865, alla scelta del Don Carlos schilleriano si può con certezza far
risalire alla smagliante ricostruzione che di quel testo fa Germaine Necker.
Se nei modelli sinora ricordati — fatta eccezione per Shakespeare — ciò che deve aver colpito Verdi è la fisionomia e la di-
62 mensione dei personaggi che vi compaiono, e il loro soccombere
nell'impari lotta in conflitti con forze maggiori di loro, nel teatro di Victor Hugo, e questo già a partire dalla scelta di
Hernani, Verdi venne attratto soprattutto dalla poetica del grottesco, del difforme, realizzata in quelle opere. Verdi è
insomma attratto dall'elemento nuovo e polemico della drammaturgia dello scrittore francese, una drammaturgia che si
pone in antitesi con i canoni estetici della tradizione classicistica francese, sino ad allora imperanti anche nella concezione
del teatro in musica. Già in Emani la figura del vecchio Silva colpisce più per l'assurdità delle sue pretese amorose — che lo
rendono appunto grottesco — che per la feroce, implacabile sete di vendetta. Solo che a Verdi mancano, al tempo della
composizione di quella partitura, gli strumenti del linguaggio musicale atti ad esprimere, a rendere tale singolare aspetto
del personaggio, a distinguerlo in questo modo in maniera netta da tutti gli altri. E da Victor Hugo Verdi impara anche la
forza sintetica delle situazioni drammatiche che lo porterà, in Rigoletto, a seguire con la massima fedeltà il suo modello
letterario. Ma in Rigoletto il grottesco assume la più grande forza nel momento in cui agisce nel contrasto, anzi nel conflitto
non solo tra il protagonista e gli altri personaggi, ma soprattutto nella sua persona. Per usare le parole di Verdi: "Io trovo
[...] bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno
d'amore". Nel momento in cui adotta questa poetica, Verdi modella coerentemente anche il proprio linguaggio musicale,
giungendo in alcuni momenti dell'opera, come ad esempio in tutta la scena iniziale, nel duetto tra Rigoletto e Sparafucile, e
in buona parte della scena finale, a una commistione tra lo stile tragico e quello "medio" e "basso", opportunamente
inventando forme musicali e impiegando stilemi fino ad allora soltanto adombrati nel teatro in musica italiano.
Al teatro di Shakespeare Verdi sembra in un primo tempo accostarsi per vie mediate, e senza rendersi pienamente conto del
potenziale drammatico contenuto nei testi dell'autore inglese. La scelta di Macheth nasce dal desiderio di sfruttare al
massimo l'elemento spettacolare del "fantastico" insito nella vicenda: le streghe, l'apparizione dello spettro di Banquo e
degli otto re, il muoversi della foresta di Birnham. L'interesse per questo tipo di spettacolarità era stato provocato, all'inizio
del decennio 1840-1850, dalla rappresentazione sui palcoscenici italiani dei grand opéras di Meyerbeer, nei quali il filone del
soprannaturale era una componente importante. Ma nella drammaturgia shakespeariana sta ben altro; vi sta la
sublimazione in alcune figure emblematiche degli archetipi che popolano la scena umana, delle passioni che sconvolgono il
mondo. Shakespeare realizza quello che Verdi definisce l'"inventare il vero": portare cioè alle estreme conseguenze alcune
caratteristiche del comportamento dell'uomo, sia in positivo che in negativo. Di qui viene l'entusiasmo, anzi la venerazione
di Verdi per Shakespeare, che egli chiama confidenzialmente "il papà", il padre di ogni drammaturgia. Nel teatro
shakespeariano — e quindi anche nel teatro verdiano — Jago rappresenta l'astrazione del male, e Desdemona quella del
bene. Male e bene sono rappresentati come manifestazioni estreme, senza concessioni, di un archeti-
Johann Heinrich Dannecker, Friedrich Schiller, modello in gesso per il busto marmoreo, 1783-1784
(Marbach am Neckar, Schiller-Nationalmuseum)
po umano; la "verità" di base di questi personaggi viene portata alle ultime conseguenze; senza questa loro
rappresentazione "astratta" la follia della loro vittima e carnefice, Otello, non sarebbe né possibile né comprensibile. Ma in
Shakespeare è egualmente potente anche la rappresentazione delle passioni che spingono gli uomini alle azioni più insensate
e più nefande. È quanto Verdi scopre nel momento in cui mette in musica la vicenda di Macbeth. Al suo centro, motore
assoluto della vicenda, sta la brama del potere che anima il protagonista, ma più ancora la moglie di lui, Lady Macbeth, il
solo personaggio in tutto il teatro verdiano che non ha nome, quasi fosse la proiezione al femminile delle aspirazioni di lui.
La tragedia shakespeariana è eminentemente direzionale; nel corso dell'azione e in seguito allo svolgersi dell'azione i
personaggi si evolvono, e alla fine, nel momento della catastrofe, stanno al polo opposto di quello in cui si trovavano
all'inizio del dramma. Verdi comprende la necessità di "inventare" quegli strumenti del linguaggio musicale che gli
consentono di stabilire una connessione tra i momenti significanti dell'azione, per rendere evidente allo spettatore che vede
e ascolta il rapporto profondo che unisce le situazioni-cardine del dramma. Egli si serve di elementi estremamente semplici
del linguaggio musicale — singole altezze, brevi formule ritmiche, timbri isolati di strumenti — per individuare una
situazione drammatica e stabilire con essi, attraverso la loro articolazione, il collegamento necessario tra i momenti
rilevanti dell'azione. In Macbeth le altezze Do-Re bemolle, su cui il protagonista declama "Tutto è finito!" dopo l'assassinio
di Duncano, sono le sonorità-cardine con le quali vengono determinati i successivi momenti cruciali del dramma; così pure il
timbro del corno inglese accompagna il duetto che segue immediatamente quell'esclamazione; ma il "segno" drammatico di
quel timbro tornerà alla fine della parabola, ritmando con un lamento le frasi mozze e angosciate che Lady Macbeth
pronuncia nella "Grande scena del sonnambulismo".
A questa concezione fortemente unitaria della drammaturgia, che sta alla base del teatro verdiano e lo individua rispetto a
tutte quelle degli autori a lui precedenti, si accompagna quella della varietas, la volontà di tener desta l'attenzione dello
spettatore introducendo nella vicenda principale "colori", cioè registri drammatici diversi, in genere più leggeri, che hanno
allo stesso tempo lo scopo di mettere in risalto, per contrasto, le caratteristiche individuanti, drammatiche e musicali, dei
personaggi principali. Un esempio tipico di questo aspetto della drammaturgia verdiana, che proviene in misura eguale
tanto dal teatro shakespeariano quanto dalla frequentazione assidua del teatro francese, è il personaggio di Oscar nel Ballo
in maschera. Il paggio del governatore di Boston è in realtà la proiezione del lato "leggero" della personalità di lui, ne
rappresenta quasi una continuazione; attraverso la presenza di Oscar il conflitto interiore che agita l'animo di Riccardo, tra
lealtà verso l'amico e passione irrefrenabile per Amelia, diviene ulteriormente evidente. Sempre secondo questo principio
drammaturgico nella Forza del destino la scena dell'osteria, quella dell'accampamento di Velletri, le "ronde", e tutti gli altri
momenti che in apparenza sembrerebbero estranei e fuorvianti rispetto all'azione principale, hanno invece la funzione, con
la loro semplice presenza, di esaltare ancor più la rappresentazione delle passioni e dei conflitti che tormentano i
protagonisti. Questa alternanza di livelli stilistici e di dinamiche dell'azione caratterizza la drammaturgia del Verdi maturo;
è una concezione del teatro in musica che continua sino alla partitura di Otello.
Con Falstaff il teatro di Verdi compie un ulteriore, supremo balzo in avanti. Il gioco della commedia in musica prende la
forma, nelle sue mani, di un perfetto straniamento, realizzato attraverso costanti equilibri formali di celate simmetrie,
attraverso allusioni a forme musicali provenienti da un passato non operistico, attraverso sottili rispondenze formali e di
contenuto fra azione scenica, testo verbale e partitura musicale. La rappresentazione in controparte di quelle che nelle
opere precedenti erano passioni laceranti si realizza attraverso un costante gioco dell'intelletto, cui lo spettatore, se può e se
sa, è invitato a prender parte.
La costante, intensa apertura verso fonti letterarie e drammatiche diverse da quelle convenzionalmente accettate ha
consentito a Verdi di dar vita a una drammaturgia totalmente originale, al suo tempo e ancora in parte al giorno d'oggi non
ben compresa nelle sue caratteristiche individuanti. Solo una vasta e ricca cultura, solo una forza di sintesi propria soltanto
alle menti di genio ne ha consentito l'attuazione, e l'inveramento nel vivo dell'opera d'arte.
Berardo Amiconi, Ritratto di Teresa Brambilla, prima Gilda 1-qui in costume di Norma], 1851, olio su tela, 69 x 53,5 cm, particolare
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
La "trilogia popolare"
Paolo Gallarati
Con Rigoletto (1851), Il trovatore (1853) e La traviata (1853) Verdi s'insediava definitivamente nella cerchia dei massimi
operisti di tutti i tempi: la straordinaria energia musicale e la capacità di concentrazione drammatica esibite nelle prime
opere venivano poste al servizio di soggetti che, per la loro originalità, la potenza dei caratteri e la tensione teatrale,
spalancavano nuovi orizzonti al teatro moderno. Composti in un tempo ristretto, questi capolavori stanno al culmine della
fase stilistica giovanile ma, diversamente dalla trilogia wagneriana dell'Anello del Nibelungo, col suo prologo costituito
dall'Oro del Reno, non nascono da un disegno unitario. Non è quindi senza forzature che la denominazione di "trilogia
popolare" si applica nei loro confronti. Essa nasce, innanzi tutto, dalla straordinaria fortuna e diffusione di Rigoletto,
Trovatore e Traviata che hanno lasciato, nella coscienza popolare italiana, tracce indelebili: rappresenta, quindi, un
giudizio a posteriori che riguarda essenzialmente la ricezione delle tre opere, e non la progettazione di lavori diversissimi, i
cui elementi comuni sono più determinanti di quelli che li dividono per soluzioni narrative, drammatiche e stilistiche.
Certamente, nella "trilogia" viene a definirsi l'unità morale del mondo verdiano: come ha scritto Massimo Mila, "l'eroe,
snaturato da enormi e smisurate passioni, riacquista, attraverso l'amore e il dolore, la sua umanità". E Rigoletto, buffone
deforme, che ritrova nell'amore per la figlia la sua vera natura di uomo; oppure Azucena, la cui volontà di vendetta si
scioglie al contatto‘del dolore e dell'affetto materno; o, ancora, Violetta che, attraverso l'amore per Alfredo e il sacrificio
della rinuncia, si trasforma da prostituta in un angelo che vola al cielo. Comune è il taglio della drammaturgia: poche scene
essenziali per mettere a fuoco le situazioni chiave; pochi personaggi, isolati in una luce accecante di palcoscenico, che
balzano al proscenio su uno sfondo trattato in modo sommario; contrasti nettissimi tra una scena e l'altra che rimandano
alle sintesi narrative del racconto popolare; un ritmo teatrale incalzante nella successione delle situazioni liriche e
drammatiche, molto diverse da un'opera all'altra.
Una scena di Rigoletto con i personaggi del Quartetto, atto III (il duca di Mantova, Maddalena, Gilda, Rigoletto) pubblicata sul frontespizio delle
Variazioni di Augusto Giamboni su temi del Rigoletto
(Milano, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli)
Analogo è anche il trattamento musicale: per scolpire figure d'una potenza espressiva sinora sconosciuta al melodramma
ottocentesco, Verdi punta quasi esclusivamente sul canto, dal recitativo al declamato sinfonico, alla melodia che sgorga in
tutta la sua bellezza ma non è mai fine,a se stessa; attraverso l'arte della melodia, giunta a un massimo grado di sottigliezza
e duttilità, Verdi coglie, infatti, le differenti tensioni emotive dei personaggi immersi nell'azione. Senza insidiare il primato
assoluto del canto, l'orchestra lo sostiene, arricchendolo di prospettive armoniche e timbriche; ma anche quando pulsa nei
famosi accompagnamenti a chitarra, se eseguito a dovere l'accompagnamento orchestrale non è mai meccanico: mima,
piuttosto, la pulsazione di un organismo vivente. Questi ingredienti fissi interagiscono in contesti espressivi molto diversi
che imprimono a ciascuna delle tre opere un carattere inconfondibile. Basti considerare in quali forme Verdi incarna di
volta in volta il tempo drammatico.
Rigoletto è l'opera del tempo sospeso. Un presagio di sventura la domina da capo a fondo, nell'attesa di eventi che
incombono, dirottando l'attenzione dello spettatore dai fatti reali al mistero di ciò che può accadere. Così le situazioni
drammatiche e musicali sono sovente interrotte dall'arrivo di altri personaggi, e il "tuffo al cuore", lo spavento, il dubbio,
l'incertezza sono stati d'animo ricorrenti la cui forza espressiva prorompe in due situazioni chiave: quando Rigoletto
s'aggira, canterellando con finta indifferenza, mentre cerca Gilda nel palazzo dove è tenuta prigioniera; oppure durante
l'ultimo atto, percorso dall'attesa della tempesta che incombe sulla scena con i suoi rumori e il bagliore dei lampi, così come
la morte si profila minacciosa sul destino dei singoli.
Rigoletto predilige il declamato: prende atto razionalmente della sua condizione esistenziale e trova nella lingua l'unico
mezzo per dominare il mondo ("Pari siamo!... io la lingua, egli ha il pugnale", dice a proposito di Sparafucile). Il suo
antagonista, il duca di Mantova, è invece tutta musica: canta melodie sfrontate, che sovente deformano la parola.
Rigoletto, creatura della lingua, si op-
(Filippo Peroni], Alfredo, figurino per La traviata, Milano, Teatro alla Canobbiana, autunno 1856
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
pone al duca, creatura della musica: il contrasto tra i due assume, così, una potenza inaudita di raffigurazione tragica. Tra
lingua e musica il conflitto è aperto: per questo in Rigoletto la forma musicale è sovente rotta, spezzata; il declamato la
corrode dall'interno, e massimamente nel terzetto dell'ultimo atto, che riproduce nella propria forma il dramma della
distruzione morale. Alla fine il protagonista è schiacciato: Rigoletto non muore, non si uccide, come farà Otello spirando
dolcemente sul cadavere di Desdemona, ma assiste impietrito alla morte di Gilda. Il futuro si chiude davanti a lui,
respingendolo in uno stato di alienazione senza scampo: l'uomo, che si realizzava nell'amor paterno, torna a essere un
burattino condannato alla dannazione del riso. In Rigoletto manca la catarsi, la trasfigurazione. Verdi, non senza
tentennamenti, abbraccia nelle ultime scene la tragedia del negativo: il decadentismo, con il tema del male senza
redenzione, lo tocca in una misura sconosciuta a tutte le altre opere.
Se i personaggi di Rigoletto vivono in un presente sospeso sull'abisso, quelli del Trovatore sono continuamente proiettati in
un romantico altrove, tesi nel ricordo o nell'immaginazione. I pochi fatti che accadono in quest'opera sono solo pretesti per
evocare situazioni passate o immaginare eventi futuri. I racconti e le immagini che abbagliano la mente hanno quindi nel
Trovatore un'enorme importanza: opera "lirica" se mai ve ne fu, bloccata in una fissità contemplativa da cima a fondo,
questa partitura è estranea sia al tempo drammatico di Rigoletto, che si carica di elettricità nella misura in cui indugia
nell'attesa, sia a quello precipitoso, incalzante della Traviata. L'originalità del Trovatore consiste in un miracoloso
ossimoro: fissate fuori dal tempo, le statiche situazioni sono immesse, attraverso la musica, in una corrente trascinante,
sferzata ovunque da uno scatto giambico che dal racconto di Azucena, dove evoca il guizzo della fiamma, si propaga in
tutta la partitura per rappresentare il fuoco delle passioni che divora l'animo dei personaggi. Questo uscire dal tempo per
vivere in un mondo immaginario e visionario impone a Verdi una scelta stilistica totalmente diversa da quella di Rigoletto:
il declamato sinfonico che là coglieva la flagranza del presente qui, in pratica, non esiste; sola, divampa la melodia in pezzi
rigorosamente chiusi e collegati da pochi, sommari recitativi. Se Rigoletto è fatto di trapassi graduali, Il trovatore vive
invece di brusche antitesi: il modo maggiore si oppone al minore, la melodia più ricca al recitativo volutamente banale, il
fuoco alle tenebre, la vita alla morte che Leonora affronta consapevolmente, vincendo il destino avverso con un atto
supremo di fedeltà a Manrico. Rispetto a Rigoletto il mondo morale di Verdi subisce una svolta: d'ora in poi i suoi
personaggi affronteranno le avversità del destino con la forza serena che nasce in loro dall'attaccamento ai grandi valori
morali.
Questo messaggio trionfa nella Traviata, dove, diversamente da quanto accade in Rigoletto e nel Trovatore impostati su
un quartetto di personaggi spiccatamente individuali, tutto ruota intorno alla figura della protagonista. Ad Alfredo e a
Germont, Verdi affida essenzialmente una funzione catalizzatrice: quella di provocare in Violetta le reazioni che ne
costruiscono il carattere e il de-
Filippo Peroni, Un'ala del Palazzo dell'Aliaferia, bozzetto per Il trovatore, atto IV, 7, Milano, Teatro alla Scala, 1853 (Roma, collezione Petrobelli)
stino. Lo stile della Traviata è una sintesi fra la tendenza al declamato espressivo, tipico di Rigoletto, e il trionfo della
melodia pura, affermatosi nel Trovatore. Non si tratta, beninteso, di un "progresso", ma di una diversa organizzazione dei
medesimi ingredienti stilistici in vista di nuove esigenze drammatiche ed espressive. L'esattezza dell'accento nella parte di
Violetta si sposa alla melodia che non trascura la parola, come fa nelle visioni liriche del Trovatore, ma nasce dall'accento e
dalla prosodia, naturale e vera. Essa rappresenta, così, l'umanità riconquistata dopo i gorgheggi da usignolo meccanico che
ritraevano, nel primo atto, l'esistenza alienata della donna perduta. Per questa fusione di accento e melodia la parte di
Violetta è particolarmente moderna, e si oppone a quella di Germont che canta in stile donizettiano, meccanizzando la
prosodia nella rappresentazione del perbenismo borghese e della sua cecità morale. Anche qui, come nel Trovatore, c'è una
figura musicale che percorre tutta l'opera, nelle parti solistiche e corali, liriche e drammatiche: il ritmo di valzer, che ha
diverse valenze espressive; coglie il fascino di Violetta, rende il senso di abbandono alla dolcezza dell'amore, ma insieme
l'ansia per qualche cosa che sfugge, avvitandosi nella spirale senza fine del tempo in tre quarti. Perché qui sta in definitiva
il senso ultimo della Traviata: oltre la storia di redenzione della protagonista, l'opera rappresenta il romantico conflitto tra
l'individuo e il tempo che sfugge, lasciando poco tempo per vivere e per amare; l'incombere della malattia sul destino di
Violetta, e il suo anelito di poter ritrovare definitivamente se stessa nella redenzione dell'amore, non è che la controfigura
La traviata, frontespizio illustrato della riduzione per canto e pianoforte, Milano, Ricordi, 1867
(Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
dell'ansia godereccia dei suoi compagni di feste e di danze. Di qui la presenza di un movimento incalzante che spinge la
musica in avanti, e che trova nel ritmo di valzer, presente quasi ovunque, il principio propulsore.
Bastano quindi le considerazioni sul tempo drammatico e sul rapporto tra musica e parola per cogliere le abissali differenze
fra le tre parti della "trilogia popolare" che, oltre gli elementi comuni alle partiture, appare fondamentalmente disunita,
frutto di tre concezioni così diverse da conferire al genio di Verdi il crisma di una poliedricità tanto più notevole in quanto
esercitatasi nell'intervallo di soli due anni.
Un ballo in maschera, frontespizio dello spartito con una litografia di Alessandro Focosi, Milano, Ricordi [1865]
(Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
Durante la composizione di Un ballo in maschera Verdi ebbe con la censura più difficoltà che con qualunque altra delle sue
opere; ma i problemi, a differenza di quanto avvenne con lavori quali Rigoletto e La traviata, cessarono dopo la prima
rappresentazione, in parte grazie alla liberalizzazione della censura seguita all'unificazione italiana. Tracciando la storia
della genesi di Un ballo in maschera incontreremo tre versioni di base del libretto di Somma (per una delle quali, Un ballo
in maschera, si deve ulteriormente distinguere fra il testo presentato nel libretto a stampa e il testo effettivamente messo in
musica) e due libretti "riveduti", approntati dalla censura prima a Napoli e poi a Roma.
1. Gustavo III (G), ambientato a Stoccolma nel marzo 1792. Avrebbe dovuto essere rappresentato al San Carlo di Napoli
nella stagione di carnevale del 1857-1858.
Alla metà di ottobre del 1857 Antonio Somma iniziò a stendere un libretto basato su quello di Scribe per Gustave III di
Auber (rappresentato nel 1833 all'Opéra di Parigi), procedendo scena per scena e ritornando sui propri passi per soddisfare
le richieste di Verdi. Nel frattempo la censura napoletana esaminava la versione in prosa che Verdi aveva sottoposto per
l'approvazione. All'inizio di novembre la censura inviò una lista con la richiesta di sette modifiche (tabella 1, nn. 1-7).
Somma continuò a lavorare al libretto: lui e Verdi avrebbero deciso in seguito che soluzione adottare per l'ambientazione. Il
lavoro di revisione sarebbe proseguito fino all'inizio di gennaio, quando ormai il libretto si era tramutato in:
2. Una vendetta in dominò (V), ambientato a Stettino (Pomerania; oggi Szczecin in Polonia) nella seconda metà del XVII
secolo.
Dopo alcune discussioni, Verdi e Somma accettarono di ambientare la vicenda a Stettino, capitale del ducato di Pomerania
nella seconda metà del XVII secolo. Quando Verdi giunse a Napoli, il 14 gennaio, il libretto e la partitura almeno
parzialmente orchestrata che portò con sé recavano il titolo Una vendetta in dominò, ed erano ambientati in Pomerania. Ai
registi d'opera può piacere l'idea di "restituire l'opera alla Svezia"; ma anche se all'inizio della composizione il lavoro era
Gustavo III, quando Verdi lo portò a termine si era trasformato in Una vendetta in dominò.
Tabella 1
Richieste più impellenti riportate nella lettera di Verdi a Somma del 7 febbraio 1858 (per informarlo del probabile rifiuto,
da parte della censura, di Una vendetta in dominò)
8. Cambiare il protagonista in signore, allontanando affatto l'idea di sovrano
9. Cambiare la moglie in sorella
10. Modificare la scena della Strega trasportandola in epoca in cui vi si credeva
11. Non ballo
12. L'uccisione dentro le scene
13. Eliminare la scena dei nomi tirati a sorte
Due ulteriori questioni che emergono dal libretto proposto dalla censura (Adelia degli Adimari)
14. No al patibolo
15. No alle maschere
È facile individuare, in questa lista cumulativa di richieste della censura napoletana, tre o quattro questioni centrali, di
carattere politico, religioso e morale, alle quali si può aggiungere il desiderio di evitare violenza o orrori "eccessivi".
Politica: la questione principale era naturalmente la riduzione di re Gustavo III a un semplice signore, togliendogli la
sovranità (tabella 1, nn. 1 e 8). I suoi nemici inoltre avrebbero dovuto odiarlo per offese o risentimenti personali piuttosto
che per ragioni politiche (n. 5). La censura romana, in seguito, avrebbe addirittura stabilito che il conte aveva ucciso il
fratello di uno dei cospiratori per amore di una donna.
Religione: le richieste principali erano legate all'esigenza di prendere le distanze dal soprannaturale e dalla stregoneria,
negando che tali credenze coesistessero con la fede cristiana (nn. 2 e 10). In realtà il XVII secolo è il periodo in cui più
frequentemente avvenivano le esecuzioni di streghe; pertanto l'ambientazione di Una vendetta in dominò era
perfettamente centrata.
Morale: l'eroe deve nutrire rimorsi per il suo amore per Amelia, e nelle richieste estreme il potenziale adulterio deve essere
rimosso o almeno mitigato (nn. 4 e 9). I censori napoletani spiegano che Adelia si è innamorata di Armando (il tenore)
perché egli ha salvato la vita di suo padre in battaglia: "riconoscenza in petto / usurparsi vorria più vivo affetto".
Analogamente, negli altri due libretti italiani basati su quello di Scribe (Clemenza di Valois di Rossi e Gabussi, 1841, e Il
reggente di Cammarano e Mercadante, 1843) il soprano e il tenore si erano innamorati prima che lei, cedendo alle pressioni
dei genitori, sposasse il baritono.
Violenza o orrore: il principale esempio è probabilmente l'obiezione alla presenza del patibolo, per mantenere il quale Verdi
dovette combattere.
Altre richieste della censura sono meno facilmente catalogabili; come classificare l'eliminazione delle maschere, del ballo,
dell'estrazione a sorte, delle armi da fuoco? Alcune delle questioni poi inevitabilmente si sovrappongono (la volontà di
mitigare il desiderio adultero del protagonista nei confronti di Amelia, per esempio, potrebbe essere motivata da ragioni sia
politiche sia morali: dal momento che egli riveste una posizione di comando, è particolarmente importante che sia dipinto
in una luce favorevole).
4. Il Conte di Gothemberg (C), ambientato a Gòteborg (Gothenburg) nel 1760.
E interessante notare come il libretto che Verdi inviò a Roma per l'approvazione della censura non fu Una vendetta in
dominò, che aveva già musicato, bensì Gustavo III. Un manoscritto conservato nell'Archivio di Stato di Roma comprende
sia la redazione di Gustavo III inviata da Verdi a Roma per l'approvazione sia, sovrapposto, il libretto sostitutivo
approntato dalla censura, intitolato Il Conte di Gothemberg. Alla fine di maggio Verdi inviò a Somma una copia del Conte
di Gothemberg e Somma, offeso dall'invadenza e dall'arbitrio dei censori, si ritirò provvisoriamente dal progetto.
5. Un ballo in maschera (B), ambientato a Boston alla fine del XVII secolo (laddove il libretto a stampa e l'autografo di
Verdi divergono: B1= libretto; Bp = partitura).
Un intermediario tra Verdi e la censura rassicurò il compositore che "si lascerebbero i personaggi e le situazioni tali e quali li
ha immaginati il poeta [...]. Solo sarebbe necessario trasportare la scena fuori dell'Europa, per esempio in America, come
Governatore, Vice-Re di Nuova York e simili. Sia detto fra noi: chi non saprebbe ormai che è Gustavo di Svezia?" Mentre la
censura napoletana era stata stupidamente inflessibile, ritenendo a quanto pare di poter costringere Verdi, sotto la
minaccia di un'azione legale, ad accettare le modifiche di vasta portata che essa richiedeva, quella romana fece tutto il
possibile operando (quasi) ogni aggiustamento necessario per evitare che Verdi prendesse la sua partitura e la portasse a
Milano, a Torino o in un'altra città del nord dove la censura non avrebbe rappresentato un problema. Lo stesso papa Pio
IX fu coinvolto nelle trattative. Il fatto che i censori romani mostrassero indubbiamente maggior tolleranza dei colleghi
napoletani era dovuto a questioni di pragmatismo piuttosto che a uno spirito liberale. Dopo tutto, la censura romana non
era stata seconda a nessuno nel mutilare i testi di Rigo-letto e Traviata in assenza di Verdi, che si trovava nell'impossibilità
— o forse non aveva intenzione — di annullare le rappresentazioni.
Ci furono concessioni; ciononostante circa sessanta versi dovettero essere modificati per la loro "crudezza". Somma si mise
al lavoro, avvisando Verdi "che io ritoccherò anche in altri luoghi oltre i segnati dal Censore per dare possibilmente a tutto
l'assieme lo stesso tono, e sotto ogni aspetto". L'espressione "lo stesso tono" si riferisce probabilmente al tentativo di Somma
di fornire un certo color locale. Dopo che fu deciso di ambientare l'opera a Boston, Somma cominciò a inserire riferimenti al
Nuovo Mondo: "d'un vergine mondo l'amor", "O figlio d'Inghilterra", e le parole di Riccardo morente, "Addio, o diletta
America". È a questo avanzato stadio di revisione che Ulrica divenne una "indovina di razza negra" e Renato un "creolo".
Così, alle modifiche di Somma che erano precise risposte alle richieste della censura si intrecciarono inestricabili i suoi sforzi
di migliorare il libretto. Significativamente, il libretto "standard" pubblicato da Ricordi è quasi identico a quello pubblicato
in loco per la rappresentazione, che riporta l' imprimatur della censura. Ricordi non ebbe alcun bisogno di ripristinare un
testo corrotto dalla censura, come era accaduto invece sei anni prima con Il trovatore dove, per citare solo l'esempio più
eloquente, il libretto romano omette la didascalia in base alla quale Leonora beve il veleno dal suo anello (l'eroina muore, a
quanto pare, per cause misteriose).
Se quasi tutte le opere presentano varianti testuali fra il libretto a stampa e la partitura del compositore, nel caso di Un
ballo in maschera queste differenze sono assai più significative che in qualunque 76 altra opera di Verdi; o almeno lo erano,
finché Ricordi, qualche tem-
Un ballo in maschera,
frontespizio del libretto per la prima rappresentazione al Teatro Apollo di Roma nel 1859, Roma, Tipografia Tiberina, 1859
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
po dopo la morte del compositore, non uniformò il libretto a stampa al testo riportato in partitura. Alcuni studiosi hanno
citato queste varianti a dimostrazione degli "sforzi di Verdi per rendere il materiale drammatico sempre più chiaro e
immediato, anche dopo che il libretto sembrava ormai definitivo"; ma le divergenze fra il libretto a stampa e la partitura si
spiegano più facilmente. Verdi aveva già portato a termine la composizione dell'opera — con il titolo Una vendetta in
dominò — prima della revisione del libretto, operata da Somma all'ultimo momento. Accettò alcune delle modifiche,
comprese quelle che aggiungevano colore locale, ma ne rifiutò altre, preferendo lasciare inalterato il testo già messo in
musica. In altre parole, la grande maggioranza delle varianti testuali non è determinata dal fatto che Verdi ritoccò il testo
di Somma, bensì dal fatto che non incluse i ritocchi operati, in parte su richiesta della censura, da quest'ultimo.
Esaminiamo ora alcuni esempi, utilizzando le sigle precedentemente indicate per le diverse versioni del libretto.
Esempio 1
G, V, Bp: Taci: di [G e Bp: nel] sangue Contaminarmi allor dovrei. Non fia Nol vo' — del popol mio
L'amor mi guardi e mi protegga Iddio.
A: Taci: di sangue Lordarmi non voglio. De' miei diletti amici L'amor mi guardi e mi protegga Iddio.
C, Bl: Taci: nel sangue Contaminarmi allor dovrei. non fia Nol vo' — de' miei lo zelo Ognor mi guardi e mi protegga il
cielo.
L'esempio 1 mostra il rifiuto di "Riccardo" di conoscere i nomi di coloro che cospirano contro di lui (Ballo, I, 3). Le sigle G e
V mostrano la prima versione in Gustavo III e in Una vendetta in dominò, che fu riportata inalterata nella partitura di
Verdi (Bp). Il passaggio contrassegnato dalla sigla A è la versione "corretta" che si incontra in Adelia degli Adimari. La
censura napoletana fece delle obiezioni a "popol mio": come "patria", la parola "popolo" era considerata estremamente
pericolosa, se non la si incontrava in contesti quali "uomini e donne del popolo" o "popolani". Come lamentò Verdi, la
modifica abbreviava il secondo verso e avrebbe quindi richiesto la revisione di una parte della musica. Qui i censori
napoletani accettarono senza problemi la parola "Iddio" mentre, come era prevedibile, non fu così a Roma (si veda il
passaggio finale, con le sigle C per Il Conte di Gothemberg e Bl per il libretto di Un ballo in maschera). Naturalmente anche
qui "popol mio" fu sostituito.
Nel libretto a stampa del Ballo Somma adottò, sorprendentemente, la versione del Conte di Gothemberg senza alcuna
modifica.
Si perdeva, così, qualcosa: il riferimento al popolo supporta un ar-
Un ballo in maschera, frontespizio illustrato dello spartito, Milano, Ricordi, 1860 (Sane Agata, Archivio di Villa Verdi)
gomento importante nel primo atto dell'opera, l'errata convinzione di Riccardo che l'amore del popolo lo proteggerà dai
suoi nemici. Di fatto Verdi ignorò la modifica, lasciando, il verso com'era in Gustavo III e nella Vendetta.
Esempio 2
G, V, A: La rivedrà ma splendida D'angelico pallore...
Esempio 3
G, V, Bp: Là tra le danze esanime La mente mia sel pinge Ove del proprio sangue Il pavimento tinge
Spira, dator d'infamie Senza trovar pietà.
A: Là tra le feste esanime La mente mia sel pinge, S'inebria del suo strazio, Il suo morir si finge. Cadrai, dator
d'infamie Senza trovar pietà.
C: Là tra le danze esanime La mente mia sel pinge, A tal eccesso, o perfido, Geloso ardor mi spinge... Spira, dator
d'infamie, Senza trovar pietà.
B: Là delle danze al sonito Ecco il codardo afferro... Ferma la punta vindice... [Al là dov'io l'atterro. Spira dato'.
d'infamie Senza trova[r] pietà.
In Adelia le "danze", che la censura aveva chiesto fossero eliminate, sono sostituite da un banchetto. Il resto mostra una
reazione all'immagine cruenta del pavimento macchiato di sangue, una delle "crudezze" nei confronti delle quali anche la
censura romana aveva sollevato obiezioni. La censura romana investì solo il terzo e il quarto verso, sostituendoli con
un'introspezione in cui il personaggio scopre e riconosce gli eccessi del suo comportamento. Questo passo può richiamarci
alla mente il conte di Luna: "Abuso io forse del poter che pieno / In me trasmise il prence! A tal mi traggi, / Donna per me
funesta..." (Il trovatore, IV, 2). Ma la situazione è totalmente diversa: il conte di Luna rappresenta lo stato, mentre Renato
lo minaccia. Non c'è da stupirsi se il libretto romano del Trovatore, censurato, non concede al conte simili dubbi sull'abuso
di potere. Somma scrisse un nuovo inizio per la sestina, ma Verdi non modificò i versi che aveva già messo in musica
componendo Una vendetta in dominò.
Questi tre esempi potrebbero essere moltiplicati, ma sono sufficienti per mostrare, oltre ai consueti problemi posti dai
censori, come Somma cercasse spesso di andare al di là delle loro richieste, e come Verdi a volte accettasse e a volte invece
ignorasse le revisioni del suo librettista.
Francesco Hayez, Ritratto di Camillo Benso conte di Cavour, 1864, olio su tela, 79 x65 cm, particolare
(Milano, Pinacoteca di Brera)
Giuseppe Verdi da suddito a cittadino
Giorgio Rumi
Ai tempi della scuola repressiva e nozionistica gli studenti apprendevano che un V.E.R.D.I. tracciato sui muri significava,
sotto la "tirannide" degli Asburgo e dei loro satelliti, Vittorio Emanuele re d'Italia. Il musicista sarebbe diventato così il
simbolo stesso del Risorgimento; il nome e la biografia politica di Verdi testimoniano sì un significativo approdo di
liberazione, ma attraverso un itinerario ricco di alternative e di speranze, poi dimenticate sotto l'imperativo di una
soluzione vittoriosa, a lungo ritenuta irreversibile.
