Sei sulla pagina 1di 223

Bela Bartok

The best of Bartok

https://www.youtube.com/watch?v=uUG5fYLSC8w

Lista delle composizioni suddiviso per genere

Nella seguente lista si segue il Catalogo Somfai (sigla delle composizioni BB)
pubblicato nel 1996 da László Somfai; è il più completo perché comprende tutto
ciò che Bartók ha lasciato.

Indice

Composizioni per orchestra

Strumento solista e orchestra

Pianoforte solo

Due pianoforti

Altra musica da camera

Coro senza accompagnamento

Voce e orchestra

Voce e pianoforte

Balletti

Opere liriche

BB Anno

Orchestra
Composizioni per orchestra

https://www.youtube.com/watch?
v=vIiXwXsAQW0&list=PLfHAncN_1O5J9FH1K6l01vvW76LbMOu0K

https://youtu.be/oBjnhcWROKE

31 1903

Kossuth

Poema sinfonico in 10 episodi

https://www.youtube.com/watch?v=Ik8nZrMQ0Hw

https://www.youtube.com/watch?v=hojF5hnhEFo

https://www.youtube.com/watch?v=EEoBfp08Iw8

Kossut
Quale tristezza ti opprime l'animo, dolce mio sposo
La patria è in pericolo!
Una volta vivemmo tempi migliori
Ma poi il nostro destino si volse al peggio...
Su, alla lotta!
Venite, venite prodi guerrieri magiari!
.......
Tutto è finito
C'è il silenzio, il silenzio dappertutto

Organico: ottavino, 3 flauti, 3 oboi, corno inglese, corno inglese piccolo, 2


clarinetti, clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto, 8 corni, 4 trombe, 3
tromboni, 2 tube tenori, baso tuba, timpani, piatti, triangolo, cassa chiara,
grancassa, tam-tam, 2 arpe, archi
Composizione: 2 aprile - 18 agosto 1903
Prima esecuzione: Budapest, 13 gennaio 1904
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1963

Guida all'ascolto (nota 1)


Il poema «Kossuth» fu composto da Bartok fra il 2 aprile del 1903 e il 18 agosto
dello stesso anno; costituisce perciò il secondo lavoro sinfonico del compositore
magiaro.

La ragione prima che spinse Bartok a dedicare a Kossuth un'opera musicale fu


l'appartenenza del nostro compositore ad un'associazione segreta di patrioti
magiari. La composizione di «Kossuth» fu anche un atto d'impegno politico. E
non soltanto a livello della decisione preliminare di far della politica con la
musica, ma anche a livello delle strutture musicali del poema sinfonico: al punto
che la prima esecuzione di «Kossuth» provocò reazioni piuttosto accese, a
cominciare dal rifiuto, da parte di un orchestrale austriaco, di suonare un
episodio nel quale si be!eggia l'inno austriaco.

Il poema bartokiano segue una precisa traccia didascalica, nella quale è


ra"gurata, attraverso i singoli episodi, la lotta dell'eroe nazionale magiaro
contro gli Asburgo. Il primo episodio («Kossuth») è dominato da un tema,
esposto dal fagotto e dal corno, di carattere vigoroso e plastico. Il secondo
episodio («Quale tristezza ti opprime l'animo, dolce mio sposo?») introduce un
elemento tematico meno incisivo; la melodia - «dolce» come raccomanda la
didascalia dell'autore - è a"data al clarinetto, e trova immediato contrasto,
poche battute più avanti, nella riproposta vigorosa del tema di Kossuth (qui
introdotto dai violoncelli). Il terzo episodio («La patria è in pericolo!») si scatena
in un «Vivace» segnato fin dall'inizio da una violenta congiunzione, a piena
orchestra, dei temi esposti dai due episodi precedenti. Il quarto episodio («Una
volta vivevamo tempi migliori...») si apre con una proposizione musicale dove lo
stile bartokiano si impone nella particolare accentuazione ritmica e nella
contrapposizione fra diversi metri musicali (3/2 contro 4/4); anche qui, appare,
dopo la «corale» scansione degli archi in sordina nelle prime battute, il tema del
primo episodio («Kossuth»), introdotto dai violoncelli e dal contrabbasso e subito
seguito da una improvvisa violenza sonora della piena orchestra. Il quinto
episodio («Ma poi il nostro destino si volse al peggio...») è musicalmente
strutturato intorno a due elementi: la fluida linea melodica introdotta dall'oboe e
poi ripresa da altri strumenti, e lo scorrevole arpeggiare dell'arpa che viene
amplificato, verso la fine dell'episodio, dal moltiplicarsi di rapidi arpeggi che si
inseguono attraverso le varie sezioni strumentali. Il sesto episodio («Su, alla
lotta!») è costituito da un «Vivace» scattante e ritmato; l'esordio è in
«pianissimo» e il tema di base - un'aggressiva e nervosa sequenza melodica sul
tipo di quelle che si scateneranno nella partitura del «Mandarino meraviglioso» -
si presenta come variante ritmica del tema che apre il poema sinfonico. La
violenta concitazione di questa pagina conclude nel settimo episodio («Venite,
venite, prodi guerrieri magiari!»), dove l'appello di Kossuth rende inevitabile la
ripresa del tema di apertura, qui esposto, in saldo unissono, da otto corni, dalle
viole e dai violoncelli; alla breve introduzione tematica, siglata dalla lenta
scansione del timpano, segue un «Allegro vivace» che riprende la foga concitata
dell'episodio precedente, conducendola fino ad una potente e maestosa
amplificazione e, quindi, ad un progressivo distendersi dell'incalzante discorso
musicale. L'ottavo episodio (siglato testualmente da una serie di punti di
sospensione che concedono all'ascoltatore la piena libertà d'interpretazione) è,
nonostante l'ambigua segnatura didascalica, l'episodio forse più esplicito, dal
punto di vista concettuale, di tutto il poema; ne dice qualcosa la corrosiva
deformazione dell'inno austriaco, la stravolta violenza del materiale sonoro, la
drammatica rappresentatività (culminante nella dimensione tragica di questo
episodio, nel quale, ciclicamente, il compositore richiama in causa, attraverso
una dialettica contrapposizione, i principali temi musicali del poema). Il nono
episodio («Tutto è finito!») è costituito dalla funerea dimensione di un «Adagio
molto» dominato dal tema di Kossuth. Il decimo episodio («C'è il silenzio, il
silenzio dappertutto...») inizia dopo che il precedente «Adagio molto» ha toccato
il culmine della tensione drammatica, segnata dall'ossessiva ripetizione di un
breve inciso tematico; a questo punto il tema di Kossuth conclude mestamente,
perdendosi in una sonorità sempre più «lontana».

«Kossuth» presentato da Bela Bartòk

(testo del programma del poema sinfonico scritto dal compositore nel 1903)

Nella storia ungherese il 1848 è uno degli anni più conosciuti: fu in quell'anno
che scoppiò la rivoluzione nazionale ungherese, la guerra per la libertà, lotta a
vita e a morte che aveva come scopo la liberazione definitiva dal giogo del
dominio austriaco e della dinastia asburgica. Guida ed anima della rivoluzione fu
Luigi Kossuth. Nel 1849 gli austriaci, visto che di fronte alle armate ungheresi
riportavano una sconfitta dopo l'altra, chiamarono in aiuto i russi, i quali
riuscirono a vincere completamente l'esercito ungherese. In apparenza
l'esistenza statale ungherese fu annientata per sempre.

Su questi avvenimenti si basa il programma del poema sinfonico «Kossuth».

La composizione consta di 10 parti strettamente interdipendenti, spiegate


ciascuna all'inizio da una didascalia.

(«Kossuth»). Vuole essere la caratterizzazione di Kossuth.


(«Quale tristezza ti opprime l'animo, dolce mio sposo»). La moglie di Kossuth,
la sposa fedele, guarda con preoccupazione il volto addolorato, coperto di
rughe, de! marito, Kossuth cerca di tranquillizzarla; ma alla fine prorompe da lui
il dolore lungamente represso.
«La patria è in pericolo!» Poi si perde assorto nella contemplazione del
glorioso passato.
(«Una volta vivemmo tempi migliori»)
(«Ma poi il nostro destino si volse al peggio...») Il tema presentato dal flauto e
dall'ottavino e più tardi dal clarinetto basso intende rappresentare la tirannia
degli austriaci e degli Asburgo, la violenza che disprezza il diritto.
(«Su, alla lotta!») si riscuote dal suo fantasticare; il ricorso alle armi è ormai
cosa decisa.
(«Venite, venite prodi guerrieri magiari!») E' questo l'appello di Kossuth ai figli
della nazione magiara col quale li invita a schierarsi sotto le sue bandiere.
Immediatamente dopo segue in fa minore il tema dei guerrieri ungheresi che
lentamente si radunano. Kossuth rilancia l'appello (in la minore, due riprese)
all'esercito riunito, dopodiché questo fa sacro giuramento di perseverare nella
lotta fino alla morte (ritmo di 3/2). Qualche attimo di profondo silenzio e poi
sentiamo il lento avvicinarsi delle truppe austriache nemiche. Il loro tema è
costituito dalle 2 battute deformate dell'Inno austriaco (Gott erhalte).
Combattimenti si susseguono a combattimenti, gli scontri assumono le
caratteristiche di una lotta a vita e a morte, ma alla fine la forza bruta,
quantitativamente preponderante prende il sopravvento. S'avvera la grande
catastrofe (suono cupo di timpani e tam-tam. !f): i superstiti delle armate
ungheresi si danno alla latitanza.
«Tutto è finito», il paese si veste di profondo lutto. Ma anche questo gli viene
interdetto. Cosicché
«C'è il silenzio, il silenzio dappertutto».

Giovanni Ugolini

39 1905

Suite n. 1

https://www.youtube.com/watch?v=UX5J95CSiU0

https://www.youtube.com/watch?v=UUozGxJF7YY

https://www.youtube.com/watch?v=Gyq_q3qMY9I

Allegro vivace
Poco adagio
Presto
Moderato
Molto vivace

Organico: ottavino, 3 flauti, 2 oboi, corno inglese, clarinetto piccolo, 2 clarinetti,


clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso
tuba, timpani, triangolo, tamburello, piatti, campanelli, 2 arpe, archi
Prima esecuzione: Vienna, 29 novembre 1905
Edizione: Rózsavőlgyi & Tàrsa, Budapest, 1912

40 1905 - 1907

Suite n. 2 per piccola orchestra

https://www.youtube.com/watch?v=tLUg0--sBuk

Commodo
Allegro scherzando
Andante
Commodo

Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese piccolo, 2 clarinetti, clarinetto


basso, 2 fagotti, controfagotto, 3 corni, 2 trombe, timpani, triangolo, tamburo
militare, piatti, grancassa, tam-tam, 2 arpe, archi
Composizione: Primi tre movimenti novembre 1905, quarto movimento
settembre 1907
Prima esecuzione: Budapest, 22 novembre 1909
Edizione: a spese dall'autore, 1907

59 1910

Két kép (Due immagini)

https://www.youtube.com/watch?v=lQ0DDU3agAY

https://www.youtube.com/watch?v=XvBhdwoWHvo

Virágzsás (In pieno fiore) - Poco adagio


A falu tanca (Danza campestre) - Allegro

Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 3 clarinetti, clarinetto basso, 3


fagotti, controfagotto, 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, piatti,
grancassa, campane, 2 arpe, archi
Composizione: Budapest, agosto 1910
Prima esecuzione: Budapest, 25 febbraio 1913
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1912

Guida all'ascolto (nota 1)

L'opinione più di!usa su Béla Bartók, quella, diciamo, u"ciale, suole fare di lui,
sempre e comunque, un compositore di grande statura morale, ideologicamente
e politicamente impegnato, un ascetico e instancabile ricercatore e studioso del
patrimonio musicale della sua terra, un innamorato dei contadini e della natura.
Tutto questo, ovviamente, è presente in Bartók: ma è opportuno ricordare che
tale «scelta di campo» è l'approdo di un cammino umano e stilistico, punteggiato
di esperienze che si chiamano tardo-romanticismo, debussismo, politonalità,
cromatismo: e che l'avvicinamento di Bartók alla cultura musicale più «à la page»
del suo tempo produsse capolavori assoluti, prima ancora della sua conversione
al culto del popolare.

Le «Due immagini» op. 10, come, fra le altre opere, i «Due ritratti» o «Il Castello
di Barbablù» testimoniano i vari momenti di tale acquisizione linguistico-
culturale, essendo state scritte nel 1910, quando Bartók, attraverso la
mediazione di Zoltan Kodaly, aveva approfondito la sua conoscenza di Debussy.
Il primo brano, «Poco adagio», porta chiaramente i segni del linguaggio
armonico debussiano, soprattutto nell'uso della scala per toni interi e per
l'adozione di melodie pentatoniche. Particolare significato assume questo
fenomeno se si considera che, al contrario di Debussy il quale per «scoprire» tali
scale aveva dovuto guardare all'Estremo Oriente, Bartók le ritrovava nei modi del
canto popolare della sua terra: la presenza del ra"nato linguaggio
impressionistico si intreccia così al recupero di una cultura di tutt'altre matrici,
«subalterna», per usare un termine sintetico. La pagina porta per titolo «In pieno
fiore», ma l'impressione complessiva che essa suscita è di un misterioso
paesaggio, attraversato dalle pungenti voci dei legni e, nella parte centrale, del
corno: un mormorio notturno è suggerito dallo scorrevole movimento degli archi
e dagli interventi franti dei vari timbri strumentali, impiegati con straordinario
gusto coloristico. Una suggestione di natura notturna, animata da oscure
presenze, per la quale non è di"cile pensare al grande esempio del «Pelléas et
Mélisande» di Debussy e, al tempo stesso, ai grandi, angosciosi «notturni», che
Bartók scriverà: si ricordi il movimento centrale della Sonata per due pianoforti, o
il quarto brano della suite "All'aria aperta" e lo stesso "Barbablù".

Assai diverso, sul piano della struttura formale e del clima espressivo, è l'altro
brano, che pure impiega ancora scale di cinque e sei suoni e, nella parte
centrale, fa risuonare il misterioso tema della prima Immagine. Ma si tratta di
una parentesi: la vivace Danza campagnola si sviluppa come un Rondò (e qui
sottolineiamo la fedeltà che Bartók sempre manterrà per le forme classiche) in
ritmo popolaresco, massiccio, fortemente scandito, anche per l'alternarsi di legni
ed archi: una pagina che ha tutte le caratteristiche del Bartók maturo.

Le «Due immagini» — che raramente si ascoltano nelle sale da concerto —


ebbero la loro prima esecuzione il 25 febbraio 1913: Istvàn Kerner dirigeva
l'Orchestra Filarmonica di Budapest.

Cesare Orselli
Danze ungheresi e rumene

https://youtu.be/MLV1Fze-x8Y

61 1911

Román tánc (Danza romena)

https://www.youtube.com/watch?v=PuQSdNjFdrY

Organico: orchestra
Prima esecuzione: Budapest, 12 febbraio 1911
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1965
Trascrizione della prima delle 2 Danze romene, opera 8a per pianoforte BB 56

64 1912

Négy zenekari darab (4 Pezzi per orchestra)

https://www.youtube.com/watch?v=F8IbbHwNrHo
https://www.youtube.com/watch?v=jC91qiRlmAE

Preludio
Scherzo
Intermezzo
Marcia funebre

Organico: 4 flauti (3 e 4 anche ottavini), 3 oboi (2 e 3 anche corni inglesi), 3


clarinetti (2 e3 anche clarinetti bassi), 3 fagotti, contro fagotto, 4 corni, 4
trombe, 4 tromboni, basso tuba, timpani, triangolo, tam-tam, piatti, grancassa,
tamburo militare, celesta, 2 arpe, archi
Composizione: 1912, orchestrati nel 1921
Prima esecuzione: Budapest, 9 Gennaio 1922
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1923

74a 1921 - 1924 circa

Suite (3 danze) da Il principe di legno

Organico: piccola orchestra


Prima esecuzione: Budapest, 23 novembre 1931
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1967

76 1917
Romàn népi tàncok (Danze popolari rumene)

https://www.youtube.com/watch?v=hi_yck_hXS

https://www.youtube.com/watch?v=4HAIHSqiwAA

Per piccola orchestra

Jocul cu bâtă (Danza del bastone) - Energico e festoso


Brăul (Danza della fascia) - Allegro
Pe loc (Danza sul posto) - Andante
Buciumeana (Danza del corno) - Moderato
Poargă românească (Polka rumena) - Allegro
Măruntel (Danza veloce) - Allegro
Măruntel (Danza veloce) - Più allegro

Organico (solo della prima): ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti,
clarinetto piccolo, 2 clarinetti bassi, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni,
timpani, triangolo, 2 tamburelli, piatti, grancassa, tam-tam, 2 arpe, archi
Prima esecuzione: Budapest, 11 febbraio 1918
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1922
Trascrizione dalle Danze popolari rumene per pianoforte BB 68

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

È noto come Bartók sia stato un ricercatore appassionato e scrupoloso di temi e


di materiale folcloristico autentico, sia per riposarsi dalle fatiche di compositore
di "musica colta" e sia molto probabilmente per rinfrescare la propria fonte di
ispirazione. Questa attività gli permise di annotare e di raccogliere mediante
registrazioni un numero impressionante di melodie popolari provenienti
dall'Ungheria, dalla Romania, dalla Slovacchia e perfino dall'Anatolia. Lo stesso
compositore scrisse in uno schizzo autobiografico: «Lo studio di questa musica
contadina era per me di decisiva importanza, perché esso mi ha reso possibile la
liberazione dalla tirannia dei sistemi maggiore e minore fino allora in vigore.
Infatti la più gran parte e la più pregevole del materiale raccolto si basava sugli
antichi modi ecclesiastici o greci o anche su scale più primitive... Mi resi conto
allora che i modi antichi ed ormai fuori uso nella nostra musica d'autore non
hanno perduto nulla della loro vitalità. Il loro reimpiego ha permesso
combinazioni armoniche di nuovo tipo. L'impiego si!atto della scala diatonica ha
condotto alla liberazione dal rigido esclusivismo delle scale maggiore e minore
ed ebbe per ultima conseguenza la possibilità di impiegare ormai liberamente e
indipendentemente tutti e dodici i suoni della scala cromatica». Un esempio
dell'intelligenza e del gusto del Bartók folclorico si può cogliere nelle sette brevi
Danze popolari rumene, composte per pianoforte nel 1915 e trascritte poi per
orchestra nel 1917. Sono componimenti piacevoli e musicalmente estroversi nei
loro ritmi caratteristici, rispettosi dei costumi della comunità e della regione di
origine, senza alcuna manipolazione accademica. La Danza del bastone, indicata
da una melodia disuguale negli accenti, è stata raccolta a Mezözabad, nel
distretto di Maros-Torda; la Danza della fascia a"data al violino è stata ascoltata
a Egres, distretto di Tarontàl; della stessa provenienza è la Danza sul porto con il
suono del violino in rilievo, mentre la Danza del corno proviene da Bisztra,
distretto di Torda-Aranyos. La Polka rumena, vivace e spigliata, è stata registrata
a Belényes, distretto di Binar. Le ultime due danze brillanti e festose provengono
da Belényes e Nyàgra nella zona di Torda-Aranyos e concludono in un clima di
cordialità popolaresca questo profilo folclorico di Bartók.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

L'interesse di Bartók per la musica popolare è testimoniato sia dalle ricerche


sistematiche sulle autentiche radici paesane del folclore magiaro e centro-
orientale, sia dallo studio di questo patrimonio etnico, sia infine dalla
rielaborazione e ricreazione di esso nella propria opera compositiva. In questo
percorso ragioni ideali e pratiche, formali e linguistiche, si intrecciano
strettamente e si completano a vicenda, portando comunque a un fertile
arricchimento delle risorse vitali in campo musicale. Per quanto questo processo
di acquisizione e di trasformazione avvenisse sullo sfondo di esigenze
innovatrici non estranee a una precisa coscienza nazionale, è significativo che
Bartók le intendesse anzitutto quale basi della propria opera creativa e
proclamasse la volontà di servire umilmente l'ideale «della fraternità dei popoli,
della loro fratellanza davanti e contro ogni guerra, ogni conflitto»; attirandosi
per questo, e proprio in virtù di un atteggiamento che a noi oggi pare esemplare,
le critiche e le incomprensioni di coloro a cui in primo luogo intendeva rivolgersi
con lo studio e l'emancipazione della musica popolare indigena.

Una prova indiretta di questa visione aperta e non partigiana del problema della
musica popolare si ha nel fatto che i primi tentativi in questo campo
riguardassero i canti popolari rumeni e conducessero, subito dopo la raccolta e
lo studio di numerose melodie del dipartimento di Bihar - l'una e l'altro
pubblicati dall'Accademia rumena -, a una serie di lavori basati su quelle
esperienze: esperienze, appunto, nelle quali i modelli delle strutture melodiche e
ritmiche oggetto d'indagine si travasano in saggi compositivi fusi con il bagaglio
della cultura tradizionale.

Aprendo naturalmente nuovi spazi e nuove possibilità soprattutto su questo


secondo versante. La gradualità con cui il passaggio si compie è indicativa della
personalità di Bartòk. Dapprima è il pianoforte, il mezzo a lui più congeniale, a
incaricarsi di questa traduzione che è insieme trascrizione e ricomposizione: nel
1915, la Sonatina su melodie popolari rumene, le Sette danze popolari rumene, i
Canti natalizi rumeni; indi, o contemporaneamente, il coro coi Due canti popolari
rumeni, cui si a"ancano i Nove canti rumeni per canto e pianoforte. La versione
per orchestra delle Sette danze popolari rumene, del 1917, costituisce il
compimento di questa fase e l'inizio di più estese relazioni fra la tradizione
popolare e la personale appropriazione di essa da parte del compositore
moderno.

Semplificando, si può dire che l'analisi e la fissazione delle strutture intrinseche


dei modelli melodici desunti dalla ricerca porta adesso al tentativo di ricostruire
per mezzo dell'orchestra il suono e i colori dell'espressione popolare: a un
intento conoscitivo ne subentra dunque uno artistico. Onde evitare scarti troppo
bruschi e un innalzamento improprio del tono originale, il quale peraltro non
avrebbe potuto essere reso adeguatamente ricorrendo arcaicamente a mezzi
primitivi - ecco in sostanza il senso dell'operazione lucidissima di Bartòk - il
compositore sceglie un organico ridotto, riprendendo l'esempio dell'orchestrina
di paese, una piccola orchestra cioè formata da due flauti, due clarinetti, due
fagotti, due corni e archi. Proprio in conseguenza dei mezzi limitati, la ricerca
timbrica diviene così preminente oscillando fra i due poli opposti della
ricostruzione di un paesaggio sonoro anch'esso presumibilmente popolare e
della modernità che aggiunge tratti e figure inediti a quel paesaggio, senza però
tradirne lo spirito. Un esempio lampante è già nel primo brano. L'esposizione
della melodia da parte di clarinetti e primi violini all'unisono genera un e!etto
sonoro misto, insieme popolare e colto; l'asimmetria ritmica del canto è
compensata dall'ostinato dell'accompagnamento, che introduce un elemento
normativo per così dire della tradizione evidenziando però nello stesso tempo la
freschezza e la naturalezza della vitalità popolare: irregolare solo perché dotata
di altre regole. Ed è questo rispecchiamento dei due mondi a rappresentare
l'aspetto creativo della composizione.

Ognuna delle sette danze, oltre al luogo di provenienza, reca un titolo che ne
definisce il carattere e la destinazione d'uso. Abbiamo così, nell'ordine, Danza
col bastone, Girotondo, Sul posto, Danza del corno, Polca rumena, Passettino di
Belényes e Passettino di Nyàgra. Il riferimento a movimenti e passi di danza tipici
delle diverse tradizioni contadine arricchisce la musica di connotazioni gestuali,
accrescendo così l'evidenza plastica delle figure ritmiche e melodiche nel
contesto tutto moderno del tessuto armonico e della veste timbrica.

Sergio Sablich

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Compositore che, tra i maggiori della internazionale «generazione dell'Ottanta» o


giù di lì, è stato ormai messo alla pari o quasi con Schönberg e Strawinsky,
quindi anche con Hindemith, Bela Bartok è ungherese fin nelle midolla; come
Zoltan Kodaly, che però è di statura artistica assai minore a lui. Ungherese, o
magiaro; nutrito di tutti quei complessi apporti etnologici di paesi viciniori, via
via sbalestrati e trasferiti in diversi raggruppamenti nazionalistici e politici,
specie negli anni fra le due guerre mondiali. Bartok, come Kodaly, è meritevole di
studi etnologico-musicali di primissima importanza, condotti e riferiti con
metodo perfettamente scientifico. Egli viaggiò e registrò documenti, attingendo
direttamente sui luoghi, indagando e confrontando le fonti, catalogandole,
depositando quindi tali, documenti e scrivendone. Ciò, praticamente lungo tutta
la sua vita europea, cioè fino a quando fu costretto all'esilio americano per le
persecuzioni razziali. Fatto, poi, importantissimo in Bartok e molto più valido
artisticamente che non in Kodaly, è che tale «humus» nazionalistico fu da lui
trasposto, ma trasfigurato, anche nelle sue composizioni di musica «pura».
Vedasi, ad esempio nel Divertimento per archi, nella Musica per archi, celesta,
pianoforte e percussione, nel Concerto per orchestra, come nei tempi «finali»
esploda con gioia l'etnicismo, tuttavia riassunto nello stile del concertismo
rigoroso. Ora, dunque, i documenti diretti recuperati alla storia del folclore; ora,
certa loro reinterpretazione ed integrazione nel contesto d'una forma
concertistica pura; ora, anche, il prodotto che, destinato alla pratica del concerto
colto, riflettesse il documento etnologico in una confezione piuttosto fedele alla
tradizione direttta. In questo terzo tipo sono comprese varie Suites bartokiane di
danze e di canti: tra cui le Danze popolari rumene.

A proposito degli studi di Bartok sul folclore rumeno, va ricordata una lunga
polemica condotta contro di lui, e da lui circostanziatamente ribadita, circa il
modo di intendere l'area «rumena» e circa le rispettive autenticità delle fonti.
Questa collana di sette Danze rumene fu scritta da Bartok prima per pianoforte,
nel 1915, poi nel 1917 fu strumentata per piccola orchestra. Tutte collegate,
queste Danze dichiarano precisi riferimenti regionali cui rispettivamente hanno
attinto; e formano un tutto compatto, nell'ambiente armonico modale
ovviamente omogeneo, nella sequenza e nei contrasti dinamici e ritmici, oltre
che in quelli espressivi, dall'accorata e nostalgica malinconia all'allegria sfrenata.

La prima, «Danza col bastone», è in tempo Molto moderato; quindi la «Danza


della fascia» è in Allegro. La terza, «Danza sul porto», è in tempo Moderato. La
quarta, «Danza del corno», in tempo Andante. La quinta è una «Polka rumena»,
Allegro; cui, strettamente collegate, seguono in Allegro e Allegro vivace due
danze denominate «Maruntel»: brillantissima conclusione.

Angiola Maria Bonisconti

82a 1927

Il Mandarino miracoloso
https://www.youtube.com/watch?v=Zhr_QJGzLjg

https://www.youtube.com/watch?v=zyvFDdYM-rU

https://www.youtube.com/watch?v=b_QyNQs6nIo

https://youtu.be/DYwegVm1q5w

Suite da concerto

Allegro
Maestoso
Tempo di valse

Organico: ottavino, 3 flauti, 3 oboi, corno inglese, 3 clarinetti, clarinetto basso, 3


fagotti, 2 controfagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani,
tamburo, piatti, tam-tam, grancassa, triangolo, gong, xilofono, celesta, arpa,
pianoforte, organo, archi
Prima esecuzione: Budapest, 15 ottobre 1928
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1927

Guida all'ascolto (nota 1)

Una storia di sfruttamento minorile. Una di quelle vicende degne di "Telefono


azzurro", frequenti nelle pagine di cronaca, ora anche ispiratrici di un film
italiano, raro per freddezza e per amore.

«Nella periferia di una metropoli (quale, non è specificato, n.d.r.) tre malviventi
costringono una ragazza ad adescare i passanti per poi derubarli. Capita fra
questi un misterioso straniero, un mandarino cinese che s'innamora
perdutamente della ragazza. Niente può vincere la sua passione, e invano i
malviventi lo pugnalano, lo so!ocano, lo impiccano; egli non morrà se non dopo
aver avuto la ragazza».

Così Sandor Veress racconta, per l'"Enciclopedia dello Spettacolo" (1954) la


vicenda del Mandarino miracoloso di Bela Bartók. E commenta: «II significato è
dunque l'immortalità del vero amore che trionfa d'ogni ostacolo e che solo la
piena soddisfazione può consumare».

Magari accade proprio così, ma qualche dubbio dovevano averlo anche i direttori
dei teatri europei, che punirono, non eseguendola, l'audacia della fiaba di
Menyhert Lengyel e della musica di Bartók, autori di questa "pantomima in un
atto", composta tra 1918 e '19, orchestrata nel 1923, rivista l'anno successivo,
ma allestita soltanto nel novembre del 1926 (Colonia, Stadtheater, regìa
Strobach).

In Ungheria le autorità ecclesiastiche definirono, beate loro, la creazione


"immorale": il veto impedirà l'esecuzione della "pantomima" in patria, fino al
dopoguerra. Il pubblico italiano la conoscerà prima, nel 1942 alla Scala, nella
coreografia - che le cronache, i disegni, le fotografie, narrano splendida - di
Aurelio Milloss.

Intanto l'astuzia della ragione, di chi ha ragione, persuade Bartók a trarre dal
lavoro una suite da concerto, che il comune senso morale giudica meno
peccatrice, meno rischiosa: il debutto avviene a Budapest nel 1928. La musica,
questa volta, appare pura, non contaminata dal gesto, dalle allusioni teatrali. E
diventata meno "immorale": i censori sono sempre stolti, e realisti.

Due brevi tagli interni, la sostituzione dell'ultima scena della "pantomima" (quasi
un terzo della durata complessiva) con una chiusa di sole quattordici battute,
l'eliminazione del coro a quattro voci, sono le modifiche apportate dal
compositore. Resta immutata la dimensione, la violenza dell'orchestra: ottavino,
tre flauti, tre oboi, corno inglese, tre clarinetti, clarinetto basso, tre fagotti, due
controfagotti, quattro corni, tre trombe, tre tromboni, basso tuba, timpani,
tamburo, piatti, gong grande, grancassa, triangolo, gong, xilofono, celesta, arpa,
pianoforte, organo, archi.

Tutti gli strumenti prediletti dal "barbaro" Bartók. Sinistramente dolcissimo nella
melodia che intona il clarinetto solo, metafora della seduzione, voce della
bambina che attira le prede. Non si sottrae il meraviglioso/miracoloso extra-
comunitario (annunciato dai tromboni pentatonici), al quale la bimba, forse non
ignara delle qualità di Salome, riserva una danza piuttosto persuasiva.

Sono vicine la Sagra della Primavera (Parigi, 1913) e la Suite Scita (Pietroburgo,
1916), ma il titanismo orchestrale, la forza selvaggia del ritmo non bastano ad
assimilare Il mandarino ai due capolavori. Ben prima di Lulu di Berg, ma anche
del film di Pabst, delle commedie di Brecht, Bartók - per una volta espressionista
metropolitano - sceglie suburbi cittadini. Nelle sue so"tte non s'incontrano
Mimi, Lolite semmai.

«Trama e ambiente contribuiscono a fare del Mandarino miracoloso l'unica


concezione "stracittadina" di quell'artista così aperto alla natura, alla campagna,
alla leggenda rusica che fu Bartók. Nel Mandarino la realtà dell'istinto sessuale
viene a!rontata con quella tranquilla impudicizia di cui soltanto i puri sono
capaci, come uno dei tanti aspetti della natura, quella natura che Bartók
idolatrava in tutte le sue manifestazioni».
Freud potrebbe dissentire dalla sintesi proposta da Massimo Mila, che peraltro,
nel raccontare l'amatissimo Bartók, non dimentica l'incisione profonda lasciata
dai traumi, dalle umiliazioni, dal dolore subito dal bambino, deturpato
nell'infanzia da un "orribile eczema" conseguenza di un'iniezione contro il vaiolo.

E allora una periferia metropolitana, così estranea ai luoghi dove il compositore


ungherese è cresciuto, può diventare luogo eletto per cantare una polifonia di
vizi, di nere passioni, di delitti. Di carezze negate.

La quiete, oramai, è vano ricercarla tra i campi: la natura vista dagli


espressionisti non è quella cara all'Arcadia e al Settecento illuminato, non è
neppure figlia del sentimento panico inseguito, tra tempeste e ruscelli, dai
"romantici". Per conoscere le voragini e i riti della terra, come gli abissi dei
desideri e della disperazione urbana, è necessario che la musica sia allucinata,
capace di raccontare visioni, siano nel paesaggio o nella psiche. La realtà è
stregata, non figlia della ragione; piuttosto, delle sue perversioni.

Le tre scansioni della suite - Allegro , Maestoso, Tempo di valse - precipitano la


vicenda, con andatura inesorabile, verso la sua non-conclusione:, una brusca
cesura segna la fine dell'ossessione ritmica. Niente happy-end, in periferia.
Forse, gli amanti (?) continueranno ad inseguirsi. Si ritroveranno nel primo tempo
della Musica per archi, celesta e percussioni (1936), forse si erano già sfiorati nel
fugato del Quartetto op. 7 (1908).

Schizofrenia di Bartók - gli fa orrore ciò che lo attrae - sua miracolosa/


meravigliosa sensibilità. Risolta nella ragione appassionata di un musicista che
ha studiato con rigore la disciplina delle forme, i comandamenti armonici come
le leggi del contrappunto, che ha voluto comprendere e organizzare le
acquisizioni del folklore, non solo europeo. Se la suite persuade, inalterato
capolavoro del Novecento, è per l'equilibrio che si instaura tra ordine del
pensiero e sfrenatezza, prima di tutto ritmica, dell'allucinazione: come una
colata d'acciaio che segue binari già tracciati, mentre tenaglie robuste l'a!errano
e la sanno piegare, per giungere alla forma voluta.

Provarsi a comporre questo dissidio è la moralità di Bartók. Ancora Mila: «L'uomo


moderno lo sente vicino a sé come un compagno di strada, che ha condiviso le
sue illusioni e le sue speranze, che ha fatto i suoi stessi errori, che ha subito le
sue stesse delusioni e disfatte, che nell'arte non ha mai cercato un rifugio o
un'evasione, ma un mezzo per stabilire il contatto col proprio simile e
testimoniare con aperta parola di un uomo responsabile delle proprie
convinzioni».

Sandro Cappelletto
Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La genesi della musica del Mandarino meraviglioso - terzo e ultimo lavoro per la
scena di Béla Bartòk - ha una storia tormentata e abbastanza complessa, che ben
si attaglia alle novità poco gradevoli dei suoi contenuti sia linguistici che
drammatici. Siamo di fronte a un caso di strenua volontà da parte di un autore
nei confronti della propria opera, fondata sulla convinzione della necessità delle
sue scelte e forse sulla intuizione che quel che ne nascerà non è così inattuale e
irreale, per quanto scandaloso possa sembrare.

La data d'inizio della composizione, registrata in una preziosa lettera, è il 14


settembre 1918, allorché Bartòk decide di mettere in musica il testo di Melchior
Lengyel - drammaturgo ungherese suo coetaneo - nella forma di una
pantomima in un atto. Ad attrarlo è il miscuglio di esotico e di realistico che
emana dalla figura del Mandarino insieme meraviglioso e miracoloso (tale il
significato dell'aggettivo csodàlatos), la cui apparizione misteriosa sembra
provenire da un altro mondo e portare con sé un'atmosfera d'indescrivibile
estraneità e abbandono. Quel che Bartòk immagina non è né un'opera né un
balletto, ma una pantomima nella quale gesti stilizzati e riferimenti appena
accennati alle immagini e alle suggestioni del testo consentano alla musica di
espandersi liberamente e autonomamente in una traiettoria di fiaba, ai confini
della fantasia onirica.

Il progetto è ardito, ma trova giustificazione nelle ceneri in cui si è consumato il


teatro espressionista e simbolista e, più personalmente, nelle precedenti
esperienze teatrali di Bartòk, l'opera Il castello del principe Barbablù (1911) e il
balletto Il principe di legno (1916), che chiamano nuove esperienze. Nel maggio
1919 la composizione è ultimata nelle sue linee essenziali, ma si interrompe a
causa dei tragici eventi che seguono alla catastrofe della prima guerra mondiale:
al crollo dell'impero asburgico succede la parentesi rivoluzionaria della
repubblica di Béla Kuhn, cui anche Bartòk aderisce, indi la reazione militare
dell'ammiraglio Horthy, che prepara all'Ungheria anni di duro isolamento.
Soltanto nel 1923 Bartòk può riprendere l'orchestrazione della sua partitura, ma
le circostanze sono proibitive per una rappresentazione in patria; la ripresa dei
contatti con la Germania apre spiragli favorevoli, e Il Mandarino meraviglioso può
andare in scena a Colonia il 27 novembre 1926, provocando uno scandalo
inaudito. Le repliche sono bloccate dalla censura e il direttore che aveva osato
dirigerla, il fuoruscito ungherese Jenö Szenkàr, di"dato dal prendersi certe
libertà. Sorte non migliore, anzi decisamente peggiore, tocca al primo tentativo
di presentare la pantomima in Ungheria: all'Opera di Budapest il Mandarino fu
accolto nel cartellone del 1931, ma la rappresentazione cancellata dopo la prova
generale. Se a Colonia erano stati la crudezza dello spettacolo e il genere della
«pantomima» ad apparire troppo «realistici» (al contrario delle intenzioni di
Bartók), a Budapest fu il soggetto in quanto tale a suscitare le ire della censura: e
dunque non si arrivò neppure alla prima. Nacque allora, non da parte di Bartók
che pure pregiudizialmente non la rifiutò, l'idea di adattare la pantomima a
balletto, provvederla cioè di una struttura coreografica che ne ammorbidisse la
novità e distogliesse l'attenzione, o quanto meno la incanalasse in valori più
tradizionali, dalla tagliente asprezza della musica. Il compromesso privò la storia
del teatro musicale del Novecento di una delle più straordinarie proposte
drammaturgico-musicali che mai si fossero concepite ma garantì la più ampia
di!usione della creazione bartókiana; tanto più che a rendersene promotore era
stata la grande personalità di Aurel M. Milloss, colui che impresse il sigillo alla
nuova forma del Mandarino con la sua memorabile coreografia andata in scena
alla Scala il 12 ottobre 1942: responsabile anche, auspice il futurismo surreale
delle scene e dei costumi di Enrico Prampolini, della definizione di uno sfondo
alienato e disumano - l'immagine mostruosa della città Moloch -
sostanzialmente estranea alla stilizzata sospensione di tempo e spazio
dell'originale, spoglio scenario bartókiano.

Ma già molti anni prima l'autore aveva deciso di estrarre dalla partitura una Suite
da concerto che consentisse la circolazione almeno parziale della musica: segno,
da un lato, della consapevolezza che gli ostacoli maggiori stavano proprio nel
contenuto della vicenda e nella forma drammatica scelta a rappresentarlo;
dall'altro lato, però, anche della convinzione che la musica fosse dotata di una
sua autonomia e non dovesse essere rigettata in quanto tale, per quanto nuova e
dissonante potesse suonare. La stesura definitiva della Suite fu ultimata nel 1927
ed eseguita per la prima volta a Budapest il 15 ottobre 1928 dall'Orchestra
Filarmonica ungherese sotto la direzione di Ernö von Dohnànyi. Essa comprende
i due terzi circa della partitura completa, dall'inizio della grande scena centrale
della lotta selvaggia fra la ragazza e il Mandarino, che culmina in un forsennato
amplesso: la conclusione sinfonica si concentra su questo culmine,
interrompendo la scena all'apice della tensione e rinunciando così alla
trasfigurazione che nella pantomima segue con l'intervento stupefatto del coro
invisibile, che accompagna lo spegnersi dell'azione con attoniti vocalizzi.

La vicenda drammatica, supporto essenziale per la comprensione della musica


ben oltre le implicazioni narrative, è riassunta da Bartók come segue nella
prefazione alla partitura: «In una miserabile stanza di periferia tre vagabondi
costringono una ragazza ad adescare dalla strada uomini per derubarli. Un
sordido cavaliere e un giovane timido, che si sono lasciati attirare, vengono
messi alla porta come miseri pezzenti. Il terzo ospite è l'enigmatico Mandarino.
La ragazza tenta di sciogliere la sua spaventosa immobilità con una danza, ma
fugge inorridita quando egli cerca timidamente di abbracciarla. Dopo una caccia
selvaggia il Mandarino la prende; in quel momento i tre vagabondi balzano fuori
dal loro nascondiglio, derubano il Mandarino e cercano di so!ocarlo sotto dei
cuscini. Ma egli si risolleva e guarda appassionatamente la ragazza. Lo
trafiggono con la spada: vacilla, ma il suo desiderio è più forte delle ferite: si
scaglia sulla ragazza. Allora lo impiccano: ma egli non può morire. Solo quando
staccano il corpo dalla corda e la ragazza lo prende fra le sue braccia, le ferite
cominciano a sanguinare e il Mandarino muore».

Il realismo della vicenda è solo la facciata esteriore di un simbolismo dai


molteplici significati: sullo sfondo di un'umanità degradata e comicamente
tragica (i tre vagabondi e i due clienti, l'anziano e gaudente libertino, il giovane
timido e ignaro della vita), l'apparizione del misterioso Mandarino getta i bagliori
di una magica inquietudine, che si fa sempre più tesa e allucinata. La metafora
della forza elementare, violenta dell'istinto sessuale, strumento di contatto e di
comunicazione, trova riscontro nella pietà e nella tenerezza con cui la ragazza,
dopo i primi momenti di attrazione e di disgusto per la mostruosa estraneità del
Mandarino, consente a lui di morire, accogliendolo fra le sue braccia: variazione
estrema del motivo romantico di amore e morte.

La musica del Mandarino meraviglioso galleggia sulle acque tumultuose della


cascata espressionista, ma lascia intravedere di continuo che quella piena
travolgente sottintende argini saldi e chiuse regolari. Le tensioni allucinate, le
atmosfere visionarie, gli aspri addensamenti armonici e contrappuntistici, i
parossismi ritmici, le incandescenze timbriche riposano su rigorose strutture
formali che non soltanto rendono compatti i singoli episodi ma stabiliscono
anche una coerenza fra le relazioni tematiche, che illuminano in profondità
anche i simboli della vicenda.

Sergio Sablich

Guida all'ascolto 3

Furono mesi di caos quelli che contrassegnarono le vicende storiche


dell'Ungheria dopo la fine della prima guerra mondiale e la conseguente caduta
dell'impero austro-ungarico. Nel 1919 s'instaurò per poco più di 6 mesi una
repubblica comunista guidata da Béla Kun. I musicisti d'avanguardia ungheresi:
Zoltan Kodáli, Ernő Dohnányi, Béla Reinitz e lo stesso Bartók, si schierarono a
favore di questo regime, formando un Direttorio musicale che aveva il compito di
rinnovare la vita musicale della nazione. Nella peggiore delle tradizioni
comuniste, il regime si macchiò di nefandezze e Bartók ne fu profondamente
amareggiato e in lui morirono tante illusioni.

Il regime crollò e fu sostituito dalla "restaurazione" che colpì, ovviamente, anche


gli ambienti musicali che furono presi in mano di nuovo dai compositori più
tradizionali. Seguirono punizioni disciplinari che interessarono tutto l'ex
Direttorio. Bartók ne fu certamente il meno colpito: si limitò a chiedere un
permesso scolastico di sei mesi e, questo, fece sì che su di lui non piovessero
altre sanzioni.
Fu in questo clima storico e psicologico che nacque la pantomima in un atto Il
Mandarino incantato (o prodigioso) Opus 19 da noi conosciuta più
impropriamente con il nome di "Il Mandarino meraviglioso".

Come per l'opera "Il castello del principe Barbablù" opera in un atto Opus 11 ci si
può chiedere: cosa ha voluto dirci Bartók? Qual è la morale da trarre da questa
pantomima?

Dirò subito che questa è l'unica opera che si svolge in una città del compositore
ungherese che, come ho già detto, si rivolse sempre alla Natura nelle sue varie
forme.

La scena si svolge all'interno di una squallida e lurida stanza dove tre


malintenzionati, poveri in canna, sfruttano una ragazza a"nché si prostituisca
per depredare gli uomini malcapitati.

Il primo è un vecchio cavaliere che viene allontanato dai tre manigoldi perché
non riesce a concludere nulla con la ragazza.

Il secondo è un povero giovane timido che piace molto alla ragazza ma che ha
un solo "piccolo difetto": è completamente al verde e, dunque, anche questo
viene scacciato in malo modo e la ragazza rimproverata.

Il terzo è il nostro Mandarino: un essere assolutamente ripugnante che trasmette


alla ragazza un senso di schifo. I tre criminali costringono la ragazza a
sottomettersi a quello che ritengono essere il suo dovere. Fra brividi
d'esitazione, inizia quindi la danza erotica di seduzione della giovane che si fa,
via via, sempre più audace fin che cade fra le braccia del Mandarino. Ma il senso
di schifezza ha il sopravvento ed essa cerca di fuggire. Il Mandarino
completamente preso dal gioco erotico e dalla bellezza della ragazza l'insegue
con tutte le sue forze, cade ma, rialzatosi, la raggiunge: questa scena è
caratterizzata da «un fugato sopra ad un ostinato delle percussioni, nella
tensione d'un mostruoso crescendo» che assieme al Sacre du Printemps di
Stravinskij, rappresenta quanto di più impressionante si sia composto in tema di
grande orchestra all'inizio del Novecento.

I tre malviventi strappano la ragazza dalle mani del Mandarino, lo derubano e poi
decidono di ucciderlo, so!ocandolo con i guanciali. Il Mandarino però non
muore. A questo punto lo trafiggono tre volte con una vecchia spada arrugginita:
il Mandarino, seppur vacillante ed esausto, non muore neanche questa volta:
sempre in tutto questo marasma, non ha tolto mai gli occhi, bramosi di
desiderio, di dosso alla ragazza. A questo punto decidono di impiccarlo al
lampadario ma, il suo corpo comincia ad emettere una luce verde-azzurra e i
suoi occhi, incessantemente, guardano con lo stesso desiderio e la stessa
libidine la ragazza.

La ragazza guarda il Mandarino e comprende la verità: egli non potrà mai morire
finché lei non si concederà a lui. E lei, spinta da un atto di pietà, le si concede ed
egli muore dopo una breve agonia.

Io penso che la morale di questa storia sia proprio questa: noi possiamo morire
in pace solo se siamo riusciti ad ispirare un atto d'amore e di pietà in qualcuno,
altro da noi. E quell'atto d'amore e di pietà redime sia chi lo riceve sia chi lo
compie.

Daniele Scarpetti

86 1923

Tancszvit (Suite di sei danze)

https://www.youtube.com/watch?v=Z1-emYm_Q8Q

https://www.youtube.com/watch?v=vg5RmyO6ZBk

https://www.youtube.com/watch?v=aOr7tSPgV7s

Moderato
Allegro molto
Allegro vivace
Molto tranquillo
Comodo
Finale. Allegro

Organico: 2 ottavini, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso,


2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 2 trombe, 2 tromboni, basso tuba, timpani,
triangolo, campanelli, tamburo, grande, tamburo piccolo, grancassa, piatti, tam-
tam, celesta (o II pianoforte), arpa, pianoforte a quattro mani, archi
Composizione: agosto 1923
Prima esecuzione: Budapest, 19 novembre 1923
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1924
Composte per il 50° anniversario dell'unione di Buda, Obuda e Pest

Guida all'ascolto (nota 1)

Nel 1923 cadeva il cinquantesimo anniversario della fondazione di Budapest,


nata dalla fusione delle tre città di Buda, Obuda e Pest. Il governo ungherese
commissionò per la circostanza ai tre più noti compositori nazionali dei lavori
che vennero eseguiti il 19 novembre. Il programma, diretto da Ernö Dohnányi,
comprendeva la Suite di danze di Bartók, il Psalmus hungaricus di Kodály, la
Ouverture festiva di Dohnanyi, la Marcia di Rakoczy di Liszt e la Marcia di
Rakoczy di Berlioz. Svogliatamente diretta da Dohnányi, a detta di Antal Dorati
che sedeva in orchestra, la composizione di Bartók non ottenne alcun successo.
Nel 1924 la partitura fu pubblicata ed altre esecuzioni vennero promosse a
Londra, in Germania e a Cincinnati. Il successo vero arrivò però al festival della
Società Internazionale di Musica Contemporanea che si svolse a Praga nel
maggio del 1925: la Suite di danze venne quindi eseguita in una cinquantina di
centri europei... compresa Budapest, dove fu diretta il 19 novembre 1925 da
Václav Talich alla guida della Filarmonica di Praga. L'editore, in giugno, aveva
richiesto al compositore una trascrizione per pianoforte solo, di media di"coltà;
Bartók la preparò durante l'estate e la pubblicò a fine anno. Ma la trascrizione
non era di media di"coltà, e non servì a far conoscere meglio la Suite di danze
attraverso il pianoforte, tanto che la prima esecuzione pubblica non ebbe luogo
che nel febbraio del 1945, alla Carnegie Hall di New York, per opera di György
Sándor. A quel concerto assistette Bartók, che sarebbe scomparso nel settembre
dello stesso anno.

Bartók spiegò in una conferenza le intenzioni da cui era nata la Suite di danze:
«Essa è formata da sei brevi pezzi in forma di danza, di cui uno fa da ritornello e
quindi ha funzione di Leitmotiv. Tutto il materiale tematico della composizione è
ad imitazione della musica contadina; questo infatti era lo scopo della Suite:
realizzare una specie di musica popolare ideale in modo che ogni parte
rappresentasse caratteri musicali ben definiti. Mi sono servito di melodie di
diversa provenienza: ungherese, valacca, slovacca, persino araba, talvolta
mescolandole. Così ad esempio la melodia del primo tema del primo pezzo
ricorda la musica popolare araba più antica, mentre il ritmo si ricollega a quella
dell'Europa orientale. Il tema del ritornello è talmente fedele allo schema di certe
melodie popolari ungheresi, che potrebbe ingannare anche un esperto studioso.
Il secondo pezzo è di carattere ungherese, mentre il terzo alterna elementi
ungheresi e valacchi». La composizione persegue quindi l'accostamento di
linguaggi appartenenti ad etnie diverse, ma senza citazioni, perché i temi sono
tutti di Bartók. Quest'idea spiacque ai nazionalisti ungheresi e, all'opposto, non
trovò d'accordo nemmeno la critica d'avanguardia, tanto che Theodor
Wiesegrund Adorno, recensendo l'esecuzione di Praga, liquidò la Suite di danze
come «occasionale». Le esecuzioni pubbliche della composizione, dopo la prima
fiammata, divennero quindi rare, e rare sono anche oggi.

Piero Rattalino

102b 1931
Erdélyi táncok (Danze transilvane)

https://www.youtube.com/watch?v=Op9XGxjmW08

https://www.youtube.com/watch?v=K44VVl2Axao

Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, 2


tromboni, basso tuba, timpani, triangolo, arpa (o pianoforte), archi
Prima esecuzione: Budapest, 24 gennaio 1932
Edizione: Rózsavőlgyi & Tàrsa, Budapest, 1932
Trascrizione della Sonatina per pianoforte BB 69

103 1931

Magyar képek (Scene ungheresi)

https://www.youtube.com/watch?v=eHll9AacLGs

https://www.youtube.com/watch?v=vyYNnufYv7M

https://www.youtube.com/watch?v=r_BAiyegiYE

Trascrizione da opere pianistiche

Este a Székelyeknél (Una sera a Székelys) (da 10 Pezzi facili, n. 5)


Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, triangolo,
archi
Medvetánc (Danza degli orsi) (da 10 Pezzi facili, n. 10)
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, controfagotto, 2 corni, 2
trombe, basso tuba, timpani, cassa chiara con timbro, cassa chiara senza timbro,
xilofono, triangolo, archi
Melodia (da 4 Canti funebri, n. 2)
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, basso tuba,
triangolo, arpa, archi
Kicsit ázottan (Un po' brillo) (da 3 Burlesche, n. 2)
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, 2
tromboni, basso tube, timpani, grancassa, archi
Kanasztánc (Danza dei porcari) (da Per i bambini, vol. II, n. 42)
Organico: ottavino, flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, 2
corni, 2 trombe, 2 tromboni, basso tuba, timpani, piatti, grancassa, triangolo,
archi

Composizione: agosto 1931


Prima esecuzione: Budapest, 24 gennaio 1932
Edizione: Rózsavőlgyi & Tàrsa, Budapest, 1932

Guida all'ascolto (nota 1)

Le Scene ungheresi, anche se recano la data di composizione: agosto 1931, in


realtà appartengono a quel periodo solamente per l'orchestrazione. Era il periodo
immediatamente successivo alla composizione de La cantata profana, quando
l'arte di Bartok subiva quella crisi che doveva portarla ai lavori che appartengono
a quella che fu detta la «terza maniera» del musicista ungherese. Infatti, fra il
1931 e il 1934 (il V Quartetto fu composto nell'agosto di quell'anno) la
produzione bartokiana è piuttosto scarsa di lavori originali: trascrizioni di
antiche pagine, versioni corali o strumentali di canti popolari, sì, ma l'unico
lavoro veramente originale di quel periodo fu la raccolta di 44 Duetti per due
violini.

Così anche le Immagini ungheresi sono unicamente trascrizioni orchestrali di


pagine pianistiche che risalgono a una ventina d'anni prima. Le due prime -
Veglia presso gli Szekelys (intitolata anche Veglia in Transilvania, oppure Veglia
paesana) e Danza dell'orso - sono pagine tratte dai «Dieci pezzi facili»
pubblicato nel 1908; la terza è la versione strumentale di una (la II) delle Quattro
nenie pubblicate nel 1910, la quarta - L'ubbriaco - non è altro che la seconda
delle Tre burlesche, composta nel 1911 (l'ultima nell'ordine di composizione), e
la Danza dei porcari di Urög fa parte della prima raccolta di pagine Per i bambini,
composta fra il 1907 e il 1909.

La scelta delle pagine è particolarmente interessante, poiché fra i lavori di


vent'anni prima il compositore ha scelto quelli che annunciavano chiaramente - e
più ancora - l'artista che oggi tutti conosciamo.

Domenico De Paoli

107 1933

Magyar parasztdalok (Canti contadini ungheresi)

https://www.youtube.com/watch?v=zOKx6YJ2WzI

https://www.youtube.com/watch?v=lyGfCIDCoqw

Organico: orchestra
Prima esecuzione: Szombathely, 18 marzo, 1934
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1933
Trascrizione dei numeri 6 - 12, 14 e 15 dai 15 Canti contadini ungheresi per
pianoforte BB 79

114 1936

Zene (Musica) per archi, percussione e celesta

https://www.youtube.com/watch?v=IKSXgMDJ2PM

https://www.youtube.com/watch?v=HGJcsTtJ188

https://www.youtube.com/watch?v=SQA2XakFYy4

https://www.youtube.com/watch?v=L0bX1BVXJak

https://www.youtube.com/watch?v=yUKRYLm-urg

https://www.youtube.com/watch?v=AZeRjP0kpwg

https://www.youtube.com/watch?v=Djy1SMCxMwA

Andante tranquillo
Allegro
Adagio
Allegro molto

Organico: 4 violini, 2 viole, 2 violoncelli, 2 contrabbassi, cassa chiara senza


timbro, idem con timbro, piatti, tam-tam, grancassa, timpani, xilofono, celesta,
arpa, pianoforte
Composizione: 7 settembre 1936
Prima esecuzione: Basilea, 21 gennaio 1937
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1937
Dedica: Commissionata per il decimo anniversario dell'Orchestra da camera di
Basilea

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Composta nel 1937 su commissione dell'Orchestra da camera di Basilea, la


Musica per strumenti a corda, percussione e celesta è da annoverare tra le
composizioni più significative di Bela Bartók; minutamente strutturata sin nelle
sue più intime fibre, essa accoglie i processi compositivi adottati specialmente
nel Quarto e nel Quinto Quartetto per archi, sviluppando, attraverso la
disposizione «stereofonica» della doppia orchestra d'archi (al centro della quale
si vogliono collocati i restanti strumenti), il principio della «spazialità» del suono.
Il primo movimento (Andante tranquillo) è costruito come un grande fugato
basato su un caratteristico tema cromatico che costituirà il fondamento
dell'intera composizione; il secondo movimento (Allegro) presenta lo schema
della forma sonata e sviluppa poliedricamente le possibilità costruttive del tema,
utilizzato qui non nella sua interezza, ma nei suoi segmenti costitutivi. Il terzo
movimento (Adagio) è la chiave espressiva della composizione; vero studio di
timbri è una di quelle musiche notturne nelle quali Bartók sembra registrare le
pulsazioni più profonde e segrete del mondo naturale. Il movimento finale
(Allegro molto) dissipa le brume notturne attraverso una vivacissima dialettica
tematica e ritmica, nella quale emergono in piena luce le componenti folkloriche
del linguaggio bartokiano.