Verdi nacque suddito parmense: come tutti i suoi compatrioti dell'età del Risorgimento aveva anche lui una "piccola
patria" particolare, che non si risolveva in una reminiscenza personale ma comportava esiti significativi e rilevanti sui
tempi lunghi della vita italiana. Lo studente Verdi, per il Conservatorio di Milano, è un "estero", anche per ciò ritenuto non
meritevole di proseguire gli studi. Meglio si era comportata la sua legittima sovrana, Maria Luigia duchessa di Parma,
Piacenza e Guastalla, che gli aveva favorito una sovvenzione a carico del locale Monte di Pietà. A Milano, Verdi se la deve
cavare da solo: resta un "estero", ma non un ribelle o un sovversivo. Il 9 marzo 1842 fa rappresentare alla Scala il suo
Nabucco, dedicato — addirittura — a Maria Adelaide d'Asburgo, la figlia del viceré del Regno Lombardo-Veneto,
l'arciduca Ranieri, che andava sposa a Torino al giovane cugino Vittorio Emanuele, figlio di re Carlo Alberto e di un'altra
Asburgo, Maria Teresa di Toscana. Ma più che la dedica, allora del tutto usuale, importa l'occasione: un'alleanza tra le due
dinastie rivali nella penisola, nella persona stessa dell'erede di Casa Savoia, il futuro Padre della Patria. E ancora, con "Va
Pensiero", il libretto del Nabucco allude a una possibilità di riscatto nazionale, affidata appunto... a Nabucodonosor, il
capo degli Assiri occupanti. È un'ipotesi in voga in questi primi anni Quaranta dell'Ottocento, come se davvero il povero
minorato mentale Ferdinando I, imperatore d'Austria ecc. ecc. e re del Regno Lombardo-Veneto potesse davvero, in
qualche modo, promuovere la liberazione dell'Italia. Nel medesimo senso ve-
"Viva Verdi" riprodotto in cartolina. "Manifestazioni patriottiche col nome di V.E.R.D.I. dal 1849 al 1859", 1901
(Milano, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli)
diamo anche I Lombardi alla prima crociata, rappresentata 1'11 febbraio 1843, il cui "O Signore, dal tetto natio" diventerà
poi la bandiera emozionale del Risorgimento. Ma l'opera è stata dedicata, ancora, a un Asburgo, a Maria Luigia, la moglie
diNapoleone ora a Parma, dopo un'umile richiesta al ministro Bombelles (terzo marito della vivace duchessa): "sarà eterna
la mia gratitudine e immenso il beneficio se io potessi venire dalla generosità della venerata nostra Sovrana onorato di un
qualche distintivo il quale nulla più lascerebbe desiderare per la sicurezza di una splendida carriera". Ciò non toglie che
Giuseppe Giusti, nel suo Sant'Ambrogio (1846), proprio a Verdi faccia riferimento nella ricerca di una patria:
Che poi a cantare siano boemi e croati, nelle bianco-azzurre divise austriache, poco importa: Verdi non è un cortigiano, ma
sa leggere i segni dei tempi. Alla questione italiana si può porre rimedio anche con un realistico accordo fra Torino e Vienna:
se poi la bilancia penderà sulla capitale subalpina o su quella lombarda, saranno le circostanze a decidere. E poi Piacenza,
di là del Po, ha una guarnigione austriaca, e anche su Ferrara (patria del librettista Solera) c'è un'ipoteca sancita dai
trattati del 1815. Prende forma, in un uomo lontanissimo dagli affari delle corti e della diplomazia, una premonizione di
quel Regno Padano, o dell'Alta Italia, che era certo negli intenti del giovane Cavour e dei "migliori" della parte più europea
della penisola.
Nabucco, frontespizio e prima pagina dello spartito con dedica ad Adelaide d'Austria, Milano, Ricordi, 1842
(Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
I Lombardi alla prima crociata, frontespizio dello spartito con dedica a Maria Luigia di Parma, Milano, Ricordi (18431
(Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
Sino alla vigilia del 1848 tutto è possibile. Poi cade l'opzione asburgica, e l'Italia deve far da sé: "ancora pochi anni forse
pochi mesi e l'Italia sarà libera, una, repubblicana. Cosa dovrebbe essere?" (21 aprile 1840). Ma la storia accelera e supera i
sogni degli anni Quaranta e i vagheggiamenti recenti. Nel 1859 la scelta definitiva è compiuta. Verdi va con il conte Jacopo
Sanvitale, primario esponente dell'aristocrazia del ducato parmense, a portare a Vittorio Emanuele i voti del plebiscito
emiliano. Incontra Cavour che lo persuade a candidarsi alla Camera dei deputati: "reputo la sua presenza alla Camera
utilissima. Essa contribuirà al decoro del Parlamento dentro e fori d'Italia, essa darà gran credito al gran partito nazionale
che vuole costituire la nazione sulle solide basi della libertà e dell'ordine". Vota dunque l'unità d'Italia, si duole della
scomparsa del grande Conte, con la medesima calma determinatezza con cui aveva approvato la scelta del Comune di
Busseto di donare al Regio Esercito sardo un cannone rigato completo di carri e cavalli. Adora Manzoni, anche per la sua
ferma scelta patriottica, e gli onori che riceve sono effetto (e non causa) di una maturazione nazionale inequivoca.
Deputato, cavaliere dell'Ordine Civile di Savoia (come Cavour), senatore del Regno dal 15 novembre 1874 per la ventesima
categoria ("coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la Patria") e, sorprendentemente, per la ventunesima
("le persone che da tre anni pagano tremila lire d'imposizione diretta in ragione de' loro beni o della loro industria"),
Giuseppe Verdi diventa una personificazione dell'unità della nazione e della fedeltà alle istituzioni liberali: le vicende
personali come le inquietudini esistenziali non incidono sulla scelta operata sin dal 1848. Al programma di ordine e libertà
che Cavour gli aveva sottoposto, l'"orso di Busseto" resta sempre leale con un singolare attaccamento alla dinastia. È
invitato a scrivere un nuovo inno nazionale, ma la-
Ventaglio con I difensori del diritto e della libertà in Italia, raggio 27 cm. Sul ventaglio sono raffigurati a colori Napoleone III, Mac Mabon, Vittorio
Emanuele II, Umberto e Garibaldi (Milano, Museo del Risorgimento)
scia cadere la cosa: "a voi sembra facile ma non è". Se Manzoni gli avesse scritto le parole, la via gli sarebbe riuscita meno
ardua. In ogni caso, per il più gran lombardo scrive la Messa di requiem. Poi, sul finire della vita, resta sconvolto alla
notizia del regicidio di Monza (29 luglio 19Ó0) e plaude alla preghiera di suffragio composta dalla regina Margherita,
nonostante l'aperta disapprovazione dell'autorità ecclesiastica... Ma due anni prima, nella crisi del maggio 1898, quando un
pavido governo espone la corona e l'esercito per fronteggiare moti di piazza accesi dal carovita, ancora una volta Verdi
sceglie decisamente le istituzioni, e partecipa alla sottoscrizione lanciata dal giornale liberale "La perseveranza" a favore
non della povera gente disperata presa a cannonate e fucilate per le strade della metropoli lombarda, ma delle truppe.
Tutta Milano, almeno quella erede del 1821, del 1848 e del 1859 gli era consentanea e condivideva il giudizio e la scelta
compiuta tanti anni addietro. Verdi era di quel mondo un fondatore e un protagonista, coerente, come Manzoni, sino alla
fine.
L’epistolario di una rilevante personalità della cultura o della storia costituisce spesso lo strumento principe per conoscere
l'uomo, i suoi rapporti, le sue idee, i suoi umori, le sue preferenze. La corrispondenza manifesta, come nessun altro
documento, la personalità dell'individuo, il suo porsi nei confronti degli altri e del mondo. Verdi non fa certamente
eccezione, anzi. Le sue lettere ci permettono di ricostruire — meglio di qualsiasi altra fonte di informazione — le fasi della
sua vita, il percorso ideale nel divenire dell'arte sua. Ma l'epistolario verdiano si distingue dagli altri per alcune sue
caratteristiche individuanti.
Le lettere di Rossini ci dicono assai poco dell'uomo e delle sue idee: la personalità dell'artista si cela dietro ad esse con lo
stesso enigmatico sorriso che contraddistingue gli inconfondibili ritratti; quelle di Bellini ci presentano un'immagine a tutto
tondo dell'autore di Norma, assai diversa da quella — idilliaca ed ingenua — che il mito ci vorrebbe proporre; mentre quelle
di Donizetti sono lo specchio della sua generosa disponibilità, e insieme la testimonianza della sua sfaccettata cultura.
Con Verdi le cose vanno in un altro modo ancora. Anzitutto per l'arco temporale che la corrispondenza occupa, dal primo
soggiorno milanese a metà degli anni Trenta sino a pochi giorni prima della morte; sono quasi settant'anni, nel corso dei
quali il compositore intrattiene rapporti e contatti epistolari di ogni genere: di lavoro, di affari, di amicizia. Quante siano in
realtà le lettere che compongono i carteggi verdiani non lo sappiamo, e forse non lo sapremo mai. Da tempo l'Istituto
Nazionale di Studi Verdiani sta pazientemente raccogliendo e catalogando la riproduzione di questi autografi del Maestro;
ma molti altri, oltre ai documenti di cui si conosce l'esistenza ma che sono inaccessibili, non rispondono all'appello perché
dispersi, e anche volontariamente distrutti.
Nella considerazione complessiva di questo epistolario bisogna poi tener conto di tutte quelle lettere indirizzate al
compositore che furono da lui accuratamente conservate nel suo archivio di Sant'Agata. Sono documenti essenziali per
ricostruire i singoli rapporti, do-
La Rocca di Busseto in un dipinto del XIX secolo (Busseto, Museo Civico)
cumenti che illuminano e completano i messaggi, sovente ellittici, a volte persino criptici, del protagonista della
corrispondenza.
A monte di questa massa imponente di lettere — se ne sono raccolte sinora non meno di. sedicimila — sta un atteggiamento
tipico dell'uomo: quello di preferire il rapporto indiretto, mediato con il mondo esterno. Nel momento in cui il genio di Verdi
si afferma a livello internazionale con la prima rappresentazione di una sua opera sulle scene del massimo teatro d'Europa,
sul palcoscenico dell'Opéra di Parigi — I Lombardi alla prima crociata trasformati in Jérusalem (novembre 1847) — il
Maestro decide di stabilire la sua dimora nella solitudine della campagna; dapprima a Passy, allora nei dintorni della
capitale francese, ma subito dopo, nel maggio 1848, acquistando a Sant'Agata, nei pressi di Busseto, una tenuta nella quale
costruire una villa. Di questo edificio egli stesso disegna l'architettura; e la villa diverrà la principale residenza per il resto
della sua vita. Nel silenzio e nella calma della Pianura padana egli può non solo pensare e riflettere, e quindi comporre la
sua musica e plasmare il suo teatro, ma anche scegliere liberamente con chi intrattenere rapporti attraverso lo strumento
della corrispondenza, che di per sé filtra — ma può anche esaltare — pensieri e riflessioni.
Rapporti di lavoro, si diceva. Anzitutto con i librettisti, che risiedono altrove (Cammarano a Napoli, Piave a Venezia e poi
a Milano, Ghislanzoni a Lecco, e infine Boito, ancora a Milano). Con loro viene tessuta la tela del supporto verbale alla
partitura; ma ai problemi di versificazione si accompagna spesso anche la definizione di situazioni drammatiche. Il tutto
avviene attraverso il meditato, indiretto canale della corrispondenza, che diventa in questo modo per noi fonte
preziosissima di informazioni, spia principale nel ricostruire il processo compositivo del Maestro.
E poi rapporti di affari. Con gli impresari, ma soprattutto con gli editori, i Ricordi e Lucca in Italia, gli Escudier in Francia.
Ma la corrispondenza con queste persone si estende ben oltre gli argomenti riguardanti la rappresentazione delle sue opere e
la diffusione della sua musica, per toccare temi che riguardano la vita pubblica e anche quella privata, le idee ma anche e
soprattutto gli eventi politici contemporanei. Particolarmente importante il rapporto che stabilisce con Giulio Ricordi, che
diviene persino consulente per questioni artistiche e compositive; scrivere a Giulio significa più di una volta saggiare le
proprie idee, dare loro una forma verbale definita, e in questo senso il documento epistolare diventa quasi uno specchio
della mente.
Altro terreno fertile di rapporti sono le amicizie, le persone che Verdi incontra lungo il percorso dell'esistenza e con le quali
avverte di poter stabilire un contatto duraturo. Nell'ambiente nobiliare milanese Andrea ma soprattutto Clarina Maffei,
Emilia e soprattutto Giuseppina Morosini; a Roma lo scultore Vincenzo Luccardi; a Napoli l'uomo d'affari Cesarino De
Sanctis. Una forma del tutto particolare di rapporto è l'amicizia con personalità della vita pubblica quali Opprandino
Arrivabene e Giuseppe Piroli, la cui carriera politica si riflette indirettamente nelle lettere scambiate con il Maestro: in esse,
gli eventi della storia contemporanea risaltano con maggiore evidenza. Con tutte queste persone Verdi parla a cuore aperto,
sapendo bene che non ha bisogno di essere cauto nell'esprimere giudizi e opinioni; egli può liberamente manifestare pensieri
ed emozioni, con schiettezza e libertà. Le lettere indirizzate agli amici ci permettono di conoscere, meglio di ogni altro
documento, la verità dell'uomo. Un rapporto diverso è quello con gli interpreti delle sue opere: con i direttori d'orchestra
Angelo Mariani, Franco Faccio ed Edoardo Mascheroni; con Maria Waldmann e soprattutto con Teresa Stolz (ma nelle
lettere a questa cercheremmo invano affermazioni ed espressioni che possano sollecitare curiosità indiscrete).
In questa massa imponente di documenti, che percorrono trasversalmente l'intera esistenza di Verdi, colpisce la mancanza
quasi assoluta di lettere indirizzate a componenti della sua famiglia, ivi compresa Giuseppina Strepponi. Lasciando per un
momento da parte quelle scritte con scopi esclusivamente pratici, o per tenere rapporti di affari, le lettere di Verdi sono il
canale, lo strumento da lui scelto per tenere vivo un rapporto personale individuato e scelto fra tanti possibili. La
corrispondenza con una persona ci fa sapere allo stesso tempo che quella persona è stata volutamente prescelta per poter
costruire un rapporto umano di confidenza, per poter esprimere — in maniera mediata e filtrata attraverso il documento
epistolare — pensieri e riflessioni, con la sicurezza che non sarebbero immediatamente divenuti oggetto di indiscreta
curiosità per i lettori della stampa contemporanea.
A cent'anni dalla morte di Verdi, le sue lettere sono lo strumento ideale per ricostruirne l'immagine, deformata e distorta
dal mito che si è venuto formando nel tempo. Le lettere ci consentono invece di conoscere un uomo e un artista
infinitamente più complesso e più interessante, un carattere orgoglioso sì, ma anche capace di straordinaria generosità
(sempre celata con cura al grande pubblico); un uomo a volte tormentato da dubbi, e soprattutto con una visione
estremamente pessimistica della vita e dell'umanità, la stessa visione che attraversa il suo teatro e la sua musica, con la
medesima aspirazione a una trascendenza sempre più avvertita come improbabile. 89
Tito H Ricordi e Giuseppe Verdi fotografati sul cancello della casa di Giulio Ricordi, in via Borgonuovo a Milano, 1892
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Il presente contributo è stato pubblicato per la prima volta con il titolo The New System: Verdi as Money-Maker
in Verdi Festiva! Essays, Royal Opera House, London 1995
Per il suo successo negli affari potremmo dire che Giuseppe Verdi fu il Bill Gates del XIX secolo, o che lo sarebbe stato se
fosse riuscito a riscuotere tutto il denaro che gli spettava. Di fatto egli divenne ricco: all'inizio della carriera a costo di
grandi fatiche, e alla fine con grande disappunto per quelle somme che aveva guadagnato ma che non gli venivano
riconosciute.
Grazie all'avvento delle macchine a vapore, le opere di Verdi furono le prime ad essere rappresentate — letteralmente! —
dalla Cina al Perù. Le sue tre opere più popolari, Rigoletto, Il trovatore e La traviata, composte fra il 1851 e il 1853,
coincisero quasi esattamente con la nuova possibilità di raggiungere molte zone del mondo grazie alle ferrovie e a efficaci
battelli a vapore. Il suo genio fece il resto. E non erano solo le compagnie d'opera itineranti a portare questi suoi lavori nei
porti del Brasile, a Calcutta, a Sydney; ovunque le bande suonavano "La donna è mobile" e il coro dei gitani nel Trovatore,
e gli organetti di Barberia li diffondevano per le strade di Berlino e New York. Se Verdi fosse riuscito a farsi riconoscere i
diritti su tutte queste esecuzioni sarebbe diventato sicuramente uno degli uomini più ricchi del mondo.
La carriera di Giuseppe Verdi non coincise solo con l'epoca delle macchine a vapore, ma anche con un decisivo e
fondamentale cambiamento nella condizione economica dei compositori italiani. Alla sua nascita, nel 1813, l'Italia
manteneva salda la sua reputazione di "culla" dell'opera; tuttavia, i compositori erano ancora costretti a lavorare a un
ritmo frenetico. Ma ai tempi della penultima opera di Verdi, Otello (1887), le cose apparivano molto diverse: un
compositore italiano di successo era considerato un vero artista e al tempo stesso un imprenditore; nelle parole di Girolamo
Alessandro Biaggi, un critico dell'epoca, un'opera che fosse un poco al di sopra della media poteva "fruttare quanto una
grossa fattoria". Dal canto suo, Verdi — smentendo l'opinione diffusa che lo faceva proprietario di "immense ricchezze" —
si espresse chiaramente in proposito: "quando io scrivevo molto, le opere si pagavano poco; adesso che si pagano bene, non
scrivo quasi più".
Adolfo Matarelli,
Ritratto di Vincenzo Bellini, litografia, 65 x 43,2 cm (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
La spiegazione di questo mutamento sta nella questione del diritto d'autore. Nel 1813 gli stati italiani, a differenza della
Francia, di fatto non lo conoscevano: un compositore scriveva un'opera perché fosse rappresentata in una certa città, e
veniva retribuito con un compenso; una volta terminata la serie delle rappresentazioni, il lavoro poteva non essere mai più
ripreso, e anche qualora fosse rappresentato in tutta l'Italia (come accadde per i due popolarissimi titoli di Rossini di
quell'anno, Tancredi e L'italiana in Algeri), il compositore non riceveva più nulla, a meno che non dovesse intervenire con le
modifiche necessarie per adattarlo a un nuovo cantante.
Tale condizione di "manovalanza" è confermata inoltre dall'ammontare del suo compenso: perfino un compositore di primo
piano otteneva per un'opera poco più di 2000 franchi, forse un quinto di quanto guadagnava una prima donna in una
stagione di soli due o tre mesi. Per poter vivere decorosamente, allora, egli era costretto a scrivere un'opera per almeno due
delle tre stagioni (di carnevale, di primavera e d'autunno) che avevano luogo ogni anno nei teatri, prima in una città e poi
in un'altra; e in più forse, per arrotondare, un dramma biblico per la quaresima o un lavoro comico per una stagione estiva
di secondaria importanza. Lavorava in modo molto più simile a quello di un autore di sceneggiati televisivi che a quello di
Britten o di Berio.
La maggior parte dei compositori italiani della generazione immediatamente precedente quella di Verdi mantenne un ritmo
di produzione impressionante. Donizetti e l'allora famoso Pacini scrissero, in media, poco meno di tre opere l'anno, ma in
certi periodi ciascuno di loro ne compose addirittura quattro. Nel primo decennio della sua carriera (1839-1849) Verdi
manteneva una media annuale di un'opera e mezzo, e comunque non scrisse mai più di due opere completamente nuove in
uno stesso anno. Eppure anche questo ritmo, relativamente contenuto per gli standard italiani del tempo, gli costò forti
dolori di stomaco, e lo costrinse a cercare rifugio nelle stazioni termali: una prova dello stress al quale era sottoposto. Questi
furono, come ebbe a dire più tardi, i suoi "anni di galera".
C'era però un modello alternativo: quello di Vincenzo Bellini. Nei cinque anni che precedettero la sua morte prematura,
avvenuta nel 1835, Bellini aveva superato ogni record per il compenso pagato in Italia a un compositore teatrale,
innalzando le proprie cifre a livelli senza precedenti: riceveva infatti, in quel periodo, dapprima 10.000 franchi, poi 12.000
per una sola opera. Poco prima di morire stava ancora trattando per un ulteriore aumento, seppur lieve: "non scenderò mai
dai prezzi che già ho ricevuto per le mie ultime opere". Bellini riusciva a farsi pagare così tanto perché il suo talento era
reputato unico, e doveva comunque insistere su cifre molto alte perché era, in rapporto alle consuetudini italiane, un
compositore piuttosto lento: produceva in media solo un'opera all'anno. Bellini incarnava, in sostanza, il nuovo fenomeno
del compositore consapevole di essere un artista: "col mio stile", scrisse, "devo vomitar sangue".
Per un artista come lui, una legge efficace sul diritto d'autore sarebbe stata particolarmente utile. C'è da considerare che
non solo un'opera di successo faceva il giro dei teatri di tutta la penisola, ma anche il fatto che gli editori musicali si erano
risvegliati, e pure nell'arretrata Italia un pubblico ancora esiguo ma in continua crescita era desideroso di possedere spartiti
per canto e pianoforte e arie arrangiate per una straordinaria varietà di strumenti (cornetta, flauto, fisarmonica ecc.), per
allinearsi con la prassi ottocentesca del far musica nei salotti: per esempio, l'editore di Verdi avrebbe pubblicato, nell'arco di
dieci anni, addirittura 245 arrangiamenti dei Lombardi (1843), probabilmente un record assoluto. Gli editori erano anche
soliti acquistare la partitura completa di un'opera, per poi noleggiarla in occasione di successive rappresentazioni. All'epoca
di Bellini, tuttavia, tutte queste possibilità di guadagno erano a volte vanificate dagli editori-pirata, i quali si
impossessavano di una partitura (di norma corrompendo un copista) e mettevano poi in commercio versioni non
autorizzate; in altri casi un impresario-pirata poteva ingaggiare un compositore prezzolato per ricavare le parti d'orchestra
dalla riduzione a stampa per canto e piano. Bellini e Donizetti protestarono a gran voce e cercarono di ottenere l'intervento
della polizia, ma invano: la legge non stava dalla loro parte.
Una pagina del Riassunto contratti d'acquisto d'opere teatrali, registro "Per protocollo" [post 1885]
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Questa situazione principiò a cambiare proprio agli inizi della carriera di Verdi, con il trattato sul diritto d'autore stipulato
nel 1840 fra il Regno di Sardegna (che comprendeva Torino e Genova) e l'Austria (che comprendeva Milano, Venezia e
Trieste, oltre che Vienna). Seguirono ulteriori trattati fra gli altri stati italiani, anche se Napoli rimase totalmente estranea
a questa regolamentazione fino all'unità, nel 1861. Le antiche pratiche della pirateria editoriale faticarono a morire: ci
vollero circa dieci anni prima che si riuscisse a far pienamente rispettare il diritto d'autore, ormai stabilito per legge, in
tutto il territorio interessato dai trattati. Era, comunque, un inizio.
Nonostante la popolarità raggiunta a partire da Nabucco (1842), a Giuseppe Verdi ci volle del tempo prima di ottenere e
superare i compensi record di Bellini. Ci riuscì solo qualche anno dopo con
Contratto originale, firmato da Giuseppe Verdi e Giovanni Ricordi, per Oberto, conte di San Bonifacio, Milano, 30 novembre 1839
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Macbeth (1847), la sua decima opera, per la quale gli furono corrisposti 18.000 franchi. In realtà guadagnava
probabilmente più di quanto avesse mai guadagnato Bellini con la vendita a un editore di quelli che oggi chiameremmo
diritti complementari (il diritto di noleggiare la partitura e quello di pubblicare arrangiamenti); ma il compenso per la
composizione di un'opera restava comunque la sua principale fonte di guadagno: donde la necessità di mantenere ritmi di
lavoro massacranti.
Due mesi dopo che Macbeth aveva dimostrato, con la massima evidenza, chi era il principale compositore italiano, Verdi
firmò un nuovo tipo di contratto, che avrebbe incrementato notevolmente le sue possibilità di guadagno. Per la sua nuova
opera — La battaglia di Legnano — ottenne dal proprio editore, Ricordi, il rovesciamento completo del vecchio sistema. Il
compenso per l'opera in sé sarebbe stato irrisorio; la maggior parte dei guadagni, per il nostro, sarebbe arrivata dalla
cessione totale dei diritti di stampa, dalla vendita della partitura nei paesi stranieri (in particolare Francia e Inghilterra) e
da una percentuale fissa su ogni noleggio della partitura nell'ambito del circuito operistico italiano. E tutte queste nuove
fonti di guadagno erano unicamente il risultato di un'efficace applicazione della legge sul diritto d'autore: Verdi aveva
compreso bene la nuova situazione, e incominciava a sfruttarla. Non a caso in meno di un anno fu in grado di acquistare il
nucleo di quella che sarebbe diventata la sua tenuta a Sant'Agata, una località dove un suo avo era stato fittavolo
addirittura nel 1695: ed era così sicuro di queste nuove possibilità che non esitò a indebitarsi per tale acquisto.
Con il tempo e l'esperienza egli perfezionò il nuovo sistema: all'epoca di Don Carlos (1867) era passato dalla cessione totale
dei diritti a una percentuale del 50 per cento sia sul noleggio delle partiture sia sulla vendita degli arrangiamenti, e cominciò
anche a vendere personalmente i diritti sulle sue opere in Francia e in Inghilterra. Dal momento che era ormai
indiscutibilmente il più grande compositore d'opera, non solo in Italia ma in tutto il mondo, poteva di fatto ottenere —
oltre a tutto il resto — compensi senza precedenti: 60.000 franchi per La forza del destino a San Pietroburgo (1862), 40.000
franchi per Don Carlos a Parigi, e non meno di 150.000 franchi per Aida al Cairo (1871).
È interessante a questo punto notare un'altra conseguenza importante del nuovo sistema sviluppato da Verdi, evidenziata
proprio dalle date di realizzazione di questi lavori: si tratta delle sole tre opere che egli scrisse fra il 1860 e il 1871. Il suo
ritmo di produzione si faceva dunque sempre più lento: negli anni Quaranta, da Un giorno di regno a Luisa Miller, scrisse
tredici nuove opere; negli anni Cinquanta, da Stiffelio a Un ballo in maschera, sette; dal 1860 fino alla sua morte, oltre
quarant'anni dopo, solo cinque (nell'ultimo periodo compose anche il Requiem e i Quattro pezzi sacri). Il diritto d'autore, e
l'uso consapevole delle possibilità che esso offriva, avevano garantito a Verdi l'agio di scrivere partiture ben meditate e
accuratamente rifinite, come Aida, Otello e Falstaff.
Anche allora, però, il compositore aveva legittimi motivi per lamentarsi. I trattati internazionali sul diritto d'autore si
erano moltiplicati, finché nel 1887 la Convenzione di Berna li aveva riuniti tutti in un accordo mondiale; alcuni paesi,
tuttavia, non avevano aderito, in particolare la Russia e l'Argentina, entrambi importanti per l'opera lirica. Un anno dopo,
in uno dei principali teatri di Buenos Aires aveva avuto luogo una rappresentazione pirata di Otello, in anticipo su quella
autorizzata da Verdi e Ricordi, i quali non avevano potuto fare nulla e non avevano guadagnato neppure un peso. Ma per
Giuseppe Verdi era ormai tardi: la sua carriera era quasi terminata. Nei primi anni di rappresentazione (1851-1852)
Rigoletto gli aveva fatto guadagnare in Italia e Germania poco più di 28.000 franchi; allora, e in seguito, gli avrebbe
fruttato assai di più se avesse potuto farsi valere a New York, a Mosca, e nei molti altri luoghi che ignoravano il diritto di
un autore a guadagnarsi da vivere con il proprio lavoro. In questo senso, Verdi aveva ragione di negare di possedere
"immense ricchezze".
Comunque sia, egli divenne il facoltoso proprietario di una tenuta, e d'inverno poteva permettersi di prendere in affitto un
palazzo nobiliare in riviera, a Genova. Investì anche del denaro a Parigi; ben poco è noto di tali investimenti, ma se
pensiamo a come fu capace di gestire il suo talento e la sua carriera, possiamo ipotizzare che furono probabilmente
avveduti. Alla sua morte poté lasciare la propria famiglia adottiva in buone condizioni finanziarie e sovvenzionare, con un
generoso lascito, una grande e ben attrezzata casa di riposo per musicisti meno fortunati di lui. La tenuta, la famiglia e la
casa di riposo vanno ancora a gonfie vele, così come le opere che ne sostennero la prosperità economica. Verdi costruì in
modo duraturo.
Invece, quello che oggi è nuovamente minacciato è proprio quel diritto d'autore che consentì al compositore di creare la sua
fortuna. Grazie alle macchine fotocopiatrici e alla tecnologia digitale, la pirateria — di musica registrata e di libri — ha
ripreso quota, ma non dobbiamo disperare: alcuni dei più grandi artisti (per esempio William Shakespeare) sono riusciti a
difendersi, in condizioni economiche decisamente più problematiche di quelle odierne.
Un nuovo Verdi sarebbe necessario, oggi, per difendere i diritti della creazione artistica.
Verdi e l'editoria
Gabriele Dotto
I rapidi mutamenti sociali, politici, artistici e commerciali che caratterizzarono tutto il XIX secolo, e che coincisero con il
pieno fiorire della rivoluzione industriale dalla quale furono stimolati, non mancarono di riflettersi sul mondo dell'editoria.
Di fatto, l'editoria era destinata a essere uno dei protagonisti della svolta che avrebbe portato a una crescente influenza
della borghesia e a una diffusione sempre maggiore della cultura in ambito popolare. Questa svolta nel potere commerciale
permise, inoltre, una maggiore indipendenza finanziaria degli artisti, condizione alla quale la generazione precedente a
Verdi aveva aspirato, ma che non aveva mai realmente raggiunto.
Già nei primi anni dell'Ottocento una prima tappa di questa evoluzione fu la spinta verso una razionalizzazione della
gestione degli "archivi" musicali, a quell'epoca sparpagliati (e spesso dimenticati) fra teatri, impresari e copisterie. Viene
attribuita a un copista musicale milanese, Giovanni Ricordi, l'idea di costituire un ampio catalogo, costruito non solo sulle
opere affidate alla sua copisteria (ebbe l'idea ingegnosa di aggiungere una clausola ai suoi contratti con i teatri per la quale,
terminate le rappresentazioni di un'opera, tutto il materiale d'esecuzione da lui copiato sarebbe rimasto di sua proprietà)
ma anche acquistando archivi esistenti. Da qui, il concetto di un grande archivio a disposizione di qualsiasi teatro e, man
mano, della consolidazione di un "repertorio" di base. Quando nel 1808 Ricordi intraprese l'attività editoriale, avrebbe
preteso anche la proprietà delle partiture autografe. Era l'inizio di una vera e propria "industria" editoriale musicale
moderna, e segnò una svolta determinante: la proprietà di un'opera passò dall'impresario all'editore; o meglio, anche
l'editore divenne di fatto un impresario.
Le cose naturalmente non cambiarono da un giorno all'altro: gli effetti di questa svolta non si sarebbero manifestati per
intero fino alla metà del XIX secolo. In precedenza, secondo una prassi che si protrasse anche negli anni fra il 1830 e il
1850, la partitura di un compositore rimaneva spesso di proprietà dell'impresario che l'aveva commissionata. Il materiale
d'esecuzione poteva essere noleggiato ad altri teatri, oppure copie della partitura potevano essere vendute per allestimenti
successivi, per i quali si sarebbero realizzate nuove parti staccate. Il compositore dal canto suo, che era stato retribuito per
la composizione, abitualmente non riceveva alcun compenso per gli ulteriori allestimenti ai quali non partecipava
personalmente; più grave è però il fatto che la sua opera, mentre circolava senza il suo diretto coinvolgimento, era esposta a
ogni genere di "arrangiamento" — se non addirittura a brutali deformazioni.
È facile immaginare che per Verdi questa non fu una lezione inutile. La situazione ormai mutata, che faceva sì che i
guadagni derivanti nel tempo dal lavoro superassero quelli della commissione iniziale, avrebbe rappresentato libertà e
controllo: dopo la dura prima fase di carriera Verdi poteva selezionare i suoi progetti e aveva tempo di prepararli con cura;
inoltre aveva la possibilità, in una certa misura, di determinare e sorvegliare la qualità delle rappresentazioni. Poteva anche
permettersi di mandare al diavolo il denaro e rifiutare qualsiasi progetto non gli apparisse interessante: una posizione
invidiabile, per un artista. Negli anni Cinquanta, Verdi poteva ormai guardare ai suoi "anni di galera" come a un
investimento capace di garantirgli sicurezza a lungo termine. Troviamo una frase eloquente in una lettera a Giulio Ricordi
del 26 novembre 1880, relativa alla proposta di una ripresa e alla possibile revisione di Simon Boccanegra per la Scala,
riguardo alla quale Verdi era stato a lungo sfuggente: "Non impegni col Pubblico né con nessuno. Io non sono più un
Artista sulla breccia. Sono un Di Più: quello che faccio è per Di Più: quello che farò sarà Di Più. Quindi non cartellone, né
promesse né obblighi (ripeto ancora) con Nissuno".
Alla crescente importanza degli editori musicali nel XIX secolo corrispose il crescente rispetto tributato al compositore
come artista creatore, due fattori che ebbero una reciproca influenza positiva. La necessità degli editori di trarre il massimo
profitto dai loro investimenti pose le basi per la costituzione di un "repertorio". Traendo il massimo vantaggio dal potere
dell'editore, Verdi fu il primo compositore d'opera italiano ad affrancarsi dalle pastoie del vecchio sistema; in questo
processo insistette sulla integrità artistica delle rappresentazioni dei suoi lavori. Come abbiamo detto, ancora agli inizi del
XIX secolo un compositore riceveva un compenso forfettario per la sua partitura d'opera, della quale il teatro poteva poi
fare uso e abuso a suo piacimento. A metà del secolo, tuttavia, Verdi cominciò ad avanzare richieste che nessuno dei suoi
predecessori avrebbe mai immaginato: nei suoi contratti con gli editori inserì clausole che obbligavano a rappresentare i
suoi lavori integralmente e senza aggiunte altrui (una richiesta non facile da far rispettare: non sono poche le lettere agli
editori in cui Verdi insiste perché intensifichino il loro controllo). I logici passi successivi, per Verdi, furono la scelta
personale di direttori e cantanti, il coinvolgimento diretto nella messinscena e persino il diritto di cancellare una
rappresentazione se le prove erano insufficienti.
Verdi fu una di quelle figure rare abitualmente considerate una sorta di ossimoro: un superbo artista che era al tempo stesso
un abile uomo d'affari. Attento ai propri interessi, ben presto cominciò a trattare con più di un editore, talvolta
suddividendo i diritti parziali di un'opera fra píù contendenti. Tre furono comunque gli editori particolarmente importanti
nel corso della sua carriera: le imprese milanesi di Lucca e di Ricordi e la ditta parigina Escudier. Marie e Léon Escudier
ebbero i diritti per l'edizione francese di numerose opere di Verdi. Casa Lucca, fondata nel 1825, era in un certo senso una
emanazione di Casa Ricordi (1808): Francesco Lucca, il fondatore, era stato infatti uno degli incisori di Ricordi. Come
editore rivale, Lucca fu in accanita competizione con il suo precedente datore di lavoro per ottenere i diritti delle opere di
Verdi; pubblicò Attila, I masnadieri e Il corsaro. I diritti di Nabucco furono suddivisi fra Lucca e Ricordi. Se in questa sede
la nostra attenzione è incentrata soprattutto su Casa Ricordi, è perché questo editore, attraverso tre generazioni che si
trasmisero l'amministrazione di padre in figlio, rivestì un ruolo così importante nella carriera di Verdi da essere giustamente
considerato, nell'immaginario popolare, "l'editore di Verdi" (oltre a ciò, alla fine sia Casa Lucca sia la Escudier furono
assorbite da Ricordi).
Su un piano pratico, l'impegno dell'editore per la diffusione e la salvaguardia dell'"autenticità" delle opere di Verdi aveva
una fondamentale giustificazione economica: l'investimento richiesto dalla pubblicazione rappresentava un notevole
impiego di capitale ad alto rischio. Molti titoli non andavano al di là di pochi allestimenti, qualcuno addirittura non
sopravviveva neppure alla prima rappresentazione. Le partiture erano enormi, il processo di copiatura costoso, il materiale
d'esecuzione che ne veniva tratto voluminoso, il processo di stampa molto lungo. I ritmi di lavoro erano frenetici, con
scadenze serrate, modifiche dell'ultimo minuto e rilevanti cambiamenti all'ordine del giorno.
Se Giovanni Ricordi era stato un uomo d'affari paternalistico (Verdi compose parte della Traviata ospite nella sua villa sul
lago di Como), Giulio Ricordi, nipote di Giovanni e direttore della ditta dal 1880 fino all'inizio del XX secolo, fu capace di
instaurare con Verdi un rapporto che andava al di là degli affari per assumere i contorni di una cordiale amicizia, e
addirittura di una collaborazione artistica. Dotato di un'ottima cultura e abile musicista egli stesso, Giulio prese parte
attiva alla scelta degli esecutori e ad altre questioni relative agli allestimenti; fu addirittura coautore ed editore di una
eccellente serie di disposizioni sceniche. Si accostò a Verdi con il rispetto dovuto a un artista che non solo era considerato,
negli anni Settanta, uno dei più grandi compositori contemporanei, ma era diventato una sorta di monumento nazionale.