Francesco De Grada

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Sarebbe davvero stimolante, in presenza di un'opera come la «Musica per archi,


percussione e celesta» chiedersi che senso possa avere, oggi, l'ipotesi di una
«terza via» aperta dall'esempio di Bartók, nella musica contemporanea fra quella
«progressista» di Schönberg e quella «conservatrice» di Stravinsky, secondo la
obsoleta spartizione di ruoli operata da Theodor W. Adorno. Saremmo facilmente
indotti a replicare che non si tratta di una «terza», ma di una delle tante altre
possìbili soluzioni stilistiche praticabili, al di là dei bivio obbligato indicato da
Adorno; soprattutto nel momento attuale, in cui gli assertori di una Irreversibilità
degli approdi schönberghiani rischiano il ridicolo, musicisti come Berio ritornano
a un franco tonalismo (già da tempo sostenuto in Italia, da un Paolo Castaldi), o
come Stockhausen si volgono alle forme e al pubblico della musica «di
consumo», Bartók forse può non costituire più un'indicazione «da imitare», ma è
certamente un faro (in senso baudelairiano), un modello di libertà nelle scelte,
un maestro delle possibili conciliazioni fra avanguardia e passato.

È noto che il grande musicista ungherese, per rompere con la tradizione


accademica del slnfonismo germanico, si nutrì di materiale folklorico della
regione balcanica (agli anni 1906-7 risalgono ie prime ricerche e registrazioni,
attuate con Kodaly, che portarono alla catalogazione di più di 7.000 melodie
popolari) adottando scale di cinque e sei suoni e una ritmica assai vivace e
irregolare. «A!rontai lo studio della musica contadina — scrive in uno schizzo
autobiografico — con metodo scientifico, e ciò mi portò decisamente
all'a!rancamento dai modi maggiore e minore, in uso nella musica classica. La
gran parte di quel materiale, infatti, si basava su modi ecclesiastici antichi o
addirittura primitivi (pentatonici) ... Le antiche scale, non più in uso nella nostra
musica colta, rendevano possibili nuove combinazioni armoniche e l'impiego
indipendente dei dodici suoni della scala cromatica».
Peraltro, nell'organizzazione di tale materiale, Bartók accoglie si forme semplici
come quelle della canzone o della danza, ma non rinuncia a più complesse,
classiche strutture «architettoniche» quali la fuga, il rondò, la sonata, È un sottile
intreccio di elementi eterogenei, ai quali si aggiunge la costante attenzione che
Bartók rivolse a quanto si andava producendo in Europa: impressionismo ed
espressionismo, scuola russa, neoclassicismo.

Le essenziali indicazioni sulla genesi del linguaggio di Bartók che siamo venuti
fornendo costituiscono, forse, un troppo comodo e generico passepartout per
l'ascolto della sua musica, quale essa sia, di modesta o eccelsa qualità; ma la
«Musica per achi, percussione e celesta» è uno dei vertici di tutta la produzione
bartókiana, uno di quei capolavori che danno ragione — con la loro eccellenza —
a qualsivoglia poetica, rendendola operante e vitale. Essa nacque nel 1936 su
commissione, per la famosa orchestra di Basilea diretta da Paul Sacher e
raccoglie in una sintesi di straordinaria suggestione la tematica bartókiana della
notte, il ricorso a furiosi ritmi magiari, una certa visionarietà allucinata. L'opera è
articolata in quattro movimenti e trova origine (secondo il Carner) in un solo
tema, simile per il suo cromatismo al tema principale del Sesto quartetto,
mostrando quanto abilmente Bartók utilizzi il principio della forma ciclica
lisztiana (appunto l'adorato Liszt: chi ha inventato la contrapposizione Liszt-
Bartók per ragioni di autenticità magiara, reciti ormai un «mea culpa»).
L'«Andante tranquillo» è una fuga a cinque voci, costruita sul già citato tema
cromatico, un vagare misterioso, ai limiti dell'atonalità, che esplode in un
vigoroso accordo di mi bemolle. Di tutt'altro carattere il secondo movimento,
ispirato alla febbrile ritmica ungherese seppure costruito in forma-sonata: al
nostro orecchio, può forse suggerire l'immagine di una musica di colore
orientale, la cui eleganza e flessibilità melodica siano state «barbaricamente»
sconvolte.

La pagina di maggiore concentrazione della «Musica» è certamente l'«Adagio»


centrale, uno dei tanti esempi di musica notturna, come nella «Sonata per due
pianoforti», nel «Quarto quartetto», nel ciclo «All'aria aperta», Si tratta di una
pagina tutta giocata sulla ricerca timbrica: gli e!etti di glissandi (anche nei
timpani), di pizzicati, gli armonici degli archi, il colore surreale della celesta
popolano il brano di «presenze» misteriose, voci di esseri il cui linguaggio solo
l'artista riesce a cogliere e comprendere («le language des fleurs et des choses
muettes», aveva scritto Baudelaire).

Il finale «Allegro molto» si collega al secondo movimento, per la ripresa di ritmi e


melodie «ungheresi» (ma si ricordi che ormai Bartók inventa per conto proprio il
materiale musicale (pur nello spirito della tradizione contadina della sua terra):
splendide sonorità accompagnano un andamento che ha qualcosa
dell'improvvisazione zingaresca e che — imprevedibilmente — si conclude su un
accordo perfettamente tonale, in un clima di vigoroso, anche se fuggevole,
ottimismo.

Cesare Orselli

www.wikipedia.org

Musica per archi, percussioni e celesta, Sz. 106, BB 114 è una delle composizioni
più note del compositore ungherese Béla Bartók. Commissionata da Paul Sacher
per celebrare il decimo anniversario della orchestra da camera Basler
Kammerorchester, lo spartito è del 7 settembre 1936. La prima esecuzione del
brano è avvenuta a Basilea, Svizzera il 21 gennaio 1937, da parte dell'orchestra
da camera diretta da Sacher, ed è stato pubblicato nello stesso anno dalla
Universal Edition.

Analisi

Come indica il titolo, il pezzo è stato scritto per strumenti ad arco (violini, viole,
violoncelli, contrabbassi, e arpa), strumenti a percussione (xilofono, rullante,
piatti, tam-tam, grancassa, e timpani) e celesta. L'organico comprende anche un
pianoforte, che può essere classificato come uno strumento a percussione o ad
arco (il musicista addetto alla celesta suona anche il pianoforte in alcuni
passaggi a 4 mani col pianista).

Il pezzo è in quattro movimenti, il primo e il terzo lenti, il secondo e quarto


rapidi. Tutti i movimenti sono scritti senza alterazioni in chiave:

Andante tranquillo
Allegro
Adagio
Allegro molto

Il primo movimento è una fuga lenta. La sua indicazione del tempo cambia
continuamente. Si basa intorno alla nota la, con la quale inizia e termina il
movimento. Gli archi iniziano con la sordina, e man mano che entrano più voci,
la tessitura si infittisce e la musica diventa più forte fino al punto culminante su
mi bemolle, lontano un tritono dal la. Le sordine vengono poi rimosse, e la
musica diventa gradualmente più tranquilla con i dolci arpeggi della celesta. Il
movimento si conclude con la seconda frase del soggetto della fuga suonato
delicatamente insieme alla sua inversione. Del materiale dal primo movimento
viene riproposto nel resto della composizione, come ad esempio il soggetto della
fuga.
Il secondo movimento è rapido, con un tema in 2/4 che si trasforma in 3/8
tempo verso la fine. Esso è contrassegnato dalle forti sincopi del pianoforte e
dagli accenti delle percussioni che creano una danza vorticosa, evolvendo in una
sezione estesa di pizzicati, con una conclusione simile ad un concerto per
pianoforte.

Le battute 1-5 del primo movimento e le battute 204–9 del secondo

Il terzo movimento è un lento esempio di quella che viene spesso chiamata


"musica notturna" di Bartók. Vi sono glissando dei timpani, la cui cosa era una
tecnica insolita al momento della composizione del lavoro, poiché era ritenuta
una prerogativa dello xilofono. È noto comunemente che il ritmo dello xilofono
solista che apre il terzo movimento si basa sulla successione di Fibonacci.

L'ultimo movimento ha il carattere di una vivace danza popolare[.

118 1939

Divertimento per archi

https://www.youtube.com/watch?v=tG9lbFG0vXc

https://www.youtube.com/watch?v=V-q9PwAZ7qQ

https://www.youtube.com/watch?v=PuKcLq5NSjM

https://www.youtube.com/watch?v=wjKn_c8VOW0

Allegro non troppo


Molto adagio
Allegro assai

Organico: preferibilmente: 6 violini I, 6 violini II, 4 viole, 4 violoncelli, 2


contrabbassi
Composizione: 2 - 17 agosto 1939
Prima esecuzione: Basilea, 11 giugno 1940
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1940
Dedica: all'Orchestra da camera di Basilea

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

È alla fine del 1940 che Bela Bartók lascia l'Ungheria per avviarsi all'esilio
volontario negli Stati Uniti. «Questo viaggio è, in fin dei conti, un salto
nell'incertezza da una certezza insopportabile», scrive il 14 ottobre all'amica
svizzera Muller-Widmann. Non era solo il clima bellico a far allontanare il
compositore, ma ancor più la ferma avversione verso le dittature europee e il
loro fiancheggiamento da parte del governo ungherese. Due anni prima, dopo
l'Anschluss dell'Austria al Reich, Bartók si era rivolto in termini crudi alla
medesima amica: «Scrivere di questa catastrofe, io credo, è del tutto inutile. [...]
C'è il reale pericolo che anche l'Ungheria si arrenda a questo regime di ladri e
assassini. La domanda ora è: quando? come? E non è concepibile che io possa
ancora vivere, ancora lavorare (il che è lo stesso) in un paese di questo tipo. Io
avrei davvero l'obbligo di espatriare».

Questo dunque il clima degli ultimi anni ungheresi di Bartók, anni di intensa
produttività, che vedono nascere, fra l'altro, la Sonata per due pianoforti e
percussione, il Sesto Quartetto, il Secondo Concerto per violino e orchestra,
nonché il Divertimento per orchestra d'archi: un gruppo di lavori che sommano,
con grande maestria di scrittura, complessità costruttiva, ricerca timbrica, alte
ambizioni concettuali.

In particolare il Divertimento per orchestra d'archi venne scritto nel corso di un


periodo trascorso in Svizzera, a Saanen, presso Berna, nella residenza del
direttore Paul Sacher, che fu il diretto committente del brano. Appena due
settimane furono su"cienti per la stesura della partitura, dal 2 al 17 agosto
1939; e proprio Paul Sacher, con l'orchestra da camera di Basilea, doveva o!rirne
la prima esecuzione, l'11 giugno 1940, quattro mesi prima che Bartók
abbandonasse definitivamente l'Ungheria.

In molte occasioni si è cercato di stabilire una correlazione fra il Divertimento


per archi e le vicende biografiche di Bartók, individuando nella partitura una
sorta di fuga ideale rispetto alla prospettiva dell'esilio, o invece un
presentimento angoscioso di questo, soprattutto nel movimento centrale. In
realtà il contenuto del Divertimento è segnato non già da queste connessioni
extramusicali, ma piuttosto da quella tendenza purificatrice e in qualche modo
neoclassica che ha progressivamente innervato la poetica di Bartók nel corso
degli anni Trenta. Il termine neoclassicismo ha, in questo caso, un significato
piuttosto specifico, per il richiamo palese a tecniche di scrittura barocche e
classiche.

Lo stesso titolo di Divertimento si riallaccia alla prassi della musica di


intrattenimento di Mozart e Haydn, con l'organico di soli archi; si aggiunga che la
scrittura per archi segue il principio costruttivo proprio del Concerto grosso
barocco, con la continua alternanza (soprattutto nei movimenti estremi) fra il
ripieno dell'intera orchestra e il concertino formato dalle prime parti di ogni
sezione. Il fascino di questa partitura risiede proprio nelle modalità secondo le
quali Bartók riesce a coniugare questi criteri di scrittura con un materiale
tematico costruito secondo i principi del canto popolare, ungherese e non; ma
anche nella trasparenza del tessuto degli archi e nei procedimenti di inversione e
combinazione delle idee musicali.

Ecco dunque che nell'Allegro con troppo iniziale viene in secondo piano la
costruzione secondo lo schema della forma-sonata classica, e la
contrapposizione dei vari temi, e si impongono invece allri fattori, come la nitida
contrapposizione fra soli e tutti, la variabilità degli schemi ritmici (propria del
canto popolare), i netti contrasti dinamici, la limpidezza della tessitura. La coda
del movimento riprende il materiale tematico in una sorta di contemplazione,
rinunciando quasi alla logica di contrasti in favore di una dinamica contenuta.

In posizione centrale troviamo un Molto adagio che è una delle grandi pagine
notturne di Bartók; basterebbe ascoltare la sapienza strumentale con cui l'autore
definisce l'esordio, una sorta di tappeto sonoro con sordina, su cui si stagliano
nudi disegni di violini e viole. Si impone in questo movimento soprattutto la
sezione centrale, con un lungo e calibratissimo crescendo innervato da
angoscianti doppi trilli dei violini, cui fa seguito un rapido diminuendo.

Il movimento in cui più evidente è la logica del Concerto grosso è il terzo,


Allegro assai, dove netto e continuo è il contrasto soli/tutti; ma molto vario è lo
schema del tempo, che segue la forma di un libero rondò, guidato da un tema
nel modo misolidio; vi troviamo, ad esempio, una sezione in cui incisivi unisoni
si alternano a passaggi di inseguimenti fugati fra le voci; o ancora un lungo a
solo rapsodico del violino. Lunga e trascinante, basata sull'intensificazione
ritmica, la coda viene interrotta due volte, prima per una sezione in Grazioso,
scherzando, poco rubato, a"data a pizzicati e glissandi, poi per un'estrema
apparizione del concertino, subito prima della conclusione.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Così come la Musica per archi, percussione e celesta, anche il Divertimento fu


commissionato a Bartók da Paul Sacher per l'Orchestra da camera di Basilea.
Scritta fra il 2 e il 17 agosto 1939 a Saanen (Svizzera), la partitura fu eseguita per
la prima volta a Basilea l'11 giugno 1940. Pagina conclusiva del periodo
neoclassico bartókiano, il Divertimento mostra una struttura per molti versi
simile a quella del Concerto (n. 2) per violino: ABA', dove A e A' sono il suo primo
e terzo tempo, accomunati dall'impiego del medesimo materiale tematico, e B il
tempo centrale, a sua volta strutturato secondo lo schema "a ponte" bcb'. Il
recupero di taluni tratti propri dello stile barocco si manifesta qui nella frequente
alternanza tra soli e tutti, che sembra far palese riferimento ai modi del concerto
grosso. La successione dei tempi presenta dapprima un Allegro non troppo il cui
carattere di danza è prevalentemente a"dato a un metro ternario di 9/8, non di
rado però contratto, anche se per poche battute, in quello di 6/8. Segue un
Molto adagio, dalle movenze ritmiche pronunciatamente magiare. Conclude la
composizione un Allegro assai nel quale riappare, come s'è detto, trasfigurato
nel metro di 2/4, il materiale tematico del primo tempo, qui sviluppato in un
tessuto che abbandona l'impostazione contrappuntistica dell'Allegro non troppo
a favore di una scrittura più omofonica e compatta, tale da consentire alla
compagine strumentale un vera e propria dimostrazione di bravura.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Il Divertimento per orchestra venne scritto da Bela Bartók in un momento


cruciale della sua esistenza. Siamo nel 1939 alla vigilia dello scoppio della guerra
mondiale e il clima di intolleranza e la drammaticità del periodo avevano spinto il
compositore ungherese a esporsi in prima persona, prendendo le difese di
Toscanini, non suonando più in Germania, abbandonando editori tedeschi e la
società degli autori austriaca, filonazista. Nel suo paese inoltre era vittima di
attacchi da parte della stampa, tanto che di lì a poco avrebbe compiuto il passo
della partenza senza ritorno per gli Stati Uniti. Aveva quindi accolto di buon
grado l'invito di Paul Sacher, il direttore d'orchestra che già gli aveva
commissionato la Musica per archi, celesta e percussioni e che era un infaticabile
promotore della nuova musica, che gli aveva richiesto per Basilea una
composizione per orchestra d'archi. Ma vista la situazione internazionale e il
temperamento di un compositore che non aveva mai interpretato il proprio ruolo
come avulso dalla società, Sacher lo aveva anche ospitato in uno chalet di sua
proprietà nel piccolo villaggio svizzero di Saanen. Là Bartók nell'agosto del 1939
ebbe modo di comporre non solo il Divertimento, ma anche il Sesto Quartetto
per archi: «Mi sento come un musicista dei tempi passati, ospite di un patrono
delle arti... devo lavorare su commissione».

Probabilmente la suggestione di queste sensazioni lo spinse verso un tipo di


composizione ispirata al Concerto grosso, con l'alternanza tra il tutti orchestrale
e il concertino tipica di questa forma. Il risultato fu un brano non troppo
complesso in tre movimenti in cui i tempi estremi ricordano il Bartók della Dance
Suite, mentre il movimento centrale raggiunge una profondità degna delle sue
più complesse composizioni. Se Bartók intendeva rifarsi alle tradizioni
coneertistiche pre-classiche, nondimeno non rinnegò i numi tutelari della
tradizione musicale occidentale, Bach e Beethoven.

Non a caso la composizione si apre con un primo movimento in forma-sonata,


che alterna misure in 9/8 con quelle in 6/8. Il tema principale è costituito da una
melodia di grande fascino a"data ai violini che si sviluppa su di una pulsazione
costante di crome: inflessioni modali e ambiguità cromatiche oscurano, senza
cancellarlo del tutto, il senso tonale. Un secondo gruppo tematico, che presenta
leggeri irregolarità ritmiche - secondo procedimenti chiaramente derivati dallo
studio della musica folklorica di cui Bartók fu uno dei pionieri - è presentato in
alternanza tra il concertino e il ripieno. Lo sviluppo è condotto con una scrittura
prevalentemente contrappuntistica che culmina in un canone a cinque parti
mentre un canone al tritono, con le parti ispessite in intervalli di seconda
maggiore, conclude la sezione. La ripresa presenta i materiali dell'esposizione
largamente rimaneggiati.

L'Adagio molto che segue è articolato in quattro sezioni che raramente


presentano l'alternanza tutti-concertino del movimento precedente, mentre il
discorso musicale è giocato su sonorità più ricche e su di una maggiore
drammaticità. Il movimento è costruito su di una cellula di tre note che conserva
una inesausta vitalità attraverso le continue micro-variazioni intervallari e
ritmiche cui è sottoposta. La seconda sezione è caratterizzata dai drammatici
interventi delle viole, mentre la terza è costruita su di un ostinato che
accompagna la cellula di tre note con armonizzazioni in quarte e quinte dal
sapore medievale. L'ultima sezione è una ripresa della prima.

Il finale è in forma di rondò con un lungo sviluppo finale e presenta nella sua
parte centrale una doppia fuga con il soggetto utilizzato nella sua forma diretta
e in inversione. Soli del violoncello e del violino, e poi l'inversione dei temi
conducono a un finale dal sapore burlesco, con la citazione di una polka seguita
da rapidissime terzine che si condensano in clusters per poi sfociare in una
vivacissima coda.

Andrea Rossi Espagnet

123 1943

Concerto per orchestra

https://www.youtube.com/watch?v=pK_X0QuZuZc

https://www.youtube.com/watch?v=OQb3VUljpa0

https://www.youtube.com/watch?v=clzcGIdMaN0

https://www.youtube.com/watch?v=CjnbUmbHO9o

https://www.youtube.com/watch?v=-GfMqpFSmzQ

https://www.youtube.com/watch?v=mvvFKI9A5Y8

Andante non troppo, Allegro vivace


Gioco delle coppie: Allegretto scherzando
Elegia: Andante non troppo
Intermezzo interrotto: Allegretto
Finale: Pesante

Organico: 3 flauti (3 anche ottavino), 3 oboi, (3 anche corno inglese), 3 clarinetti


(3 anche clarinetto basso), 3 fagotti (3 anche controfagotto), 4 corni, 3 trombe, 3
tromboni, basso tuba, timpani, tamburo militare, grancassa, tam-tam, piatti,
triangolo, 2 arpe, archi
Composizione: 15 agosto - 8 ottobre 1943 (revisione febbraio 1945)
Prima esecuzione: Boston, Synphony Hall, 1 dicembre 1944
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1946
Dedica: Fondazione Musicale "Koussevitzky"

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Scritto da Bartók nel 1943 durante i di"cili anni del suo esilio americano, il
Concerto per orchestra, termine con cui si indica il ruolo virtuosistico e
concertante svolto dalle diverse sezioni strumentali, fu accolto da un successo di
pubblico tale da garantirgli per anni centinaia di repliche in tutto il mondo, ma al
tempo stesso fece storcere il naso a molti dei critici più intransigenti, i quali
accusarono l'autore di aver abbandonato la propria fedeltà «giacobina» nei
confronti della dissonanza per mostrarsi accondiscendente verso i facili gusti del
pubblico americano.

Se è vero che in quest'opera Bartók tende a smussare i tratti più aspramente


anticonformisti del proprio scrivere (basti il confronto con la Sonata per due
pianoforti e percussioni), si può altresì constatare come egli non rinunci a molti
degli elementi più caratteristici del suo modo di comporre. Ricorrono quindi:
l'asimmetria ritmica delle melodie, le reiterazioni ostinate, gli accelerando, i
fugati, i motivi ispirati alla tradizione popolare ungherese; mentre caratteristica
propria di quest'opera è l'uso di intervalli di quarta combinato con gradi
congiunti nella formazione della maggior parte dei temi. Tutto ciò rientra a sua
volta in un rigoroso impianto architettonico che, oltre all'uso delle tradizionali
forme sinfoniche e di una breve introduzione monodica all'inizio di ogni
movimento, prevede una disposizione simmetrica a piramide dei cinque
movimenti. Attorno al tempo lento centrale Bartók colloca infatti i due movimenti
più «leggeri» aventi indicazione Allegretto (II e IV), mentre all'esterno troviamo i
due tempi (I e V) più ampi e complessi, scritti in forma sonata con tempo veloce.
A fronte di tale combinazione speculare dei tempi e delle forme, il contenuto
espressivo dell'opera viene invece svolto in maniera lineare. Il Concerto, a detta
dello stesso autore, «rappresenta una lenta evoluzione dal tono severo del primo
movimento, all'a!ermazione di fede nella vita del quinto». Un percorso simile a
quello della Sonata per due pianoforti e percussioni, avente come passaggi
intermedi la leziosità del neoclassico Gioco delle coppie, l'impressionistica, e a
tratti drammatica, atmosfera dell'Elegia, e la multiforme varietà dell'Intermezzo
interrotto che, con il suo ironico parodiare, apre la strada all'ottimismo carico di
vitalità del Finale.

Andante non troppo (Introduzione) - Allegro vivace. L'Andante non troppo che fa
da prologo al primo tempo si apre con un cupo profilo melodico dei bassi
seguito da leggeri fremiti di archi e flauti, nel quale troviamo il germe tematico
di tutta l'opera: l'intervallo melodico di quarta. Dopo la terza e più ampia
enunciazione di questo spunto iniziale, i flauti, e successivamente le trombe,
delineano il motivo tematico dell'Andante. Con un forte improvviso il tema si
trasforma quindi in un grido lancinante dei violini, mentre una breve coda
conduce all'Allegro vivace con un ostinato accelerando.

Energico e risoluto, il primo tema dell'Allegro vivace si muove asimmetricamente


con agile disinvoltura, per poi trascolorare in un fraseggio meno spigoloso e più
cantabile. Una breve frase dei tromboni fa quindi da collegamento con il secondo
gruppo tematico: un sinuoso e ondulatorio motivo che l'oboe disegna su una
base fissa di quinte ribattute.

Un improvviso stacco dinamico dà il via allo Sviluppo che si apre con una
ridondante riproposizione del primo tema. In netto contrasto con questa prima
parte Bartók inserisce un'oasi centrale nella quale il clarinetto riporta a
un'atmosfera più pacata e rarefatta. Si noti come Bartók non crei mai uno scontro
dialettico tra primo e secondo tema (quest'ultimo è assente nello Sviluppo), ma
preferisca la suggestiva alternanza tra la pulsione ritmica e la staticità proprie
dei due temi stessi. Ritorna quindi con forza il primo tema sul quale si intreccia
subito un fugato degli ottoni formato dal motivo di collegamento, che, appena
punteggiato da brevi interventi dell'orchestra, culmina in un potente unisono. La
successiva Ripresa ripropone inaspettatamente secondo tema e primo tema in
ordine invertito, mentre uno stacco degli ottoni basato sulla melodia di
collegamento conclude il movimento.

Il gioco delle coppie (Allegretto scherzando). Il secondo movimento è un divertito


gioco orchestrale nel quale, dopo una breve introduzione del tamburo, coppie di
fiati, tra loro uguali, si muovono parallelamente a distanza intervallare fissa,
sviluppando una scanzonata e saltellante melodia in continuo divenire. Troviamo
in ordine: i fagotti che si muovono a distanza di sesta, gli oboi per terze, i
clarinetti per settime, i flauti per quinte e le trombe per seconde, mentre un
solenne corale degli ottoni di reminiscenze mahleriane viene posto come perno
centrale del movimento. La prima parte viene quindi ripresa con diverse varianti
che prevedono l'aggiunta di ulteriori strumenti alle coppie originarie, il tutto
seguito da una breve coda formata da movimenti percussivi a note ribattute.
Elegia (Andante non troppo). Dopo la cupa e misteriosa introduzione monodica
di contrabbassi e timpani, si forma un tenue tappeto d'archi, increspato dagli
ondeggianti glissati dell'arpa con eco di flauti e clarinetti, su cui l'oboe disegna
una melodia cromatica, cristallizzata in tessitura acuta. Vi è quindi un lento fluire
intrecciato di fiati e archi su cui spunta il sottile canto dell'ottavino. Quest'aura
fissa e irreale viene rotta dall'improvviso ritorno del tema dell'Andante iniziale,
che lascia spazio a un nuovo delicato tappeto sonoro a ondulazioni cromatiche
sul quale si sovrappone il flebile suono dell'ottavino.

Un nuovo spunto melodico delle viole viene ripreso dai legni inframmezzati da
elastici stacchi accordali dell'orchestra, mentre il ritorno del fluire intrecciato
viene interrotto dal tema che, dopo aver toccato il suo punto culminante, si
dissolve rapidamente ponendo fine all'ultimo momento intensamente
drammatico del concerto. La ripresa variata della sezione iniziale è infine seguita
dal tema iniziale dei contrabbassi ripresentato dai violini e da una delicata
ondulazione dell'ottavino sospeso in tessitura acuta.

Intermezzo interrotto (Allegretto). Forza espressiva, grazia, passione, umorismo


si alternano nel quarto tempo in un carosello di contrastanti emozioni non privo
di sottile ironia. Fin dall'inizio il vigoroso unisono introduttivo degli archi appare
in contrasto con il primo tema che, con il suo grazioso incedere, richiama la
melodia del Gioco delle coppie. Appassionato e struggente è invece il secondo
tema introdotto dalla viola e ripreso dai violini, e seguito da una momentanea
ripresa del primo tema. L'accompagnamento degli archi passa quindi da 5/8 a
8/8 dando spazio a una nuova melodia del clarinetto che corre veloce verso uno
stacco orchestrale di carattere farsesco; due grotteschi glissati di trombone
introducono quindi una sorta di giostra orchestrale nella quale viene elaborato il
tema del clarinetto con ulteriori spunti clowneschi. La ripresa del secondo tema
crea un ulteriore mutamento d'atmosfera, per poi lasciare spazio a una
frammentata successione di elementi del primo tema e a una cadenza del flauto
seguita da una breve coda conclusiva.

Finale. Dal perentorio unisono introduttivo dei corni prende il via il primo gruppo
tematico con un fitto brulicare degli archi, in graduale crescendo, che libera la
sua energia in un breve ma incisivo spunto tematico. Il moto degli archi si
articola quindi attraverso diverse sezioni orchestrali culminando in un ostinato
ossessivo che lascia spazio a un breve fugato sul motivo iniziale dei corni. I due
pacati episodi successivi portano al secondo gruppo tematico nel quale
un'incalzante reiterazione di una cellula ritmico-melodica che ricorda una danza
popolaresca, sostiene il brillante e irresistibile motivo della tromba.

Introdotto da un breve sussurro di archi e arpe, lo Sviluppo presenta un vibrante


fugato che prende vita dal malizioso ammiccare del secondo tema, seguito da
ulteriori elaborazioni del tema stesso.
Nella Ripresa il primo tema appare sottoposto a sostanziali variazioni, mentre un
graduale dispiegarsi quasi impercettibile di terzine degli archi sostiene il tema
introduttivo dei corni dilatato dal fagotto, e frammentari ma incessanti interventi
dei fiati. Il trascinante inno alla vita che viene sotteso in quest'ultimo movimento
tocca la sua espressione trionfale con l'esplosione di una potente fanfara degli
ottoni, i cui accenti blues in stile gershwiniano appaiono un evidente omaggio
dell'autore al nuovo mondo che da tre anni lo ospitava. Il secondo tema viene qui
dilatato e stravolto nei suoi valori ritmici, mentre una breve e travolgente
galoppata orchestrale che culmina su un penetrante unisono, e una coda, nella
quale gli ottoni declamano per l'ultima volta un piccolo frammento del secondo
tema, costituiscono gli ultimi imperiosi gesti con cui si chiude il concerto.

Carlo Franceschi de Marchi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

I musicologi dividono per comodità critica di analisi musicale in tre periodi la


produzione bartokiana, comprendente opere teatrali, balletti, pantomime, poemi
sinfonici e rapsodie, pezzi concertanti, pianistici e corali, musiche da camera
varie, quartetti e suites, senza contare le numerosissime raccolte di melodie,
canzoni e danze ungheresi, rumene, serbe, croate, slovene, boeme, bulgare e
greche. Nel primo periodo si avverte l'influenza impressionistica e debussiana,
oltre alla presenza di ritmi e danze di derivazione popolare e nazionalfolclorica.
In tale ambito vanno collocati il poema sinfonico Kossuth (1903), ispirato alla
lotta dell'eroe nazionale ungherese contro gli Asburgo, la Rapsodia op. 1 e i Tre
canti popolari ungheresi (1907), i pianistici Dieci pezzi facili, le Quattordici
bagatelle op. 6 e il Quartetto n. 1 op. 7 per archi (1908), oltre alle Due elegie,
alle Due danze rumene, al celebre Allegro barbaro e all'opera in un atto Il
castello del prìncipe Barbablù: l'uno e l'altra, l'Allegro e Barbablù, recanti la data
del 1911, anno nel quale si esauriscono le ultime fiammate impressionistiche del
musicista transilvano, che mostra peraltro una evidente preferenza per i ritmi
irregolari e le modulazioni sia impetuose che cantilenanti dell'antico canzonismo
popolare.

Il secondo periodo di Bartók, quello impressionistico, è compreso nel decennio


della prima guerra mondiale e dei successivi rivolgimenti politici europei. Viene
avviato con la Sonatina per pianoforte (1915), trascritta per orchestra nel 1931
con il titolo di Tre danze transilvane e si amplia e si consolida con il balletto Il
principe di legno, presentato nel 1917 all'Opera di Budapest dal direttore
d'orchestra romano Egisto Tango, e con l'altro balletto ben più famoso Il
mandarino miracoloso, composto nel 1918-'19. E ancora vanno citati per le
esperienze atonali e politonali il Quartetto n. 2 op. 77 per archi (1915-'17), la
Suite op. 14 per pianoforte (1916), le due Sonate n. 1 e n. 2 per violino e
pianoforte (1921-'22), senza voler dimenticare i Quartetti n. 3 e n. 4 per archi
(1927-'28), che insieme al Primo e al Secondo Concerto per pianoforte e
orchestra, rispettivamente del 1926 e del 1930-'31, lasciano intravedere un
richiamo a modelli neoclassici e di gusto bachiano. Nel pieno di questa stagione
espressionistica gravi avvenimenti incisero sulla vita di Bartók: dalla caduta
dell'impero asburgico, in seguito alla quale il musicista, con Erno Dohnànyi,
Kodàly e altri aderenti al governo popolare di Béla Kun, costituisce una specie di
direttorio inteso a rinnovare le istituzioni musicali d'Ungheria, al crollo dello
stesso Béla Kun, che portò all'estromissione di Bartók dal vertice dell'ambiente
artistico budapestino e al suo isolamento e alla sua crisi familiare con il divorzio
dalla moglie Marta Ziegler e il secondo matrimonio con una giovane allieva, Edith
Pastory, eccellente pianista, che lo spinge a riprendere la carriera del concertista
e a farsi valere anche sul piano internazionale, fuori dei confini ungheresi,
propiziando l'avvento del terzo periodo creativo, il più importante di tutti,
generalmente collocato fra il 1934 e il 1939, allorché vengono alla luce, dopo la
cantata profana I nove cervi fatati, del 1930, dettata da un nobile impegno civile,
il Quartetto n. 5 per archi (1934), la Musica per archi, celesta e percussione
(1936), la Sonata per due pianoforti e percussione (1937), il Concerto per violino
e orchestra (1937-'38), il Divertimento per archi (1939), contemporaneo al
Quartetto n. 6 pure per archi, ultimo della serie iniziata più di trent'anni prima.

A questi lavori si aggiungono come ultimo messaggio della creatività di Bartók la


Sonata per violino solo scritta su richiesta di Yehudi Menuhin e il Concerto per
orchestra, ambedue del 1943-'44, il Concerto per viola e orchestra (1945) e il
Terzo Concerto per pianoforte e orchestra, dello stesso anno, lasciati incompiuti
dal musicista stroncato dalla leucemia a New York il 26 settembre 1945 e morto
in povertà, tanto che le spese dei funerali furono sostenute dalla Società
americana per i diritti d'autore.

Il Concerto per orchestra fu scritto precisamente dal 15 agosto all'8 ottobre


1943 su ordinazione della Fondazione Koussevitzky ed eseguito per la prima
volta a Boston il 1° dicembre del 1944 dalla celebre Orchestra Sinfonica di quella
città. Lo stesso autore spiegò in quella occasione il carattere della composizione
e il perché della scelta del titolo, a!ermando quanto segue: «II complessivo
assunto espressivo del lavoro presenta, se si prescinde dallo scherzoso secondo
movimento, una grande transizione dalla severità del primo tempo e dal lugubre
canto di morte del terzo all'a!ermazione di vita dell'ultimo. Il titolo di questo
lavoro orchestrale simile ad una sinfonia è spiegato dalla tendenza a trattare
ogni singolo strumento dell'orchestra in modo concertante o solistico. Il
trattamento virtuosistico appare per esempio nelle sezioni fugate dello sviluppo
della prima parte (realizzato dagli ottoni) o nei passaggi in guisa di perpetuum
mobile del tema principale che gli archi espongono nell'ultimo movimento, e
soprattutto nel secondo movimento in cui coppie di strumenti si presentano con
brillanti passi».
Il Concerto si apre con una Introduzione lenta (Andante non troppo)
caratterizzata da un indistinto brusìo degli archi, da cui emerge un tema breve
come un inciso, prima enunciato dal flauto, poi ripreso pianissimo a mò di
fanfara dalle trombe, quindi sviluppato dagli archi e dai legni in una vivace
concitazione. Esplode un Allegro vivace con un tema a"dato agli archi
ritmicamente frazionato e rimbalzante ai legni; alla fine interviene il trombone
con una fase marcata e ad ampi intervalli. Diverso è il tono del secondo gruppo
tematico, dove si ritorna ad un movimento più tranquillo e melodico. Al centro si
ode una robusta fanfara degli ottoni, che raccoglie ed esalta secondo un
procedimento fugato il nucleo tematico del trombone già apparso in precedenza
e trattato ora anche ad intervalli rovesciati.

Il secondo movimento reca in italiano il titolo di Giuoco delle coppie ed è un


Allegro scherzando su una melodia umoristica e vagamente grottesca, distribuita
successivamente tra due fagotti, due oboi, due clarinetti, due flauti, due trombe,
in una specie di rassegna degli strumenti a fiato sulla base di un contrappunto
degli archi pizzicati. Un grave e solenne corale degli ottoni funge da Trio
centrale; poi riprende il gioco delle coppie strumentali in un'atmosfera di
scherzose armonie.

L'Elegia del terzo tempo è contrassegnata da un canto intenso e appassionato,


arricchito da screziature e fosforescenze orchestrali di sfumati colori notturni. In
netta contrapposizione psicologica si colloca l'Allegretto del quarto tempo,
recante anch'esso un titolo italiano: Intermezzo interrotto. È un rondò vivace e
popolaresco costruito su tre temi: il primo dal ritmo disuguale; il secondo più
disteso e cantabile, esposto prima dalle viole e poi dai violini; il terzo
accentuatamente caricaturale e riproducente il motivo utilizzato da Sostakovic
nella Settima sinfonia detta "di Leningrado" per descrivere la marcia dell'esercito
nazista durante l'invasione dell'URSS nell'ultima guerra mondiale. A proposito del
secondo tema Massimo Mila ha osservato: «Avrebbe mai ammesso una melodia
simile il Bartók severo, il Bartók dell'avanguardia rigorosa degli Anni Trenta,
l'autore del terzo, quarto e quinto Quartetto, l'autore dei rigidi pezzi pianistici
del Mikrokosmos? È probabile di no. Può darsi che la melodia sia di autentica
origine contadina, ma il sospetto di una certa concessione a compiacimenti
ziganeggianti è inevitabile. Il fatto è che la prospettiva dell'artista, nella
lontananza dell'esilio, è mutata: certi scrupoli di rigore scientifico hanno perduto
un po' della loro ragion d'essere nell'incendio della guerra che devasta la patria
lontana, e un uguale empito di tenerezza forse abbraccia nel ricordo tanto i sobri
contadini della pianura magiara, quanto gli zingari pittoreschi e fanfaroni,
decimati anch'essi dalla persecuzione hitleriana».

Il Presto finale, introdotto da poche battute in tempo pesante con una specie di
motto dei corni, è un vertiginoso intreccio di danze popolaresche. Si ode il suono
festoso delle trombe sul fitto moto perpetuo di violini e viole; si inserisono i
corni e dopo varie alternative il Concerto si conclude con un gioioso fugato dei
flauti, quasi a ria!ermare un sentimento di fiducia nei valori della vita. Da
segnalare infine, l'organico dell'orchestra piuttosto massiccio, con quattro
strumenti per ogni categoria di legni, quattro corni, tre trombe, tre tromboni,
basso tuba, due arpe, una percussione abbastanza nutrita e un proporzionato
schieramento di archi.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

«Scritto per la Koussevitzky Music Foundation in memoria della signora Natalie


Koussevitzky», è detto nella dedica del Concerto per orchestra, commissionato a
Bartók da Serge Koussevitzkjlj nel maggio 1943, composto tra l'agosto e
l'ottobre dello stesso anno ed eseguito per la prima volta a Boston il 1 dicembre
1944, dalla Boston Symphony Orchestrai con Koussevitzky sul podio. «Il titolo di
questa composizione per orchestra - scrisse l'autore in una nota di
presentazione per la prima esecuzione - è spiegato dalla sua tendenza a trattare
certi strumenti o gruppi di strumenti in maniera solistica o concertante». Accanto
ad una tecnica compositiva giunta ormai alla sua massima perfezione trovano
posto, nella partitura, riferimenti più espliciti che in precedenti pagine alla
grande tradizione sinfonica che nutre la formazione bartókiana: quella che reca il
nomi di Brahms, Liszt, Richard Strauss Rimskij-Korsakov.

La forma del Concerto per orchestra, in cinque tempi, o!re un altro esempio
della struttura "a ponte" tipica della maturità bartókiana. Attorno al tempo
centrale (Elegia: Andante non troppo), la cui intensa espressività lirica si avvale di
moduli tematici e ritmici del folclore ungherese, si dispongono una coppia di
tempi esterni (il primo Introduzione: Andante non troppo, Allegro vivace e il
quinto Finale: Pesante) di ampia estensione e nella classica forma-sonata,
accomunati da forti a"nità tematiche. Il secondo e il quarto tempo
(rispettivamente Gioco delle coppie: Allegretto, scherzando e Intermezzo
interrotto: Allegretto) sono entrambi costruiti secondo lo schema ABA di uno
scherzo con trio, e caratterizzati da una scrittura più animata e informale,
elegantemente padrona di se stessa. Val la pena di segnalare che nel Concerto
per orchestra figurano, fatto insuale in Bartók, pagine composte
precedentemente all'insieme della partitura, e originariamente destinate a un
balletto.

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

Ai primi di aprile del 1940 Béla Bartók s'imbarcò a Napoli sul Rex, diretto alla
volta di New York. Sotto il pretesto di un giro di concerti con il violinista Szigeti,
il viaggio aveva un essenziale scopo esplorativo: sondare le possibilità di
residenza e di lavoro negli Stati Uniti, in vista di un eventuale trasferimento.
Nella vecchia, cara Europa, divampavano le fiamme della guerra; da due anni,
dalla annessione che aveva segnato la fine dell'Austria, Bartók viveva in una
tormentosa angoscia, sempre più acuta, per la tragica sequenza delle vicende
d'Europa: anche se, per il momento, l'Ungheria, patria del musicista (era nato a
Nagyszentmiklós nel 1881), non appariva minacciata.

Assunto dalla Columbia University di New York per il biennio 1941/42, con
l'incarico di riordinare e studiare le musiche balcaniche in possesso dell'istituto
(un compito fatto su misura per un musicista da sempre appassionato del canto
popolare e del folclore nazionale della sua terra), Bartók abbandonò
definitivamente l'Europa a fine ottobre del 1940, con la moglie Ditta de
Paszthóry, dopo aver trascorso la sua ultima estate in patria. A Budapest, invano
Zoltàn Kodàly aveva tentato di persuaderlo che il suo posto, in tempi sì oscuri,
era la natia Ungheria. Ma era allora l'Ungheria ancora quella di un tempo?

In un testamento, vergato prima di partire, Bartók vietava fra l'altro che al suo
nome venissero intestate vie o piazze ungheresi, finché sulle targhe della città di
Budapest fossero rimasti impressi i nomi, da poco innalzati a e"mera, funesta
gloria, di Hitler e Mussolini.

Non che Bartók si illudesse troppo sulla sua nuova vita nord-americana:
«Dall'incertezza - aveva confidato agli amici di Budapest - compio il salto verso
una insopportabile sicurezza». I cinque ultimi anni trascorsi in America furono i
più di"cili, amari e tristi, della sua vita. Anzi esacerbati da gravi di"coltà
economiche, soprattutto dopo la scadenza, senza rinnovo, dell'incarico
all'università, e dal progressivo acuirsi del male, una forma di leucemia, che lo
avrebbe condotto alla tomba. A di!erenza del suo grande contemporaneo
europeo legato da un medesimo destino, Arnold Schönberg, Bartók respinse
fermamente ogni concreta o!erta di aiuto finanziario, e altrettanto fermamente
ricusò di impartire redditizie lezioni di composizione, per cui gli americani,
addosso ai quali la guerra aveva fatto piovere una vera manna di esuli della
musica europea, andavano letteralmente pazzi. Ma la composizione, asseriva
Bartók, non si può insegnare. Che poi egli fosse, in assoluto, un mostro di
didatta, è altro discorso: perché in ventisette anni di permanenza come docente
al Conservatorio di Budapest, aveva voluto insegnare sempre solo il pianoforte.

Restava, unica via di uscita, la composizione come attività creativa, se qualcuno


l'avesse patrocinata. Fu così che, su interessamento di due noti musicisti
ungheresi, il direttore d'orchestra Fritz Reiner e il violinista e amico Joseph
Szigeti, nel luglio del 1943 l'allora direttore dell'Orchestra Sinfonica di Boston,
Serge Kussewitzky, chiese a Bartók di scrivere un lavoro orchestrale, da dedicare
alla memoria della consorte Natalie. E, tra agosto e ottobre, nella quiete di un
soggiorno di cura e di riposo a Saranac Lake, Bartók compose il Concerto per
orchestra, primo di quei sommi capolavori in cui si compendia la produzione
americana di Bartók fino alla morte, sopravvenuta, a sessantaquattro anni, il 26
settembre 1945; gli altri essendo la Sonata per violino solo (scritta per il
violinista Yehudi Menuhin), l'incompiuto Concerto per viola (commissionato da
Walter Primrose) e il Terzo Concerto per pianoforte, composto quale lascito e
ricordo alla moglie Ditta, valente pianista.

Il Concerto per orchestra venne eseguito per la prima vola a New York il 1°
dicembre 1944, con esito trionfale, sotto la direzione di Kussewitzky.
L'architettura del lavoro corrisponde a quella di un'ampia Sinfonia in cinque
tempi, ma il titolo di Concerto è giustificato dall'autore stesso, nelle note redatte
per la prima esecuzione: «Il titolo di questo lavoro orchestrale simile a una
sinfonia è dato dalla tendenza a trattare i singoli strumenti dell'orchestra in stile
concertante o solistico. L'elemento virtuosistico si palesa, ad esempio, nelle
sezioni fugate dello sviluppo del primo tempo (ottoni) o nei passaggi a guisa di
moto perpetuo del tema principale dell'ultimo tempo (archi), e specialmente nel
secondo tempo, ove coppie di strumenti entrano successivamente con passaggi
brillanti... L'aspetto generale del lavoro rappresenta, a parte il danzante secondo
tempo, un graduale passaggio dalla severità del primo tempo e dal cupo canto di
morte del terzo all'a!ermazione di vita dell'ultimo tempo».

Nel Concerto per orchestra, pagina di rasserenata e meditata riflessione, quasi


un'oasi di pace dopo tanti tumulti spirituali, rimane in apparenza ben poco
dell'aggressiva tensione ritmica e delle taglienti immagini timbriche di altre
opere orchestrali bartokiane (basti pensare alla Musica per strumenti a corda,
celesta e percussione del 1936), senza che per questo si renda credibile la tesi
secondo cui Bartók sarebbe stato condizionato da «esigenze di mercato» nei
confronti del pubblico americano. Altri, invece, appaiono i valori di cui è
intessuta la preziosa partitura: come se, in sostanza, si trattasse di un ritorno
alle esperienze compiute in gioventù dal maestro, rivisitate ora con la saggezza
dolorosa della vecchiaia, riunendo le espressioni di un patrimonio culturale e
musicale che da Liszt, Brahms, Strauss e financo Debussy arriva al tocco leggero
di quell'autentico filone etnico magiaro, tanto amato e indagato da Bartók nel
corso di tutta la vita.

Una rievocazione ora attonita (la stupenda «musica notturna» del terzo tempo,
intitolato Elegia), ora sferzante di ironia e di malizioso humour (la citazione
fantasiosa, nel quarto tempo, denominato in italiano «Intermezzo interrotto», del
tema del trionfale crescendo della Settima Sinfonia, detta «di Leningrado», di
Sciostakovic, congegnata a bella posta per sottolineare la parentela del tema
«eroico» di Sciostakovic con una frivola canzonetta, di sapore viennese, dalla
Vedova allegra di Lehar). Giustamente ha scritto Massimo Mila: «Il sacro e il
profano, il carattere e il caratteristico, l'essenzialità della melodia contadina
magiara e il pittoresco si conciliano nel Concerto per orchestra, unificati dalla
Stimmung fondamentale che è la nostalgia dell'esule, lo spasimo intenerito della
rievocazione».

Sergio Sablich

www.wikipedia.org

Il Concerto per Orchestra fu composto da Béla Bartók tra il 1942 e il 1943 per la
Fondazione Musicale "Koussevitzky", ed eseguito per la prima volta dalla Boston
Symphony Orchestra diretta da Serge Koussevitzky, il 1º dicembre 1944.

Bartók compose quest'opera a malincuore, anche a causa della sua salute


precaria, nel 1943 presso la residenza di Saranac Lake o!ertagli
dall'Associazione del Compositori Americani. Il Concerto per Orchestra è una
forma insolita ma già usata da altri colleghi, come Paul Hindemith e l'amico
Zoltán Kodály, che il compositore utilizzò non solo per omaggiare con
virtuosismi i membri della Boston Symphony Orchestra, ma anche per richiamare
la struttura del concertino barocco. Bartók stesso fa notare come la struttura sia
concepita ad arco: si parte da un primo movimento austero per giungere a un
finale allegro e ottimista.

Struttura dell'opera

1. Introduzione: Andante non troppo

Si apre con un motivo pentatonico introduttivo, eseguito omofonicamente dagli


archi abbellito da piccoli passaggi dei legni e dei violini. L'Allegro vivace è in
forma-sonata: c'è un primo tema esposto da una fanfara dei tromboni
contrapposto a un secondo tema di carattere più elegiaco a"dato all'oboe,
mentre l'esposizione, più lirica, viene eseguita dal clarinetto e dal corno inglese.
Lo sviluppo è rappresentato da un fugato degli ottoni, interrotto dalla ripresa,
sempre a"data agli ottoni.

2. Gioco delle coppie: Allegretto scherzando

Il nome è riferito all'associazione a coppie dei fiati che svolgono variazioni su un


tema preannunciato, in maniera evidentemente bartokiana, dalle percussioni. Le
variazioni si sviluppano a intervalli paralleli: i fagotti per seste, gli oboi per terze,
i clarinetti per settime, i flauti per quinte e le trombe per seconde. Agli ottoni è
a"data la parte centrale in forma di corale bitematico e tripartito (ABA).

3. Elegia: Andante non troppo


Questo lamento funebre, in cui i legni e l'arpa si contrappongono agli archi che
imitano il tema iniziale rivisto in chiave lugubre, viene risvoltato in un ambito più
ottimista dopo un assolo di ottavino che introduce lo sviluppo a"dato agli archi.

4. Intermezzo interrotto: Allegretto

Viene ancora richiamata l'introduzione iniziale che si lega, con un passaggio


a"dato ai legni, a una melodia popolare ungherese. L'interruzione
dell'intermezzo è rappresentata da un richiamo alla settima Sinfonia di
Šostakovič, eseguita dal clarinetto sopra un accompagnamento meccanico degli
archi che richiama sia i primi quartetti di Bartók che forme come la polka e il
fox-trot nella ritmica. La parodia del motivo di Šostakovič rappresenta l'avanzata
del nazismo in maniera ironica e sbe!eggiata.

5. Finale: Pesante - Accelerando al Presto

Anche il finale è in forma-sonata ed è ricco di riferimenti popolari (ne esistono


due versioni). Una fanfara di corni anticipa un moto perpetuo a"dato agli archi e
ai legni che lo riprendono in chiave più bucolica, mentre gli ottoni seguono
presentando un altro motivo più trionfale. Questo movimento rappresenta la
parte più virtuosistica e "concertante" di tutta la composizione.

Strumento solista e orchestra

35 1904

Scherzo (o Burlesque)

https://www.youtube.com/watch?v=Qns_LSfTaKs

Per pianoforte e orchestra

Organico: pianoforte solista, ottavino, 3 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti


piccoli, 2 clarinetti, 3 fagotti, controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni,
basso tuba, timpani, piatti, grancassa, triangolo, campanella, cassa chiara,
tamburo militare, tam-tam, 3 arpe, archi
Prima esecuzione, Budapest, 28 settembre 1961
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1961

36b 1904

Rapsodia per pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=ryevLf91Dyk
https://www.youtube.com/watch?v=urXl-k876Ls

https://www.youtube.com/watch?v=dRn7y7VjmVE

https://www.youtube.com/watch?v=rEXVr6C4MT4

Organico: pianoforte solista, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, clarinetto


basso, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, traingolo, tamburo
piccolo, piatti, grancassa, tam-tam, archi
Composizione: novembre 1904
Prima esecuzione: Parigi, inizio agosto, 1905
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1901
Vedi al BB 36a la versione originale per pianoforte

48a 1907

Concerto per violino n. 1

https://www.youtube.com/watch?v=J2HlpbESkic

https://www.youtube.com/watch?v=RQVWIrHfke4

https://www.youtube.com/watch?v=CLDn-F2Q4Gs

https://www.youtube.com/watch?v=-4ek7KOBk7c

Andante sostenuto
Allegro giocoso

Organico: violino solista, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti,


clarinetto basso, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 2 tromboni, basso tuba, timpani,
triangolo, grancassa, 2 arpe, archi
Composizione: Jászberény, 1 luglio 1907 - Budapest, 5 febbraio 1908
Prima esecuzione: Basilea, 30 maggio 1958
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1959
Dedica: Ste" Geyer
Il primo movimento è il primo dei Due ritratti BB 48b

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Stefi Geyer era una delle migliori allieve di Jenõ Hubay nella classe di violino
dell'Accademia Liszt di Budapest. Bartók la conobbe nel 1907, in occasione di un
concerto dell'Accademia, dove il giovane pianista e compositore aveva appena
ottenuto una cattedra di pianoforte. Stefi, di diciotto anni, aveva una bellezza
melanconica e languida, che unita a un talento musicale di prim'ordine provocò
un contraccolpo immediato sull'animo del giovane e brillante docente. Bartók
iniziò a corteggiare la giovane violinista a suon d'interminabili lettere, in cui
riversava l'ardente flusso delle molteplici idee e riflessioni che ribollivano nella
sua mente, spaziando dalla musica alla filosofia, alla religione, alla poesia, alla
politica. In termini pratici, la strategia di Bartók si rivelò fallimentare, perché la
veemenza e il radicalismo delle sue opinioni, soprattutto in materia di ateismo e
di rifiuto della religione, finirono per spaventare la ragazza, che continuava a
proclamarsi troppo giovane e inesperta per sostenere quel confronto
intellettuale, fino a costringerla a chiudersi in un freddo silenzio, probabilmente
penoso per entrambi. Per dare un esempio della mancanza di tatto dell'irruento
corteggiatore, un passo di una lettera a Stefi del 27 luglio 1907, scritta durante
un viaggio di ricerca sui monti della regione Csik per raccogliere canti popolari,
recita: «Lavori il cui contenuto non si eleva oltre una certa altezza possono
essere compresi da ragazzi tanto quanto da coloro che 'hanno so!erto molto'. In
tali lavori, le emozioni espresse sono più generiche e molto meno complesse,
sono emozioni che potrebbero essere appropriatamente espresse più o meno
con una parola: dolore, furore, gentilezza, eccetera. Dal momento che un
ragazzo ha già fatto esperienza di tali sentimenti, è in grado di provarli. Per
esempio, il Concerto per violino di Mendelssohn è uno di questi lavori. Ho
accompagnato molte volte questo lavoro quando avevo undici anni, e ricordo
assai bene come mi sentivo; in e!etti, molto meglio di adesso, perché al
presente lo trovo noioso...». Non era probabilmente la frase più galante da dire a
una giovane violinista, che sicuramente profondeva tutta l'anima suonando il
Concerto di Mendelssohn. In conclusione, verso metà settembre Bartók riceve da
Stefi un paio di lettere che mettono definitivamente in so"tta i suoi sogni
sentimentali: «Appena ho finito di leggere la tua lettera, ero quasi in lacrime - e
questo, come puoi immaginare, non è una cosa che mi accada ogni giorno». Più
avanti, l'amareggiato compositore aggiunge una frase significativa, che illustra
bene l'atteggiamento di Bartók anche per il resto della sua vita: «Dopo aver letto
la tua lettera, mi sono seduto al pianoforte - avevo il triste presentimento che
non troverò mai una consolazione nella vita tranne che nella musica».

Il dono d'addio per il suo bell'amore perduto, infatti, è un Concerto per violino,
che Bartók invia a Stefi nel febbraio 1908, forse nella vaga speranza di
riaccendere in lei la fiammella sentimentale. Anche questa volta andò male,
perché come tutta risposta Stefi decise di interrompere i rapporti con
l'ingombrante corteggiatore, pur conservando il manoscritto fino all'ultimo
giorno. Stefi Geyer divenne poi una violinista di primo piano, ammirata da
compositori come Alban Berg e Othmar Schoeck, ma non volle mai eseguire in
pubblico né rendere noto il Concerto scritto per lei da Bartók, anche quando
negli anni Trenta riallacciò in Svizzera i rapporti con il suo antico spasimante,
aiutandolo tra l'altro a espatriare negli Stati Uniti.
Solo dopo la sua morte, avvenuta a Zurigo nel 1956, il lavoro è stato pubblicato
e introdotto nel catalogo di Bartók come Primo Concerto. La prima esecuzione
avvenne il 30 maggio 1958 a Basilea, con Hans-Heinz Schneeberger come solista
e Paul Sacher come direttore. In e!etti, più che un vero Concerto, si tratta di una
fantasia concertante per violino e orchestra, divisa in due parti. L'intenzione di
Bartók era di ra"gurare musicalmente la personalità di Stefi, la donna amata nel
primo movimento e la violinista ammirata nel secondo. Avrebbe dovuto esserci
anche un terzo movimento, nel quale dipingere l'aspetto freddo e distante di
Stefi, ma come scrisse l'autore ne sarebbe venuta fuori una musica troppo
orribile. L'idea del ritratto è confermata, inoltre, dal fatto che il primo movimento
fu poi trasformato nel primo dei Két portré (Due ritratti, BB 48b), eseguiti a
Budapest nel 1909 con solista Imre Walbauer. Tuttavia, il Concerto non era
soltanto il ritratto di Stefi, ma anche un autoritratto dell'autore, e del travaglio
spirituale che stava attraversando in quella fase di transizione. La passione per
Stefi, infatti, si tinge fin dall'inizio di un colore tristaniano, con accenti di
dolorosa rinuncia all'amore e di piaga incurabile. Il tema stesso di Stefi, intonato
in apertura dal violino solo, è una triade di re maggiore alla quale si aggiunge un
do diesis, una settima maggiore irrisolta, che crea una tensione melodica
spalancata sulla prospettiva dell'infinito.

Numerosi riferimenti musicali al Tristan, nascosti tra le pieghe della preziosa


scrittura orchestrale, si mescolano a reminiscenze della musica contadina,
scoperta più o meno negli stessi anni in cui si era risvegliata la passione per
Stefi. Bartók s'immedesima nella figura di Tristano, che giace ferito a morte nella
luce spenta dell'alba sui bastioni di Kareol. In una lettera a Stefi del 27 novembre
parla del tema principale nato in 'un'ora grigia'. Questo lontano riferimento al
Liebestod di Wagner s'infiltra in maniera sottile nella musica di Bartók, che trae
dalla triade con la settima maggiore anche il materiale tematico dell'Allegro
giocoso successivo, in una sorta di rovesciamento grottesco e deformato
dell'accordo iniziale. Il significato tragico di questo grumo di relazioni è svelato
dal contemporaneo Quartetto per archi n. 1, che nasce riprendendo il tema del
secondo movimento del Concerto, indicato da Bartók come il suo 'lamento
funebre'.

La musica come 'unica consolazione', tuttavia, non va intesa come un banale


unguento per lenire le bruciature sentimentali, bensì come la cognizione sempre
più chiara e precisa che solo l'arte è in grado di esprimere la complessità
dell'esperienza umana, laddove le parole non riescono che a dipingerle in
maniera ambigua. Questa rivelazione estetica e morale, legata in particolare alla
contemporanea scoperta del pensiero di Nietzsche, e in particolare di
Zarathustra, prende forma, paradossalmente, tanto nell'ascolto del Quartetto op.
131 di Beethoven quanto nell'esperienza esaltante della musica contadina.
Bartók, forte della conoscenza diretta della realtà rurale, non aveva per niente
una visione idealistica e rousseauniana della campagna, di cui aveva
sperimentato in prima persona il lato degradante e violento. Eppure, la musica
contadina aveva lasciato un'impronta indelebile in lui per la concisione e
schiettezza dell'espressione musicale, capace di esprimere senza retorica ed
e!usione sentimentale la complessità dei sentimenti umani, che non possono
essere compressi in una sola parola. Questa nuova convinzione estetica, che
accompagnerà Bartók per tutto il resto della vita, si forma proprio a partire dal
Concerto per violino nato sull'onda dell'incontenibile passione, o forse
dell'immagine di amore e morte costruita inconsapevolmente dentro di sé, per
Stefi Geyer. In una lettera del 7 dicembre 1907 a Stefi si scorge un indizio del
valore di questo Concerto, che in parte è stato trasferito da Bartók in un altro
lavoro, ma in parte era troppo legato alla figura di Stefi per trovare una
collocazione per così dire esterna: «Sai che cosa significa questo lavoro per me?
No, non lo sai. Ti risponderò così: tutto. E per te?».

Oreste Bossini

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il Primo Concerto per violino e orchestra è un lavoro giovanile di Bartok riportato


alla luce soltanto recentemente. Esso fu composto dal musicista fra il 1907 e il
1908 e fu dedicato alla violinista ungherese Sten Geyer, nelle cui mani il
manoscritto rimase, mentre l'opera non veniva registrata né nel catalogo
bartokiano compilato da Kodaly, né in quello compilato dal Dille e riveduto dallo
stesso Bartok. Dopo la morte della Geyer, il Concerto è riemerso ed è stato
eseguito per la prima volta il 30 maggio 1958 al Festival bartokiano di Basilea
sotto la direzione di Paul Sacher e con la partecipazione solistica di Hans-Heinz
Schneeberger. Oscillante fra un estremo cromaticismo e il caratteristico
diatonismo a base modale di cui Bartok si varrà abbondantemente in seguito, il
Concerto consta di due tempi: un monotematico Andante sostenuto di
introduzione ed un esteso Allegro giocoso rapsodicamente intramezzato da
episodi di andamento più lento (Meno allegro e rubato - Poco più sostenuto -
Molto sostenuto).

Il materiale del primo tempo fu in seguito utilizzato da Bartok per il primo dei
suoi Due Ritratti.

Alberto Pironti

www.wikipedia.org

Storia
Il Primo Concerto per violino e orchestra fu terminato nel 1908, un anno
particolarmente felice per il compositore ungherese sotto il profilo creativo. Le
sue attenzioni verso la pedagogia lo avevano spinto in quell'epoca a scrivere una
serie di brani pianistici con il fine di colmare le lacune del repertorio per i
principianti; nacque così la prima serie di ventiquattro pezzi tratti da canzoni
popolari ungheresi e slovacche costituente il ciclo Per i bambini. Nel maggio di
quello stesso anno Bartók completò un’altra composizione pianistica, le 14
Bagatelle op.6, e inoltre terminò il suo primo quartetto per archi in la minore op.
7, salutato dal suo fraterno amico e collega Zoltán Kodály quale capolavoro
«come non ne erano stati più scritti dagli ultimi Quartetti di Beethoven».
L’ispirazione a comporre il suo Primo Concerto per violino Bartók la ebbe nel
periodo in cui durò la breve amicizia per la violinista Stefi Geyer (1888-1956), da
lui conosciuta allorché era professore di pianoforte all’Accademia musicale di
Budapest[2]. Rimasto a!ascinato dalla talentuosa diciannovenne ragazza, allieva
di Jenő Hubay (professore di violino anche del direttore d’orchestra Eugene
Ormandy)[3], Bartók iniziò a lavorare sulla partitura del Primo Concerto il 1º
luglio 1907, alcuni giorni dopo aver compiuto un viaggio a Jászberény, villaggio
situato a una sessantina di chilometri a est di Budapest.

Ma poco tempo dopo aver terminato la partitura il 5 febbraio, Bartók dovette


prendere atto che la sua relazione con la violinista si andava deteriorando. La
ragione di ciò sembra sia stata dovuta ad una inconciliabile divergenza di
opinioni in materia di religione. In una lettera datata 6 settembre 1907, Bartók
aveva confessato a Stefi il proprio ateismo; una convinzione di cui si sarebbe
ricreduto solo diversi anni dopo allorché si convertì (lui, nato da una famiglia di
tradizione cattolica) alla fede religiosa unitaria. La rottura del rapporto indusse
Bartók alla drastica decisione di mutilare il Concerto, utilizzando il suo primo
movimento come il primo dei Due ritratti op. 5 recante il sottotitolo “Un
ideale” (mentre il secondo “Un’immagine deformata”, quasi una caricatura
be!arda dell’ideale puro e agognato che lo precede, è la versione orchestrale
della quattordicesima bagatella per pianoforte); quanto alla partitura originale
del Concerto, essa fu gelosamente custodita dalla Geyer fino alla sua morte e
a"data al direttore d’orchestra Paul Sacher, che ne diresse la prima esecuzione
assoluta il 30 marzo 1958 a Basilea, con la parte solistica assegnata al violinista
svizzero Hansheinz Schneeberger.

Struttura

Fino al gennaio 1908, Bartók meditava ancora di scrivere un concerto nei


tradizionali tre tempi, ma poi preferì articolare l’opera in due soli movimenti dal
forte contrasto: il primo concepito come «un ritratto musicale idealizzante di
Stefi Geyer, trascendente e intimo» ed il secondo ra"gurante invece «la vera
Stefi, gaia, spiritosa e divertente».
Andante sostenuto

Il primo movimento si caratterizza per il motivo musicale formato dalle note Re -


Fa diesis - La - Do diesis in ordine ascendente che in una lettera del settembre
1907 Bartók presentò a Stefi scrivendo: «ecco il tuo leitmotiv»[8]. Esso è
introdotto dal solista, al quale sono a"date le prime sette battute senza
accompagnamento orchestrale. Gli altri strumenti entrano progressivamente,
senza mai dimenticare il tema introduttivo, che ricompare con grande evidenza
ad opera dei fiati all’unisono, mentre il violino solista si libra per una tessitura
più acuta. Tra cromatismi esasperati, il solista ritorna timidamente al tema, ma
un tono e mezzo più sotto, mutandolo tuttavia dopo le prime cinque note, poi
cede il passo all’orchestra per un breve interludio sinfonico (in tempo Poco meno
sostenuto)[4], in cui gli oboi hanno un ruolo da protagonisti. Dopo una breve
solenne declamazione degli archi, il solista ripete variamente il tema, dapprima
accompagnato dai primi violini e dai flauti, poi con il sostegno di una robusta
fanfara di trombe, tromboni e basso tuba e successivamente del triangolo e
dell’arpa; infine, conclude il movimento quasi zittendo l’orchestra nelle ultime
sette battute in cui ripropone con tenace lirismo l’iniziale modulo ascendente del
tema.

Allegro giocoso

Il secondo movimento, al contrario del precedente in cui domina dal principio


alla fine il motivo dell’Ideale, comprende una molteplicità di temi, talvolta
appena annunciati ma sempre ripresi. Un primo tema, dal carattere energico e
vigoroso, è presentato dal solista, dapprima senza accompagnamento e
successivamente con il sostegno di brevi interventi orchestrali. Un secondo tema,
più amabile e tranquillo del precedente, prende inizio su due lunghi sol bassi e si
innalza con intervalli che richiamano il tema del precedente movimento. Un terzo
tema, in tempo Meno allegro e rubato, è di struttura discendente, quasi
un’inversione del primo citato[4]. La natura scherzosa, quasi burlesca del
secondo movimento è sottolineata dall’intervento in forma di gruppetti dei
fagotti, violoncelli e contrabbassi. Il virtuosismo del solista aumenta, interrotto
da un interludio sinfonico e da un episodio in tempo Molto sostenuto nel quale
viene ripreso e variato un tema precedente. Poi, l’orchestra sembra volersi poco
a poco ritirare lasciando il solista senza accompagnamento; a questi, dopo uno
“stringendo” e “ritardando e diminuendo” si direbbe che spetti concludere con
una reminiscenza del tema “ideale”. Ma dopo una breve pausa, cinque battute
dell’orchestra capovolgono la situazione[4] suggellando il concerto con una
stentorea perorazione finale.

91 1926

Concerto per pianoforte n. 1


https://www.youtube.com/watch?v=oWSnyJ-UJho

https://www.youtube.com/watch?v=sYAc8PROp9U

https://www.youtube.com/watch?v=97HvdYjOYrY

https://www.youtube.com/watch?v=koC1q_7DYBs

https://www.youtube.com/watch?v=q9Fq5lUGKv0

Allegro moderato
Andante
Allegro molto

Organico: pianoforte solista, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti,


clarinetto basso, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 2 tromboni, trombone basso,
timpani, cassa chiara senza timbro, idem con timbro, triangolo, piatti, grancassa,
tam-tam, archi
Composizione: agosto - novembre 1926
Prima esecuzione: Francoforte, 1 luglio 1927
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1927

Guida all'ascolto (nota 1)

Bartók è una personalità di spicco nel panorama della musica del Novecento e la
sua ricerca artistica ha una originalità che gli deriva dalla estrema mobilità e
variabilità tematica e dall'uso di accordi dissonanti di gusto espressionistico,
rielaborati dal materiale folclorico magiaro e balcanico, in funzione anche di
contestazione della tradizione "colta" europea. Egli stesso nella sua autobiografia
ha spiegato il significato e il valore dello studio e della scoperta "in forma
scientifica" della musica contadina della sua terra, che lo «portò decisamente
all'emancipazione dallo schematismo dei sistemi allora in uso, basati
esclusivamente sui modi maggiore e minore».

I musicologi dividono per comodità critica di analisi musicale in tre periodi la


produzione bartokiana, comprendente opere teatrali, balletti, pantomime, poemi
sinfonici e rapsodie, pezzi concertanti, pianistici e corali, musiche da camera
varie e quartetti e suites, senza contare le numerosissime raccolte di melodie,
canzoni e danze ungheresi, rumene, serbe, croate, slovene, boeme, bulgare e
greche. Nel primo periodo si avverte l'influenza impressionistica e debussiana,
oltre alla presenza di ritmi e danze di derivazione popolare e nazionalfolclorica.
In tale ambito vanno collocati il poema sinfonico Kossuth (1903), ispirato alla
lotta dell'eroe nazionale ungherese contro gli Asburgo, la Rapsodia op. 1 e i Tre
canti popolari ungheresi (1907), i pianistici Dieci pezzi facili, le Quattordici
bagatelle op. 6 e il Quartetto n. 1 op. 7 per archi (1908), oltre alle Due elegie,
alle Due danze romene, al celebre Allegro barbaro e all'opera in un atto Il
castello del principe Barbablù: l'uno e l'altra, l'Allegro e Barbablù, recanti la data
del 1911, anno nel quale si esauriscono le ultime fiammate impressionistiche del
musicista transilvano, che mostra peraltro una evidente preferenza per i ritmi
irregolari e le modulazioni sia impetuose che cantilenanti dell'antico canzonismo
popolare.

Il secondo periodo di Bartók, quello espressionistico, è compreso nel decennio


della prima guerra mondiale e dei successivi rivolgimenti politici europei. Viene
avviato con la Sonatina per pianoforte (1915), trascritta per orchestra nel 1931
con il titolo di Tre danze transilvane e si amplia e si consolida con il balletto Il
principe di legno, presentato nel 1917 all'Opera di Budapest dal direttore
d'orchestra romano Egisto Tango, e con l'altro balletto ben più famoso Il
mandarino miracoloso, composto nel 1918-'19. E ancora vanno citati per le
esperienze atonali e politonali il Quartetto n. 2 op. 17 per archi (1915-'17), la
Suite op. 14 per pianoforte (1916), le due Sonate n. 1 e n. 2 per violino e
pianoforte (1921-'22), senza voler dimenticare i Quartetti n. 3 e n. 4 per archi
(1927-'28), che insieme al Primo e al Secondo Concerto per pianoforte e
orchestra, rispettivamente del 1926 e del 1930-'31, lasciano intravedere un
richiamo a modelli neoclassici e di gusto bachiano, anche se intesi con
sensibilità moderna. Nel pieno di questa stagione espressionistica gravi
avvenimenti incisero nella vita di Bartók: dalla caduta dell'impero asburgico, in
seguito alla quale il musicista, con Erno Dohnànyi, Kodàly e altri aderenti al
governo popolare di Bela Kun, costituisce una specie di direttorio inteso a
rinnovare le istituzioni musicali d'Ungheria, al crollo dello stesso Bela Kun, che
portò all'estromissione di Bartók dal vertice dell'ambiente artistico budapestino e
al suo isolamenteo e alla sua crisi familiare con il divorzio dalla moglie Marta
Ziegler e il secondo matrimonio con una giovane allieva, Edith Pastory, eccellente
pianista, che lo spinge a riprendere la carriera del concertista e a farsi valere
anche sul piano internazionale, fuori dei confini ungheresi, propiziando l'avvento
del terzo periodo creativo, il più importante di tutti, generalmente collocato fra il
1934 e il 1939, allorché vengono alla luce, dopo la cantata profana I nove cervi
fatati, del 1930, improntata ad un nobile impegno civile il Quartetto n. 5 per
archi (1934), la Musica per archi, celesta e percussione (1936), la Sonata per due
pianoforti e percussione (1937), il Concerto per violino e orchestra (1937-'38), il
Divertimento per archi (1939), contemporaneo al Quartetto n. 6 pure per archi,
ultimo della serie iniziata più di trent'anni prima.

A questi lavori si aggiungono come ultimo messaggio della creatività di Bartók la


Sonata per violino solo scritta su richiesta di Yehudi Menuhin e il Concerto per
orchestra, ambedue del 1943-'44, il Concerto per viola e orchestra (1945) e il
Terzo concerto per pianoforte e orchestra, dello stesso anno, lasciati incompiuti
dal musicista stroncato dalla leucemia a New York il 26 settembre 1945 e morto
in povertà, tanto che le spese dei funerali furono sostenute dalla Società
americana per i diritti d'autore.

Il Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra fu scritto da Bartók tra l'agosto e il


novembre del 1926 e la prima esecuzione ebbe luogo il 1° luglio 1927 a
Francoforte con l'orchestra diretta da Wilhelm Furtwaengler e lo stesso autore al
pianoforte, senza grande successo per lo stile essenzialmente ritmico e tagliente
a"dato alla parte del solista, lontana da qualsiasi abbandono melodico e di
stampo romantico. Nella struttura e nel linguaggio tale Concerto risente una
certa influenza del Concerto per pianoforte e orchestra a fiati composto nel 1924
da Stravinsky: infatti il discorso musicale punta in prevalenza sui fiati e sulla
percussione e presenta un carattere rapsodico ed estremamente vario nella
tessitura timbrica e ritmica. Una pulsazione secca e precisa si avverte sin
dall'Allegro moderato, in cui il pianoforte si esprime con sonorità nette e ben
marcate, secondo una concitazione vivace e senza respiro, sorretta da una solida
tessitura strumentale. L'Andante del secondo tempo è caratterizzato da una
progressione insistente e ripetitiva indicata dal pianoforte e ra!orzata in un
rapporto dialogante sempre dai fiati e dalla percussione. Si respira un'atmosfera
di marcia funebre e alla fine tutto si dissolve tra accordi sfumati e delicatamente
pensosi. L'Allegro molto del terzo tempo si snoda tra brillanti sfaccettature
ritmiche e festosi accenti folclorici, con timpani e batteria dialoganti con il
pianoforte, che assume un ruolo di travolgente e serrato virtuosismo, quasi a
richiamarsi in un certo senso alla migliore tradizione dei concerti per strumento
a tastiera e orchestra.

www.wikipedia.org

Storia

Il Primo Concerto per pianoforte e orchestra viene composto da Bartók nel 1926,
lo stesso anno in cui furono create altre importanti opere pianistiche quali la
Sonata, i Nove piccoli pezzi e la suite All’aria aperta; il genio del compositore
ungherese, osserva Massimo Mila, si estendeva a «tutta la gamma delle
possibilità concertistiche: dal grande pezzo di concerto solistico a quello con
orchestra, sino a composizioni più frammentarie, a cui attingere magari persino i
bis». La maggior parte di questi lavori lascia intravedere un momentaneo
accostamento di Bartók alla cosiddetta “tendenza neoclassica” che da Parigi
esercitava in quel periodo una notevole influenza sul mondo della musica. È il
caso, ad esempio, della Sonata per pianoforte che presenta alcune a"nità con la
Sonata composta due anni prima da Igor Stravinski, specie per quanto riguarda
la ferma scrittura contrappuntistica e modale. Nella stessa direzione della Sonata
si muove il Primo Concerto, nel quale Bartók accentua il carattere di percussione
con cui è brutalmente trattato il pianoforte; in questi lavori si avverte
l’accostamento del musicista ungherese a un sommo maestro del passato che
per lungo tempo gli era completamente estraneo: Johann Sebastian Bach. In
proposito, nella lettera che scrisse al critico Edwin von der Nüll nel 1928, Bartók
precisò: «Nella mia giovinezza il mio ideale di bellezza non era tanto la maniera
di Mozart o di Bach, quanto quella di Beethoven». E aggiungeva: «Negli ultimi
anni mi sono interessato molto anche a musica pre - bachiana, e credo che se ne
possano scorgere le tracce, per esempio, nel Concerto per pianoforte e nei Nove
piccoli pezzi». Tuttavia, pur applicandosi al culto della scrittura
contrappuntistica, Bartók non parla mai per bocca di Bach o di Händel, né egli si
piega (a di!erenza di altri grandi compositori suoi contemporanei come André
Bloch, Jaroslav Vogel, William Walton, Casella o Petrassi) all’imitazione di forme e
locuzioni antiche. Egli non scrive concerti grossi, né passacaglie, né partite e
nemmeno pensa a parafrasare i Concerti Brandeburghesi. Pur servendosi di un
linguaggio contrappuntistico, egli rimane un musicista moderno e non cessa mai
di parlare in prima persona.

Struttura

Il Primo Concerto per pianoforte fu composto tra l’agosto ed il novembre del


1926 e, per Paolo Petazzi, può essere considerato «come una personale risposta
di Bartók a certe istanze di!use nel clima culturale degli anni venti,
dall’oggettivismo neoclassico al gusto per un saldo costruttivismo e per il
contrappunto bachiano. Ma la poetica di Bartók resta estranea al gusto ironico
del “pastiche” e della “musica al quadrato”: nella sua aspra, severa, rigorosa
concezione, il Concerto n. 1 rivela una compattezza ed una forza d’urto tutte
proprie». Per il suo autore, «dal punto di vista dell’orchestra è un pezzo
eccezionalmente di"cile»; in e!etti l’opera appariva ancora a distanza di oltre
quarant’anni dalla sua prima esecuzione - avvenuta nel luglio 1927 a
Francoforte sul Meno sotto la direzione di Wilhelm Furtwängler (di solito non
molto indulgente verso la musica moderna) e con Bartók al pianoforte - di un
modernismo tale da sorprendere un pubblico non su"cientemente preparato,
nonostante la tradizionale ripartizione in tre movimenti. Bartók ha concepito il
suo Primo Concerto con l’idea di trasformare la tecnica di scrittura del pianoforte
secondo formule decisamente moderne e dai tratti essenzialmente nuovi. Al di
fuori dell’alternanza classica tra il solista e l’orchestra, il compositore ungherese
tenta in quest’opera ardita un’esplorazione del suono in sé anticipatrice delle
future tendenze musicali. La tessitura grave è condotta in opposizione a frasi
lineari acute, mentre la tecnica del pianoforte, per contro, si accorda alle
percussioni. Ciascuno strumento dell’orchestra è investito di una funzione
solistica, che assicura una ritmica dominante.

Allegro moderato - Allegro


L’introduzione al primo movimento presenta immediatamente alcuni dei caratteri
essenziali del Concerto; in particolare emerge una cellula melodica elementare
da cui trae origine gran parte del materiale dell’opera. Dopo le prime martellanti
note del pianoforte (nel registro grave) con il sostegno dei timpani, il solista
espone il primo tema, l’unico che presenti un profilo chiaramente delineato,
mentre le idee successive hanno minore ampiezza e si presentano più come
brevi nuclei motivici che come temi veri e propri. Giacomo Manzoni riconosce qui
«il Bartók “barbaro”, amante delle rudi dissonanze e delle brusche inflessioni
cromatiche, scalpitante e nervoso nei ritmi come lo sanno essere solo le più
sfrenate danze campagnole dell’Ungheria ». Benché sia ravvisabile nel
movimento lo schema esposizione - sviluppo - ripresa della forma sonata, la
logica che regge la costruzione si rivela assai di!erente da quella classica e
combina ed elabora il materiale motivico all’interno di un serrato intreccio
contrappuntistico, avvalendosi peraltro di frequente della tecnica dell’ostinato.

Andante - Allegro – attacca

Nel secondo movimento Bartók fa tacere gli archi, a"dando l’introduzione a un


dialogo tra il solista e gli strumenti a percussione che apre l’orizzonte a nuovi e
sottili rapporti timbrici. Nella sezione centrale del movimento, ripartito secondo
lo schema A - B - A', il pianoforte ripete un disegno ostinato che fa da sfondo a
un passaggio in crescendo degli strumenti a fiato. “L’attacca” al successivo
movimento si configura come un breve momento di transizione ed è singolare
per l’intervento dei tromboni il cui quasi caricaturale glissando sembra anticipare
l’Intermezzo interrotto del Concerto per Orchestra.

Allegro molto
Nel terzo movimento, che si distingue dal precedente per la trascinante
animazione ed il clima più vivace, Bartók ridà voce agli archi il cui ostinato fa da
sfondo all’enunciazione del primo tema. Le idee successive, analogamente al
primo movimento, non si configurano come temi veri e propri ma piuttosto come
varianti di un unico nucleo. Si possono ravvisare relazioni tra il materiale
tematico del primo e del terzo movimento, anche se non sistematicamente
costruite come nel successivo Secondo Concerto per pianoforte.

94b 1928

Rapsodia per violino e orchestra n. 1

https://www.youtube.com/watch?v=VuMTISOHRKg

https://www.youtube.com/watch?v=dPZ_NFyn5Xw
Organico: violino solo, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2
fagotti, controfagotto, 2 corni, 2 trombe, trombone, basso tuba, cimbalom, archi
Prima esecuzione: Königsberg, 1 novembre 1929
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1929
Dedica: Josef Szigeti
Trascrizione della Rapsodia per violino e pianoforte n. 1; vedi BB 094a

96b 1928

Rapsodia per violino n. 2

https://www.youtube.com/watch?v=nDt2Pfg4TnQ

https://www.youtube.com/watch?v=0rn0iC60j-0

Organico: violino solo, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti,


clarinetto basso, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, trombone, basso tuba, timpani,
cassa chiara, triangolo, piatti, grancassa, pianoforte, celesta, arpa, archi
Prima esecuzione: Budapest, 26 novembre 1929
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1929
Dedica: Zoltán Székely
Trascrizione della Rapsodia per violino e pianoforte n. 2; vedi BB 96a

101 1930 - 1931

Concerto per pianoforte n. 2

https://www.youtube.com/watch?v=Gv6SLY6t4rE

https://www.youtube.com/watch?v=5NMDM-UgXlA

https://www.youtube.com/watch?v=snMiVyQ1xVs

Allegro
Adagio, Presto, Adagio
Allegro molto

Organico: pianoforte solista, 3 flauti (3 anche ottavino), 2 oboi (2 anche corno


inglese), 2 clarinetti (2 anche clarinetto basso), 3 fagotti (3 anche controfagotto),
4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, tamburo, triangolo, piatti,
grancassa, archi
Composizione: ottobre 1930 - settembre, ottobre 1931
Prima esecuzione: Francoforte, 23 gennaio 1933
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1932
Guida all'ascolto (nota 1)

Bela Bartók è stato uno dei più grandi compositori-pianisti del nostro secolo, con
Prokof'ev e Rachmaninov, anzi, a giudizio di qualcuno che li aveva ascoltati tutti
e tre, egli era il più sicuro, il più schietto, il più essenziale, il più grande,
insomma. Nelle sue esecuzioni, anche in quelle dei classici del pianismo (e dei
poemi di Richard Strauss trascritti per pianoforte!) l'energia e la potenza
espressiva erano impressionanti senza essere a!atto virtuosistiche. Si
comprende, dunque, che tra i suoi lavori la musica pianistica abbia per noi oggi
un'indole speciale, si direbbe biografica, nel senso che ci è lecito immaginare
un'immediata ed esplicita rispondenza di attitudini e caratteri tra la creazione
oggettiva e il creatore, quasi che egli non l'avesse sentita in sé e scritta solo con
il suo genio creativo ma anche per il proprio talento interpretativo. Infatti egli era
un interprete eccelso della sua musica. Si sa, lo stesso vale per Liszt (Chopin è
isolato e unico), per Prokof'ev, per Rachmaninov, ma nel caso di Bartók la
concentrazione dei mezzi e l'asciutto rapporto tra contenuti emotivi ed
espressione ci suggeriscono, nella sua musica per pianoforte, una specie di
identità tra l'artista e il suono, tra l'invenzione e l'esecuzione, o addirittura tra
l'improvvisazione del grande pianista e l'elaborazione del musicista
(elaborazione che era accuratissima). Anche se poi questa musica non è quasi
mai ideata e scritta nei modi del pianismo tradizionale, non ha nulla di consueto
nel lessico e nella sintassi, e dunque non è musica per pianisti (Bartók, avendo
quelle capacità tecniche che aveva, non componeva al pianoforte), proprio per
questo il rapporto tra immaginazione e carattere dell'artista e la pagina creata ci
appare intrinseco e necessario.

Così è per il Secondo Concerto per pianoforte e orchestra (nel catalogo Szòllòsy
è il n. 95). Bartók lo compose dall'ottobre del 1930 al novembre del 1931,
dunque quattro anni dopo il Primo Concerto, nel quale si avverte già la
disposizione a un'invenzione, e quindi a uno stile, di natura meno concentrata e
meno aspra rispetto alle opere maggiori degli anni precedenti. Tuttavia quella
che è stata chiamata la svolta stilistica di Bartók non era ancora definitiva, perché
tra il Primo e il Secondo Concerto per pianoforte egli scrisse il Terzo e il Quarto
Quartetto, i suoi lavori di più ostico ascetismo, nei quali la posizione stilistica è
prossima a quella dell'avanguardia radicale. Ma è anche vero che alla fine degli
anni Venti l'approfondimento dei suoi temi esistenziali e artistici primari (un
misticismo delle forze naturali primordiali e notturne, l'idealizzazione di
un'arcaica innocenza, e per essa una dolorosa, drammatica immagine dell'uomo
civilizzato, la convinzione, infine, che la musica sia un ordine simbolico
complesso, imposto sul frastuono della disumanità, e che quindi essa debba
essere il legame di uno verso i molti) produsse in Bartók idee e invenzioni
linguistiche irriducibili alle tendenze principali del moderno, eversive (la
dodecafonia) o restauratoci (il neoclassicismo e la nuova oggettività) che fossero.
Il Secondo Concerto segna, appunto, un momento di transizione nelle idee e
nella tecnica compositiva di Bartók, e anche nella relazione con il Primo e con il
Terzo tiene dei caratteri dell'uno e dell'altro, cioè di un certo impulso selvaggio
del precedente e, nel tempo mediano, della sobrietà e del lirismo del seguente:
senza per questo indebolirsi mai in un impersonale eclettismo, anzi
presentandosi fin dalla prima battuta con i caratteri inconfondibili del suo genio.
E questo è tanto vero che esso è stato a lungo una delle sue composizioni più
popolari e più spesso eseguite e oggi, dopo qualche anno di oblio, torna nel
favore del pubblico.

«Nel mio Secondo Concerto ho deciso di fornire un lavoro diverso dal primo:
meno di"cile per l'orchestra e con un materiale tematico più attraente. La natura
abbastanza popolare e facile della maggior parte dei suoi motivi si spiega con
questa mia intenzione» (B. Bartók, Analisi del Secondo Concerto, ora in Essays, a
cura di B. Sucho!, London, Faber and Faber, 1976, p. 419). Non tutto nel
commento del suo autore pare corrisponda alla sostanza di questa musica (non
tutto infatti vi è propriamente attraente o facile), tuttavia l'idea generale è quella
di un vero Concerto, concepito per il piacere, e non poche soddisfacenti fatiche,
di tutti gli esecutori e per l'attenzione e la sorpresa degli ascoltatori. Ma gli
e!etti, gli estri, il virtuosismo e la fluidità degli episodi celano, né sempre
possono celare, una solida logica costruttiva, un fermo proposito architettonico,
attuato, e perfettamente, non per puro gusto formalistico ma come simbolismo
esistenziale, quello della circolarità delle energie della vita e di una pagana
concezione degli eventi umani destinati a tornare su se stessi. Lo schema
compositivo concentrico è ricorrente nella musica di Bartók, ma nel Secondo
Concerto un tale ordine si è fatto contenuto del pensiero musicale comparendo
subito già nella disposizione esteriore dei tempi: due Allegri che includono un
tempo lento, il quale ha in sé un breve nucleo di moto rapido. Questo episodio,
che sembra essere, ma non è, parentetico ed e!ettìstico nell'Adagio, è dunque il
perno attorno al quale ruota tutta la composizione, è un centro vigoroso e
pulsante in cui le forze delle idee precedenti si raccolgono per ripresentarsi
tutte, dall'ultima alla prima, in forma uguale e variata. La relazione drammatica
delle cinque parti fra loro è quella, fondamentale nel mondo poetico di Bartók,
tra vitalità positiva e cupezza, tra mondo diurno e mondo notturno, tra immagini
chiare e dinamiche e statiche fantasie visionarie.

In generale l'organizzazione sinfonica del Secondo Concerto sta tra il concerto


grosso barocco, con l'attività individuale dei gruppi strumentali, e il concerto
romantico, con aspetti di protagonismo dello strumento solista: e anche per
questo aspetto il passaggio da un tipo sinfonico all'altro è attuato da Bartók con
sapienza e accortezza, che evitano qualunque impressione di eclettismo. Le
capacità solistiche dei gruppi strumentali in orchestra sono messe in risalto
anche con l'indipendenza di molti dei loro temi musicali da quelli del pianoforte.
Uno dei caratteri strumentali notevoli del Secondo Concerto sta nella di!erenza
di organico nei tre movimenti, di!erenza che istituisce un'architettura generale
in crescendo la quale si sovrappone alla sostanza circolare dell'invenzione
tematica. Infatti, nel primo movimento il pianoforte dialoga con le famiglie dei
fiati, mentre gli archi tacciono; nel secondo intervengono entrambi i settori degli
archi e dei fiati ma in episodi distinti; nel terzo movimento, infine, è in gioco
l'intera compagine orchestrale con e!etti di compiuta pienezza sonora.

Franco Serpa

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Soprattutto nei primi anni della sua carriera internazionale Bartók praticò il
pianoforte sia come virtuoso sia come insegnante, avvalendosene spesso anche
nella sua opera creativa in funzione solistica. Il binomio compositore-pianista,
dopo il sensazionale esordio con il Primo Concerto per pianoforte e orchestra,
tenuto a battesimo a Francoforte sul Meno da Wilhelm Furtwängler nel 1927, si
ripeté pochi anni dopo con un Secondo Concerto, composto tra il 1930 e il 1931
ed eseguito per la prima volta il 23 gennaio 1933 sotto la bacchetta di Hans
Rosbaud, sempre a Francoforte e sempre con l'autore al pianoforte.

Opera della piena maturità artistica, esso indica un notevole mutamento di rotta
rispetto al radicalismo fortemente innovativo del lavoro precedente. Pur se vi
permangono alcuni tratti specifici, individuabili nel serrato impulso ritmico che
lo percorre da un capo all'altro, nella sicura e audace scrittura polifonica e
orchestrale, nella sensibilità timbrica di un pianismo ricco e fantasioso, il gesto
espressivo si fa più composto ed essenziale, traendo un ordine unitario
dall'equilibrio e dalla spiccata personalità espressiva degli elementi tematici.
Anche dal punto di vista formale il profilo si orienta su una maggiore chiarezza e
simmetria; la struttura in tre tempi si riverbera qui in un'ulteriore tripartizione
del tempo centrale, ma a termini invertiti: due sezioni in tempo "Adagio"
incorniciano al centro un "Presto", con funzioni di scherzo. Nei due tempi
esterni, in tempo "Allegro", la prospettiva tonale si stabilizza attorno all'asse di
sol, mentre la scrittura si arricchisce di frequenti episodi contrappuntistici.

Nel primo movimento l'orchestra è rappresentata dai soli fiati, legni ed ottoni,
unitamente alla percussione. L'inizio si presenta tanto agile e mosso quanto
denso e complesso. Vengono enunciati dapprima, sovrapposti, due temi: uno
ritmico di accordi, al pianoforte; l'altro di fanfara, quasi con carattere di motto,
agli ottoni, presto coinvolto in capriccioso sviluppo tra le varie sezioni dei fiati.
Dopo un serrato canone a cinque, condotto su un clamoroso sfondo pianistico di
veloci semicrome, viene introdotto dal clarinetto un nuovo tema, inarcato su una
linea fittamente ondulata, che presto svelerà un pretto carattere ungherese. Su
questi elementi e su altri più o meno palesemente da essi dedotti si svolge la
fitta e lucente trama di un procedere orchestrale pregnante e concettoso, al
quale ora consente, ora si contrappone l'ostinata, altisonante ritmica pianistica.
Alla fine, una cadenza del solista porta alla ripresa riassuntiva e semplificativa
delle idee svolte, e quindi speditamente alla conclusione franca e calorosa.

Gli archi, che avevano taciuto durante tutto il primo movimento, sono i
protagonisti dell' "Adagio", con calcolata preparazione del nuovo clima
espressivo. Su un tessuto sonoro vaporoso e freddo, questi svolgono una lunga
frase, come di corale; il pianoforte risponde sostenuto da qualche sommesso
rullo di timpano: l'alternanza dialogica dei due elementi si di!onde nella
atmosfera estatica e rarefatta di una evocazione spettrale, inquieta, che
improvvisamente si sospende. Attacca l'episodio centrale, "Presto", dominato dal
virtuosismo toccatistico del pianoforte: un lieve turbinio di note, commentato da
isolate notazioni orchestrali, in un ambiente sonoro fantastico, irreale. Pochi
arpeggi evanescenti congiungono questo episodio alla ripresa dell"`Adagio". Alla
fine, dopo un tragico grido del pianoforte, quasi urlo nella notte, sulla
persistenza ossessiva di un suono di timpano perduto nello sfondo dei bassi
orchestrali gli archi riprendono un'ultima volta il loro tema iniziale. Una breve,
dolcissima risposta del pianoforte, e il pezzo si chiude, trasfigurato.

Il terzo movimento, "Allegro molto", è avviato dal pianoforte: un arpeggio


ascendente, cui segue, tra un fatidico martellare di timpani, il tema principale,
aspro e barbarico. La sua vicenda, nell'alternanza con diversi e nuovi episodi, si
fa veemente, incalzante, concitata. Il ritorno, in mutata veste ritmica, del tema di
fanfara del primo tempo apre la via a una giubilante progressione. L'opera si
conclude in un gioioso trasvolare di arpeggi, mentre l'orchestra mantiene la
vigorosa scansione.

Sergio Sablich

www,wikipedia.org

Storia

Nel 1930 Bartók intraprese la composizione del suo Secondo Concerto per
pianoforte e orchestra, secondo criteri guida alquanto di!erenti rispetto al primo
Concerto. In quel periodo, aveva portato a compimento la stesura della Cantata
profana ed era sempre più animato dal convincimento che la sua opera creatrice
dovesse costituire un vero e proprio messaggio all’umanità intera: «La mia idea
fondamentale è quella della fratellanza dei popoli. È per questo che non rifiuto
alcuna influenza, sia essa di origine slava, romena, araba o altro ancora, a
condizione che si tratti di una fonte pura, fresca e sana!». Iniziato durante i brevi
intervalli di quiete tra due tournée, il Secondo Concerto fu portato a compimento
al termine del 1931, durante un soggiorno estivo in Svizzera. Bartók profuse
particolare impegno nella scrittura della parte solistica che volle abbellire di
fioriture decorative, in guisa di ornamenti classici, ai fini di rinnovarne la forma
ed il carattere. Eseguito per la prima volta il 23 gennaio 1933 a Francoforte sul
Meno sotto la direzione di Hans Rosbaud con Bartók al pianoforte (il quale non si
sarebbe più recato in Germania per il resto della sua vita), il Concerto riscosse il
favore del pubblico (specie a Parigi, dove l’accoglienza fu assai calorosa) a
dispetto della critica. In un articolo pubblicato alcuni anni dopo, Bartók volle
precisare i criteri di base che lo avevano guidato nella stesura dell’opera: «Il mio
primo Concerto lo ritengo un lavoro riuscito, sebbene la sua scrittura riesca in
certa misura di"cile, forse anche molto di"cile, per l’orchestra e per il pubblico.
Perciò mi decisi, alcuni anni più tardi, nel 1930/31, a comporre il mio secondo
Concerto da a"ancare al Primo, con meno di"coltà per l’orchestra e anche più
piacevole tematicamente. Questo mio scopo spiega il carattere più popolare e
facile della maggior parte dei temi …». In verità, osserva Paolo Petazzi, tale
dichiarazione del compositore non va presa troppo alla lettera. Nel Secondo
Concerto non si ravvisano di certo concessioni compromissorie alla “facilità”, ma
è pur vero che il materiale tematico è qui più chiaramente individuabile, che il
clima espressivo è più mobile rispetto alla serrata tensione del Primo Concerto e
che la scrittura orchestrale o!re una maggior varietà di colori.

Struttura

Il Secondo Concerto per pianoforte presenta una mescolanza dei due principali
modelli formali: da una parte il vecchio principio del concerto classico, con la sua
alternanza tra tutti e solo (quest’ultimo, grazie all’impiego di altri strumenti
solisti, particolarmente le percussioni, assume talvolta l’aspetto di un vero e
proprio concertino tipico del Concerto grosso barocco) e dell’altra la tradizione
virtuosistica del XIX secolo (che solitamente viene indicata con il nome di
concerto sinfonico, intendendo con tale espressione un processo di sviluppo
unitario tra la parte solistica e l’orchestra). Una notevole rilevanza è conferita al
colore orchestrale, non soltanto nel senso della ricerca di particolari e!etti
coloristici ma anche sotto il profilo dell’elemento formale costitutivo. Ad
esempio, nel primo movimento compaiono assieme al pianoforte solo i fiati e le
percussioni, mentre nel secondo sono inizialmente gli archi con sordino e i
timpani ad accompagnare il solista, sostituiti da fiati, percussioni ed archi nella
sezione centrale (scherzo). È soltanto nel finale che tutti gli strumenti del
Concerto vengono a suonare insieme.

Allegro

Il primo tema del movimento iniziale, annunciato dal caldo timbro della tromba
(che lancia all’entrata una sorta di richiamo al pianoforte, col quale dialogherà in
totale assenza degli archi[1]) denuncia l’ispirazione dalla musica di Stravinski; il
profilo melodico delle prime note coincide infatti con l’inizio del tema intonato
dai corni all’attacco del finale de L'uccello di fuoco. Altre analogie si possono
trovare con Petruška, ma in ogni caso Bartók sa fare uso di questo materiale in
modo assolutamente personale. Nella costruzione della forma sonata, in cui la
ripresa presenta l’inversione dei temi dell’esposizione, Bartók si mostra capace
di profondere una grande varietà di invenzione e di atteggiamenti espressivi.

Adagio - Presto - Adagio

L’Adagio del secondo movimento, con il suo carattere di “musica della notte”,
ricorda l’Andante del Primo Concerto ma si basa su un clima timbrico a!atto
di!erente, con il tranquillo mormorio degli archi a mo’ di corale, al quale il
solista risponde con il sostegno di alcuni sommessi rulli dei timpani. Al primo
Adagio segue un nervoso e scattante Presto nel quale il solista a!ronta passaggi
di notevole e arduo virtuosismo. Dopo questa vivace parentesi, ritorna l’episodio
iniziale e l’Adagio finale svanisce quietamente.

Allegro molto - Presto

Il movimento finale sembra riportare al clima del Primo Concerto con la vigorosa
energia barbarica che contrassegna il primo tema, il quale funge da ritornello.
Motivi melodici di derivazione slava animano questo movimento, nel quale
Giacomo Manzoni rinviene la vigorosa impostazione ritmica del più tipico Bartók;
si tratta anche in questo caso di un brano di straordinario virtuosismo che pone
la parola fine al Secondo Concerto in un clima di smagliante aggressività.

117 1937 - 1938

Concerto per violino n. 2

https://www.youtube.com/watch?v=Lr0Vg24lKQQ

https://www.youtube.com/watch?v=W5eypfL4iG0

https://www.youtube.com/watch?v=-HlqDkv1PzE

Allegro non troppo


Andante tranquillo
Allegro molto

Organico: violino solista, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti,


clarinetto basso, 2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni,
timpani, 2 tamburi militari, grancassa, piatti, triangolo, celesta, arpa, archi
Composizione: agosto 1937 - 31 dicembre 1938
Prima esecuzione: Amsterdam, 23 marzo 1939
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra 1946
Dedica: Zoltán Székely

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

È alla fine del 1940 che Bela Bartók lascia l'Ungheria per avviarsi all'esilio
volontario negli Stati Uniti. «Questo viaggio è, in fin dei conti, un salto
nell'incertezza da una certezza insopportabile» scrive il 14 ottobre all'amica
svizzera Müller-Widmann. Non era solo il clima bellico a far allontanare il
compositore, ma ancor più la ferma avversione verso le dittature europee e il
loro fiancheggiamento da parte del governo ungherese. Due anni prima, dopo
l'Anschluss dell'Austria al Reich, Bartók si era rivolto in termini crudi alla
medesima amica: «Scrivere di questa catastrofe, io credo, è del tutto inutile. [...]
C'è il reale pericolo che anche l'Ungheria si arrenda a questo regime di ladri e
assassini. La domanda ora è: quando? come? E non è concepibile che io possa
ancora vivere, ancora lavorare (il che è lo stesso) in un paese di questo tipo. Io
avrei davvero l'obbligo di espatriare».

Questo dunque il clima degli ultimi anni ungheresi di Bartók, anni di intensa
produttività, che vedono nascere, fra l'altro, la Sonata per due pianoforti e
percussione, il Divertimento per orchestra d'archi, il Sesto Quartetto, nonché il
Secondo Concerto per violino e orchestra: un gruppo di lavori che sommano, con
grande maestria di scrittura, complessità costruttiva, ricerca timbrica, alte
ambizioni concettuali.

In particolare il Concerto per violino venne scritto dietro richiesta del violinista
ungherese Zoltan Szekely, che fu felicissimo del risultato. Iniziata nel 1937,
terminata il 31 dicembre 1938, la partitura venne eseguita per la prima volta ad
Amsterdam il 23 aprile 1939, dal dedicatario Szekely, sotto la direzione di
Willem Mengelberg.

Non era la prima volta che Bartók si applicava alla stesura di un Concerto per
violino; ma il Primo Concerto, creato negli anni di formazione, nel 1907-08, era
stato accantonato dall'autore, che aveva riutilizzato parte del suo materiale per il
primo dei Deux Portraits op.5; questa prima partitura doveva poi riemergere
postuma nel I960.

Se il Primo Concerto ha il suo interesse prioritario nel far luce sugli "juvenilia"
dell'autore, il Secondo Concerto è invece il grande capolavoro di Bartók
nell'ambito del violino. Nel volgere degli anni Trenta, d'altronde, tutti i principali
compositori europei si erano dedicati allo strumento ad arco: Stravinsky (1931),
Berg (1935), Prokof'ev (Secondo Concerto, 1935), Schönberg (1936). La partitura
di Bartók si inserisce dunque in questo aureo decennio del concerto violinistico
in una posizione di rilievo assoluto. Vi troviamo innanzitutto una scrittura
trascendentale per il solista, che tuttavia non indulge mai all'e!ettismo, e
piuttosto evita scoperti esibizionismi. Il violino rimane comunque sempre in
primo piano, nonostante la presenza di una orchestrazione estremamente
corposa, che, oltre al consueto organico strumentale, fa ricorso a arpa, celesta e
un nutrito gruppo di strumenti a percussione. Altro elemento di fascino è dato
dal fatto che all'interno della partitura possiamo riscontrare, nel contempo, in
una sintesi matura, tutte le riflessioni sulla forma e la materia sonora che il
compositore aveva condotto nei lustri precedenti.

Era nel 1927 che Bartók aveva applicato, per la prima volta, nel Terzo Quartetto
per archi una peculiare organizzazione architettonica che lo studioso Halsey
Stevens ha definito "forma ad arco". Questa forma venne reimpiegata poi in
lavori quali il Quarto e il Quinto Quartetto, il Secondo Concerto per pianoforte,
nonché appunto il Secondo Concerto per violino; e consiste nell'impiego del
medesimo materiale tematico nel primo e nel terzo movimento di una parura,
come punti di forza di un arco al centro del quale si colloca, una chiave di volta,
un movimento centrale. Ed è esattamente questala forma del Secondo Concerto
per violino, resa però più complessa dall'idea di variazione integrale che vi si
a!erma. Il movimento centrale, infatti, è costituito da un Tema con sei
variazioni; e poiché il finale riprende, variandoli, i motivi del tema iniziale, ecco
che nella partitura tutto è idealmente variazione.

Altrettanto singolare il contenuto armonico del Concerto, che concilia, con


personalissimo equilibrio, diatonismo e cromatismo. Il tempo iniziale, Allegro
non troppo, segue con una certa libertà la forma sonata classica e si fonda
dunque su due temi principali: vi troviamo immediatamente, accompagnato dagli
accordi dell'arpa, un tema dal carattere popolare, e dal contenuto cantabile,
chiaramente delineato in una veste diatonica e costruito sulla base di intervalli di
quinta e quarta (che sono tecnicamente l'uno il rivolto dell'altro). Il secondo
tema, invece, consiste in una serie di dodici suoni; nessuna concessione di
Bartók al metodo di scrittura di Schönberg, ma piuttosto volontà di allargare la
propria gamma espressiva. Il risultato è che un grande eclettismo anima questo
movimento; ma Bartók evita i rischi di questo eclettismo, riuscendo a bilanciare
con grande equilibrio e quasi con naturalezza l'eterogeneità del suo materiale,
col creare una dialettica di situazioni che si avvicendano con plasticità.

In posizione centrale troviamo le variazioni dell'Andante tranquillo. Il tema è una


melodia dal carattere ungherese, e dal sapore nostalgico, innervato da una
metrica irregolare all'interno della misura di 9/8. Le sei variazioni non
contraddicono questo carattere del tema, ma piuttosto ne sviluppano la portata
emozionale, secondo un calibratissimo percorso espressivo (un climax seguito
da un anticlimax), sfruttando in modo mirabile le potenzialità timbriche
dell'orchestra (percussioni incluse) che fungono da sfondo e risonanza per la
cantabilità elegiaca del solista.
Si giunge così al finale, Allegro molto, il cui dinamismo ritmico è tipico della
forma del rondò; e infatti Bartók piega qui con libertà il materiale del tempo
iniziale verso una ricorrenza tipica del rondò; questo materiale non è peraltro
ripreso testualmente, ma piuttosto variato strutturalmente, in modo da
modificarne soprattutto l'aspetto ritmico, ferma restando la contrapposizione
diatonico/cromatico. Quanto alla coda, Bartók aveva scritto in un primo
momento un passaggio pienamente sinfonico, che aveva però incontrato le
perplessità del dedicatario Szekely, che riteneva la partitura dovesse finire «come
un concerto, non come una sinfonia». Di qui la decisione dell'autore di riscrivere
la coda, mettendo ancora in primo piano il solista, lasciando però in appendice,
nella partitura a stampa, la conclusione originaria. Nell'uso si è imposta la
seconda versione, uno dei pochi momenti della partitura in cui la di"coltà della
parte solistica trova il giusto riscontro di fronte al pubblico.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Preceduto da un Concerto n. 1 per violino, scritto trentanni prima per Stefi


Geyer, in due soli movimenti, e pubblicato come opera postuma Sz. 36, il
Secondo Concerto Sz. 112 inaugura il terzo periodo dell'opera creativa di Bartók,
periodo caratterizzato da una straordinaria maestria tecnica, da un'esemplare
essenzialità d'espressione e dalla proporzione assoluta degli schemi formali
tramite una sagace simmetria costruttiva. Il Secondo Concerto si colloca anche
negli anni in cui Bartók compose i lavori in cui si riassume la pienezza della sua
maturità artistica in una sintesi creativa in cui confluirono il retaggio ideale
mutuato da Bach e da Beethoven, l'influsso che su di lui aveva avuto Debussy,
nonché la costante attenzione alle vicende delle avanguardie contemporanee e il
modo, peculiarmente bartokiano, di intendere la tonalità, l'armonia, il
contrappunto, il ritmo, anche alla luce della conoscenza del folclore ungherese e
balcanico e delle esperienze conseguenti.

Determinante era stato infatti per Bartók l'insieme delle indagini esperite nella
ricerca delle tradizioni contadine e folcloriche del suo paese perché l'analisi del
repertorio popolare lo condusse ad assimilare caratteri melodici, armonici e
ritmici del tutto estranei alle tradizioni della musica colta d'Occidente,
assimilandone i connotati fondamentali in maniera da rinnovare il proprio
linguaggio in una prospettiva che non coincideva né con la scelta neoclassica
stravinskiana, o francese, né con l'espressionismo della Seconda Scuola di
Vienna. Allo stesso tempo Bartók a!ermava anche una propria scelta etica e
politica, in correlazione con una solidarietà morale nei confronti dei valori che
egli riconosceva in una cultura, come quella popolare ungherese, di!erente
rispetto a quella della classe dominante che era condizionata dall'influenza della
cultura germanica.
In varie occasioni nella prima metà del 1937 il violinista e compositore magiaro
Zoltan Szekely, discepolo di Hubay, s'era rivolto a Bartók per chiedergli di
scrivere un Concerto per violino ma, a quanto riferiscono vari passi del suo
epistolario, Bartók si mostrava tutt'altro che incline al riguardo, o!rendosi invece
di stendere una vasta Suite in forma di variazioni. Szekely però ambiva a
cimentarsi in un Concerto vero e proprio e così, cedendo alle reiterate sue
istanze, Bartók si decise in proposito: iniziato in Svizzera, a Braunwald,
nell'agosto 1937, il Secondo Concerto fu completato e condotto a termine a
Budapest il 31 dicembre 1938.

Il Concerto per violino fu eseguito per la prima volta ad Amsterdam il 23 aprile


1939 con Székely come solista e con la Concertgebouw-Orchestra diretta da
Willem Mengelberg. Già all'inizio della primavera Bartók aveva provato a lungo
con Székely il Concerto, cominciando anche a curarne una versione per violino e
pianoforte, pubblicata due anni dopo. Alla première olandese Bartók non potè
assistere perché, dopo lunghe perplessità, s'era deciso a visitare gli Stati Uniti,
già prevedendo l'emigrazione in quel paese per continuare a comporre in libertà:
non da poco tempo infatti la sua produzione veniva etichettata come "arte
degenerata" e la sua ferma opposizione al fascismo dilagante in Europa (ed in
Ungheria con l'ammiraglio Horthy) gli aveva reso impossibile la sopravvivenza in
Patria.

Nell'ottobre del 1943 però Bartók potè ascoltare il suo Concerto per violino in
un'esecuzione a New York e nel gennaio del 1944, scrivendo a Joseph Szigeti, gli
partecipò con le seguenti parole le sue emozioni al riguardo: "Ciò che
maggiormente mi ha soddisfatto è stata la constatazione che la parte
dell'orchestra non abbisognava di alcuna revisione, non era necessario che
cambiassi neanche una nota o una qualsiasi indicazione espressiva. Certo, non
pochi critici mi hanno frainteso e c'è stato chi ha scritto che questo lavoro non
avrebbe surrogato i Concerti di Beethoven o di Mendelssohn o di Brahms.... Ma
chi mai potrebbe soltanto pensare un'idiozia simile? Chi osasse volere una cosa
del genere meriterebbe di essere ricoverato d'urgenza in manicomio..."