Le loro lettere rappresentano un significativo ed eloquente scambio di opinioni su questioni artistiche; ma mostrano anche
come Giulio fosse un consumato diplomatico, capace di trattare abilmente con l'orso di Busseto al fine di conseguire
risultati utili e positivi per entrambi. In effetti, questo editore illuminato fece da catalizzatore nella realizzazione di Otello,
un capolavoro sollecitato a un vecchio compositore reticente che da tempo riteneva di essersi ormai ritirato dalle scene.
Un'altra impresa di questo tipo riguarda, per esempio, la citata revisione di Simon Boccanegra, un lavoro che non aveva
avuto grande successo dopo la "prima" del 1857: Ricordi lo considerava un investimento che languiva sugli scaffali. Nel
1879, a seguito di una conversazione svoltasi a Genova (durante la quale, possiamo supporre, fu saggiato il terreno con
cautela e cortesia), Giulio inviò a Verdi la partitura autografa di Simon Boccanegra. Impassibile, Verdi gli comunicò di
averla ricevuta: "Ho ricevuto jeri un grosso pacco che suppongo una partitura di Simone! Se voi verrete a S. Agata da qui a
sei mesi un anno, due, tre etc. la troverete intatta come me l'avete mandata. Vi dissi a Genova che io detesto le cose inutili.
È vero che io non ho fatto altro in vita mia, ma vi erano in passato circostanze attenuanti". In una risposta
apparentemente così inflessibile, l'occhio esperto di Ricordi vide qualche barlume di incertezza; attese pertanto il momento
opportuno per rilanciare la sua esca. L'anno successivo la Scala, indubbiamente su suggerimento dello stesso Ricordi,
espresse un effettivo interesse nei confronti di Simon Boccanegra per la stagione del 1881. I119 novembre 1880 Giulio
scrisse a Verdi di questo progetto, aggiungendo anche una piccola punzecchiatura ironica: "Ella si rammenterà altresì che
di quest'opera [Simon Boccanegra] si parlò a lungo costì in Genova stessa: anzi, la partitura autografa si trova ancora
presso di Lei!... e non so chi mi trattenga dal muovere processo al M° Verdi per illecita detenzione di oggetti preziosi!! i .."
Verdi avanzò numerose obiezioni, sostenendo che Simon Boccanegra era difficile da rappresentare e necessitava di una
sostanziale revisione. Ma ormai era stato preso all'amo, e Giulio lo trasse cautamente a sé. Non solo Ricordi aveva già
effettuato un'indagine competente sui diversi cantanti disponibili: riuscì addirittura, con grande abilità, ad avvicinare
Verdi ad Arrigo Boito (l'aperto iconoclasta di un tempo, le cui affermazioni avevano urtato la sensibilità di Verdi),
proponendo con successo che fosse Boito a rivedere il libretto originale. -I progetti non erano comunque ancora definiti
quando Verdi, il 25 novembre, rispose con fermezza: "Prima di tutto il Boccanegra mai in primavera. Mai a qualunque
costo! Mai, mai, mai!" Ricordi lo assecondò, ma continuò le sue accorte manovre diplomatiche, e la nuova versione di
Simon Boccanegra andò in scena quattro mesi più tardi, nel marzo 1881, proprio come aveva pianificato Giulio Ricordi.
Dalla penna del Maestro dovevano uscire ancora altre splendide opere: la Messa di requiem, il già citato Otello e ancora
Falstaff, due capolavori, questi ultimi, che coronano non solo la carriera di Verdi ma anche la grande tradizione dell'opera
italiana dell'Ottocento. In un telegramma del 17 novembre 1899 Giulio Ricordi gli ricordava la parabola della sua carriera
e, per associazione mentale, il suo stretto rapporto con una casa editrice: "Stasera compiono anni sessanta prima
apparizione Oberto Sanbonifacio. Questa data memorabile ne fa volgere con commozione nostri pensieri nostri auguri al
grande italiano cui mandiamo ripetuti evviva che ripeterò personalmente Domenica. Giulio".
La crescita dell'industria dell'editoria musicale in Italia rappresentò uno dei cambiamenti più significativi cui Verdi, nel
corso della sua lunga carriera, assistette. E proprio Verdi, con singolare determinazione e con acuto senso degli affari, fu
uno dei primi a sfruttare e godere appieno dei benefici offerti da questa nuova situazione.
Angelo Inganni, Veduta di Piazza della Scala dalla Galleria, 1874, olio su tela, 65,5 x 55,5 cm, particolare
(Milano, Collezione Banca Commerciale Italiana)
Se diamo uno sguardo all'elenco dei teatri in cui le opere di Giuseppe Verdi furono rappresentate per la prima volta, ciò che
salta subito all'occhio è che il compositore presentò alla Scala le sue prime quattro opere, cioè Oberto, conte di San
Bonifacio (17 novembre 1839), Un giorno di regno (5 settembre 1840), Nabucco (9 marzo 1842), I Lombardi alla prima
crociata (11 febbraio 1843), e la settima, Giovanna d'Arco (15 febbraio 1845; la quinta, &nani, fu scritta per la Fenice di
Venezia, e la sesta, I due Foscari, per l'Argentina di Roma). Per trovare un'altra opera andata in scena alla Scala per la
prima volta dobbiamo però scorrere la lista fino alla seconda versione della Forza del destino (27 febbraio 1869), cui
faranno seguito la "prima" europea di Aida (8 febbraio 1872), le "prime" della seconda versione di Simon Boccanegra (25
marzo 1881) e della versione in quattro atti di Don Carlo (10 gennaio 1884), e infine le "prime" assolute di Otello (5 febbraio
1887) e Falstaff (9 febbraio 1893).
Verdi, dunque, apre e chiude la sua carriera di compositore teatrale alla Scala. Nessuna sua opera nuova o nuovamente
riveduta viene però eseguita per la prima volta nel teatro milanese tra il 1845 e il 1869, ventiquattro anni assolutamente
fondamentali nella vita e nell'evoluzione artistica di Verdi. Questi pochi dati suscitano una serie di quesiti importanti, su
cui vorrei soffermarmi in breve in queste pagine: perché Verdi iniziò alla Scala? perché interruppe il suo rapporto con il
teatro milanese? perché tanto a lungo? e infine, perché vi fece ritorno per l'ultimo quarto di secolo della sua carriera
teatrale?
Perché Verdi iniziò alla Scala? La risposta è semplice: perché a Milano aveva studiato. Verdi iniziò infatti alla Scala, prima
che come compositore, come spettatore: ma un tipo speciale di spettatore. In una lettera dell'8 agosto 1832 il canonico
bussetano Pietro Seletti informa da Milano Antonio Barezzi, il protettore e futuro suocero di Verdi, sui progressi del suo
giovane protetto, che, dopo essere stato respinto dall'Imperial Regio Conservatorio di Milano, ha appena iniziato gli studi
di composizione con Vincenzo Lavigna: "Non potevasi essere più fortunato nella scelta del maestro per essere galantuomo, e
per essere da trent'anni praticissimo delle buone e cattive riuscite degli spartiti sulle scene. Il Maestro ha fatto associare
mensilmente il Verdi presso un negoziante di Musica ed ha già in casa due spartiti che studia.[...] All'apertura poi del Teatro
vuole che si abboni per tutte le sere".
Locandina per l'apertura della stagione scaligera autunnale del 1832, l'anno dell'arrivo di Giuseppe Verdi a Milano
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Lavigna, che era stato maestro al cembalo alla Scala appunto per trent'anni, sapeva benissimo che non c'era aula scolastica
dove si potesse imparare meglio a comporre opere che il teatro, e riteneva l'abbonamento di Verdi alla Scala parte
integrante del suo corso di composizione (nonostante costasse la somma ragguardevole di 75 lire austriache). Verdi iniziò ad
andare alla Scala non da normale spettatore, dunque, ma da studente, con le orecchie bene aperte, ansioso di imparare
come comporre un'opera a furia d'ascoltarne.
Quando entrò Verdi per la prima volta alla Scala? L'apertura della stagione autunnale del teatro avvenne il 15 settembre di
quel 1832 con Caritea regina di Spagna, un dramma tragico di Saverio Mercadante che dopo la "prima" veneziana del 1826
fece il giro di moltissimi teatri d'opera italiani, e che segnò un momento importante nel superamento dei modelli rossiniani
(ossia nella soluzione del problema cruciale che tutti i compositori della generazione precedente a Verdi dovettero
affrontare). Nel corso di quella prima stagione scaligera Verdi ebbe occasione di assistere, tra l'altro, alla fortunata ripresa
di Chiara di Rosemberg di Luigi Ricci (22 settembre), che aveva entusiasmato la Scala alla "prima" assoluta dell'anno
precedente, e al gran successo di Fausta di Donizetti (26 dicembre). Se Verdi davvero passava a teatro molte sere alla
settimana, come pare facesse, non sarà inutile ricordare che l'opera di Ricci ebbe ventitré rappresentazioni e quella di
Donizetti trentuno. Ma l'autunno dell'anno seguente, il 1833, Il furioso all'isola di San Domingo di Donizetti di
rappresentazioni ne ebbe trentasei, e la "prima" assoluta di Lucrezia Borgia del solito Donizetti (26 dicembre 1833) fu
seguita da altre trentadue rappresentazioni. Non ci stupiremo allora se i musicologi hanno individuato nel duettino
dialogato tra Rustighello e Astolfo in Lucrezia Borgia il modello per il duetto tra Rigoletto e Sparafucile (si noti, tra l'altro,
che sia Rigoletto sia l'opera di Donizetti sono basate su pièces di Victor Hugo, Lucrèce Borgia e Le roi s'amuse); o nel
venditore ambulante Isacco della Gazza ladra di Rossini, che Verdi probabilmente vide per la prima volta alla Scala nel
gennaio e febbraio del 1834, il precursore di Trabuco, il rivendugliolo del terzo atto della Forza del destino. Tale fu dunque
la profondissima impressione che quelle serate passate alla Scala ebbero sul giovane Verdi.
Dopo anni passati alla Scala da spettatore-studente, nel 1839 Verdi si trovò finalmente a fare il suo debutto da compositore
nel teatro milanese. Il cammino di Oberto verso la Scala fu per la verità piuttosto accidentato, e ci vollero le pressioni di
numerosi amici del compositore per convincere l'impresario del teatro, Bartolomeo Merelli, a mettere in scena l'opera. Ma
dopo aver acconsentito, Merelli si prese particolarmente a cuore il successo di Oberto, suggerendo tra l'altro l'inserzione del
quartetto del secondo atto, che risultò il pezzo più gradito dal pubblico. Il franco successo della "prima" di Oberto alla
Scala il 17 novembre 1839 ebbe molte conseguenze importanti, ma due ci interessano particolarmente in questa sede. La
prima è che Merelli offrì a Verdi un contratto per tre opere nuove da rappresentarsi alla Scala o al Kàrntnerthortheater di
Vienna (l'altro teatro controllato dell'impresario): queste tre opere sarebbero diventate, come si è detto, Un giorno di regno,
Nabucco e I Lombardi alla prima crociata. L'altra conseguenza del successo di Oberto fu che Giovanni Ricordi si assicurò
da Verdi i diritti di pubblicazione dell'opera, dando in tal modo inizio a un rapporto strettissimo tra il compositore e la casa
editrice che pubblicherà la grande maggioranza delle sue opere.
Oberto, conte di San Bonifacio, frontespizio del libretto per la prima rappresentazione, Milano, Ricordi, 1839
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Mi pare importante sottolineare a questo punto che, senza le circostanze personali cui ho accennato, non sarebbe stato
tanto ovvio allora quanto potrebbe sembrarlo a noi oggi che Verdi volesse debuttare come compositore alla Scala e restarvi
legato in modo esclusivo per i quattro anni a venire. La Scala non era il primo teatro d'opera in Italia, perché un tale teatro
semplicemente non esisteva. Esisteva semmai un gruppo di teatri di grande ma eguale importanza, che oltre alla Scala
includeva la Fenice di Venezia, la Pergola di Firenze, il San Carlo di Napoli e l'Argentina di Roma. Il giovane Verdi avrebbe
potuto instaurare legami esclusivi, o comunque molto stretti, con uno qualsiasi di questi teatri e la sua carriera non ne
avrebbe sofferto; tanto è vero che in ciascuno sarà poi rappresentata per la prima volta almeno una delle sue opere
(addirittura cinque alla Fenice: Emani, Attila, Rigoletto , La traviata e Simon Boccanegra). Se non che Merelli ebbe
l'acume di aver fede in Verdi anche dopo il disastro della "prima" di Un giorno di regno, e di insistere perché il compositore
prendesse in considerazione il libretto di Nabucco. Il gran successo di quest'opera alla Scala nel 1842, sia nella stagione di
primavera sia soprattutto in quella autunnale, durante la quale raggiunse il record assoluto di cinquantasette
rappresentazioni, è troppo noto per ripeterne qui i dettagli. Verdi, Merelli e il librettista Temistocle Solera tentarono di
ripeterlo l'anno seguente con I Lombardi, e ci andarono vicino. Ma tra il 1843 e il 1846 i rapporti tra Verdi e Merelli si
raffreddarono progressivamente: e Merelli vuol dire la Scala.
Il cronista di questi anni è Emanuele Muzio, che studiava composizione con Verdi e intratteneva una fitta corrispondenza
con Antonio Barezzi che per fortuna ci è pervenuta. Le lettere di Muzio tra il 1844 e il 1846 raccontano la triste storia del
declino degli standard artistici alla Scala (parallelo alle fortune finanziarie di Merelli) e della rabbia montante di Verdi, che
vedeva le sue opere maltrattate sul palcoscenico milanese. La rottura definitiva arrivò con la "prima" milanese di Attila (26
dicembre 1846). Verdi temeva che l'opera non avrebbe ricevuto le cure che si meritava, e non voleva concederla. Merelli la
ottenne ugualmente, ma il compositore rifiutò di curarne la messa in scena, anche se preparò i cantanti in segreto. Ecco il
resoconto della "prima", che Muzio fece a Barezzí il 27 dicembre: "La mise en scène è perfida; il sole si era alzato prima che
fosse segnato dalla musica. Il mare, invece di essere burrascoso ed in tempesta, era placido e senza un'onda increspata. Vi
erano i solitari senza capanne; vi erano i sacerdoti senza altare; nella scena del convito Attila ha fatto banchetto senza lumi,
senza le quercie accese, e quando viene la burrasca ed il temporale il cielo è rimasto sereno e limpido come in un più bel
giorno di primavera. Tutti (a voce ed in cuore) maledicevano Merelli per aver trattato Attila sì malamente".
Ed ecco la reazione di Verdi, che scrisse a Ricordi due giorni dopo: "Approvo il contratto che hai fatto per l'Opera mia
nuova Macbeth che andrà in scena nella prossima quaresima in Firenze, [...] colla condizione però che tu non permetta la
rappresentazione di questo Macbeth all'I.R. Teatro la Scala. Ho troppi esempj per essere persuaso che qui non si sa o non si
vuole montare come si conviene le opere, specialmente le mie. Non posso dimenticarmi del modo pessimo con cui sono stati
messi in scena i Lombardi, Ernani,DueFoscari... etc... Un altro esempio ho sotto gli occhi coli' Attilal... Domando a te
stesso se, ad onta di una buona compagnia, quest'Opera può essere messa in scena più malamente?... Ti ripeto addunque
che io non posso né devo permettere la rappresentazione di questo Macbeth alla Scala, almeno fino a che le cose non sieno
cambiate in meglio. Mi credo in obbligo di avvertirti, per tua norma, che questa condizione che ora metto pel Macbeth da
qui in avanti la metterò per tutte le opere".
Verdi non mise letteralmente più piede alla Scala fino alla metà di gennaio del 1869, quando vi tornò in gran segreto per
una rappresentazione di Don Carlo con Teresa Stolz, per ricomparirvi poi pubblicamente alla fine del mese per coordinare le
prove della Forza del destino. Non si tratta solo del fatto che nessuna opera nuova vi fu rappresentata tra il 1845 e il 1869,
dunque, ma della vera e propria assenza fisica di Verdi dalla Scala tra la fine del 1846 e l'inizio del 1869. Ma non è finita qui:
Verdi lasciò Milano nell'estate del 1847 per Londra e Parigi, vi tornò brevemente nella primavera del 1848, subito dopo le
Cinque Giornate, ma ne rimase poi lontano fino all'estate del 1868, quando vi fece ritorno per il suo memorabile incontro
con Alessandro Manzoni (di una fuggevole visita nel marzo del 1856 non abbiamo notizie sicure).
Dobbiamo dedurne che, per citare la lettera a Ricordi, "le cose non sieno cambiate in meglio" alla Scala per più di
vent'anni? È chiaro che le ragioni dell'assenza di Verdi sono molto più complesse, e che non possono essere discusse in
dettaglio in questa sede. Si può però avanzare qualche ipotesi: per esempio che Verdi associasse alla Scala il successo di un
tipo particolare di opera, cioè il grande affresco corale di Nabucco e dei Lombardi. Una volta che il successo arrivò, ancora
più strepitoso, altrove — cioè a Venezia — e con un tipo operistico diverso, cioè il dramma che potremmo chiamare "di
personaggi e di duetti" esemplificato da Emani, lasciarsi alle spalle il genere di Nabucco e dei Lombardi significò per Verdi
lasciarsi alle spalle la Scala. È poi chiaro che a un certo punto Milano iniziò ad andargli stretta: gli stimoli artistici e umani
gli parvero risiedere altrove, cioè soprattutto a Parigi (com'era già stato per Rossini e Donizetti); e a Parigi Verdi si stabilì
(fu poi lì che iniziò una relazione stabile con Giuseppina Strepponi). Gli anni tra le rivoluzioni del 1848 e la proclamazione
del Regno d'Italia nel 1861 furono poi il periodo forse più oscuro e oppressivo della dominazione austro-ungarica a Milano,
il che significò tra l'altro l'esilio di un buon numero di amici milanesi di Verdi.
Adolf Hohenstein, Verdi assiste alle prove dei cantanti al pianoforte, acquerello eseguito durante le prove di Falstaff, Milano, 1893
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Se le ragioni dell'assenza di Verdi dalla Scala e da Milano sono numerose e complesse, è più semplice comprendere il ritorno
e la riconciliazione degli ultimi trent'anni. La Scala dei decenni post-unitari era diventata senza dubbio il primo teatro
d'Italia; il solo che avrebbe potuto contenderle il primato era forse quello di Bologna, che però era la testa di ponte di
Wagner in Italia, e quindi non proprio gradito a Verdi. Le ragioni del primato della Scala sono strettamente legate a quelle
del primato di Milano, e sono quindi di ordine non solo musicale, ma anche culturale, sociale ed economico. Ma c'è un
fattore di rilevanza fondamentale che converrà non dimenticare. L'Ottocento operistico italiano vede progressivamente
aumentare l'importanza e il potere dell'editore di musica, a petto della progressiva marginalizzazione dell'impresario.
L'editore di Verdi è Ricordi; Ricordi ha il suo quartier generale a Milano, e quindi a Ricordi sta particolarmente a cuore la
Scala, che virtualmente controlla per lunghi periodi negli ultimi trent'anni del secolo. Era quindi inevitabile che Ricordi
riconciliasse il suo compositore di punta con il suo teatro di punta, dando al primo potere praticamente assoluto
sull'esecuzione delle sue opere alla Scala.
Ogni volta che si tratta di ritornare alla Scala per mettervi in scena le varie Forza del destino, Aida, Simone, Don Carlo,
Otello e Falstaff, si assiste alla stessa commediola: Verdi esita, dice di sì, poi di no, fa il prezioso, vuole nero su bianco che
tutto dipenderà da lui. Con l'inizio delle prove iniziano le lamentele, le sfuriate, le minacce di piantare tutto sul più bello e
tornarsene a casa. L'opera va in scena, il successo è grande, e Verdi trova sempre qualche cosa da ridire. Ma la volta dopo è
di nuovo lì. Perché? Perché sa benissimo che, se è vero che la Scala ha bisogno di lui, è altrettanto vero che lui ha bisogno
della Scala. E forse, sotto sotto, non gli sarà poi dispiaciuto tanto tornarvi: dopotutto dalla Sca-
la era partito.
Michel-Charles Fichot e Fratelli Paquet, Interno dell'Opéra di Parigi nel 1867 durante una serata di gala in onore dello zar di Russia,
particolare da un'incisione pubblicata sul periodico "L'Illustration", 15 giugno 1867
(Torino, Biblioteca Civica)
Verdi e Parigi
Emilio Sala
La forza d'attrazione esercitata da Parigi sugli operisti italiani, per certi versi risalente ai tempi di Lully, andò crescendo
negli anni successivi alla Rivoluzione francese. Parigi, per citare Walter Benjamin, è stata senza dubbio la "capitale del
XIX secolo". Parigi consentiva una libertà intellettuale incomparabilmente maggiore rispetto a quella vigente nei retrivi e
tradizionalisti stati italiani, con la loro opprimente censura e i loro anacronistici legami di dipendenza e di protezione. Ma,
ancora di più, Parigi consentiva lauti guadagni e una maggiore difesa contro la pirateria musicale. Al compositore era
riconosciuto uno status sociale e professionale assai superiore rispetto a quello in vigore nella arretrata penisola. D'altra
parte, specialmente a partire dalla "monarchia borghese" di Luigi Filippo, questa "libertà" andava di pari passo con una
sorta di "industrializzazione" del teatro e della cultura in genere,(')
(')Vedi, per esempio, Charles-Augustin de Sainte-Beuve, De la littérature industrielle, in "Revue des deux mondes",
XIX/3, 1839, pp. 675-691.
a cui si associava sul versante della fruizione una progressiva "democratizzazione" del pubblico o, se si vuole, dei
consumatori. E ciò non solo nei teatri popolari non sovvenzionati — i cosiddetti "teatri di Boulevard" — ma anche nei
teatri almeno in parte statali, come l'Opéra. Da ciò un certo disagio dei compositori italiani di fronte alla "macchina
teatrale" parigina, che sembrava privilegiare l'industria dello spettacolo più della musica veramente ispirata. Non a caso
Verdi chiamerà l'Opéra "la Grande Boutique".
Dunque Verdi fu attratto da Parigi come prima di lui Rossini, Bellini e Donizetti. Ma al di là delle motivazioni "esterne"
(denaro e carriera), la sua attenzione alla produzione teatrale e musicale francese fu costantemente vigile, talora persino
maniacale. La sua conoscenza del grand opéra parigino precede la data del suo primo viaggio nella capitale francese (1847).
Anzi, come ha recentemente mostrato Gloria Staffieri, il modello meyerbeeriano (in particolare Robert-le-diable) emerge
chiaramente, anche nella costruzione musicale, già all'altezza del Macbeth. (')
(')Gloria Staffieri, Da "Robert-le-diable" a "Macbeth". Influssi clí Meyerbeer sulla produzione verdiana degli anni
Quaranta, in "Studi verdiani", XIII, 1998 [ma 2000], pp. 13-44.
Stando alla testimonianza dell'editore Escudier, Verdi possedeva già negli anni Quaranta una profonda conoscenza delle
principali opere del repertorio francese.
A destra Francesco Hayez, Venere che scherza con due colombe [La ballerina Carlotta Chabert], 1830, olio su tela, 183 x 137 cm
(Rovereto, Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto)
A sinistra Una pagina della partitura autografa del "Ballabile" di Otello: c. 1r
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
E per quasi cinquant'anni (dal primo lungo viaggio del 1847-1849 all'ultimo del 1894) Verdi si recò regolarmente a Parigi
non solo per affari ma anche per una sorta di aggiornamento culturale. "Io sono stanco morto! Ho voluto vedere tutto, e
girare la sera per tutti i teatri" (lettera a Giulio Ricordi, Parigi, 12 aprile 1870). Né il suo interesse si limitava all'ambito
operistico "ufficiale" (Opéra, Opéra-Comique, Théàtre-Italien e più tardi Thatre-Lyrique); egli era attentissimo anche alla
produzione dei teatri popolari, come il Théàtre de la Porte Saint-Martin o il Théàtre-Historique, che noi ci ostiniamo a
considerare teatri "di prosa" e che invece erano pieni di musica. I drammi rappresentati nei teatri di Boulevard che Verdi
frequentò assiduamente negli anni 1847-1849 (ma anche nel viaggio successivo del 1851-1852) sono infatti eredi diretti della
tradizione del mélodrame, ovvero dell' opéra du peuple che fu presupposto fondamentale per la genesi del drame
romantique degli anni Trenta e che presenta come uno dei suoi tratti caratterizzanti proprio il massiccio uso della musica
nel corso dello spettacolo. (')
(') Emilio Sala, Verdi e il teatro di Boulevard parigino degli anni 18471849, in La realizzazione scenica dello
spettacolo verdiano, Atti del congresso internazionale di studi, Parma, 1994, a cura di Pierluigi Petrobelli e
Fabrizio Della Seta, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, Parma 1996, pp. 187-214.
Certo, ufficialmente Verdi andò a Parigi nel 1847 per provare il suo primo grand opéra con Jérusalem (adattamento dei
Lombardi alla prima crociata del 1843), ma subito si mise a bazzicare il Boulevard du Temple dove vide, lodandoli molto,
due drammoni come Le chiffonnier de Paris di Félix Pyat (al Thé'àtre de la Porte Saint-Martin, con musica di scena di
Auguste Pilati) e Le chevalier de Maison-Rouge di Dumas e Auguste Maquet (al Théàtre-Historique, musica di scena di
Alphonse Varney). In una lettera alla contessa Maffei del 6 settembre 1847, Verdi dice di questi due drammi che fanno
molto "effetto" (quest'ultima, si sa, è una parola chiave della drammaturgia verdiana). Tra i drammi che durante quel
prolungato soggiorno Verdi poté vedere nei teatri di Boulevard ci fu anche Le pasteur ou l' évangile et le foyer di Émile
Souvestre ed Eugène Bourgeois (Porte Saint-Martin, febbraio 1849), che sarebbe poi diventato Stiffelio (1850) e la cui
musica (anonima: Auguste Pilati o Adolphe Vaillard?), specialmente nell'ultimo atto (quello che si svolge dentro una chiesa
con l'organo in scena), suggerisce già alcuni "effetti" drammatico-musicali che sarebbero poi stati ripresi e ovviamente
sviluppati l'anno dopo da Verdi. Allo stesso modo, Verdi era a Parigi quando nel febbraio del 1852 venne rappresentata La
dame aux camélias di Dumas fils al Thé'àtre du Vaudeville con le musiche di scena di Édouard Montaubry.
C'è anche da dire che tanto i grands opéras quanto i mélodrames venivano tempestivamente (più i secondi dei primi)
importati e trapiantati in Italia. Roberto il diavolo, per esempio, fu inscenato a Firenze (Teatro della Pergola) nel 1840. Le
pasteur di Souvestre, con il titolo Stiffelius!, venne tradotto in italiano dall'attore Gaetano Vestri e rappresentato dalla
Compagnia Drammatica Lombarda a Milano (Teatro Re) già nel novembre del 1849. Ma non era raro poter assistere anche
a un dramma francese in lingua originale. La dame aux camélias, per esempio, venne portata a Milano con gran successo
(sempre al Teatro Re) dalla "Dramatique compagnie fratnaise conduite de M. Dupuis" già nel maggio del 1852(')
(')"Gazzetta ufficiale di Milano", n. 134, 13 maggio 1852.
Giacomo Meyerbeer, Le Prophète, frontespizio illustrato della riduzione per canto e pianoforte, Paris 1849
(Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
Naturalmente non sappiamo quanto della mise en scène (e della mise en musique) parigina sopravvivesse nella versione
approntata per l'esportazione, ma la popolarizzazione nei circuiti "di prosa" di soggetti poi melodrammatizzati è comunque
un fatto assai notevole. Come si vede, non c'è da stupirsi poi troppo se nel marzo del 1854, sempre a Parigi (è il viaggio
durante il quale Verdi assistette, tra l'altro, all'Étoile du nord di Meyerbeer), il futuro autore delle Vépres siciliennes scrisse
claris verbis alla Maffei di non dar retta alle voci che lo davano ormai in procinto di stabilizzarsi nella capitale francese
("Metter su radici? È impossibile! "). L'amore di Verdi per Parigi — con tutte le sue ambivalenze — acquisiva man mano
uno spessore ideologico. Sono giustamente celebri le parole che egli scrisse dopo la disfatta di Sedan: "Questo disastro della
Francia, come a Voi, mette a me pure la desolazione in cuore! "; certo i francesi hanno molti difetti, "ma infine la Francia
ha dato la libertà e la civiltà al mondo moderno. E s'essa cade, non c'illudiamo, cadranno tutte le nostre libertà e la nostra
civiltà. [...] Povera Parigi! Che ho vista così allegra, così bella, così splendida nel passato aprile!" (')
(') Verdi fa riferimento alla ventina di giorni che passò nella capitale di Francia tra la fine dí marzo e la prima metà
dell'aprile 1870.
Alfred Albert [?I, Elisabetta dí Valois, figurino per Don Carlos, atto 1, Parigi, Opera, 1867
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Intanto erano profondamente mutate le poetiche teatrali e, particolarmente, quelle operistiche. Dopo il successo del Faust
di Gounod al Théàtre-Lyrique (1859), dopo il fiasco del Tannbduser al1'Opéra (1861), dopo la morte di Meyerbeer (1864),
entrava man mano in crisi la tradizionale opposizione, tipicamente francese, tra grand opéra e opéra-comique. Anche la
poetica romantico-popolare dell'"effetto" e della spettacolarità lasciava il posto a quella "entreprise de dédramatisation"(')
(')Michel Faure, Musique et société du second empire aux années vi ngt, Flammarion, Paris 1985, pp. 299 sgg. 7 E.
e J. De Goncourt, Journal, I, Robert Laffont, Paris 1989, p. 781.
che avrebbe portato alla messa a punto di un nuovo genere, non più legato ai grandi scenari storici ma più nuancé e
interiorizzato (o de-drammatizzato): l'opéra-lyrique. All'estetica mélodramatique, in cui la musica ha innanzitutto la
funzione di enfatizzare la situazione drammatica, si opponeva la de-drammatizzazione dell'opéra-lyrique, in cui la musica è
specialmente volta a creare quel clima introspettivo-sentimentale e di rarefatta sensibilità che troverà per certi versi il suo
compimento in Fauré e Debussy. Ora è chiaro che Verdi — grande cultore dell'"effetto" — era tutto dalla parte dell'estetica
mélodramatique del teatro romantico-popolare. I fratelli Goncourt raccontano, nel loro Journal, di una visita da loro fatta
il 3 marzo 1862 a Gautier, durante la quale quest'ultimo definì Verdi "un Dennery, un Guilbert de Pixerécourt, vous savez".
Gautier leggeva significativamente la drammaticità verdiana sotto il segno del mélodrame (di cui Dennery e Pixerécourt
erano stati due prolifici autori).
La vocalità lyrique rifugge i gesti plateali, in particolare gli acuti "di petto" della stentorea vocalità tenorile "all'italiana",
rifiuta di considerare la musica e il canto come puri intensificatori emotivi e smentisce anche il principio secondo il quale
deve essere necessariamente un forte la conclusione più logica ed efficace di un movimento ascendente in crescendo. Si
vedano per esempio gli acuti smorzati in pianissimo, tanto nella cavatine di Roméo nel secondo atto di Roméo et Juliette,
quanto in quella di Faust nell'omonima opera di Gounod (terzo atto). Tale vocalità nuancée avrà un'immediata eco anche
nel melodramma verdiano; basti pensare al famoso Si bemolle in morendo che chiude la romanza di Radames nel primo
atto di Aida. Un altro esempio di influsso — questa volta orchestrale — dell' opéra-lyrique, in Verdi, è costituito dai
quattro violoncelli che aprono il duetto d'amore nel primo atto di Otello, che ricordano quelli (sempre quattro!) in apertura
del duetto tenore-soprano all'inizio del quarto atto di Roméo et Juliette.
Spartito di Jérusalem,
Paris, Escudier, n. ed. BC1256 (Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
Nonostante ciò, Verdi accusò Gounod di scarsa drammaticità. In una lettera al conte Arrivabene (5 febbraio 1876) scrisse
di lui che non aveva "fibra drammatica. Musica stupenda, simpatica, dettagli magnifici, ben espressa quasi sempre la
parola... intendiamoci bene, la parola, non la situazione, non bene delineati i caratteri, e non impronta e colore particolare
al Dramma". Così l' opéra-lyrique era per Verdi soprattutto una moda, l'ultimo trucco della "Grande Boutique": "con tutto
ciò la Grande Boutique continuerà la medesima routine fino alla fine dei secoli... Fino ad ora gli effetti d'ottica e i salti
mortali [il grand opéra], da qui in avanti la metafisica [1' opéra-lyrique]. Più tardi forse l'astronomia... tutto, tutto, fuori la
musica. Almeno la musica che sgorga dal cuore e dall'ispirazione" (lettera a Escudier del 12 marzo 1868).
Meglio allora rivolgersi al teatro recitato, soprattutto a quello che continua la tradizione dello spettacolo a effetto; meglio
insomma Victorien Sardou di Gounod e Massenet. Gíà nel suo viaggio a Parigi della primavera 1870 Verdi aveva incontrato
Sardou ("un piccolo uomo che ha un carattere di ferro") per tentare (invano) di farsi concedere i diritti del suo dramma
Patrie, non per sé ma per il giovane collega Franco Faccio. Sette anni dopo, nel viaggio del giugno 1877, Verdi si recò, oltre
che all'Esposizione, all'Opéra per vedere Cinq mars di Gounod e Le roi de Lahore di Massenet; per rifarsi la bocca andò
anche al Gymnase a godersi il dramma Dora o le spie di Sardou. Nelle lettere alla Maffei di quei giorni egli evita sempre di
giudicare le opere di Gounod e Massenet, ma il suo pensiero emerge con chiarezza quando sentenzia (ironicamente ma non
troppo): "Bella musica questa di Sardou!"
Insomma: la funzione di Parigi in tutto l'arco della produzione verdiana non è limitata agli affari con l'editore Escudier e
alla "Grande Boutique". Parigi assume il ruolo di città-simbolo (baluardo delle libertà moderne) e di laboratorio di
"esperienze teatrali" per un nuovo pubblico popolare: Verdi va "tante volte a Parigi [...] per andarsi a cacciare nel bel
mezzo di una archetipica folla di consumatori di teatro metropolitano, nei luoghi deputati alla distribuzione spicciolata,
mid-culturale, del romanticismo [romanticismo lato sensu, naturalmente] ".(')
(')Giovanni Morelli, Introduzione a Tornando a Stiffelio, a cura dello stesso autore, Olschki, Firenze
1987, p. XII.
Parigi, infine, non è un luogo "esterno" — terra di conquista o meta da raggiungere — bensì un sistema (complesso) di
riferimento e confronto costante, che sta "dentro" l'inquieta e sempre effervescente fucina della drammaturgia musicale
verdiana.
Verdi e Wagner
Wolfgang Osthoff
“Triste triste triste! Vagner è morto! Leggendone jeri il dispaccio, ne fui, stò per dire, atterrito. Non discutiamo. — È una
grande individualità che sparisce! Un nome che lascia un'impronta potentissima nella storia dell'arte!" Queste sono le parole
che Verdi inviò a Giulio Ricordi due giorni dopo la morte di Richard Wagner, avvenuta a Venezia il 13 febbraio 1883.
Nient'altro sarebbe in grado di illustrare meglio l'atteggiamento del più grande compositore italiano dell'Ottocento verso
quella che fu, dopo la scomparsa di Beethoven e Schubert, la più importante personalità della musica tedesca.
Atteggiamento, beninteso, assunto solo in età matura, e parole da prendere alla lettera: tristezza spontanea; costernazione
non tanto personale, ma piuttosto al cospetto del momento storico; inchino davanti alla grandezza e alla potenza
dell'artista antagonista.