Dedicato a Székely, il Concerto è caratterizzato da un particolare virtuosismo di


scrittura sia violinistica sia orchestrale: la peculiare, non meno che assoluta
conoscenza delle risorse tecniche ed espressive del violino è contemperata, in
questo lavoro della maturità di Bartók, da un costante riferimento al senso della
misura, delle proporzioni e dell'equilibrio tra il solista e l'orchestra. Una precipua
singolarità del Concerto è data dai "modi orientali" che sottendono l'invenzione
melodica e si aggiungono alla varietà ritmica, da sempre una costante del
compositore magiaro. E le sinuose e lunghissime linee del canto del violino si
muovono con magistrale sagacia tra i più imprevedibili incastri orchestrali,
partecipando ad inconsueti ed ingegnosi impasti timbrici. Per il finale Bartók,
almeno stando ai suoi scritti, lascia agli interpreti la scelta tra due distinte
versioni: normalmente è eseguita la seconda, in ordine cronologico di
composizione, che permette al violinista di esibire il suo virtuosismo sino
all'ultima battuta: tale versione fu espressamente richiesta da Székely che voleva
"un Concerto, non una Sinfonia", e Bartók, dopo qualche perplessità,
accondiscese alla richiesta, vista come una concessione alla realtà della vita, pur
se nel suo intimo rimase legato alla stesura originaria che faceva concludere
l'opera alla sola orchestra, tra fiammeggianti glissandi degli ottoni, un Finale
abbastanza consono alla sua concezione estetica. Dalle varie fasi di realizzazione
del Concerto per violino emerge un precipuo aspetto della personalità di Bartók,
nella fedeltà di fondo ai suoi intenti originari: egli aveva in mente, come si è
detto innanzi, di comporre una Suite in forma di variazioni ma accondiscese alla
richiesta di Székely di scrivere un vero e proprio "Concerto" in ossequio ai moduli
tradizionali. Ciò nondimeno, all'interno dello schema formale tripartito, il
principio della variazione domina incontrastato, permeando totalmente il
secondo movimento e condizionando anche i tempi esterni, il materiale motivico
del primo movimento ricompare infatti, in una forma variata, nel Finale. Uno
studioso della produzione bartokiana come Halsey Stevens ha notato che questo
Concerto segna "l'approfondimento e l'esaurimento definitivo del principio della
variazione, su cui Bartók non ritornerà più". Stevens ha notato ancora "la
presenza nel Concerto per violino della forma ad arco che aveva già costituito la
struttura portante del Terzo Quartetto nel 1927, in cui il primo e il terzo
movimento hanno in comune lo stesso materiale motivico e fungono da pilastri
dell'arco la cui volta è costituita dal secondo movimento. Inoltre il disegno
formale complessivo prosegue deliberatamente in una simmetrica forma ad arco
anche nel Quarto e nel Quinto Quartetto, nel Secondo Concerto per pianoforte e
orchestra e particolarmente, appunto, nel Concerto per violino" (1953).

L'avvio del primo movimento, Allegro non troppo, è con sei battute introduttive
di arpe, pizzicato dei bassi e corno nella tonalità di si minore. L'intero tempo è
costruito secondo la forma sonata, con due idee motiviche principali e diversi
temi sussidiari. Il solista presenta il tema principale, una frase cantabile in tempo
rubato che attinge accenti di carattere eroico. Alcuni incisi motivici di transizione
conducono alla seconda idea principale, ove si fa notare una successione di
dodici suoni, il cui senso in un lavoro essenzialmente tonale è stato oggetto di
varie opinioni - Halsey Stevens, per esempio, ha accennato ad un probabile
intento satirico. A questo tema, proposto dal solista, seguono robusti interventi
dell'orchestra, sin quando il violino solista porta a termine l'esposizione con
un'ampia e serena cantilena, derivata dall'idea introduttiva. Una breve sezione di
sviluppo o!re all'ascolto un momento assai interessante quando si ode
l'inversione del primo tema principale sul trasparente, quasi diafano
accompagnamento di arpa, celesta ed archi. Nella ripresa ritornano in veste
di!erente gli spunti tematici dell'esposizione. Si perviene quindi alla cadenza,
che prende l'avvio con un passaggio in quarti di tono del violino solista e, dopo
un vasto svolgimento strumentale, si approda alla coda, permeata da un a!abile
e gradevole ritmo popolaresco.

Il secondo movimento, Andante tranquillo nella tonalità di sol maggiore, si


articola in un tema con sei variazioni e una ripresa. L'intera scrittura orchestrale
impone all'attenzione una particolare e delicata trasparenza, pur se un ruolo
importante è a"dato alle percussioni. L'idea principale, in parlando rubato,
appare segnato da un innocente carattere bucolico, calmo e tenero: a tale
connotato si adeguano nella struttura le variazioni, di!erenziandosi nel
trattamento strumentale. La variazione n. 1 si sostanzia in un'elaborazione del
tema da parte del violino solista mentre si ode l'accompagnamento so!uso dei
timpani e dei contrabbassi in pizzicato. Nella variazione n. 2 ampi incisi del tema
si alternano con rapidi disegni dell'arpa sull'accompagnamento di legni e di
violini, divisi in tremolo. Aspre semicrome "al tallone" del violino solista
pervadono la variazione n. 3, increspandone la superficie sull'accompagnamento
sommesso di legni, corni e timpani. Nella variazione n. 4 si ascolta una versione
semplificata del tema nel canto degli archi nel registro più basso mentre il
violino solista si scatena in un andamento rapsodico in trilli e scale; verso la
conclusione, il tema riemerge in un canone multiplo, cui prendono parte,
assieme al solista, viole, violoncelli e contrabbassi. Una sorta di Scherzo
caratterizza la variazione n. 5, ove il solista è in primo piano sugli interventi di
legni, arpa, triangolo e tamburo laterale. La variazione n. 6 prende l'avvio con
una versione fantasiosamente ornata del tema, a"data al violino solista, mentre
gli archi ne enunciano una più lineare in un canone a tre voci; il canto del violino
solista accentua il carattere lirico mentre le voci a canone dell'accompagnamento
strumentale salgono a quattro e poi a cinque. La ripetizione conclusiva del tema
è proposta un'ottava più in alto rispetto all'iniziale esposizione; a metà del
tracciato musicale, il violino solista viene a"ancato da tre viole sole in
imitazione; infine il movimento approda alla conclusione in un'atmosfera
espressiva d'estrema rarefazione sonora, su cui si inserisce, con gli archi
all'unisono, il brusco motivo introduttivo dell'ultimo tempo.

Il profilo architettonico del terzo movimento, Allegro molto, di nuovo nella


tonalità di si minore, riproduce nelle varie sue sezioni, quella del primo
movimento, mentre sostanzialmente a"ne è l'impiego del materiale tematico.
All'apparenza l'idea introduttiva ha una connotazione di!erente, con il suo
carattere tempestoso, rispetto al primo tempo, ma in realtà trae origine dalla
medesima matrice. L'idea principale è la stessa, trasformata e variata però nella
scansione ritmica per l'apporto d'una più decisa impronta popolare. Si nota per
contro una minore somiglianzà fra gli accenti eroici individuabili nel primo
movimento e quelli del terzo che sono marcatamente pungenti e corrosivi, e
senz'altro analogo è il di!uso impiego di arpeggi. Egualmente nel profilo ritmico
si di!erenziano i temi sussidiar! di transizione. Si rinvengono a"nità e analogie
pure nel materiale motivico del secondo gruppo tematico, in cui l'idea delle
dodici note risulta abbellita con varie ripetizioni nel corso della frase. Nella
versione definitiva, essa pure pubblicata da Boosey & Hawkes, Bartók rinunciò
all'originaria sua chiusa per sola orchestra, riscrivendola su suggerimento di
Székely con l'inserimento di passaggi virtuoslstici del violino solista, approdando
ad una travolgente esplosione di vitalismo popolare.

Luigi Bellingardi

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Il Concerto per violino e orchestra fu commissionato a Béla Bartòk dal violinista


Zoltan Szekely, e composto a Budapest nel biennio 1937-38; è dunque l'ultimo
lavoro scritto in Europa dal grande compositore ungherese, ed una fra le opere
più rappresentative della sua maturità

Dopo una breve introduzione l'Allegro iniziale comincia con l'a!ermazione di un


tema originale, nonostante la sua a"nità con certi canti popolari ungheresi:
tema che viene ripetuto diverse volte, ad intervalli dì quarta (intervallo sul quale
sì basa volentieri l'armonia che sostiene questo tema), ciò che accentua
maggiormente il carattere magiaro di questo episodio. Dopo un breve tutti il
violino solista dialoga con gli strumenti a fiato. Il secondo tema consiste in
ripetizioni ostinate di tutte le dodici note della gamma cromatica, disposte in un
ordine sempre diverso. Si dice che Bartok abbia a!ermato di averlo concepito
così per diinostrare a Schönberg come sia possibile comporre
dodecafonicamente, pur conservando vivi il senso melodico e quello tonale. Con
questo si conclude l'esposizione. - Ad essa segue un complesso eppur chiaro
«sviluppo». La riesposizione è «libera»: in essa il primo tema appare «invertito»,
poi un ponte prepara la cadenza, ed una breve coda conconclude questo primo
movimento.

Il secondo tempo è un «tema con sei variazion ». Il tema, di sapore popolare


ungherése anche questo, è esposto dal violino sopra un accompagnamento di
archi (senza contrabassi), armonici dell'arpa e punteggiato dai timpani. Nella
prima variazione il solista elabora il tema sopra un accompagnamento pp. dove
dominano contrabassi e timpani; nella seconda, l'arpa, la celesta ed i fiati
dividono col solista gli onori della elaborazione; la terza si svolge sopra un
accompagnamento dove dominano fagotti, corni e timpani. Nella quarta, una
variante del tema è a"data ai violoncelli ed ai contrabassi, mentre il violino
improvvisa alla maniera dei tzigani; la quinta è un «allegro scherzando»; la sesta
sfrutta tutte le risorse di una mirabile strumentazione mentre il solista canta il
tema ne! registro piti acuto.

Il Finale è stato descritto da Menubin come «una specie di specchio: del primo
tempo»: ma uno specchio sensibilissimo capace di riflettere e di dar nuova forma
alla sensibilità del musicista. In un gioco d'una fantasia mirabile, continuamente
rinnovati in variazioni, inversioni, intrecci e colori sempre riuovi, tutti gli
elementi del primo tempo riappaiono in una pagina brillante e vivacissima che
conclude mirabilmente questo Concerto.

www.wikipedia.org

Storia

Il Concerto n. 2 per violino e orchestra fu composto da Béla Bartók in un periodo


particolarmente di"cile e tormentato per il compositore ungherese. Dopo un
viaggio compiuto in Turchia per uno studio sul folclore, egli ebbe chiara la
consapevolezza che l’Europa sarebbe stata trascinata nella più completa
catastrofe. La sua rivolta contro la feroce tirannia sanguinaria di Hitler lo indusse
a proibire che i titoli delle sue opere fossero tradotti in tedesco, lingua che non
volle più parlare né ascoltare. A ciò si aggiunse il crescente timore che la sua
amata Ungheria fosse obbligata a sottomettersi al «regime di rapina e di
assassini» in vigore nel Terzo Reich. Nel 1938 il compositore era combattuto tra
il desiderio di fuggire dalla patria nazificata (dove centinaia di migliaia di
cittadini ebrei sarebbero stati barbaramente perseguitati e uccisi) e la
consapevolezza di quanto fosse oltremodo di"cile ricominciare daccapo la
propria vita in un Paese straniero all’età di cinquantasette anni. Per allontanare i
tristi pensieri, decise di intraprendere uno studio su Pierluigi da Palestrina prima
di incominciare a lavorare sul Secondo Concerto che gli era stato commissionato
dal noto violinista Zoltán Székely, all’epoca membro del Quartetto Ungherese. In
un primo momento Bartók pensava di scrivere un concerto formato da un unico
movimento (sul modello del Primo Concerto per violino e orchestra di Camille
Saint-Saëns), articolato in una vasta serie di variazioni, ma Székely rimase
sorpreso della proposta e la rifiutò, dichiarando che egli desiderava un vero
concerto di taglio classico nei tradizionali tre movimenti, con in più un tocco di
ritmo e di pathos, oltre a una nota di Brahms e di Bruch. Alla fine, Bartók cedette
volentieri alla richiesta del violinista, ma non rinunciò al progetto di scrivere una
serie di variazioni che avrebbero costituito il materiale del secondo movimento.
La prima esecuzione del Concerto ebbe luogo il 23 marzo 1939 ad Amsterdam,
ad opera dell’Orchestra del Concertgebouw diretta da Willem Mengelberg, con
Székely (dedicatario dell’opera) in veste di solista [3]. In una lettera al
compositore, Eugene Ormandy manifestò il suo vivo apprezzamento per il
Concerto, stimando che «dopo Beethoven, Mendelssohn e Brahms non è stato
scritto un concerto per violino migliore».

Struttura

Nel Secondo Concerto si ritrova il tono libero, rapsodico e popolaresco che


contraddistingue le Due Rapsodie per violino e orchestra, ma nel Concerto la
struttura è nel complesso più ampia ed impegnativa, con riferimento sia al suo
assetto esteriore, sia dal punto di vista del contenuto. Degno di attenzione, ad
esempio, è il modo in cui Bartók consegua un e!etto di notevole compiutezza
formale grazie alle analogie tematiche tra il primo ed il terzo movimento (come
nel successivo Concerto per Orchestra), fatto questo che testimonia un rigoroso
lavoro di elaborazione formale. Tale principio della forma ad arco, adottato da
Bartók in altri suoi grandi capolavori come il Quarto Quartetto per archi in do
maggiore e il già citato Concerto per Orchestra, è adottato anche all’interno dei
singoli movimenti, come ad esempio nel terzo in cui l’impulso motorio
fondamentale è continuamente interrotto da episodi contrastanti. La grande
maestria compositiva di Bartók si rivela nel fatto che l’accuratezza
dell’architettura del Concerto non desta mai all’ascolto la sensazione di un
pedantesco e noioso rigore formale; al contrario, nell’opera sembra dominare
una ludica spontaneità come se la musica sgorgasse di getto nel momento
stesso in cui viene eseguita.
Allegro non troppo

Il primo movimento si apre con alcuni accordi dell’arpa, cui segue l’entrata del
solista che presenta il primo tema di una distesa cantabilità e di sapore
decisamente popolare (una copia manoscritta della parte del violino portava
originariamente in testa alla partitura l’indicazione Tempo di Verbunkos in luogo
dell’attuale Allegro non troppo), mentre nel secondo tema Bartók fa impiego di
una serie di dodici suoni che ha indotto taluni a un paragone con il Concerto alla
memoria di un angelo di Alban Berg; in realtà non vi è alcun riferimento alla
musica dodecafonica della Scuola di Vienna ed il Secondo Concerto, per la sua
base tonale, non può ragionevolmente essere imparentato ad un’opera come
quella di Berg la cui estetica è essenzialmente seriale[1]. Il secondo tema non
appare che alla battuta 73 ed è a"dato al solista, le cui sonorità avvolte in una
luce misteriosa sono interrotte da una brusca fanfara dell’orchestra che rianima
il dialogo. Dopo lo sviluppo alquanto articolato segue la riesposizione, quindi è
la volta della cadenza, di grande e!etto ed assai impegnativa per le doti di
virtuoso del solista. Dopo una citazione del tema introduttivo, conclude il
movimento la coda, contraddistinta dal vivace ritmo che richiama il frenetico brio
di una danza paesana.

Andante tranquillo

Il movimento centrale si compone di tre parti simmetriche: esposizione, sei


variazioni sul tema e riesposizione. Il tema, presentato dal solista dopo una
breve introduzione dell’orchestra, è uno dei più teneri composti da Bartók e ha il
carattere di una ninna-nanna popolare. Le sei variazioni ( I. Un poco più andante;
II. Un poco più tranquillo; III. Più mosso; IV. Lento; V. Allegro scherzando; VI.
Comodo.) si caratterizzano per il dialogo del solista con il timpano e poi con
l’arpa, dando luogo ad un’atmosfera rarefatta, tipica dei movimenti lenti di
Bartók. Notevole per il suo andamento capriccioso è la quinta variazione, in cui
domina l’intreccio tra le sonorità di percussioni, legni e arpa con il solista. Il
movimento si conclude con la ripresa del tema iniziale, ma in tono più mesto e
quasi singhiozzante.

Allegro molto

L’ultimo movimento inizia con un’impetuosa entrata dell’orchestra, ma presto è


il solista che si impone quale protagonista presentando il primo tema che deriva
dalla prima frase dell’Allegro iniziale, ma con una più accentuata connotazione
di motivo popolare. Tutti gli elementi che seguiranno derivano da motivi
corrispondenti del primo movimento, modificati soprattutto sul piano del ritmo,
mentre la costruzione è praticamente la stessa. L’orchestra è messa
particolarmente in risalto dall’intensità fragorosa degli ottoni che emettono
accordi maestosi e solenni, quasi alla maniera di un corale[1]. Nella parte
conclusiva, al solista sono a"dati passaggi richiedenti una notevole abilità
virtuosistica ed il concerto si conclude in una esuberante esplosione di vividi
colori sonori.

121 1940

Concerto per due pianoforti e percussioni

https://www.youtube.com/watch?v=j6_Enhaw1Wg

https://www.youtube.com/watch?v=qz5wDbV3gMg

https://www.youtube.com/watch?v=z2G-XSfuACU

https://www.youtube.com/watch?v=ZhcWtcbrEjE

https://www.youtube.com/watch?v=j6_Enhaw1Wg

Andante tranquillo
Allegro
Adagio
Allegro molto

Organico: 2 pianoforti, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 2


fagotti, controfagotto, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, celesta, timpani, xilofono,
cassa chiara senza timbro, idem con timbro, piatto sospeso, piatti, grancassa,
triangolo, tam-tam, archi
Composizione: dicembre 1940
Prima esecuzione: Londra, 14 novembre 1942
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra, 1970
Trascrizione per orchestra della Sonata per due pianoforti BB 115

Guida all’ascolto

Storia

Nel 1936 vi fu per Bartók un ritorno di prosperità in virtù del ricevimento di


alcune commissioni, dell’edizione delle sue partiture a Londra e della ripresa
dell’attività concertistica grazie a un miglioramento delle condizioni di salute.
Ciò malgrado, il compositore era sempre più a(itto e tormentato a causa
dell’espansione del nazismo. Quando seppe che le opere di Arnold Schönberg,
Darius Milhaud e Igor Stravinski erano state bandite nel Terzo Reich quali
manifestazioni di “arte degenerata”, Bartók mosso dall’indignazione fece
inoltrare al Ministro della propaganda Joseph Goebbels la richiesta che anche le
sue opere fossero inserite nella lista nera delle composizioni proibite in
Germania. Risolutamente antinazista e animato da un profondo senso di
giustizia, arrivò anche a prendere in considerazione l’idea di convertirsi alla
religione ebraica per senso di solidarietà umana verso coloro che più di tutti
so!rivano le persecuzioni di Hitler e del suo regime.

Malgrado tutto, proprio in questo periodo così travagliato e di"cile per lui,
Bartók trovò l’ispirazione per comporre alcune delle sue opere più geniali e
originali che avrebbero lasciato una traccia profonda nella storia della musica
contemporanea: la Musica per archi, percussione e celesta e la Sonata per due
pianoforti e percussioni

La Sonata fu scritta dietro richiesta della Sezione di Basilea della Società


Internazionale di Musica Contemporanea ed eseguita per la prima volta a Basilea
il 16 gennaio 1938, con Bartók e sua moglie Ditta al pianoforte. Più tardi, il
compositore ungherese scrisse una versione amplificata del lavoro, con
l’aggiunta dell’accompagnamento orchestrale ma lasciando pressoché immutate
le parti dei pianoforti e degli strumenti a percussione. La prima esecuzione del
Concerto per due pianoforti, percussioni e orchestra ebbe luogo a New York nel
gennaio 1943, nel corso di un concerto della Philharmonic Symphony Society [2].
Grande estimatore e interprete di questo doppio concerto per pianoforti fu il
maestro statunitense Leonard Bernstein.

Struttura

Animato dal desiderio di sperimentare nuove idee, Bartók aveva già provato a
realizzare insolite combinazioni sonore tra il pianoforte e le percussioni nel
Primo e Secondo Concerto per pianoforte. Nel Concerto per due pianoforti, la
volontà di sperimentare si manifesta in maniera ancora più accentuata, con gli
strumenti a percussione (xilofono, tre timpani, due tamburi, grancassa, piatti,
piatti sospesi, triangolo e tam-tam) che hanno una parte fondamentale nella
composizione in quanto, oltre a sottolineare le parti musicali dei due pianoforti,
diventano in taluni passaggi importanti strumenti solisti[2]. Non vi è indicazione
esplicita di tonalità, ma nelle mutevoli modalità formate da strutture
intervallistiche asimmetriche sono chiaramente presenti, seppure sfuggenti,
precisi centri tonali.

In questo lavoro sono evidenti alcuni tratti precipui dello stile di Bartók, come
l’uso di temi brevi, ritmi selvaggi ed energici e del contrappunto (specialmente
nel primo movimento), oltre alla suggestione di suoni notturni nel secondo
tempo (che si ritrova in molti tempi lenti di opere di Bartók) ed agli accenni a
melodie del folclore mitteleuropeo nel finale “a rondò”.

Un carattere distintivo della partitura del Concerto è dato dall’impiego di


di!erenti maniere di suonare gli strumenti a percussione; sono utilizzate non
solo le tradizionali bacchette da tamburo, ma anche bastoncini di legno e perfino
lame di temperino; inoltre Bartók ha stabilito con molta precisione il
raggruppamento delle percussioni a"nché corrispondano timbricamente con i
pianoforti. Per quanto riguarda la struttura formale della composizione, essa è
stata chiaramente definita dall’autore in un testo introduttivo, nel quale è
specificato che si attiene rigorosamente ai modelli classici della forma sonata,
con annessa coda in forma di fugato (nel primo movimento), della semplice
forma di romanza a - b - a (nel secondo) e di un’unione di rondò e di forma
sonata (nel terzo).

Assai lento; Allegro molto

Nel primo movimento, il principale motivo è un’attorcigliata figurazione che


colma di passaggi cromatici lo spazio di un tritono. La musica acquista corpo
dalle aumentazioni intervallistiche, dalle inversioni e dalle imitazioni canoniche.
L’agitazione cresce fino al momento in cui il ritmo raggiunge l’Allegro molto.
Chiare triadi maggiori risplendono in mezzo a collisioni politonali. Appare una
grandiosa asserzione, in tempo Un poco maestoso. Un ritmo rollante porta ad
una fuga, mentre i pianisti percorrono le tastiere in direzioni opposte. Una
poderosa coda porta il movimento alla sua conclusione.

Lento ma non troppo

Nel secondo movimento, la melodia iniziale oscilla lentamente lungo mutevoli


accenni modali. Di colpo appare una nervosa quintina, rapidamente pulsante,
incrementata in forza e velocità, che presto raggiunge il più acuto registro della
tastiera in fortissimo. Una serie di accordi dissonanti è posta in moto nelle parti
pianistiche, mentre le quintine tematiche mantengono il loro impulso ritmico
nell’orchestra.

Allegro non troppo

Il finale è un brillante rondò nel quale si riconoscono numerose delle invenzioni


pianistiche favorite di Bartók, quali: rapidi passaggi polimodali che attraversano
la tastiera, parallelismi di triadi, trilli multipli dissonanti, secchi accordi
arpeggiati. La coda è notevole per le limpide triadi maggiori che divergono nei
due pianoforti terminando in un candido do maggiore.

www,wikipedia.org

Storia

Nel 1936 vi fu per Bartók un ritorno di prosperità in virtù del ricevimento di


alcune commissioni, dell’edizione delle sue partiture a Londra e della ripresa
dell’attività concertistica grazie a un miglioramento delle condizioni di salute.
Ciò malgrado, il compositore era sempre più a(itto e tormentato a causa
dell’espansione del nazismo. Quando seppe che le opere di Arnold Schönberg,
Darius Milhaud e Igor Stravinski erano state bandite nel Terzo Reich quali
manifestazioni di “arte degenerata”, Bartók mosso dall’indignazione fece
inoltrare al Ministro della propaganda Joseph Goebbels la richiesta che anche le
sue opere fossero inserite nella lista nera delle composizioni proibite in
Germania. Risolutamente antinazista e animato da un profondo senso di
giustizia, arrivò anche a prendere in considerazione l’idea di convertirsi alla
religione ebraica per senso di solidarietà umana verso coloro che più di tutti
so!rivano le persecuzioni di Hitler e del suo regime.

Malgrado tutto, proprio in questo periodo così travagliato e di"cile per lui,
Bartók trovò l’ispirazione per comporre alcune delle sue opere più geniali e
originali che avrebbero lasciato una traccia profonda nella storia della musica
contemporanea: la Musica per archi, percussione e celesta e la Sonata per due
pianoforti e percussioni.

La Sonata fu scritta dietro richiesta della Sezione di Basilea della Società


Internazionale di Musica Contemporanea ed eseguita per la prima volta a Basilea
il 16 gennaio 1938, con Bartók e sua moglie Ditta al pianoforte. Più tardi, il
compositore ungherese scrisse una versione amplificata del lavoro, con
l’aggiunta dell’accompagnamento orchestrale ma lasciando pressoché immutate
le parti dei pianoforti e degli strumenti a percussione. La prima esecuzione del
Concerto per due pianoforti, percussioni e orchestra ebbe luogo a New York nel
gennaio 1943, nel corso di un concerto della Philharmonic Symphony Society.
Grande estimatore e interprete di questo doppio concerto per pianoforti fu il
maestro statunitense Leonard Bernstein.

Struttura

Animato dal desiderio di sperimentare nuove idee, Bartók aveva già provato a
realizzare insolite combinazioni sonore tra il pianoforte e le percussioni nel
Primo e Secondo Concerto per pianoforte. Nel Concerto per due pianoforti, la
volontà di sperimentare si manifesta in maniera ancora più accentuata, con gli
strumenti a percussione (xilofono, tre timpani, due tamburi, grancassa, piatti,
piatti sospesi, triangolo e tam-tam) che hanno una parte fondamentale nella
composizione in quanto, oltre a sottolineare le parti musicali dei due pianoforti,
diventano in taluni passaggi importanti strumenti solisti. Non vi è indicazione
esplicita di tonalità, ma nelle mutevoli modalità formate da strutture
intervallistiche asimmetriche sono chiaramente presenti, seppure sfuggenti,
precisi centri tonali.

In questo lavoro sono evidenti alcuni tratti precipui dello stile di Bartók, come
l’uso di temi brevi, ritmi selvaggi ed energici e del contrappunto (specialmente
nel primo movimento), oltre alla suggestione di suoni notturni nel secondo
tempo (che si ritrova in molti tempi lenti di opere di Bartók) ed agli accenni a
melodie del folclore mitteleuropeo nel finale “a rondò”.

Un carattere distintivo della partitura del Concerto è dato dall’impiego di


di!erenti maniere di suonare gli strumenti a percussione; sono utilizzate non
solo le tradizionali bacchette da tamburo, ma anche bastoncini di legno e perfino
lame di temperino; inoltre Bartók ha stabilito con molta precisione il
raggruppamento delle percussioni a"nché corrispondano timbricamente con i
pianoforti. Per quanto riguarda la struttura formale della composizione, essa è
stata chiaramente definita dall’autore in un testo introduttivo, nel quale è
specificato che si attiene rigorosamente ai modelli classici della forma sonata,
con annessa coda in forma di fugato (nel primo movimento), della semplice
forma di romanza a - b - a (nel secondo) e di un’unione di rondò e di forma
sonata (nel terzo).

Assai lento; Allegro molto

Nel primo movimento, il principale motivo è un’attorcigliata figurazione che


colma di passaggi cromatici lo spazio di un tritono. La musica acquista corpo
dalle aumentazioni intervallistiche, dalle inversioni e dalle imitazioni canoniche.
L’agitazione cresce fino al momento in cui il ritmo raggiunge l’Allegro molto.
Chiare triadi maggiori risplendono in mezzo a collisioni politonali. Appare una
grandiosa asserzione, in tempo Un poco maestoso. Un ritmo rollante porta ad
una fuga, mentre i pianisti percorrono le tastiere in direzioni opposte. Una
poderosa coda porta il movimento alla sua conclusione.

Lento ma non troppo

Nel secondo movimento, la melodia iniziale oscilla lentamente lungo mutevoli


accenni modali. Di colpo appare una nervosa quintina, rapidamente pulsante,
incrementata in forza e velocità, che presto raggiunge il più acuto registro della
tastiera in fortissimo. Una serie di accordi dissonanti è posta in moto nelle parti
pianistiche, mentre le quintine tematiche mantengono il loro impulso ritmico
nell’orchestra.

Allegro non troppo

Il finale è un brillante rondò nel quale si riconoscono numerose delle invenzioni


pianistiche favorite di Bartók, quali: rapidi passaggi polimodali che attraversano
la tastiera, parallelismi di triadi, trilli multipli dissonanti, secchi accordi
arpeggiati. La coda è notevole per le limpide triadi maggiori che divergono nei
due pianoforti terminando in un candido do maggiore.

127 1945

Concerto per pianoforte n. 3

https://www.youtube.com/watch?v=rlJP4fAckpM

https://www.youtube.com/watch?v=lPW-jpGCZC4

https://www.youtube.com/watch?v=l7J7L53b8U0

https://www.youtube.com/watch?v=_Lr8Ams8rqo

Allegretto
Adagio religioso
Allegro vivace

Organico: pianoforte solista, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2


trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, xilofono, triangolo, cassa chiara, piatti,
grancassa, triangolo, tam-tam, archi
Prima esecuzione postuma: Filadelfia, 8 febbraio 1946
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra 1946
Lasciato incompiuto e terminato nell'orchestrazione dell ultime 17 battute da
Tibor Serly
Guida all'ascolto (nota 1)

Béla Bartók è stato uno dei massimi compositori-pianisti del Novecento, con
Rachmanino! e Prokof'ev, anzi a giudizio di qualcuno che li aveva ascoltati tutti
e tre egli era il più energico, il più incisivo, il più autorevole, insomma il più
grande. Nelle sue esecuzioni, non solo delle sue musiche ma anche dei classici
del pianismo (Liszt, naturalmente, ma anche Zarathustra di Strauss, in una sua
trascrizione per pianoforte!), il rigore tecnico e la concentrazione espressiva
erano impressionanti senza che mai dessero neppure un'idea di esibizione. Si
comprende, dunque, che tra i suoi lavori la musica pianistica abbia per noi oggi
un carattere speciale, si direbbe biografico, nel senso che ci è lecito pensare a
una naturale corrispondenza di attitudini e di forze tra il creatore e la sua
creazione oggettiva, quasi che egli l'avesse sentita in sé e subito scritta senza
mediazioni tecniche, cioè non solo con il suo genio creativo ma anche per la
propria attitudine interpretativa: e infatti Bartók era un interprete eccelso della
sua musica. Lo stesso vale, è logico, per tutti i grandi compositori-pianisti, per
Liszt (Chopin è isolato e unico), per Prokof'ev, per Rachmanino!, ma nel caso di
Bartók la severità dei mezzi e l'asciutto rapporto tra pensiero, contenuti emotivi,
assai ricchi, e linguaggio ci suggeriscono nella sua musica per pianoforte una
specie di identità tra l'artista e il suono, tra l'invenzione e l'esecuzione, o
addirittura tra l'improvvisazione del grande pianista e l'elaborazione del
musicista (elaborazione che poi nella realtà era accuratissima). Anche se questa
musica non è quasi mai ideata e scritta nei modi del pianismo tradizionale, ha
ben poco di consueto nel lessico e nella sintassi, e dunque non è musica per
pianisti (Bartók, avendo le capacità tecniche che aveva, non componeva al
pianoforte), proprio per questo, ripeto, il nesso tra l'immaginazione dell'artista,
la sua indole e la pagina creata ci appare intrinseco e necessario.

Cittadino di un paese 'intermedio', l'Ungheria, Bartók col suo genio accolse in sé,
elaborò, anzi conquistò due culture musicali con la loro quasi opposta natura,
l'europea occidentale, e in particolare la novecentesca di tradizioni colte e
individualistiche, e la danubiana-balcanica, spontanea, collettiva, rurale (che egli
studiò con metodo, interessandosi anche alle culture non europee). Furono in lui
due istinti e due 'passioni', la sperimentazione d'avanguardia e il primitivismo,
che crearono la sua personalità di artista, il suo credo poetico, il tipicissimo
linguaggio e l'inconfondibile modernità del suo stile, che quasi non conosce
segni di eclettismo. Insomma, il rigore, l'energia, l'originalità della musica ci
arrivano come la trasposizione sonora di un ritratto, morale ma anche fisico. E
questo è un carattere che appartiene tra i moderni soprattutto, direi, alla musica
di Bartók e specialmente alla pianistica.

Non desta stupore, tuttavia, che uno stile così personale sia poi maturato anche
sottraendosi allo sviluppo comune della musica radicale. E sebbene tra il 1910 e
il '35 circa egli abbia sperimentato ascetismi espressionistici (per esempio, il
Terzo Quartetto e il Quarto) e aggressività barbariche nelle sue composizioni più
avanzate, Bartók non fu mai un artista astratto. Anzi, col tempo e con i
sovvertimenti politici e sociali egli, antifascista convinto, si esiliò prima
dall'Ungheria, poi dall'Europa trasferendosi negli Stati Uniti: e nell'ultimo
decennio della sua vita la sua musica, per il bisogno, si direbbe, di parlare a tutti,
di contrastare la storia peggiore con l'arte più umana e di poter comunicare
anche in una società, l'americana, che non gli era familiare - la sua musica,
dunque, divenne più semplice, più cordiale (anche nel pessimismo), più lirica. Ne
è esempio significativo il Terzo Concerto per pianoforte e orchestra.

Nel passaggio tra uno e l'altro dei due Concerti precedenti, scritti molto prima,
nel 1927 e nel 19339, era già evidente la disposizione a una maggiore
semplicità. Nel Terzo Concerto manca del tutto il dinamismo turbolento e la
tensione di molti lavori del passato, l'architettura è chiara, rigorosa, quasi
'classica', sostenuta dalle simmetrie costruttive (e anche da celate relazioni
numeriche) che Bartók prediligeva. Perfino gli assetti tonali sono precisi e i loro
rapporti evidenti.

Il primo tema dell'Allegretto lo propone, asciutto e agile, il pianoforte insieme a


una quieta pulsazione dei timpani, su un brusio degli archi: da una penombra
spicca la forma precisa di un cantabile popolare che via via si espande sempre
più rapido e nervoso. Con ammirevole fluidità virtuosistica il pianoforte allaccia
al primo il breve e brioso secondo tema (la partitura prescrive: scherzando), il cui
scattante schema ritmico passa dal pianoforte a ogni settore dell'orchestra. Nello
'sviluppo' sembra prevalere il primo tema ampiamente rielaborato, ma tocca al
secondo tema concludere gioiosamente l'Allegretto sotto un fulmineo sberle!o
del flauto.

L'Adagio religioso, in forma tripartita ABA', è una delle pagine maggiori scritte da
Bartók, una meraviglia di quiete e raccoglimento. In pianissimo gli archi,
sostenuti dal clarinetto, cantano con grande respiro un tema polifonico, al quale
risponde, dopo un breve silenzio, il pianoforte con un corale di accordi solenni e
fermi che avanzano, sostano, avanzano con una calma che sembra non finire
mai. Ma la pace è drammaticamente turbata (B) da singulti, scintille e bagliori,
con un crescendo di angoscia che all'improvviso si estingue, misteriosamente
come era apparsa. Oboi, clarinetto, fagotti riprendono il corale (A") prima
suonato dal pianoforte, in una progressione maestosa a cui lentamente partecipa
tutta l'orchestra.

L'Allegro vivace è nella forma del Rondò, nel quale a un tema di estrema
eccitazione ritmica, tutto costituito com'è da note in sincope, si alterna un ilare
disegno fugato. La bizzarria di questo movimento sta nell'intervento solistico,
intenzionalmente bu!onesco, dei timpani.
Bartók avviò già gravemente ammalato la composizione del Concerto, che per
poche battute, le ultime quindici, non potè strumentare. Morì a New York il 26
settembre 1945 e il fedele amico e collaboratore Tibor Serly completò la poca
parte mancante.

Franco Serpa

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Bartók compose il suo Terzo Concerto per pianoforte e orchestra durante l'estate
del 1945. A quel tempo era già gravemente malato e non poté completare la
partitura. Le ultime diciassette misure furono ricostruite e orchestrate dal suo
amico e allievo Tibor Serly, che rivide anche alcuni dettagli di scrittura, come
pure le indicazioni di tempo e di metronomo, che mancavano del tutto per il
terzo movimento. A quelli di Serly si aggiunsero alcuni ritocchi di Eugene
Ormandy, direttore della prima esecuzione avvenuta l'8 febbraio 1946 a
Filadelfia, con György Sándor al pianoforte. L'edizione della partitura, pubblicata
nel 1947 da Boosey & Hawkes, dà conto con estrema cura e precisione di questi
interventi. L'opera, a conti fatti, può dirsi pressoché compiuta dall'autore.

Il Terzo Concerto è, nei suoi lineamenti stilistici, un'opera tipica della tarda
maniera di Bartók. Una semplice chiarezza strutturale e perfino tonale
caratterizza questo lavoro. Esso si di!erenzia decisamente dai due Concerti per
pianoforte che lo avevano preceduto, del 1926 e del 1930-31, scritti per così
dire dal Bartók compositore in funzione dell'a!ermazione del Bartók pianista: in
essi infatti lo strumento solista, con la sua scrittura martellata e aggressiva, si
contrapponeva alla potente e compatta massa orchestrale in una sfida
drammatica, quasi eroica. Qui ogni residuo di sfida e di competizione è
concettualmente e idealmente superato: pur non escludendo contrasti, il
Concerto mira alla collaborazione armoniosa, alla distillazione dei conflitti, alla
serena pacatezza della contemplazione, alla ra"nata concertazione. In questo
tipo di pianismo più di!erenziato e controllato non è ininfluente il pensiero alla
destinataria del Concerto, la moglie di Bartók Ditta Pásztory.

Il primo movimento, Allegretto, è in forma sonata ed è animato, in una singolare


ampiezza di tratto, da una grandiosa melodia strumentale di carattere
espressamente ungherese esposta prima dal pianoforte e poi ripresa
dall'orchestra. Il pianoforte canta, propone, incalza, e l'orchestra raccoglie,
integra e sviluppa le idee del solista. L'organicità percorre l'intero movimento e i
suoi contenuti con un senso quasi classico, mozartiano, delle proporzioni.

Cuore del Concerto è l'Adagio religioso centrale, nel quale può essere visto un
riferimento ispirato al Heiliger Dankgesang ("preghiera di ringraziamento") del
Quartetto per archi op. 132 di Beethoven. Due assorte sezioni esterne,
imperniate su figure di stampo polifonico e su una melodia corale del pianoforte,
racchiudono un vasto episodio atematico percorso da fremiti metafisici,
timbricamente esemplare dell'atmosfera angosciosa di tante "musiche della
notte" bartókiane. L'estrema rarefazione e concentrazione della materia
sembrano quasi valori a sé stanti, ma non escludono interpretazioni più
suggestive o programmatiche, spirituali o laiche, come quella di Massimo Mila
nel suo libro einaudiano su Bartók: "Tale il senso della religiosità a cui è fatto
esplicito riferimento nell'indicazione del secondo tempo: una depurazione dei
grumi troppo spessi della materia vitale, una risoluzione dei nodi tumultuosi in
cui s'aggrappa la turbolenza dell'uomo sospinto dalla pienezza delle sue energie,
un posare stanco dall'a!anno del vivere, che se non è proprio assoluta certezza
di pace futura, è almeno distacco, acquisita convinzione della vanità di tanto
gioire, so!rire, sperare, lottare".

Questo distacco si oggettiva aggiungendo anche un risvolto ironico nel brillante


Allegro vivace conclusivo, che il pianoforte attacca con gesto perentorio subito
dopo l'Adagio: un rondò del tutto tradizionale, giocato sull'alternanza del
ritornello asimmetrico, sincopato, ritmicamente incisivo, con due episodi di
carattere fugato, fagocitati e rielaborati con piglio virtuosistico dal solista.

Sergio Sablich

128 1945

Concerto per viola

https://www.youtube.com/watch?v=QiIBUAprXBU

https://www.youtube.com/watch?v=yfpCCJqu4Ts

https://www.youtube.com/watch?v=DiBX0MUY3-I

https://www.youtube.com/watch?v=URoGryx2Fkc

Moderato
Adagio religioso
Allegro vivace

Organico: viola solista, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 3 corni, 3


trombe, 2 tromboni, basso tuba, timpani, tamburo militare, grancassa, piatto
piccolo e piatto grande, archi
Prima esecuzione postuma: Minneapolis, 2 dicembre 1949
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra 1950
Rimasto incompiuto è stato completato e strumentato da Tibor Serly

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Poco prima della morte, avvenuta il 26 settembre 1945, Bartók così scriveva al
violinista e violista scozzese William Primrose, al quale è dedicata la partitura
oggi in programma: «Sono molto contento di dirvi che il "Concerto per viola" è
pronto in abbozzo; non resta più che da scrivere la partitura, cioè un lavoro
puramente meccanico, per così dire. Se tutto va bene, mi sbrigherò in cinque o
sei settimane, ossia potrò mandarvi una copia della partitura d'orchestra nella
seconda metà di ottobre, e poche settimane dopo una copia (o più copie, se
volete) dello spartito per pianoforte. Molti interessanti problemi mi si sono
presentati durante la composizione di questo lavoro. L'orchestrazione sarà
piuttosto trasparente, più trasparente che nel "Concerto per violino". Anche il
carattere cupo, più virile del vostro strumento ha esercitato una certa influenza
sul carattere generale del lavoro. La nota più alta che uso è il "la", ma sfrutto
piuttosto frequentemente i registri bassi. Il lavoro è concepito in stile
virtuosistico...». Purtroppo la leucemia di lì a poco mise fine alla tormentata vita
dell'artista che non potè portare a termine e strumentare questo concerto: il
compito di orchestrarlo fu assolto dal pianista ungherese Tibor Serly, il più
fedele e devoto allievo di Bartók. Lo stesso Serly si preoccupò, sulla scorta degli
abbozzi del compositore, di completare le ultime 17 battute del Terzo Concerto
per pianoforte e orchestra, con il quale questo Concerto per viola presenta molti
punti di contatto sia spirituale che estetico, soprattutto per quel senso di sereno
e rassegnato distacco dalla vita e di depurazione da tutto ciò che di drammatico,
di convulso, di tumultuoso e di impetuosamente vitale aveva caratterizzato le
opere del periodo precedente, in un lungo arco di tempo che va dall'Allegro
barbaro del 1911 al Sesto Quartetto per archi del 1939. Infatti in ambedue i
concerti l'arte di Bartók raggiunge un clima di pacata e pensosa contemplazione
e acquista una sua chiarezza strutturale e tonale che la rende ricca di vibrazioni
umane, pur nel contesto di un discorso più asciutto e stilizzato che alcuni
studiosi paragonano a quello degli ultimi quartetti beethoveniani.

A proposito di queste due composizioni anche Massimo Mila riconosce che «si
estingue l'elemento demoniaco che con tanta irruenza aveva rumoreggiato un
tempo nella sua musica, e sempre più vengono in luce valori di libera religiosità,
con una caratteristica frequenza d'armonizzazioni in stile di corale. In ognuno
dei due "adagio religioso" che stanno al centro dei due concerti si trova un
episodio agitato, che nella pace serena della stanchezza senile si colloca come
una spettrale rievocazione dei fremiti, delle agitazioni e dei tumulti della vita
intensa, pulsanti un tempo nei grandi quartetti e nella Musica per archi». Non c'è
dubbio che l'Adagio religioso con il suo severo discorso diatonico è il momento
più alto e più compiutamente espressivo di questo Concerto per viola e orchestra
ed è rivelatore dell'aspetto più significativo e riassuntivo dell'anima di Bartók
tutta protesa a difendere la sua individualità e integrità morale e artistica, pur
partecipando, è vero, a tutte le tendenze e a tutti i tentativi della musica
moderna, senza cedere però né al neoclassicismo tonale né all'espressionismo
dodecafonico.

Ma anche gli altri due tempi si impongono all'attenzione dell'ascoltatore per la


loro precisa fisionomia musicale. Il Moderato iniziale si presenta con una varietà
di movimenti di svagato tono rapsodico, in cui si dissimula la concatenazione
delle idee con quell'occasionale incepparsi della melodia in gorghi o mulinelli di
note che girano, lenti o vorticosi, su se stessi; l'Allegro finale si richiama a quegli
schemi di vivace e prorompente animazione folcloristica, che sono una delle
sigle caratteristiche della fantasia inventiva bartókiana.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Insolubilmente problematico nella sua incompiutezza, e interamente orchestrato,


sulla base degli abbozzi autografi, dall'allievo ed amico Tibor Serly, il Concerto
per viola fu commissionato a Bartók dal violista scozzese William Primrose, che
lo esegui per la prima volta a Minneapolis il 2 dicembre 1949, sotto la direzione
di Antal Dorati. L'autore, morto il 26 settembre 1945, vi aveva lavorato a più
riprese durante l'ultimo anno di vita, lasciandone però soltanto una stesura del
tutto sommaria, quasi interamente priva di indicazioni per la strumentazione e
gravata da numerosi problemi di leggibilità e interpretazione. La stessa divisione
in tempi del lavoro appare dubbia: in una lettera a Primrose, Bartók parla infatti
di quattro tempi con introduzione-refrain. Tre sono invece quelli dell'abbozzo,
collegati da brevi episodi di transizione: un Lento parlando tra il primo e il
secondo, un Allegretto tra il secondo e il terzo. La parte della viola concertante si
presenta, per contro, interamente compiuta: ad essa è a"data, nel Moderato
iniziale in forma sonata, l'esposizione di tutto il materiale tematico. L'indicazione
Adagio religioso fu attribuita al secondo tempo da Serly, per una supposta
analogia con il tempo centrale del Concerto n. 3 per pianoforte: la forma, però,
non è qui ABA', bensi ABC, dove C è una reminiscenza del primo tema del primo
tempo. Particolarmente disordinato è infine il manoscritto del conclusivo Allegro
vivace: non è tuttavia di"cile riconoscervi la caratteristica cifra bartókiana nelle
frequenti venature folcloriche (qui di sapore rumeno), nel vivace piglio ritmico,
nell'allusione nostalgica ai valori di una civiltà irrimediabilmente perduta con
l'esilio.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Alcuni anni fa, poco prima della sua scomparsa, György Lukacs in uno scritto
dedicato a Bartók notava che per il compositore ungherese «alla base della
questione centrale del rinnovamento del mondo (e dunque della musica)», sta «la
contraddizione inconciliabile tra il contadino che vive una vita naturale e l'uomo
moderno deformato e alienato la quale gli fornisce il punto di partenza per la
ricerca di una soluzione del problema della realizzazione di una vita 'umanizzata'
dell'uomo di oggi».

Se è vero dunque, come è stato più volte a!ermato e come lo stesso Lukacs
riconferma, che alla base dell'umanesimo bartokiano c'è l'ispirazione del mondo
popolare e contadino della sua terra, reinventata però in un linguaggio
assolutamente originale, è anche vero che negli ultimi lavori del compositore,
corrispondenti agli anni dell'esilio americano, questo riferimento appare sempre
più mediato attraverso un linguaggio che tende ad evadere dalla tensione
drammatica caratteristica dei suoi grandi capolavori precedenti (quali la «Cantata
profana», il «Quinto Quartetto», la «Musica per strumenti a corda, celesta e
percussione», la «Sonata per due pianoforti e percussione») per manifestarsi
nelle forme di un accentuato lirismo.

Per intendere questo mutamento stilistico, che si manifesta regolarmente in tutti


i lavori dell'esilio (fra i quali il «Concerto per orchestra» e il «Terzo concerto» per
pianoforte e orchestra), anche senza voler fare del sociologismo a tutti i costi
non si può dimenticare la condizione di completo isolamento in cui Bartók, come
tanti altri intellettuali e artisti europei, si trovò negli Stati Uniti.

A contatto con una società alienante come quella americana gli atteggiamenti
possibili per un artista erano infatti sostanzialmente quello dell'integrazione o
quello dell'isolamento. Molti furono costretti dalle necessità economiche o dal
tipo di attività esercitata a scegliere, in maggiore o minor misura, il primo: si
pensi alla fine tristissima, dal punto di vista artistico, di un compositore geniale
come Kurt Weill o a quella dei grandi cineasti dell'espressionismo tedesco. Artisti
di una coerenza morale che non è retorico definire eroica, quali Bartók e
Schönberg, scelsero consapevolmente la strada dell'isolamento con le sue
conseguenze di incomprensione, e spesso, anche di miseria materiale.

In una disperata lettera indirizzata ad un amico nel 1942, Bartók scriveva infatti:
«La mia carriera di compositore è praticamente finita; continua il boicottaggio
quasi totale delle mie opere da parte delle orchestre importanti; non si eseguono
né le mie opere vecchie, né le nuove, è una vergogna, ma non per me
evidentemente».

Fortunatamente, malgrado tutto, la carriera del Bartók compositore non era


a!atto terminata anche se la morte lo colse prima che potesse completare le
ultime diciassette misure del «Terzo concerto» per pianoforte e dar luogo alla
stesura definitiva del «Concerto per viola».

Quest'ultimo, gli era stato richiesto nel 1945, pochi mesi prima della morte, dal
grande violista William Primrose e Bartók non riuscì ad andare oltre la
composizione di alcuni temi e l'indicazione di un disegno generale dell'opera che
fu poi portata a termine, seguendo scrupolosamente le indicazioni anche verbali
ricevute dal maestro, dal suo amico Tibor Serly.

In una lettera a Primrose, Bartók a!ermava di voler opporre, in questo


«Concerto», al carattere «austero e piuttosto mascolino» dello strumento solista
un'orchestrazione trasparente e abbastanza discreta; ne è risultato un lavoro che
si colloca certamente fra i migliori concerti per viola che siano mai stati
composti.

L'opera è ordinata nei classici tre movimenti: l'iniziale «Moderato» è fondato su


due temi, con riesposizione, cadenza e coda, il successivo «Adagio religioso» è
in forma di lied e culmina in un episodio di carattere accentuatamente patetico;
l'aggettivo «religioso» che distingue questo movimento, come anche quello
centrale del «Terzo concerto», va inteso naturalmente non in senso mistico,
quanto piuttosto in rapporto alle convinzioni ideologiche del compositore, in
senso «umanistico». Il «Concerto» si conclude con un turbinoso «Allegro vivace»,
marcato da ritmi di danza all'ungherese, con due trii nel secondo dei quali l'oboe
disegna e!etti di cornamusa.

Marco Sperenzi

www.wikipedia.org

Storia

Nel gennaio 1945, cinque anni dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti per
sottrarsi all’orrore della guerra e della barbarie nazista, Béla Bartók stava ancora
lavorando al suo Terzo concerto per pianoforte quando ricevette la richiesta da
parte del violista scozzese William Primrose di scrivere un concerto per il suo
strumento. Nonostante la salute già alquanto malferma, il compositore aderì di
buon grado alla richiesta del committente e incominciò a mettere sul
pentagramma i primi abbozzi della futura opera. Probabilmente era a!ascinato
dall’idea di comporre un’opera impegnativa per uno strumento come la viola
che, salvo pochi grandi compositori contemporanei come Paul Hindemith e
William Walton, non era preso molto in considerazione, al punto da indurre lo
stesso Primrose a definirlo come “uno strumento in pensione”. Poco tempo dopo
aver accolto la richiesta, Bartók si procurò la partitura de l’Aroldo in Italia di
Hector Berlioz; forse era sua intenzione prendere a modello l’opera del grande
musicista francese al fine di scrivere una composizione che si fosse discostata
alquanto dal classico concerto per strumento solista e orchestra. Nel mese di
settembre, Bartók scrisse a Primrose per comunicargli che il Concerto per viola
era stato già schizzato: «Resta solo da scrivere la partitura orchestrale
(l’orchestrazione sarà piuttosto trasparente), la qual cosa non è più che un lavoro
meccanico […] Se non succede niente, la finirò in cinque o sei settimane e potrò
allora inviarvi una copia di questa partitura nella seconda quindicina di ottobre e,
qualche settimana più tardi una o più copie della riduzione per pianoforte».

Purtroppo, il 26 settembre Bartók si spense al West Side Hospital di New York


dove era stato ricoverato d’urgenza quattro giorni prima a causa del repentino
aggravarsi delle sue condizioni di salute. Il Concerto per viola rimase perciò
incompiuto. L’arduo incarico di portare l’opera a compimento fu assunto da un
devoto allievo di Bartók, il pianista ungherese Tibor Serly che già aveva
provveduto a completare le ultime 17 battute del Terzo concerto per pianoforte
e orchestra. Serly poté iniziare a lavorare sulla partitura solo nel 1947, due anni
dopo la morte del suo maestro. Il 2 dicembre 1949, il Concerto per viola fu
eseguito dall’Orchestra Sinfonica di Minneapolis diretta da Antal Doráti, con
Primrose nel ruolo di solista; la partitura così come rimaneggiata da Serly fu
pubblicata l’anno successivo.

Nel manoscritto originale di Bartók, la parte della viola solista è scritta dal
principio alla fine dal compositore medesimo; là dove Serly ha dovuto fare quasi
tutto da solo è nell’orchestrazione; è curioso, tuttavia, che in alcune parti dove il
compositore aveva lasciato talune annotazioni Serly non se ne sia servito; ad
esempio nella parte introduttiva del concerto da parte della viola si legge
l’annotazione timp.; benché questa parte possa essere facilmente eseguita su
timpani in tempo moderato, Serly ha inserito al loro posto il pizzicato di
violoncelli e contrabbassi.

Struttura

Nel suo lavoro di compimento dell’opera, Serly ha articolato il concerto come un


lavoro di carattere virtuoso suddiviso in tre movimenti. Rispetto al quasi
contemporaneo Terzo concerto per pianoforte, quello per viola si distingue
soprattutto per il tono grave e austero della parte solistica (di cui Bartók sfrutta
in prevalenza i registri inferiori) che contrasta con la luminosità e l’aereo
splendore dell’opera precedente. La tematica, «incisiva all’inizio, poi di un
lirismo pungente, alle volte impressa di tenerezza languida nel movimento
centrale, infine vivace e campestre con i suoi ritornelli di cornamuse nel finale, si
sviluppa con una serena unità, non cercando più di creare forti opposizioni come
nella maggior parte delle altre opere».

Nel primo movimento (Moderato - Lento parlando) la forma sonata è trattata


liberamente, con alcune particolarità come l’attacco della ripresa a"dato al
flauto e al corno, ma non alla viola; il successivo movimento reca l’indicazione
Adagio religioso, apposta non dall’autore ma da Serly forse per analogia con il
secondo movimento del Terzo concerto per pianoforte. Massimo Mila osserva
come in ognuno dei due adagi a metà strada «si apre un episodio più agitato,
che costituisce una patetica ed emozionante rievocazione di quei fremiti, di
quelle agitazioni e di quei tumulti della vita intensa che pulsavano nel Quarto e
Quinto Quartetto, o nella Musica per archi, percussione e celesta. L’episodio è
specialmente commovente nel Concerto per viola, che in genere è di una
sfumatura più dolente che il sereno Concerto per pianoforte. Lo strumento
solista è giunto, con una specie di rincorsa, a un alto lamento lungamente
sostenuto (piangendo, è indicato nella parte); e sotto le ripetizioni della sua
semplice, nuda invocazione si sviluppa un formicolio di suoni, un tremolo
d’archi, attraversato da brevi lampi, brividi timbrici che guizzano più o meno
acuti, ripetendo il fenomeno di fosforescenza sonora tipico delle musiche della
notte». Dall’Adagio si trapassa nel finale (Allegro vivace) con una coda
ritmicamente accentuata. Questo rondò con il suo tema in sedicesime che si
rigira ininterrottamente è una delle caratteristiche più spiccate del linguaggio
orchestrale di Bartók ispirata al folclore popolare ungherese.

Secondo Giacomo Manzoni, il Concerto per viola «rimane in ogni senso una
pagina degna di Bartók, che per distensione lirica e nell’insieme del linguaggio
armonico e melodico può essere paragonata al Terzo concerto per pianoforte».

Musica da camera

Pianoforte solo

https://www.youtube.com/watch?
v=__mcRwhUlY0&list=OLAK5uy_n4cAwWul9nue87FeeSJQsoOF5dkqUdXwM

2/1 1894

Prima Sonata in sol minore

Organico: pianoforte

2/2 1894

Scherzo in sol minore

Organico: pianoforte

3 1895

Fantasia in la minore
Organico: pianoforte

4 1895

Seconda Sonata in fa maggiore

Organico: pianoforte

5 1895

Capriccio in si minore

Organico: pianoforte

8 1897

Tre Pezzi

Organico: pianoforte

Edizione: Editio Musica, Budapest, 1965 (solo il n. 1)


Dedica: Gabriella Lator

11 1897

Scherzo o Fantasia in si maggiore

Organico: pianoforte
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1956

14 1898

Tre Pezzi (Fantasie)

Intermezzo in do maggiore
Adagio in sol minore
Scherzo in mi maggiore

Organico: pianoforte
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1956 (solo i primi 2)

16 1898

Scherzo in si minore
Organico: pianoforte

21 1900

Scherzo in si bemolle minore

Organico: pianoforte
Dedica: signora F. F.

22 1900 - 1901

Változatok (Tema e 12 variazioni)

Organico: pianoforte
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1965

23 1901

Tempo di minuetto

Organico: pianoforte

27 1903

Quattro pezzi per pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=AtLvLEX8ZT0

Studio per la mano sinistra


Prima esecuzione: Nagyszentmiklós, 13 aprile 1903
Dedica: István Thomán
Fantasia I
Prima esecuzione: Budapest, 27 marzo 1903
Dedica: Emma Gruber
Fantasia II
Dedica: Emsy e Irmy Jurkovics
Scherzo
Prima esecuzione: Budapest, 25 novembre 1903
Dedica: Ernő Dohnányi

Organico: pianoforte
Composizione: gennaio - ottobre 1903
Edizione: F. Bárd et Frère, Budapest, 1904
36a 1904

Rapsodia

https://www.youtube.com/watch?v=gCenn3ASdV0

Organico: pianoforte
Composizione: novembre 1904
Prima esecuzione: Pozsony, 4 novembre 1906
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1923
Dedica: Emma Gruber
Trascritta anche per pianoforte e orchestra BB 36b e per due pianoforti

38 1905 - 1907

Petits morceaux pour piano

https://www.youtube.com/watch?v=fMqw1nfMa1s

Organico: pianoforte
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1965
Libero adattamento del n. 2 dai Canti popolari ungheresi BB 37 e del n. 1 dai
Quattro Canti BB 24

45b 1907

Harom csikmegyei népdal (3 Canti popolari del distretto di Csik)

https://www.youtube.com/watch?v=PnSWq_1quYg

https://www.youtube.com/watch?v=7mdlJa2GnCg

Rubato
L'istesso tempo
Poco vivo

Organico: pianoforte
Edizione: Károly Rozsnyai, Budapest, 1910
Rielaborazione di Gyergyóból BB 45a

49 1908 - 1909

Két elégia (2 Elegie)


https://www.youtube.com/watch?v=f9-aKdGc2u0

Organico: pianoforte

Grave
Molto adagio, sempre rubato

Composizione: il n. 1 gennaio - febbraio 1908; il n. 2 dicembre 1909


Prima esecuzione: Budapest, 21 aprile 1919
Edizione: Károly Rozsnyai, Budapest, 1910

50 1908

Tizennégy bagatell (14 Bagatelle)

https://youtu.be/asE80lrcwTQ?list=PLBS4VpTglwoARUmN2JTt_iadLpgPu2qCp

https://www.youtube.com/watch?v=ylyYwmCcRoU

https://youtu.be/0HPlvQomqCo

Molto sostenuto
Allegro giocoso
Andante
Mikor gulyásbojtár voltam (Quand'ero un giovane pastore) - Grave
Ej' po pred naš, po pred naš (Ah!, con noi, con noi) - Vivo
Lento
Allegretto molto capriccioso
Andante sostenuto
Allegretto grazioso
Allegro
Allegretto molto rubato
Rubato
Elle est morte - Lento funebre
Ma mie qui danse - Presto

Organico: pianoforte
Composizione: maggio 1908
Prima esecuzione: Baden, 29 giugno 1908
Edizione: Károly Rozsnyai, Budapest, 1908
Il n. 14 arrangiato per orchestra costituisce il n. 2 dei Due ritratti BB 18b

Guida all'ascolto (nota 1)


Le Quattordici Bagatelle op. 6 di Bela Bartok (Nagyszentmiklós, Transilvania,
1881 - New York, 1945) costituiscono una tappa importante nella definizione
del percorso compositivo dell'autore. Completate nel 1908 esse trasfondono in
forme nuove sia le ricerche sulla tradizione popolare ungherese e limitrofa, che
Bartók conduceva con l'amico e collega Zoltàn Kodàly regolarmente da alcuni
anni (la pubblicazione a 4 mani di un primo album di canti trascritti e
armonizzati è del 1906), sia la scoperta e la ricezione della coeva musica
francese. Ambedue i termini di relazione erano, per Bartók, funzionali ad
allargare le possibilità di organizzazione sonora oltre le categorie del sistema
tonale, e - soprattutto nel primo caso - a fondarle su una radice culturale forte
e, per l'appunto, motivata. L'incontro con la tradizione popolare contadina
ungherese - ben di!erente da quella salottiera-cittadina della "musica tzigana" -
svelò infatti a Bartók un universo sonoro, costruttivo, espressivo e contestuale,
lontano da quello tonale. La concezione del suono nel canto popolare (tipo di
emissione vocale, intonazione mobile di alcune altezze...) era assai
caratterizzata, così come la trasmissione del repertorio (lì prevalentemente
orale), e le scale impiegate. Queste ultime erano assai diverse dai due modi di
riferimento (maggiore / minore) della tonalità, né del tutto coincidenti con le
scale della modalità gregoriana o bizantina: in alcuni casi, si muovevano sui
cinque gradi della scala pentatonica anemitonica (cinque suoni, senza distanze
di semitono tra essi), ma in altri ancora i suoni impiegati erano ancora meno
numerosi, con i reciproci rapporti intervallari variabili. Il canto popolare
rappresentò dunque per Bartók l'indicazione verso un mondo nuovo, le cui
strutture (con grande potenziale di complessità) si potessero ritagliare
liberamente nello spazio sonoro. Un'indicazione alternativa a quelle linee
mitteleuropee (Wagner e i wagneriani, Brahms...) che qua e là avevano già
sviluppato un'assimilazione del "colore" nazionale entro il saldo perimetro delle
strutture tonali e delle forme classico-romantiche.

La scelta di forme aforistiche, essenziali in stile, struttura e mezzi sonori,


conformate nella più varia maniera, è da leggersi ugualmente in funzione anti-
romantica: Ferruccio Busoni, attentissimo alle novità, disse delle Bagatelle
"Finalmente qualcosa di nuovo in campo pianistico", e le raccomandò all'editore
Universal per la pubblicazione, che avvenne però solo un anno dopo (1909)
presso l'editore ungherese Rozsnyai Kàroly. La lezione di alcuni pezzi pianistici
di Debussy, in cui il materiale è indagato entro un arco formale relativamente
raccolto, è stata presente senz'altro a Bartók; ma qui il suo riferimento primo è
l'ultimo Beethoven, non solo nel titolo, ma anche nell'a"darsi al pianoforte quale
medium della ricerca linguistica e dell'approfondimento più interiore. Le
anticipazioni del Bartók successivo sono perciò disseminate in gran copia: solo
per citarne una, l'attacco del n. 12 (Rubato), con una serie di note ribattute in
libero accelerando che ricorda da vicino la simile figura, a"data allo xilofono, in
apertura del secondo tempo della Sonata per due pianoforti e percussioni. A
questa immagine se ne avvicendano altre, e due principalmente (una lenta
melopea in 6/8, una serie di ondivaghe scalette) disegnano un paesaggio
misterioso, lunare, panico, che ricorda da vicino quello della Musica notturna di
All'aria aperta. Il mistero della natura, percepito in forme diverse
dalromanticismo più sentimentale e innervato nella stessa costruzione musicale
(strutture a sviluppo o a germinazione organica, sezioni auree), è un altro dei
temi sottesi da Bartók alla sua musica, ed è legato a doppio filo con lo studio
della tradizione popolare contadina, nel cui contesto questo rapporto assume
forme profonde.

Due delle Bagatelle (le nn. 5 e 6) adottano, in modi opposti, due canti popolari:
in "Ero un giovane pastore" la melodia viene a"data alla voce superiore e
armonizzata con soluzioni variate, assai personali in alcuni casi, poiché l'accordo
con la settima (tradizionalmente una dissonanza) viene considerato una
consonanza a tutti gli e!etti. In tal modo, per creare un moto di tensione verso
la cadenza armonica, Bartók deve reinventare nuovi equilibri nei collegamenti tra
gli accordi. In "Ahi, con noi" (canto slovacco) la melodia viene fatta viaggiare
sotto un compulsivo susseguirsi di accordi veloci e staccati. Gli ultimi due brani
recano inoltre un sottotitolo, legato autobiograficamente alla relazione con la
violinista Ste" Geyer. Il n. 13 non fa però riferimento ad una morte reale, ma al
troncamento della relazione voluto dalla ragazza: una circostanza sublimata in
una intensa quanto mesta elegia, resa funebre dallo sconsolato ritmo giambico
dell'accompagnamento. L'ultima Bagatella fu invece rielaborata e orchestrata
come secondo (Grotesque) dei Due ritratti per violino e orchestra op. 5.

51 1908

Tìz könynyű zongoradarab (10 Pezzi facili)

https://www.youtube.com/watch?v=lY4FrQQWuO8

https://www.youtube.com/watch?
v=y__cgwxK9K0&list=PLSjhBNtWU2oj7bp10iDDVz59dQWIp7-HT

Dedica
Paraszti nóta (Canzone rustica) - Allegro moderato
Lassú vergődés (Delusione) - Lento
Tóth legények tánca (Danza di ragazzi slovacchi) - Allegro
Sostenuto
Este a székelyeknél (Una sera con quelli di Székely) - Vivo, non rubato
Magyar népdal (Canto popolare ungherese) - Allegretto
Hajnal (Aurora) - Molto andante
Azt mondják, nem adnak (Canzone popolare slovacca) - Poco andante
Ujjgyakorlat (Esercizio per le cinque dita) - Moderato
Medvetánc (Danza dell'orso) - Allegro vivace

Organico: pianoforte
Prima esecuzione: Budapest, 15 novembre 1909
Edizione: Károly Rozsnyai, Budapest, 1908
I numeri 5 e 10 trascritti per orchestra costituiscono i primi due movimenti degli
Schizzi ungheresi BB 103

53 1908 - 1909

Gyermekeknek / Pro dêti (Per i bambini)

Su melodie popolari ungheresi e slovacche

https://www.youtube.com/watch?v=MR8ljgVVamI

https://www.youtube.com/watch?v=d8HGOJlycqk&t=26s

https://www.youtube.com/watch?v=UOMgmm9chhY

Volume I

Children at play
Children's Song
Quasi adagio
Pillow Dance
Play
Study for the Left Hand
Play Song
Children's Game
Song
Children's Dance
Lento
Allegro
Ballad
Allegretto
Allegro moderato
Old Hungarian Tune
Round Dance
Soldier's Song
Allegretto
Drinking Song
Allegro robusto
Alegretto
Dance Song
Andante sostenuto
Parlando
Moderato
Jest
Choral
Pentatonic Tune
Jeering Song
Andante tranquillo
Andante
Allegro non troppo
Allegretto
Con moto
Drunkard's Song
Swine-Herd's Song
Winter Solstice Song
Allegro moderato
Swine-Herd's Dance

Volume II

Allegro
Andante
Allegretto
Wedding Song
Variations
Round Dance I
Sorrow
Dance
Round Dance II
Funeral Song
Lento
Andante rubato
Allegro
Moderato
Bagpipe I
Lament
Andante
Teasing Song
Romance
Game of Tag
Pleasantry
Revelry
Andante tranquillo
Andante
Scherzando
Peasant's Flute
Pleasantry II
Andante, molto rubato
Canon
Bagpipe II
The Highway Robber
Pesante
Andante tranquillo
Farewell
Ballad
Rhapsody
Rhapsody
Dirge
Mourning Song

Organico: pianoforte
Prima esecuzione: forse Kecskemét, 1 febbraio 1913
Edizione: Károly Rozsnyai, Budapest, 1910 - 1912; 2a versione Boosey &
Hawkes, Londra - New York, 1947
La prima versione è composta di 85 brani in 4 volumi mentre la seconda ne
comprende 79 in 2 volumi. Qui riportiamo l'elenco dei brani della seconda
versione.

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il ruolo fondamentale occupato dalla produzione musicale di Béla Bartók nella


storia della musica del nostro secolo relega inevitabilmente su un piano
secondario altri aspetti della sua ricca e multiforme attività, non meno importanti
e ricchi di frutti. Innanzitutto Bartók fu anche uno straordinario pianista che nel
1905 a Parigi aveva perfino partecipato all'ambito Premio Rubinstein, venendo
superato dal solo Wilhelm Backhaus; inoltre, a partire dal 1907, insegnò
pianoforte per quasi trent'anni all'Accademia di Musica di Budapest; e infine non
può essere dimenticata la sua infaticabile e preziosa attività di etnomusicologo,
concretizzatasi in un'infinità di ricerche "sul campo" in Ungheria e in altre zone
d'Europa e in un gran numero di scritti teorici ancor oggi di grande interesse.
L'influenza di questi aspetti - le capacità di strumentista, l'attività didattica, le
ricerche sul canto popolare - non manca ovviamente di farsi sentire, in misura
maggiore o minore, nella sua produzione musicale. I brani che compongono la
raccolta Gyermekeknek, in particolare, pur rinunciando completamente
all'impiego di ogni tipo di virtuosismo strumentale, non possono essere spiegati
senza fare ricorso agli altri due aspetti principali dell'attività di Bartók: quello
didattico e quello etnomu-sicologico. Si tratta infatti di una raccolta di canti
popolari ungheresi e slovacchi trascritti per pianoforte e disposti in ordine di
di"coltà crescente a scopo didattico. Una prima versione, realizzata fra il 1908 e
il 1909 e pubblicata a Budapest nel 1910-12, era formata da 85 piccoli brani
suddivisi in 4 volumi, 2 intitolati Gyermekeknek e due Pro deti. Conciliando le
esigenze apparentemente incompatibili fra loro della didattica e della scienza,
Bartók corredò ogni brano di un semplice titolo (non proprio tutti i brani),
dell'indicazione metronomica, della durata cronometrica (oscillante fra i 25
secondi e i 2 minuti scarsi per ciascun brano), ma poiché alcuni sono la
trascrizione di canti pubblicati per la prima volta, aggiunse in appendice il testo
verbale specificandone il luogo di raccolta. Molti anni dopo, nel gennaio del
1945 pochi mesi prima della sua morte, Bartók, ormai stabilitosi in America, ne
curò una nuova versione pubblicata dalla Boosey & Hawkes di New York in 2
volumi intitolati For Children, comprendenti melodie popolari di origine
ungherese, il primo, e slovacca il secondo. Rispetto all'edizione originaria il
numero dei brani è stato ridotto a 79, e in molti casi ne è stata modificata la
dinamica, l'indicazione di tempo e, talvolta, il trattamento armonico. Essendo la
melodia data dal canto popolare, l'apporto originale del compositore è sempre
molto discreto e consiste essenzialmente nell'aggiunta di un accompagnamento,
in piccoli interludi fra le strofe e in alcune brevi sezioni di collegamento (mai
superiori alle due o tre battute, comunque), che secondo Bartók «non sono altro
che la cornice in cui viene sistemata la melodia contadina, che così sta
esattamente come la pietra preziosa nella sua incastonatura». Per quanto
riguarda l'armonia, secondo Bartók è molto importante non cadere nell'errore di
ritenere che le melodie popolari possano tollerare solo armonie estremamente
semplici. Un'altra cosa che Bartók ritiene fondamentale nell'utilizzare la musica
popolare in ambito colto è «portare nella musica colta il tipico carattere della
musica contadina (che è assolutamente impossibile esprimere con le parole): non
basta insomma immettervi dei tempi o l'imitazione dei temi contadini, perché in
tal modo si finirebbe col fare un banale travestimento del materiale popolare, ma
bisogna trasferire in essa l'atmosfera della musica creata dai contadini». Ed è
proprio per contribuire a ricreare quel «carattere assolutamente inesprimibile
con le parole» e quella «atmosfera» della musica contadina che le forme di tipo
strofico vengono adoperate nel modo più vario possibile e che si incontrano con
tanta frequenza cambiamenti di tempo, pause al di sopra della stanghetta di
battuta, indicazioni come «ad libitum» e «rubando».

Carlo Cavalletti

Dal VXI Congresso Mondiale per l’educazione musicale dei bambini

Fra le fotografie che corredano i libri su Béla Bartók ce ne sono abitualmente


due, molto famose, del compositore. Una -del 1936 - ritrae il suo viso scavato,
vissuto e profondo. Questa fotografia evoca immediatamente l'immagine del
grande compositore contemporaneo. Nella mente si associano l'autoritratto di
Schoenberg e gli schizzi del volto di Strawinskij. L'altra, precedente del 1908,
fissa Bartók di profilo accanto ad una contadina che sta di fronte ad un
fonografo. Da entrambi i lati, irrigiditi nella composizione per la fotografia,
stanno dei contadini sorpresi ed impacciati. Bartók è vestito come ci si vestiva in
città a quell'epoca; i contadini portano i loro abiti usuali che, per chi guarda,
sono costumi popolari. E’ una fotografia molto suggestiva, che emana una
tristezza indicibile. Sempre dal punto di chi guarda, si ha l'impressione che si
stia dettando il testamento di un mondo in quel piccolo arnese un po' rozzo che
è il fonografo. Nessuna delle persone ritratte doveva avere però questa
impressione. Non certo i contadini, ma nemmeno Bartók, che cercava tra i
contadini non delle spoglie, ma della musica vera, viva.
L'immagine di Bartók musicista contemporaneo, che si serve dei risultati delle
sue ricerche etnomusicali nella creazione di un nuovo linguaggio musicale, che
sarà una delle basi della musica d'avanguardia è estremamente familiare nella
mente di chiunque abbia un qualche interesse musicale.
L'idea di Bartók etnomusicologo, forse, è invece un po' più sfocata. Chi non ha
interessi specifici di etnomusicologia ha sempre il sospetto che Bartók fosse un
po' malato di romanticismo e si facesse qualche illusione di troppo sulla
naturalità e sulla spontaneità della musica cittadina.
Le raccolte di pezzi per pianoforte per bambini di Bartók a!ondano le radici nella
musica contadina raccolta dal compositore in maniera assai più immediata della
musica che scrisse per gli adulti. Essi mettono per questo assai in imbarazzo non
solo i dilettanti ma anche i maestri di musica. È noto che le raccolte sono due:
una è Mikrokosmos, un metodo completo per lo studio del pianoforte che Bartók
elaborò per suo figlio. L'altra è intitolata Gyermekeknek (Per bambini). In
Mikrokosmos l'eredità della musica contadina è stemperata nella severirà del
metodo. Dalla musica contadina vengono tratte alcune possibilità che si
a"ancano però a quelle tradizionali. Gyermekeknek invece, deriva
immediatamente dai canti popolari per bambini. Nella raccolta dei canti popolari
ungheresi che Bartók e Kodaly approntarono e che furono pubblicati
dall'Accademia delle Scienze di Budapest (Corpus Musicae Popularis Ungaricae) si
possono trovare i testi e la musica di cui Bartók si servì per comporre
Gyermekeknek. Nello studio del pianoforte il bambino non si sarebbe trovato di
fronte ad una musica diversa da quella che aveva sempre sentito, ma avrebbe
trovato una sorta di continuità, un'applicazione pratica allo strumento di ciò che
aveva sempre canticchiato. La musica popolare rimase infatti anche negli strati
borghesi limitata alla di!usione del mondo infantile, soprattutto nella borghesia
orientale-slava attraverso la mediazione delle innumerevoli balie e fantesche.
Presentare ad un bambino Gyermekeknek, soprattutto oggi in Italia, dove si
cantano ormai pochissime nenie infantili e soprattutto assai lontane dai
Gyermekdal e dai gyemekjatek (canti e giochi vocali per bambini) è
un'operazione assai delicata e mette in causa molti problemi di ricezione e
utilizzazione del testo e non da ultimo del senso stesso di un simile ricupero.
Ai musicologi stessi Gyermekeknek appare di gusto un po' retro. Massimo Mila,
che lo ha paragonato a Mikrokosmos nella sua assai di!usa Storia della musica,
lo giudica meno favorevolmente di quest'ultimo, per le sue concessioni al
pittoresco e al quadretto di genere. Alcuni maestri di musica lo mettono in
so"tta, allontanati dal gusto un po' barbarico, dai ritmi insoliti, dall'insistenza
delle note ribattute. Altri lo includono nel repertorio didattico prendendolo per il
suo lato meno estraneo e più consono alla tradizione dei pezzi per bambini per
pianoforte - alla quale Bartók si collega consapevolmente cercando di rinnovarla
per così dire dall'interno - quella per intendersi che va dalle Kinderszenen di
Schumann alla Boite à joujoux di Debussy. Ma le Kinderszenen di Schumann
sono la proiezione di un mondo infantile romantico e idealizzato. Per questo
rimangono inevitabilmente distanti dai bambini. Esse rappresentano piuttosto
come un adulto vorrebbe essere bambino. I quattro quadri della Botte à joujoux
sono un passo avanti verso l'esplorazione musicale del mondo del bambino.
Scritti attingendo alla Botite à Chouchou (alla scatola di Chouchou, alla bambina,
figli di Debussy, «che è la più fresca melodia del nostro cuore») sono un
tentativo di cogliere il fascino della semplicità infantile; «Come potete vedere -
a!erma Debussy in una lettera - è d'una semplicità infantile. Ho cercato d'essere
chiaro e nello stesso tempo divertente, ma senza pose e inutili acrobazie».
Tuttavia la Boite à joujoux rimane velata da un'indicibile malinconia, che è quella
dell'adulto che guarda il mondo infantile con la consapevolezza che esso è un
bene inattingibile alla coscienza, nel momento in cui lo si vive e che poi è
inesorabil-mente perduto.
Bartók porta invece nel suo Gyermekeknek una scoperta a!ascinante, strappata
alla musica popolare contadina. Così la tratteggia in uno dei suoi scritti, Che
cos'è la musica popolare?'. «Alla musica popolaresca (quella scritta da un
compositore borghese ad imitazione della musica popolare) mancava la vergine
freschezza della primitività, mancava quello che oggi si suole chiamare
"oggettività" che io preferirei chiamare semplicemente "assenza di
sentimentalismo"».
Se si intende la parola sentimentalismo, in un senso molto vicino a quello
schilleriano, cioè nostalgia verso qualcosa di perduto e che si ama e si canta
proprio in quanto perduto, si vede agire due volte in Gyermekeknek la lezione
della musica popolare-contadina, come fonte e come ispirazione ideale. I pezzi
per bambini vogliono essere proprio esenti da quel sentimentalismo nei
confronti dell'infanzia che è in fondo la sostanza delle Kinderszenen di
Schumann e rimane come residuo nel-la Botte à joujoux di Debussy.

54 1908 - 1910

Vázlatok (Sette Schizzi)

https://www.youtube.com/watch?v=Yuy9V-vpXNI
Leányi arckép (Ritratto di ragazza)
Hinta palinta (L'altalena)
Lento
Non troppo lento
Román népdal (Canto popolare romeno)
Oláhos (Nello stile slovacco)
Poco lento

Organico: pianoforte
Edizione: Károly Rozsnyai, Budapest, 1912
Dedica: il n. 1 a Márta Bartók, il n. 3 a Emma e Zoltán Kodály

55 1908 - 1911

Három burleszk (3 Burlesche)

https://www.youtube.com/watch?v=QWkXuN5_sik

https://www.youtube.com/watch?v=vj6yBfJRER4

Perpatvar (Disputa) - Presto. Meno vivo


Composizione: n. 1 novembre 1908
Kicsit ázottan (Un po' su di giri) - Allegretto
Composizione: maggio 1911
Molto vivo capriccioso
Composizione: 1910

Organico: pianoforte
Prima esecuzione: Budapest, 12 novembre 1921
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1912
Dedica: Marta Bartók
Il n. 2 trascritto per orchestra costituisce il n. 4 delle Scene ungheresi BB 103

56 1909 - 1910

Két román tánc (2 Danze romene)

https://www.youtube.com/watch?v=qQ0yH7gIfDs

Allegro vivace
Poco allegro

Organico: pianoforte
Composizione: 1909 - 2 Marzo 1910
Prima esecuzione: Parigi, 12 Marzo 1910 (solo la prima)
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1910
La prima trascritta per orchestra nel 1911, vedi BB 61

58 1910

Nágy siratóének (Quattro nenie)

https://www.youtube.com/watch?v=Kk18FUdU7d4

Adagio
Andante
Poco lento
Assai andante

Organico: pianoforte
Prima esecuzione: Budapest, 17 ottobre 1917
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1912
La Nenia n. 2 è orchestrata con il n. 3 negli Schizzi ungheresi, BB 103

63 1911

Allegro barbaro

https://youtu.be/FpoTxL-uOco

https://www.youtube.com/watch?v=AwCP2US7BaU

https://www.youtube.com/watch?v=LQ1RfxNLZd0

https://www.youtube.com/watch?v=VK-PAf1fwz8

https://www.youtube.com/watch?v=Isze3GAKfmU+

Tempo giusto

Organico: pianoforte
Prima esecuzione: Kecskemét, 1 febbraio 1913
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1918

Guida all'ascolto (nota 1)

Il concerto termina con l'Allegro barbaro, il più celebre brano pianistico di Bela
Bartók brano la cui popolarità è arrivato da tempo al punto da renderlo quasi
sospetto di banalità agli occhi di quei critici i quali non sembrano di poter
concepire che anche un lavoro tutt'altro che banale possa raggiungere una
di!usione universale. Quando Bartók scrisse di getto l'Allegro barbaro tra la fine
del 1910 e l'inizio del 1911 e lo fece ascoltare in pubblico nel corso di
quest'ultimo anno, il brano suscitò uno scandalo memorabile e i critici gridarono
al «grande talento smarritosi... nel dedalo di tendenze morbose» e caduto in
preda al «disordine» e addirittura alla «pazzia». In quel momento, quando cioè la
barbara violenza della Sagra strawinskyana non si era ancora scatenata, l'Allegro
barbaro di Bartók era indiscutibilmente un brano di una «barbarie» fonica senza
precedenti. In esso Bartók aveva ormai completamente assimilato gli autoctoni
elementi della musica popolare ungherese, aveva assimilato e superato altresì
tanto la scrittura pianistica di derivazione lisztiana, quanto l'impressionistico
stemperarsi delle armonie debussyane. La martellante meccanica pianistica e lo
scatenarsi di primordiali trame ritmiche si pongono in primo piano ingenerando
insieme quel senso di modernità, da epoca delle macchine, e di arcaica epopea.
Di qua i riferimenti immaginifici alle orde di Attila o di Genghis Khan che si sono
spesso letti a proposito di questo brano per il cui intendimento basterebbe
indicare lo sprigionamento di una forza vitale autentica e di formidabile potenza.

Roman Vlad

66 1913

Kezdők zongoramuzsikája (Il primo contatto con il pianoforte)

https://www.youtube.com/watch?v=ckZS_K9DAQw

https://www.youtube.com/watch?v=zw1i56KIjvs

https://www.youtube.com/watch?v=vRwwGvcmgig

https://www.youtube.com/watch?v=-dzsmBIz_xo

https://www.youtube.com/watch?v=a0KV19GzATI

https://www.youtube.com/watch?v=SVgeYUi9efk

https://www.youtube.com/watch?v=utXlWT6Dh3Q

https://www.youtube.com/watch?v=ph_nZFEsmns

https://www.youtube.com/watch?v=JonghpDYAlE

https://www.youtube.com/watch?v=905BDRJGjag
https://www.youtube.com/watch?v=YVCHofXZwVY

https://www.youtube.com/watch?v=4KP7RTeY4Gg

https://www.youtube.com/watch?v=4KP7RTeY4Gg

https://www.youtube.com/watch?v=5asjLkIgNhg

https://www.youtube.com/watch?v=O5PsrzTZpeY

https://www.youtube.com/watch?v=yW1rHj1Lb7g

https://www.youtube.com/watch?v=dShUUlOlon8

https://www.youtube.com/watch?v=RRqwxHAv-AA

18 pezzi facili per il metodo di Sandor Reschofsky

nn. 3 e 4 col titolo Parbeszéd (Dialogo);


nn. 7, 10 e 13 col titolo Népdal (Canto popolare);
n. 11, Menuett;
n. 12, Kanásztánc (Danza del porcaro);
n. 15, Lakodalmas (Danza di nozze);
n. 16, Paraszttánc (Danza di contadini)

Organico: pianoforte
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1913 e 1929

67 1915

Román kolinda-dallamok (Melodie di colinde rumene)

https://www.youtube.com/watch?v=oUJQhKAHJ4o

2 serie di canti natalizi di 10 brani ciascuna


Organico: pianoforte
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1918

68 1915

Romàn népi tàncok (Danze popolari rumene)


https://www.youtube.com/watch?v=GO_hWw7HdL8

https://www.youtube.com/watch?v=OoaKYJrXoVw

https://www.youtube.com/watch?v=cW4AHmTzyMo

Jocul cu bâtă (Danza col bastone) - Allegro moderato


Brăul (Danza della fascia) - Allegro
Pe loc (Danza sul posto) - Andante
Buciumeana (Danza del corno) - Moderato
Poargă românească (Polka rumena) - Allegro
Măruntel (Danza veloce) - Allegro

Organico: pianoforte
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1918
Dedica: prof. Ion Busitia
Vedi al BB 76 la trascrizione per orchestra

69 1915

Sonatina su melodie popolari rumene

https://www.youtube.com/watch?v=HhKPILHIjjA

https://www.youtube.com/watch?v=EulCuekV0c0

Dudásók (Zampognaro) - Allegretto


Medvetánc (Danza dell'orso) - Moderato
Finale - Allegro vivace

Organico: pianoforte
Prima esecuzione: forse Berlino, 8 marzo 1920
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1919
Trascritte per orchestra nel 1931 con il titolo Danze transilvane, BB 102b

70 1916

Suite per pianoforte in quattro movimenti

https://www.youtube.com/watch?v=dEde5ZWD1AQ

https://www.youtube.com/watch?v=KIFt-c_ByVQ
https://www.youtube.com/watch?v=f-Qm76JtY1o

https://www.youtube.com/watch?v=j4Uw2lPBI3M

Allegretto
Scherzo
Allegro molto
Sostenuto

Organico: pianoforte
Composizione: febbraio 1916
Prima esecuzione: Budapest, 21 aprile 1919
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1918

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Lo studio e la riscoperta del canto popolare ungherese costituiscono uno dei


filoni importanti della parabola stilistica della musica di Bartók, che utilizzò fra
l'altro il materiale folclorico della sua terra (risale al 1906 la pubblicazione dei
Venti canti popolari ungheresi con accompagnamento di pianoforte) come via di
uscita dalla crisi dell'armonia romantica. Insieme a Zoltàn Kodàly, Bartók ha
raccolto e fissato migliaia di canti popolari magiari, con lo scopo di
documentarsi direttamente alle genuine fonti delle melodie contadine: antiche
melodie prevalentemente pentatoniche, ossia basate su cinque toni nei vari modi
dorici, frigi, lidi, con coloriti particolari di intonazione bizantina, ritmi
asimmetrici, metri spesso quinari e settenari come quelli usati da Stravinsky nel
Sacre du printemps, così da spostare continuamente l'accento dinamico ed
espressivo. «Lo studio di tutta questa musica contadina - ha scritto lo stesso
compositore in un suo schizzo autobiografico - era per me di decisiva
importanza, perché esso m'ha reso possibile la liberazione dalla tirannia dei
sistemi maggiore e minore fino allora in vigore. Infatti la più gran parte, e la più
pregevole, del materiale raccolto si basava sugli antichi modi ecclesiastici o
greci, o perfino su scale più primitive... Mi resi conto allora che i modi antichi ed
ormai fuori uso nella nostra musica d'autore non hanno perduto nulla della loro
vitalità. Il loro reimpiego ha permesso combinazioni armoniche di nuovo tipo ed
ha avuto per ultima conseguenza la possibilità di usare ormai liberamente e
indipendentemente tutti e dodici i suoni della scala cromatica».

Naturalmente la melodia popolare costituisce un punto di partenza per Bartók


che rielabora con liberalità timbrica, ritmica e armonica il materiale e gli imprime
un taglio e una tensione psicologica del tutto personale, aperti verso certe
esperienze espressionistiche. Questo criterio compositivo si ritrova in diversi
lavori del musicista, a cominciare dalla Suite per pianoforte op. 14, che risale al
1916, per proseguire poi con i Quindici canti contadini ungheresi, scritti fra il
1914 e il 1917, con i Canti di Natale rumeni (1915) e fino alle otto
Improvvisazioni op. 20 per pianoforte (1920), dove la reinvenzione delle melodie
popolari giunge al più rigoroso radicalismo moderno.

L'influsso del canto contadino ungherese si avverte nella Suite op. 14 e per di più
nel terzo movimento l'autore fa uso di temi arabi raccolti nell'oasi di Biskra e la
cui ostinazione ritmica ripete quella già avvertita nell'Allegro barbaro per
pianoforte del 1911. Questo terzo movimento è caratterizzato da una vivace
concitazione agogica e da una ridda vertiginosa di suoni che richiamano alla
mente il primo Stravinsky; negli altri tre tempi pianistici, che si susseguono
senza soluzione di continuità e secondo una traiettoria ascensionale e non
dialettica, si notano meglio le figurazioni armoniche derivate dallo studio del
canto popolare, con la mescolanza e contemporaneità di modo maggiore e
minore, con la frequente alterazione di tonalità e l'uso della dissonanza come
stimolo all'e!etto dinamico. Nel Sostenuto finale l'atmosfera diventa triste e
assorta per un ripiegamento interiore dell' anima, staticamente rappreso in una
serie di accordi gravi e stridenti.

Ennio Melchiorre

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

«Il premio pianistico invece è assegnato / a uno sconosciuto che con il


metronomo Bach ha strimpellato». Questi due non alatissimi versi fanno parte
dell'Ode ai Quindici. Satira contro i membri della giurìa del Premio Rubinstein
scritta nell'estate del 1905 dal ventiquattrenne Bela Bartók, furente per essere
stato classificato secondo in quel concorso, sia nella sezione riservata ai pianisti,
sia in quella riservata ai compositori. Il pianista «sconosciuto» reo di aver so"ato
la vittoria a Bartók era nientemeno che Wilhelm Backhaus, all'epoca ventunenne;
ma non era questa delle due, la sconfitta che più bruciava a Bartók che in due
lettere di quel periodo dimostra di accettare quel verdetto e di so!rire
soprattutto per la sconfitta fra i compositori, dove non furono assegnati né il
primo né il secondo premio ma solo due diplomi d'onore, nell'ordine, all'italiano
Attilio Brugnoli e a Bartói stesso: «Che non abbia vinto tra i pianisti, niente di
strano ed è cosa che non mi fa male [...]; ha vinto l'inglese Backhaus il quale
suona e!ettivamente molto bene» (per inciso, si può notare che il giovane
Backhaus in realtà non era a!atto uno «sconosciuto» e soprattutto non era
inglese, ma in quel periodo insegnava al Royal Northern College of Music di
Manchester).

Comunque siano andate le cose, questo secondo premio alle spalle di uno dei
maggiori pianisti del Novecento in quello che allora era il più importante
concorso pianistico del mondo dà la dimensione del valore di Bela Bartók come
pianista. In e!etti il ruolo fondamentale occupato dalla sua produzione musicale
nella storia della musica del nostro secolo fa inevitabilmente passare in secondo
piano altri aspetti della sua ricca e multiforme attività, non meno importanti e
ricchi di frutti. Oltre ad essere stato, come si è detto, un eccellente pianaista,
Bartók ha svolto un'infaticabile e fondamentale attività di etnomusicologo,
concretizzatasi in un'infinità di ricerche sul campo in Ungheria e in altre zone
d'Europa e in un gran numero di scritti teorici ancor oggi di granade interesse; e
infine, a partire dal 1907, ha insegnato per quasi trent'anni pianoforte
all'Accademia di Musica di Budapest. L'influenza di questi tre aspetti - le capacità
di strumentista, le ricerche sul canto popolare, l'attività didattica - non manca
ovviamente di farsi sentire nella sua produzione musicale.

Sono i primi due aspetti a emergere con partcolare evidenza nella Suite op. 14,
composta a Ràkoskeresztur nel febbraio del 1916, pubblicata dalla Universal nel
1918 ed eseguita per la prima volta dall'autore a Budapest il 21 aprile del 1919,
nello stesso concerto in cui furono presentati anche i Tre Studi op. 18. La Suite si
apre con un Allegretto sereno e giocoso, non privo di una certa ironia, dal sapore
ingenuamente popolareggiante. In questo caso l'etnomusicologo Bartók non
ricorre a citazioni o imprestiti di melodie e ritmi contadini, ma raggiunge uno dei
suoi esiti più felici nel conseguimento di quel cosidetto folklore «immaginario»,
perseguito creando melodie e ritmi assolutamente originali ma interamente
sostanziati dallo spirito del patrimonio folklorico in linea con lo scopo che si
prefiggeva: «portare nella musica colta il tipico carattere della musica contadina
(che è assolutamente impossibile esprimere con le parole): non basta insomma
immettervi dei tempi o l'imitazione dei temi contadini, perché in tal modo si
finirebbe col fare un banale travestimento del materiale popolare, ma bisogna
trasferire in essa l'atmosfera della musica creata dai contadini».

La Suite op. 14 si va agitando nei due movimenti centrali - uno spigoloso


Scherzo, aperto da una secca e nervosa idea discendente che utilizza dieci suoni
diversi del totale cromatico, e un corrusco Allegro molto, toccata attraversata da
violente scosse elettriche - per poi concludersi insolitamente con intensissimo
movimento lento, uno spleenetico e introverso Sostenuto di appena 35 battute
dalla straordinaria concentrazione espressiva.

Carlo Cavalletti

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

La composizione della Suite op. 14 risale al 1916: per Bartók stava per
concludersi il periodo della prima maturità, quello che aveva preso le mosse fra il
1905 e il 1906, sull'onda di due fondamentali esperienze, la conoscenza
dell'Impressionismo francese e la scoperta del folklore magiaro e rumeno,
ambedue compiute per il tramite e l'ispirazione di Zoltàn Kodàly. In modo
dapprima abbastanza incerto e incoerente, questi due interessi avevano
impresso una drastica svolta alla sua evoluzione stilistica, orientandola, dopo le
prove giovanili ancora legate a un epigonismo lisztiano, verso la ricerca di un
linguaggio più aggiornato, e al tempo stesso capace di originalità nei confronti
anche delle correnti europee più avanzate.

Appunto dall'interesse folklorico - coltivato in anni e anni di pazienti ricerche sul


terreno, a diretto contatto con i contadini - Bartók aveva derivato, assimilandolo
a poco a poco, un patrimonio enorme di formule ritmiche e melodiche, che
dapprima assunte come semplice dato turistico, di colore,-sarebbero poi state
da lui utilizzate principalmente come elementi costitutivi di un lessico estraneo a
quelli in uso fra le scuole che si contrapponevano nell'Europa occidentale in
nome di concezioni diverse della modernità. Per ora, Bartók aveva cominciato il
suo Novecento sotto l'influsso dell'arte di Debussy, cogliendone, in particolare,
determinate intuizioni timbriche e certe individuazioni di atmosfere: lo
attendeva, verso la fine della grande guerra, una nuova, bruciante esperienza
«europea», quella dell'Espressionismo, che avrebbe trovato nel 1919 la sua
celebrazione con Il mandarino meraviglioso; poi, dopo la metà degli anni '20, la
conquista dello stile più personale, con la serie dei grandi capolavori orchestrali
e gli ultimi Quartetti. Nell'ambito di questo itinerario, la musica per pianoforte
costituì in più occasioni una punta di diamante, spesso proiettata in avanti
rispetto ad altri campi: cosa che del resto ben conveniva a un musicista come
Bartók, che era nato pianista prima ancora che compositore (rinunciò alla
carriera dopo lo sfortunato concorso «Rubinstein» a Parigi, nel 1905, che lo vide
secondo dopo Wilhelm Backhaus, del che è da ringraziare la giuria che lanciò
uno dei massimi pianisti del nostro secolo, rimandando invece a scriver musica il
futuro autore di tanti capolavori: vero è che in quella stessa occasione, nella
sezione del concorso dedicata ai compositori, Bartók riuscì ancora secondo,
dopo il rispettabilissimo Attilio Brugnoli; ma i grandi compositori, grazie al cielo,
non escono dai concorsi). Fu il caso di quell'Allegro barbaro che nel 1911 parve
davvero aprire, nella storia del pianoforte, un capitolo nuovo (e che ancora sta,
negli aggiornatissimi programmi d'esame dei nostri Conservatori, a
rappresentare la più sospetta e preoccupante modernità); e in parte anche della
Suite, presto divenuta una delle più eseguite composizioni di Bartók.

La Suite op. 14 costituì uno dei risultati più importanti conseguiti da Bartók nel
periodo dell'Impressionismo e del canto popolare: uno dei più importanti anche
perché in essa già si avvertono i segni di una prossima uscita da questa fase di
ricerca: dell'Impressionismo non restano qui che le tracce di una particolare
sensiiblità timbrica, certo minoritarie rispetto alla massiccia presenza di
dimensioni tipiche di tutto il pianismo bartókiano (violenze foniche, martellare di
ostinati, soluzioni «percussive») e comunque più vicine al Ravel visionario di
Gaspara de la nuit che non alle magie sonore dei Preludi debussyani; e il dato
popolare, pur ampiamente utilizzato, è del tutto depurato di tentazioni
folkloriche in senso esteriore, per farsi base di un linguaggio a!atto inedito.
Nell'Allegretto iniziale, i temi si ispirano al folklore rumeno (si tratta però di
motivi originali di Bartók), e la ritmica sembra qua e là stilizzare una danza
popolaresca. Ma basta l'impianto armonico, per lo più bitonale, a togliere ogni
sospetto di banale compiacimento coloristico; e le brusche cesure che
interrompono, verso la conclusione, il moto del discorso, contribuiscono a
determinare la fisionomia di netta modernità di questo primo brano. Nello
Scherzo il segno si fa ancora più acre. In esso compare addirittura la serie
dodecafonica: niente a che vedere con la scuola di Vienna, naturalmente; ma ciò
indica chiaramente in quale direzione si stesse movendo l'arte di Bartók via via
che essa proseguiva il suo libero cammino. I pochi spezzoni melodici che
a"orano nel corso del brano non interrompono il rapidissimo, martellante scatto
del ritmo. Secondo una disposizione in crescendo, il terzo movimento, che
utilizza temi arabi raccolti da Bartók nell'oasi di Biskra, si scatena in una
vorticosa e inarrestabile ossessione ritmica, che sembra voler toccare un vero e
proprio parossismo fonico, quando d'improvviso il movimento veloce trapassa
senza soluzione di continuità nel quarto e ultimo brano della Suite, un
Sostenuto: il lento moto degli accordi a poco a poco si smaterializza in
prospettive timbriche sempre più rarefatte, metafisiche, finché la chiusa sfuma in
pianissimo.

Daniele Spini

79 1914 - 1918

Tizenöt magyar parasztdal (15 Canti contadini ungheresi)

https://www.youtube.com/watch?v=2iKlXp_559w

https://youtu.be/2motjDR1q7k

- 4. Négy régi keserves ének (4 tristi antiche melodie)

Scherzo
Ballade (Tema con variazioni)

- 15. Régi táncdalok (Antiche melodie di danza)

Organico: pianoforte
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1920
Vedi al n. BB 107 la trascrizione per orchestra dei numeri 6 - 12, 14 e 15

80 1914 - 1918 circa

Tre melodie popolari ungheresi


https://www.youtube.com/watch?v=r9kysRMOBOU

Leszállott a páva (Il pavone è volato giù)


Jánoshidi vásártéren (Sulla piazza del mercato di Jánoshida)
Fehér liliomszál (Giglio bianco)

Organico: pianoforte
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1942

81 1918

Három tanulmány (3 Studi)

Allegro molto
Andante sostenuto
Rubato

Organico: pianoforte
Composizione: 1918
Prima esecuzione: Budapest, 21 Aprile 1919
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1920

83 1920

Rögtönzések magyar parasztdalora (8 improvvisazioni su canti contadini


ungheresi)

https://www.youtube.com/watch?v=b8UpJxQeC8M

Molto moderato
Molto capriccioso
Lento, rubato
Allegretto scherzando
Allegro molto
Allegro moderato, molto capriccioso
Sostenuto, rubato
Allegro

Organico: pianoforte
Prima esecuzione: Budapest, 27 febbraio 1921
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1922
Dedica: il n. 7 è dedicato alla memoria di Claude Debussy
88 1926

Sonata

https://www.youtube.com/watch?v=lpIlo8tGbSo

https://www.youtube.com/watch?v=lpIlo8tGbSo

https://www.youtube.com/watch?v=pj-7lhKgPiU

https://www.youtube.com/watch?v=_PGeUx0M8NY

Allegro moderato
Sostenuto e pesante
Allegro molto

Organico: pianoforte
Composizione: giugno 1926
Prima esecuzione: Budapest, 8 dicembre 1926
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1927
Dedica: Ditta Bartók

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

L'opera pianistica di Bartók può facilmente esser divisa in due settori: musica a
destinazione concertistica, musica a destinazione didattica. Mentre la seconda si
distribuisce uniformemente su tutto l'arco della creatività bartokiana, la prima si
addensa in alcuni momenti che hanno a che vedere con lo sviluppo della carriera.

Bartók, all'Accademia di Budapest, "studiò" da concertista di pianoforte, e nei


primi anni della sua attività professionale scrisse musiche per suo uso. La
carriera concertistica procedette però tra alti e bassi, tanto che Bartók decise alla
fine di abbandonarla. E per un po' di tempo non scrisse più musiche a
destinazione concertistica. Ma nel dopoguerra, con un nuovo sviluppo della vita
musicale internazionale, Bartók ritentò la carriera concertistica: ampliò il suo
repertorio di interprete, studiando musiche di Beethoven e di Debussy e
trascrivendo pagine di compositori barocchi italiani e di Couperin, e scrisse
qualche nuovo pezzo da concerto. Nel 1926, essendosi concretizzati alcuni
importanti impegni, compose il Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra, la suite
All'aria aperta e la Sonata per pianoforte solo.

La Sonata appare nel momento in cui Bartók, dopo aver raggiunto negli anni
precedenti il punto di massimo avvicinamento a Schönberg, entra nella fase
neoclassica della sua poetica. Le strutture architettoniche sono geometriche e
facilmente comprensibili, la scrittura procede per linee nettamente stagliate, la
ritmica è semplice ed icastica chiaramente definiti sono i poli tonali, e la sonorità
pianistica è netta, percussiva. Neoclassicismo non significa però, per Bartók,
recupero della dimensione cameristica familiare del pianoforte. Il confronto con
la Sonata dì Stravinsky, scritta due anni prima, è a questo proposito illuminante.
Detto in soldoni, la Sonata di Stravinsky è un pezzo di media di"coltà, che
nettamente si distingue dal virtuosismo delirante dei Tre Movimenti da
"Petruska". La Sonata di Bartók è invece molto di"cile, ma nello stesso tempo
non ricalca i modelli del virtuosismo trascendentale romantico e tardo-
romantico, a cui Bartók si era ispirato in gioventù. Con la Sonata e con All'aria
aperta Bartók apriva dunque una fase nuova nella storia della musica per
pianoforte a destinazione concertistica. L'aprì e non la percorse perché, ancora
una volta, le sue fortune di concertista non volsero al bello e il pubblico preferì
ascoltare da lui, magari, qualcuno dei suoi vecchi pezzi. Ma dallo stile pianistico
messo a punto nella Sonata per pianoforte solo sarebbe nata, dieci anni più
tardi, la Sonata per due pianoforti e strumenti a percussione.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Composta nel 1926, l'anno in cui videro la luce anche il Primo Concerto per
pianoforte e orchestra e la Suite "Szabadban" ("All'aria aperta"), la Sonata
costituisce uno dei primi risultati dell'inserimento di Bartók a livello europeo e
l'inizio di un periodo di felicità creativa, ricco di opere di enorme rilievo.
Considerata fra i migliori frutti del Novecento pianistico e, da alcuni, il
capolavoro di Bartók fra le composizioni per pianoforte, questa Sonata presenta
una struttura unitaria che si svolge su una solida scrittura contrappuntistica, con
una rigorosa economia dei mezzi espressivi.

L'Allegro moderato, costruito Secondo gli schemi della forma-sonata


tradizionale, si caratterizza con originalità nella continua variazione del tema. Il
movimento è aspro, percussivo, fortemente ritmico. Il secondo tempo, Sostenuto
e pesante, è come una solenne e lenta trenodia, variata soltanto dall'uso di
un'ampia gamma ritmica; il carattere ostinato e ripetitivo della parte melodica
trae le sue origini dagli schemi tipici della musica popolare. L'Allegro molto si
svolge in forma di rondò con variazioni, con un andamento assai virtuosistico e
con il tema principale che richiama quello di carattere popolare del primo
movimento. Il tessuto ritmico di quest'ultimo tempo è estremamente fluido,
mentre la conclusione, in un crescendo di frenesia, culmina in una vulcanica
sequenza di accordi violenti e aggressivi.

Salvatore Caprì

Guida all'ascolto 3 (nota 3)


La «Sonata» per pianoforte, composta nel 1926, costituisce uno dei primi
risultati dell'inserimento di Bartók a livello europeo e l'inizio di una grande
stagione compositiva ricca di capolavori. Dopo la scoperta del canto contadino
ungherese, che rimarrà a fondamento costante della sua opera, e la virata verso
l'espressionismo fra i cui frutti migliori sarà il «Mandarino meraviglioso», Bartók
studia a fondo l'opera di Bach e ne assimila la grande lezione contrappuntistica.

L'enfasi romantica e i densi grappoli di note che caratterizzavano molte delle sue
opere precedenti cedono ora il posto ad un linguaggio depurato, fondato su una
scrittura contrappuntistica e modale e sulla rigorosa economia dei mezzi
espressivi. È interessante però notare come in Bartók queste acquisizioni non
comportino mai gli arcaismi stilistici caratteristici del neoclassicismo e di autori
quali, ad esempio, Igor Stravinskij; Bartók cioè non rinuncia mai ad essere se
stesso, a parlare in prima persona.

Significativo è, da questo punto di vista, il confronto fra la «Sonata» del


compositore ungherese e l'anaIoga composizione di Stravinskij, che risale al
1924 e in cui appunto il musicista russo si avvale, in pieno clima di «ritorno a
Bach», di un contrappunto severo e angoloso, di una voluta monotonia negli
sviluppi.

Al contrario, Bartók, pur adottando il contrappuntismo neoclassico non ne deriva


l'imitazione di forme e stilemi antichi, ma resta sempre un contemporaneo che
usa, ad esempio, frammenti di melodie popolari pentatoniche sviluppate
rapsodicamente più per mezzo del ritmo che dell'armonia. Cosi il primo tempo
della «Sonata», un Allegro moderato, è si nella classica forma di sonata con un
primo tema ed un secondo soggetto bitonale, ma da un altro soggetto scaturisce
in moto contrario un tema popolare.

Ugualmente, il secondo tempo si svolge con larghi accordi e con una melodia
che ripete all'infinito gli stessi suoni con un carattere ostinato e ossessivo tipico
della musica popolare; il terzo movimento, infine, è un Allegro molto che si
svolge in forma di rondò con variazioni con un andamento assai virtuosistico e
con il tema principale che richiama quello di carattere popolare del primo
movimento.

Non va dimenticato anche, per una più puntuale collocazione storica del lavoro,
che esso è esattamente contemporaneo del «Primo Concerto» per pianoforte, dei
«Nove piccoli pezzi» e dei cinque pezzi pianistici di «All'aria aperta», tutti lavori
nei quali le componenti dell'arte bartokiana trovano significativa espressione.

Mario Sperenzi
89 1926

Szabadban (All'aria aperta), 5 pezzi

https://www.youtube.com/watch?v=BYFrTelfvvg

https://www.youtube.com/watch?v=deDOEqha8hg

https://www.youtube.com/watch?v=6Wb4Bn5Ax3A

https://www.youtube.com/watch?v=0xU-p9wmSqg

Sippal, dobbal (Con tamburi e pi!eri) - Pesante


Barcarola - Andante
Musettes - Moderato
Az éjszaka zenéje (Musica della notte) - Lento
Hajsza (La caccia) - Presto

Organico: pianoforte
Composizione: giugno - agosto 1926
Prima esecuzione: Budapest, 8 dicembre 1926
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1927
Dedica: Il n. 4 è dedicato a Ditta Bartók

Guida all'ascolto (nota 1)

Composta nel 1926, l'anno della Sonata per pianoforte e del Primo Concerto per
pianoforte e orchestra (che consolidarono la fama di Bartók negli ambienti
musicali del tempo), la Suite "All'aria aperta" è forse il capolavoro pianistico del
compositore ungherese.

I cinque brevi pezzi che la compongono (la cui durata totale è inferiore ai
quindici minuti) sono di un virtuosismo trascendentale, basato su costruzioni
timbriche da far tremare i più agguerriti pianisti, e costituiscono l'a!ermazione
di un Bartók romantico, istintivo e visionario, liberamente ispirato dagli aspetti di
quella Natura che costituì fondamentalmente il credo e la religione del musicista.

Infatti, il titolo "All'aria aperta", e il suo corrispettivo francese, non traducono


fedelmente l'originale ungherese "Szabadban" ("In libertà"), che va inteso non
soltanto ne! suo aspetto naturalistico ma anche come libertà formale di
composizione.

Il primo brano "Con pi!eri e tamburi" alterna le percussioni sul registro basso
del pianoforte (ad imitazione dei tamburi) con frasi più distese (di pi!eri). La
"Barcarola" che segue, nel continuo movimento ondeggiante dei bassi,
volutamente asimmetrici, suscita una sensazione di accorata, nostalgica poesia.
Il terzo brano, "Musettes", ha un particolare sapore popolare, arricchito da
geniali ornamenti melodici e caratterizzato dall'uso di un pedale continuo.
"Musiche notturne" è una delle pagine più straordinarie di Bartók, piena di
poetiche evocazioni, in un'atmosfera rarefatta e misteriosa, percorsa da sottili
fremiti di foglie e lontane grida di sconosciuti uccelli. Sembra un drammatico
ricordo, al limite fra l'umano e il surreale, fra la musica e il rumore. L'ultimo
brano, ¡l cui titolo più appropriato sarebbe "agitazione" o "palpitazione" piuttosto
che "caccia" o "inseguimento", suscita una tensione continua, ossessiva, con l'uso
di un mi ostinato del basso contro cui vanno ad infrangersi i deliranti ritmi della
mano destra.