Gli "antagonisti" — coetanei, nati entrambi nel 1813, durante l'ultima fase della dominazione napoleonica dell'Europa —
non si scambiarono mai né una parola né una lettera, non si incontrarono di persona e non si videro mai, al contrario di
quanto fantasticò Franz Werfel in un romanzo assai noto. Ed è inevitabile constatare che Wagner non comprese affatto
l'arte verdiana. Anche perché ne conosceva ben poco, stando almeno alle fonti di cui disponiamo. Wagner riferì,
nell'autobiografia, di aver assistito nel 1860 al Trovatore all'Opéra di Parigi, ma esclusivamente per farsi un'idea sui
cantanti del Tannhduser, che lì era in preparazione. Un decennio più tardi scrisse con disprezzo sarcastico, in un capitolo
non pubblicato del suo saggio su Beethoven (1871), che al popolo tedesco viene suonato, mentre marcia in battaglia,
qualcosa del Trovatore. A Vienna assisté al Requiem, il 2 novembre 1875; ma sull'impressione che ne ricavò abbiamo solo
una notizia maliziosa nel diario di Cosima, che ci fa comprendere che nessuno dei due aveva capito nulla di questa musica.
Si può anche ipotizzare che Wagner conoscesse alcune delle parafrasi di opere verdiane scritte da Franz Liszt, che gli fu
amico e divenne più tardi suo suocero. Ma è presumibile che Liszt si trattenesse, cautamente, dall'eseguire quella musica in
presenza di Wagner.
Una pagina dello spartito di Lohengrin di Richard Wagner con annotazioni autografe verdiane
(Sant'Agata, Archivio di Villa Verdi)
Era limitata, d'altronde, anche la conoscenza che Verdi aveva della musica wagneriana. Fu solo nel 1865, a Parigi, che egli
sentì un brano di Wagner, cioè l'ouverture del TannhaUser, di fronte alla quale la sua reazione fu inequivocabile: "È matto!
! !", scrisse all'amico Arrivabene. Ma quando per la prima volta fu rappresentata in Italia un'opera intera di Wagner,
Lohengrin, Verdi volle farsi un'idea più precisa dei particolari. Dopo aver assistito a una delle rappresentazioni bolognesi
del 1871 lasciò un documento di alto interesse, uno spartito dell'opera riccamente annotato (anche riguardo all'esecuzione,
diretta da Angelo Mariani). Alla fine vi si trova un riassunto equilibrato: "Impressione mediocre. Musica bella, quando è
chiara e vi è il pensiero. L'azione corre lenta come la parola. Quindi noia. Effetti belli d'istromenti. Abuso di note tenute e
riesce pesante". Questa è dunque l'opinione espressa il mese precedente la "prima" di Aida al Cairo. Risulta alquanto
improbabile che Verdi, ormai maturo, avesse cambiato la sostanza del proprio giudizio nel restante trentennio della sua
vita, ad esempio a proposito del Tannhduser che ascoltò a Vienna nel 1875. Nondimeno avvertì la responsabilità artistica
di informarsi continuamente e di studiare il più possibile. Ancora a cavallo tra il 1898 e il 1899 diceva sorridendo in
un'intervista, dopo aver menzionato alcuni punti di incomprensione e riserva di fronte all'arte di Wagner: "Ma io sono
ancora giovane, cerco incessantemente di penetrare nel sublime mondo wagneriano. Gli sono debitore di innumerevoli ore di
meravigliosa esaltazione". Poi esaltava il Tristano: "Penso che il secondo atto sia una delle creazioni più sublimi dello
spirito umano nel campo dell'invenzione musicale", con frasi, forse, di grande benevolenza verso il visitatore tedesco.
Che Verdi potesse informarsi agevolmente è testimoniato dalla sua biblioteca di Sant'Agata, dove si trovano, oltre al
Lohengrin, gli spartiti di Tannhduser, La Valchiria, Tristano, I maestri cantori e Parsifal (acquisiti tuttavia in epoca
abbastanza tarda, i due ultimi solo nel 1885). Di Wagner, Verdi possedeva anche i Quatre poèmes d'opéras traduits en prose
franQaise, précedés d'une lettre sur la musique del 1861. Ne aveva chiesta una copia a Camille Du Lode nel 1870. Il volume
contiene, oltre ai testi del Vascello fantasma, Tannhduser, Lohengrin e Tristano e Isotta, quella "lettre" che non è altro che
l'importante scritto sulla "Zukunftsmusik" (musica dell'avvenire), un'espressione problematica segnata dallo stesso Wagner
con virgolette nella versione originale tedesca. Ma non va taciuto che le carte del volume, che si trova a Sant'Agata, sono
tagliate solo a metà...
Non è da escludere che la volontà di render giustizia a Wagner fosse stata rafforzata, in Verdi, dall'intenso rapporto con
Arrigo Boito. Questi, wagneriano autentico ancora nel 1871, fu tanto coinvolto nell'evento del Lohengrin bolognese che
Wagner gli indirizzò una "Lettera ad un amico italiano sulla rappresentazione del Lohengrin a Bologna", anche in
ringraziamento agli altri "compatrioti" che avevano contribuito al successo. Boito la pubblicò subito, nella propria
traduzione, come già aveva tradotto e come tradurrà in seguito altri testi di Wagner (quelli del Rienzi e di Tristano e
Isotta, ad esempio). Nel corso degli anni l'entusiasmo di Boito si fece più sobrio, ma l'ammirazione non cessò, neppure
durante il periodo della stretta collaborazione con Verdi, che iniziò nel 1879 con il rifacimento del Simon Boccanegra e con
Otello.
Riconoscimento, stima finché si vuole: ma la causa di Verdi non è quella di Wagner. Non va sottovalutata la diversità
dell'origine sociale: Wagner discende dalla piccola borghesia cittadina, con una lieve sfumatura di bohème teatrale; Verdi
da un ambiente contadino. Decisiva è la profonda diversità del carattere umano, artistico e non da ultimo nazionale. Verdi
è convinto che a lui e a Wagner spettino compiti diversi, anzi divergenti. Nel 1892 risponde alla "conversione" del pentito
Hans von Biilow, ex allievo ed ex amico di Wagner: "Se gli artisti del Nord e del Sud hanno tendenze diverse, è bene sieno
diverse! Tutti dovrebbero mantenere i caratteri propri della loro nazione, come disse benissimo Wagner. Felici voi che siete
ancora i figli di Bach! E noi? Noi pure, figli di Palestrina, avevamo un giorno una scuola grande... e nostra! Ora s'è fatta
bastarda e minaccia rovina! Se potessimo tornare da capo?! " Questo pessimismo trova un certo riscontro anche nel tardo
Wagner, che aveva posto tra virgolette, nel 1861, il termine equivoco di "Zukunftsmusik" . Pochi mesi prima della morte
dichiara: "È finita la musica, e non so se le mie esplosioni drammatiche siano in grado di arrestarne la fine". Verdi auspica,
con un dubbio appena celato: "Se potessimo tornare da capo? ! ", riprendendo la sua famosa sentenza del 1871 nella lettera
a Francesco Florimo: "Torniamo all'antico: sarà un progresso". Che va integrata, tuttavia, da una frase precedente
contenuta nella stessa lettera: "Avrei voluto porre, per così dire, un piede sul passato e l'altro sul presente e sull'avvenire
(ché a me non fa paura la musica dell'avvenire)".
Il discorso sulle differenze conduce anche a quello sulle analogie tra i due "antagonisti". Il loro pessimismo riguardo all'arte
musicale ha radici in non poche esperienze simili. Simili erano la loro cultura e l'educazione musicale: Haydn, Mozart e
soprattutto Beethoven erano e restavano di indubbia importanza per entrambi. Verdi e Wagner concordavano anche su
particolari pareri, come sul finale della Nona di Beethoven, che ritenevano il tempo più debole dell'intera sinfonia
(nonostante per Wagner essa avesse un significato storico: fosse cioè la logica preparazione, in quanto movimento vocale e
strumentale, del suo dramma musicale). Quanto all'opera, è nota la stima di Verdi per Rossini e Bellini. Meno noto, invece,
è che anche il giovane Wagner confessò nel 1834 di non poter dimenticare l'impressione ricevuta da un'opera belliniana, "in
quanto dopo essermi sinceramente stufato di quell'eterno, allegorizzante trambusto orchestrale riemergeva finalmente un
canto semplice e nobile". E ancora: l'ottantacinquenne Verdi cita in una lettera a Bellaigue, con note musicali, una frase
dall'Introduzione di Norma, definendola "male istromentata, ma che nissuno ha mai fatto altra più bella e celestiale".
Si danno analogie anche nelle avversioni. Proprio di avversione, tuttavia, non si può parlare quando si prendono in esame i
rapporti di Wagner e di Verdi con 1'Opéra di Parigi, cioè con il teatro e con il genere operistico ad esso legato. Wagner
conquistò il primo grande successo con Rienzi (Dresda, 1842), composto in gran parte durante il soggiorno parigino, che
segue ovviamente il modello del grand opéra, modello che in seguito abbandonò con disprezzo; eppure tentò ancora nel
1861 di "conquistare" 1'Opéra con Tannhduser, in parte rifatto per Parigi. Negativi, o almeno molto ambigui, rimangono i
giudizi di Wagner sugli esponenti principali del genere; avvilenti quelli su Meyerbeer, che si appoggiano su argomentazioni
antisemitiche. Neppure Verdi amava Meyerbeer, e definiva a volte l'Opéra "la Grande Boutique". Nonostante la
mescolanza di sarcasmo e rispetto, ne subì il fascino, a partire dai rifacimenti francesi e poi dalle opere direttamente
composte per 1'Opéra — Les vépres siciliennes (1855) e Don Carlos (1867) — sino alla traduzione francese di Aida, che il
compositore volle effettuare "unitamente ad un poeta francese", e di Falstaff, alla quale collaborò personalmente. Anche
qui si scorge un'analogia, dato che anche Wagner aveva collaborato, a suo tempo, alla versione francese di Tannhduser,
anzi aveva abbozzato in francese il testo dei passi aggiunti nel 1861. Aida, pur non essendo stata scritta per Parigi, segue in
parte il modello; il che vale in misura minore anche per La forza del destino. Entrambi i compositori appagano le esigenze
del pubblico parigino includendo nello spettacolo danze estese, o aggiungendo addirittura scene ballabili. Per Otello,
tuttavia, Verdi chiarisce: "Ben inteso che il ballet dovrà servire solo per l'Opéra".
Alla costante volontà di accattivarsi il favore del pubblico di Parigi, o più precisamente di quello dell'Opéra, e di attingere
con ciò a una dimensione europea e mondiale, fa da contrappeso il già citato atteggiamento nazionale. Verdi diviene
emblema del Risorgimento già con l'enfatica frase nell' Attila (1846):
Avrai tu l'universo
resti l'Italia a me
Wagner, salito sulle barricate di Dresda durante la rivoluzione del 1849, bandito dalla Germania per decenni, sognava con
Oper und Drama — scritto a Zurigo nel 1850-1851 — una rinnovata società "comunista", liberata dall'egoismo sfruttatore
dei "grandi" della storia, e la conseguente distruzione dello stato. Ma nel 1868, dedicando la seconda edizione del libro a
Constantin Frantz, ne confermava con gioia l'interpretazione, dato che questi aveva rilevato: "La Sua caduta dello stato è
la fondazione del mio impero tedesco" (il che, allora, era un sogno anch'esso molto personale). Wagner e Verdi erano
entrambi repubblicani, in fondo, ma si piegarono senza difficoltà alla soluzione monarchica delle rispettive unificazioni, e
alla fine rimasero delusi dalla politica quotidiana.
Ferdinand von Miller, Ritratto del compositore Richard Wagner, bronzo, 48 x 31 x 29,5 cm, dall'originale di Lorenz von Gedon
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Comune è anche il sentirsi in dovere di occuparsi della pubblica educazione musicale. Wagner scrisse nel 1865, su richiesta
di Luigi II di Baviera, un ampio rapporto su una scuola tedesca di musica da istituire a Monaco. Ancora nel 1880 espose, in
una lunga e bella lettera al duca di Bagnara, presidente del Conservatorio di Napoli, le sue idee sull'insegnamento ai futuri
compositori d'opera; vi raccomandava lo studio di alcuni dei capolavori di Mozart, Gluck e Spontini. Verdi, benché nel 1871
avesse rifiutato di assumere la carica di direttore dello stesso Conservatorio, e in seguito anche la richiesta ministeriale di
presiedere una commissione per la riforma dei conservatori in generale, non mancò di dare consigli preziosi per lo studio.
Citò come modelli in primo luogo Palestrina e Benedetto Marcello; più tardi, nel 1887, quando Boito — interpellato dal
ministro — gli chiese sei maestri che credesse "più adatti per essere studiati dai giovani", aggiunse i nomi di Carissimi,
Alessandro Scarlatti, Pergolesi e Piccinni.
Tristano e Isotta, versione italiana di Arrigo Boito di Tristan und Isolde di Richard Wagner, Milano,
Stabilimento Musicale F. Lucca, 1876
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
È naturale che gli aspetti di crescente raffinamento armonico e orchestrale che caratterizzano l'evoluzione della musica
ottocentesca siano comuni a Wagner e a Verdi. È altrettanto comprensibile che la drammaturgia di entrambi divenga più
meditata ed elaborata. Non ha senso, infine, escludere a priori che il più remissivo, ossia Verdi, abbia accolto qualche
stimolo dall'arte dell'altro. Ma a torto si è parlato — con "critiche stupide, ed elogi più stupidi ancora" (Verdi nel 1873) —
di influsso wagneriano dopo Aida. In una lettera del 1875 Verdi si sfoga: "ciarle [...] che [...] il Verdi del Ballo [...] infine era
un imitatore di Wagner!!! Bel risultato dopo 35 anni di carriera finire imitatore! ! !" Già nel 1872, sempre a proposito di
Aida, aveva avuto espressioni più dure: "Di Wagner nemmen per sogno! ! Al contrario se si volesse ascoltare e capir bene si
troverebbe l'opposto... totalmente l'opposto".
"L'opposto": occorre prendere l'espressione alla lettera, malgrado si sia consapevoli di tutto ciò che hanno in comune i due
grandi coetanei e di tutto ciò a cui il generoso Verdi aveva applaudito senza esitazione (tra l'altro alle conquiste
dell'orchestra wagneriana, inclusa l'idea dell'orchestra "invisibile"). D'altra parte Verdi non condivideva le forzature:
Berlioz "ha preceduto Wagner in molti effetti d'orchestra (i Wagneriani non ne convengono, ma è così)", chiariva nel 1882
in una lettera all'Arrivabene; nello stesso tempo dichiarava a un intervistatore tedesco che "gli sembrava che Wagner nelle
sue più recenti creazioni avesse superato i confini delle possibilità espressive e che per lui — Verdi — la 'musica filosofica'
era incomprensibile". Con l'espressione "musica filosofica" Verdi alludeva forse alle teorie di Wagner, che gli restavano
estranee. Verdi non aveva vissuto l'esperienza centrale della tragedia greca, Eschilo anzitutto, a proposito del quale
Wagner confessava nell'autobiografia: "Fino al termine delle Eumenidi dimorai in uno stato di smarrimento dal quale non
sono in realtà mai più ritornato del tutto a riconciliarmi con la letteratura moderna". Fu questa esperienza, compiuta nel
periodo del Lohengrin, che condusse alla concezione della Tetralogia. Con l'espressione "musica filosofica", però, Verdi
ribadiva le riserve già annotate, nel 1871, sullo spartito del Lohengrin: "Musica bella, quando è chiara e vi è il pensiero"
(cioè l'idea, l'invenzione melodico-tematica della musica). I "confini delle possibilità espressive" riguardano anche, in un
senso molto concreto, le dimensioni eccessive e l'azione che corre "lenta come la parola". Per il Lohengrin, Verdi aveva
seccamente concluso: "Quindi noia".
La differenza è fondamentale: né l'atteggiamento reverenziale verso i due grandi consente di nasconderla. Entrambi sono
drammaturghi tragici, fatta eccezione per una commedia (rispettivamente, I maestri cantori di Norimberga e Falstaff). Ma
la loro drammaturgia musicale si indirizza in due direzioni opposte. Durante la composizione del secondo atto del Tristano
Wagner si vanta (ma possiamo prenderlo come pars pro toto): "La mia arte più sottile e più profonda la vorrei chiamare ora
l'arte della transizione, perché tutto il mio tessuto artistico consiste di tali transizioni". La sua è quindi un'arte organica,
tendente al flusso e alla connessione naturale; e proprio da questa naturalezza (che può essere solo apparente) scaturisce in
parte l'incantesimo. "Il brusco e il precipitoso" continua Wagner "mi è divenuto sgradevole". Gli resta perciò preclusa una
comprensione, ancorché remota, della musica di Verdi. A Venezia, nel 1882, Cosima annotava: "Richard si è messo in mente
un motivo verdiano che si cantava ieri a mo' di duetto sul Canal Grande; me lo canta ridendo di questo scoppio di rabbia
che ha sentito ieri; egli ha tenuto a mente il ritmo spezzato 'e si pretende che questa sia una linea naturale' — in Rossini non
c'è niente di simile". Non sappiamo di quale motivo si trattasse. Potrebbe rispondere a queste caratteristiche la sezione di
Violetta nel secondo atto della Traviata:
Il ritmo spezzato divide i versi e la coerenza del periodo, gli accenti non cadono secondo la natura delle parole, l'affetto
agitato porta a toccare due volte — in modo metricamente differenziato — il suono più acuto, l'accompagnamento
orchestrale in triplice piano scoppia all'improvviso in un forte raucamente accentuato. Un passo come questo, privo delle
sottigliezze delle transizioni, non è davvero naturale. E il linguaggio realistico e spesso rude della verità drammatica di
Verdi, una verità del tutto diversa da quella di Wagner.
L'arrivo di Lohengrin, stampa del XIX secolo (Milano, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli)
Forse è troppo ardito attribuire valore simbolico alla loro ultima parola artistica, cioè ai passi finali delle loro ultime opere,
entrambe nutrite dal pensiero cristiano: in Parsifal i mistici, ma armoniosi accordi della redenzione suonati dall'intera
orchestra, nel pieno splendore dei violini e dei fiati; nel Te Deum, l'ultimo dei Quattro pezzi sacri di Verdi, solo un Mi grave
dei violoncelli e contrabbassi, in pianissimo, privo di qualsiasi sostegno armonico, ultima ed enigmatica risposta al soprano
solista che in precedenza ha recitato, sul Mi acuto e in frammenti spezzati:
Il vecchio Maestro ha così spiegato questa conclusione: "È l'umanità che ha paura dell'inferno".
L'ultima parola di Verdi è un silenzio messo in musica.
Girolamo Magnani, tavola di attrezzeria per Aida, Milano, Teatro alla Scala, 8 febbraio 1872
(Milano, Archivio Storico Ricordi}
La prima opera di Verdi, Oberto, conte di San Bonifacio, andò in scena alla Scala il 17 novembre 1839; l'ultima, Falstaff, il
9 febbraio 1893 nello stesso teatro. In seguito, Verdi fu ancora consultato per la messinscena di Othello, rappresentato
all'Opéra di Parigi il 12 ottobre 1894. (')
(') ' Nicole Wild, Les traditions scéniques à l'Opéra de Paris au temps de Verdi, in La realizzazione scenica dello
spettacolo verdiano, Atti del congresso internazionale di studi, Parma, 1994, a cura di Pierluigi Petrobelli e
Fabrizio Della Seta, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, Parma 1996, pp. 135-166: 141.
Tra il 1839 e il 1894, in un arco di tempo di cinquantacinque anni, si verificarono mutamenti che non è esagerato definire
eccezionali: nuove sistemazioni istituzionali e politiche (in Italia si passò dal clima della declinante restaurazione agli
entusiasmi e ai successi risorgimentali, quindi alle difficoltà post-unitarie); nuove strutture economiche, che modificarono la
distribuzione sociale della ricchezza; nuovi modi di vita, in buona parte conseguenti alle innovazioni tecnologiche.
Parallelamente nel gusto letterario e negli stili artistici si susseguirono variazioni e rivolgimenti tali, che assai di rado si
riesce a scorgere una continuità di indirizzi tra il quarto decennio e la fine del secolo. Nel 1838 Victor Hugo pubblicava Ruy
Blas, nel 1839 usciva La chartreuse de Parme di Stendhal, nel 1840 compariva Sordello di Robert Browning, nel 1842 era
stampata la seconda edizione riveduta dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, e nello stesso anno era pubblicata La
guerra del vespro siciliano di Michele Amari. Pochi titoli bastano a chiarire la diversa natura delle novità letterarie di fine
secolo: Pelléas et Mélisande di Maeterlinck (1892), il Poema paradisiaco di D'Annunzio (1893), Una vita di Svevo (1894),
Salomé di Wilde (1896). Ma poiché qui si parla di scene, i termini di confronto più adatti potrebbero essere pittorici (taluni
con diretta influenza sul teatro d'opera): nel 1838-1840 Hayez dipingeva per Ferdinando I d'Austria L'ultimo
abboccamento di Giacomo Foscari con la propria famiglia; del 1850 è la Giovanna d'Arco di Ingres al Louvre. A fine secolo
troviamo i Giocatori di carte di Cézanne (1890), il ciclo del Re Sole di Previati (1890-1893), il Trittico delle Alpi di Segantini
(1896), "Nave Nave Mabana" di Gauguin (1896). Nel 1897 Klimt, che nel 1888 aveva decorato il Burgtheater, fonderà il
movimento della "Secessione" di Vienna.
Apparentemente, sul palcoscenico non si scorgono differenze altrettanto forti: tra la Campagna di Giuseppe Bertoja per
l'Oberto del 1840 al Teatro Regio di Torino e la Deserta sponda del Mincio di Philippe Chaperon per il Rigoletto del 1885
all'Opéra di Parigi la diversità è, più che altro, di stile disegnativo; così pure, rispetto alla Sala di Filippo Peroni per il
Simon Boccanegra del 1858 alla Scala, la Camera di Desdemona di Chaperon per l' Othello del 1894 all'Opéra non presenta
novità rivoluzionarie. Questa tuttavia è un'impressione certamente inesatta, perché fondata su bozzetti e disegni, non sulle
scene messe in opera, che dovevano offrire agli spettatori visioni ben diverse man mano che vi si applicavano le nuove
illuminotecniche e si passava dai lumi "argand" a petrolio alle luci a gas, alle quali poi si aggiungevano i raggi delle
"macchine" elettriche e delle lampade ad arco voltaico, fino al momento dell'installazione di impianti per una completa
illuminazione elettrica.
Questo percorso, davvero rivoluzionario, oggi lo possiamo seguire soltanto sui resoconti delle cronache o, meglio,
estrapolando dai bozzetti gli effetti luminosi realizzabili (o non realizzabili) a seconda dei mezzi impiegati.' La citata
Camera di Desdemona di Chaperon potrebbe essere un esempio di tecnica avanzata per l'inserimento in un ambiente
notturno di plurime fonti di luci, una delle quali — la luna — compariva e scompariva in rapporto significativo con la
situazione drammatica. Dieci anni prima, nel 1884, Verdi avrebbe voluto che nel finale della nuova versione in quattro atti
di Don Carlo alla Scala "l'ultima apparizione di Carlo V" fosse stata "come un mazzo d'oro, completamente splendente"; ma
non è certo che si riuscisse ad accontentarlo, anche se nel bozzetto per il Chiostro di San Giusto lo scenografo Giovanni
Zuccarelli conferì alla cappella, sede dell'apparizione, una forte enfasi luminosa. Nel 1867, alla creazione del primo Don
Carlos a Parigi, la figura di Carlo V era "illuminata da un raggio di luce elettrica" che tuttavia non otteneva l'effetto di
simbolismo ultraterreno desiderato da Verdi: anzi, metteva puntualmente in evidenza l'"abito da frate, con manto e corona
imperiale ricchissimi" del sovrano. La notizia è fornita dalla Disposizione scenica per l'opera Don Carlo compilata e regolata
secondo la mise en scène del Teatro Imperiale dell'Opéra di Parigi, relativa alla versione in cinque atti del 1867; è
abbastanza significativo che nella terza edizione della Disposizione del "raggio di luce elettrica" non si parli più. La
questione, del resto, sarebbe marginale se non servisse a introdurre un argomento basilare per la storia delle scene nel teatro
musicale dell'Ottocento: il rapporto tra i modelli canonici e la pratica esecutiva.
In questa mostra i progetti per le decorazioni sceniche sono esposti come parte del ben più vasto contesto rievocante la vita,
l'opera, il mito di Verdi: sono cioè considerati da un punto di vista che non è semplicemente estetico, poiché è possibile
collegarli a una complessa realtà storica, sociale e culturale che ne favorisce l'apprezzamento. Per lungo tempo è invalso —
e ancora non è sradicato — il luogo comune di una decadenza della qualità artistica delle scene ottocentesche. Alcuni
giudizi severi sono trascurabili, in quanto legati esclusivamente agli umori critici dei giudici (certe scene sarebbero
convenzionalmente romantiche, certe altre volgarmente realistiche); più grave è la riprovazione pregiudiziale dei metodi di
lavoro in uso. La pratica di stabilire e diffondere dei modelli di scene avrebbe avuto la nefasta conseguenza di costringere
gli scenografi a eseguirne copie pedisseque senza originalità; il ricorso (frequente ma non sistematico) al lavoro in
collaborazione avrebbe determinato esiti stilisticamente incoerenti, ridotto le scene a essere prodotti di mestiere anziché
opere d'arte. Il fenomeno che ha innescato questa condanna totale è l'intervento dell'editoria musicale, che effettivamente
distribuiva e noleggiava modelli di scene e costumi e pubblicava livrets de mise en scène e disposizioni sceniche in cui si
stabilivano dei parametri canonici per lo svolgimento e l'interpretazione dell'azione drammatica, talvolta espressi in forma
autoritaria e imperativa. Nella realtà dei fatti il sistema era assai meno rigido; quanto più si vedono, si studiano, si
confrontano i disegni, i bOzzetti, le maquettes delle scene, quanto più si ricercano e si leggono i documenti, le lettere, le
cronache teatrali del tempo, tanto più risaltano la varietà e la vivacità creativa delle scene ottocentesche nella pratica
esecutiva.
Giuseppe Verdi ha un ruolo centrale nella promozione di un'idea della messinscena come parte integrante del dramma:
senza mai stravolgere i metodi di produzione e le rispettive competenze, è fermissimo da una parte nel rifiuto di quanto
considera errato, inadeguato, distraente; dall'altra, nella volontà di diffondere le tipologie ch'egli approva e che
rispecchiano il suo pensiero. Accetta la pratica diffusa, per la "prima" di Nabucodonosor alla Scala, di riutilizzare scene
vecchie (del resto raccomodate da Filippo Peroni con tanta arte da suscitare l'entusiasmo del pubblico); protesta invece
energicamente quando alla Fenice si vorrebbe "andare in iscena coll'opera Emani prima che le scene e il vestiario sieno
interamente compiti"! Per Attila, sempre alla Fenice, fa sapere al pittore Giuseppe Bertoja — tramite l'impresario — i suoi
pensieri per le scene. Si può credere che il risultato lo soddisfi, dal momento che quella più complessa e problematica, Rio-
Alto nelle lagune Adriatiche, è pubblicata con la relativa piantazione nel periodico "L'Italia Musicale", proposta come
modello esemplare di immediata efficacia. Quando all'Opéra di Parigi si rappresentano Les vépres siciliennes Verdi non fa
alcuna difficoltà per le scene, riutilizzate da altre opere; il suo interesse è rivolto alla messinscena di Louis Palianti, descritta
nel livret che si affretta a inviare a Francesco Maria Piave: "Ti mando sotto fascia la descrizione della mise en scène dei
Vespri. È bellissima e leggendo con attenzione quel fascicolo un ragazzo è buono a mettere in scena. Se i Vespri si cambiano
in Gusman rion hai che da cambiare i costumi. Ma la mise en scène deve restare".4 Nasce così la prima "disposizione
scenica" verdiana per Giovanna de Guzman (mutamento di titolo imposto dalla censura, timorosa dello stimolo alla rivolta
patriottica implicito nel soggetto dei vespri siciliani). Insieme al titolo occorreva "cambiare i costumi"; non solo: anche il
luogo e il tempo dell'azione, con evidenti conseguenze sull'aspetto e sul significato stesso delle scene. Nei numerosi casi in cui
intervenne, con divieti per lo più ottusi ma non per questo facilmente eludibili, la censura ebbe dunque una indiretta
influenza sulla visione scenica e Verdi ne fu pienamente consapevole: un "cambiamento d'epoca e di luogo" poteva togliere
"il carattere al dramma e alla musica", poiché "tutte le epoche hanno, è risaputo, i loro caratteri particolari".' In plurime
occasioni critiche, tuttavia, per salvaguardare l'essenziale Verdi si adattò a varianti anche non di poco conto. Così per un
dramma contemporaneo come La dame aux camélias, divenuto La traviata, la censura impose una retrodatazione che
Verdi subì "a suo gran malincuore", avvertendo in ogni caso che "non ammette[va] parrucche".6 Le parrucche gli sarebbero
state bene se avesse potuto portare sulle scene la vicenda dell'assassinio di Gustavo III di Svezia, avvenuto nel 1792: ma
dovette rinunciare al riferimento storico e alle raffinate eleganze di una corte, ambientando invece Un ballo in maschera in
una Boston secentesca, incognita alla stragrande maggioranza del pubblico. Gli ordini della censura, talvolta, potevano
essere aggirati dagli scenografi: nello sfondo della Deserta sponda del Mincio nel terzò atto di Rigoletto, alla "prima" di
Venezia, Giuseppe Bertoja aveva dipinto la veduta di Mantova che fu mantenuta da altri artisti — tra loro Romolo
Liverani — anche in quei teatri ove l'opera era stata trasformata dai censori in Viscardello o Lionello e ambientata in
luoghi e tempi diversi. In questo caso il sistema della scena replicata funzionava come una sorta di criptica protesta, che il
pubblico era perfettamente in grado di decifrare e approvare.
Dopo la presa di Roma, nel 1870, la censura divenne praticamente inoffensiva; ma v'erano altri fattori che avevano
condizionato e continuarono a condizionare la struttura e la funzione delle scene nel corso del secolo. Qualcuno era tecnico,
come il sistema d'illuminazione, qualcun altro concettuale, come l'esigenza di scene storicizzate, cioè di vere o almeno
verosimili ricostruzioni d'ambiente; tuttavia vi era sempre un intreccio fra le motivazioni funzionali e quelle espressive. Una
regola non codificata, ma comunemente seguita, era quella di alternare scene di interni e di esterni. A questa usanza Verdi
derogò in due sole opere, per specifiche ragioni significative: Attila tutta in esterni per rendere l'idea di un mondo in cruento
divenire, ove tra barbariche distruzioni, migrazioni di popoli, visioni salvifiche, nasceva una nuova civiltà; La traviata
invece tutta in interni. In questo caso Verdi riprese lo scenario della Dame aux camélias per connotare Violetta, irretita in
una situazione sociale dalla quale era impossibile evadere, prigioniera di convenzioni e pregiudizi, fiore di serra destinato ad
appassire presto. Tuttavia già nelle prime edizioni francesi, col titolo di Violetta, il "salotto" all'inizio del secondo atto
divenne un "jardin": le usanze correnti furono ripristinate, a scapito del valore significativo delle scene:
Altro fattore che influiva sulla progettazione di uno scenario era la persistenza, nell'Ottocento, di una delle più antiche
tecniche: quella del cambiamento delle scene "a vista". Nonostante le variazioni stilistiche e le innovazioni strutturali
intervenute nel corso dei secoli, per una manovra efficace era sempre necessario rispettare due condizioni. La prima: per
cambiare rapidamente le decorazioni durante un atto occorreva variarne la profondità, o in modo che l'atto iniziasse con
una scena "corta" e quindi, sollevato il fondale, si aprisse agli occhi del pubblico una scena "lunga" già in precedenza
allestita sul palco, oppure in modo che, avendo iniziato l'atto con una scena "lunga", si facesse poi calare a breve distanza
dal proscenio una nuova decorazione col relativo fondale e si presentasse una scena "corta". La seconda condizione era più
vincolante: le scene con grandi praticabili o strutture non rapidamente rimovibili restavano stabili per tutto il corso di un
atto; se questo non era possibile, comparivano alla fine dell'opera oppure prima dell'intervallo tra un atto e l'altro, perché ci
fosse il tempo necessario a smontarle. Nell'Ottocento il sistema era collaudatissimo; determinava un ritmo vario di vedute
che aveva molte possibilità evocative e che Verdi seppe utilizzare come segno rappresentativo per accentuare o allentare la
tensione drammatica.
L'opera in cui ciò appare con maggiore evidenza è forse La forza del destino, anche perché in essa Verdi intrecciò e manipolò
due distinte fonti letterarie, quindi determinò egli stesso il numero e la sequenza delle mutazioni. Vi è un solo atto con
un'unica scena stabile: il primo. La "sala tappezzata di damasco" connota l'alto rango e la stabilità sociale della famiglia cui
appartiene Leonora. In questo "patrio nido" entra e si abbatte come un fulmine l'inarrestabile fatalità; da qui inizia la
diaspora dei personaggi, da qui in poi le scene mutano in successione incalzante. Citiamo dalla Disposizione scenica per la
prima versione della Forza (le sottolineature sono nostre):
Atto II, Osteria nel villaggio di Hornachuelos "a mezzo teatro [...] scoprirà a vista la seguente" cioè la Spianata e
chiesa della Madonna degli Angeli "lunga tutto il teatro". In questo quadro vi è un ulteriore mutamento a vista: si
apre la porta e compare l'Interno della chiesa. Atto III, il Bosco, scena "cortissima scoprirà a vista la seguente" un
poco più lunga ("un quarto di teatro") Salotto nell'abitazione di un ufficiale, che muterà a vista facendo apparire
l'Accampamento "lunga tutto il teatro". Atto IV, v'è ancora una mutazione a vista dal Chiostro del Convento ("a
mezzo teatro") alla "lunga" Valle tra rupi inaccessibili, luogo della tragica conclusione.
I frequenti cambiamenti, non solo di scene ma di tipologie ambientali, di luoghi, di nazioni in cui i protagonisti sí
disperdono, si cercano, si inseguono (in un contorno anch'esso mutevole di mercanti e soldati, di pellegrini e zingari, di frati
e pezzenti, di contadini e mulattieri) per ritrovarsi riuniti soltanto nel funesto epilogo, sono chiaramente i segni significativi
dei loro disperati quanto vani tentativi di sfuggire al "destino" che li sovrasta e li trascina in un groviglio di passioni,
incubi, odi e rimorsi. Due sono quindi le scene che simbolicamente esprimono e riassumono la vicenda: la prima ("stabile"),
in cui il destino inizia la sua azione devastatrice, e l'ultima, in cui porta l'azione a compimento. Sono, queste, anche le due
uniche scene in cui gli amanti compaiono assieme, uniti prima nell'amore e nella speranza, poi nella morte e nella
disperazione.
Il caso di Aida è molto più lineare, come dimostra la sequenza delle mutazioni (le citazioni provengono dalla Disposizione
scenica, le sottolineature sono nostre):
Pietro Bertoja, Tempio di Vulcano e sotterraneo, bozzetto per Aida, atto IV, 7, s.l., s.d. (Collezione privata)
Atto I, Sala, scena corta costituita da una "tela di fondo" e da un "telone". Muta a vista e dietro il "fondo" è già
pronta la scena lunga del Tempio formato da "spezzati" di "cornicioni" e "colonne", col "grande altare" praticabile
al centro. Atto II, Sala, scena corta formata dalla sola "tela di fondo", arredata con "sedie e sgabelli", da portar via
mentre avviene il mutamento a vista che scopre Uno degli ingressi della Città di Tebe, scena lunghissima;
naturalmente già allestita, salvo il "palco per la banda" che "diviso in tre pezzi, si troverà pronto fra le quinte, per
essere subito cacciato fuori al cambiamento di scena". Atto III, Le rive del Nilo, scena stabile estesa fino a metà
circa del palcoscenico. Atto IV, Sala "cortissima, posta appena dietro il sipario, lasciando il solo spazio perché
l'attrice [Amneris] possa trovarsi in scena all'alzarsi della tela". Muta a vista; dietro è già "apparecchiata" l'ultima,
su due piani praticabili, del Tempio e Sotterraneo.
Nel solo atto terzo non v'è alcun mutamento a vista, e questo isola e fa risaltare Le rive del Nilo che si pongono come luogo
chiave dell'intera opera, snodo assolutamente preminente nella vicenda. Qui gli accadimenti precedenti confluiscono in un
punto di non ritorno, qui le passioni che avevano agitato gli animi s'intrecciano in un funesto groviglio. Tutto quello che
accadrà dopo sarà una conseguenza, la catastrofe che inevitabilmente conclude la tragedia. Ma allora, se dalle mutazioni a
vista può giungere un segnale interpretativo, perché non ve n'è alcuna in Otello? Si potrebbe azzardare una spiegazione
tecnica: le scene di Otello erano concepite come strutture con grandi praticabili rialzati, che rendevano difficoltosi i
cambiamenti nel corso degli atti. Tuttavia questi problemi erano superabili, e potrebbe esservi una spiegazione più
convincente.