Salvatore Caprì

90 1926

Kilenc kis zongoradarab (9 Pezzi brevi)

https://www.youtube.com/watch?v=xJ28WgK2bUk

Moderato
Andante
Lento
Allegro vivace
Menuetto - Moderato
Dal (Aria) - Allegro
Marcia degli animali - Comodo
Csörgő tánc (Tamburino) - Allegro molto
Preludio all'ungherese - Molto moderato

Organico: pianoforte
Composizione: 31 ottobre 1926
Prima esecuzione: Budapest, 8 dicembre 1926
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1927

92 1916

Három rondò népi dallamokkal (3 Rondò su melodie popolari slovacche)

https://www.youtube.com/watch?v=Eo9g_CENNV4

https://www.youtube.com/watch?v=7GKcsB77jQA
https://www.youtube.com/watch?v=5AzemHYOlkY

Andante. Allegro molto


Vivacissimo. Allegro non troppo
Allegro molto

Organico: pianoforte
Composizione: Il primo rondò nel 1917, gli altri due nel 1927
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1930

105 1926 - 1939

Mikrokosmos

https://youtu.be/uJXnj55_BzI

https://www.youtube.com/watch?v=Q0kSDqwOxos

https://www.youtube.com/watch?v=kPRxjd2ETSo&t=46s

https://www.youtube.com/watch?v=K44mcMjH2GE

https://www.youtube.com/watch?v=iWsXyGQi-zI

https://www.youtube.com/watch?v=0lgB_uqFCrI

https://www.youtube.com/watch?
v=pQx73SQ75lg&list=PLB8nEMjv0pHU3I7SdDO6uLJ6RPyN5NZUV

https://www.youtube.com/watch?v=6rs3jAEG6Vc

153 pezzi di di"coltà progressiva, divisi in 6 libri

Libro I (nn. 1-36):

Hat unisono dallam (melodia all'unisono)


Hat unisono dallam (melodia all'unisono)
Hat unisono dallam (melodia all'unisono)
Hat unisono dallam (melodia all'unisono)
Hat unisono dallam (melodia all'unisono)
Hat unisono dallam (melodia all'unisono)
Kóta ponttal (Note puntate)
Hangismétlés (Note ribattute)
Szinkópák (Sincopi)
Két kézzel felváltva (Mani alternate)
Párhuzamos mozgás (Moto parallelo)
Tükörkép (A specchio)
Fekvésváltozás (Cambiamento di posizione)
Kérdés és felelet (Domanda e risposta)
Falusi dal (Canto rustico)
Páárhuzamos mozgás helyzetváltozással (Moto parallelo e cambiamento di
posizione)
Ellenmózgás (Moto contrario)
Négy unisono dallam (melodia all'unisono)
Négy unisono dallam (melodia all'unisono)
Négy unisono dallam (melodia all'unisono)
Négy unisono dallam (melodia all'unisono)
Imitació és ellenpont (Imitazione e contrappunto)
Imitació és fordítása (Imitazione e inversione)
Pastorale
Imitació és fordítása (Imitazione e inversione)
Hangismétlés (Note ribattute)
Szinkópák (Sincopi)
Kánon oktávàbán (Canone all'ottava)
Imitació tükürkèpben (Imitazione a specchio)
Kánon az alsó kvintben (Canone alla quinta inferiore)
Tánc kánon-formában (Piccola danza in forma di canone)
Dór hangsor (In modo dorico)
Lassú tánc (Danza lenta)
Frig hangsor (In modo frigio)
Korál (Corale)
Szabad kánon (Canone libero)

Appendice: 4 esercizi relativi ai nn. 18-21, 22-25, 27 e 29

Libro II (nn. 37-66):

Líd hangsor (In modo lidio)


Staccato és legato
Staccato és legato
Délszlávos (Alla iugoslava)
Dallam kísérette (Melodia con accompagnamento)
Kíiséret tört harmasokkal (Accompagnamento in triadi spezzate)
43a-43b. Magyaros (All'ungherese) (il n. 43a per 2 pf.)
Ellenmozgás (Moto contrario) per 2 pf.
Méditation
Növekedés - fogyás (Aumentazione - diminuzione)
Nagyvásár (Fiera)
Mixolíd hangsor
Crescendo - Diminuendo
Minuetto
Rìngás (Cullarsi)
Egyszólamúság kézváltással (Unisoni a mani separate)
Erdélyies (Alla transilvana)
Kromatika
Triolák líd hangsorbart (Terzine in modo lidio) per 2 pf.
Tercelő dallam (Melodia in decime)
Hangsúlyok (Accenti)
Napkeleten (All'orientale)
Dur és moll (Maggiore e minore)
Kánon tartott hangokkal (Canone con note tenute)
Pentaton dallam (Melodia pentatonica)
Párhuzamos mozgás kis hatodbangközökben (Seste minori in moto parallelo)
Zsongás (Brusio)
64a-64b. Vonal és pont (Linea e punto)
Párbeszéd (Dialogo) per v. e pf.
Dallam elosztva (Melodia divisa)

Appendice: 13 esercizi relativi ai nn. 38, 41, 42, 43, 47, 55, 56, 58, 62, 65 e 66

Libro III (nn. 67-96)

Tercekhez egy harmadik szólam (Una terza parte con terze)


Magyar tánc (Danza ungherese) per 2 pf
Akkordtanulmány (Studi sugli accordi)
Dallamhoz kettősfogások (Bicordi contro melodia)
Tercek (Terze)
Sárkánytánc (Danza del drago)
Kettős és hőrmasfogősok (Seste e triadi)
74a-74b. Magyar párosltó (Canto ungherese a coppie) (il n. 74b per voce e
pianoforte)
Trtolák (Terzine)
Háromszólamúság (A 3 voci)
Gyakorlat (Piccolo studio)
Ótfokú hangsor (Scala pentatonica)
Hommage à J. S. B.
Hommage à R. Sch.
Bolyongás (Passeggiando)
Scherzo
Dallam meg-megszakítva (Melodia con interruzioni)
Mulatság (Allegria)
Tört akkordok (Accordi spezzati)
Két dur pentacbord (2 pentacordi maggiori)
Változatok (Variazioni)
Sípszó (Suono di pive)
Négyszólamúság (A 4 voci)
Oroszos (Alla russa)
Kromatikus invenció (Invenzione cromatica)
Kromatikus invenció (Invenzione cromatica)
Négyszólamúság (A 4 voci)
Hol volt, boi nem volt (C'era una volta)
95a-95e. Róka-dal (Canzone della volpe); (il n. 95b per voce e pianoforte)
Zökkenők (Strafalcioni)

Appendice: 13 esercizi rektivi ai nn. 67, 69, 73, 77, 79, 82 e 85

Libro IV (nn. 97-121):

Notturno
Alátevés (Passaggio del pollice)
Kézkeresztezés (Mani incrociate)
Népdalféle (Come una canzone popolare)
Szűkitett ötödnyi távolság (Intervalli di quinta diminuita
Felhangok (Suoni armonici)
Moli és dur (Minore e maggiore)
Vandorlás egyik hangnemből a másikba (Passeggiando attraverso le tonalità)
Játék (két ötfokú hangsorral) (Gioco [con 2 scale pentatoniche])
Gyermekdal (Canto di bambini)
Dallam ködgomolyagban (Melodia avvolta di nebbia)
Birkózás (Lotta)
Báli szigetén (Sull'isola di Bali)
És összecsendülnek-pendülnek a hangok (I suoni s'incontrano e si scontrano)
Intermezzo
Változatok egy népdal fölött (Variazioni su un canto popolare)
Bolgàr ritmus (Ritmo bulgaro) (n. 1)
Téma ès fordítása (Tema e inversione)
Bolgàr ritmus (Ritmo bulgaro) (n. 2)
Nóta (Melodia)
Bourrée
Triolák 9/8-ban (Terzine in 9/8)
3/4-es tánc (Danza in 3/4)
Kvintakkordok (Accordi di quinta)
Kétszólamú tanulmány (Studio a 2 voci)
Appendice: 2 esercizi relativi ai nn. 98 e 113

Libro V (nn. 122-139)

Akkordok egyszerre és egymás ellen (Accordi uniti e opposti)


Staccato és legato
Staccato
Csónakázás (Canottaggio)
Változó ütem (Cambiamento di misura)
Új magyar nèpdal (Nuova canzone popolare ungherese) per voce e pianoforte
Dobbantós tánc (Danza contadina)
Váltakozó tercek (Terze alternate)
Falusi tréfa (Burla rustica)
Kvartok (Quarte)
Nagy masodhangközök egyszerre és törve (Seconde maggiori, unite e
spezzate)
Szinkópák (Sincopi)
Gyakorlatok kettősfogásban (Studi sulle doppie note)
Perpetuum mobile
Hangsorok egèszbangokból (Scala per toni interi)
Unisono
Dudamuzsika (Cornamusa)
Paprikajancsi (Pagliaccio)

Libro VI (nn. 140-153)

Szabad változatok (Variazioni libere)


Tükörződés (Soggetto a specchio)
Mese a kis légyről (La favola della piccola mosca)
Tört hangzatok váltakozva (Arpeggi divisi)
Kis másod- és nagy hetedhang-közök (Seconde minori e settime maggiori)
145a -145b. Kromatikus invenció (Invenzione cromatica)
Ostinato
Induló (Marcia)
148-153. Hat tánc bolgár ritmusban (6 danze in ritmo bulgaro)

Organico: pianoforte
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra, 1940
Dedica: i primi due fascicoli al figlio Péter; i numeri 148 - 153 a Harriet Cohen
Guida all’ascolto

Storia

Dopo aver composto Il mandarino meraviglioso fra il 1918 e il 1919, Bartók


a!rontò nei primi anni '20 un periodo di crisi creativa, aggravata dalle sue
vicende personali che gli crearono di"coltà e sconforto. Dopo aver partecipato
durante il governo di Béla Kun al Direttorio musicale, il compositore fu attaccato
politicamente con violenza, rischiando anche di perdere la cattedra di pianoforte
in conservatorio; tutto questo, unito a di"coltà familiari, gli impedirono di
esprimersi in nuove composizioni. Nel 1926, dopo l'esito disastroso della prima
rappresentazione de Il mandarino meraviglioso, si convinse che la tutta la sua
musica non fosse apprezzata dal pubblico. Pensò quindi di dedicarsi
nuovamente al pianoforte, cercando stimoli per una nuova fase creativa. Realizzò
quindi la Sonata, la suite All'aria aperta e il Concerto n. 1, dopo di che si dedicò
alla scrittura di una raccolta di piccoli pezzi di di"coltà crescente, inizialmente
composti con scopo didattico per il suo secondo figlio, Péter. L'opera, intitolata
Mikrokosmos, fu integrata e perfezionata dall'autore per ben tredici anni,
terminandola nel 1939. La raccolta, in sei volumi, fu pubblicata nel 1940.
Bartók non era nuovo all'intento didattico; egli aveva già composto, fra il 1908 e
il 1909, 85 pezzi per bambini che poi revisionò nel 1945 pubblicandoli col titolo
For Children.

Nel 1940 il compositore creò una versione per due pianoforti di sette pezzi tratti
da Mikrokosmos, cercando di realizzare una sorta di summa della sua ricerca
tecnico-istruttiva sul pianoforte. La raccolta comprende:

1. Ritmo bulgaro (IV, 113)


2. Studi sugli accordi (III, 69)
3. Perpetuum mobile (V, 135)
4. Staccato e legato (V, 123)
5. Nuova canzone popolare ungherese (V, 127)
6. Invenzione cromatica (VI, 145)
7. Ostinato (VI, 146)

I brani, che sono fra i più rappresentativi e tecnicamente di"cili di Mikrokosmos,


furono eseguiti per la prima volta a Budapest il 29 gennaio del 1940.

Analisi

Il titolo dell'opera può essere inteso sia come "Piccolo mondo" sia come "Mondo
dei piccoli" indicando come il lavoro, oltre ad essere destinato a giovani pianisti,
racchiudesse anche tutti i vari aspetti del mondo musicale[2].
Bartók con la sua raccolta segue l'esempio di molti musicisti che nel passato
avevano dedicato loro opere alla didattica, da Bach (Piccolo libro di Anna
Magdalena Bach), a Schumann (Album per la gioventù) e, più recentemente,
Prokof'ev (Dodici pezzi per l'infanzia).
L'opera consiste di 153 piccoli pezzi progressivi, ognuno dei quali dura spesso
meno di un minuto, altri poco di più e soltanto uno supera i tre minuti di
esecuzione. La di"coltà è crescente, si passa dai primi pezzi all'unisono di sole
otto battute a brani più complessi, fino a giungere al celebre Ostinato e alle Sei
danze su ritmi bulgari dal virtuosismo di stampo concertistico, dal sesto volume.
Il lavoro non prende in considerazione esclusivamente la musica per pianoforte
solo, ma comprende anche brani in cui è previsto il canto con accompagnamento
e altri per esecuzione a quattro mani o per due pianoforti.

Mikrokosmos, senza voler essere un vero e proprio metodo per lo studio dello
strumento, è diventato un punto fermo per la didattica pianistica; Bartók insegna
a suonare il pianoforte legando strettamente la sua metodologia all'evoluzione
del linguaggio musicale moderno; i suoi brani conducono attraverso le di"coltà
elementari, quali lo staccato o le mani incrociate, passando ad aspetti tecnico-
compositivi come la scala pentatonica o ritmi asimmetrici, fino alla politonalità
con pezzi che presentano tonalità diverse fra mano destra e mano sinistra.
Notevole è inoltre l'importanza che il compositore dà all'utilizzo del folklore
musicale, azzardando anche contaminazioni fra melodie tipicamente ungheresi e
altre bulgare, con sconfinamenti in motivi orientaleggianti; non mancano omaggi
a compositori del passato: Johann Sebastian Bach (III, 79) e Robert Schumann (III,
80).

I volumi cinque e sei sono pensati come pezzi da concerto per professionisti; fra
i pianisti che hanno registrato tutti i sei volumi si annoverano György Sándor,
Homero Francesch, Zoltán Kocsis, Jenő Jandó, Claude Hel!er, Dezsö Ranki.

113 1936

Kis szvit (Piccola suite)

https://www.youtube.com/watch?v=EBizNRWIlMw

Lento poco rubato


Allegro
Allegretto
Allegretto
Allegro molto

Organico: pianoforte
Prima esecuzione: Békéscsaba, 6 dicembre 1936
Edizione: Universal, Vienna, 1938
Trascrizione dei numeri 28, 38, 43, 16, 36 dei 44 Duetti per 2 violini, BB 104

Due pianoforti

115 1937

Sonata per due pianoforti e percussioni

https://www.youtube.com/watch?v=j6_Enhaw1Wg

https://www.youtube.com/watch?v=B-8Mmk6jRhI

https://www.youtube.com/watch?v=qz5wDbV3gMg

https://www.youtube.com/watch?v=EurDzYGoTaw&t=39s

https://www.youtube.com/watch?v=pydEoJI8X84

https://www.youtube.com/watch?v=NI8rHetwJGY

https://www.youtube.com/watch?v=ZTYGcNEYAmc

https://www.youtube.com/watch?v=5jm7wnk1SwM

Assai lento. Allegro troppo


Lento, ma non troppo
Allegro non troppo

Organico: 2 pianoforti, timpani, xilofono, cassa chiara senza timbro, idem con
timbro, piatto sospeso, piatti, grancassa, triangolo, tam-tam
Composizione: luglio - agosto 1937
Prima esecuzione: Basilea, 16 gennaio 1938
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1942
Vedi al n. BB 121 la versione per orchestra

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Quando nel 1937 la Società Internazionale di Musica Contemporanea di Basilea


commissionò a Bela Bartók un'opera strumentale per la celebrazione del suo
decimo anniversario di fondazione, egli scelse di realizzare un progetto coltivato
da anni scrivendo una sonata per pianoforte e percussioni. Rispetto all'idea avuta
originariamente Bartók pensò di poter meglio bilanciare il peso sonoro delle due
sezioni strumentali servendosi di due pianoforti, che egli, con un dettagliato
schema anteposto alla partitura, volle disposti ai due lati della batteria di
percussioni, per meglio ottenere un e!etto spaziale-stereofonico.

Nasce così la Sonata per due pianoforti e percussioni, una delle opere più
originali e significative del repertorio bartokiano nella quale l'insolito e audace
accostamento timbrico da la possibilità all'autore di sperimentare colorazioni
acustiche inedite, con sonorità secche ed elastiche al tempo stesso.

Non più relegati a un ruolo puramente sussidiario, i diversi strumenti percussivi


assumono ruoli di!erenti: il loro timbro, come ebbe a scrivere lo stesso Bartók,
«in molti casi colora soltanto il suono del pianoforte, in altri potenzia gli accenti
più importanti. Talvolta essi introducono motivi contrappuntistici opposti alle
parti pianistiche, mentre timpani e xilofono suonano temi, anche solistici». A
loro volta i due pianoforti vengono utilizzati in maniera prevalentemente
percussiva attraverso un ampio uso di suoni martellati, di marcate successioni
accordali, spesso con funzione di vero e proprio motore ritmico. Unitamente
all'amalgama sonoro, caratteristica saliente di quest'opera è dunque il ritmo:
estremamente mutevole nelle indicazioni metronomiche, spesso rese flessibili
dall'ampio uso dell'accelerando, travolgente e irresistibile negli ostinati e nei
fraseggi, ricchi di quelle asimmetrie e di quei sincopati che vent'anni dopo
ritroveremo nella moderna evoluzione della musica jazz (bop e successivamente
jazz-rock).

I tre tempi della sonata si presentano come tre quadri espressivi nettamente
distinti: il primo, tormentato e inquieto, a volte selvaggio e brutale, che
comprende una Introduzione lenta e un Allegro molto costituito da una forma
sonata complessa e articolata: il secondo, composto da una successione di
episodi avvolti in un clima misterioso e ovattato, inframmezzato da brividi e
fremiti passeggeri; il terzo, anch'esso in forma sonata, gioioso e vitale, informato
da un brillante motivo di ispirazione folkloristica.

Assai lento. Allegro molto. L'introduzione, una sorta di graduale conquista dello
spazio sonoro che esploderà con violenza nell'Allegro molto, si apre con un rullo
di timpani seguito da un cupo incedere quasi inanimato dei due pianoforti in
successione. Per due volte un lampo improvviso crea uno squarcio nella sonorità
iniziale, mentre il moto iniziale diviene accordale, e accelera crescendo
inesorabilmente verso un fortissimo. Una scansione tribale dei timpani con
percussioni accordali dei pianoforti porta, con un ulteriore accelerando,
all'Allegro molto. L'ampia Esposizione si articola in tre temi principali, il primo
dei quali è uno sferzante inciso dal ritmo sincopato, reiterato in forma accordale
dai pianoforti sopra il battere frenetico dei timpani. I due gruppi strumentali
quindi invertono i ruoli, il tema viene infatti scandito ritmicamente dalle
percussioni sull'ostinato dei pianoforti, per poi dialogare sul tema stesso fino al
graduale spegnersi della pulsione ritmica. Il secondo tema (Un poco più
tranquillo] è invece una melodia dal profilo graduale, sebbene con scansione
ritmica irregolare, accompagnata da ottave ribattute e da trilli, mentre il terzo
elemento tematico, che similmente al primo è connotato dalla sua struttura
ritmica (un insistente ritmo anacrusico). si snoda animandosi progressivamente,
per poi dar vita a un fugato sotteso dal fluttuante rullo dei timpani. L'Esposizione
si chiude quindi con un pacato intreccio dei due pianoforti che riprendono il
secondo tema, seguito da una sequenza di trilli e da un fitto movimento di
quarte parallele.

Nello Sviluppo le terzine suonate dal secondo pianoforte si snodano come


ingranaggi di un meccanismo, creando un moto perpetuo su cui il primo tema
viene elaborato con un lungo crescendo culminante con il brillante ingresso dello
xilofono. Riparte quindi il motore ritmico a terzine con l'innesto di brevi richiami
tematici, fino a quando un improvviso arrestarsi della trama musicale delimita un
breve episodio in rapida ascesa che conduce alla Ripresa. Il primo tema appare
profondamente modificato nella sua struttura tanto da non essere più
riconoscibile, mentre il secondo tema, vagamente anticipato dal secondo
pianoforte in un rarefatto episodio di collegamento, è più facilmente
individuabile, sebbene in parte coperto dagli arpeggi del primo pianoforte. Assai
più veloce che nell'Esposizione è invece il terzo tema che dà vita a un ampio
episodio contrappuntistico seguito dalla coda conclusiva nella quale ricompare,
ancora modificato ma più simile alla sua struttura originaria, il primo tema.

Lento, ma non troppo. Il movimento si apre con una delicata sequenza


percussiva di piatto e tamburi su cui va a sovrapporsi una lunga linea melodica
vagamente allucinata. Segue quindi una scansione di ottave che viene increspata
dal succedersi di rapide quintine in graduale crescendo. Come già era avvenuto
nel primo movimento al culmine di tale crescendo interviene lo xilofono
riprendendo il tema delle quintine. Nel terzo episodio vi è quindi una lenta
successione di clusters (accordi formati da «grappoli» di note ravvicinate) mossi
parallelamente allo xilofono e accompagnati da leggere quintine dei timpani;
mentre nel quarto e ultimo episodio troviamo un flusso di scale dall'andamento
cromatico che diviene gradualmente sempre più fitto e concitato per poi placarsi
nuovamente.

Completata la successione di questi quattro momenti, il secondo pianoforte


riprende in maniera variata il tema del primo episodio, mentre il primo
pianoforte gli si contrappone con un ondulatorio flusso di scale che si tramuta in
ampi glissati. Il movimento è completato da successioni accordali contenenti il
primo tema, da una serie di arpeggi seguita dal riecheggiare delle quintine e da
un breve acuto dello xilofono sugli accordi del secondo pianoforte che
rintoccano fino a scomparire.
Allegro non troppo. Un brillante accompagnamento accordale dei pianoforti fa
da piattaforma all'e!ervescente primo tema dello xilofono, che, dopo esser stato
ripreso dal secondo pianoforte, viene variamente elaborato in un ampio episodio
di collegamento; un'improvvisa accelerazione di tempo scandisce l'arrivo del
secondo tema che, pur distinguendosi dal primo per il fraseggio legato, ne
richiama la cellula ritmica principale. Lungo l'evolversi del secondo gruppo
tematico si inserisce un nuovo elemento ritmico (semicrome) che
progressivamente si infittisce con un'intensificazione della dinamica e
dell'agogica.

Nello Sviluppo lo xilofono introduce una successione di frammenti del primo


tema; vi è quindi una sorta di hoquetus (rapida alternanza a incastro) accordale
dei pianoforti su cui si inserisce una scherzosa variazione tematica dello
xilofono, mentre un breve slancio del primo pianoforte lascia posto a un
sommesso dialogo tra i diversi strumenti fatto di brevi lampi e rapide
punteggiature.

Nella Ripresa il ritorno del primo tema è camu!ato dalla variazione del suo
profilo melodico riproposto tramite una rapida successione imitativa dei due
pianoforti che giunge a un'ossessiva ondulazione ritmica dei pianoforti stessi e
dello xilofono. A sua volta la ripresa del secondo tema avviene anch'essa in
stretta imitazione contrappuntistica, l'evoluzione del tema stesso ritorna variata
e ampliata portando a un turbinoso moto di semicrome, mentre con il
riecheggiare accordale della cellula ritmica dei due temi, inframmezzato da un
suggestivo tremolo, si spegne progressivamente l'intera composizione.

Carlo Franceschi de Marchi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

È alla fine del 1940 che Bela Bartók lascia l'Ungheria per avviarsi all'esilio
volontario negli Stati Uniti. «Questo viaggio è, in fin dei conti, un salto
nell'incertezza da una certezza insopportabile» scrive il 14 ottobre all'amica
svizzera Müller-Widmann. Non era solo il clima bellico a far allontanare il
compositore, ma ancor più la ferma avversione verso le dittature europee e il
loro fiancheggiamento da parte del governo ungherese. Due anni prima, dopo
l'Anschluss dell'Austria al Reich, Bartók si era rivolto in termini crudi alla
medesima amica: «Scrivere di questa catastrofe, io credo, è del tutto inutile. [...]
C'è il reale pericolo che anche l'Ungheria si arrenda a questo regime di ladri e
assassini. La domanda ora è: quando? come? E non è concepibile che io possa
ancora vivere, ancora lavorare (il che è lo stesso) in un paese di questo tipo. Io
avrei davvero l'obbligo di espatriare».
Questo dunque il clima degli ultimi anni ungheresi di Bartók, anni di intensa
produttività, che vedono nascere, fra l'altro, il Sesto Quartetto, il Secondo
Concerto per violino e orchestra, il Divertimento per orchestra d'archi, nonché la
Sonata per due pianoforti e percussioni: un gruppo di lavori che sommano, con
grande maestria di scrittura, complessità costruttiva, ricerca timbrica, alte
ambizioni concettuali.

In particolare la Sonata per due pianoforti e percussioni venne scritta nel luglio-
agosto del 1937, come commissione per il decimo anniversario della Società
Internazionale di Musica Contemporanea, e venne poi eseguita il 16 gennaio
1938 a Basilea, dallo stesso compositore in coppia con la moglie Ditta Pàsztory,
insieme ai percussionisti Fritz, Schiesser e Philipp Rühling. Secondo la
testimonianza dell'autore «il tutto suonò abbastanza inusuale, ma comunque il
pubblico di Basilea apprezzò, decretando un grande successo». Alla base della
partitura si pone il lungo processo di emancipazione delle percussioni, da
strumenti idonei ad un sobrio impiego orchestrale, a strumenti dotati di una
dignità solistica e di un ruolo autonomo. In particolare la fusione di pianoforti e
percussioni era già stata tentata in modo avveniristico in Les noces di Stravinsky
(la descrizione di un rito nuziale russo con l'organico di soli, coro, quattro
pianoforti e percussioni), e lo stesso Bartók, nel 1936, aveva o!erto uno
straordinario contributo alla letteratura per percussioni con la Musica per archi
percussione e celesta.

La Sonata per due pianoforti e percussioni si colloca sulla scia dell'esperienza del
brano scritto l'anno precedente, con esiti però a!atto originali. Secondo le parole
di Massimo Mila: «È come se i fantasmi poetici evocati nella Musica per archi non
avessero ancora esaurito la loro e"cacia e sollecitassero la fantasia del
compositore, chiedendo altre sistemazioni». Si tratta innanzitutto di uno studio
della timbrica, e dunque converrà leggere le parole dello stesso autore:

«I sette strumenti a percussione - timpani (3), gran cassa, piatti, gong, tamburo
militare, cassa rullante e xilofono - richiedono solo due esecutori, uno dei quali
non suona mai lo xilofono, mentre l'altro non suona mai i timpani. Queste due
parti di percussioni sono del tutto uguali come importanza a ciascuna delle parti
pianistiche. Il timbro degli strumenti a percussione ha varie funzioni: in molti
casi dona solamente colore al suono del pianoforte, in altri sottolinea i più
importanti accenti; occasionalmente gli strumenti a percussione introducono
motivi contrappuntistici contrapponendosi alle parti pianistiche, e spesso i
timpani e lo xilofono suonano dei temi, anche come solisti».

Appare chiaro da queste note il fatto che la timbrica è un elemento autonomo e


centrale nella partitura. Se si riflette poi che fin dagli esordi il pianoforte di
Bartók (vedi l'Allegro barbaro, del 1911) si era imposto per l'impiego percussivo
della tastiera, e che invece le percussioni sono qui impiegate spesso in funzione
melodica, si comprenderà la perfetta integrazione dei quattro esecutori, e il fatto
che il loro continuo scambio di ruoli crei degli e!etti illusionistici, fin dalle prime
battute, in cui si confondono brusii delle percussioni e del pianoforte nel registro
grave.

La maturità della fase creativa di Bartók risulta evidente anche dal tipo di
configurazione del materiale melodico, che si basa, è vero, sul foklore magiaro,
ma che non compie citazioni popolari in un contesto colto; piuttosto il
tematismo folklorico informa delle sue configurazioni intervallari, delle proprie
strutture ritmiche asimmetriche il materiale musicale, che in qualche maniera ne
assimila le leggi, piega le regole di costruzione sonora della tradizione eurocolta
a quelle vergini e dotate di forza vulcanica della melodia popolare.

La Sonata, peraltro, ha un impianto classico, con un primo movimento in forma


sonata particolarmente lungo e complesso, un tempo lento centrale in forma di
Lied, e un tempo conclusivo che combina i principi del rondò e quelli della
sonata. Il tempo iniziale si apre con una introduzione lenta, Assai lento, che
procede verso una tensione degli intrecci polifonici destinata a sfociare
nell'Allegro molto in forma sonata. Questo Allegro molto si basa sul tempo di
9/8, che interpreta però secondo diversi agglomerati ritmici; ciascuno dei tre
temi è ritmicamente specifico, il primo propone una struttura di tre ottavi seguiti
da tre quarti, il secondo è una danza bulgara che segue lo schema 4+2+3 ottavi,
il terzo è segnato da giambi e da iniziali salti di sesta. Identificare i temi serve,
all'ascolto, per comprendere il tipo di sofisticatissimo "viaggio" che Bartók fa
compiere loro, attraverso una sezione di sviluppo che alterna tre di!erenti
momenti, e una riesposizione che trasforma i temi stessi: il secondo viene
proposto in inversione, mentre il terzo diventa protagonista di un fugato. Nel
lungo e complesso percorso del movimento si dovranno ammirare anche gli
agglomerati sonori sempre rinnovati, che presuppongono un autentico
virtuosismo da parte degli interpreti.

Con il secondo tempo, Lento, ma non troppo, ci troviamo di fronte a una delle
celebri "musiche della notte" di Bartók, pagine di ambientazione sospesa e
peculiare, che realizzano una sorta di religiosità pannaturalistica. Si apre con una
sorta di marcia funebre, con i tamburi che sostengono sommessamente il canto
elegiaco delle tastiere. Il tutto sfocia in una sezione centrale innervata da
nervose quintine, poi il secondo pianoforte riprende il tema iniziale, mentre il
primo vi ricama sopra; riappare nella coda l'elemento ritmico delle quintine.

Si arriva così all'ultimo tempo, Allegro non troppo, che ha una impostazione
diatonica, con un tematismo popolare presentato all' inizio dallo xilofono; la
forma del rondò, che alterna un tema principale con episodi secondari, è ideale
per realizzare gli intenti ludici e scherzosi di questo finale, ricco di soluzioni
espressive continuamente rinnovate, e di un uso dello strumentale veramente
giocoso. Si tratta insomma di una transizione dall'ombra alla luce, tipica di tante
pagine di Bartók, ma non esente da una certa ambiguità, per il riapparire, negli
episodi secondari, di vaste zone cromatiche, e per la ria!ermazione di una zona
comune fra suono e rumore, con gli e!etti illusionistici degli strumenti che
portano la Sonata a concludersi nel nulla, come fosse esaurita l'energia
propulsiva che aveva dato vita a tutta la partitura.

Arrigo Quattrocchi

120 1940

Sette pezzi da Mikrokosmos

https://www.youtube.com/watch?v=NLnPXTVtn0k

https://www.youtube.com/watch?v=5y4f4mLh_Og

Ritmo bulgaro (numero 113)


Studi sugli accordi (numero 69)
Perpetuum mobile (numero 135)
Staccato e legato (numero 123)
Nuova canzone popolare ungherese (numero 127)
Invenzione cromatica (numero 145)
Ostinato (numero 146)

Organico: 2 pianoforti
Prima esecuzione: Budapest, 29 gennaio 1940
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra, 1970
Per la versione originale di Mikrokosmos vedi BB 105

Guida all'ascolto (nota 1)

La raccolta del Mikrokosmos, 153 piccoli pezzi in ordine di di"coltà progressiva


divisi in sei libri, a cui Bartók attese tra il 1926 e il 1939, è uno dei monumenti
della didattica pianistica del nostro secolo, uno strumento per insegnare il
pianoforte legandolo alla evoluzione della musica moderna. Bartók sembra qui
riallacciarsi a ciò che Johann Sebastian Bach aveva fatto due secoli prima,
coniugare la pratica dell'apprendimento sulla tastiera con la realizzazione
rigorosa di un linguaggio ad essa applicato: e questo linguaggio non è solo
quello della modernità, ma anche della coscienza nazionale radicata nel canto
popolare, nella quale nuovi modi, ritmi, scale e melodie prendono il posto della
scala temperata e del sistema tonale. Nel trascrivere per due pianoforti 7 pezzi
della grande raccolta Bartók sembra aver tenuto presente una sorta di
rappresentatività capace non soltanto di reggere il peso di una elaborazione ma
anche di o!rire uno spaccato della sua ricerca tecnica e linguistica sul pianeta
pianoforte. Così il primo (Ritmo bulgaro, in origine n. 113) è una combinazione
delle possibilità metrico-ritmiche di un modello direttamente attinto alle fonti
del materiale popolare e immesso in una sfera colta senza venir deformato; il
secondo (Studi sugli accordi, n. 69) è invece un esempio di ricerca armonica
a!acciato sull'atonalità; il terzo (Perpetuum mobile, n. 135) è una specie di
toccata vertiginosa di piglio nuovamente barbarico; il quarto (Staccato e legato,
n. 123 ) o!re una soluzione originale, quasi umoristica, a problemi tecnico-
esecutivi solo in apparenza contrapposti, mentre il quinto (Nuova canzone
popolare ungherese, n. 127) è un prototipo di melodia popolare pittorescamente
tzigana reinventata su spunti originali, con ironia e gusto impagabile; il sesto e il
settimo (Invenzione cromatica e Ostinato, nn. 145 e 146) riassumono due
principi basilari e peculiari dello stile di Bartók, l'esasperazione cromatica
innervata di contrappunto e l'ossessione dell'ostinato, elemento primordiale del
ritmo. Va da sé che ogni intenzione didattica viene trascesa in queste
trascrizioni, che diventano a tutti gli e!etti pezzi da concerto di straordinario
impegno: un vero concentrato dello stile pianistico e compositivo bartókiano.

Sergio Sablich

122 1941

Suite per due pianoforti

https://www.youtube.com/watch?v=PKdm2HIDOSQ

Serenata
Allegro diabolico
Scena della Puszte
Per finire

Organico: 2 pianoforti
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1960
Arrangiamento della Suite n. 2 op. 4 per orchestra BB 40

Guida all'ascolto (nota 1)

La Suite op. 4 per orchestra aveva rappresentato ai suoi tempi una composizione
sperimentale in un periodo di transizione e di trasformazione. Bartók si trovava
allora alle soglie di un'epoca nuova, che per lui sarebbe cominciata col Primo
Quartetto op. 7. Ancora legato alla tradizione straussiana e brahmsiana da un
lato, influenzato dal filone nazionalistico e cavalieresco di Liszt e Erkel dall'altro,
si dibatteva in una crisi venata di pessimismo ma dominata con lucidità;
presagiva che qualcosa stava per accadere, ma non aveva ancora fatto le due
esperienze che sarebbero state fondamentali per la sua vita artistica: più ancora
che la conoscenza dell'impressionismo francese e di Debussy, la rivelazione della
vera natura del canto popolare contadino, la cui assimilazione dopo la conquista
avrebbe dato frutti decisivi. Queste esperienze sarebbero avvenute proprio in
quegli anni, e alcune premesse se ne intuiscono nella Suite op. 4, soprattutto se
messa a confronto con la robusta animosità della precedente, op. 3: rispetto alla
quale essa mostra un carattere di moderazione espressiva più scoperta e un
accento più riflessivo e temperato.

Bartók stesso definì la sua trascrizione di molti anni dopo come una "libera
rielaborazione". E in e!etti si tratta di una nuova versione tutta pensata e
calcolata per le possibilità timbriche e strumentali del nuovo organico. Nel senso
di una depurazione del timbro va per esempio la scrittura pianistica, equamente
distribuita fra i due strumenti, in un dialogo serrato che proprio nel processo di
semplificazione e di chiarificazione presuppone un atteggiamento antiretorico e
disciplinato, e richiede perciò un'esecuzione sensibile e delicata. L'energia
ritmica tende a perdere peso e materia, per snellirsi in figure più incisive e a
tratti quasi neoclassicheggianti; ma non mancano l'imperiosa vena barbarica
caratteristica del compositore, il dinamismo ritmico nei passi ostinati e nei
ribattuti martellanti, la foga nelle accensioni liriche ora strepitose ora ripiegate
su se stesse e la visionarietà negli e!etti armonicamente più avanzati. La fitta
schiera di percussioni presente nell'organico orchestrale viene sfruttata nella
rielaborazione sul modello della Sonata, con una varietà timbrica ricreata sul
pianoforte in modo del tutto originale. Ognuno dei quattro pezzi ha un titolo che
ne definisce il clima e lo spessore: il primo è una Serenata cantata su un motivo
popolare, schietto e melodicamente espanso; il secondo un Allegro diabolico di
nome e di fatto, nel quale la tastiera è trattata come uno strumento a
percussione; il terzo s'intitola Scena della Puszta ed è di atmosfera tranquilla e
trasognata; mentre il quarto, Per finire, ha un carattere di raccoglimento, nel
duplice senso di raccoglimento interiore dello spirito e di compendio delle
esperienze compositive precedenti.

Sergio Sablich

Altra musica da camera

6 1895

Sonata in do minore per violino e pianoforte

https://youtu.be/nQ9DUOqGmSc

Organico: violino, pianoforte


Composizione: luglio - agosto 1895
10 1897

Sonata in la maggiore per violino e pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=cbZ7k01Sr44

Organico: violino, pianoforte


Composizione: novembre - dicembre 1897
La parte del pianoforte del II movimento è solo abbozzata

13 1898

Quartetto con pianoforte in do minore

https://www.youtube.com/watch?v=40w0ABSg0eM

https://www.youtube.com/watch?v=Y6RoNXZDclk

https://www.youtube.com/watch?v=9lV1Os8nC1o

https://www.youtube.com/watch?v=BLQPD1dUrXU

Organico: pianoforte, violino, viola, violoncello


Composizione: marzo - luglio 1898

17 1898

Quartetto per archi in fa maggiore

Organico: 2 violini, viola, violoncello


Composizione: 17 dicembre 1898

26a 1902

Duo (canone) in sol maggiore

https://www.youtube.com/watch?v=F-dP9UXo0Hk

Organico: 2 violini
Composizione: 12 - 15 novembre 1902

26b 1902
Andante (Albumblatt) in la maggiore

https://www.youtube.com/watch?v=j33KjpzOnqc

Organico: violino, pianoforte


Composizione: 1 novembre 1902
Dedica: signora H.

28 1903

Sonata in mi minore per violino e pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=S41roGiRkUo

Organico: violino, pianoforte


Composizione: febbraio - settembre 1903
Prima esecuzione: Budapest, 25 gennaio 1904
Edizione: in Documenta Bartókiana, 1964/65; poi Editio Musica, Budapest, 1968

33 1903 - 1904

Quintetto per pianoforte in do maggiore

https://www.youtube.com/watch?v=pm6k7JVh1y4

https://www.youtube.com/watch?v=VZdhIa4PgQ4

Organico: pianoforte, 2 violini, viola, violoncello


Composizione: 1903 - luglio 1904
Prima esecuzione: Vienna, 1 novembre 1904
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1970

45a 1907

Gyergyóból, három csíkmegyei népdal (Da Gyergyó, 3 Canti popolari del


distretto di Csik)

https://www.youtube.com/watch?v=7mdlJa2GnCg

Organico: tilinkó (flauto diritto), pianoforte


Edizione: Editio Musica, Budapest, 1961
Trascritto anche per pianoforte solo BB 45b

I sei Quartetti per archi (1908-1939)


https://www.youtube.com/watch?v=MCI9eNhcFmw

https://www.youtube.com/watch?v=5ZqXVhePy-Y

52 1908 - 1909

Quartetto per archi n. 1

https://www.youtube.com/watch?v=J6uquVTt1UM

https://www.youtube.com/watch?v=4-PL_uT3ZFI

https://www.youtube.com/watch?v=6s37-gicZG8

Lento
Allegretto
Allegro vivace

Organico: 2 violini, viola, violoncello


Composizione: 27 gennaio 1909
Prima esecuzione: Budapest, 19 marzo 1910
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1911

Guida all'ascolto (nota 1)

I sei Quartetti di Bartók sono un momento fondamentale nella storia della musica
della prima metà del Ventesimo secolo, accanto a quelli dei compositori della
Scuola di Vienna: ma mentre le composizioni per Quartetto d'archi di Schönberg
- e ancor più quelle di Berg e Webern - non costituiscono un gruppo compatto, i
Quartetti di Bartók rivelano, pur nella loro diversità, una grande omogeneità e
coerenza. Inoltre ognuno di loro marca una tappa nell'evoluzione del linguaggio
di Bartók, segnando un percorso coerente lungo più di trent'anni e intessendo
una fitta rete di somiglianze e relazioni con le altre partiture di Bartók.

Tutta l'evoluzione del linguaggio di Bartók può essere tracciata sulla base dei
suoi sei Quartetti: la fase della presa di distanza dal post-romanticismo nel
primo, la fase espressionista nel secondo, la fase della ricerca più audace e della
concentrazione estrema nel terzo, l'adozione della forma ad arco (cinque
movimenti disposti in modo concentrico) nel quarto, la fase del riavvicinamento
alla tonalità nel quinto, infine il momento del doloroso distacco dall'Ungheria nel
sesto (un settimo quartetto restò allo stato di progetto). Non è un caso se
Beethoven torna spesso come un paragone ineludibile nei discorsi sui Quartetti
di Bartók, perché i Quartetti sono dei gradini ineludibili per giungere alla
comprensione dell'arte di questi due musicisti, ma anche perché nessun altro
gruppo di Quartetti posteriore a Beethoven propone un così audace
rinnovamento della struttura di questo genere.

Il Quartetto n. 1 op. 7 fu probabilmente abbozzato già nel 1907 ma il vero e


proprio lavoro di composizione iniziò nel 1908 e fu terminato il 27 gennaio
1909. La prima esecuzione ebbe luogo a Budapest il 19 marzo 1910 col
Quartetto Waldbauer-Kerpely, che sarebbe poi diventato un convinto sostenitore
di Bartók e Kodàly. La qualità altissima della scrittura quartettistica di Bartók già
in questa sua prima prova si spiega con l'esistenza di tre precedenti Quartetti,
che l'autore non inserì mai nel suo catalogo u"ciale, considerandoli semplici
esercitazioni. Prima opera importante d'un compositore di ventisette anni,
questo Quartetto rappresenta una chiave di volta nella produzione di Bartók,
realizzando una sintesi dell'eredità beethoveniana e allo stesso tempo
proiettandosi verso il futuro. Bartók fa riferimento a Beethoven come suo unico
antecedente nel campo del Quartetto, anche se si possono scorgere Wagner e
Richard Strauss dietro il suo cromatismo e Reger dietro la densità del suo
contrappunto. Si avverte anche qualche traccia della recentissima scoperta di
Debussy, che Bartók aveva ignorato nel suo viaggio a Parigi (1905) e che gli era
stato rivelato in seguito dal suo amico Kodàly. Prescindendo dalle brevi
transizioni, i tre movimenti di questo Quartetto compiono una graduale
accelerazione (Lento - Allegretto - Allegro vivace) con una traiettoria spesso
paragonata a quella del Quartetto op. 131 di Beethoven. Un altro elemento che
avvicina questi due Quartetti è il loro inizio con un passaggio fugato, il cui
soggetto è diviso tra i due violini. Pur prendendo spunto dall'esempio
beethoveniano, Bartók lo adatta alle sue preoccupazioni del momento,
utilizzando nelle prime due battute e mezza tutti i dodici suoni del totale
cromatico. Un lungo "divertimento" basato su un ritmo sincopato segue questa
esposizione fugata e introduce una nuova sezione, in cui emerge una melodia in
tempo rubato. Oscillando tra fa minore e la minore, questo movimento contiene
delle ambiguità armoniche che evidenziano la tendenza di Bartók ad allargare le
maglie della tonalità.

Un passaggio in terze parallele (vi si può sentire un'eco del terzo atto del
Tristano e Isotta) porta senza interruzione all'Allegretto, che riprende la forma
classica, con due temi che vengono elaborati e sviluppati a lungo. Questo
secondo movimento ruota intorno alla nota si, senza che la tonalità sia
chiaramente a!ermata, anche perché Bartók utilizza in alcuni momenti la scala
per toni interi (la cosiddetta "scala di Debussy"). La transizione che porta al terzo
movimento si basa sul contrasto tra una formula ritmica e una frase del
violoncello che costituisce poi il tema principale dell'Allegro vivace, in cui si ha
un esempio della predilezione di Bartók per i finali basati su spunti popolari: in
questo caso è il ritmo sincopato del primo tema, che deriva dal folklore
ungherese e diventa l'elemento caratterizzante dell'intero movimento.
Mauro Mariani

75 1915

Quartetto per archi n. 2

Moderato
Allegro molto capriccioso
Lento

Organico: 2 violini, viola, violoncello


Prima esecuzione: Budapest, 3 marzo 1918
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1920
Dedica: Quartetto Waldbauer - Kerpely

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Nella ricca produzione cameristica di Bartók le composizioni riservate al violino


non sono numerose ma assai significative per capire il temperamento creativo e
lo stile di questo musicista che ha sentito più di tanti altri artisti del suo tempo
l'evoluzione e il processo di aggiornamento del linguaggio musicale, senza
tuttavia compiere un netto rifiuto della struttura armonica e tonale, cosi come
fece Schönberg con la Scuola viennese. Per il violino egli scrisse rispettivamente
nel 1921 e nel 1922 le due Sonate, di cui la seconda viene riproposta stasera, le
due Rapsodie per violino e pianoforte (1928), il Concerto per violino e orchestra
(1937-38) e la Sonata per violino solo (1944), dedicata a Yehudi Menuhin. In
tutti questi lavori Bartók ha studiato in dettaglio ogni possibilità tecnica ed
espressiva del violino, cercando di imprimere un discorso, per così dire, più
libero e aperto e non strettamente legato ai canoni tradizionali. Naturalmente
non manca il riferimento alla matrice folclorica della terra magiara (ciò si avverte
in maniera evidente nelle due Sonate per violino e pianoforte), ma la melodia, il
ritmo, la metrica puntano su una visione più astratta ed essenzializzata del
pensiero musicale, quasi a non voler dimenticare l'esperienza espressionista
della pantomima in un atto Il mandarino miracoloso, composta tra il 1918 e il
1919 e rappresentante uno dei punti fermi e più importanti della poetica
bartókiana. Come è stato giustamente a!ermato, in questi pezzi per violino e
pianoforte o violino e orchestra non c'è un dialogo serrato fra i due strumenti o,
comunque, un rapporto dialettico, tanto è vero che un biografo ha annotato con
una immagine brillante che il violino e il pianoforte appaiono come «due fratelli
siamesi legati per il dorso: vivono dello stesso battito cardiaco, ma non sono in
grado di vedersi». Il che significa che i due strumenti, ma soprattutto il violino,
sono proiettati verso una più scavata tensione espressiva, al di là di certe regole
che sinora governavano la scrittura di simili componimenti a due voci.
Le due Sonate per violino e pianoforte sono diverse anche dal punto di vista
formale. La prima è in tre tempi e rispetta lo schema della sonata classica, pur
nel carattere rapsodico della musica, mentre la seconda è in due movimenti: il
primo (Molto moderato) ha un tono pensoso e di riflessione, come
un'introduzione al successivo Allegretto, da cui si sprigiona quella vitalità ritmica
e molto vivace armonicamente che resta la sigla creatrice tipica del musicista. Va
aggiunto che le due Sonate per violino e pianoforte furono dedicate alla giovane
Jelly d'Arànyi, nipote del celebre violinista Joseph Joachim e anche lei violinista di
grande talento. La d'Arànyi suonò con successo i due pezzi a Londra in due
concerti nel 1922 e nel 1923 e Bartók manifestò gratitudine e riconoscenza
verso questa virtuosa dell'archetto, apprezzata anche da illustri compositori
dell'epoca.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Nella musica da camera di Bartók, le opere per violino occupano un posto


preminente. Il primo brano cameristico del tredicenne Béla era un arrangiamento
per violino e pianoforte di un proprio pezzo pianistico "Il corso del Danubio",
dedicato alla madre. Del 1895 è una prima sonata in do minore per violino, e
pianoforte, a cui seguirono una seconda sonata (1897), oltre a un Albumblatt e
una terza sonata, che risale al 1903, l'anno del poema sinfonico "Kossuth"
ancora straussiano. Questa sonata fu eseguita il 25 gennaio 1904 dal grande
Jenò Hubay, con lo stesso Bartók al pianoforte. Ma in seguito il compositore
ripudiò questi lavori giovanili, cosicché di opere u"ciali rimangono le due sonate
del 1921 e del 1922, le due rapsodie del 1928, i 44 duetti per due violini del
1931, "Contrasts" per violino, clarinetto e pianoforte del 1938 (scritti per Joseph
Szigeti e Benny Goodman) e la Sonata per violino solo del 1944, dedicata a
Yehudi Menuhin. Era lo stesso Menuhin a sostenere nel 1976 che Bach e Bartók
fossero i due compositori che hanno dimostrato di possedere la più profonda e
intensa conoscenza del violino. Difatti i problemi tecnici oltreché musicali posti,
dalle due Sonate le collocano (assieme ai concerti dello, stesso autore) tra le
opere più complesse dell'intera letteratura violinistica. Bartók, instancabile
etnomusicologo in quanto raccoglitore dei canti popolari dell'Ungheria e delle
regioni limitrofe, non ha rinunciato ad impiegarne le caratteristiche nelle proprie
musiche. Laddove anche nel periodo più audacemente espressionistico, cioè gli
anni intorno al 1920, si ritrovano peculiarità ritmiche ed armoniche: della musica
popolare magiara o romena.

La prima Sonata è stata composta negli ultimi mesi del 1921, e rispetta, almeno
esteriormente, lo schema della sonata classica in tre tempi. Pur caratterizzati da
una certa libertà nell'impianto formale, troviamo due tempi veloci che
racchiudono un Adagio visionario assai espressivo. Nei passaggi pianistici
introduttivi del primo tempo pare scorgere il timbro del cymbalom, più avanti è
innegabile l'influsso di Debussy, e il finale si rifà a ritmi di danza romeni, dando
luogo a un travolgente perpetuum mobile che accanto all'elementare forza
ritmica non disdegna tensioni armoniche dovute all'impiego simultaneo di tre
tonalità diverse. A!ascinato, come tanti compositori della sua generazione, dal
"Sacre" strawinskiano, grazie ai suoi studi etnomusicologici Bartók potè stabilire
analogie tra certo Strawinsky e musiche popolari russe, ungheresi ed arabe.
Secondo lo stesso Bartók, "La continua ripetizione di motivi primitivi crea
un'atmosfera di strana agitazione febbrile" - il gusto "barbarico" degli ostinati
sarà un elemento portante di molte tra le musiche più a!ascinanti di Bartók, ma
anche di Sciostakovic.

Al contrario della prima Sonata, la seconda si articola in soli due movimenti, una
rapsodica e riflessiva introduzione a cui segue, senza soluzione di continuità, un
Allegretto fortemente ritmizzato. Il primo movimento reca l'indicazione Molto
moderato, ma non vi è quasi battuta in cui non ci siano altre indicazioni
agogiche, e oltretutto il metro cambia di continuo: si passa da 4 battute di 6/8 a
due di 9/8, poi si alternano 6/8, 9/8, 4/8, 7/8, 5/8, 3/8 e 2/8, nel Poco più
andante abbiamo i 5/8 del violino contro i 4 del pianoforte e così via. Una certa
unità è creata da un motivo ritmico di terzine e dalle sue derivazioni che
ricorrono anche nel secondo tempo, e dalla decisa predilezione per gli intervalli
di seconda maggiore, quarta giusta e aumentata, settima maggiore e nona
minore che a partire dalla sezione Sostenuto del primo tempo compaiono con
sempre maggior frequenza nel gioco delle doppie corde del violino. L'Allegretto
si apre con una specie di cluster (fa, fa diesis, sol, la bemolle) che ricorre quattro
volte nel pianoforte prima di cedere il passo al violino (pizzicato), un accelerando
(altra indicazione usata con una certa frequenza) prepara la seconda entrata del
violino con la prima idea variata (sempre pizzicato); dal Poco più vivo successivo
(arco) nel violino compare con sempre maggiore frequenza l'intervallo di
seconda minore, e il primo ostinato di seconde minori va addirittura "battuto,
ruvido" - siamo nel pieno della predilezione espressionistica per il suono
volutamente brutto, ma gonfio di messaggi nuovi. Il resto del movimento è tutto
un gioco di accelerando, glissandi inaspettati, pause poste lì unicamente per
poter riprendere con rinnovate energie, ostinati sempre più pressanti, crescendi
che chiedono ai due interpreti la completa padronanza dei loro strumenti, che
per brevi sezioni vengono impiegati anche singolarmente: il pianoforte in un
Quasi a tempo (maestoso), il violino verso la fine, quando introduce il
rallentando finale che porta all'ultima battuta Adagio, un etereo accordo di do
maggiore.

Dal 1918 Bartók aveva una nuova casa editrice, la prestigiosa Universal di
Vienna, e in questa città avvenne anche la prima esecuzione della prima Sonata,
l'8 febbraio 1922 ad opera di Mary Dickens-Auner e di Eduard Steuermann, il
pianista che si è tanto adoperato per Schönberg. A Londra, la prima Sonata
venne presentata nel marzo successivo dalla violinista Jelly D'Arànyi (1893-1966)
e dallo stesso compositore, e il grande successo li indusse a tentare l'impresa di
nuovo, presentandovi l'anno seguente la seconda Sonata, dedicata alla stessa
D'Arànyi. Tra i grandi interpreti predestinati di oggi, Sàndor Vegh ed Attila
Kubinyi, allievo di un altro stretto collaboratore di Bartók, Ede Zathureczky.

Johannes Streicher

84 1921

Sonata per violino e pianoforte n. 1

https://www.youtube.com/watch?v=nQ9DUOqGmSc

https://www.youtube.com/watch?v=UakdQno0t0Y

https://www.youtube.com/watch?v=CFmBsoUyAbs

https://www.youtube.com/watch?v=HTmYnX-boxU

Allegro appassionato
Adagio
Allegro molto

Organico: violino, pianoforte


Composizione: ottobre - dicembre 1921
Prima esecuzione: Vienna, 8 febbraio 1922
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1923
Dedica: Jelly d'Arányi

Guida all'ascolto (nota 1)

Nella ricca produzione cameristica di Bartók le composizioni riservate al violino


non sono numerose ma assai significative per capire il temperamento creativo e
lo stile di questo musicista che ha sentito più di tanti altri artisti del suo tempo
l'evoluzione e il processo di aggiornamento del linguaggio musicale, senza
tuttavia compiere un netto rifiuto della struttura armonica e tonale, così come
fece Schönberg con la Scuola viennese. Per il violino egli scrisse rispettivamente
nel 1921 e nel 1922 le due Sonate, di cui la prima viene riproposta stasera, le
due Rapsodie per violino e pianoforte (1928), il Concerto per violino e orchestra
(1937-'38) e la Sonata per violino solo (1944), dedicata a Yehudi Menuhin. In
tutti questi lavori Bartók ha studiato in dettaglio ogni possibilità tecnica ed
espressiva del violino cercando di imprimere un discorso, per così dire, più
libero e aperto e non strettamente legato ai canoni tradizionali. Naturalmente
non manca il riferimento alla matrice folclorica della terra magiara (ciò si avverte
in maniera evidente nelle due Sonate per violino e pianoforte), ma la melodia, il
ritmo, la metrica puntano su una visione più astratta ed essenzializzata del
pensiero musicale, quasi a non voler dimenticare l'esperienza espressionista
della pantomima in un atto Il mandarino miracoloso, composta tra il 1918 e il
1919, che rappresenta uno dei punti fermi e più importanti della poetica
bartókiana. Come è stato giustamente a!ermato, in questi pezzi per violino e
pianoforte o violino e orchestra non c'è dialogo serrato fra i due strumenti o,
comunque, un rapporto dialettico, tanto è vero che un biografo ha annotato con
una immagine brillante che il violino e il pianoforte appaiono come «due fratelli
siamesi legati per il dorso: vivono dello stesso battito cardiaco, ma non sono in
grado di vedersi». Il che significa che i due strumenti, ma soprattutto il violino,
sono proiettati verso una più scavata tensione espressiva, al di là di certe regole
che sinora governavano la scrittura di simili componimenti a due voci.

Le due Sonate per violino e pianoforte sono diverse anche dal punto di vista
formale. La prima è in tre tempi e rispetta lo schema della sonata classica, pur
nel carattere rapsodico della musica, mentre la seconda è in due movimenti: il
primo (Molto moderato) ha un tono pensoso e di riflessione, come
un'introduzione al successivo Allegretto, da cui si sprigiona quella vitalità ritmica
e molto vivace armonicamente che resta la sigla creatrice tipica del musicista.

La Sonata n. 1 punta il primo movimento su un tempo allegro sviluppato in


forma libera, con alternanza di toni drammatici e toni distesi, con qualche
asciutta parentesi armonica. L'Adagio si snoda in un clima di rigoroso
classicismo, immerso in una dimensione psicologica di elevata purezza
espressiva: non manca un episodio di carattere virtuosistico, omaggio alla
specificità del violino. L' Allegro molto conclusivo riflette lo stile della danza
romena e persegue una linea di moto perpetuo nel quale si schiudono momenti
di folgoranti tensioni caratterizzati da armonie costruite su tre tonalità
simultanee. In un passaggio si avvertono arpeggi discendenti che si richiamano
in un certo senso e forse ironicamente al Petruska stravinskiano.

Si sa che le due Sonate bartókiane per violino e pianoforte furono dedicate alla
giovane Jelly d'Arányi, nipote del celebre violinista Joseph Joachim e anche lei
violinista di grande talento. La D'Arányi suonò con successo i due pezzi a Londra
in due concerti nel 1922 e nel 1923 e Bartók mostrò gratitudine e riconoscenza
verso questa virtuosa dell'archetto, apprezzata anche da altri illustri compositori
dell'epoca.

Ennio Melchiorre

Guida all'ascolto 2 (nota 2)


I pochi mesi del governo popolare di Béla Kun costituirono una vera e propria
fase di rigenerazione per la musica ungherese. Fu in quell'epoca che si gettarono
le basi della rivalutazione e dello studio sistematico della musica popolare e che
si stesero i piani per l'educazione musicale, due elementi che dovevano poi
assegnare un posto così preminente all'Ungheria negli anni successivi e ancora
nei nostri giorni. In queste imprese Béla Bartók fu naturalmente in prima linea e
la caduta del governo popolare, con l'avvento della reazione, dovevano segnare
una grave crisi per lui. Diviso tra la tentazione dell'esilio e quella di proseguire in
patria l'opera intrapresa, Bartók finì per scegliere, non senza ambascie, questa
seconda soluzione, a!rontando così un duro periodo di isolamento. Fu proprio
in questa fase, complicata anche da crisi familiari, che la sua musica mise a
frutto la conoscenza dell'espressionismo e che si accostò alle avanguardie
europee. Tra le composizioni di quel perìodo le due sonate per violino e
pianoforte, scritte rispettivamente nel 1921 e nel 1922, occupano un posto di
tutto rilievo. En passant si potrà dire che già nel 1903 Bartók si era cimentato
con una sonata per violino e pianoforte, rimasta fuori catalogo e solo di recente
riacquisita ai programmi dei concerti. Ma, rispetto a quel lontano esperimento, le
due sonate degli anni venti hanno ben poco in comune. La prima di esse è in tre
movimenti e la sua scrittura è ardua ed accidentata. L'allegro appassionato
iniziale e l'adagio (che si apre con un'ampia esposizione del solo violino) tentano
appena di stemperare la veemenza del primo Bartók in ampie zone di lirismo che
non riesce ad essere liberatorio. Più asciutto e seccamente ritmato, l'allegro
conclusivo, ricco di accelerandi, si apparenta ancor di più con la musica popolare
tzigana, o forse con l'idea che noi abbiamo di essa. Solo nelle composizioni
successive infatti Bartók riuscirà in quel tentativo di sintesi tra fonti autoctone e
linguaggio personale che già allora perseguiva.

Bruno Cagli

85 1922

Sonata per violino e pianoforte n. 2

https://www.youtube.com/watch?v=1KdFK2kRiOo

https://www.youtube.com/watch?v=TKrX6rxU9pI

https://www.youtube.com/watch?v=3Ji7vuHZ7-E

Molto moderato
Allegretto

Organico: violino, pianoforte


Composizione: luglio - novembre 1922
Prima esecuzione: Berlino, 7 febbraio 1923
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1923
Dedica: Jelly d'Arányi

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Nella ricca produzione cameristica di Bartók le composizioni riservate al violino


non sono numerose ma assai significative per capire il temperamento creativo e
lo stile di questo musicista che ha sentito più di tanti altri artisti del suo tempo
l'evoluzione e il processo di aggiornamento del linguaggio musicale, senza
tuttavia compiere un netto rifiuto della struttura armonica e tonale, cosi come
fece Schönberg con la Scuola viennese. Per il violino egli scrisse rispettivamente
nel 1921 e nel 1922 le due Sonate, di cui la seconda viene riproposta stasera, le
due Rapsodie per violino e pianoforte (1928), il Concerto per violino e orchestra
(1937-38) e la Sonata per violino solo (1944), dedicata a Yehudi Menuhin. In
tutti questi lavori Bartók ha studiato in dettaglio ogni possibilità tecnica ed
espressiva del violino, cercando di imprimere un discorso, per così dire, più
libero e aperto e non strettamente legato ai canoni tradizionali. Naturalmente
non manca il riferimento alla matrice folclorica della terra magiara (ciò si avverte
in maniera evidente nelle due Sonate per violino e pianoforte), ma la melodia, il
ritmo, la metrica puntano su una visione più astratta ed essenzializzata del
pensiero musicale, quasi a non voler dimenticare l'esperienza espressionista
della pantomima in un atto Il mandarino miracoloso, composta tra il 1918 e il
1919 e rappresentante uno dei punti fermi e più importanti della poetica
bartókiana. Come è stato giustamente a!ermato, in questi pezzi per violino e
pianoforte o violino e orchestra non c'è un dialogo serrato fra i due strumenti o,
comunque, un rapporto dialettico, tanto è vero che un biografo ha annotato con
una immagine brillante che il violino e il pianoforte appaiono come «due fratelli
siamesi legati per il dorso: vivono dello stesso battito cardiaco, ma non sono in
grado di vedersi». Il che significa che i due strumenti, ma soprattutto il violino,
sono proiettati verso una più scavata tensione espressiva, al di là di certe regole
che sinora governavano la scrittura di simili componimenti a due voci.

Le due Sonate per violino e pianoforte sono diverse anche dal punto di vista
formale. La prima è in tre tempi e rispetta lo schema della sonata classica, pur
nel carattere rapsodico della musica, mentre la seconda è in due movimenti: il
primo (Molto moderato) ha un tono pensoso e di riflessione, come
un'introduzione al successivo Allegretto, da cui si sprigiona quella vitalità ritmica
e molto vivace armonicamente che resta la sigla creatrice tipica del musicista. Va
aggiunto che le due Sonate per violino e pianoforte furono dedicate alla giovane
Jelly d'Arànyi, nipote del celebre violinista Joseph Joachim e anche lei violinista di
grande talento. La d'Arànyi suonò con successo i due pezzi a Londra in due
concerti nel 1922 e nel 1923 e Bartók manifestò gratitudine e riconoscenza
verso questa virtuosa dell'archetto, apprezzata anche da illustri compositori
dell'epoca.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Nella musica da camera di Bartók, le opere per vio lino occupano un posto
preminente. Il primo brano cameristico del tredicenne Béla era un arrangiamento
per violino e pianoforte di un proprio pezzo pianistico "Il corso del Danubio",
dedicato alla madre. Del 1895 è una prima sonata in do minore per violino, e
pianoforte, a cui seguirono una seconda sonata (1897), oltre a un Albumblatt e
una terza sonata, che risale al 1903, l'anno del poema sinfonico "Kossuth"
ancora straussiano. Questa sonata fu eseguita il 25 gennaio 1904 dal grande
Jenò Hubay, con lo stesso Bartók al pianoforte. Ma in seguito il compositore
ripudiò questi lavori giovanili, cosicché di opere u"ciali rimangono le due sonate
del 1921 e del 1922, le due rapsodie del 1928, i 44 duetti per due violini del
1931, "Contrasts" per violino, clarinetto e pianoforte del 1938 (scritti per Joseph
Szigeti e Benny Goodman) e la Sonata per violino solo del 1944, dedicata a
Yehudi Menuhin. Era lo stesso Menuhin a sostenere nel 1976 che Bach e Bartók
fossero i due compositori che hanno dimostrato di possedere la più profonda e
intensa conoscenza del violino. Difatti i problemi tecnici oltreché musicali posti,
dalle due Sonate le collocano (assieme ai concerti dello, stesso autore) tra le
opere più complesse dell'intera letteratura violinistica. Bartók, instancabile
etnomusicologo in quanto raccoglitore dei canti popolari dell'Ungheria e delle
regioni limitrofe, non ha rinunciato ad impiegarne le caratteristiche nelle proprie
musiche. Laddove anche nel periodo più audacemente espressionistico, cioè gli
anni intorno al 1920, si ritrovano peculiarità ritmiche ed armoniche: della musica
popolare magiara o romena.

La prima Sonata è stata composta negli ultimi mesi del 1921, e rispetta, almeno
esteriormente, lo schema della sonata classica in tre tempi. Pur caratterizzati da
una certa libertà nell'impianto formale, troviamo due tempi veloci che
racchiudono un Adagio visionario assai espressivo. Nei passaggi pianistici
introduttivi del primo tempo pare scorgere il timbro del cymbalom, più avanti è
innegabile l'influsso di Debussy, e il finale si rifà a ritmi di danza romeni, dando
luogo a un travolgente perpetuum mobile che accanto all'elementare forza
ritmica non disdegna tensioni armoniche dovute all'impiego simultaneo di tre
tonalità diverse. A!ascinato, come tanti compositori della sua generazione, dal
"Sacre" strawinskiano, grazie ai suoi studi etnomusicologici Bartók potè stabilire
analogie tra certo Strawinsky e musiche popolari russe, ungheresi ed arabe.
Secondo lo stesso Bartók, "La continua ripetizione di motivi primitivi crea
un'atmosfera di strana agitazione febbrile" - il gusto "barbarico" degli ostinati
sarà un elemento portante di molte tra le musiche più a!ascinanti di Bartók, ma
anche di Sciostakovic.
Al contrario della prima Sonata, la seconda si articola in soli due movimenti, una
rapsodica e riflessiva introduzione a cui segue, senza soluzione di continuità, un
Allegretto fortemente ritmizzato. Il primo movimento reca l'indicazione Molto
moderato, ma non vi è quasi battuta in cui non ci siano altre indicazioni
agogiche, e oltretutto il metro cambia di continuo: si passa da 4 battute di 6/8 a
due di 9/8, poi si alternano 6/8, 9/8, 4/8, 7/8, 5/8, 3/8 e 2/8, nel Poco più
andante abbiamo i 5/8 del violino contro i 4 del pianoforte e così via. Una certa
unità è creata da un motivo ritmico di terzine e dalle sue derivazioni che
ricorrono anche nel secondo tempo, e dalla decisa predilezione per gli intervalli
di seconda maggiore, quarta giusta e aumentata, settima maggiore e nona
minore che a partire dalla sezione Sostenuto del primo tempo compaiono con
sempre maggior frequenza nel gioco delle doppie corde del violino. L'Allegretto
si apre con una specie di cluster (fa, fa diesis, sol, la bemolle) che ricorre quattro
volte nel pianoforte prima di cedere il passo al violino (pizzicato), un accelerando
(altra indicazione usata con una certa frequenza) prepara la seconda entrata del
violino con la prima idea variata (sempre pizzicato); dal Poco più vivo successivo
(arco) nel violino compare con sempre maggiore frequenza l'intervallo di
seconda minore, e il primo ostinato di seconde minori va addirittura "battuto,
ruvido" - siamo nel pieno della predilezione espressionistica per il suono
volutamente brutto, ma gonfio di messaggi nuovi. Il resto del movimento è tutto
un gioco di accelerando, glissandi inaspettati, pause poste lì unicamente per
poter riprendere con rinnovate energie, ostinati sempre più pressanti, crescendi
che chiedono ai due interpreti la completa padronanza dei loro strumenti, che
per brevi sezioni vengono impiegati anche singolarmente: il pianoforte in un
Quasi a tempo (maestoso), il violino verso la fine, quando introduce il
rallentando finale che porta all'ultima battuta Adagio, un etereo accordo di do
maggiore.

Dal 1918 Bartók aveva una nuova casa editrice, la prestigiosa Universal di
Vienna, e in questa città avvenne anche la prima esecuzione della prima Sonata,
l'8 febbraio 1922 ad opera di Mary Dickens-Auner e di Eduard Steuermann, il
pianista che si è tanto adoperato per Schönberg. A Londra, la prima Sonata
venne presentata nel marzo successivo dalla violinista Jelly D'Arànyi (1893-1966)
e dallo stesso compositore, e il grande successo li indusse a tentare l'impresa di
nuovo, presentandovi l'anno seguente la seconda Sonata, dedicata alla stessa
D'Arànyi. Tra i grandi interpreti predestinati di oggi, Sàndor Vegh ed Attila
Kubinyi, allievo di un altro stretto collaboratore di Bartók, Ede Zathureczky.

Johannes Streicher

93 1927

Quartetto per archi n. 3


https://www.youtube.com/watch?v=K7yfyIDdDBk

https://www.youtube.com/watch?v=XUg7N9AWuTU

https://www.youtube.com/watch?v=_dBhIX686FI

Prima parte - Moderato


Seconda parte - Allegro
Ricapitolazione della prima parte - Moderato
Coda - Allegro molto

Organico: 2 violini, viola, violoncello


Composizione: settembre 1927
Prima esecuzione: Filadelfia, 30 dicembre 1928
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1929
Dedica: Musical Fund Society, Filadelfia

Guida all'ascolto (nota 1)

Accanto a lavori di grande impatto emotivo come il Concerto per orchestra e Il


castello del principe Barbablù, o di estremo virtuosismo come i primi due
Concerti per pianoforte e orchestra, Bela Bartók ci ha lasciato molta musica da
camera, all'interno della quale i Sei Quartetti non rappresentano solo dei
capolavori in se stessi, ma illustrano tutto il suo pensiero maturo.

Fu probabilmente l'ascolto della Suite lirica di Alban Berg a spingere Bartók verso
la composizione del Quartetto n. 3. Da dieci anni il musicista non scriveva per
questo organico (il Quartetto n. 2 è del 1917) e in soli tre mesi, nell'estate del
1927 portò a termine la partitura, un lavoro in cui le influenze di Berg sono
evidenti sia nella forma sia nelle sonorità. Della particolarità ed originalità di
questo Quartetto si resero conto i membri della "Philadelphia Music Found
Society" che gli conferirono, ex-equo con Alfredo Casella, il primo premio di
6.000 dollari. Oggi, a distanza di tanti anni, sappiamo quanto quel premio sia
stato lungimirante: «Il Terzo Quartetto non fa semplicemente un uso nuovissimo
del medium quartettistico, esso è anche estremamente anticonvenzionale nella
sua stessa concezione, ellittico nel metodo formale e talvolta brutalmente aspro
nelle sonorità» (StephenWalsh). Il Terzo Quartetto è una sorta di "campionario"
delle tecniche compositive in uso nel primo Novecento, tecniche che Bartók usa a
suo modo giungendo ad un linguaggio completamente nuovo. Troviamo
mescolati tonalità e atonalità, novità e tradizione, contrappunto severo e
polifonia lineare, melodia lirica e brutali accordi basati solo sul timbro; il suono,
accanto alla bellezza, non ha paura di mostrare il suo aspetto primitivo di
materiale da plasmare e se la prima pagina si apre con una morbida ma
penetrante dissonanza, l'ultima è una sequenza di violenti accordi dissonanti.
Bela Bartók non era il primo ad usare sonorità aspre; negli stessi anni Igor
Stravinkij e Edgar Varèse lavoravano con materiali analoghi ma in direzione neo-
impressionista.

Il Quartetto n. 3 è diviso in quattro parti nella sequenza lento-veloce-lento-


veloce, tipica della musica ungherese popolare del XIX secolo; l'organizzazione
dei temi ricorre spesso alle tecniche del contrappunto classico (specie il canone e
la fuga) ed i quattro strumenti sono impegnati in frequenti imitazioni e
ripetizioni di piccole sezioni o micro-melodie. Alle pagine più ardue si accostano
melodie di danza condotte con un sottile gioco di ritmi incrociati, note ripetute,
«estensioni ed espansioni dal carattere improvvisativo, come se stessimo
realmente ascoltando una complessa performance di contadini in cui gli
esecutori fossero liberi di variare la melodia secondo certi modelli, ed in cui la
velocità aumenta gradatamente ed il ritmo si intensifica mentre cresce
l'eccitazione» (Stephen Walsh). La lunga Coda finale testimonia la necessità di
dare un riassetto formale agli eventi che caratterizzano questi intensi quindici
minuti, eventi sempre al limite tra riflessione intellettuale e vitalità primigenia.

Fabrizio Scipioni

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

L'evoluzione del linguaggio di Bela Bartók verso una sintesi di elementi di


matrice folklorica e di reminiscenze della tradizione della musica d'arte
occidentale, risulta particolarmente evidente nei sei Quartetti per archi, la cui
composizione scandisce le tappe principali della sua produzione, coprendo un
periodo di oltre trent'anni (1908-1939).

Le conquiste più interessanti avvengono proprio nei Quartetti composti alla fine
degli anni Venti, fra cui è compreso il Terzo Quartetto, scritto nel settembre del
1927. Se nel Primo Quartetto vi è una sorta di giustapposizione piuttosto forzosa
di stilemi eterogenei e contrastanti - dal tardo Romanticismo tedesco,
all'Impressionismo francese e alla musica etnica dell'Europa orientale - a partire
dal Terzo e dal Quarto Quartetto tali elementi risultano fusi in un linguaggio
inedito di notevole complessità, che fa un uso estremamente anticonvenzionale
del medium quartettistico. Tale originalità non era sfuggita neanche alla
commissione di un concorso indetto dalla "Philadelphia Music Found Society", cui
Bartók sottopose il Quartetto nei mesi successivi: il lavoro ottenne infatti il primo
premio di 6000 dollari, condiviso col compositore italiano Alfredo Casella.

Interessanti sono anche le vicende che precedettero la composizione del


Quartetto e che ne influenzarono la concezione. Una di queste era di natura
politica e sociale: in seguito al "Trattato del Trianon" (1920) che determinò lo
smembramento del Regno di Ungheria, il nuovo regime impose a Bartók il divieto
di svolgere ulteriori ricerche etno-musicologiche nelle proprie terre d'origine.
Pertanto il musicista si trovò nelle condizioni di spostare le proprie energie
artistiche verso l'attività concertistica e verso quella compositiva, che vennero
fortemente intensificate.

Questa svolta determinò un cambiamento anche nel rapporto con il materiale


musicale folklorico. Infatti se fino agli anni Venti le melodie etniche venivano
incorporate integralmente nei propri lavori, in seguito Bartók si concentrò
maggiormente sulle armonie e sugli accompagnamenti, raggiungendo un
maggiore grado di astrazione, di complessità e di concentrazione in tutti i livelli
della composizione: dalle altezze, al ritmo, all'armonia. A ciò si aggiunga lo
studio approfondito delle tecniche contrappuntistiche delle musiche per
clavicembalo del Barocco italiano, trascritte per pianoforte ed eseguite in tournée
in Italia nel 1925, nonché lo studio intenso di Bach. Sul piano creativo ne
scaturisce una nuova struttura densamente cromatica e fortemente
contrappuntistica dei lavori pianistici bartókiani degli anni Venti, premonitori
dello stile dei successivi lavori quartettistici.

Tra le circostanze immediatamente precedenti la composizione del Terzo


Quartetto Sz 85, è significativo ricordare che Bartók, nell'estate del 1927, aveva
potuto conoscere la Suite lirica di Berg per quartetto d'archi, ascoltata a Baden-
Baden in un concerto in cui lo stesso Bartók eseguì la propria Sonata per
pianoforte. Il lavoro di Berg suscitò particolare interesse nel compositore
magiaro, soprattutto riguardo all'uso dei timbri strumentali, e proprio
l'esplorazione di possibilità timbriche nuove, in via di sperimentazione già da
tempo con vari organici strumentali, diventa una delle caratteristiche più rilevanti
del Terzo e del Quarto Quartetto.

In particolare nel Terzo Quartetto le atmosfere fortemente espressionistiche


derivano da svariati fattori, innanzitutto dalla concentrazione della forma
tradizionale di quattro tempi in un singolo movimento. Il brano presenta,
tuttavia, una precisa articolazione in quattro sezioni, nella sequenza lento-
veloce-lento-veloce, con la terza parte chiamata dal compositore, in italiano,
Ricapitulazione della prima parte e la quarta parte Coda - a dire il vero più una
sorta di ripresa o continuazione della seconda parte a livello tematico.

In ogni caso la terminologia di Bartók sembra indicare una concezione del lavoro
in due movimenti, in cui il principio della staticità, con l'accumulo della tensione,
e quello della dinamicità ed espansività, in cui l'energia accumulata diventa quasi
esplosiva frenesia, sono fortemente contrapposti. In questo dualismo, anche
espressivo, traspare un implicito riferimento agli ultimi Quartetti beethoveniani,
in particolare alle risolute opposizioni che aprono l'op. 130 e l'op. 132. Di
derivazione beethoveniana potrebbe risultare anche un altro aspetto peculiare
riguardante la struttura ritmico-armonica, quello della cosiddetta "dissonanza
metrica", con la sovrapposizione a strati di impulsi ritmici di!erenti. Questa
caratteristica viene esasperata dall'impiego di scale e modi di matrice folklorica,
liberamente combinati con astratte costruzioni di intervalli simmetrici che si
integrano con elementi cromatici e diatonici. Fondamentalmente il materiale
motivico-tematico è costituito da micro-melodie che Bartók espande tramite
ra"nati artifici contrappuntistici, in un'organizzazione quasi seriale che da vita a
continue catene di motivi tra loro interconnessi.

In quest'architettura formale di grande coerenza e ricchezza inventiva emerge


una varietà espressiva stupefacente del medium quartettìstico, attraverso un
processo di emancipazione del suono e del timbro, sottolineato dalla gran
varietà di colpi d'arco introdotti (col legno, sulla tastiera, a punta d'arco, sul
ponticello, pizzicato, martellato) e da e!etti particolari quasi al limite del
rumore.

Anna Ficarella

94a 1928

Rapsodia per violino e pianoforte n. 1

https://www.youtube.com/watch?v=WwiVAKcatkM

https://www.youtube.com/watch?v=HW4Y1hKALmU

https://www.youtube.com/watch?v=09x-F6Xuh3g

Moderato
Allegretto moderato

Organico: violino, pianoforte


Prima esecuzione: Londra, BBC Arts Theatre Club, 4 marzo 1929
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1929
Dedica: József Szigeti
Rielaborata per violino e orchestra BB 94b e per violoncello e pianoforte BB 94c

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Bartók scrisse nel 1928 due Rapsodie per violino e pianoforte e le dedicò
rispettivamente ai due grandi violinisti, József Szigeti e Zoltàn Székely, che le
inclusero subito nei loro programmi e le fecero conoscere durante i concerti
compiuti poco dopo nei maggiori centri europei. Della Rapsodia n. 1 esistono tre
versioni elaborate dallo stesso compositore: quella originale per violino e
pianoforte, quella per violino e orchestra e quella per violoncello e pianoforte;
della Rapsodia n. 2 ci sono invece due versioni: per violino e pianoforte e per
violino e orchestra. La versione per violino e pianoforte della Rapsodia n. 1 fu
eseguita per la prima volta a Berlino il 22 ottobre 1929 dal violinista Szigeti
accompagnato da Adolphe Hallis. Sempre Szigeti interpretò l'edizione per violino
e orchestra della Rapsodia n. 1 in un concerto del 22 novembre 1929 nella
grande sala dell'Accademia di musica di Budapest con l'Orchestra Filarmonica
della capitale magiara diretta da Antal Fleischer. Nella stessa sede Bartók
presentò il 20 marzo 1929, accompagnato da Jenò Kerpely, la versione per
violoncello e pianoforte della Rapsodia, che è un po' diversa dalle altre due nella
esposizione della cadenza della parte principale. In sostanza però la Rapsodia n.
1 nel suo triplice aspetto mantiene la stessa caratterizzazione tematica e si
richiama a melodie e stilemi della musica popolare ungherese, secondo una
precisa scelta estetica del compositore, che utilizzò il materiale folclorico della
sua terra (risale al 1906 la pubblicazione dei Venti canti popolari ungheresi con
accompagnamento di pianoforte) come via d'uscita dalla crisi dell'armonia
romantica. E' il musicista che lo dichiara in un suo scritto autobiografico quando
dice che «lo studio di tutta questa musica contadina era per me di decisiva
importanza, perché esso mi ha resa possibile la liberazione dalla tirannia dei
sistemi maggiore e minore fino allora in vigore».

Naturalmente la melodia popolare ungherese costituisce un punto di partenza


per Bartók che plasma con libertà ritmica, armonica e timbrica il materiale
etnofonico e gli imprime un colore e una tensione psicologica del tutto
personale, aperta a volte verso certe esperienze espressionistiche. Un esempio in
questo senso si avverte nella Rapsodia n. 1, costruita su motivi (ne sono indicati
cinque) tratti dalla raccolta della musica popolare della Transilvania; l'autore
parla di temi melodici del folclore romeno. Due sono i movimenti: il primo (Lassù
che vuol dire Moderato) è d'intonazione lirica e cantabile nell'elegante fraseggio
violinistico, mentre il secondo (Friss corrispondente all'Allegretto moderato) ha
un andamento danzante vivacemente punteggiato dai colpi d'arco dello
strumento solista.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Nasce nel 1928, la Rapsodia n.° 1 per violino e pianoforte, insieme alla pagina
gemella che reca il numero due. Vista la buona riuscita, subito dopo entrambi i
lavori saranno trascritti dall'autore per violino e orchestra. Il pezzo è dedicato al
violinista ungherese Joseph Szigeti (1892-1973), grande virtuoso insieme al
quale Bela Bartók occasionalmente si esibisce in recitals, per i quali il
compositore ritiene opportuno disporre anche di proposte più "leggere". In
e!etti, nel decennio per lui così fecondo, che segue alla prima guerra mondiale,
più volte Bartók alterna, alla creazione di capolavori "impegnati", la stesura di
musiche più accessibili. Ciò, forse, nell'intento di sperimentare le sue conquiste
stilistiche in una cornice meno astratta, più attenta a coinvolgere il largo
pubblico.

Del resto, la musica da camera di Bartók è copiosa e assai varia, come tutto il
suo catalogo; e riserva un'attenzione particolare agli strumenti ad arco. Su
questo fronte, sono infatti da ricordare le due Sonate per violino e pianoforte, la
ricca raccolta di Duo per due violini, la tardiva Sonata per violino solo, e appunto
le due Rapsodie. Il tutto si staglia poi sullo sfondo costituito dall'imponente
a!resco dei Sei Quartetti per archi, autentico monumento nel loro genere e nella
musica della prima metà del secolo ventesimo, lungo la quale tracciano una
traiettoria d'importanza strategica. E proprio nell'intervallo fra Terzo e Quarto
Quartetto, vedono la luce le due Rapsodie. Opere gemelle, che rispecchiano la
ben nota ricchezza delle esperienze bartókiane negli studi sulla musica
popolare, da lui indagata scientificamente alle fonti, al di là degli arbitrari
adattamenti di gusto urbano e occidentalizzante, propagati da tante orchestrine
tzigane.

Questa Rapsodia n.° 1 dunque ha sempre goduto, insieme all'altra, di notevole


circolazione, sia nella stesura originale con pianoforte, sia nella versione con
orchestra. È un lavoro che, in ogni caso, vede essenzialmente primeggiare il
violino, mentre il pianoforte ha soprattutto funzione di accompagnamento.
Motivi popolari ungheresi, rumeni, transilvanici a"orano in un impianto che
ricalca il modello del "verbunkos", tipo di danza che, nel secolo XVIII, scandiva le
campagne militari di reclutamento. E proprio il verbunkos impresta alla Rapsodia
alcuni ingredienti: l'accoppiamento di un episodio lento (lassù) e di uno mosso
(friss), l'uso di determinati abbellimenti e di ritmi sincopati, il caratteristico
movimento del basso e la scala detta tzigana, che avvolge i profili melodici di
sapori orientaleggianti. Anche qui Bartók conferma di saper assorbire dal
patrimonio popolare un'energia, dalla quale la sua vena creativa ricava sempre
nuova ispirazione.

Francesco A. Saponaro

94c 1928

Rapsodia per violoncello e pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=tezvVaUJf_E

https://www.youtube.com/watch?v=9mjDg98DheM

https://www.youtube.com/watch?v=aWVOpUOqhrI

Organico: violoncello, pianoforte


Prima esecuzione: Budapest, 30 marzo 1929
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1930
Arrangiamento della rapsodia per violino e pianoforte BB 94a

95 1928

Quartetto per archi n. 4

https://www.youtube.com/watch?v=E_XNfKk-Qbs

https://www.youtube.com/watch?v=p7vuuRZlGbc

https://www.youtube.com/watch?v=5xPhenUxi0c

Allegro
Prestissimo, con sordino
Non troppo lento
Allegretto pizzicato
Allegro molto

Organico: 2 violini, viola, violoncello


Composizione: luglio - settembre 1928
Prima esecuzione: Londra, 22 febbraio 1929
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1929
Dedica: Quartetto Pro Arte

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Di ritorno da una tournée concertistica negli Stati Uniti Bartók scrisse tra luglio e
settembre del 1928 il Quarto Quartetto in do, eseguito per la prima volta a
Budapest il 20 marzo 1929 dal Quartetto Waldbauer-Kerpely; fu dedicato al
Quartetto Pro-Arte e pubblicato nel 1929. Esso consta di cinque tempi, di cui il
primo (Allegro) sta in simmetria con il quinto (Allegro molto) per espliciti
riferimenti tematici, mentre il secondo (Prestissimo, con sordino) e il quarto
(Allegretto pizzicato) hanno carattere di scherzo, vivace e capriccioso. Al centro è
collocato il terzo tempo (Non troppo lento), considerato come una specie di
musica notturna con il canto declamante del violoncello, in un clima di
malinconia pastorale. Al Quarto Quartetto si può applicare in particolare ciò che
Boulez a!erma sulla tecnica usata da Bartók per gli strumenti ad arco: «Egli sa
utilizzare tutti gli e!etti riguardanti gli archi, come i pizzicati che battono sulla
tastiera e i suoni sul ponticello, e sa ammirevolmente dosare la mescolanza delle
loro diverse sonorità. Inoltre l'arco ritrova per suo mezzo un vigore e
un'aggressività d'attacco che la concezione romantica gli avevano fatto perdere
».
Il primo tempo del Quarto Quartetto è in forma di sonata, con l'esposizione, lo
svolgimento e la riesposizione, seguita da un'ampia conclusione. Frammenti
tematici, proposti prima dal violoncello e poi dai due violini, si congiungono e si
intersecano fra di loro, in una continua tensione dinamica. Ripetizioni ostinate,
bruschi arresti, grappoli di note costrette insieme da accordi impossibili, prodotti
dal moto orizzontale delle parti, sostanziano lo svolgimento e la ripresa. Un
ritmo rapido e asciutto domina nel Prestissimo, con sordino, dove si manifesta
quell'inventiva musicale puntata sulle ripetizioni e sugli strappi sonori così tipica
della fantasia bartokiana. Il terzo tempo è in tre parti: nella prima il violoncello
svolge un recitativo, sullo sfondo di suoni uniformi realizzato dai due violini e
dalla viola; nella seconda parte gli strumenti svolgono una serie di arabeschi
leggeri e frizzanti, come ispirati ai canti degli uccelli; nella terza parte ritorna il
canto del violoncello, ma senza fioriture e armonizzata a canone con il primo
violino. Nell'Allegro pizzicato il quartetto sembra un concerto di chitarre, in
quanto gli esecutori non usano l'arco. Nella melodia circolare che la viola
presenta per prima, tra le strappate ritmiche degli altri strumenti, non è di"cile
ravvisare una trasformazione del rapido saliscendi che costituiva il tema dello
scherzo precedente (Prestissimo, con sordino). Nel finale (Allegro molto) la
violenza dell'attacco iniziale con i suoi ritmi marcati e ripetitivi fa pensare a certi
passaggi del Sacre du printemps stravinskiano, pur nell'inconfondibile tono di
pesante danza rustica. Il tema dei violini presenta analogie con l'attacco
dell'Allegro del primo tempo, quasi a sottolineare la cellula da cui è nata l'intera
composizione, ritenuta da molti studiosi uno dei punti più alti dell'arte
bartokiana.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

«Nell'itinerario dell'opera bartokiana, disuguale e incostante, con improvvise


cadute e riprese altrettanto improvvise e violente, la traccia di un impegno
creativo più coerente e più organico è costituita dal gruppo dei sei quartetti,
sparsi fra gli anni 1908 e 1939. E' come dire che, indipendentemente dagli
eccezionali lavori dei suoi ultimi quindici anni, nei quartetti è sempre
consegnato, di un periodo, di una particolare esperienza, il miglior Bartók, il più
valido e intransitorio. Tanto per citare un esempio, il IV quartetto è del 1928
come la prima Rapsodia per violino e pianoforte, opera questa tanto facile e
futile quanto quella è invece ricca di intenzioni e di vivi presagi dell'opera
seguente; diversità poi addirittura contrastante nei modi tecnici e, diciamo così,
lessicali » (Guido Turchi).

Nel IV quartetto il compositore magiaro, se da una parte trae le estreme


conseguenze dalle premesse contenute nel III (soprattutto la preferenza per una
linearità melodica ad intervalli ristretti o a gradi congiunti su scale di vario tipo),
dall'altra inaugura con più marcata evidenza il «principio architettonico fondato
sull'unità di tutte le parti in una stessa opera», com'ebbe a esprimersi il
Leibowitz. Esigenza costruttiva, che darà i maggiori e più compiuti frutti nei due
successivi quartetti per i quali si parlò di un predestinato incontro di Bartók con
l'ultimo Beethoven.

Il presente quartetto consta di cinque movimenti: quattro sono collegati in una


duplice arcata che sottende, al centro, il terzo movimento. Infatti le connessioni
tematiche si hanno tra il 1° e il 5° movimento, legati anche dalla identica tonalità
di do, e tra il 2° e il 4° movimento. In questi ultimi due la tonalità si porta,
rispettivamente, ad una terza sopra (mi) e ad una terza sotto (la). Inoltre la figura
tematica del 2° movimento, cioè del vorticoso Prestissimo con sordino, costituita
di brevi saliscendi cromatici, si converte nel 4° (Allegretto pizzicato) in altrettanti
piani inclinati diatonici. Nel caso di questo Allegretto si tratta di un autentico
pezzo di bravura che vede gli strumentisti rincorrersi l'un l'altro con pizzicati
semplici o multipli, simultanei o arpeggiati, a strappo o ribattuti, sulla tastiera o
sul ponticello, e sempre sotto l'inesorabile pungolo di sincopati, di contrattempi,
di strette imitazioni.

Nel movimento di centro del quartetto, Non troppo lento, a"ora una delle più
tipiche costanti ispirative di Bartók, particolarmente dell'ultimo Bartók: la poesia
della notte, cioè, con la sua atmosfera ora sospesa e immota, ora traversata da
estrosi potremmo dire rapsodici fremiti sonori che talvolta salgono a canto, in
forma qua di monologo (tale il violoncello sull'inizio), più oltre di fiorito dialogo
o di gorgheggi, forse d'usignoli. Pagina, insomma, che ferma uno dei più alti
momenti di quella creatività timbrica di che fiorisce l'arte strumentale
bartokiana.

Giorgio Graziosi

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Composti tra il 1908 e il 1939, i sei Quartetti per archi di Béla Bartók sono
considerati da molti studiosi la massima espressione di questa classica
formazione cameristica nel secolo scorso. Forse nessun altro compositore del
Novecento è riuscito a fondere in modo altrettanto profondo tradizione e
innovazione, sguardo verso il passato e slancio verso il futuro: i quartetti
bartokiani sono una vera miniera di invenzioni timbriche e formali, ma allo
stesso tempo dialogano esplicitamente con la letteratura quartettistica Sette-
ottocentesca, soprattutto con Beethoven (per esempio nel gusto per i "giochi" di
simmetrie e per le inversioni melodiche, tipico delle tarde opere beethoveniane).
A questi elementi si aggiungono poi le caratteristiche consolidate del linguaggio
musicale del compositore: l'influenza del canto popolare e la grande vitalità
ritmica, che in alcuni istanti - basta citare l'ultimo movimento del Quarto
Quartetto - raggiungono e!etti di trascinante energia "percussiva" e di altissima
suggestione.

Il Quarto Quartetto venne composto nel 1928, neanche un anno dopo il Terzo:
evidentemente Bartók sentiva che quest'ultimo brano, tra i suoi più sperimentali,
aveva lasciato aperte alcune questioni, o forse aveva fatto nascere nuovi stimoli.
Sta di fatto che con il Quarto si apre una fase nuova dell'arte bartokiana. Sembra
quasi che il compositore intenda dare più ordine alle sue idee, conciliare la forza
del linguaggio musicale sviluppato nel decennio precedente - in opere come Il
Mandarino miracoloso, il Primo concerto per pianoforte o il ciclo pianistico
All'aria aperta - con un gusto nuovo e straordinario, per l'architettura formale
simmetrica che dominerà la sua produzione degli anni Trenta: nel Secondo
Concerto per pianoforte, nel Quinto Quartetto e in molte altre opere successive.
Detto in altro modo, l'organizzazione simmetrica (la cosiddetta "forma ad arco"
bartokiana) funge da contrappeso, riequilibra la violenza delle dissonanze e la
dirompente energia ritmica di questa musica.

Il Quartetto è articolato in cinque movimenti, che si richiamano tra loro in una


sorta di elaborato gioco di specchi: il primo e l'ultimo movimento sono basati sui
medesimi materiali musicali, al punto che, per sottolineare la simmetria, il
compositore conclude il quinto movimento con le stesse note del primo. Lo
stesso legame si instaura tra il secondo e il quarto movimento, strettamente
collegati tra loro anche per la brevità e per il carattere. Sono due "Scherzi", ma
bisogna sottolineare che a un ascolto superficiale la parentela tra questi due
brani può sfuggire, visto che Bartók costruisce tra loro un rapporto, per così
dire, di "deformazione" melodica: il secondo movimento è basato sulla scrittura
cromatica, su intervalli "stretti" ed espressivi; il quarto riprende gli stessi
materiali ma li espande, trasformandoli da cromatici in diatonici. Un'idea
originalissima, che Bartók tornerà a utilizzare in alcuni brani successivi come ad
esempio la Musica per archi, celesta e percussioni.

Il Non troppo lento centrale funge da perno dell'intera composizione: è il "seme",


come scrisse lo stesso Bartók nell'ampia introduzione alla partitura, protetto da
due successive serie di "gusci", uno interno (II e IV movimento) e uno esterno (I e
V). La metafora "naturale", l'uso di termini come seme e guscio, è tutt'altro che
casuale: una delle riflessioni più fertili e innovative del compositore in questo
periodo riguarda proprio i suoni della natura. E una suggestione che si mostra
per la prima volta nel quarto brano di All'aria aperta (1926), intitolato Musica
della notte, che esplora sulla tastiera del pianoforte un intero repertorio di
rumori e di versi di animali: in questa composizione straordinaria viene per la
prima volta eliminata la barriera che separa il "suono" dal "rumore", Bartók
sembra presagire, con decenni di anticipo, le future ricerche nel campo della
musica concreta e della musica elettronica. Il terzo movimento del Quarto
Quartetto è la seconda "musica della notte" scritta da Bartók: lo dimostrano i
richiami di uccelli lanciati dal primo violino nella sezione centrale e nelle battute
conclusive; o anche i lenti accordi iniziali che creano un e!etto statico, una sorta
di paesaggio sonoro indistinto che viene messo a fuoco gradualmente. Questo
risultato viene ottenuto anche grazie a una specifica indicazione esecutiva:
Bartók infatti chiede agli strumentisti di alternare il suono vibrato e non vibrato,
rendendo quindi di volta in volta il carattere degli accordi immobili più "caldo" o
più vitreo.

E proprio l'uso di modalità esecutive e di attacchi del suono insoliti è uno degli
aspetti più noti e più ammirati del Quarto Quartetto. I due Scherzi, per esempio,
si di!erenziano (oltre che nella scrittura cromatica/diatonica) soprattutto per
l'invenzione timbrica: interamente Con sordino il secondo movimento. Pizzicato
il quarto. In quest'ultimo brano la ricerca del compositore si spinge fino
all'invenzione di un suono totalmente nuovo: l'idea di pizzicare la corda con tale
forza da farla rimbalzare sulla tastiera, con un e!etto letteralmente percussivo
(un altro evidente tentativo di avvicinare suono e rumore). E!etto che non a caso
oggi è universalmente noto come "il pizzicato alla Bartók".

Per finire, una piccola osservazione più specialistica: l'organizzazione simmetrica


si ritrova frequentemente anche nella struttura dei materiali tematici del Quarto
Quartetto - molti temi si presentano nella doppia forma rectus/inversus, spesso
in imitazione - e nella disposizione spaziale degli accordi. Basta osservare
l'inizio del terzo movimento, in cui i due violini e la viola suonano un accordo di
sei note composto da due gruppi simmetrici di seconde maggiori: lo spazio
acustico che separa i due gruppi di tre note viene "riempito" dalla melodia del
violoncello, che comincia proprio facendoci sentire le note mancanti al centro
dell'accordo (il "seme" melodico, verrebbe da dire). Il particolare si riflette
nell'universale, il gusto per la simmetria si ritrova in ogni singolo dettaglio
compositivo e contribuisce all'unità e alla grande riuscita estetica di questo
quartetto, che non a caso è uno dei brani oggi più frequen-temente eseguili
dell'intero repertorio.

Giovanni Bietti

96a 1928

Rapsodia per violino e pianoforte n. 2

https://www.youtube.com/watch?v=nDt2Pfg4TnQ

https://www.youtube.com/watch?v=uFBKtND5-no

https://www.youtube.com/watch?v=xgBrKTZpDK4
Moderato
Allegro moderato

Organico: violino, pianoforte


Prima esecuzione: Amsterdam, 19 novembre 1928
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1929
Dedica: Zoltán Székely
Rielaborata per violino e orchestra BB 96b

102a 1930

Sonatina per violino e pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=ZmbqaEB-tSM

https://www.youtube.com/watch?v=0_s1lnixJ9w

https://www.youtube.com/watch?v=NTwgnOqEbFs

Organico: violino, pianoforte


Edizione: Rózsavőlgyi, Budapest, 1931
Arrangiamento e!ettuato con E. Gertler della Sonatina per pianoforte BB 69

104 1931

44 Duetti per violini divisi in 4 libri

https://www.youtube.com/watch?
v=32OiRKdFGsU&list=PLPoMtSx6DdQvJfWWxeJhXG-gVHAKOqCq-

https://www.youtube.com/watch?v=zTnB0_0ASsE

https://www.youtube.com/watch?v=8Twqrhz8B6M

Libro I:

Párosìtó (Canto dispettoso) - Andante


Kalmajkó (Filastrocca) - Andante
Minuetto - Moderato
Szentivdnéji (Canto d'una notte di mezza estate) - Risoluto
Tót nóta (Canto slovacco) (1) - Molto moderato
Magyar nóta (Canto ungherese) (1) - Moderatamente mosso
Oláh nóta (Canto valacco) - Allegro moderato
Tót nóta (Canto slovacco) (2) - Andante
Játék (Gioco) - Allegro non troppo
Rutén nòta (Canto ruteno) - Andante
Gyermekrengetéskor (Ninnananna) - Lento
Szénagyűjtéskor (Canto per la raccolta del fieno) - Lento religioso
Lakodalmas (Canto di nozze) - Adagio
Párnás-tánc (Danza del guanciale) - Allegretto

Libro II:

Katonanóta (Canto del soldato) - Maestoso


Burleszk (Burlesca) - Allegretto
Menetelő nóta (Marcia ungherese) (1) - Tempo di marcia, allegramente
Menetelő nóta (Marcia ungherese) (2) - Tempo di marcia
Mese (Fiaba) - Molto tranquillo
Dal (Canto) - Allegretto
Újévköszönto (Canto di Capodanno) (1) - Adagio
Szúnyogtánc (Danza del moscerino) - Allegro molto
Menyasszony-búcsúztató (Canto nuziale) - Lento rubato
Tréfas nóta (Canto allegro) - Allegro scherzando
Magyar nóta (Canto ungherese) (2) - Allegretto, leggero

Libro III:

Ugyan édes komámasszony (Canto di scherno) - Scherzando


Sántatánc (Danza alla zoppa) - Allegro non troppo
Bánkódás (Angoscia) - Lento, poco rubato
Újévköszöntő (Canto di Capodanno) (2) - Tempo giusto
Újévköszöntő (Canto di Capodanno) (3) - Allegro
Újévköszöntő (Canto di Capodanno) (4) - Allegro non troppo
Máramarosi tánc (Danza di Maramures) - Allegro giocoso
Aratáskor (Canto di mietitura) - Lento
Számláló nóta (Canto per far la conta) - Allegramente
Rutén kolomejka (Kolomejka rutena) - Allegro
Szól a duda (Cornamuse) (con una variante) - Allegro molto

Libro IV:

Preludium és kánon (Preludio e canone) - Lento


Forgatós (Danza in cerchio) - Allegro
Szerh Tánc (Danza serba) - Allegro molto
Oláh tánc (Danza valacca) - Comodo
Scherzo - Vivace
Arab dal (Canto arabo) - Allegro
Pizzicato - Allegretto
Erdélyi tánc (Danza transilvana) - Allegro moderato

Organico: 2 violini
Composizione: 1931
Prima esecuzione: Budapest, 20 gennaio 1932
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1933
Vedi al n. BB 113 Piccola Suite la trascrizione per pianoforte dei numeri 28, 32,
38, 43, 16, 36

109 1934

Magyar népdalok (Canti popolari ungheresi)

https://www.youtube.com/watch?v=UzWKCKyaB_0

https://www.youtube.com/watch?v=CQ1Et7yJ1_w

Organico: violino, pianoforte


Edizione: Rózsavőlgyi, Budapest, 1934
Arrangiamento di alcuni brani di Gyermekeknek BB 53 e!ettuato da Bartók con
T. Országh

110 1934

Quartetto per archi n. 5 in si bemolle maggiore

https://www.youtube.com/watch?v=pdCXD43AVho

https://www.youtube.com/watch?v=2XmMaXefnb4

https://www.youtube.com/watch?v=cM-SIWPDlVo

Allegro
Adagio molto
Scherzo: alla bulgarese
Andante
Finale: Allegro vivace

Organico: 2 violini, viola, violoncello


Composizione: 6 agosto - 6 settembre 1934
Prima esecuzione: Washington, 8 aprile 1935
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1936
Dedica: Elizabeth Sprague Coolidge
Guida all'ascolto (nota 1)

Porre, come accade nel concerto di questa sera, Bartók dopo Kurtág significa
anche ricordare il legame che unisce, quasi come l'allievo al maestro, i due
compositori ungheresi. Il primo periodo dell'attività di Kurtág viene solitamente
considerato di ascendenza bartokiana e il punto d'incontro lo si trova nel suo
proseguire quel lavoro di studio e libera elaborazione del materiale folklorico che
a lungo impegnò Bela Bartók. Ma, al di là dell'esito diverso che esprimono le
opere della maturità di Kurtág, un altro contatto può essere stabilito, tra loro
come tra i maggiori autori contemporanei: l'indagine sul potere e la forza di
seduzione e smarrimento del suono.

Bartók scrive il Quinto Quartetto per archi nel 1934, dedicandolo a Elizabeth
Sprague Coolidge. Sei anni prima aveva vinto, con il Terzo Quartetto, il
prestigioso Premio Coolidge di Filadelfia, consacrazione internazionale al
proprio, lavoro. In quell'occasione, un'altra opera era stata premiata: la Serenata,
di Alfredo Casella.

«Espressionista ma non dodecafonico, tonale ma non neoclassico, Bartók non si


è mai trincerato in problemi esclusivamente lessicali e tecnici. L'uomo moderno
lo sente vicino a sé come un compagno di strada, che ha condiviso le sue
illusioni e le sue speranze, che ha fatto i suoi stessi errori, che ha subito le sue
stesse delusioni e disfatte, che nell'arte non ha mai cercato un rifugio o
un'evasione, ma al contrario un mezzo per stabilire il contatto col proprio simile
e testimoniare con aperta parola di uomo responsabile delle proprie
convinzioni». Di quelle "delusioni e disfatte" di cui parla con ammirato a!etto
Massimo Mila, racconta anche il Quinto Quartetto. Lo compongono cinque tempi:
dallo Scherzo centrale si staccano due movimenti lenti e, agli estremi, l'Allegro
iniziale e l'Allegro vivace conclusivo. Una struttura già scelta da Bartók per il
Quarto Quartetto. I conflitti della sua personalità artistica vivono, con
programmatica evidenza, nel procedere a sbalzi, nelle sonorità taglienti che,
subito, disegnano la tinta dell'opera: i frammenti melodici, che i solisti sembrano
a"darsi, o negarsi l'un l'altro, vengono sommersi dal mareggiare di figure
ostinate e febbrili, dal ricorrere di furiose ebbrezze ritmiche.

Nell'Adagio molto, una frase del violino tenta di tracciare un percorso in questo
paesaggio di desolazione, attraversato - sono brividi - da tremoli e dal
rintoccare di corde a vuoto, senza sviluppo. Quella frase si sfalda, precipita
vibrante verso il silenzio che l'inghiotte. Nello Scherzo ("alla bulgara"), dopo un
vortice di suono e di rumore, la musica stupisce di se stessa, fermandosi a
contemplare un racconto sospeso. Poi, le sconvolgenti sonorità dell'Andante,
introdotto e chiuso da glissandi: un pulviscolo sonoro, cornucopia di luce dalla
quale volano via le urla dei suoni sovracuti. È ancora possibile una forma, un
canto? Un motivo di danza, furtivo come uno spettro, tenta di dialogare con
l'intreccio ossessivo disegnato dai movimenti precedenti. Bartók sembra temere
la conclusione, la annuncia e la evita, infine la fa piombare improvvisa dopo
averla preparata e rinviata. Come conciliare le anime del compositore? Il
desiderio del canto e la violenta introspezione visionaria, la immaginata libertà
dei mondi antichi («Lo studio di tutta questa musica contadina era per me di
decisiva importanza, perché m'ha reso possibile la liberazione dalla tirannia dei
sistemi maggiore e minore fino allora in vigore») e la lotta alla tirannia politica e
sociale che non ha smesso di occuparlo, fino all'esilio americano e agli ultimi
giorni di vita?

La sua immensa personalità, quelle contraddizioni che lo rendono nostro


contemporaneo, appaiono tutte trasferite in questo Quartetto; specchio del suo
autore, che sa risolverle in compiuta espressione artistica.

116 1938

Contrasti per violino, clarinetto e pianoforte

https://www.youtube.com/watch?v=kaTqsHVDmgY

https://www.youtube.com/watch?v=B3M0BqRM0P8

https://www.youtube.com/watch?v=h1cqtx_p5uU

Verhunkos - Moderato ben ritmato


Pihenő - Lento
Sebes - Allegro vivace

Organico: violino, clarinetto, pianoforte


Composizione: 24 settembre 1938
Prima esecuzione parziale: New York, 9 gennaio 1939
Prima esecuzione completa: New York, 1 aprile 1940
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1942
Dedica: Benny Goodman e Jozsef Szigeti

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Scritti su commissione del clarinettista Benny Goodman e del violinista Joseph


Szigeti, i Contrasti per violino, clarinetto e pianoforte furono terminati da Bartok
nel settembre 1938. La prima esecuzione del lavoro ebbe luogo a New York il 9
gennaio 1939 ad opera dei suddetti concertisti e dell'autore, i quali ne curarono
anche la registrazione discografica. La partitura è edita da Boosey and Hawkes.
Con i Contrasti, Bartok, che già aveva al suo attivo cinque Quartetti per archi,
include per la prima ed unica volta nella sua musica da camera uno strumento a
fiato. Di esso, come d'altra parte del violino, sono largamente sviluppate le
possibilità, mentre il pianoforte, con i suoi ostinati, trilli, glissandi, suoni a
campana, svolge una funzione importante, ma non preminente. Nei due primi
movimenti è utilizzato il clarinetto in la, nel terzo il clarinetto in si bemolle:
compaiono passaggi melodici caratteristici per ogni registro, rapidi arpeggi e
scale, trilli e tremoli, varietà di articolazioni, mutamenti di registri, estremi
dinamici, una cadenza nel primo tempo. Il violino aggiunge ai molteplici artifizi
adottati da Bartok nel corso della sua lunga pratica degli strumenti ad arco
(corde multiple, e!etti simultanei di arco e di pizzicato, glissandi, ecc.), quello
della scordatura: durante trenta battute, all'inizio del terzo tempo, anziché un
violino ad accordatura normale è usato un violino con accordatura sol diesis - re
- la - mi bemolle. Anche il violino ha una cadenza, nell'ultimo tempo.

I movimenti che compongono i Contrasti sono rispettivamente intitolati


Verbunkos (lett. danza di reclutamento), Pihenö (riposo), Sebes (rapido). I
movimenti estremi, l'uno moderato ben ritmato e l'altro allegro vivace, si rifanno
ai due aspetti della csardas, il movimento centrale ha l'aspetto di un lento
interludio. In Sebes figura un trio discordante rispetto al resto del movimento.
Melodicamente ed armonicamente, tutto il lavoro è legato in particolare all'aspro
intervallo di tritono.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Quello di Contrasti è l'unico caso in cui il clarinetto entra nella musica di Bartók
con un ruolo primario e ciò avviene nella fase più creativa del compositore (nello
stesso anno del Concerto per violino, il 1938), quella che porta Bartók sulla
scena internazionale, mentre la situazione politica del suo paese, e dell'Europa in
genere, si fa sempre più di"cile. Due anni più tardi infatti egli si stabilirà
definitivamente negli Stati Uniti dove, nei cinque anni prima della morte,
nasceranno i suoi ultimi capolavori. Per quanto scritti a Budapest, i Contrasti
nascono da un rapporto con la musica americana, espressamente con il violinista
Joseph Szigeti e il clarinettista Benny Goodman che gli commissionano i tre
pezzi, della durata complessiva di circa un quarto d'ora. Ma alla prima
esecuzione (New York, 9 gennaio 1939) saranno eseguite soltanto le due danze
(che stanno all'inizio e alla fine): Verbunkos (Danza del reclutamento) e Sebes
(Veloce). Gli esecutori erano Szigeti, Goodman e al pianoforte Endre Petri. Il
pezzo centrale, quello lento, intitolato Pihenó (Riposo), sarà terminato più tardi
ed entrerà nella prima edizione della Hawkes & Son di Londra, nel 1942.

Prima di considerare da vicino quest'opera è forse utile ricordare che il clarinetto


(la novità, dal punto di vista dell'organico, è proprio il suo inserimento, fra
violino e pianoforte), dopo una fortunata stagione ottocentesca, da Weber a
Schumann, aveva suscitato l'interesse di molti compositori già nel primo
Novecento, con Reger, Debussy, Busoni, Berg, e particolarmente in formazioni
cameristiche si imporrà per tutta la prima metà del secolo, in autori fortemente
rappresentativi come Hindemith, Honegger, Milhaud, Schoenberg, Webern.

Il primo dei tre pezzi, Verbunkos, mantiene più che gli altri un carattere
rapsodico, anche se l'elemento dominante e ricorrente è praticamente uno solo,
quello a valori puntati, di carattere un po' grottescamente marziale, che viene
proposto in modo esplicito dalla linea del clarinetto alla terza battuta, estrosa e
mobile, la quale spezza l'ostinato ritmo a semiminime tenuto dal violino con
accordi pizzicati. Poco più avanti i ruoli si cambieranno, o meglio sarà il violino a
riproporre lo stesso tema, con il movimento segnato questa volta dal pianoforte,
mentre al clarinetto è a"dato un movimento continuo a terzine di semicrome.
Attraverso passaggi fantasiosi la zona centrale alterna situazioni agogicamente
diversificate, ma quasi mai viene a cessare lo spunto ritmico iniziale, anche se
l'interesse sembra spostato su una situazione più impellente di terzine nella
configurazione particolare di croma più semiminima e viceversa. Un passaggio in
cadute sincrone di violino e clarinetto, spezzate dai continui glissandi del
pianoforte, conduce ad una specie di ripresa con qualche spunto imitativo senza
interesse contrappuntistico rilevante; verso la fine si ripropone per poco il clima
dell'inizio, ma solo per lasciare al clarinetto lo spazio di esprimere, con una
vistosa cadenza, il suo ruolo di improvvisazione.

Pihenó, in seconda posizione, è un Lento di carattere molto diverso, anch'esso


tuttavia internamente diversificato. Il gioco musicale, almeno nella prima parte, è
condotto soprattutto da violino e clarinetto spesso in moto contrario, mentre al
pianoforte sono a"dati interventi sporadici più che altro di atmosfera e di
contorno. La zona centrale, ricca di fioriture, tremoli e trilli, è un momento
alternativo dal quale alla fine esce il pianoforte con il ruolo che prima era dei due
strumenti, quello di brevi movimenti a moto contrario.

Anche l'ultimo pezzo (Sebes) mantiene un carattere un po' rapsodico, ma la sua


caratterizzazione viene soprattutto dal movimento veloce che lo rende
particolarmente sciolto, con carattere di finale. È curioso sottolineare come esso
richieda al violinista due strumenti, il primo con la scordatura della prima e
quarta corda (mi bemolle e sol diesis), e che esige anche il cambiamento del
clarinetto da la a si bemolle. Sui bicordi del violino (quinte diminuite e quinte
giuste alternate) il clarinetto attacca il suo movimento trascinante a semicrome e
coinvolge di lì a poco anche il pianoforte in un gioco che si fa via via più vistoso
e contrastante. Di notevole interesse ritmico, per gli impulsi nuovi che crea, è la
zona centrale in tempo più mosso, su un curioso 8+5/8, vale a dire su una
suddivisione di 13 ottavi divisa, dentro ogni battuta, in due valori di otto e di
cinque; curiosa è anche, in questa realtà, la presenza di grappoli di note, al
pianoforte, dall'essenza di cluster. Poi si riprende lo spirito della prima parte,
con la presenza di una brillante cadenza del violino che lascia scorrere quindi il
discorso liberamente in tutta la sua fluidità verso la conclusione.