Sopra: Pietro Bertoja, Interno del Tempio di Vulcano a Menfi, bozzetto per Aida, atto 1, 2 [Venezia], 1876 (Collezione privata)
Sotto: Pietro Bertoja Interno del Tempio di Vulcano a Menfi, bozzetto per Aida, atto I, 2, Palermo, Teatro Bellini, 1880 (Collezione privata)
Girolamo Magnani, Le rive del Nilo, bozzetto per Aida, atto III, 5, Milano, Teatro alla Scala, 8 febbraio 1872 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
La vicenda di Otello si svolge in più luoghi, ma i mutamenti di situazioni sono essenzialmente psicologici, avvengono
nell'animo dei protagonisti, avviati — non dal destino, ma dal proprio carattere — in un lento cammino verso
l'autodistruzione: Otello è un inedito eroe corroso dal dubbio, Jago s'irretisce negli inganni da lui stesso orditi, Desdemona è
perduta proprio dalla sua innocenza. Il crollo morale di Otello testimonia la crisi dell'ideale di grandezza eroica del
melodramma tradizionale,' la sfiducia in quegli assoluti valori etici rende inutilizzabile il codice peculiare di segni scenici
espresso dalle sequenze di mutazioni. Di conseguenza esso scompare, e non soltanto in Otello. Non troveremo scene mutate
a vista in Manon Lescaut, nella Bohème, in Torca (ma questa sta, anche cronologicamente, nel Novecento).
La diversità scenica di Otello rispetto alle precedenti opere verdiane ne rivela la problematica modernità; in proposito sono
sintomatiche le difficoltà che gli scenografi incontrarono nelle prime edizioni e che non sempre furono risolte in modo
soddisfacente, nonostante i suggerimenti di Verdi. Gli interventi diretti di Verdi nelle messinscene erano diventati frequenti
da Aida in poi. In occasione della "prima" italiana di quest'opera alla Scala Verdi, uscendo dall'abituale riserbo e dal
rispetto delle competenze, aveva "accennato" — ossia consigliato, e di fatto richiesto — Girolamo Magnani quale
scenografo.8 L'insolita mossa non va tuttavia vista come una larvata imposizione, ma come l'assunzione in proprio della
responsabilità (tanto che si è potuto, giustamente, parlare di "Verdi regista di Aidan in una scelta molto delicata.
Aida aveva esaltato al massimo grado l'importanza dell'ambientazione storica: l'idea era stata suggerita e sviluppata in un
completo canovaccio da un eminente egittologo, Auguste Mariette,' il quale aveva anche curato per la "prima" del Cairo la
realizzazione dell'allestimento, inteso non come quadro evocativo di un mondo lontano, ma come vera e propria
ricostruzione archeologica di preminente impegno scientifico. Mariette temeva che la messinscena, trasportata a Milano,
perdesse questo rigoroso carattere," ma non fu così e recenti studi e confronti hanno chiaramente identificato le impeccabili
fonti egittologiche utilizzate da Girolamo Magnani per le scene e per i figurini.12 La loro affidabilità era già stata
implicitamente affermata da Giulio Ricordi, estensore della Disposizione scenica di Aida, quando insisteva sulla necessità di
riprodurre fedelmente, fin nei minimi particolari, i modelli proposti:3 Sono state proprio queste ingiunzioni ne varietur
(probabilmente necessarie per evitare indecorosi raffazzonamenti in teatri minori) a far credere all'esistenza di un sistema
scenico stereotipato, mentre v'erano ampi margini sperimentali. Proprio nel caso di Aida basterebbe confrontare tre
progetti dí Pietro Bertoja per il Tempio di Vulcano in tre diverse edizioni dell'opera, per accertare la possibilità di derivare,
dallo stesso impianto strutturale, plurime interpretazioni. Ancor più importante, tuttavia, è l'atteggiamento di Verdi, che
non riteneva mai definitiva una scelta se non dopo ripetuti collaudi sul palcoscenico. Il suo sperimentalismo si avverte già
in Aida, per cui esistono due serie di bozzetti scenici completi e alternativi: nella Disposizione alcune piantazioni e
descrizioni corrispondono alle immagini di una serie, alcune invece alle immagini dell'altra. Nell'edizione di Parma,
immediatamente successiva a quella scaligera, Verdi fece "collocare il praticabile dell'ultima scena più vicino che non era a
Milano"; ma mentre si preparava la recita di Padova, avvertì che era "un errore: quantunque il teatro di Padova sia più
piccolo della Scala, credo sia bene conservare le distanze che erano a Milano. Si vedrà meglio il Tempio e riuscirà più
misterioso e (permettete la parola) più poetico il canto degli amanti".
Pur essendo fondata su un intreccio drammatico tradizionale, con uno svolgimento (come si è visto dall'esame del ritmo
delle mutazioni) semplice e lineare, Aida fu una impresa di ricerca innovativa sul versante delle scene, e come tale ebbe una
indiretta influenza sull'allestimento del tanto diverso Otello. Fu, in realtà, soprattutto Boito a seguire l'esempio di una
messinscena scientificamente controllata e al tempo stesso di grande effetto spettacolare: se per Aida erano stati consultati i
più importanti testi egittologici, in particolare quelli di Vivant Denon, di Rosellini e probabilmente anche quelli
recentissimi di Mariette, per Otello il disegnatore dei figurini, Alfredo Edel, fu mandato a Venezia onde documentarsi sui
dipinti originali dei maestri veneti del Quattro e Cinquecento. Gli schizzi eseguiti sul posto furono quindi rielaborati da Edel
nei progetti per i costumi, poi attentamente rivisti da Boito assistito da Giuseppe Giacosa e da Giulio Ricordi, infine
sottoposti a Verdi. Il quale non li accettò senza discussione, anzi: basti dire che il figurino per l'abito di Otello nell'ultimo
atto fu rifatto per ben quattro volte!" Non si sa se Verdi avesse esaminato con altrettanta cura i bozzetti dello scenografo,
Carlo Ferrario. Certamente vide (e non disapprovò) le riproduzioni e le piantazioni pubblicate in anteprima sul numero
unico della "Illustrazione Italiana" dedicato a Otello; ma le scene messe in opera alla Scala non gli piacquero, al punto che
l'intero scenario fu rifatto da Giovanni Zuccarelli per la ripresa di Otello, due mesi dopo, al Costanzi di Roma. I bozzetti di
Zuccarelli furono proposti come modelli esemplari e come fondamento per la Disposizione scenica (anche se l'estensore di
questa, Giulio Ricordi, affermò che essa rispecchiava l'allestimento scaligero). Dei bozzetti di Ferrario nulla o quasi è
rimasto nell'archivio Ricordi.
Il metodo di ricostruzione ambientale su fondamenti scientifici che aveva funzionato così bene in Aida non ebbe dunque
altrettanto successo in Otello, dove del resto era stato adottato soprattutto per i figurini, assai meno per le scene sia di
Ferrario sia di Zuccarelli. Arrigo Boito e Giulio Ricordi persistettero nel volerlo applicare a Falstaff, a dire il vero con
qualche scorciatoia, perché i modelli utilizzati dal pittore Adolf Hohenstein per i figurini e per qualche parte delle scene non
furono le opere d'arte del tempo in cui visse il Falstaff storico, e nemmeno le immagini del periodo elisabettiano, bensì le
recenti illustrazioni dei drammi di Shakespeare disegnate da un fecondo artista inglese, John Gilbert, e incise dai fratelli
Dalziel. Si progettò comunque anche un viaggio di Hohenstein in Inghilterra; a questo punto Verdi si spazientì e scrisse a
Giulio Ricordi: "Voi mi parlate di scene, di mandare pittori a Londra (a che fare?), di costumi, di macchinismi,
d'illuminazione? Per far scene di Teatro ci vogliono pittori di Teatro. Pittori che non abbiano la vanità di far valere sopratutto la
loro bravura, ma di servire il Dramma. E, per amor di Dio, non facciamo come si fece per Otello che per voler far troppo bene, si è
strafatto. Tutt'al più farsi venire da Londra i figurini delle Comari come si rappresentano a Londra. [...] Pel macchinismo c'è
poco da fare, a parte la scena della cesta che d'altronde non presenta nissuna difficoltà purché non si facciano complicazioni
inutili. Degli effetti d'Illuminazione non vi è bisogno che un po' di scuro nella scena del Parco ma, intendiamoci bene, uno scuro
che lasci vedere i musi degli artisti".
Da questa lettera emerge ancora una volta lo sperimentalismo di Verdi, che per Falstaff non ritiene più opportuna
l'indagine storico-artistica già dimostratasi poco produttiva in Otello ("per voler far troppo bene, si è strafatto") e preferisce
la tipologia codificata della finzione teatrale ("i figurini delle Comari come si rappresentano a Londra"). Ma vi si trova
anche una delle non molto numerose norme prescrittive formulate da Verdi in tema di allestimenti: "Per far scene di Teatro
ci vogliono pittori di Teatro. Pittori che non abbiano la vanità di far valere sopratutto la loro bravura, ma di servire il
Dramma".
Se oggi, a oltre un secolo e mezzo di distanza, ripensiamo alla situazione delle scene teatrali al tempo di Oberto, quindi via
via ne seguiamo la storia fino a Falstaff e confrontiamo quel percorso con la situazione delle scene attuali, vediamo che
quasi non esistono termini di paragone validi, perché non esiste più la massima parte dei fattori che avevano condizionato
le scene delle opere verdiane durante la vita del loro autore. Non esistono più le intromissioni politiche della censura; non si
crede più alla necessità di scene storicizzate; l'illuminotecnica permette di realizzare agevolmente qualsiasi effetto previsto
nelle didascalie sceniche; le strutture tridimensionali hanno radicalmente innovato i sistemi di mutazione, anche a vista,
delle scene; gli editori musicali non propongono più modelli canonici di allestimenti, che non sarebbero comunque seguiti.
Le disposizioni sceniche e i livrets de mise en scène ottocenteschi conoscono oggi una rinnovata fortuna: ma questa è
dovuta al loro valore di documenti storici, che ci permettono di penetrare nel pensiero degli autori e di individuarne l'ideale
rappresentativo. Sarebbe vano cercare di utilizzarli come guide pratiche, anche perché sarebbe difficile e in qualche caso
impossibile reperire i materiali desueti ivi prescritti. Eppure non proprio tutto è cambiato, e lo scopo delle scene deve ancor
sempre essere quello indicato, al termine della sua carriera operistica, da Verdi: "servire il Dramma".
Vi immaginate Naudin vestito da faraone con una barbetta alla imperatore Napoleone [III] ?"' Si sfogava così, sconsolato,
Auguste Mariette in una lettera a Draneht Bey, sovrintendente del Teatro dell'Opera del Cairo. Ispettore generale e
conservatore dei monumenti egizi, direttore del Museo di Boulaq, scopritore di templi e tombe e insignito del titolo di Bey,
Mariette era alle prese col non facile compito di realizzare secondo filologico rigore le scene e i costumi per Aida, la cui prima
rappresentazione era attesa in Egitto per la fine del gennaio 1871. Non c'era nulla da fare: i cantanti non avrebbero mai
consentito al taglio della barba. Mariette si sarebbe presto reso conto di quanto fosse difficile, se non impossibile, tradurre le
immagini stilizzate dei propri bozzetti nella realtà del costume proiettato in uno spazio scenico e animato da un
movimento. Era un grande ricercatore: nelle sue tempere venivano distillati decenni di studi sui geroglifici; ma per natura
faticava a calarsi completamente nel mondo del teatro.
"Ho trovato, in un soggetto tanto nuovo quanto i costumi, delle difficoltà che non avevo previsto. Il caso è grave perché
non si può cadere nella caricatura", comunicava Mariette al Bey.2 Non rimaneva dunque che affidarsi ai sarti dei prodigiosi
atelier parigini e alla responsabile, Madame Delphine Baron: il loro estro avrebbe forse compensato la scarsità
d'immaginazione dell'illustre egittologo. Ma di lì a poco tutta la produzione parigina si dovette mobilitare per ben altri
patriottici fini: l'avanzata dei prussiani alle porte di Parigi coinvolse gli operai in un'eroica resistenza, e i lavori di sartoria
come quelli di scenografia per l'Aida vennero inevitabilmente sospesi. "Non si fa che una cosa ora a Parigi: montare la
guardia":; così Camille Du Lode, che con Verdi aveva perfezionato la struttura del libretto dell'Aida, informava Giulio
Ricordi in una lettera inviata via ballon monté. Anche Du Lode era bloccato con Ma-tiene nella capitale francese.
Il 24 dicembre 1871, quasi un anno dopo il previsto, il sipario del Teatro dell'Opera del Cairo si apriva sulla scena di Aida.
Giuseppe Verdi con Victor Maurel, interprete di lago, la sera della prima rappresentazione di Othello, a Parigi; nell'ottobre del 1894
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
All'evento tanto atteso non poteva mancare Filippo Filippi, il più celebre critico musicale di quei giorni, legato a Verdi da
rapporti di stima reciproca. Sulla "Perseveranza" diede un resoconto divertentissimo degli incontri di viaggio, dell'udienza
con il viceré, di un risotto ai tartufi consumato all'ombra delle piramidi; e criticò il lusso delle stoffe di lana e seta che
indossavano le coriste, uno spreco insensato perché "nessuno dalla platea ha indovinato il `crépe de Chine' a 60 franchi il
metro, e del cotone avrebbe fatto il medesimo effetto". Non gli sfuggivano neppure i baffi e la mosca di Pietro Mongini
(Radames), che "fanno a pugni colla archeologia".
Henri Sellier nel ruolo di Radames, fotografia con dedica autografa, 1884 circa
(Parigi, Bibliothèque de l'Opéra)
Le sagaci osservazioni del Filippi non costituivano un'eccezione. I critici si erano affinata la vista e nulla sfuggiva loro. La
verifica della ricerca filologica di un tessuto, la correttezza storica di un taglio e persino l'attendibilità del trucco erano
diventati una costante nelle recensioni a partire dalla seconda metà del secolo, acuendosi fino all'esasperazione verso gli
anni Ottanta in conformità con una diffusa sensibilità per l'erudizione, per la ricerca del particolare insolito e dimenticato,
riesumato in polverosi archivi e riportato sulla scena. Era questa una tendenza di gusto assai diffusa, e non riguardava solo
le opere verdiane: nello stesso periodo, i costumi del "bravissimo" Alfredo Edel per Erodiade di Jules Massenet (Teatro alla
Scala, 23 febbraio 1882) venivano elogiati per la "rara perizia storica",' anche se si trattava piuttosto di un pot-pourri di
Egitto e Babilonia. In realtà il "vero storico" rimaneva un'utopia, e ciò che si mostrava sulla scena era piuttosto un'idea di
luoghi e tempi remoti inseguita e fatta propria con appassionato candore, dal Medioevo della Battaglia di Legnano alla
cinquecentesca corte mantovana di Rigoletto, fino all'isola di Cipro che fa da scenario a Otello.
Il pubblico, che a dirla con le parole dello stesso Edel si può "imbrogliare che non se ne intende tanto",6 finiva per
gareggiare con gli stessi cronisti nel rimarcare qualità e difetti di un capo d'abbigliamento o di un accessorio, a furia di
leggere le recensioni e di condividerne i punti esclamativi. Tra tutte quelle del Filippi, che sulla "Perseveranza", in occasione
della versione riveduta del Don Carlo (Teatro alla Scala, 10 gennaio 1884, costumi di Edel), puntava l'indice contro l'uso
improprio dei guanti da parte del paggio nell'accompagnare sul mandolino la Canzone del velo, e nella scena della morte di
Posa rimarcava la stonatura di un fucile a due canne, modernissimo, forse di fabbrica inglese, in mano a un soldato.' Per la
rappresentazione di gala del Simon Boccanegra a Parigi, nel Thatre Italien ristrutturato a nuovo (27 novembre 1883), la
critica francese si divideva tra il signor Kerst "che dice male perfino dei costumi, lodati da tutta la stampa"' e il collega
Scapin della medesima testata (il "Voltaire"), che scomodava il noto disegnatore e caricaturista parigino Grevin per un
parere obiettivo: giudicandoli questi un valore assoluto come ricostruzione storica, la questione si chiudeva felicemente a
vantaggio di Edel.
A rinfocolare il "voyeurismo storico" ci pensava Giulio Ricordi, che la sapeva lunga sulla promozione di opere nuove.
Sull'Il138 lustrazione Italiana" dedicata alla "prima" di Otello (Teatro alla Scala, 5 febbraio 1887) venivano riportati gli
schizzi di Edel realizzati in occasione di una spedizione a Venezia, giudiziosamente ispirati ai dipinti e agli oggetti del Museo
Correr; nell'edizione successiva, stampata in occasione del Falstaff (Teatro alla Scala, 9 febbraio 1893), erano narrate le
imprese di Adolf Hohenstein, che non si sarebbe accontentato degli archivi della Biblioteca di Brera, ma avrebbe intrapreso
un viaggio in Inghilterra sulle orme di Shakespeare. Nulla era lasciato al caso, o meglio alla fantasia: veniva garantita
persino la fonte degli spiritelli, modellati sui disegni dei masques inglesi e, in particolare, di John Gilbert.
Dalla quiete di Sant'Agata, Verdi lanciava strali avvelenati contro l'aborrita "réclame", rimbrottando Ricordi per l'assenza
di discrezione nel portargli in visione i figurini del Simon Boccanegra, e per gli inutili viaggi a Parigi e a Londra di
Hohenstein per il Falstaff, quando "i più bei figurini sono quelli (secondo me) dell'Edizione Inglese a buon prezzo! "9
Ancora una volta Verdi non si sentiva a proprio agio, e più della pubblicità stessa paventava la minaccia di veder
frantumata quell'unità di scena, gesto e costume posta al servizio del dramma, che gli stava tanto a cuore. Mentre si
batteva la grancassa attorno al Falstaff, egli si rendeva conto che l'enorme boccascena della Scala mal si adattava a
personaggi che dovevano apparire in una chiave di più intima comunicativa: il Carcano sarebbe stato più adatto. Lo aveva
ben capito Hohenstein, che a dispetto di tanti viaggi e studi eruditi mostrava di avvicinarsi più che mai al "vero poetico"
caro al Maestro. I suoi studi di costume non erano semplici figurini, ma mostravano tutto un "mondo altrove", un gioco di
movimenti e di vita in un'inedita e spigliata ricerca fisiognomica, creando già sulla carta quell'ideale comunanza tra
pubblico e attore che un teatro troppo ampio avrebbe rischiato di vanificare.
Sembravano trascorsi anni luce dalla "prima" del Nabucco alla Scala (9 marzo 1842), quando i costumi erano raffazzonati
alla meglio, recuperati in parte dal magazzino e in parte dall'omonimo ballo del Cortesi. Erat lontano il debutto di Emani
alla Fenice (9 marzo 1844), con i costumi delle sole prime parti terminati. Allora le imprese risparmiavano sul vestiario; di
contro ora Verdi temeva il loro tracollo a causa delle smodate spese implicate, tra le tante cose, dai costumi, e finiva col
ripetere che "nei costumi dei nostri personaggi bisognerà evitare il troppo bello",' perché "se il pubblico arriva a dire 'Oh il
bel costume', siamo perduti"."
Le invettive del compositore erano rivolte anche agli atelier di Parigi, perché lì si "strafà", e il far troppo "è il vizio di Parigi:
si bada molto ai costumi e poco al resto"» La situazione era del resto sfuggita di mano allo stesso Mariette, all'epoca dei
preparativi dell'Aida per il Cairo: i suoi propositi di "acquistare delle mauvaises étoffes"," per evitare quel senso del ridicolo
che incombeva sulla sua testa come la spada di Damocle, non venivano presi in considerazione dai lavoranti parigini.
Mariette (che pure firmò lo spettacolo) venne letteralmente travolto dall'intervento delle sartorie, con i loro grandi effetti.
A Parigi, l'Aida veniva rappresentata al Théatre Italien nella stagione 1876 con profusione di ori nelle scene e nel vestiario,
tali che "gli antichi impiegati del Teatro Italiano non dicono Aida, Verdi, Escudier, ma Aid-or, Verd-or et Escudier-or",
scherzava la Strepponi con Ricordi." Nell'edizione del Thatre de l'Opéra del 22 marzo 1880, il costume disegnato da Eugène
Lacoste per Amneris mostrava "una tale sovrapposizione di vesti e di veli, da non potercisi più raccappezzare".
Le intuizioni di Verdi, tanto innovative sui personaggi e di conseguenza sulla definizione del costume, erano difficilmente
recepite dal pubblico, dalla critica e dagli stessi cantanti. Nel Macbeth (Firenze, Teatro della Pergola, 14 marzo 1847) il
cantante che impersonava Banco rifiutava — ritenendolo disdicevole al proprio ruolo — di presentarsi sul palcoscenico
come Ombra, che avvolta in un velo cenerino "sortiva sottoterra". Interveniva allora Verdi, con la sua nota perentorietà
che non ammetteva ulteriori discussioni: "I cantanti devono essere scritturati per cantare ed agire"."' La perenne ricerca di
nuove figure concrete, in carne ed ossa, che popolassero il palcoscenico in luogo degli stereotipi del melodramma, induceva
il compositore a innovazioni estreme. Il 16 novembre 1850 la critica, riunita al Teatro Civico di Trieste per la
rappresentazione di Stiffelio, interpretava i costumi moderni come "non costumi": i pantaloni lunghi in tela bianca, i "nostri
palet6t" e i "nostri frack"17 apparivano ridicoli. Tale disastroso precedente finiva col vanificare il successivo tentativo di
adottare vestiti moderni nella Traviata (Venezia, La Fenice, 6 marzo 1853): la presidenza del teatro preferiva non rischiare,
e ambientava l'opera ai tempi di Richelieu. A malincuore, riferiva il Piave, Verdi acconsentiva "che l'opera ne sia portata
indietro, ma non ammette parrucche".
[Filippo Peroni], Alfredo, figurino per La traviata, Milano, Teatro alla Canobbiana, autunno 1856
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Sinistra: Alfredo Edel, Jago, figurino per Otello, atto I, Milano, Teatro alla Scala, 5 febbraio 1887 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Victor Maurel nel ruolo di Jago, Milano, 1887 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Si faceva sempre più chiara nel compositore la certezza che il costume doveva non essere relegato al ruolo di semplice
indumento, ma riflettere il personaggio, fare corpo con esso. In occasione della preparazione dell'Attila alla Fenice (17
marzo 1846), 140 Verdi chiedeva allo scultore Vincenzo Luccardi di annotare con solerzia i colori della veste di Attila
dall'affresco di Raffaello nelle stanze vaticane; una quarantina d'anni dopo, in vista dell'Ote/- /o, si rivolgeva al pittore
Domenico Morelli con richieste di ben altra portata. Non sí trattava più di contare e di elencare i colori di una veste, o di
compiere studi eruditi, ma di dare corpo e sostanza a un'astrazione, all'invidia e alla gelosia: di stimolare la fantasia dello
stesso compositore nelle fasi di scrittura dell'opera. Non, dunque, il bozzetto come semplice conseguenza del melodramma;
ma fisionomia visiva e fisionomia musicale concepite insieme, illuminanti ciascuna aspetti dell'altra. L'invidia, ossia Jago, il
"demonio che muove tutto", secondo Morelli doveva indossare panni di color nero, "come è nera la sua anima";'`' ma la sua
figura e la "faccia da uomo giusto"" avrebbero ingannato tutti. La gelosia, ossia il Moro, colui che agisce, che "ama, è
geloso, uccide e si uccide", doveva indossare i colori chiari delle vesti veneziane (senza, beninteso, il turbante). Ma poi il
pittore si bloccava al momento di metter le idee sulla carta, nonostante le reiterate insistenze di Verdi perché togliesse il
freno alla propria fantasia, inventasse la "verità poetica" della tragedia: temeva forse di mettersi a confronto con
l'immaginazione visionaria di Verdi.
Per contro, sempre durante la progettazione di Otello veniva affidato a Edel un ruolo di minore responsabilità: doveva
prendere atto della data dell'ambientazione, "non oltre il 1525", accostarsi alla pittura veneziana, dal Carpaccio al Bellini
come gli aveva suggerito Arrigo Boito, e attendere maggiori ragguagli man mano che si definivano i personaggi. Sulla
scena, Jago avrebbe infine avuto il volto imberbe del grande mattatore, Victor Maurel, che sacrificava barba e baffi non
per rigore filologico, ma per calarsi interamente nel personaggio e per coerenza col proprio modo di agire sulla scena. Come
in nessun altro attore l'abito, il trucco, il movimento e il canto facevano tutt'uno. Per paradosso, Maurel avrebbe finito col
distanziare tutti gli altri protagonisti, Tamagno incluso, e rimanere solo sulla scena con la propria bravura, danneggiando
involontariamente l'unità del dramma.
Dina Galli (1875-1951) (Roma, Biblioteca e Raccolta Teatrale del Burcardo - S1AE)
E’ un dato ormai attestato dalle ricerche che l'esecuzione di brani operistici non è (e non è stata) pratica diffusa in ami bito
contadino, neppure là dove abbastanza vicina e forte è stata l'attività melodrammatica. Certo, quasi ovunque —
soprattutto nella Pianura padana, tra Emilia e Lombardia — arie d'opera sono conosciute, magari incontrate, un tempo,
attraverso le bande e le corali e poi attraverso la radio; ma la loro esecuzione è stata per lo più affidata a "specialisti", ossia
a cantori che raramente partecipavano al canto popolare vero e proprio, ma si connotavano come appassionati dell'opera e
cercavano di replicare, nel loro canto, i modi esecutivi dei tenori, dei baritoni e dei bassi. Per semplificare potremmo dire
che nel mondo popolare è stata la fascia artigiana e anche operaia, non quella contadina e pastorale, a recepire l'opera e a
coltivarla.
E però interessante osservare come si diano casi abbastanza frequenti di "riutilizzazione" di materiale derivato dalla pratica
melodrammatica, in contesti comunicativi chiaramente popolari. Mi riferisco a quell'interessante genere dell'"incatenatura"
che sembra, nell'osteria contemporanea, ripetere antichi modelli e che è detto in Lombardia minestrùn (minestrone) o risott
(risotto) e in Liguria remescellu (rimescolamento), a renderne esplicito, fin dai nomi, il carattere di "impasto" e
"mescolanza" (oggi forse si direbbe di " fusion").
In tali componimenti, propri del mondo dell'osteria e di una società maschile, il melodramma ha spesso una sua parte, e la
scelta dei frammenti chiamati a comporre, con altri frammenti d'altra origine, la successione apparentemente scombinata
dei versi, meriterebbe più approfondita attenzione. Mi limito a citare un paio di queste sequenze o "incatenature", raccolte
in zone diverse dell'Italia settentrionale, ad attestare la fortuna diffusa del genere. Ciascuno potrà cogliere le citazioni
melodrammatiche, verdiane e non soltanto verdiane, che operano anche un'ardita e — a me pare — felice sintesi fra la
Parigi della Bohème e quella della Traviata.
1. Vico di Capovalle (Brescia), 31 ottobre 1971 (registrazione di Paola Ghidoli, Glauco Sanga e Italo Sordi): Tullio
Lombardi (oste), con il figlio, la figlia e un gruppo di clienti (accompagnamento di chitarra e fisarmonica). Registrazione
pubblicata in Albatros LP VPA 8223.
Édouard Giraud (1839-1912) (Roma, Biblioteca e Raccolta Teatrale del Burcardo - SIAE)
Redemès discòlpati
Redemès discòlpati
è Redemès l'e chi l'e sà l'e là
l'e sót el pónt de Calvisà
co le bràghe 'n mà
che l'e drì a cà...
disìga ch'el vègna
disìga ch'el vègna
Redemès l'è chi l'e sà l'e là
l'e sót el pónt de Calvisà
co le bràghe 'n mà
che l'e drì a cà...
disìga ch'el vègna
fare l'amò,.
celèste Aìda
formà divina
mandéme i basì
batìma sui ciàp
celèste Aìda
formà divina
mandéme i basi
batìma sui ciàp
ài nostri mònti
rìtornerémo
l'àntica pàce
a che pace pace non voglio dare
sóno ostinàto
se non mi dici prima chi t' à
e sìnf e sùnf e séla
chì t'a ròta la càmpanèla
e sìnf e sònf e séla
chi t'a ròta la pa...
2. Ceriana (Imperia), 10 dicembre 1962 (registrazione di Roberto Leydi e Luciano Berio): gruppo di uomini.
Il melodramma ha trovato i suoi spazi anche nei repertori satirici, non popolari, del teatro dialettale e dello spettacolo di
varietà. Che io sappia non è stato ancora tentato un censimento dei prodotti satirici fondati sull'opera lirica, i suoi
personaggi, le sue situazioni così facili allo stimolo grottesco e comico. Mi sembra significativo, per illuminare questo
pittoresco settore di caricature sull'opera, ricordare a mo' d'esempio una macchietta satirica creata da uno dei maggiori
attori-autori del secondo Ottocento, un uomo legato, per cultura e natura, a una città come Milano fortemente implicata
nelle cose del melodramma. Parlo naturalmente di Edoardo Ferravilla (1846-1916), che ebbe pure radici personali nel
mondo operistico (la madre, Maria Luisa Ferravilla, era cantante), compì qualche studio musicale, amò il melodramma e fu
tra i non molti che batterono le mani alla prima del Mefistofele.
Nella sfilata di "caratteri" e "macchiette" che Ferravilla creò e animò nella sua fortunatissima avventura di teatrante
milanese, attingendoli a modelli del suo tempo e badando alla loro riconoscibilità da parte del pubblico, troviamo sia il
compositore di opere liriche (se pur da strapazzo), sia il cantante, tanto gigione quanto sfiatato: il baritono Gigione non fu
personaggio secondario nel mondo ferravilliano. Gigione fu creato per uno spettacolo "messo insieme" — è il termine giusto
per i testi ferravilliani — con Edouard Giraud, nel fertilissimo periodo fra il 1872 e il 1880, e intitolato eloquentemente
Minestron. L'effettivo "minestrone" era un assieme scombinato di quattro quadri: La fiera, Il dramma-parodia, La
traviata, Il ballo-parodia; era, cioè, un gioco satirico su quattro aspetti essenziali del teatro del tempo. Il pezzo forte era,
tuttavia, il terzo quadro, dedicato all'opera in musica e tutto incentrato sulla presenza e l'invenzione di Ferravilla. Nella
prima versione il quadro prendeva di mira La traviata: Ferravilla, vestito da donna, cantava le arie più note di Violetta;
ma poi Il trovatore prese il posto della Traviata perché Ferravilla — così, almeno, spiega l'attore nelle sue memorie —
temeva che qualcuno s'innamorasse di lui, ammirandolo travestito. La ragione, naturalmente, era legata a problemi di resa
scenica e di presa sul pubblico, che consigliarono il trasferimento della "macchietta" dal soprano al baritono. Per il quadro
del Trovatore — avverte sempre Ferravilla nelle sue memorie — fu addirittura procurato il permesso di Casa Ricordi:
circostanza che la dice lunga sulla potenza del signor Tito, pensando alla facilità con la quale Ferravilla (ma non lui
soltanto) era solito appropriarsi, senza chiedere tanti permessi, di materiali altrui per adattarli alla sua
invenzione. Così Ferravilla ci spiega la nascita di Gigione:
E allora immaginai il tipo di Gigione, il tipo cioè dei molti cantanti che hanno la bella voce finché stanno in
Galleria a Milano a raccontar prodigi di sé nel crocchio degli amici gentili: ma appena arraffano una scrittura l'aria
del teatro diventa fatale per loro, la voce manca e il pubblico fischia. L'idea sarà forse nata in me vedendo passare
in Galleria qualcuno di quegli artistoni supercaratteristici: ma meglio che da questa o da quella persona il mio
naturale istinto di osservatore mi ha fatto certo trar partito dai caratteri comuni a tutti i Gigioni viventi.
Di questo quadro — che, come tutte le creazioni di Ferravilla, oggi non regge alla lettura del copione nudo e crudo e
reclama il perduto suono e il perduto gesto del grande attore milanese abbiamo una descrizione "dal vero" di Cletto Arrighi:
Chi ha veduto Gigione nella parte del Conte di Luna e l'ha udito, colla sua esile ma intonatissima voce baritonale,
modulare il famoso assolo della prigione, non ha bisogno che io gliela venga spiegando. Chi non l'ha ancora veduto
s'imagini tutto quello che c'è di più fino e di più indovinato in una parodia di cantante sfiatato e cane, che invoca
gli applausi. Le smorzature, le sospensioni, quando l'orchestra alza un poco la sua voce, le passeggiatine per darsi
importanza tragica e per dissimulare la mancanza dell'organo vocale, sono tutto ciò che di più buffo si possa
immaginare. Una campana squilla. Egli si volta atterrito. Sta un momento sopra pensiero, poi si getta il lembo del
mantello bianco sulla spada e dice:
Fora meglio il fuggir!
E sulla punta dei piedi di ferro, se la svigna nelle quinte. Segue il famoso terzetto coi cori. La donna strilla
abbracciando il Ciraud Trovatore:
Sei tu dal ciel disceso
o in del son io con te?
Ferravilla vorrebbe lanciarsi sul Trovatore, ma è continuamente trattenuto da suoi fidi seguaci. L'ira repressa egli
sfoga allora in un certo accompagnamento da contrabbasso senza parole: ro, to, trom; trom, trom;
ro, to, trom; trom, trom
che produce un effetto da non credersi. E l'atto finisce collo sparire di lui a cavallo di un seguace.
È facile immaginare, da questa descrizione, come la scena non soltanto proponesse gli "spropositi" di un baritono "sfiatato e
cane", ma anche evocasse, nel suo insieme, il lato irrazionale, grottesco e naturalmente comico della convenzione
melodrammatica innanzi a un pubblico edotto e pronto a cogliere l'allusione.
Nel nuovo secolo, e soprattutto all'indomani della prima guerra mondiale, la presenza del melodramma nel costume italiano
non soltanto cambia di segno e di peso, ma certo indebolisce anche il proprio valore emblematico e diffuso. In questa
stagione, tuttavia, il mondo dell'opera riesce ancora a stimolare artisti comici di talento a esercizi intelligenti e pungenti.
Vorrei qui ricordare soltanto Dina Galli, che proprio alla fine degli anni Trenta propone il delizioso personaggio d'una sarta
milanese che spiega, alle sue lavoranti e alle sue "piccinine", i classici del melodramma. Ed ecco la sua Traviata, una
paginetta deliziosa (e maliziosa) che pare anticipare (ma il "terreno di coltura" è lo stesso, cioè una certa perduta Milano)
Franca Valeri:
"Sempre libbera degg'io trasvolar di gioia in gioia..." eh, come dici? Canzonetta? Oh ignorante! Questa chi l'è
un'opera... è una cosa che tutti parlano cantando, capisci? Tu, per esempio, se vai a portare un vestito a una cliente
bati piano la porta e ci fai: "E permesso?" Ne l'opera, invece, prima ci suonano magari un gran colpo di grancassa e
poi tu entri e quando sei bell'entrata ci canti così: "Si può? Io sono il prologo", ecco così tutto... mi sono spiegata?
Se una donna ci vuol bene al suo fidanzato, ci strilla forte in faccia "Amami Alfredo, amami com'io t'a..." t'è capì?
Insomma, perché lei la pensa: "Chi lo sa, se ce lo dico in musica mi dà più retta..." E così quella lì che io cantavo
prima l'è la Traviata, di Giuseppe Verdi. L'è quella che al primo atto l'è una conversazione. C'è la signora Violetta
che si fa fresco col ventaglio — perché in quel opera lì la primadonna si fa sempre fresco — mentre l'è lì così che la
parla con quel'altro, tutto in un momento vien dentro il tenore, che l'è l'Alfredo. Lei, apena lo vede dice: "Oh, dio,
che bel giovane!" Combinasione anche lui quando l'ha vista fa: "Ah, mmadonna che bella ragazza!" Poi c'è la
presentazione. Lui ci dice: "Tanto piacere" e lei ci risponde: "Ma no, prego, il piacere è tutto mio" e Alfredo ci
ribatte: "Ma no, prego, è proprio mio, tant'è vero che... sono un po' timido... ma ci vorei dire una cosa..." "Eh, ma
dica! Dica pure, non faccia complimenti". "Eh, sa, ma io... ci vorrei dire che apena che l'ho vista mi è piaciuta e se
anche lei fosse dello stesso parere... insomma si potrebbe combinare qualchecosa..." E alora lei, si sa resta un
momentino titubante e timorosa, eh, e la dice: "Sì, anch'io voglio dircelo, lei mi piace, mi è simpatico, ma, sa...
capirà che una risposta così sui due piedi io non ce la posso dare... Veda di pasare fra due o tre giorni e vorrà dire
che io ci sarò precisa".
Edoardo Ferravilla (1846-1916) (Roma, Biblioteca e Raccolta Teatrale del Burcardo - SIAE)
Qui ci sono tutti i convenevoli di circostanza e dopo lii el va via. Alora la resta lì di per lei. Intanto che si fa fresco
— perché si fa sempre fresco la pensa: "Ah, cosca faccio? Cossa non faccio? È un bel giovane, non dico di no, mi
piace, ma e dopo? E se mi pianta? E cci calerebbe quella! No, no, no, l'è molto meglio che io ne tenga due o tre, che
almeno se va via uno ho subito pronto quel'altro". E alora, capisci, lei la canta: "Sempre libbera degg'io..." Hai
capito? Peccato, però che dopo che ha avuto il cuore sodi-sfatto la ciapa un maledeto rafredore che ha dovuto
chiamare il dotore il quale ci dice: "La tisi non le acorda che poche ore". E, infatti, lei la muore dando l'adio al
pasato. Ah, ah, cara ti, t' el disi mi: l'opera l'è una gran bela roba!
Un disegno di Aleardo Terzi sulla copertina di un pieghevole con catalogo delle opere verdiane dell'inizio del Novecento,
Milano, Nuovissime Edizioni Ricordi
(Milano, Civica Raccolta delle Stampe Achille Beriarelli)
Nessun grande compositore ha vissuto nell'ultimo secolo una rivalutazione più spettacolare di Giuseppe Verdi. Formatosi in
una tradizione operistica che in Europa era ormai considerata provinciale, i suoi lavori esercitavano scarso fascino sia sui
custodi della tradizione classica sia sulle avanguardie musicali del tempo, mentre dagli affezionati del belcanto egli era
spesso considerato il grande corruttore di uno stile che aveva raggiunto il suo apogeo con le opere di Rossini. Questa
posizione era particolarmente diffusa in Francia, dove sin dai tempi di Rousseau l'opera italiana era apprezzata con un
certo snobismo dagli intellettuali e dall'alta società. Per l'enciclopedista belga Frainoisjoseph Fétis, una delle voci più
autorevoli dell'establishment musicale francese, l'opera italiana era finita con Mercadante e Donizetti. A Verdi egli negava
qualsiasi originalità, eccezion fatta per quello che chiamava un "eccesso di mezzi", aggiungendo che il suo giudizio avrebbe
certamente provocato le ire di tutte quelle istituzioni le cui casse il compositore aveva contribuito a riempire.
La popolarità di Verdi fra il pubblico non poteva certo essere negata, ma non sempre era ascritta a suo onore, soprattutto
nei paesi in cui si stava sviluppando un idioma nazionale. Dai progressisti tedeschi l'opera italiana era stata considerata a
lungo un vero nemico. Wagner, che anche negli anni della maturità mantenne una particolare predilezione per le melodie di
Bellini, sopportava a fatica che Verdi venisse nominato. Anche in Inghilterra Verdi si scontrava con le resistenze sia dei
conservatori sia dei promotori della cosiddetta "English Musical Renaissance", che si ispirava principalmente alla musica
tedesca. E mentre in tutto il mondo gli spiriti più perspicaci ne riconoscevano le conquiste degli anni maturi, per la grande
maggioranza Verdi rimase fino alla fine dei suoi giorni il compositore del Trovatore. Persino il Requiem era considerato
un'opera sotto mentite spoglie.
Diversa era, naturalmente, la situazione in Italia. La morte di Donizetti e il declino di Mercadante, che tendeva al manieri-
smo e alla replica di se stesso, lasciarono Giuseppe Verdi in una indiscussa posizione di preminenza fra i compositori italiani
dell'epoca. Non avendo mai celato i suoi orientamenti politici, all'epoca dell'unificazione, nel 1861, Verdi — il cui nome era
strettamente associato al Risorgimento — fu invitato da Cavour a sedere come deputato nel primo parlamento italiano.
Sebbene non rientrasse nelle simpatie dei movimenti artistici che cominciavano a diffondersi nel paese negli anni Sessanta e
Settanta, il suo prestigio rimaneva comunque intatto. Pur essendo sostanzialmente una persona molto riservata, Verdi alla
fine autorizzò la pubblicazione di una sua biografia ufficiale (Giuseppe Verdi, vita aneddotica di Arthur Pougin, Milano
1881, rev. 1886), alla cui realizzazione contribuì personalmente. Questo testo avrebbe fissato l'immagine di Giuseppe Verdi
per più di una generazione: l'uomo di umili origini che, con la sola forza del suo carattere, riuscì ad assurgere a una posizione
di rilievo; un austero patriota deciso a sostenere l'eredità culturale del suo paese contro l'invasione straniera.
Sinistra: Frontespizio di Giuseppe Verdi, vita aneddotica di Arthur Pougin, Milano 1881 (Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
Destra: Die Macht des Schicksals, traduzione tedesca di Franz Werfel della Forza del destino di Francesco Maria Piave, Leipzig, Ricordi, 1935 (Parma,
Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
Questa immagine non era falsa, ma indubbiamente risultava caricata di una certa esagerazione. L'opinione che nelle sue
prime opere Verdi fomentasse deliberatamente le agitazioni che culminarono nei movimenti rivoluzionari del 1848 è
chiaramente falsa. Se nell'atmosfera di quel tempo la sua musica era accompagnata da manifestazioni popolari, altrettanto
accadeva con i "numeri" guerreschi di Norma e Belisario. Non si deve del resto dimenticare che, quando l'editore Francesco
Lucca richiese alla Scala una cifra esorbitante per mettere in scena Attila, fu la polizia austriaca che lo costrinse a ridurre le
sue richieste. Di fatto Pougin, nel suo commento alla Battaglia di Legnano, assolve implicitamente il compositore
dall'accusa di aver fatto della propaganda politica. Altrettanto falsa è l'opinione che la famiglia di Verdi fosse analfabeta;
né Verdi dal canto suo incoraggiò tale credenza. In una mostra del 1889 Giulio Ricordi espose una lettera del padre di
Verdi, cosa che certamente non avrebbe potuto fare senza l'autorizzazione del compositore.
Leopoldo Metlicovitz, locandina per il centenario verdiano con la riproduzione del busto realizzato da Vincenzo Gemito, Parma, Officine Ricordi, 1913
(Milano, Civica Raccolta di Stampe Achille Bertarelli)
Verdi lamentava, a volte, che i propri lavori fossero incompresi dai suoi connazionali. Nulla lo irritava di più dell'idea,
avanzata anche da alcuni critici a lui favorevoli, che la sua musica cominciasse a essere influenzata da Wagner. Persino
l'accenno di Filippo Filippi al fatto che un'aria della Forza del destino dovesse qualcosa a Schubert lo portò all'assurda
affermazione che in casa sua non c'era neppure una nota della musica altrui. In mezzo alle influenze musicali che
penetrarono in Italia negli anni Settanta e Ottanta, Verdi era consapevole di percorrere una via autonoma.
Gli anni che seguono la morte di un compositore segnano spesso una flessione della sua fortuna. Così accadde con Verdi. Per
la "Giovane Scuola", che trovava realmente in Wagner una fonte di ispirazione ("Papà di tutti i maestri presenti e futuri",
come disse Mascagni), Verdi era una figura onorata ma remota. Per la "generazione dell'Ottanta", volta al recupero della
tradizione strumentale italiana, Verdi era semplicemente irrilevante: fu oggetto di un attacco del giovane Alfredo Casella,
che visse poi sufficientemente a lungo da ripudiarlo. Nel 1913, centenario della nascita di Verdi, Casa Ricordi pubblicò in
partitura solo sette delle sue ventotto opere: Rigoletto, Il trovatore, La traviata, Un ballo in maschera, Aida, Otello e
Falstaff, oltre al Requiem. Persino &nani, che si era saldamente mantenuto in repertorio nel corso di tutto il XIX secolo,
meritandosi una citazione in Arms and the Man di Bernard Shaw, fu escluso dalla serie.
La Verdi-Renaissance cominciò in Germania con la ripresa della Forza del destino a Dresda nel 1926, in una traduzione di
Franz Werfel. I dieci anni seguenti videro un'esplosione della letteratura verdiana, sia in Italia sia all'estero. La
pubblicazione di lettere e documenti, iniziata con l'edizione di Gaetano Cesari e Alessandro Luzio dei Copialettere di
Giuseppe Verdi insieme a una quan-' tità di ulteriore corrispondenza (Milano, 1913), ebbe come risultato la prima biografia
autorevole, Verdi, di Carlo Gatti. Seguirono studi musicologici e opere a lungo neglette furono riesumate e apprezzate.
Richard Strauss, che aveva salutato Falstaff come un
Ettore Ximenes, bozzetti in gesso di personaggi verdiani: Attila, Falstaff, Rigoletto e Violetta . (Parma, Accademia di Belle Arti)
capolavoro e inviato all'autore la partitura del suo Guntram in segno di omaggio, ebbe ora parole di lode per un Macbeth
sentito a Firenze. Questa nuova tendenza continuò dopo la seconda guerra mondiale, passando attraverso il cinquantesimo
anniversario della morte del compositore nel 1951 e la fondazione, nel 1960, dell'Istituto Nazionale di Studi Verdiani sotto
la presidenza di Ildebrando Pizzetti. Un altro elemento, piuttosto sorprendente, è il vivo interesse dei musicologi, che
nell'ultimo quarto del XX secolo ha provocato una crescita esponenziale delle analisi e degli studi specialistici sulle opere
verdiane, con convegni e seminari di studio in Europa e in America. Ha rappresentato una sorta di pietra miliare, in questo
fenomeno, la monumentale edizione critica degli opera omnia, iniziata alla fine degli anni Settanta. Nata da un progetto
internazionale, che ha coinvolto sia il principale editore originario di Verdi sia la maggior casa editrice universitaria
statunitense, l'imponente iniziativa rappresenta una sorta di consacrazione accademica di Verdi, collocato nella storia tra i
più importanti compositori europei.
Altri biografi hanno completato l'immagine di un personaggio che non fu solo un genio della musica, ma anche uno
straordinario benefattore. La leggenda del semplice contadino, privo di gusto letterario, la cui vena creativa fu ostacolata
da cattivi libretti fin quando non venne salvata da Arrigo Boito, fu ben presto liquidata. Contemporaneamente, la ripresa
di interesse nei confronti del cosiddetto "belcanto" offriva un contesto nel quale i primi successi di Verdi potessero essere
pienamente apprezzati. Oggi la statura artistica di Verdi non è più messa in discussione, avendo ricevuto omaggi da
compositori di natura così diversa come Stravinskij, Britten e Dallapiccola. Nell'ambito della sua ricca produzione le
preferenze potranno inevitabilmente variare.
Ma su una cosa non si può che essere concordi: ogni nuovo ascolto di una delle sue opere ci offre qualcosa di nuovo da
scoprire.
Giuseppe Verdi
l'uomo, l'opera, il mito
Gli esordi
Corrado Mingardi
È il 10 ottobre 1813 quando nella frazione delle Roncole, nel comune di Busseto, vede la luce Giuseppe Fortunino
Francesco Verdi in una famiglia di locandieri e piccoli conduttori agricoli. L'osteria delle Roncole, una rustica casa a due
spioventi con le stanze da letto dai bassi soffitti al piano superiore, è al centro del villaggio, in uno slargo all'incrocio delle
strade provenienti dai quattro punti cardinali, luogo di sosta dei passeggeri e dei balli festivi. Tradizione e leggenda
vogliono che sia un violinista girovago a scoprire nel piccolo Verdi i primi segni della vocazione musicale, per coltivare la
quale il padre acquista la spinetta che tuttora si conserva: nel 1821 verrà riparata dall'organaro Stefano Cavalletti senza
compenso "vedendo la buona . disposizione che ha il giovanetto Giuseppe Verdi di imparare a suonare questo strumento,
che questo mi basta per essere del tutto soddisfatto", come scriverà all'interno del coperchio. Ma è soprattutto l'organo della
chiesa la palestra del precoce fanciullo, un organo con tredici registri del bergamasco Francesco Bossi risalente al 1797. Suo
primissimo maestro di musica è Pietro Baistrocchi, che è pure il suo primo insegnante elementare. E presto, sui nove anni,
sarà Verdi stesso l'organista titolare delle Roncole. A dieci anni Verdi è a Busseto per frequentare il ginnasio. Suo mecenate
affettuoso e lungimirante è il droghiere Antonio Barezzi, fornitore del padre per la bottega-osteria delle Roncole, musicista
egli stesso: nel salone di casa sua trova sede la Società Filarmonica, da lui fondata nel 1816, che Ferdinando Provesi dirige
dividendosi tra gli impegni di organista della collegiata di San Bartolomeo e di maestro di musica comunale. Quasi subito
Verdi frequenta la casa, anche per dare lezioni alla coetanea Margherita Barezzi. Al ginnasio, tra i suoi insegnanti è il
canonico don Pietro Seletti, l'erudito bibliotecario del Monte di Pietà professore di umanità e retorica, che ideologicamente
si contrappone al musicista Provesi il cui anticlericalismo non sempre è tenuto a freno.
Il parmigiano Provesi, compositore non sprovveduto benché "da fortuna obliato", è il primo vero maestro di Verdi.
Alla sua scuola il ragazzo è dapprima un apprendista diligente che copia le parti staccate, ma presto è in grado di
orchestrare le partiture incomplete, improvvisa il basso continuo all'organo, fa esperienza di voci e strumenti nel contatto
quotidiano con la Filarmonica e la cappella della collegiata, e dà precoci prove come compositore. Del ragazzo
quattordicenne si esegue, in teatro, una sinfonia per Il barbiere di Siviglia. Nel 1832, dopo l'infelice esame di ammissione al
Conservatorio di Milano, una borsa di studio del Monte di Pietà e l'aiuto generoso di Barezzi permettono a Verdi di studiare
privatamente con Vincenzo Lavigna, già allievo di Paisiello e da trent'anni maestro al cembalo del Teatro alla Scala. I tre
anni trascorsi a Milano sono fondamentali per la sua formazione, sia per il valore didattico del Lavigna, sia per
l'opportunità di seguire dal vivo le stagioni operistiche e la vita musicale della grande città; ma lo sono anche per i rapporti
allacciati con le persone e le istituzioni musicali. Richiamato a Busseto per partecipare alla successione del defunto maestro
Provesi, Verdi si trova nel bel mezzo della lotta cittadina tra i filarmonici di Barezzi e il clero. Nel giugno del 1834 la
collegiata aveva infatti nominato, senza concorso, il nuovo maestro di cappella e organista nella persona di Giovanni
Ferrari di Guastalla. Il ricorso di Verdi al governo ducale verrà respinto un anno dopo. Un concorso si farà, ma solo per il
maestro di musica del comune; Verdi lo vincerà con un brillante esame a Parma nel febbraio del 1836. In quei lunghi mesi
tra equivoci, indugi burocratici, pressioni contrastanti sulle autorità, pregiudizi ed esasperazioni personali, Busseto vive la
guerra pro e contro Verdi nei modi più accesi, fino agli scontri fisici nelle strade, nelle chiese e nei pubblici locali. Verdi,
oggetto della tenzone eroicomica, vi partecipa suo malgrado, con la mente rivolta alle lusinghe che gli vengono da Milano:
un'opera, il misterioso Rocester forse poi confluito nell'Oberto, è in piena gestazione.
L'impegno di maestro del comune a Busseto è in ogni modo gravoso e frustrante; così a fine ottobre 1838, mentre si apre la
sicura prospettiva di veder rappresentato alla Scala Oberto, conte di San Bonifacio e l'editore milanese Canti ha appena
pubblicato le Sei romanze per canto e pianoforte, Verdi rassegna le dimissioni da maestro di musica, scrivendo al podestà di
Busseto: "Il bisogno di procurarmi un sostentamento sufficiente a nutrire la mia famiglia mi determina cercare altrove ciò
che non posso avere in patria". Verdi è infatti già padre di due bambini e Margherita, figlia del suo benefattore Barezzi, è
sua sposa dal 4 maggio 1836, pronta a metter su casa a Milano per condividere la sorte — per lei non incerta del marito. Le
vicende bussetane lasceranno in Verdi un rancore che durerà tutta la vita, e che si acuirà dopo il rifiuto del paese di
accettare la sua convivenza con Giuseppina Strepponi. Ma tale risentimento non gli impedirà di mantenere in terra
bussetana la sua dimora, con una presenza sdegnosamente appartata ma costante.
Sinistra: Pietro Seletti (1770-1835), insegnante di Giuseppe Verdi al ginnasio di Busseto
Destra: Certificato di studi di Giuseppe Verdi compilato dal suo insegnante Ferdinando Provesi
Stefano Barezzi, Ritratto giovanile di G. Verdi, 1877, disegno, 300 x250 mm (Busseto, Amici di Verdi Salone Barezzi, proprietà Stefanini)
Sinistra: Stefano Barezzi, Ritratto di Margherita Barezzi, 1843, olio su tela, 44 x30 cm (Collezione privata)
Destra: A. Ghisi, Ritratto di Antonio Barezzi, 1877, olio su tela, 93 x71 cm (Busseto, Amici di Verdi Salone Barezzi)
Angelo Formis, La casa natale di G. Verdi, olio su tela, 78 x 50 cm (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
La Milano che accolse il diciottenne Verdi al suo primo arrivo, nel 1832, era una città il cui tessuto urbano non aveva
subito, nonostante il sensibile incremento demografico e la crescente espansione economica, grandi trasformazioni dal
momento della Restaurazione. All'inizio del suo apprendistato alla scuola del Lavigna il giovane musicista prese alloggio in
via Santa Marta, non distante dal Duomo ma soprattutto non lontano dall'altro mitico simbolo cittadino, il Teatro alla
Scala. Sebbene esistessero in città molte altre prestigiose sale — a testimonianza dell'enorme interesse che lo spettacolo,
quello musicale in particolare, esercitava sulla società milanese — era proprio la Scala il punto focale d'attrazione, quello
intorno a cui s'intrecciavano mondanità e dinamismo culturale. È dunque ovvio che l'aspirante compositore non soltanto
cominciasse a frequentare assiduamente le stagioni scaligere, ma prendesse anche contatto con i luoghi, attorno al teatro,
dove si davano convegno tutti i protagonisti; diretti o indiretti, del mondo del melodramma.
Sulla piazza della Scala, più piccola dell'attuale, si intrattenevano maestri, cantanti e impresari e aprivano i battenti le sedi
dei due più importanti editori musicali, Ricordi e Lucca. Poco distante, sulla Corsia del Giardino, c'era anche il più modesto
negozio musicale di Giovanni Canti, presso il quale Verdi avrebbe pubblicato, già nel 1838, il suo primo album di romanze,
propiziandosi l'accesso a quei privati ed esclusivi luoghi di aggregazione culturale che erano i salotti. Rituali punti
d'incontro e d'intrattenimento erano pure i numerosi caffè del centro. Nei loro ambienti eleganti non ci si limitava a
discutere di novità musicali e a commentare la rivalità tra le primedonne della scena lirica, come la Pasta e la Malibran; si
parlava anche degli ultimi eventi culturali, economici e sociali e — magari a bassa voce — di politica.
Fu grazie alla frequentazione assidua dei luoghi in cui si trovavano riunite tutte le voci che "contavano" nel mondo
culturale milanese che il giovane Verdi — consapevole che solo grazie a una selezionata rete di conoscenze era possibile farsi
strada nell'affollata, competitiva arena del mondo musicale — riuscì ben presto a entrare in contatto con i personaggi che
gli avrebbero permesso di uscire dall'anonimato: il maestro Massini, direttore dell'Accademia dei Filodrammatici, e i suoi
membri più influenti come il conte Renato Borromeo, il conte Pompeo Belgiojoso e il celebre Andrea Maffez, traduttore di
Schiller e Byron e padrone di casa di uno dei salotti più ambiti. Al momento del suo ritorno temporaneo a Busseto, nel
1835, Verdi aveva già avuto la possibilità di dirigere La creazione di Haydn al Teatro dei Filodrammatici e al Casino dei
Nobili; ma soprattutto aveva già con sé un libretto d'opera che sarebbe divenuto nel 1839, al suo ritorno definitivo a
Milano, l'Oberto, conte di San Bonifacio, presentato sul palcoscenico della Scala, auspice il potente e spregiudicato
impresario Bartolomeo Merelli. Per giungere tuttavia al trionfo del Nabucco dovettero trascorrere più di due anni; anni
certo non facili per Verdi a causa sia delle sventure familiari sia dell'infortunio di Un giorno di regno, ma fondamentali nel
permettergli di approfondire la conosnza del contesto sociale e culturale della città in cui aveva scelto di operare, e di
cogliere quindi i gusti e le aspettative del pubblico. Nabucco, quando finalmente andò in scena alla Scala nel marzo del
1842, segnò per il musicista l'inizio di un'inarrestabile ascesa professionale; ma fu anche la rivelazione che certo molti
attendevano: quella di un genio melodico del tutto nuovo, capace non solo di apportare linfa vitale al prestigio
internazionale del melodramma italiano, ma anche di dar voce alle istanze libertarie che sempre più lievitavano nel
subconscio collettivo.
Sopra: Angelo Inganni, La facciata del Teatro alla Scala, 1852, olio su tela, 80 x101 cm (Milano, Museo Teatrale alla Scala) Sotto: Anonimo, Il caffè
degli Specchi o dei Muti, 1850 circa, olio su tela, 29,5 x 37 cm (Milano, Museo di Milano)
Francesco Coghetti, Ritratto di Gaetano Donizetti, 1837, olio su tela, 135 x 98 cm (Bergamo, collezione privata)
Manifesto per la stagione scaligera dal 26 dicembre 1841 al 19 marzo 1842, in cui viene riportato a chiare lettere il titolo di Maria Padilla e taciuto quello
di Nabucodonosor (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Nabucco
Sopra: Nabucodonosor, frontespizio del libretto per la prima rappresentazione, Milano, Teatro alla Scala, 1842 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Sotto: Filippo Peroni, Nabucco e Abigaille, figurini per Nabucco, Milano, Teatro alla Scala, stagione 1854-1855 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Sopra: Romolo Liverani, Interno del tempio di Salomone, bozzetto per Nabucco, parte I, 1, Faenza, Teatro Comunale, 1843
(Forlì, Biblioteca Comunale A. Saffi)
Sotto: Romolo Liverani, Orti pensili, bozzetto per Nabucco, parte III, 4, Faenza, Teatro Comunale, 1843 (Forlì, Biblioteca Comunale A. Saffi)
La Milano di Hayez
Fernando Mazzocca
La presenza di una serie di vedute di Milano dipinte dai più apprezzati specialisti del genere, dei quali Angelo Inganni fu
certamente il più significativo, intende restituire il volto di Milano così come la vide Verdi negli anni del suo trasferimento
nella capitale lombarda e dei suoi primi successi. La città destinata a una profonda trasformazione e modernizzazione dopo
l'unità — univa a luoghi più monumentali, d'impronta ancora neoclassica, molti angoli popolari: soprattutto lungo i
navigli, l'anello di acque che racchiudeva il centro, o attorno alla piazza del Duomo ancora occupata dal Portico dei Figini
(dove si riunivano commerci d'ogni genere) e dal quartiere del Rebecchino. Proprio la smisurata cattedrale e il Teatro alla
Scala erano i due simboli della città, e divennero per questo i soggetti prediletti dai pittori. Accanto a queste vedute di
esterni una serie di immagini, più rare, di interni testimonia come la vita sociale e culturale milanese si svolgesse nei caffè e
nei salotti, i più celebri dei quali furono quelli della principessa Cristina Belgiojoso e della contessa Clara Maffei, grande
amica di Verdi (così come il marito, il celebre poeta Andrea Maffei). I loro ritratti, come altre immagini prescelte, ricordano
le frequentazioni del musicista. Tra queste assumono, naturalmente, un significato particolare quelle con gli altri
compositori e i cantanti, che facevano davvero di Milano la capitale mondiale dello spettacolo. Sicuramente i protagonisti
del mondo musicale godettero di una maggiore popolarità rispetto agli altri protagonisti, artisti e letterati, della cultura
milanese. Lo dimostra la qualità dei loro ritratti, in cui essi vennero raffigurati, in alcuni casi, anche negli abiti di scena.
Milano era anche il centro più importante d'Italia per la produzione artistica, in 168 particolare per la pittura, presentata
ogni anno alla fine dell'estate nelle esposizioni allestite presso l'Accademia di Brera. Verdi, come molti allora, dovette
esserne stato un assiduo frequentatore. Fu colpito soprattutto dalla pittura storica e dai quadri di Hayez, dove spesso
furono rappresentati, con un'enfasi che risente molto del gústo del melodramma, gli stessi soggetti delle sue opere: I
Lombardi, I due Foscari, I vespri siciliani. Sappiamo poi che Hayez, di cui il compositore divenne amico, faceva parte — ne
era anzi il rappresentante più autorevole — di una commissione dell'Accademia di Brera incaricata di controllare gli
allestimenti scaligeri, o comunque di dare dei suggerimenti per gli stessi. Ma anche i suoi bellissimi dipinti di soggetto
biblico od orientale, che non hanno un collegamento diretto con i melodrahimi verdiani, presentano le stesse suggestioni che
ritroviamo in opere come Nabucco o Aida. Ritroviamo peraltro l'atmosfera esotica e insieme eccitata di quest'ultima in un
grande dipinto, oggi poco noto ma allora molto discusso, di Cherubino Cornienti dedicato a Mosè fanciullo che calpesta la
corona di Faraone. Un capolavoro del pittore napoletano Domenico Morelli, I vespri siciliani, ci ricorda il suo intenso
rapporto con Verdi. Un'amicizia che resta consegnata alle straordinarie pagine di un lungo epistolario, dove vengono
ricordati i numerosi progetti, destinati a non venire realizzati nei termini desiderati, per tradurre in pittura grandi
melodrammi verdiani come Il trovatore oppure Otello.
Luigi Basi, Le ultime ore del doge Foscari, 1862, olio su tela, 232,5 x152,5 cm
(Bologna, Fondazione Collegio Artistico Venturoli)
Sinistra: Francesco Hayez, Ritratto della contessa Clara Maffei, 1845 circa, olio su tela, 65 x 58 cm (Riva del Garda, Museo Civico)
Destra: Michele Gordigiani, Ritratto di Andrea Maffei, 1862 circa, olio su tela, 135 x108 cm (Riva del Garda, Museo Civico)
Alessandro Guardassoni, La sete dei crociati, 1852, olio su tela, 164 x226 cm (Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Sinistra:Adeodato Malatesta, Agar e Ismaele, 1845-1859, olio su tela, 195 x130 cm (Barlassina, collezione Oldani di San Castriziano)
Destra: Francesco Hayez, Tamar di Giuda, 1847, olio su tela, 113 x 85 cm (Varese, Museo Civico)
Francesco Hayez, Ruth, 1853, olio su tela, 138 x100 cm (Bologna, Collezioni Comunali d'Arte)
Luigi Pedrazzi, Ritratto della cantante Maria Felicita Malibran Garda in costume di Desdemona, 1834-1836 circa, olio su tela, 127 x91 cm
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Il Piccio [Giovanni Carnovali], Ritratto del cantante Ignazio Marini, primo interprete di Oberto ed Emani, 1838-1841, olio su tela, 68 x51 cm
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Nel maggio del 1848 Verdi acquista nel comune di Villanova sull'Arda, a un tiro di schioppo da Busseto, la tenuta di
Sant'Agata. Già dal 1845 era suo il palazzo più signorile di Busseto; nella primavera del 1851 Verdi e la Strepponi si
trasferiscono però stabilmente a Sant'Agata, dove l'originaria casa colonica comincia ad assumere l'aspetto di una villa.
Seguiranno cinquant'anni quasi ininterrotti di permanenza fecondissima, non solo di composizioni ma anche di lavori
agricoli. Perché l'agricoltura è passione tutt'altro che secondaria nella vita del Maestro. Confiderà Giuseppina nel 1857
all'editore Escudier: "son amour pour la campagne est devenu manie, folle, rage, fureur Il se lève presque avec le jour pour
aller examiner le blé, le mais, la vigne etc. Il rentre harassé de fatigue".
Di anno in anno Sant'Agata diviene il centro di conduzione di numerosi poderi limitrofi, un complesso vastissimo che arriva
a superare i mille ettari, su cui il Maestro stesso vigila con aggiornata competenza e oculata severità: sono coltivazioni di
vario genere, allevamenti di bovini, di cavalli, di bachi da seta, un caseificio, un mulino, con sperimentazione di nuovi
concimi e nuove macchine, come la pompa d'irrigazione fatta venire dall'Inghilterra. La ricchezza, per Verdi che ha le radici
familiari nella civiltà contadina, è rappresentata dal possesso terriero. Nei ruoli del 1889 egli risulta essere il maggior
contribuente della provincia di Parma, con un reddito netto di 40.000 lire. Sant'Agata è il luogo della quiete, della
solitudine dopo il furore degli "anni di galera", quando Verdi scriveva più di un'opera all'anno ed era sempre in viaggio per
l'Italia e l'Europa. "Questa profonda quiete mi è sempre più cara. È impossibile trovare località più brutta di questa, ma
d'altronde è impossibile che io trovi per me ove vivere con maggior libertà, poi questo silenzio che lascia tempo a pensare":
così alla Maffei nel 1858. Antonio Ghislanzont, più volte ospite del Maestro, ha lasciato suggestive, dettagliate descrizioni
della vita a Sant'Agata. "Il Maestro" scrive nel 1868 il librettista di Aida "compone ordinariamente nella sua camera da
letto: una camera al piano terreno, spaziosa, piena d'aria e di luce, ammobigliata con artistica profusione. Le finestre e le
porte vetrate danno sul giardino. Quivi un magnifico pianoforte, una libreria ed uno scrittoio massiccio di eccentrica forma
che, dividendo la camera in due compartimenti, esibisce allo sguardo una deliziosa varietà di bozzetti, di statuette, di vasi e
capricci artistici. Al disopra del pianoforte sta affisso il ritratto ad olio del vecchio Barezzi, il vero amico e mecenate del
Verdi, al cui nome [e] alla cui effigie veneranda il maestro professai una specie di culto Nei silenzi della notte si partono da
quella camera le armonie sussultanti che erompono dal genio creatore". E ancora: "La villa di Sant'Agata forma [...] nel
Maestro Verdi il soggiorno più gradito. Quivi la sua attività prodigiosa di corpo e di spirito può svolgersi più liberamente
che altrove. Alle cinque del mattino egli percorre i viali del parco, visita i campi e le masserie, si diverte navigando il
laghetto in un piccolo battello che egli conduce e dirige da abile pilota. Non un momento di sosta. Per riposarsi dalla
musica, il Verdi ricorre alla poesia: per temperare le forti emozioni di questa e di quella, egli si rifugia nella storia e nella
filosofia. Non vi è ramo dello scibile umano a cui la sua mente inquieta, avida di coltura, non si getti con trasporto".
Infinitamente curioso, Verdi si interessa di arte, poesia, agronomia, economia e politica, ed è abbonato a numerosi
periodici. Eloquente la sua biblioteca, quella storico-letteraria che occupa un'intera sala, e quella musicale posta nello
studio. Senza dimenticare che a capo del letto, a portata di mano, erano i volumi tascabili con l'edizione completa dei
quartetti, trii e quintetti di Haydn, Mozart e Beethoven, occasione forse di studio frequente. Della biblioteca di Sant'Agata
fanno parte le opere di Palestrina, Bach (Il clavicembalo ben temperato, le partite, i corali, le fughe per organo, la Messa in
si minore), Hiindel (i grandi oratori), Corelli, Marcello, Cherubini, Schubert; e poi Berlioz, Weber, tutti i contemporanei fino
a Wagner e a Brahms, e i compositori più giovani delle scuole italiana e francese. E perciò paradossale la professione
verdiana di "somma ignoranza musicale", come pure l'affermazione che "In casa mia non vi è quasi musica [...1. Sto a
giorno d'alcune delle migliori opere contemporanee non mai studiandole, ma sentendole qualche volta a teatro".
Considerando poi la quantità delle opere letterarie possedute da Verdi (insieme alla Strepponi, assidua lettrice), il ventaglio
degli autori e degli argomenti è amplissimo. V'è il meglio della cultura classica e moderna, italiana ed europea: dai mistici
trecenteschi alle Memorie di Casanova, dalla Filotea di San Francesco di Sales al Piacere di D'Annunzio, da Platone a
Schopenhauer, da Balzac a Zola, da Pascal a Darwin. Per il teatro si passa da Eschilo ad Alfieri, a Dumas, Sardou. Le
numerose edizioni delle opere di Shakespeare rivelano la sua particolare predilezione per colui ch'egli ebbe a definire "il gran
maestro del cuore umano". Nella villa ogni cosa è intatta e suggestivamente parlante. Le camere di Verdi e della consorte
sono un santuario di vive memorie. Sopra il gran coda Erard, dove campeggiava l'effigie di Antonio Barezzi, è stato posto il
busto in terracotta che Vincenzo Gemito diciannovenne, con l'intuizione del genio, modellò nel 1872 a Napoli: ritratto
memorabile, che possiede un'intensità espressiva terribile, la gran fronte corrucciata china a meditare le tempeste
dell'animo umano. Sullo scrittoio il bianco marmo della sua mano, scolpito da Giovanni Dupré al tempo del Macbeth
fiorentino. In una bacheca i fiori secchi colti sulla tomba di Manzoni, e i guanti usati per dirigere la Messa di requiem in sua
memoria. Tra i biglietti autografi esposti, uno recita: "A Verdi amore e vanto dell'Italia Alessandro Manzoni augura
prosperità pari alla fama". Dalle tende di pizzo filtra la luce del giardino, romantica oasi di rare essenze arboree in terra
padana: le danno pittoresca varietà il lago bordato di taxodi, gli americani cipressi di palude, la grotta artificiale, 7a collina
della ghiacciaia, un'esedra di alte magnolie, viali serpeggianti e il tumulo gentile .del cane Lulù con il piccolo cippo inciso
dall'epigrafe: "Alla memoria d'un vero amico". Oltre il giardino, i campi distesi verso il vicino orizzonte del Po e gli
Appennini lontani e indistinti.
Anonimo, Ritratto di Giuseppina Strepponi con lo spartito di Nabucco, 1842 circa, olio su tela, 98 x75 cm (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Sinistra: Particolari della stanza da letto di Giuseppina Strepponi (Sant'Agata, Archivio di Villa Verdi)
Destra: Particolari della stanza da letto di Giuseppe Verdi (Sant'Agata, Archivio di Villa Verdi)
Verdi politico
Antonio Rostagno
L'evoluzione del pensiero politico di Verdi rispecchia quella di molti suoi coetanei e può sintetizzarsi in quattro fasi:
dapprima la quasi indifferente accettazione dei governi assolutisti stranieri la breve fiammata mazziniana del 1848-1849; lo
spostamento, negli anni Cinquanta-Sessanta, su posizioni cavouízine filo-piemontesi; infine una lunga fase di delusione
sempre più profonda dopo il 1870. Se il pensiero politico di Verdi scivola nello scetticismo, il messaggio civile assume però
nel suo teatro un crescente rilievo; ed è precisamente questo messaggio che differenzia le opere di Verdi da quelle dei suoi
contemporanei. Ma su questo punto occorre cautela.
Il messaggio politico dell'opera verdiana, secondo un'aneddotica che ha origine a fine Ottocento, viene solitamente
individuato nei "cori patriottici" di Nabucco, I Lombardi alla prima crociata, Emani, Macbeth, opere scritte fra il 1842 e
il184 7 Su questi pilastri si sono costruite le immagini mitiche del Verdi "maestro della rivoluzione italiana", "vate" o
"bardo del Risorgimento», interpretazioni che, come tutte le mitologie, attribuiscono a un minimo nucleo di verità una fitta
congerie di falsità. Questi significati sono infatti frutto di una lettura a posteriori: fino al 1848 né il pubblico italiano, né i
regnanti, né le censure leggevano in quei versi un messaggio nazionalistico rivoluzionario, ma solo un generico patriottismo
che non cozzava contro lo status quo. L'aneddotica risorgimentale su queste opere nasce negli anni Ottanta, come
mitizzazione di un momento eroico della storia nazionale, come creazione di una leggenda, di un monumento.
Il contagio rivoluzionario del 1848 coglie Verdi a Parigi, dove risiede con la Strepponi, e gli detta atteggiamenti più
esplicitamente politici. Si entusiasma alle Cinque Giornate di Milano, ma giunge in città solo il 5 aprile quando il sangue
non scorre più da giorni;
180 sollecitato da Mazzini, compone l'inno patriottico Suona la tromba, ma poiché moltissimi compositori italiani ne
scrissero in quell'occasione, la circostanza non basta a fare di Verdi un ardente rivoluzionario. L'esperienza mazziniana si
conclude con La battaglia di Legnano, opera di elevato valore intellettuale e artistico, ancor oggi fraintesa come pura pièce
d'occasion. Il violento messaggio politico di quest'opera ("Viva Italia! Un sacro patto tutti stringe i figli suoi" recitano i
primi due versi del libretto; il quarto atto s'intitola «Morire per la patria") la condannò all'oblio nell'Italia delle repressioni
post-quarantottesche. Tuttavia oggi si tende a ridimensionare l'impeto politico della Battaglia per riscoprirne gli aspetti
linguistici e drammaturgie-i d'ispirazione francese; neppure in questo baso dunque l'intenzione di Verdi era semplicemente
propagandistica. Con il 1853 il prestigio di Mazzini perde credito a favore dell'idea annessionista alla corona piemontese,
soprattutto grazie al prestigio personale di Cavour. Dopo la guerra del 1859 e la delusione di Villafranca, Verdi ritorna
all'impegno civile e partecipa concretamente alla fondazione dell'Italia unita: dapprima accetta di rappresentare Borgo San
Donnino (l'attuale Fidenza) all'Assemblea delle province parmensi; compra poi a Genova 172 fucili per armare la Guardia
Nazionale; poi con Farini e Sanvitale porta a Cavour i risultati dei plebisciti d'annessione. Infine cede alle insistenze dello
stesso Cavour e si candida al parlamento: verrà eletto ad ampia maggioranza nel collegio di Borgo San Donnino. Per questo
impegno accetta di comporre uno dei pochissimi lavori d'occasione della sua carriera: /Inno delle Nazioni, che doveva
rappresentare l'Italia all'Esposizione Internazionale di Londra del 1862. Pur senza alcun preciso messaggio politico, in
questo brano su testo del ventenne Arrigo Boito l'identità italiana e il prestigio nazionale vengono rivendicati in termini
musicali: nella parte centrale Verdi intreccia in contrappunto i tre inni nazionali italiano, inglese e francese, significando sia
la promozione dell'Italia al rango delle due nazioni più antiche, sia il valore culturale del trattamento contrappuntistico
simboleggiante una tradizione di pura identità italiana. Dopo il 1865 le posizioni pubbliche del Verdi politico si diradano,
ma aumenta l'impegno nella costruzione di un'identità culturale italiana: dalla politica partecipata in prima persona,
all'impegno civile attraverso la propria arte. Con Don Carlos, Aida, il Requiem per Manzoni, la nuova versione del Simon
Boccanegra, Verdi prosegue tenacemente il suo progetto civile d'ispirazione cavouriana. La crescente disillusione circa la
politica praticata, il valore del parlamento, la dialettica dei partiti; insomma la sfiducia nella politica in accezione moderna,
lo spingono a ritirarsi nella sua arte per indicare da questo pulpito, stavolta sì come un "vate", i valori civili in cui crede.
Neppure la nomina a senatore (1874) lo riavvicina alla pratica politica: Verdi non frequenterà mai le aule romane. Superare
le divisioni di parte e i regionalismi, riconoscersi nel proprio governo, salvaguardare l'identità culturale, occupare un posto
nell'Europa delle nazioni: in questo si esaurisce il messaggio politico che Verdi ha trasfuso nella sua opera a partire dagli
anni dell'unità. Qualunque altro significato strumentalmente partitico, qualunque interpretazione ideologica della sua arte
sarebbero illazioni non legittime e traviserebbero il messaggio che Verdi intendeva trasmettere.
La mitizzazione ch'egli stesso avviò delle sue opere "risorgimentali" si inserisce in questo sistema di valori, e ne fornisce al
tempo stesso una base edificante. Ma al di là di questo messaggio civile e culturale occorre ripetere che i suoi commenti sulla
politica istituzionale, sulla dialettica dei partiti, sui trasformismi opportunistici, insomma sulla politica come attualmente
s'intende,
testimoniano un crescente disgusto, lasciando nelle sue lettere frequenti segni di prostrazione e delusione. Ma nel momento
in cui il personale pensiero politico di Verdi diventa sempre più pessimistico (e, per la storia, irrilevante), il suo messaggio
civile e culturale viene riversato senza residui nell'opera.
Lettera autografa di Giuseppe Verdi ad Arrigo Boito, nella quale lo ringrazia per il testo dell'Inno delle Nazioni, Parigi, 29 marzo 1862
(Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
Fortunino Matania, Verdi presenta a Vittorio Emanuele II il plebiscito dell'Emilia, disegno pubblicato nell'"Illustrazione italiana", Milano
(Milano, Museo del Risorgimento)
La battaglia di Legnano, frontespizio dello spartito, Milano, Ricordi [18611 (Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
[Carlo Barbieri], Il comitato insurrezionale milanese riunito in casa Taverna, 20 marzo 1848 [18491, olio su tela, 110 x152 cm
(Milano, Museo del Risorgimento)
Verdi e l'editoria
Gabriele Dotto
Quando il giovane Verdi approdò nella città lombarda questa era da tempo non solo il principale centro dell'editoria in
Italia, ma anche un polo tra i più importanti delrindustria della cultura" nell'Europa meridionale. Inoltre l'attività
editoriale milanese, nel campo della musica, si era specializzata e offriva particolari opportunità per un compositore il cui
principale interesse fosse rivolto al teatro musicale. Già all'epoca l'editore Ricordi, con sede "sotto il portico di fianco all'I.R.
Teatro alla Scala", aveva costituito un archivio musicale tra i più importanti in Europa per la fornitura di materiali ai
teatri d'opera. È facile immaginare la soddisfazione del giovane compositore quando fu proprio Ricordi, dopo il suo primo
successo operistico, a offrirgli un contratto per pubblicare e gestire l'opera.
La carriera di Verdi coincise con un periodo di grandi trasformazioni nel processo di diffusione popolare della musica.
L'editoria musicale, da commercio appassionato ma ancora spicciolo all'inizio dell'Ottocento, stava rapidamente
diventando un'industria, e tale trasformazione sarebbe stata di grande importanza per la carriera dei compositori di
successo della generazione di Verdi. In parte, quell'evoluzione era puramente tecnologica, e in questo si sviluppava come
tante altre attività nell'epoca del vapore. Le edizioni musicali, dalle tirature dei primi decenni del secolo (limitate a qualche
centinaio di copie, ottenute dal torchio calcografico o con la tecnica della litografia), arrivarono — mediante l'impiego di
tecniche di riproduzione d'avanguardia — ai venticinque milioni di fogli musicali stampati annualmente dalle Officine
Ricordi alla fine dell'Ottocento.
I mezzi di trasporto e di comunicazione giunsero, intorno alla metà del secolo, a livelli di rapidità e capillarità inconcepibili
solo dieci anni prima. Se la tecnica di creazione della matrice musicale — che era ottenuta mediante incisione su lastra e
richiedeva un altissimo artigianato — rimase immutata, il giro d'affari generato dagli altri accorgimenti tecnici permise
l'impiego di un'imponente forza lavoro, tanto che le edizioni delle opere erano sovente già in vetrina nei negozi quando
l'opera stessa arrivava sulle scene.
Ma ancora più significativo, sia per il compositore sia per l'editore, fu il controllo della proprietà intellettuale dell'opera,
pazientemente conquistato nel corso dell'Ottocento mediante leggi dapprima nazionali, poi europee. Verso la fine del secolo
un altro fenomeno fondamentale, per quanto riguarda la diffusione, fu la maturazione del concetto di un inquadramento
globale del prodotto musicale, gestito con sorprendente modernità: non solo gli spartiti, le partiture e ogni immaginabile
derivato, ma anche una pubblicistica sapientemente mirata e dosata, i manifesti legati a una "prima" operistica, e un vero e
proprio merchandising dell'evento per generare l'interesse del pubblico. In tutto ciò (come mostrano soprattutto le due
ultime opere di Verdi) l'editoria milanese fece scuola.
Nella seconda metà del secolo la preoccupazione degli autori perché venisse garantita l'integrità artistica delle proprie opere
portò gradualmente al controllo di altri basilari aspetti dell'allestimento, dalla scena alla regia alla gestualità. In questo
Giulio Ricordi, che rappresentava la terza generazione dell'impresa editoriale milanese, si rivelò un interlocutore
particolarmente attento e attivo. Commissionò le scenografie, i costumi e gli attrezzi — diventando in effetti, oltre che
editore, impresario — di molte "prime" del suo catalogo, e preparò poi copie dei bozzetti e deifigurini da far circolare con i
materiali musicali. Inoltre collaborò attivamente alla stesura di disposizioni sceniche (sul modello dei livrets de mise en
scène francesi) che miravano a fissare una versione "canonica" dell'opera, o almeno a garantirne una buona messinscena.
Torchio calcografico appartenuto all'editore Ricordi, Lipsia, 1842 (Arese, collezione Gipico)
Sopra; Litografia di Alessandro Sanquirico con la sede e il negozio dell'editore Ricordi a fianco dell'edificio del Teatro alla Scala, 43,3 x58,3 cm
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: La visita di Umberto I alle Officine Ricordi a Milano, in corso di Porta Vittoria, in un disegno di Adolf Hohenstein, Milano, 1890
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Punzoni, altri attrezzi di incisoria musicale, e una lastra incisa dalla prima edizione di Falstaff, 1893
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
16 dicembre 1899, Milano, via Manzoni 29: nello studio del notaio Stefano Allocchio Giuseppe Verdi istituisce l'Opera Pia
Casa di Riposo per i Musicisti, "nella quale raccogliere e mantenere persone dell'uno o dell'altro sesso addette all'Arte
Musicale, che siano cittadini italiani e si trovino in istato di povertà", e le dona "il vasto Caseggiato dallo stesso Maestro
Verdi al detto scopo fatto costrurre in Milano Piazzale Michelangelo Buonarroti". Quindici giorni dopo, con un decreto
reale, la Casa di Riposo viene eretta in Ente morale.
Sí conclude così la prima fase del progetto verdiano concepito almeno una decina di anni prima, probabilmente prima
ancora dell'acquisto di «tremila metri di terreno non fuori di Porta Vittoria ma di Porta Garibaldi" (Verdi ne scrive in una
lettera a Giulio Ricordi nell'ottobre del 1889), terreno sul quale l'impresa dei Fratelli Noseda realizza il progetto
architettonico di Camillo Boito, eseguendo l'appalto affidatole da Verdi il 15 aprile 1896. 14 maggio 1900: Verdi verga di
suo pugno il testamento, istituendo erede universale la cugina Maria Verdi maritata ad Alberto Carrara di Busseto. Il
testamento è denso di legati, destinati soprattutto ad enti sociali (gli Stabilimenti dei Rachitici e dei Muti di Genova,
l'Istituto dei Vecchi di Genova, il Comune di Villanova sull'Arda, al quale lasciava l'ospedale da lui costruito e anch'esso
beneficato di lasciti, il Monte di Pietà di Busseto, e altri). Su tutti i legati svettano però, per importanza, quelli destinati
alla Casa di Riposo. Non solo i titoli della Rendita Italiana per lire 75.000, i crediti verso Casa Ricordi di lire 200.000, il
pianoforte grande firmato Erard dell'appartamento di Genova, la spinetta di Verdi ragazzo, i ricordi artistici, i cimeli, le
decorazioni, i quadri e "tutto quanto la stessa mia erede crederà opportuno di lasciare per essere conservato in una sala del
medesimo Istituto": alla Casa di Riposo Verdi lascia soprattutto i diritti d'autore sulle sue opere, sia in Italia sia all'estero, e
tutte le partecipazioni che gli spettano sulle relative cessioni.
Nel testamento, pubblicato a Busseto pochi giorni dopo la morte (1 febbraio 1901), Verdi esprimeva "il vivo desiderio di
essere sepolto in Milano con mia moglie nell'oratorio che verrà costruito nella Casa di Riposo dei musicisti da me fondata".
In pochi giorni vi fu approntata la cripta che dal 27 febbraio 1901 accoglie le spoglie mortali di Giuseppe Verdi e di
Giuseppina Strepponi.
I primi nove ospiti (quattro donne e cinque uomini) entrarono però nella Casa di Riposo sQlo il 10 ottobre 1902,
nell'anniversario della nascita del maestro. Verdi, per non mettere alcuno nella condizione di doverlo ringraziare, aveva
rinunciato a vedere in funzione quella che con l'amico scultore Giulio Monteverde aveva definito "l'opera mia più bella".
Chiestogli quale fosse, delle sue opere, quella che gli piaceva di più, Verdi aveva infatti risposto: «Delle mie opere, quella
che mi piace di più è la Casa che ho fatto costruire a Milano per accogliervi i vecchi artisti di canto non favoriti dalla
fortuna, o che non possedettero da giovani la virtù del risparmio. Poveri e cari compagni della mia vita! Credimi, amico,
quella Casa è veramente l'opera mia più bella".
Adolf Hobenstein, Le ultime ore del compositore Giuseppe Verdi, 1901, matita su carta
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Fortunino Matania, Il trasporto della salma di Verdi. La formazione del corteo al Cimitero Monumentale, 1901, disegno pubblicato
nell'"Illustrazione Italiana", Milano
(Milano, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli)
Tavola e facciata della Casa di Riposo per Musicisti (Sant' Agata, Archivio di Villa Verdi)
A meno di un anno dal successo di Nabucco alla Scala Verdi riproponeva, nello stesso teatro, I Lombardi alla prima
crociata: un'altra opera ricca di grandi scene corali, un'epopea il cui tema sarebbe stato interpretato, in un futuro non
lontano, in chiave patriottico-risorgimentale. Pur non raggiungendo l'unitarietà di Nabucco, la nuova opera s'imponeva
rapidamente nei teatri italiani, anche in virtù di una musica incalzante, dai ritmi serrati e quasi brutali: caratteristiche che
ricorrono in molte delle opere giovanili di Verdi e che garantivano il successo di colui che appariva, in quegli anni, come
l'astro nascente nel mondo del melodramma. Ma oltre ai grandi momenti corali e alle rudi scene di violenza, nei Lombardi si
trovano melodie accattivanti profuse a piene mani; e Verdi si dimostrava capace anche di pagine delicate e sorvegliatissime
come la preghiera di Giselda, scritta per la prima donna Erminia Frezzolini Poggi. Con l'opera successiva, Emani, Verdi
andava in un'altra direzione: il soggetto ricavato dal dramma di Victor Hugo, che era divenuto il manifesto del
romanticismo letterario francese, gli permetteva di concentrarsi sui singoli personaggi. La fosca esagitazione del dramma,
l'enfatizzazione dei caratteri, l'astrazione e la convenzionalità melodrammatica del lavoro di Hugo, anziché costituire difetti
rappresentavano un'attrattiva agli occhi del compositore, alla ricerca di personaggi occupati interamente da passioni
violente, dalle quali potevano scaturire efficaci contrasti interpersonali. Verdi creava così il tipo perfetto del melodramma
romantico; ma dimostrava al tempo stesso di saper dare vita a personaggi tutt'altro che schematici, grazie a una musica
aderente ai loro mutamenti psicologici e alle passioni messe in campo: rivelava, in altri termini, un sicuro istinto teatrale.
Che si sarebbe sempre più precisato nel corso dei suoi anni di sperimentazione, o "di galera", com'ebbe a definirli: nel corso
di quel decennio di lavoro forsennato
(1839-1849), chiuso da Luisa Miller, che vide nascere ben quattordici melodrammi. La documentazione iconografica più
consistente, per questi anni, è costituita dai bozzetti della Collezione Bertoja, che raggruppa disegni di Giuseppe e del figlio
Pietro. Giuseppe Bertoja (1808-1873) fu lo scenografo delle "prime" verdiane alla Fenice di Venezia; tuttavia il suo nome
compare tra gli scenografi del Teatro Regio di Torino, in occasione della messinscena dei Lombardi alla prima crociata, di
cui i bozzetti — qui esposti — costituiscono la diretta e la più antica testimonianza raccolta finora. Accanto a questi,
analoga importanza rivestono i bozzetti di Filippo Peroni (1809-1878), scenografo alla Scala dal 1843 al 1865, anno in cui
gli subentrò Carlo Ferrario. Le scene di Peroni, la cui attività era legata principalmente alla Scala di Milano, illustrano le
messinscene delle opere di Verdi dagli anni Quaranta agli anni Sessanta dell'Ottocento. Per alcune di esse è possibile
ipotizzare che si tratti delle "prime" assolute, come nel caso di Giovanna d'Arco, senza nulla togliere ad altri importanti
allestimenti quali I due Foscari, Attila, Luisa Miller o Macbeth. Quanto ai figurini, spesso venivano utilizzati — specie
nella prima metà del secolo — modelli ideati per spettacoli allestiti in precedenza, come nel caso di Nabucco. La loro
importanza è legata soprattutto al gusto del secolo in cui venivano disegnati, poiché risentivano delle tendenze della moda:
lo si nota nei figurini di De Capitani, attivo alla Scala a metà Ottocento, o in quelli di Alfredo Edel, di poco successivo.
Sopra: Giuseppe Bertoja, Caverna, bozzetto per I Lombardi alla prima crociata, atto IV, 9, Torino, Teatro Regio,
stagione 1843-1844 (Venezia, Civico Museo Correr)
Sotto: Giuseppe Bertoja, Prominenze di un monte praticabili in cui s'apre una caverna, bozzetto per I Lombardi alla prima crociata, atto II, 4, Torino,
Teatro Regio, stagione 1843-1844 (Venezia, Civico Museo Correr)
Ernani
Sopra: Romolo Liverani, Sotterranei sepolcrali che rinserrano la tomba di Carlo Magno ad Aquisgrana, bozzetto per Emani, atto III, 4,
Faenza, Teatro Comunale, 1849 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Sotto: Romolo Liverani, Sotterranei sepolcrali che rinserrano la tomba di Carlo Magno ad Aquisgrana, bozzetto per Emani, atto III, 4, Pesaro, 1853
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Sinistra: Alfredo Edel, Silva, figurino per Emani, atto II, Milano, Teatro alla Scala, 1881
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Alfredo Edel, Elvira, figurino per Emani, atto III, Milano, Teatro alla Scala, 1881
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Francesco Maria Piave in una caricatura ad acquerello di Camillo Cima, 1862 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
I due Foscari
Sopra: Filippo Peroni, Stanze private del Doge, bozzetto per I due Foscari, atto I, 3, Milano, Teatro alla Scala, s.d.
(Castelnuovo di Porto, collezione F. Perrone)
Sotto;Filippo Peroni, Le prigioni di Stato, bozzetto per I due Foscari, atto II, 4, Milano, Teatro alla Scala, s.d.
(Castelnuovo di Porto, collezione F. Perrone)
Giovanna d'Arco
Sopra: Filippo Peroni, Foresta, bozzetto per Giovanna d'Arco, prologo, 2, Milano, Teatro alla Scala, s.d. (Castelnuovo di Porto, collezione F. Perrone)
Sotto: De Capitani, Giovanna, figurino per Giovanna d'Arco, Milano, Teatro alla Scala, stagione 1857-1858 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Sopra: Giuseppe Bertoja, Una foresta, bozzetto per Giovanna d'Arco, prologo, 2, Venezia, Teatro La Fenice, stagione 1845-1846
(Venezia, Civico Museo Correr)
Sotto: Giuseppe Bertoja, Piazza di Reims, bozzetto per Giovanna.d'Arco, atto II, 4,• Venezia, Teatro La Fenice, stagione 1845-1846
(Venezia, Civico Museo Correr)
Alzira
Sinistra: Ritratto di Eugenia Tadolini, prima interprete di Alzira, 41 x28 cm (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Destra:Filippo Peroni, Alzira, figurino per Alzira, Milano, Teatro alla Scala, stagione 1846-1847 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Philippe Benois, Interno del Teatro di San Carlo in Napoli, 38,5 x37,5 cm (Napoli, collezione Franco Mancini)
Attila
Sopra: Rio-Alto nelle Lagune Adriatiche, litografa ricavata da un bozzetto di Giuseppe Bertoja per il prologo di Attila e pubblicata sul periodica
"L'Italia Musicale", 1847 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Romolo Liverani, Piazza dí Aquileia, bozzetto per Attila, prologo, 1, 1850-1851 circa (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Pietro Rovaglia, Attila, figurino per Attila, Milano, Teatro alla Scala, s.d. (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Macbeth
Romolo Liverani, Bosco, bozzetto per Macbeth, atto I, 1, Faenza, Teatro Comunale, 1852 (Torino, Civico Museo di Arte Antica)
Girolamo Magnani, Bosco, bozzetto per Macbeth, atto I, 1, Milano, Teatro alla Scala, 1874 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Felice Donghi, Un'oscura caverna, bozzetto per Macbeth, atto III, 6, si, s.d. (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Sinistra: Luigi Bartezago, Ecate, Dea della Notte, figurino per Macbeth, Milano, Teatro alla Scala, 28 gennaio 1874 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Luigi Bartezago, Strega, figurino per Macbeth, Milano, Teatro alla Scala, 28 gennaio 1874 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Luigi Bartezago, Lady Macbeth nel sonnambulismo, figurino per Macbeth, Milano, Teatro alla Scala, 28 gennaio 1874
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Luisa Miller
De Capitani, Luisa, figurino per Luisa Miller, Milano, Teatro alla Scala, 26 dicembre 1851 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Marietta Cazzaniga, prima interprete di Luisa Miller a Napoli, Teatro di San Carlo, 8 dicembre 1849 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Filippo Peroni, Ameno villaggio, bozzetto per Luisa Miller, atto I, 1, Milano, Teatro alla Scala, s.d.
(Castelnuovo di Porto, collezione F. Perrone)
I masnadieri
Sinistra: Gaetano Cornienti, Ritratto di Filippo Coletti, incisione (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Destra: Arminio travestito, Massimiliano, Amalia, litografie dai Masnadieri, atto II, 7, pubblicate sul periodico "L'Italia Musicale", 1849
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sopra: Filippo Peroni, Camera nel Castello dei Moor, bozzetto per I masnadieri, parte I, 2, Milano, Teatro alla Scala, s.d.
(Castelnuovo di Porto, collezione F. Perrone)
Sotto: Filippo Peroni, Luogo deserto che mette alla foresta, bozzetto per I masnadieri, parte III, 6, Milano, Teatro alla Scala, s.d.
(Castelnuovo di Porto, collezione F. Perrone)
Giuseppe Bertoja, Luogo deserto che mette alla foresta, bozzetto per I masnadieri, parte III, 6, si, 1850 (Pordenone, Civico Museo Ricchieri)
Il corsaro
Locandina per la prima rappresentazione del Corsaro, Trieste, Teatro Grande, 25 ottobre 1848
(Trieste, Civico Museo del Teatro)
Magnifico chiosco in riva al porto di Corone occupato dal navile musulmano illuminato a festa, litografia ricavata da un bozzetto per il Corsaro,
atto II, scena 3
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sinistra:Damore, I Duci Musulmani, figurino per I1 corsaro, Trieste, Teatro Grande, 1848
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra:Damore, Corrado, figurino per 11 corsaro, Trieste, Teatro Grande, 1848
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
La "trilogia popolare"
Claudio Toscani e Olga Jesurum
La "trilogia popolare": con Rigoletto, Il trovatore e La traviata siamo nel cuore del repertorio verdiano più amato, quello
che da sempre esercita una larga presa emotiva sul grande pubblico, anche in virtù delle melodie appassionate e memorabili
che non sono certo estranee alla popolarità di queste opere. Ma la "trilogia" rappresenta anche una pietra miliare per il
teatro di Verdi: che vi mette a punto una nuova drammaturgia, nella quale la condizione del protagonista è il presupposto
indispensabile per la costruzione della vicenda e dei conflitti drammatici La scelta del soggetto, per tutti e tre i casi, è il
momento essenziale della creazione operistica, il momento in cui Verdi indaga le potenzialità musicali di una materia
drammatica; e la scelta cade su vicende che ruotano intorno a personaggi complessi e ambivalenti. Ecco allora Rigoletto, il
buffone di corte dalla personalità doppia, diviso tra l'acre e cinica malignità che sfoggia alla corte del duca e l'affetto
tenerissimo che mostra per la figlia allevata in segreto; ecco Azucena, divisa tra l'ansia di vendicare la madre arsa sul rogo e
l'amore per i lfiglio Manrico; ecco Violetta, in pubblico brillante protagonista della frivola Parigi mondana, e in privato
amante sincera e appassionata. In tutti, la passione dominante agisce da elemento catalizzatore nei rapporti umani,
familiari e sociali; l'intera vicenda è perciò calibrata sui protagonisti, sulle loro reazioni e sulla loro evoluzione psicologica,
che matura nel confronto con l'ambiente e con gli altri personaggi. Ecco la ragione per cui Verdi si orienta sempre più
spesso verso soggetti «privati" e verso il milieu borghese (come già in Luisa Miller e in Stiffelio, come — in modo più
clamoroso — nella Traviata). Ma la "trilogia" segna anche una tappa fondamentale in quella ricerca che porta Verdi a
sfruttare in modo flessibile il linguaggio e le convenzioni formali del melodramma italiano dell'Ottocento:
218 tramite l'integrazione di "numeri" singoli
in grandi blocchi scenici, sino a comprendere un atto intero o quasi; la compenetrazione di azione e di riflessione; lo
scioglimento dei rigidi schemi formali per aderire al tempo del dialogo e al tempo "interiore" dei personaggi. Una ricerca
drammaturgica che si delinea sempre più precisamente, che punta all'esplorazione realistica della natura umana in tutta la
sua complessità. Anche per questo la "trilogia" rappresenta lo spartiacque tra il melodramma romantico e il realismo
verdiano del secondo Ottocento.
Nel breve periodo in. cui Rigoletto, Il trovatore e La traviata vengono composti risulta sempre più evidente il legame fra
Verdi e la scena teatrale, che coinvolge in modo palese la scenografia: Verdi crea situazioni drammatiche che possono
mantenere la loro coerenza soltanto in un determinato contesto scenico, conservando la posizione degli elementi figurativi
così come vengono descritti nei libretti. Nel caso in cui si verifichi la coincidenza fra scena e libretto, il bozzetto ideato per la
prima rappresentazione risulta funzionale al dramma e diventa un topos della messinscena verdiana. È quanto accade in
Rigoletto, nell'estremità della via cieca" o nella "deserta sponda del Mincio", dove l'impianto scenico proposto da Giuseppe
Bertoja per la "prima" alla Fenice verrà riutilizzato nel corso dei successivi allestimenti per tutto l'Ottocento; lo dimostra il
bozzetto di Peroni per la Scala di Milano, che ripropone fedelmente l'originario modello veneziano.
Per Il trovatore, la storia della documentazione iconografica è legata alla "prima" romana. Diversamente che negli altri
teatri italiani, a Roma nell'Ottocento più scenografi concorrevano alla messinscena di uno spettacolo: così fu per Il
trovatore, le cui scene furono disegnate oltre che da Alessandro Prampolini (18231865), scenografo emiliano al suo debutto
nei teatri romani, che ci ha lasciato un bozzetto per la scena del giardino — da Carlo Bazzani e da Antonio Fornari. Non
così nei successivi allestimenti ottocenteschi, avvenuti in teatri ove le scene già da tempo venivano realizzate da un solo
pittore.
La messinscena della Traviata fu condizionata dal pesante intervento della censura la quale, pur accettando le scene in
quanto tali, contestò l'ambientazione contemporanea voluta da Verdi, tanto che l'autore fu costretto ad accettare che
l'azione fosse arretrata di un secolo: lo dimostrano i figurini in abiti settecenteschi realizzati in occasione della messinscena
scaligera del 1856.
Rigoletto
Sinistra: Felice Varesi in costume di Rigoletto, personaggio di cui fu il primo interprete a Venezia, Teatro La Fenice, 1851; secondo la tradizione, questa
fotografia fu colorita dallo stesso Varesi (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Destra: Alfredo Edel, Gilda, figurino per Rigoletto, atto II e III, Milano, Teatro alla Scala, 7 gennaio 1880 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sopra: Filippo Peroni, L'estremità di una via cieca, bozzetto per Rigoletto, atto I, 2, Milano, Teatro alla Scala, s.d.
(Castelnuovo di Porto, collezione F. Perrone)
Sotto: Giuseppe Bertoja, La sponda destra del Mincio, bozzetto per Rigoletto, atto III, 4, Venezia, Teatro La Fenice, 11 marzo 1851
(Pordenone, Civico Museo Ricchieri)
Alfredo Edel, Rigoletto, figurino per Rigoletto, Milano, Teatro alla Scala, 7 gennaio 1880
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Il trovatore
Pagina della partitura autografa del Trovatore: atto I, "Abbietta zingara", c. 9r (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sopra:Alessandro Prampolini, Giardini nel palazzo, bozzetto per l trovatore, parte I, 2, Roma, Teatro Apollo, 19 gennaio 1853
(Roma, collezione M. Prampolini)
Sotto: Pietro Bertoja, Un diruto abituro sulle falde di un monte della Biscaglia, bozzetto per II trovatore, parte II, 3,
Venezia, Teatro La Fenice, stagione 1853-1854
(Pordenone, Civico Museo Ricchieri)
Alfredo Edel, Manrico e Azucena, figurini per Il trovatore, Milano, Teatro alla Scala, 3 gennaio 1883
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
La traviata
Vignetta di frontespizio dello spartito della Traviata, Milano, Ricordi
Sopra:Pagine della partitura autografa della Traviata: atto I, "Introduzione" (c. 7r) e "Brindisi" (c. 20r), Milano, Ricordi, 1854
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Locandina per la prima rappresentazione della Traviata, Venezia, Teatro La Fenice, 6 marzo 1853
(Venezia, Archivio Storico Fenice)
Sopra: Giuseppe Bertoja, Galleria del Palazzo di Flora, bozzetto per La traviata, atto Il, 3, Venezia, Teatro La Fenice, 6 marzo 1853
(Pordenone, Civico Museo Ricchieri)
(Sotto: Filippo Peroni), Annina e Giorgio, figurini per La traviata, Milano, Teatro alla Canobbiana, autunno 1856 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Aroldo
Giuseppe Bertoja, Profonda valle in Iscozia: la riva del lago, bozzetto per Aroldo, atto IV, 5, Venezia, Teatro La Fenice, stagione 1857-1858
(Venezia, Civico Museo Correr)
Sopra: Ferdinando Manzini, Tempio internamente illuminato, bozzetto per Aroldo, atto II, 3, Modena, Teatro Comunale, stagione 1866-1867
(Modena, Museo Civico d'Arte)
Sotto: Ferdinando Manzini, Sala illuminata, bozzetto per Aroldo, atto I, 2, Modena, Teatro Comunale, stagione 1866-1867
(Modena, Museo Civico d'Arte)
Simon Boccanegra
Simon Boccanegra, frontespizio del libretto per la prima rappresentazione, Venezia, Teatro La Fenice, 1857 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sopra: Filippo Peroni, Sala, bozzetto per Simon Boccanegra, atto I, 3, Milano, Teatro alla Scala, stagione 1858-1859'
(Castelnuovo di Porto, collezione F. Perrone)
Sotto: Girolamo Magnani, Stanza del Doge nel Palazzo Ducale di Genova, bozzetto per Simon Boccanegra, atto II, 4,
Milano, Teatro alla Scala, 23 marzo 1881 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sinistra: Alfredo Edel, Amelia, figurino per Simon Boccanegra, Milano, Teatro alla Scala, 23 marzo 1881
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Desra:Alfredo Edel, Simon Boccanegra, figurino per Simon Boccanegra, prologo, Milano, Teatro alla Scala, 23 marzo 1881
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Un ballo in maschera
Sinistra: Lorenzo Pedrone, Un marinaio, figurino per Un ballo in maschera, Torino, Teatro Regio, 1860
(Torino, Archivio Storico del Teatro Regio)
Desra: Lorenzo Pedrone, Riccardo figurino per Un ballo in maschera, Torino, Teatro Regio, 1860
(Torino, Archivio Storico del Teatro Regio)
Sopra: Felice Donghz,.L'abituro dell'indovina, bozzetto per Un ballo in maschera, atto I, 2, Udine, Teatro Sociale, 1867
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Sotto: Carlo Ferrario, Una stanza da studio nell'abitazione di Renato, bozzetto per Un ballo in maschera, atto III, 4, Milano, Teatro alla Scala, 1868
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Anonimo, Leonora, figurino per La forza del destino, atto II e IV, s.l., s.d. Serafino De Candia, Preziosilla, figurino per La forza del destino, atto II e III,
s.l., s.d. (Milano, Archivio Storico Ricordi) La forza del destino, frontespizio del libretto per l'edizione riveduta da Antonio Ghislanzoni,
Milano, Teatro alla Scala, 27 febbraio 1869 (Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sinstra: Anonimo, Leonora, figurino per La forza del destino, atto II e IV, s.l., s.d. (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra:Serafino De Candia, Preziosilla, figurino per La forza del destino, atto II e III, s.l., s.d. (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: La forza del destino, frontespizio del libretto per l'edizione riveduta da Antonio Ghislanzoni, Milano, Teatro alla Scala, 27 febbraio 1869
(Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
Carlo Ferrario, Grande cucina d'osteria al pian terreno, bozzetto per La forza del destino, atto II, 2, Milano, Teatro alla Scala, 27 febbraio 1869
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Andrea Becchi, Interno del Convento della Madonna degli Angeli, bozzetto per La forza del destino, atto IV, 7,
Modena, Teatro Comunale, stagione 1881-1882 (Modena, Museo Civico d'Arte)
Nella seconda metà dell'Ottocento il mondo italiano del melodramma guarda con attenzione crescente agli sviluppi del
teatro musicale europeo, e ne ricava suggestioni e modelli. Ciò corrisponde, almeno in parte, a un'esigenza largamente
avvertita tra i nuovi ceti che, in epoca post-unitaria, accedono ai teatri e alla cultura in generale: l'esigenza di
sprovincializzarsi, di dar voce a nuovi valori, di superare quell'idealismo risorgimentale che aveva accompagnato le fasi più
gloriose del melodramma romantico. Una larga parte del pubblico dei teatri; perciò, condivide il desiderio di un
rinnovamento della tradizione melodrammatica nazionale. In questo senso, è la Francia il paese più fecondo di stimoli.
Dapprima sono le opere francesi di Meyerbeer ad essere rappresentate nei teatri italiani, a queste si aggiungono, in seguito,
quelle di Halévy e Gounod. Di quel repertorio, Verdi ha conoscenza diretta: durante il suo secondo soggiorno parigino, tra
la fine del 1853 e gli inizi del 1857, ha modo di familiarizzare con il complesso sistema teatrale francese e con il grand opéra.
E per il massimo teatro parigino scrive nel 1855 Les vépres siciliennes, seguite nel 1867 da Don Carlos. Verdi fa proprie
certe caratteristiche del grand opéra francese, prime fra tutte la logica del tableau e la propensione alla spettacolarità (la
stessa spettacolarità che si ritrova in ampie parti di Aida, che pure ha il suo baricentro in un conflitto tutto privato). Ma
non accetta supinamente tutte le imposizioni della "Grande Boutique": Verdi; per incatenare l'attenzione degli spettatori,
più che sugli aspetti esteriori fa affidamento — in modo tanto più efficace sul dramma interiore dei personaggi che agiscono
sulla scena. Così facendo, il musicista italiano segue la propensione personale a un diverso linguaggio drammatico, che non
sempre si concilia con la grandiosità spettacolare dell'Opéra: al pubblico parigino Verdi impone quei meccanismi
drammatici, concisi e pregnanti,
e quella concezione del teatro che già in patria ne avevano decretato il travolgente successo.
Al centro delle opere rappresentate all'Opéra di Parigi, solitamente al terzo atto, si trova un balletto; né Les vépres
siciliennes né Don Carlos ne sono privi. Ma al momento di passare sulle scene dei teatri italiani Verdi dovette adattare le
due opere, portando ,gli atti da cinque a quattro ed eliminando i balletti. Soltanto in qualche caso, peraltro documentato
nella storia degli allestimenti, i cinque atti e i balletti furono conservati: nel 1878 il Don Carlo con le scene di Carlo Ferrario
alla Scala di Milano, nel 1879 I vespri siciliani a Modena con le scene di Ferdinando Manzini. Quanto alla «prima" italiana
in quattro atti del Don Carlo, alla Scala il 10 gennaio 1884, Verdi volle qualcosa di più di una semplice riduzione: Giulio
Ricordi commissionò infatti due serie complete di bozzetti, una a Carlo Ferrario e l'altra a Giovanni Zuccarelli (scenografo
allora emergente), e le sottopose entrambe al giudizio di Verdi.
Diverso il discorso per Aida, la cui «prima" italiana, alla Scala di Milano P8 febbraio 1872, fu seguita e controllata dal
compositore stesso. Per quest'opera Verdi volle con sé lo scenografo di Parma Girolamo Magnani, al quale fece avere copie
dei figurini dei costumi del Cairo. La "prima" italiana ottenne tutto il successo sperato: in particolare Magnani ricercò nelle
sue scene, assieme alla fedele riproduzione dell'Egitto faraonico, l'evocazione di un'atmosfera consona alla situazione
drammatica.
Dopo il successo ottenuto, Aida venne rappresentata in tutti i teatri italiani; fu così che le scene del Magnani, in particolare
quella finale per la morte dei due amanti, divennero note in tutto il mondo e furono copiate e riproposte nel corso di
successivi allestimenti, finanche nel Novecento.
Don Carlos
Don Carlos, frontespizio del libretto per la prima rappresentazione, Parigi, Opéra, 11 marzo 1867 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sopra: Gli interpreti della "prima" del Don Carlo a Bologna, 27 ottobre 1867
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Carlo Ferrario, La foresta di Fontainebleau, l'inverno, bozzetto per Don Carlo, atto I, 1, Milano, Teatro alla Scala, 1878
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sinistra: Alfred Albert [?1, Il marchese de Posa e Condannati, figurini per Don Carlos, atto 11, Parigi, Opéra, 1867
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Alfredo Edel, La Contessa d'Eboli e I condannati a morte, figurini per Don Carlo, Milano, Teatro alla Scala, stagione 1883-1884
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sopra: Giovanni Zuccarellz, Una grande Piazza innanzi Nostra Donna d'Atocha, bozzetto per Don Carlo, atto II, 4, Milano,
Teatro alla Scala, 10 gennaio 1884 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Carlo Ferrario, Una grande Piazza innanzi Nostra Donna d'Atocha, bozzetto per Don Carlo, atto H, 4, Milano, Teatro alla Scala, 10 gennaio 1884
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Giovanni Zuccarelli, La prigione di Don Carlo, bozzetto per Don Carlo, atto III, 6, Milano, Teatro alla Scala, 10 gennaio 1884
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Ferdinando Manzini, Ricchi giardini, bozzetto per I vespri siciliani, atto V, 6, Modena, Teatro Comunale, stagione 1879-1880
(Modena, Museo Civico d'Arte)
Pietro Bertoja, Gabinetto nel Palazzo di Vasconcello, bozzetto per Giovanna de Guzman, atto III, 3, riutilizzato per I vespri siciliani a Mantova,
Teatro Sociale, 1874 (Collezione privata)
Aida
Aida, frontespizio del libretto per la prima rappresentazione italiana, Milano, Teatro alla Scala, 8 aprile 1872 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Aida, frontespizi dei libretti tradotti in arabo (per la prima rappresentazione al Cairo 1124 dicembre 1871) e in francese
(Parma, Istituto Nazionale di Studi V erdiani)
Disposizione Scenica per l'opera Aida compilata e regolata secondo la messa in scena del Teatro alla Scala da Giulio Ricordi (marcia trionfale, atto II),
Milano 1872 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sopra: Girolamo Magnani, Uno degli ingressi della città di Tebe, bozzetto per Aida, atto II, 4, Milano, Teatro alla Scala, 8 febbraio 1872
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Girolamo Magnani, Tempio di Vulcano e Sotterraneo, bozzetto per Aida, atto IV, 7, Milano, Teatro alla Scala, 8 febbraio 1872
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sinistra: Girolamo Magnani, Aida, figurino per Aida, atto III, Milano, Teatro alla Scala, 8 febbraio 1872
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Girolamo Magnani, Radames, figurino per Aida, atto II e III, Milano, Teatro alla Scala, 8 febbraio 1872
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Otello, Falstaff
Claudio Toscani e Olga Jesurum
Nei sedici anni che separano Aida (1871) da Otello (1887) Verdi, pur lavorando alla Messa di requiem e alla revisione del
Boccanegra e del Don Carlos, non produce nuovi lavori per le scene del teatro d'opera. E quando finalmente presenta la sua
nuova creazione, la distanza che la separa dalle opere che gli avevano assicurato la massima popolarità è palese: Otello è
lontana dalle forme tradizionali, sia nelle strutture metriche e verbali sia nella musica. Lo stile vocale, continuamente
oscillante tra recitativo, arioso, aperture cantabili di una certa ampiezza, caratterizza i personaggi e ne restituisce i moti
psicologici profondi: l'effusione lirica di Desdemona contrapposta al canto declamato di Otello, le linee cromatiche che
dipingono la malvagità sottile di Jago, il cromatismo che si insinua nel canto di Otello come il veleno del dubbio che lo
conduce al delirio. Otello è opera profondamente radicata nel suo tempo, non foss'altro che per gli aspetti inquietanti; per la
psicologia patologica di personaggi dominati da passioni esacerbate e distruttive (la gelosia di Otello, l'odio dilago): motivi
che hanno le fondamenta in una cultura e in una sensibilità, all'epoca, largamente generalizzata. Ma Otello, nel teatro
verdiano, è anche il logico punto di approdo di un percorso tutto personale, che dai tempi lontani dell'idealismo
risorgimentale e degli eroi romantici disegnati a tutto tondo conduce, per gradi, a scandagliare sempre più a fondo gli abissi
dell'animo umano, svelandone gli aspetti più riposti.
Da un altro soggetto shakespeariano e da un'altra collaborazione con Boito nasce quella straordinaria creazione del
Maestro ottantenne che è Falstaff. Nel capolavoro comico verdiano le vestigia delle forme melodrammatiche tradizionali si
dissolvono del tutto: un'azione mobilissima, dal ritmo indiavolato, è sostenuta da un continuo declamato vocale e da
un'invenzione orchestrale incessante, che produce l'effetto
di un caleidoscopio, di una scoppiettante girandola d'immagini. Al vitalismo delle scene incentrate sul protagonista e sulle
burle delle quali è fatto segno, fanno da contrappeso gli episodi di Fenton e Nannetta, inseriti nella trama — per felice
intuizione di Boito — come motivo parallelo, e contrastante, rispetto alla comicità pura della vicenda principale. Alla
messinscena di Otello collaborarono per le scene sia Carlo Ferrario sia Giovanni Zuccarelli, mentre i costumi vennero
affidati ad Alfredo Edel. Come accadde per il Don Carlo (1884), entrambe le serie di bozzetti furono sottoposte man mano
all'attenzione di Verdi, il quale se da un lato apprezzava le soluzioni sceniche proposte dal Ferrario, dall'altro era colpito
dalla sensibilità pittorica del giovane Zuccarelli. Le scene di quest'ultimo vennero utilizzata al Teatro Costanzi di Roma
nell'aprile, mentre per la "prima" alla Scala, che ebbe luogo il 5 febbraio 1887, vennero allestite le scene di Ferrario.
Arricchiscono l'apparato figurativo dell'opera le Disposizioni sceniche compilate da Giulio Ricordi seguendo l'allestimento
della Scala: costituite da ben 111 pagine, sono le più cospicue e importanti fra le disposizioni pubblicate da Ricordi. Per
Falstaff le scene e i costumi furono affidati ad Adolf Hohenstein, pittore di formazione tedesca, collaboratore di Casa
Ricordi a partire dal 1884. Boito, ispiratosi per Falstaff a King Henry the Fourth e a The Merry Wives of Windsor, fece
pervenire a Verdi da Londra una serie di incisioni che raffiguravano il personaggio di Falstaff si trattava delle vignette di
John Gilbert incise dai fratelli Dalziel e contenute in The Complete Works of Shakespeare a cura di Howard Stanton,
pubblicato a Londra tra il 1860 e il 1867; esse furono utilizzate da Hohenstein principalmente per la stesura dei figurini, ma
anche per alcune caratteristiche dell'ambientazione scenica.
Otello
Francesco Paolo Michetti, Ritratto di Giuseppe Verdi, 1887, pastello su cartone, 54 x40 cm (Busseto, collezione Stefanini)
Sinistra:Una pagina della partitura autografa del "Ballabile" di Otello: "La Muranese", c. 14r (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Carlo Felice Biscarra, Arrigo Boito, 1875 circa, litografia, 28,3 x19 cm (Torino, collezione privata)
2
Sopra: Giovanni Zuccarelli, La Gran Sala nel Castello, bozzetto per Otello, atto III, 3, Roma, Teatro Costanzi, aprile 1887
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Giovanni Zuccarelli, La Camera di Desdemona, bozzetto per Otello, atto IV, 4, Roma, Teatro Costanzi, aprile 1887
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sinistra: Alfredo Edel, Otello generale dell'armata, figurino per Otello, atto I, Milano, Teatro alla Scala, 5 febbraio 1887
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Alfredo Edel, Otello, figurino per Otello, atto II e III, Milano, Teatro alla Scala, 5 febbraio 1887 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Eduardo Ximenes (da uno schizzo di A. Ferrero), La prima dell'Othello di Verdi, all'Opéra di Parigi - 12 ottobre – aspetto della Sala durante
la rappresentazione, disegno pubblicato sull’Illustrazione Italiana", 1894 (Milano, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli)
Falstaff
Una pagina della partitura autografa di Falstaff: atto I, c. 14r (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Adolf Hohenstein, Interno dell'Osteria della Giarrettiera, bozzetto per Falstaff, atto I, 1, Milano, Teatro alla Scala, 9 febbraio 1893
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Adolf Hohenstein, Parco di Windsor, bozzetto per Falstaff, atto III, 3, Milano, Teatro alla Scala, 9 febbraio 1893 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sopra: Adolf Hohenstein, interno dell’Osteria della Giarrettiera, bozzetto per Falstaff, atto I e II, Milano, Teatro alla Scala, 9 febbraio 1893
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Adolf Hohenstein, Parco di Windor, bozzetto per Falstaff, atto III, 3, Milano, Teatro alla Scala, 9 febbraio 1893
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Adolf Hohenstein, Falstaff, figurino per Falstaff, atto I,II, Milano, Teatro alla Scala, 9 febbraio 1893
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Adolf Hohenstein, Sono le Fate. Chi le guarda è morto e Misteri del Bosco, disegni realizzati durante le prove di Falstaff, Milano, Teatro alla Scala, 1893
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Verdi fa la sua prima esperienza professionale come maestro di musica del comune di Busseto (1836-1839), con l'obbligo di
fornire molta nuova musica all'attivissima Società Filarmonica locale. All'inizio di questo periodo risale la composizione del
Tantum ergo, nella doppia versione con orchestra o con organo. Quando, molti decenni più tardi, Verdi riprenderà in mano
questa sua partitura giovanile, pur riconoscendone la paternità la giudicherà priva di qualsiasi valore artistico o religioso, il
che nulla toglie all'interesse storico del lavoro.
Dopo il debutto alla Scala, la composizione sacra e strumentale scompare a lungo dalle attività di Verdi. Prosegue invece
per qualche tempo la composizione di "musica da camera", definizione che nell'Ottocento italiano indica romanze e brani
vocali da salotto. Le funzioni di questo genere sono varie: dall'omaggio a personalità aristocratiche (i conti Belgiojoso, la
contessa Medici di Marignano, personaggi influenti nell'ambiente teatrale) alla sperimentazione di formule linguistiche
("Cupo è il sepolcro" contiene una premonizione testuale di Emani; "In solitaria stanza" accenna una frase del celebre
Andante di Leonora "Tacea la notte placida" dal Trovatore); dall'interesse per alcuni temi letterari (il gotico funerario,
l'ambientazione notturna) al semplice intrattenimento nei salotti che Verdi frequenta dal 1842. Anche la pratica della
romanza viene presto interrotta, non andando oltre 111846. Più tardi Verdi la recupera occasionalmente come omaggio ad
amici stretti: nel 1858 dedica all'amico napoletano Melchiorre Delfico l'intonazione di una sestina del celebre coro della
morte d'Ermengarda dall'Adelchi manzoniano; nel 1867 compone l'umoristico Stornello su testo proprio ("Tu dici che non
m'ami, anch'io non t'amo") nell'intenzione di raccogliere fondi per la famiglia di Francesco Maria Piave, colpite da malattia
mentale. La prima di queste due liriche da camera si ricollega a due altri lavori verdiani: i cori manzoniani posti in musica
in età giovanile, che Verdi ancora in età matura intendeva pubblicare, ma soprattutto il Requiem per la morte di Manzoni
(1873). Questo costante interesse per l'autore dei Promessi sposi derivava anche da ragioni extra-artistiche: Verdi vedeva in
Manzoni il simbolo dell'identità italiana sul quale erigere l'unità culturale nazionale. Quando nel Requiem egli inserisce ben
tre grandi brani contrappuntistici, intende anche associare a quel nome-simbolo un linguaggio altrettanto simbolico: il
contrappunto presunto classico (sulla linea Palestrina-Marcello) è usato per rivendicare l'appartenenza alla tradizione
culturale di matrice italiana, corrispettivo musicale di ciò che =Verdi vedeva in Manzoni. Di qui il significato "civile" del
Requiem, lo stesso che aveva ispirato il progetto di una messa per la morte di Rossini (1868), per cui Verdi aveva chiamato
a raccolta altri dodici compositori italiani. Analogo è il significato simbolico delle preghiere musicate nel 1880: Ave Maria e
Pater noster "volgarizzati da Dante", ossia libere traduzioni dei testi latini. Con il riferimento dantesco Verdi intende
sottolineare un secondo fondamento culturale nazionale; ed è superfluo il fatto che i testi musicati si siano rivelati apocrifi
(risalgono alla fine del Trecento e furono stampati nel 1482 in appendice a una delle prime edizioni della Divina Commedia).
Chiude la carriera di Verdi il Te Deum, ultimo dei Quattro pezzi sacri (1898). Come nello Stabat Mater, secondo pannello
della stessa raccolta, Verdi ricupera nel Te Deum il modalismo gregoriano e lo incanala in ampi movimenti tonali,
enfatizzati da uno spiegamento orchestrale forte di tutta la passata esperienza teatrale. I testi liturgici ne escono
reinterpretati con significati assolutamente terreni, umani, opposti a ciò che Verdi trovava nei Te Deum di altri autori da
lui consultati. Nel Novecento molti compositori italiani hanno individuato nel modalismo una via di fuga dal tardo
romanticismo e dall'impressionismo, fra gli esempi più noti Malipiero e Respighi; i Quattro pezzi sacri di Verdi
rappresentano un modello e un'anticipazione almeno ventennale di queste acquisizioni.
Il Quartetto in mi minore per archi è l'unica composizione di questo genere nel catalogo verdiano. Verdi dava a intendere di
considerarlo un semplice «passatempo" scritto a Napoli in pochi giorni per fugare la noia nell'attesa di porre in scena Aida.
Si tratta di una delle sue tante maschere: in realtà attribuiva al Quartetto un particolare significato. Scritto nel 1873, si
inserisce nel fenomeno della rinascita della musica strumentale in Italia, allora ai suoi primi passi. Sorgevano Società del
quartetto a Firenze, Milano, Roma, Napoli e si infittivano i concorsi di composizione strumentale attirando un numero
crescente di partecipanti. Fra i musicisti vicini a Verdi che praticarono il genere del quartetto ricordiamo Franco Faccio,
Giulio Ricordi Edoardo Perelli Antonio Bazzini; a tutti era di sprone l'entusiasmo propagandistico di Arrigo Boito, il
paladino italiano di Mendelssohn. Componendo il suo Quartetto, Verdi intende reagire
all'avanzata indiscriminata di modelli tedeschi che proprio in quegli anni occupano l'ambiente musicale italiano. Per
realizzare il suo disegno, Verdi ancora una volta opta per la scelta contrappuntistica e in chiusura del Quartetto pone una
fuga libera a quattro parti, il cui soggetto principale è derivato dal tema iniziale del primo movimento. Questa scelta è
frutto di meditata volontà, e rende poco credibile quella modesta definizione di «passatempo" datane dall'autore. E la
meditazione dovette durare ben otto anni, poiché già nell'estate del 1865 . troviamo accenni a progetti di «quartetti e
sinfonie" nelle lettere di Verdi a Mariani e ad Arrivabene, immediatamente rimbalzati
sulla stampa musicale italiana e francese.
Prima pagina della partitura del Requiem, con la dedica "A Teresa Stolz interprete di questa composizione", Milano, 1874
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Incisione con Verdi e Manzoni accostati in occasione della "prima" del Requiem, 1874 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Sinistra: Lo spazzacamino, lirica da camera per canto e pianoforte (versi di F.M. Magioni), Milano, F. Lucca, 1845
(Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
Destra: Brindisi, lirica da camera per canto e pianoforte (versi di A. Mafia), Milano, F. Lucca, 1845 (Parma, Istituto Nazionale di Studi Verdiani)
Le scene
Olga Jesurum
L'interesse di Verdi per l'aspetto visivo del melodramma, riconoscibile sin dai tempi dei Lombardi alla prima crociata,
diventa manifesto già con Emani. Le osservazioni del maestro suggeriscono da subito una concezione innovativa dell'opera
in musica, intesa come uno spettacolo alla cui riuscita concorrono in pari misura tutti gli elementi che lo costituiscono: il
testo, esplicitato nel libretto, la musica e la scena. Se le osservazioni prodotte in questi primi anni appaiono ancora
dubitative, quasi volessero esprimere soltanto una riflessione o un dubbio, a partire dall'Attila tali "dubbi" si traducono in
vere e proprie intenzioni, fino a diventare palese richiesta di determinate situazioni sceniche. Il successivo e definitivo passo
avanti si compie con Macbeth, ove la corrispondenza fra musica e scena, ormai costante in tutta l'opera, investe soprattutto
la recitazione dei personaggi; la scena così si fa portavoce del dramma che vi si rappresenta, e da questo momento in poi
non potrà più essere avulsa dal contesto drammatico. Analoghe osservazioni valgono per Rigoletto, per lo spessore del
personaggio e per le sue caratteristiche verosimili: "Io trovo [...] bellissimo" scrive Verdi in proposito «rappresentare questo
personaggio esternamente deiforme e ridicolo, internamente appassionato e pieno d'amore.
Scelsi appunto tale soggetto per tutte queste qualità e questi tratti originali, se si tolgono i quali io non posso più farvi
musica". Queste osservazioni testimoniano l'interesse di Verdi per la definizione drammatica • dei personaggi; ma accanto a
queste, Verdi avanzava considerazioni di natura diremmo oggi "registica", legate proprio alla messinscena, come nel caso di
Simon Boccanegra e della scena della luminaria per il finale dell'opera: "Raccomando molto" scrive a Piave "la scena
ultima: quando il Doge ordina a Pietro di schiudere i balconi devesi vedere l'illuminazione ricca, larga che prenda un gran
spazio, onde si possano
vedere bene i lumi che a poco a poco, l'uno dopo l'altro, fino a che alla morte del Doge tutto è nella profonda oscurità". Tali
indicazioni furono sicuramente recepite dagli scenografi cui spettò il compito di disegnare le scene, a volte attraverso la
mediazione del librettista (cui in Italia spesso veniva affidata la messa in scena), a volte direttamente dallo stesso Verdi,
come nel caso di Otello odi Falstaff. Come si è visto, nascevano in questo modo modelli scenografici che venivano
riproposti, per la loro funzionalità drammatica, nel corso di successivi allestimenti. È il caso dello scenografo Andrea
Becchi, allievo e successore di Manzini al Teatro Comunale di Modena, le cui scene rispecchiano i modelli proposti dal
Ferrario alla Scala. Tali osservazioni risultano valide non solo per le scenografie coeve a Verdi, ma possono estendersi agli
allestimenti della prima metà del secolo, dove il problema di un'interpretazione "filologica e verosimile" dell'opera verdiana
si scontra con la distanza che separa lo scenografo del Novecento da Verdi. Delle tre componenti dello spettacolo musicale
— libretto, musica e scena — soltanto le prime due conservano un testo scritto, per cui la loro esecuzione con criteri
moderni non costituisce un falso storico; mentre l'assenza di una scena che possa assurgere alla medesima funzione di
"testo" pone lo scenografo di fronte a un bivio: se proporre una lettura "passata", "verosimile", basata sulla interpretazione
di un'epoca che non gli appartiene, oppure proporne una "attuale", sulla base delle nuove esperienze teatrali raggiunte e
delle tematiche proprie della sua epoca, allontanandosi però dai modelli verdiani. Laddove invece le due letture dell'opera
coincidono, i modelli scenici suggeriti dai bozzetti rimastici non si discostano da quelli veduti e approvati da Verdi; come
nel caso del Trovatore di Vittorio Rota, il cui bozzetto per il quarto atto ripropone esattamente quanto previsto e
realizzato da Peroni cinquant'anni prima.
Sopra: Filippo Peroni, La valle di Gíosafat, bozzetto per I Lombardi alla prima crociata, atto III, 6, Milano, Teatro alla Scala, s.d.
(Castelnuovo di Porto, collezione F. Perrone)
Sotto: Filippo Peroni, Prominenze di un monte in cui s'apre una caverna, bozzetto per I Lombardi alla prima crociata, atto II, 4,
Milano, Teatro alla Scala, s.d. (Castelnuovo di Porto, collezione F. Perrone)
Sopra: Giuseppe Bertoja, Atrio nel castello che mette in altre sale, bozzetto per Macbeth, atto I, 2, Venezia, Teatro La Fenice, stagione 1847-1848
(Venezia, Civico Museo Correr)
Sotto: Filippo Peroni, Recinto dell'Harem, bozzetto per Gerusalemme, atto II, 5, Milano, Teatro alla Scala, 26 dicembre 1850
(Castelnuovo di Porto, collezione F. Perrone)
Sopra: Pietro Bertoja, Sala del Consiglio nel Palazzo degli Abati, bozzetto per Simon Boccanegra, atto I, 3, si., (post 1881] (Collezione privata)
Sotto: Carlo Ferrario, Accampamento, bozzetto per La forza del destino, atto III, 6, Milano, Teatro alla Scala, 27 febbraio 1869
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sopra: Girolamo Magnani, Interno del Palazzo Ducale, bozzetto per Simon Boccanegra, atto III, 5, Milano, Teatro alla Scala, 24 marzo 1881
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Andrea Becchi, La processione dei monaci al tramonto, bozzetto per La forza del destino, atto II, 10, Modena, Teatro Comunale,
stagione 1879-1880
(Modena, Museo Civico d'Arte)
Sopra:Adolf Hohenstein, Giardino. A sinistra la casa di Ford, bozzetto per Falstaff, atto l, 2, Milano, Teatro alla Scala, 9 febbraio 1893
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Edoardo Marchioro, Un sito ridente alle porte del Convento di San Giusto, bozzetto per Don Carlo, atto II, 2, Milano, Teatro alla Scala, 1926
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Sopra:Mario Sala, L'estremità d'una via cieca, bozzetto per Rigoletto, atto I, 2, Milano, Teatro alla Scala [1903]
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Vittorio Rota, Un'ala del palazzo dell'Aliaferia, bozzetto per Il trovatore, atto IV, 7, Milano, Teatro alla Scala, 1902
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Angelo Parravicini, Il Gabinetto del Re a Madrid, bozzetto per Don Carlo, atto III, 5, Milano, • Teatro alla Scala, 1912
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
I costumi
Vittoria Crespi Morbio
Dalla prima rappresentazione del Nabucco alla Scala (1842), quando il vestiario viene riesumato da un balletto omonimo
del Cortesi, fino alle spettacolari produzioni di inizio Novecento, la concezione dei costumi e dei loro creatori si evolve in
conformità con il pensiero di Verdi e con i gusti dell'epoca. Gli interventi del compositore a proposito dei propri personaggi,
del loro comportamento e dei costumi, sostituiscono gradualmente il compito della Commissione artistica dell'Accademia di
Brera (capitanata prima da Alessandro Sanquirico e poi da Francesco Hayez e Luigi Bisi), incaricata di giudicare
l'attendibilità storica di indumenti e accessori. A partire da Un ballo in maschera (1859), le indicazioni di Verdi vengono
raccolte nelle "disposizioni sceniche", al fine di garantire l'omogeneità e la coerenza stilistica dello spettacolo nei diversi
teatri. I responsabili delle sartorie vi troveranno non solo la descrizione dei costumi, ma anche il carattere dei vari
personaggi.
Verdi rispetta la creatività dei costumisti, ma pretende che i figurini siano disegnati bene: su ciascuno di essi esprime il
proprio giudizio e scarta quelli che nonrisultano al servizio del dramma. I suoi interessi spaziano dalla definizione di epoche
e luoghi (nel vestiario del Macbeth non deve esserci "né seta, né velluto") a interventi vari come la rivalutazione delle
masse, promosse al rango di personaggi (tali devono considerarsi anche le figure fantastiche delle streghe, sempre nel
Macbeth).
Nel Don Carlo (1884) il maestro sacrifica le certezze storiche a una più audace spettacolarizzazione: chiede a Edel non solo
che vi siano "costumi bellissimi", ma anche che l'apparizione di Carlo V risulti "come un mazzo d'oro, tutto splendente" Con
Alfredo Edel (1860-1912) che per Verdi realizza tre attesissime "prime" al Teatro alla Scala, il Simon Boccanegra (1881) e il
Don Carlo (1884) nelle versioni rivedute, e l'Otello (1887), concreta il pieno riconoscimento della categoria di artista
creatore di costumi; ciò trova conferma nella stampa, che riporta il nome di Edel, presente al famoso luncheon di gala
all'Hótel de Milan organizzato da Ricordi per il battesimo dell'Otello. Alfredo Edel riesce a interpretare i gusti del pubblico
con lo slancio d'ottimismo proprio di un'epoca che si riconosce nel Ballo Excelsior del trio Marenco-Manzotti-Edel (1881). I
suoi figurini abitano uh mondo di sogno dove perfino Rigoletto smarrisce la gobba.
Pochi anni dopo, fa la sua breve apparizione milanese l'astro inquieto di Adolf Hohenstein (1854-1928), che come creatore
di affiches mostra, tutta la sua abilità nel condensare in poco spazio un racconto e un carattere i suoi figurini per Falstaff
(1893) non solo sorridono, ma addirittura recitano.
Con Falstaff termina la proficua collaborazione tra Verdi e i costumisti; ma agli inizi del secolo l'immaginario testimone
passerà nelle mani di Giuseppe Palanti (1881-1946) e di Attilio Comelli (1858-1925). Il Nabucco di quest'ultimo (1913)
rimarrà nella storia delle celebrazioni per il centenario verdiano, grazie all'infinita sequenza dei costumi che sembrano uscire
di getto dalla penna dell'artista, con compiaciuti ammiccamenti allo stile déco e le annesse istruzioni di taglio e cucito,
vignettate sulla carta per la sartoria.
Per Caramba (Luigi Sapelli, 1865-1936) il luogo deputato per la creazione di un figurino non è il foglio di carta, bensì la
sartoria, dove l'artista dà forma e colore ai propri schizzi valutando le stoffe e la combinazione dei tessuti, che a volte egli
stesso disegna o che vengono forniti dalla nuova ditta Fortuny.
Sinistra: Anonimo, [attribuito a Luigi Bartezago], per I vespri siciliani, atto V, Milano, s.d. (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Alfredo Edel, Carlo V, figurino per Don Carlo, finale dell'atto IV, Milano, Teatro alla Scala, 1884 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Di rado i suoi figurini, realizzati con mano felicissima e parecchie volte lasciati in bilinco e nero, trovano piena
corrispondenza nel prodotto finale. Caramba è un uomo di teatro con un forte senso dello spettacolo: non è solo creatore di
costumi; come direttore di scena, e in quanto tale deus ex machina, egli concentra su se stesso svariati compiti, dall'uso delle
luci alla direzione della "Sartoria d'Arte Caramba", e ancora alla direzione delle masse e, se necessario, persino alla
recitazione.
Con Caramba si apre un nuovo capitolo nella storia del costume teatrale: la libera creazione di un abito prende il
sopravvento sulla consultazione dei libri, sulle visite ai musei o sui viaggi in paesi lontani; le disposizioni sceniche saranno
presto relegate in remoti cassetti e impolverate soffitte.
Sinistr: Alfredo Edel, La Regina delle acque, figurino per il ballo di Don Carlo, s.l., s.d. (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Alfredo Edel, La Perla nera, figurino per il ballo di Don Carlo, s.l., s.d. (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sinistra: Girolamo Magnani, Amneris, figurino per Aida, Milano, Teatro alla Scala, 8 febbraio 1872
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Girolamo Magnani, Amonasro, figurino per Aida, Milano, Teatro alla Scala, 8 febbraio 1872
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Girolamo Magnani, Sacerdotesse danzatrici, figurino per Aida, atto I, Milano, Teatro alla Scala, 8 febbraio 1872
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sinistra: Adolf Hohenstein, Alice, figurino per Falstaff, atto I, Milano, Teatro alla Scala, 9 febbraio 1893
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Adolf Hohenstein, Spiritelli, figurino per Falstaff, atto III, Milano, Teatro alla Scala, 9 febbraio 1893
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sinistra: Attilio Comelli, Abigaille, figurino per Nabucco, Milano, Teatro alla Scala, 1 ottobre 1913 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Destra: Attilio Comelli, Nabucco, figurino per Nabucco, Milano, Teatro alla Scala, 1 ottobre 1913 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Caramba (Luigi Sapelli], Le maschere, figurino per Emani, atto IV, Milano, Teatro alla Scala, 1913
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Sinistra: Giuseppe Palanti, Rolando e Federico Barbarossa, figurini per La battaglia di Legnano, Milano, Teatro alla Scala, 19 gennaio 1916
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Destra: Giuseppe Palanti, Leonora e La vivandiera, figurini per La forza del destino, atto Milano, Teatro alla Scala, 19 marzo 1908
(Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Costume di Francesco Tamagno per Aida. Tamagno cantò nel ruolo di Radames in 41 edizioni di Aida, dal 25 febbraio 1877 a Barcellona, Teatro del
Liceo, al 18 giugno 1901 a Londra, Covent Garden
(Torino, Archivio Storico del Teatro Regio)
Sinistra: Francesco Tamagno nel ruolo di Otello, di cui fu primo interprete a Milano, Teatro alla Scala, 1887 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Destra: Romilda Pantaleoni nel ruolo di Desdemona, di cui fu la prima interprete a Milano, Teatro alla Scala, 1887
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Carolina Barbot, prima interprete di Leonora nella Forza del destino, San Pietroburgo, 10 novembre 1862 (Milano, Museo Teatrale alla Scala)
Caramba [Luigi Sapelli I, tre costumi di dame per 11 trovatore (Roma, Teatro dell'Opera, 1928) e un costume del duca di Mantova per Rigoletto (Roma,
Teatro dell'Opera, 1933) (Roma, Magazzini del Teatro dell'Opera)
Caramba [Luigi Sapelli], costume di Violetta per La traviata, Roma, Teatro dell'Opera, 1935 (Roma, Magazzini del Teatro dell'Opera)
L'attrezzeria
Vittoria Crespi Morbio
Il più interessante schizzo di un oggetto d'attrezzeria — o meglio un primo rudimentale effetto speciale giunto sino a noi —
è costituito dalle poche linee, tracciate dallo stesso Verdi su un foglio di carta, che indicano in modo appena leggibile una
ruota girevole, sulla quale si sarebbero collocati i re nella scena dell'apparizione nel Macbeth. Le opere di Verdi, nel
complesso così saldamente Concrete, non avrebbero procurato troppi grattacapi agli attrezzisti dei teatri: i problemi erano
di facile soluzione, come nella scena del sacco dove sarebbe stata nascosta Gilda in Rigoletto, o in quella della cesta di
Falstaff. Le maggiori difficoltà riguardavano sicuramente l'illuminazione: la questione della luminaria in Simon
Boccanegra, o la scena finale di Aida, con la duplice suddivisione del tempio sovrastante un oscuro sotterraneo, voluta da
Verdi e non del tutto riuscita alla "prima" al Cairo; o ancora gli effetti luministico-meteorologici, come il temporale in
Rigoletto.
L'importanza degli oggetti di scena non era affatto secondaria: venivano accuratamente elencati a parte nelle "disposizioni
sceniche", formulari stilati con l'avallo di Verdi, che gli addetti ai lavori dovevano tenere bene a mente prima di montare un
allestimento. Verdi stesso seguiva le operazioni di ricerca del materiale di scena, come per esempio nel caso di Aida: si
adoperava perché l'edizione milanese risultasse meno sfarzosa rispetto a quella del Cairo, e per scrupolo di ricerca si faceva
inviare dall'Egitto le fotografie dei singoli attrezzi di scena, frutto di meticolose ricerche di spoglio dalle grandi raccolte di
reperti egizi effettuate da Auguste Mariette e dai suoi collaboratori. Informava che "gli Egiziani non conoscevano né il ferro
né l'acciaio: conoscevano soltanto l'oro, l'argento e il rame", e si raccomandava che venissero inviati al più presto i gioielli
per Teresa Stolz (Aida), ordinati presso il gioielliere parigino Granger.
Negli allestimenti verdiani, un oggetto doveva essere appositamente creato per quel determinato spettacolo e ad esso solo
appartenere, e autorevoli artisti come Carlo Ferrario, Alfredo Edel, Giuseppe Palanti o Attilio Comelli dedicarono notevole
attenzione a questi aspetti; persino una brocca o uno sgabello risultavano essere frutto di pazienti indagini filologiche, che
trovavano riscontro nelle sale dei musei o in dipinti antichi. I disegni e i cartoni appositamente realizzati venivano
consegnati a ditte specializzate che, dai progetti degli artisti, traevano i modelli in scala 1:1.
Parte di questo rarissimo materiale si è conservato, e ancora oggi possiamo ammirare, insieme con i cartoni sui quali sono
nati, oggetti come la poltrona della "prima" di Otello o quella di Falstaff, custoditi presso la ditta Rancati. Verdi stesso,
quando gli oggetti mancavano sulla scena, perdeva le staffe: rimbrottava la Fenice perché "non c'erano alla terza prova
[della Traviata] tutti gli attrezzi e altri oggetti che abbisognavano!!!"
Alfredo Edel, tavola di attrezzeria per Otello, Milano, Teatro alla Scala, 5 febbraio 1887 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sinistra: Alfredo Edel, Stendardi dell'Inquisizione, tavola di attrezzeria per Don Carlo, Milano, Teatro alla Scala, 10 gennaio 1884,
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Alfredo Edel, tavola di attrezzeria per Don Carlo, Milano, Teatro alla Scala, 10 gennaio 1884, (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Adolf Hohenstein, tavola di attrezzeria per Falstaff, Milano, Teatro alla Scala, 9 febbraio 1893
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sopra: Adolf Hohenstein, tavola di attrezzeria per Falstaff, Milano, Teatro alla Scala, 9 febbraio 1893,
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sotto: Carlo Ferrario, La camera di Desdemona, tavola di attrezzeria per Otello, Milano, Teatro alla Scala, 5 febbraio 1887
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Alfredo Edel, tavole di attrezzeria per Otello, Milano, Teatro alla Scala, 5 febbraio 1887 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Girolamo Magnani, tavole di attrezzeria per Aida, Milano, Teatro alla Scala, 8 febbraio 1872 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Album fotografico
Giuseppe Verdi con Maria Carrara Verdi, Barberina Strepponi, Giuditta Ricordi (seduti, da sinistra); Teresa Stolz, Umberto Campanari, Giulio Ricordi,
Leopoldo Metlicovitz (in piedi, da sinistra) nel giardino di Sant'Agata (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Arrigo Boito e Giuseppe Verdi a Milano, nel giardino della casa di Ricordi in via Borgonuovo, 1892 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Arrigo Boito, Giulio e Tito li Ricordi e Giuseppe Verdi a Milano, nel giardino della casa di Ricordi in via Borgonuovo, 1892
(Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sinistra: Giuseppe Verdi e Francesco Tamagno a Montecatini, estate 1899 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Giuseppe Verdi con Giuseppina Pasqua a un tavolino del "Tettuccio" di Montecatini, estate 1899 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Sinistra: Giuseppe Verdi nello studio fotografico A. Ferrario a Milano (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Destra: Giuseppe Verdi allo scrittoio dell'Hótel de Milan, gennaio 1900 (Milano, Archivio Storico Ricordi)
Giuseppe Verdi ritratto di spalle, sulla terrazza della Casa di Riposo in costruzione (Milano, Archivio Storico Ricordi)