Renato Chiesa

119 1939

Quartetto per archi n. 6

https://www.youtube.com/watch?v=xo7TgHO7Ul8

https://www.youtube.com/watch?v=SWHLjHKWVdk

https://www.youtube.com/watch?v=3_DuutkW9WY

https://www.youtube.com/watch?v=ZRARwsnY630

Mesto - Vivace
Mesto - Marcia
Mesto - Burletta
Mesto - Molto tranquillo

Organico: 2 violini, viola, violoncello


Composizione: agosto - novembre 1939
Prima esecuzione: New York, 20 gennaio 1941
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1941
Dedica: Quartetto Kolisch

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il Sesto Quartetto in re fu composto tra l'agosto e il novembre del 1939, su


commissione del violinista Zóltan Székely. E' l'ultima composizione scritta da
Bartók in Europa e segue alcuni importanti lavori, come la Sonata per 2
pianoforti e percussione (1937), il Concerto per violino e orchestra (1937-'38) e
il Divertimento per archi (2-17 agosto 1939). Il Quartetto fu eseguito per la
prima volta a New York il 20 gennaio 1941 dal Quartetto Kolisch, al quale è
dedicato; fu pubblicato nel 1941. Nella partitura sono presenti gli echi del
dramma personale del musicista, costretto a lasciare la propria terra per il
dilagare della dittatura nazista in Europa dopo la pericolosa politica
dell'Anschluss: non è da escludere che l'ironia della Marcia e della Burletta abbia
un aggancio psicologico con il divampare della seconda guerra mondiale, e il
Mesto ricorrente in tutti e quattro i tempi abbia un riferimento con la morte della
madre, avvenuta in quel triste periodo.
L'arte di Bartók acquista una più spiccata umanizzazione e non a caso la
presentazione del tema del Mesto introduttivo ha rassomiglianza con la frase
della Grande Fuga beethoveniana dell'opera 135, contrassegnata dal motto:
«Muss es sein? » (Deve proprio essere?). Non mancano nella Marcia altri echi
beethoveniani, pur fra i tremoli, i trilli e i glissando che Bartók utilizza
abitualmente nella sua musica. Più stridente e tagliente è il tema della Burletta,
basato sull'intervallo di terza minore, assurto a significato simbolico di una
situazione psicologica di lacerante contrasto con la realtà. L'ultimo tempo è
immerso in una profonda tristezza e la melodia si espande al massimo, sino a
raggiungere una notevole tensione espressiva; la viola ripete in modo elegiaco il
tema e la prima cellula della melodia viene ripresa alla fine in pianissimo e in
pizzicato dal violoncello, su un delicatissimo sottofondo sonoro dei due violini,
posto a degno coronamento dell'ardita e fortemente introspettiva intera opera
quartettistica bartokiana.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il VI Quartetto di Bela Bartok, datato: Saanen - Budapest 1939, è, a quanto


sappiamo, l'ultima composizione da camera del compositore ungherese, e
l'ultimo lavoro da lui scritto prima di partire per l'America. E' una fra le più
perfette a!ermazioni di quella generosa natura d'artista per la quale il
nazionalismo artistico non è stato davvero una barriera: se il suo linguaggio
personalissimo è stato foggiato durante un lungo e appassionato studio delle
musiche popolari della sua terra, nè Debussy, nè Ravel, nè Strawinsky sono stati
avari d'insegnamento a Bartok: e neppure Schönbérg che, col suo
espressionismo dodecafonico, gli ha o!erto gli elementi d'un linguaggio
cromatico e d'una dialettica armonica di una.originalità sorprendenti. Ma negli
ultimi lavori Bartok - musicista geniale nella cui natura v'ha un bisogno innato di
serietà e d'impegno totale e senza riserve - mostra, che il suo linguaggio è ben
suo, e che gli elementi che haano contribuito a formarlo - siano essi d'arte o
popolari - sono tutti bruciati nello forza espressiva: è un linguaggio spesso, rude
ed opaco che si fugge da eleganze e da blandizie, dominato da un'energia
ritmica e timbrica che bastano a rivelare la personalità del musicista fin
dall'inizio. Questo Quartetto è in quattro tempi - Vivace, Marcia, Bagattella e
Mesto - ognuno dei quali è preceduto da una melodia che la viola sola espone
all'inizio del I tempo, il violoncello (sul fondo degli altri strumenti) del II, il violino
(sempre con gli altri strumenti) del III, e che forma il nucleo generatore del finale
(dove riappaiono elementi del I tempo). La scrittura è chiara, precisa, ariosa:
l'unita della costruzione è assicurata, oltre che dai temi generatori da una specie
di «ritmo interno» che presiede alla logica dell'architettura, e da una
impeccabilità dir stile perfetto. Ma, ciò che più conta, è la profonda espressività
di questa musica, una espressività non sentimentale, ma insita profondamente
nella materia musicale stessa, nel suo modo di organizzarsi, nella sua integrità
che non cede a facili modi decorativi, o letterari, ma che resta sempre
profondamente ed autenticamente musica.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Posto accanto all'esplosiva energia e alla visionaria struttura simmetrica del


Quarto, il Sesto Quartetto - con i suoi quattro movimenti, in ognuno dei quali
ritorna ossessivamente una lenta cantilena che porla l'indicazione Mesto e
ricorda l'inizio del beethoveniano Quartetto op. 131 - sembra davvero
appartenere a un altro mondo espressivo. Bartók lo scrive negli ultimi mesi del
1939 ed è la sua ultima composizione importante prima del volontario esilio
negli Stati Uniti. Esso quindi in un certo senso chiude il decennio creativo che si
era aperto proprio con il brano di cui abbiamo parlato più sopra (Quarto
Quartetto n.d.r.) (o forse è un Post-scriptum, un'aggiunta, uno sguardo indietro),
e riflette allo stesso tempo il clima oppressivo della guerra e la tristezza per la
morte della madre, spesso ricordata nelle lettere di questo periodo. Le
interpretazioni autobiografiche del Sesto Quartetto, come si può immaginare,
sono quindi state numerose. Bisogna però osservare che la "mestizia"
complessiva del brano probabilmente non corrisponde all'idea iniziale del
compositore: sembra che negli abbozzi il Mesto fosse presente solo come
introduzione all'ultimo movimento (che doveva essere un moto perpetuo, in
tempo rapido). Solo in un secondo tempo Bartók decise di utilizzare questo
materiale, con la sua eloquente indicazione espressiva (già utilizzata, ancora una
volta, da Beethoven: nei tempi lenti della Sonata op. 10 n. 3, Largo e mesto, e del
Quartetto op. 59 n. 1, Adagio molto e mesto), per introdurre i primi tre
movimenti, e quindi espanderlo a formare l'intero ultimo movimento. L'evidente
unità formale del brano, e la sua organizzazione "ciclica", sarebbero quindi frutto
di un ripensamento: non a caso il compositore si preoccupa di sottolinearle
facendo ritornare, in tempo lento, i due temi principali del primo movimento nel
corso del Mesto conclusivo.

Lo spazio non ci permette di esaminare in dettaglio tutti i movimenti del


quartetto: al di là delle ricorrenze del Mesto, che diventa più esteso e più
articolato a ogni riapparizione (passando da una a due, a tre e infine a quattro
voci; e si può aggiungere che nei primi tre movimenti le ultime note del Mesto
introduttivo sembrano anticipare il tema del brano successivo), mi limiterò a
sottolineare per prima cosa l'equilibrio del Vivace iniziale, uno degli esempi più
limpidi di forma-sonata nell'intera opera di Bartók. I due movimenti centrali sono
accomunati dalla forma ternaria ABA, pur avendo caratteri molto diversi. La
Marcia richiama certe atmosfere dei Contrasti per violino, clarinetto e pianoforte
del 1938, con un Trio dal carattere spiccatamente popolare, nella melodia e negli
espressivi glissando del violoncello. La Burletta, la cui ripresa viene variata
attraverso uno straordinario uso del pizzicato, sembra sospesa tra il carattere
"percussivo" c assertivo di tanta precedente musica bartokiana e un lato più
sarcastico, perfino disincantato.

Il finale trasforma il Mesto in una densissima meditazione contrappuntistica con


la quale Bartók sembra voler rendere omaggio all'intera tradizione musicale
mitteleuropea: da Bach alla Suite lirica di Alban Berg (1925/6), passando
attraverso Haydn, Brahms, Mahler, Schönberg e naturalmente Beethoven.

Giovanni Bietti

124 1944

Sonata per violino solo in sol minore

https://www.youtube.com/watch?v=oXURzK!Abk

https://www.youtube.com/watch?v=QQccciEPmoI

https://www.youtube.com/watch?v=keMuEVVdaac

Tempo di ciaccona
Fuga (Risoluto, non troppo vivo)
Melodia (Adagio)
Presto

Organico: violino
Prima esecuzione: New York, 26 novembre 1944
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1947
Dedica: Yehudi Menuhin

Guida all'ascolto (nota 1)

La Sonata per violino solo appartiene all'ultimo periodo della produzione di


Bartok, il periodo del volontario esilio americano, dolorosamente maturato negli
anni precedenti la guerra, in seguito all'avvicinamento politico dell'Ungheria alla
Germania di Hitler. Negli Stati Uniti Bartok lavorò in condizioni estremamente
disagiate, sia per la precarietà della situazione economica e dello stato di salute
che per le di"coltà di inserimento in un ambiente a lui nuovo e non congeniale.
Trovano dunque un riscontro e!ettivo nella biografia del compositore le
valutazioni di quella parte della critica che vede nella produzione americana un
netto declino nel pensiero di Bartok rispetto alla fertilità della ricerca e
dell'invenzione degli anni ungheresi. Le opere americane vengono così
considerate una stanca appendice a quella evoluzione che aveva portato Bartok
da uno stile "espressionista" ad uno "neoclassico" (entrambi i termini da
intendersi con estrema cautela), che aveva cioè visto il compositore abbandonare
il linguaggio aggressivo e la complessità formale degli anni '20 e dei primi anni
'30 per una scrittura più semplice e trasparente.

In realtà la Sonata per violino solo occupa una posizione isolata rispetto alle altre
opere americane, segnando un brusco ritorno al momento
"espressionista" (senza peraltro avvicinarsi all'a!ascinante inventiva delle due
Sonate per violino e pianoforte del 1921 e '22). Questo è forse da attribuirsi alla
necessità di sfruttare al massimo tutte le caratteristiche tecniche dello
strumento, dunque di fornire al solista un brano di eccezionale complessità e
di"coltà. La composizione infatti fu commissionata dal grande Yehudi Menuhin,
allora ventottenne, che ne detenne per due anni i diritti esclusivi. Composta fra il
novembre del '43 e il marzo del '44 e pubblicata nel '47 - due anni dopo la
morte dell'autore - allo scadere dei diritti di Menuhin, la Sonata per violino solo
si ispira apertamente alle tre Sonate di Bach, sia nella scrittura polifonica che
nella concezione d'impianto (l'alternanza di movimenti lenti a movimenti veloci e
la presenza di una Fuga come secondo dei quattro tempi). Il primo movimento
reca l'indicazione Tempo di ciaccona e si richiama alla danza barocca per la
decisione ritmica del primo tema, ma in realtà è in forma-sonata, con un
secondo tema dal carattere cantabile e uno sviluppo basato principalmente sulla
prima idea. La Fuga supera in ambizione, con le sue quattro voci, gli stessi
modelli bachiani (che si limitano a tre entrate) e si basa su un soggetto
tipicamente bartokiano per l'ambitus limitato e il profuso cromatismo; nel corso
del movimento l'ordito contrappuntistico si fa progressivamente meno rigido e
più sfumato. La connotazione severa e asciutta dei primi due movimenti lascia il
posto negli ultimi due a un maggior rilassamento della tensione espressiva. La
Melodia ha dei punti di contatto con l' "Adagio religioso" del coevo Concerto per
pianoforte n. 3 per la struttura tripartita (A-B-A) e l'ambientazione
"notturna" (Bartok valutava l'opportunità che il movimento fosse eseguito
interamente con la sordina). Il Presto finale - il cui tema misterioso e guizzante
prevedeva in origine l'impiego dei quarti di tono - è un rondò con due episodi
basati su un materiale tematico di ascendenza folklorica e con una coda che
riassume brevemente il contenuto dell'intero movimento.

Arrigo Quattrocchi

126 1945 circa

Tre canti popolari ucraini

Organico: violino, pianoforte


Canto

Coro senza accompagnamento

30 1903

Est (Sera)

https://www.youtube.com/watch?v=R4hpbGLrzRs

Testo: Kálmán Harsányi


Organico: coro maschile senza accompagnamento
Composizione: aprile 1903
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1964
Dedica: Kálmán Harsányi
I testi sono identici a quelli usati in BB 29 ma la musica è diversa

57 1909 circa

Due Canti popolari romeni

Per coro femminile a 4 voci a cappella

Nu te supăra mireasă (Nel giorno delle nozze di lei)


Măi, badiţă prostule (Ehi, vecchio scioccherello)

Organico: coro femminile senza accompagnamento


Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1975
Abbozzi, completati da B. Sucho!

60 1910 - 1912

Négy régy magyar népdal (4 vecchie canzoni popolari ungheresi)

https://www.youtube.com/watch?v=ZhXQXXm7FL4

https://youtu.be/_ElojNxnAag

Per coro maschile a 4 voci a cappella

Rég megmondtam (Molto tempo fa ti dissi)


Jaj istenem! kire várok? (Mio Dio!, che aspetto?)
Angyomasszony kertje (Nel giardino di mia cognata)
Béreslegény, jól megrakd a szekeret (Garzone, bada a caricare bene il carro)

Organico: coro maschile senza accompagnamento


Prima esecuzione: Szeged, 13 maggio 1911
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1928

77 1917

Szlovak népdalok (Canti popolari slovacchi)

https://www.youtube.com/watch?v=BAlMVOTYwkI

https://www.youtube.com/watch?v=Kg75MLdZwKY

Per coro maschile a 4 voci a cappella

Ej, posluchajte malo (Ascoltate, cari amici)


Ked'ja smutny pojdem (Se andrò alla guerra)
Kamarádi moj (Miei camerati)
Ej, a ked'mna zabiju (Se dovessi cadere)
Ked'som šiou na vojnu (In cammino verso il fronte)

Organico: coro maschile senza accompagnamento


Prima esecuzione: Vienna, Konzerthaus, 12 gennaio 1918
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1918

78 1917

Négy szlovak nèpalok (4 Canti popolari slovacchi)

https://www.youtube.com/watch?v=G6Ofm-_sduc

https://www.youtube.com/watch?v=adpE0xGwRSc

Per coro a 4 voci e pianoforte

Zadala mamka (Così mandò a dire la madre)


Naholi, naholi (Sulle montagne)
Rada pila, rada jedla (Mangiare e bere che piacere)
Gajdujte, gajdence (Suonino le cornamuse)

Organico: coro misto, pianoforte


Prima esecuzione: Budapest, Accademia di Musica, 5 gennaio 1917
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1924

Guida all'ascolto (nota 1)

L'interesse di Bela Bartòk per la musica popolare - e non soltanto di quella


ungherese - è più che noto. Le ricerche etnomusicologiche del musicista sono
documentate da numerosi sàggi e raccolte di canti popolari originali: i «20 canti
popolari ungheresi» trascritti per violino e pianoforte in collaborazione con,
Kodàly; le 371 melodie romene del dipartimento Bihor; le 150 melodie
transilvane (in collaborazione con Kodàly); le 320 melodie ungheresi pubblicate a
Budapest nel 1924; una raccolta di Scritti sulla musica popolare pubblicata a
Budapest nel 1948 e tradotta in italiano, a cura di Diego Carpitella, nel 1955, e
via dicendo.

Ma anche la produzione musicale autonoma del compositore fu spesso


direttamente ispirata alla musica popolare. Ne danno testimonianza, anche
limitandosi al solo genere vocale, i 4 Vecchi canti popolari ungheresi del 1912; i
4 Canti popolari slovacchi del 1917; i 5 Canti popolari slovacchi sempre del
1917; i 4 Canti popolari ungheresi del 1930; i Canti popolari ungheresi del 1935.

Testo

I. Canto nuziale (da Poniky)

Zadala mamka, zadala dcéru Daleko od sebe,


Zakàzala jej, prikazala jej: Nechod' dcero kumne!
Ja sa udelàm ptàckom jarabym, Poletìm kmamicke,
A sadnem si tam na zahradecku, Na bielu laliju.
Vjide mamcka: - Co to za ptàcka, co tak smutne spieva?
Ej, hesu, ptacku jaraby, Nelamaj laliju
Ta daly stemna za chiapa zlého Do kraja cudzieho;
Veru mne je zie, mamicka mila, so zlym muzom byti.

Una sposa infelice torna da sua madre sotto forma di un merlo, ma la madre non
la riconosce e la caccia via. L'infelice lamenta la sua sorte.

II. Canto dei mietitori di fieno (da Hiadel)


Na holi, na tej sirocine Ved'som sa vyspala,
Ako na perine. Uz sme pohrabaly, Co budeme robit'?
Svrsku do doliny Budeme sa vodit'.

I mietitori, stanchi dopo la giornata di lavoro, sognano


le semplici gioie e il riposo delle loro case.
III. Ballo (da Medzibrod)
Rada pila rada jedla Rada tancovala,
Ani si len tù kytlicku Neobrancovala.
Nedala si styri grose Ako som ja dala,
Zeby si ty tancovala, A ja zebystàla.

Tu non ami che ballare, non pensi mai al lavoro, al cucito! Io ho pagato i
suonatori, ma tu balli con gli altri e mi lasci solo.

IV. Ballo (da Poniky)

Gajdujte, gajdence Poideme kfrajerce!


Ei, gajdujte vesele, Ej, ze pojdeme smele!
Zagajduj gajdose! Este Màm dva grose:
Ej, jedon gajdosovi, A druhy krcmarovi.
To boia kozicka, Co predok vodila,
Ej, ale uz nebude, Ej, nozky si zlomila.

Suonate pi!erai, venite a ballare, giovani! Spenderemo il nostro ultimo soldo per
pagare i suonatori, e balleremo al suono della cornamusa.

99 1930

Magyar népdalok (Canti popolari ungheresi)

https://www.youtube.com/watch?v=pe1ibdIFyC8

https://www.youtube.com/watch?v=QRzM8hblk3c

https://www.youtube.com/watch?v=yK0vw-tVS0U

https://www.youtube.com/watch?v=tLIc748Mm90

Per coro misto a cappella

A rab (Il prigioniero)


A bujdosó (Senza patria)
Az eladó làny (Una ragazza da maritare)
Dal (Canzone)

Organico: coro misto senza accompagnamento


Composizione: maggio 1930
Prima esecuzione: Kecskemét, 11 maggio 1936
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1932
106 1932

Székely dalok (Canti di Székely)

https://www.youtube.com/watch?v=FzaeyX8xRZg

Per coro maschile a 6 voci a cappella

Hej, de sokszor megbántottál (Spesso mi hai o!eso)


Istenem, életem (Dio mio, vita mia)
Vékony cérna, kemény mag (Filo sottile, seme duro)
Kilyénfalvi középtizbe (Le spigolatrici di Kilyenfalva)
Come il n. 3
Járjad pap a táncot (Preparati, prete, a danzare)

Organico: coro maschile senza accompagnamento


Composizione: novembre 1932
Edizione: Magyar Kórus, Budapest, 1938 (nn. 1 e 2); Editio Musica, Budapest,
1955 (completa)
Dedica: István Németh e alla Società corale Béla Bartók

111 1935

Huszonhèt két- és hárórnszolamú kórus (27 Cori a 2 e a 3 voci a cappella)

Fascicolo I (per voci bianche)

Tavasz (Primavera)
https://www.youtube.com/watch?v=Pwpndw21g-g

Ne hagyi itt (Non andar via)


https://www.youtube.com/watch?v=XWdjxuhObpA

Jószágigéző (Incantesimo)
https://www.youtube.com/watch?v=7RGCjnnONnE

Fascicolo II (per voci bianche)

Leve! az otthoniakhoz (Lettera ai familiari)


https://www.youtube.com/watch?v=_s97q81YW6c

Jaték (Divertimento)
https://www.youtube.com/watch?v=VpGWxk_rfsw

Leánynéző (Il corteggiatore)


https://www.youtube.com/watch?v=dE9JVKdx10U

Héjj'a, héjja, karabéjja (Il nibbio, il nibbio)


https://www.youtube.com/watch?v=YiHmtBfEIXE

Fascicolo III (per voci bianche)

Ne menj el (Non abbandonarmi)


https://www.youtube.com/watch?v=L5cxYvroFkg

Van egy gyűrűm (Ho un anello)


https://www.youtube.com/watch?v=xXlfqnOnzfQ

Senkim a világon (Solo al mondo)


https://www.youtube.com/watch?v=0ef8bTPXgSE

Cipósütés (La cottura del pane)


https://www.youtube.com/watch?v=t0NHS6TNbNc

Fascicolo IV (per voci bianche)

Huszárnóta (Il canto dell'ussaro)


https://www.youtube.com/watch?v=qZo4F_kZqG8

Resteknek nótája (Lode del far niente)


https://www.youtube.com/watch?v=tEAA2hNoGU4

Bolyongás (Senza meta)


https://www.youtube.com/watch?v=u-0lsYQQ_Zs

Leánycsúfoló (Canzone delle ragazze dispettose)


https://www.youtube.com/watch?v=lPyFpRk2WFU

Fascicolo V (per voci bianche)

Legénycsúfoló (Canzone dei ragazzi dispettosi)


https://www.youtube.com/watch?v=0e_M6sIwPJg
Mikálynapi köszöntó (Auguri per la festa di S. Michele)

Leánykérő (Il pretendente)


https://www.youtube.com/watch?v=aoNFvS9N-Cw

Fascicolo VI (per voci bianche)

Keserves (Lamento)
https://www.youtube.com/watch?v=cHGwT3IVVnE

Madárdal (Il canto dell'uccello)


https://www.youtube.com/watch?v=dloCi7H3Zic

Csujogató (Burla)
https://www.youtube.com/watch?v=Oyd6cESM6A4

Fascicolo VII (per coro femminile)

Bánat (Dolore)
https://www.youtube.com/watch?v=QFJuLh8Nwho

Ne láttalak volna (Non avrei dovuto vederti)


https://www.youtube.com/watch?v=_efVaB0S8gc

Elment a madárka (L'uccellino è fuggito)


https://www.youtube.com/watch?v=CgCm9GY_TRQ

Fascicolo VIII (idem)

Párnás táncdal (La danza del guanciale)


https://www.youtube.com/watch?v=ttkzLD5bK8o

Kanon: Meghalok Csurgóért (Canone: Io muoio per Csurgo)

Isten veled (Addio)


https://www.youtube.com/watch?v=I9Vertmo30k

Organico: coro senza accompagnamento


Prima esecuzione: Kecskemét, aprile 1937
Edizione: Magyar Kórus, Budapest, 1937 e 1938
112 1935

Elmúlt időkből (Dal passato)

https://www.youtube.com/watch?v=DS5LomLfhRo

https://www.youtube.com/watch?v=8xZ-aXhHuTk

https://www.youtube.com/watch?v=H6kCR3s20hU

Tre cori maschili a 3 voci a cappella, su testi popolari ungheresi

Nincs boldogtalanabb (Nessuno è più infelice del contadino)


Egy, kettő, bárom, négy (Uno, due, tre, quattro)
Nincsen szerencsésebb (Nessuno è più felice del contadino)

Organico: coro maschile senza accompagnamento


Prima esecuzione: Budapest, 7 maggio 1937
Edizione: Magyar Kórus, Budapest, 1937

Voce e orchestra

18 1899

Tiefblaue Veilchen

https://www.youtube.com/watch?v=jTRRu0Xatw8

Testo di G. Schönaich-Carolath
Organico: voce, orchestra

87b 1926

Falun (Tri dedinské scény) (In campagna - 3 Scene rurali)

https://www.youtube.com/watch?v=uxbLvEfjqXk

https://www.youtube.com/watch?v=PER2XnHrox8

https://www.youtube.com/watch?v=7RGss0uPouw

Testi tradizionali slovacchi


Svatba (Nozze)
Ukolébavka (Ninnananna)
Tanec mládenco (Danza di ragazzi)

Organico: 4-8 voci femminili, orchestra da camera


Composizione: maggio 1926
Prima esecuzione: New York, 1 febbraio 1927
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1927
Trascrizione dei n. 3, 4 e 5 di Falun per voce e pianoforte BB 87a

100 1930

A kilenc csodaszarvas (I nove cervi fatati)

https://www.youtube.com/watch?v=CZhMPJeT-jg

https://www.youtube.com/watch?v=6aj61iLxDFM

Cantata profana (da testi natalizi romeni) per tenore, baritono, doppio coro e
orchestra

Molto moderato
Andante
Moderato

Organico: tenore, baritono, doppio coro, ottavino, 3 flauti, 3 oboi, 3 clarinetti,


clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso
tuba, timpani, cassa chiara, grancassa, piatti, tam-tam, arpa, archi
Composizione: 8 settembre 1930
Prima esecuzione: Londra, 25 maggio 1934
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1934

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

A di!erenza del compatriota Zoltàn Kodàly, Bartók fu principalmente autore di


musica strumentale e nel catalogo della sua produzione l'opera vocale-corale
occupa un'area assai limitata. In tale contesto la Cantata profana, ultimata nella
composizione l'8 settembre 1930, costituisce il manifesto più emblematico e
singolare della peculiare poetica bartokiana.

Ben poco si conosce, al di fuori di qualche citazione nell'Epistolario, sulle


e!ettive ragioni che stimolarono l'ispirazione del musicista magiaro. Sembra
comunque che Bartók intendesse considerare la Cantata profana come il
pannello introduttivo di un variegato polittico di tre o quattro lavori. E, al
riguardo, in una lettera del 1933 a Sandor Albrecht, Bartók precisò: «Vorrei far
seguire a quest'opera almeno altre tre sezioni d'ampiezza analoga, collegate
tutte assieme da una sorta di idealità comune, pur se ciascun episodio dovrebbe
avere una fisionomia autonoma ed essere eseguito da solo». V'è tra le carte del
musicista un semplice schizzo in base al quale, alla Cantata profana, che si
fonda sul soggetto d'un'antica ballata rumena, potevano aggregarsi lavori corali
e orchestrali basati sul folclore slovacco e ungherese nel segno della fraternità
tra le genti del bacino danubiano. Progetto rimasto però inevaso allora, fu
probabilmente dimenticato in seguito.

Il soggetto della Cantata profana deriva da due versioni di canti popolari rumeni
del genere "colinda", cioè di canti del periodo natalizio. Il carattere di tale testo
presenta un doppio motivo d'interesse, folclorico non meno che storico-
culturale. In gran parte il soggetto nulla ha a che vedere con qualsiasi sorta di
leggende dell'occidente cristiano ma a!onda le sue origini nell'antico patrimonio
slavo, al di fuori d'una specifica pratica religiosa. La vicenda colpì
l'immaginazione del musicista per le implicazioni simboliche che coinvolgeva,
dal desiderio di fuga nel cuore della foresta, come ritorno alle origini
dell'umanità, al rifiuto della civiltà metropolitana e delle lusinghe del progresso:
in parte essendovi marcate analogie con la genesi del Principe di legno. In
proposito lo stesso Bartók, in un articolo pubblicato nel 1933 sulla
"Schweizerische Musikzeitung", chiarì: «Invece di accennare alla storia di
Betlemme, in queste leggende del periodo natalizio si parla di battaglie vittoriose
contro un leone considerato invincibile e contro un temibile cervo: e tipica è la
leggenda dei nove fratelli addestrati dal padre soltanto alla caccia nei boschi, e
dell'improvvisa loro trasmutazione in cervi; così come c'è il "miracle-play" del
matrimonio del sole con sua sorella, la luna... In breve, tutto rimanda alla cultura
delle comunità pre-cristiane, al mondo pagano».

Di rincalzo Istvàn Palko, eminente etnologo balcanico, ha osservato in uno studio


del 1954 che l'antica leggenda dei "Nove cervi fatati" poteva collegarsi ad una
storia del folclore magiaro, quella di Hunor e Magor. E precisa: «Al cuore della
leggenda che colpì l'immaginazione di Bartók vi fu il fatto dell'accanimento con il
quale i nove adolescenti inseguirono un grande cervo, giungendo ad un ponte
misterioso, oltrepassando il quale diventarono preda d'un incantesimo che li
trasformava in cervi. Allarmato dal prolungarsi della loro assenza, il padre decise
di andarne alla ricerca e s'inoltrò nella foresta seguendo le loro tracce sul
terreno. Arrivato ad una sorgente, vide nove cervi che si abbeveravano all'acqua
della fonte. Mentre stava per imbracciare l'arma e pregustava una caccia grossa,
il padre si sentì interpellare dall'animale più grosso, nella cui voce riconobbe il
figlio maggiore: "Non prenderci di mira perché avresti la peggio: con le nostre
corna ti solleveremmo per aria e ti sbatteremmo contro la roccia fino ad
ammazzarti. E non pregarci di tornare a casa: ormai non abbiamo più nulla in
comune con te, non c'è porta che lasci passare le nostre corna, preferiamo
pascolare nei verdi prati, abbeverarci alle sorgenti nei boschi. Nell'unità con la
natura, la nostra esistenza diventa sinonimo ed apoteosi della libertà». Aggiunge
Palko: «Evidentemente il regime nazionalistico dell'ammiraglio Horthy
cominciava ad apparire agli occhi di Bartók nulla più che una prigione da cui
voler evadere».

La prima esecuzione della Cantata profana fu alla BBC di Londra il 25 maggio


1934 con Trefor Jones e Frank Phillips come solisti di canto e la direzione di
Aylmer Buesst. La prima esecuzione pubblica si svolse egualmente a Londra con
l'Orchestra Sinfonica della BBC diretta da Adrian Boult. La première in Ungheria
ebbe luogo il 9 novembre 1936 con l'Orchestra Filarmonica di Budapest diretta
da Ernö Dohnányi, con il tenore Endre Rösler e il baritono Imre Pallo solisti di
canto.

Al di fuori del soggetto, nella Cantata profana non vi sono specifici e continuativi
influssi del lessico folclorico rumeno che Bartók aveva cominciato a studiare nel
1915, curando gli arrangiamenti di due album di "colinde". Secondo Ernö
Lendvai, le arcate melismatiche degli interventi del tenore ricordano la "hora
lunga" della tradizione popolare rumena. Vi è poi, nel linguaggio di quest'opera
«un netto influsso modale, di elementi dei modi lidio e misolidio con i
caratteristici intervalli di quarta aumentata e settima minore». Assai più rilevanti
risultano però le influenze della musica antica che Bartók in quegli anni aveva
studiato attentamente, dai mottetti rinascimentali alle cantate e messe bachiane,
almeno per quanto attiene alla tecnica polifonica. Sotto tale punto di vista la
maestria della sagacia compositiva bartokiana attinge nella Cantata profana
l'esito costruttivo più elevato, nell'impiego di due cori misti .in un dovizioso e
serrato edificio contrappuntistico a otto voci mentre l'orchestra, oltre a svolgere
un ruolo prevalentemente di sostegno al canto dei solisti e del coro, raramente
interviene in primo piano ad organico completo. Al di fuori di alcuni passaggi
d'inequivoco risalto coloristico, l'esito globale assume un aspetto nettamente
spoglio ed austero, segnato da una marcatissima scansione ritmica.

La Cantata profana si articola in tre parti che si succedono senza soluzione di


continuità. Di gran lunga il più ampio e complesso, il primo movimento (Molto
moderato) inizia con un episodio imitativo degli archi su un materiale motivico
che, con l'ingresso in scena dei legni, s'arricchisce di insistiti cromatismi. Dal
punto di vista fonico quest'opera non esibisce una spiccata unitarietà, oscillando
tra un diatonismo reciso e una sorta di «rotazione cromatica» (Zielinski)
nell'impiego dei semitoni. Anche nella tavolozza armonica si coglie un'ampia
gamma di e!etti di vario genere. Il primo intervento del coro (Lento) a canone
delinea una specie di ampio cluster diatonico che progressivamente si espande
nel proporre una semplice linea melodica in tessuta di stilemi magiari. La
sezione successiva (Allegro molto), con la descrizione della caccia, accentua nella
partecipazione dell'orchestra l'incidenza del ritmo, e imprime un energico avvio
ad una fuga a quattro voci del coro, su un tema che è ambiguamente diatonico,
per la comparsa di modi eolici, lidici e misolidici. Al vertice espressivo la scrittura
corale assume un incedere martellante e percussivo, segnato da una scansione
ritmica quasi anomala tra accordi diatonici e dissonanti, con l'orchestra che ne
riprende, alterandolo un po', il materiale motivico. La terza sezione (Moderato),
che illustra la trasmutazione dei giovani in cervi, ha un carattere intriso di
accenti fantasmagorici e misteriosi. Brevi interventi dei fiati, il tremolo degli archi
e i tempestosi glissandi delle arpe contribuiscono a render suggestivo sul piano
coloristico questo episodio.

L'atmosfera timbrico-melodica non muta con l'avvio del secondo movimento


(Andante), ove, dopo l'introduzione cromatica degli archi con sordina, il coro
intona un canone che è costruito sull'inciso tematico della precedente fuga.
All'episodio del drammatico incontro del padre con i nove cervi fatati, in tempo
Molto vivo, i due cori ripetono in modo iterativo una breve frase che viene
sottolineata dai bruschi accenti dell'orchestra. Al dialogo tra il padre e il
maggiore dei figli prendono parte i solisti di canto, esibendosi anche in un
duetto. Assai interessante è la parte, ricca di cromatismi, del tenore che enuncia
una frase molto ricca di abbellimenti e melismi.

Il terzo movimento (Moderato) è il tempo di gran lunga più breve dell'opera e


ripresenta quel carattere epico che aveva contraddistinto l'avvio della Cantata
profana, riallacciandosi all'argomento originario della ballata e al diatonismo del
materiale motivico. L'atmosfera generale della musica sembra schiarirsi e
rasserenarsi: alla conclusione dell'episodio principale si ascolta di nuovo la voce;
del tenore, che, in una tonalità screziata da modalismi lidici, intona, tra lunghe
arcate melismatiche, le ultime parole del testo reiteratamente ripetute dal coro:
«bevono solo alla sorgente, a quella chiara fonte». E l'intero lavoro si conclude
con un triplice accordo in re maggiore (perdendosi) in dissolvenza.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Destinata ad aprire un ciclo, non realizzato, di tre o forse quattro cantate ispirate
a tradizioni popolari dell'area etnica danubiana, la Cantata profana, compiuta l'8
settembre 1930, fu eseguita per la prima volta a Londra il 25 maggio 1934 dai
complessi della BBC, diretti da Aylmer Buesst.

La rivisitazione di taluni processi costruttivi elaborati dal pensiero musicale


barocco costituisce uno dei caratteri di maggior rilievo (sebbene non sempre di
piena evidenza all'ascolto) del neoclassicismo bartókiano degli anni Trenta, del
tutto estraneo comunque a voghe o manierismi, che mai peraltro riuscirono ad
intaccare la produzione del compositore ungherese. In realtà, le coinvolgenti
profilature, il tono alto, i tratti e"cacemente chiaroscurali dell'espressività
barocca vengono da Bartók rimodellati al servizio di una pagina che, dalla scelta
del titolo prima ancora che del testo, si rivela carica di implicazioni simboliche:
quasi una visionaria liturgia, destinata a adombrare un itinerario di personali
meditazioni sul destino dell'uomo, preso nel conflitto fra libertà della natura e
costrizione del vivere civile.

«Nella Cantata profana - scriveva Bartók nel 1931 - di rumeno c'è solo il testo; il
materiale tematico è di mia propria invenzione, e non è neppure rimodellato su
musiche popolari rumene, anzi, talune parti non sono nemmeno in tono
popolare». Il testo, che riunisce due versioni di una colinda (canto popolare
connesso alle cerimonie pagane per la celebrazione del solstizio d'inverno),
racconta dei nove figli di un cacciatore, educati dal padre alla sola caccia e
trasformati per un misterioso incantesimo, durante una battuta, in altrettanti
cervi. Ritrovati dal padre, che dopo aver tentato di farne preda, li riconosce e li
supplica di tornare a casa, i nove cervi respingono l'invito, consci ormai della
loro nuova condizione, che li esclude definitivamente dal consorzio umano. Sotto
il profilo tematico, struttura portante della Cantata è la cosiddetta "scala
acustica", determinata dalla successioni naturale dei suoni armonici, secondo il
modulo intervallare: T,T,T,S,T,S,T, ove T vale tono e S semitono.

Il lavoro è diviso in tre parti, di lunghezza diseguale. Nella prima, la più estesa, si
possono individuare tre sezioni: un'evocativa introduzione Molto moderato; un
violento Allegro molto, per la tumultuosa scena di caccia; un arcano Moderato,
per il sortilegio che trasforma i giovani in cervi. Di concezione unitaria è la
seconda parte, sebbene apparentemente frantumata da ben diciotto successive
prescrizioni metronomiche. Ne è oggetto il drammatico dialogo tra il figlio
maggiore (tenore) e il padre (baritono), spezzato da interventi corali di taglio
bachiano. Nel compatto finale, prima Moderato, poi Molto tranquillo, il doppio
coro riepiloga il senso dell'intera vicenda, mentre un estremo intervento del
tenore sembra sancire una nuova condizione di libertà, conseguita mediante la
rinuncia ad ogni compromesso sociale.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

«La musica contadina altro non è che il prodotto di un'opera di elaborazione


compiuta da un istinto che agisce inconsapevolmente negli individui, non
influenzati dalla cultura cittadina» (Bartók). Natura-cultura. Il binomio che molte
scuole nazionali (Russia, Spagna, Cecoslovacchia, Inghilterra, Italia) verso la fine
dell''800 e i primi del '900 avevano livellato nella comune identità antropologica,
torna con Bartók a essere irriducibile. Il problema infatti del recupero del
«melos» autoctono, non si pone per il musicista ungherese nei termini di un
esclusivismo nazionalistico — tant'è vero che con lo stesso entusiasmo compi le
sue ricerche nel campo della musica del proprio paese, come in Turchia,
Slovacchia, Romania, suscitando in quest'ultimo caso un vespaio di polemiche
patriottarde — bensì in quello più scientifico e oggettivo della di!erenziazione
fra popolare e colto, fra semplicità arcaica e stratificazioni folcloristiche. A quale
dei due generi si indirizzassero poi le proprie istintive simpatie, è il compositore
stesso a confessarlo, mettendo a nudo un lato del carattere che, al di là della
eterogeneità del suo linguaggio compositivo, si darà sempre per riconoscibile:
ovvero il rifiuto di ogni compiacimento edonistico, la ruvida e asciutta
schiettezza umana, la coerenza nelle scelte (etiche e poetiche): «alla musica
popolaresca manca insomma la vergine freschezza della primitività, manca
quella che oggi si suole chiamare «oggettività» e che io preferirei semplicemente
dire 'assenza di sentimentalismo'».

Armato di fonografo — strumento senza il quale era impensabile qualsiasi


fedeltà di trascrizione — da solo o in compagnia dell'amico Kodaly era solito
addentrarsi fra le montagne della Transilvania e le pianure dell'Ungheria per
scoprire, incontaminata, la voce della tradizione. Ma se nella scientificità di una
ricerca etnomusicologica il percorso evolutivo della storia può essere
mentalmente arrestato, la logica del reale non consente vagheggiamenti
regressivi, utopiche isole di piacere. Di qui quella continua lotta, condotta fino
agli ultimi anni della sua vita contro le istituzioni, il potere, la brutalità, in un
istintivo e doloroso rifiuto della sopra!azione. Significativa rimane a questo
proposito la lettera indirizzata al consigliere ministeriale di Horthy che aveva
avuto l'ordine di procedere, con una pretestuosa inchiesta giudiziaria, contro
Kodaly: «Poiché anch'io ho partecipato al lavoro di quella istituzione [durante la
Repubblica dei Consigli comunisti Bartók faceva parte con Kodaly e Dohnànyi del
direttorio musicale], devo protestare contro il concetto secondo il quale Kodaly
sia l'unico responsabile, sia per la pura partecipazione, sia per qualsiasi attività
contestata». In questa stessa luce di intransigenza rientra la decisione di
abbandonare l'Ungheria, ormai nell'orbita nazista, e il testamento scritto poco
prima della partenza (4 ottobre 1940): «Fino a che le piazze di Budapest sono
intitolate al nome delle persone alle quali lo sono attualmente [cioè Hitler e
Mussolini] ... nessuna piazza o strada o edificio pubblico porti il mio nome».

Il significato di protesta sociale suonò inequivocabile anche in questa «Cantata


profana» finita di comporre nel 1930 ed eseguita per la prima volta a Budapest il
9 novembre 1936. Lo colse in particolare il critico musicale Aladàr Tóth che vi
lesse l'indignazione civile contro il regime di Horthy, salito al potere dopo la
sconfitta della rivoluzione (alla quale Bartók, fra l'altro, aveva aderito): «Questa
musica titanica è la 'canzone dei lupi' nell'epoca della servilità. ... con il suo
umanesimo cocentemente doloroso annuncia un messaggio: la solitudine della
libertà perenne».

Il testo raccolto dal musicista stesso appartiene a una «colinda» [canto di natale
risalente ad antiche cerimonie pagane] rumena, nella quale si esalta l'amore per
la natura e la libertà, in opposizione ai falsi miti della società (in questo caso
simboleggiata dalla famiglia) e della violenza (la caccia).
La musica di pura invenzione dell'autore presuppone una profonda assimilazione
del patrimonio folclorico: «non basta — dichiara Bartók negli «Scritti sulla musica
popolare» — immettere nella musica colta dei tempi o l'imitazione dei temi
contadini, perché in tal modo si finirebbe col fare un banale travestimento del
materiale popolare, ma bisogna trasferire in essa l'atmosfera della musica creata
dai contadini».

Esattamente l'opposto dunque di quanto avviene per esempio nella musica


neoclassica che decontestualizza le citazioni — anche popolari — con e!etto
parodico o neutrale, opponendosi ad atmosfere unitarie.

Della solidità del discorso formale si fa garante la struttura stessa dell'opera


concepita con tutti gli ingredienti di una cantata classica (coro, recitativo, arie) e
in questo caso specifico, con anelli di congiunzione ripetitivi destinati ad
apparire nei tre movimenti: un'antica scala modale (integralmente esposta
all'inizio in forma di canone e poi condensata in brevi incisi dal coro, dai solisti e
dall'orchestra), e un canto popolare ungherese che agirà con grande libertà
ritmica e metrica.

Ciò che colpisce innanzitutto l'ascoltatore è la ricchezza, violenta e asciutta, dei


timbri e delle concezioni armoniche: vale a questo punto la pena di ricordare che
Bartók procede qui come del resto in molti altri lavori, incurante a!atto del
problema dell'accompagnamento o dell'armonizzazione di un canto dato. Questa
strada gli è preclusa — né sembra d'altronde granché interessarlo — dalla scelta
stessa del materiale melodico (scale pentatoniche, gregoriane) prospettato e
combinato secondo punti di vista tonali diversi ed eterogenei. Risultato: quella
nuova libertà armonica che passa sotto il nome di politonalità e che vede cosi
Bartók incidentalmente e involontariamente accomunato con altri esponenti
dell'avanguardia novecentesca (Stravinsky, Milhaud, Hindemith, Casella ecc.).

All'interno di un sottile gioco di rispondenze strutturali e timbriche, il «tempo» di


quest'opera, inteso come categoria variabile, continuamente cangiante, acquista
un valore simbolicamente allusivo. Le varianti di un mito trasmesso oralmente si
o!rono nella inquieta mutevolezza del ritmo, nell'intreccio polifonico del coro,
cui spetta per lo più un testo leggermente di!erenziato, nel libero declamato dei
due solisti, nelle arie dal carattere quasi-improvvisativo: l'incantesimo dei nove
fratelli trasformati in cervi segue una curva dinamica, espressiva ed emotiva, che
non conosce staticità, vivendo e partecipando Bartók in prima persona, senza
censure, alla storia del suo popolo. Basterebbe del resto istituire un parallelo con
un altro lavoro sinfonico-corale coevo, la «Sinfonia di Salmi» (1930) di
Stravinsky, per coglierne le di!erenze.
Questa cantata, della durata di 17' circa, nelle intenzioni dell'autore avrebbe
dovuto far parte di un trittico, come risulta da una lettera all'amico compositore
Sandor Albrecht del novembre-dicembre 1932 (progetto poi non realizzato),
nella quale si trova annotato: «Molto di"cile per il coro e i solisti, non per
l'orchestra». Tanto di"cile che il primo interprete, il tenore ungherese Endre
Ròsler, convinse il musicista ad apportare alcune modifiche alla sua parte.

L'orchestra concepita naturalisticamente — né deve destare meraviglia — come


cornice ambientale alla vicenda (si confronti il preludio gravido di tensione nel
primo movimento e, di contro, la schiarita, ricca di palpitante religiosità negli
ultimi accordi del finale, comprende 3 flauti, 3 oboi, 3 clarinetti, 3 fagotti, 4
corni, 2 trombe, 3 tromboni, tuba bassa, timpani, batteria (tamburo piccolo,
grancassa, piatti, tamtam), arpa e quintetto d'archi.

Formalmente divisa in tre movimenti (ma le cesure sono quasi inavvertibili),


questa cantata costituisce uno degli esempi più perfetti e ineguagliati di
economia e di equilibrio narrativo.

Nella prima sezione che ha per protagonista il doppio coro (trattato


polifonicamente e alternante recitativi a lunghi incisi melodici) l'iter del racconto
si concentra su alcuni episodi perfettamente caratterizzati — tematicamente e
timbricamente — fra i quali si potrebbe citare, in senso esemplificativo, oltre
all'introduzione strumentale, l'«Allegro molto» tellurico e vitale, costruito sopra
un disegno ostinato degli archi e punteggiato dalle squillanti entrate degli ottoni.
Il secondo movimento trova invece nella dialettica dell'elemento vocale il suo
princìpio unificatore: in particolare il drammatico dialogo fra padre e figlio (ora
melismaticamente fiorito, ora asciutto e scarno) che anziché lasciarsi assorbire
dal coro, riceve da questi un impatto timbrico ancora più violento. Catartico e
risolutivo infine il terzo movimento: una sorta di riepilogo che anche nei riguardi
del testo sintetizza la ballata, disperdendo le tracce più scopertamente materiche
e dissonanti, in un clima di assorta serenità.

Fiamma Nicolodi

108 1933

Magyar népdalok (Canti popolari ungheresi)

https://www.youtube.com/watch?v=jrLvQe1QA_s

Organico: voce, orchestra


Prima esecuzione: Budapest, 23 ottobre 1933
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1933
Trascrizione dai Venti Canti popolari ungheresi BB 98 dei numeri 1, 2, 11, 14, 12
Voce e pianoforte

15 1894

Tre Lieder

per voce e pianoforte


1. Im wunderschönen Monat Mai
per voce e pianoforte

Testo: H. Heine

Im wunderschönen Monat Mai

Organico: voce, pianoforte


Dedica: Matilde von Wenckheim

Testo (nota 1)

Im wunderschönen Monat Mai


Im wunderschönen Monat Mai,
Als alle Knospen sprangen,
Da ist in meinem Herzen
Die Liebe aufgegangen.

Nel meraviglioso mese di maggio

Nel meraviglioso mese di maggio,


quando tutti i boccioli si schiudevano,
allora nel mio cuore
l'amore è entrato.

Im wunderschönen Monat Mai,


Als alle Vögel sangen,
Da hab' ich ihr gestanden
Mein Sehnen und Verlangen.

Nel meraviglioso mese di maggio,


quando tutti gli uccelli cantavano,
allora ho confessato a lei
il mio struggimento e il mio desiderio.
(Traduzione Amelia Maria Imbarrato)
2. Nacht am Rheine
per voce e pianoforte
Testo: Karl Siebel

Nacht am Rheine

Organico: voce, pianoforte


Dedica: Matilde von Wenckheim

3. Die Gletscher leuchten ita Mondenticht


per voce e pianoforte
Testo: autore ignoto

Die Gletscher leuchten ita Mondenticht

Organico: voce, pianoforte


Dedica: Matilde von Wenckheim

20 1900

Liebeslieder

Du meine Liebe, du mein Herz


Testo: Rückert
Diese Rose pflückt ich hier
Testo: Lenau
Du geleitest micb zum Grabe
Ich fühle deinen Odem
Testo: Lenau
Wie herrlich leuchtet
Testo: W. Goethe
Herr! der du alles wohl gemacht

Organico: voce, pianoforte


Edizione: Editio Musica, Budapest, 1963

24 1902

Négy dal (4 Canti)

Testo: Lajos Pósa

Öszi szellő (Brezza autunnale)


Még azt vetik a szememre (Mi rimproverano)
Nincs olyan bú (Non c'è dolore così grande)
Ejnye! Ejnye! (Oh! Oh!)

Organico: voce, pianoforte


Edizione: Ferenc Bárd & Testvére, Budapest, 1904

29 1903

Est (Sera)

Testo: Kálmán Harsányi


Organico: voce, pianoforte
Composizione: marzo 1903
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1963

34 1904

Székely népdal: Piros alma leesett a sárba


(Canto di Székely: La mela rossa è caduta nel fango)

Organico: voce, pianoforte


Edizione: pubblicato nel periodico Magyar Lant, 15 febbraio 1905

37 1904 - 1905

Magyar népdalok (Canti popolari ungheresi)

https://www.youtube.com/watch?v=jOzEQUxo29I

Lekaszálták már a rétet (Il prato è già stato falciato)


Add réám csókodat, el kell mennem (Dammi un bacio, perché devo partire)
Fehér László lovat lopott (L. F. ha rubato un cavallo)
Az egri ménes mina szürke (L'allevamento di Eger ha solo un cavallo bianco)

Organico: voce, pianoforte


Edizione: Editio Musica, Budapest, 1963

41 1905

A kicsi «Tót»-nak (Al piccolo "Tót")

5 canti per un fanciullo

Álmos vagyok édes anyám lelkem (Mamma, sono tanto stanco)


Ejnye, ejnye nézz csak ide (Oh, oh, guarda qua)
Puha meleg lolla vati a kismadármak (So"ce e caldo è l'uccellino)
Testo: Istvan Havas
Bim barn bim barn, zùg a harang (Bim bam, bim barn fa la campana)
Esik es'ó esdekél (Cade la pioggia)

Organico: voce, pianoforte


Composizione: 20 dicembre 1905
Edizione: in B. B. levelei, a cura di J. Demény, Budapest, 1948
Dedica: Béla Oláh Tóth

42 1906

Magyar népdalok (Canti popolari ungheresi)

https://www.youtube.com/watch?v=rz8oN9iZPUc

https://www.youtube.com/watch?v=8vwUTja9SEM

https://www.youtube.com/watch?v=-MBE6k_TOI8

https://www.youtube.com/watch?v=q7eghojkP98

https://www.youtube.com/watch?v=oO67bLSS3dk

https://www.youtube.com/watch?v=n2e_7yGAWSw

Elindultam szép hazámbúl (Son partito dalla mia bella patria)


Által mennék én a Tiszan ladikon (Vorrei attraversare il Tibisco in barca)
Fehér László lovat lopott (L. F. ha rubato un cavallo)
A gyulai kert alatt (Nel giardino di Gyula)
A kertmegi kert alatt (Nel giardino di Kertmeg)
Ablakomba, ablakomba, besütött a koldvilag (La luna illuminava la mia
finestra)
Száraz ágtól messze virít a rózsa (Da uno stelo appassito è spuntata una rosa)
Végig mentem a tárkáányi (Andai in fondo alla strada di Tarkany)
Nem messze van ide kis Margitta (Non lontano da qui è la piccola Margitta)
Szánt a babam csireg, csörög (La ragazza del mio cuore segue l'aratro)

Organico: voce, pianoforte


Edizione: Rozsnyai Károli, Budapest, 1906
Confronta al BB 43 la seconda serie

43 1906 - 1907
Magyar népdalok (Canti popolari ungheresi)

https://www.youtube.com/watch?v=wZ0PR0ph-EA

https://www.youtube.com/watch?v=HorWESrivvo

https://www.youtube.com/watch?v=1ojEo3pJTmc

https://www.youtube.com/watch?v=wevkKXBQXzg

https://www.youtube.com/watch?v=LLDQRnz54lM

https://www.youtube.com/watch?v=tim-y5m0SSs

https://www.youtube.com/watch?v=E_a-fRfBAEc

https://www.youtube.com/watch?v=mrqlOBRuciM

Tiszán innen Dunán tul (Al di qua del Tibisco e al di là del Danubio)
Erdők, völgyek, szűk ligetek (Foreste, valli, strette praterie)
Olvad a hó (La neve si scioglie)
Ha bemegyek a csárdába (Quando vado alla taverna)
Fehér László lovat lopott (L. F. ha rubato un cavallo)
Megittam a piros bort (Ho bevuto vino rosso)
Ez a kislány gyöngyöt fűz (Questa ragazza si orna di perle)
Sej, mikor engem katonának visznek (Ah! se dovrò fare il soldato)
Még azt mondják (Ciò che la gente dice)
Kis kece lányom (La mia cara ragazza)

Organico: voce, pianoforte


Edizione: Editio Musica, Budapest, 1963
I numeri 11 - 20 sono scritti in collaborazione con Kodaly
Confronta al BB 42 la prima serie

44 1906 circa

Due Canti popolari ungheresi

Édesanyàm rózsafája (Il rosaio di mia madre)


Túl vagy rózsám, túl vagy a málnás erdejin (Sei lontano, tesoro, lontano, oltre
la foresta di Málnás)
Organico: voce, pianoforte
Edizione: n. 1 Editio Musica, Budapest, 1963 - n. 2 in Documenta Bartókiana,
Budapest - Magonza, 1970

46 1907 circa

Tre canti popolari slovacchi

V tej bystrickej bráne (Alla porta di Bystricka)


Pod lipko, nad lipko (Sotto il tiglio, sopra il tiglio)
Perduto
Dolu dolinámi (Giù in basso)

Organico: voce, pianoforte


Prima esecuzione: Berlino, 25 ottobre 1907
Edizione: I numeri 1 e 3, Editio Musica, Budapest, 1963

47 1907 - 1917

Nyolc magyar népdal (8 Canti popolari ungheresi)

Fekete föld (Nera è la terra)


Istenem, Istenem, áraszd meg a vizet (Mio Dio, mio Dio, il fiume si gonfia)
Asszonyok, asszonyok (Donne, donne)
Annyi bátial a szivemem (Il mio cuore so!re)
Ha kimegyek arr' a magas tetőre (Se salgo in cima)
Töltik a nagyerdő utjáat (Si lavora alla strada nella foresta)
Eddig való dolgom a tavaszi szántás (Finora ho arato i campi in primavera)
Olvad a hó (La neve si scioglie)

Organico: voce, pianoforte


Composizione: i nn. 1-5 1907; i nn. 6-8 1917 circa
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1922

65 1915

Nove Canti popolari romeni

Organico: voce, pianoforte


Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1975
Abbozzi, completati da B. Sucho!

71 1916
Öt dal (5 Canti)

Az èn szerelmem (Il mio amore)


Testo: Klara Gombossy
Szomjasan vágyva (Sete ardente)
Testo: Klara Gombossy
A vágyak éjjele (Notte di struggimento)
Testo: W. Gleiman
Színes álomban lattalak mar (Mi è parso dì vederti in sogno)
Testo: Gombossy
Itt leni a völgyben (Laggiù nella valle)
Testo: Gombossy

Organico: voce, pianoforte


Edizione: Universal Edition, Vienna, 1961

72 1916

Öt dal (5 Canti)

Testo: Endre Ady

Három őszi könnycsepp (Tre lacrime d'autunno)


Az őszi lárma (Fruscia d'autunno)
Az ágyam bivogat (Il letto mi aspetta)
Egyedül a tengerrel (Da solo con il mare)
Nem mehetek hozzád (Non posso raggiungerti)

Organico: voce, pianoforte


Composizione: febbraio - aprile 1916
Prima esecuzione: Budapest, 21 aprile 1919
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1923
Dedica: Béla Reinitz

73 1916 circa

Canto popolare slovacco (Kruti tono vretana)

Organico: voce, pianoforte


Edizione: Editio Musica, Budapest, 1963

87a 1924
Falun (Dedinské scény) (In campagna - Scene rurali)

Canti popolari slovacchi del distretto di Zólyom

Při hrabani (Presso i falciatori)


Při neveste (Presso la sposa)
Svatba (Nozze)
Ukolébavka (Ninnananna)
Tanec mládenco (Danza di ragazzi)

Organico: voce, pianoforte


Composizione: dicembre 1924
Prima esecuzione: Budapest, 8 dicembre 1926
Edizione: Universal Edition, Vienna 1927
Dedica: Ditta Bartók
Vedi la trascrizione per voci femminili e orchestra dei numeri 3, 4, e 5 al BB 87b

97 1929

Öt magyar népdal (Cinque canti ungheresi)

Elindultam szép hazámbúl (Son partito dalla mia bella patria)


Által mennék én a Tiszan ladikon (Vorrei attraversare il Tibisco in barca)
A gyulai kert alatt (Nel giardino di Gyula)
Végig mentem a tárkáányi (Andai in fondo alla strada di Tarkany)
Nem messze van ide kis Margitta (Non lontano da qui è la piccola Margitta)

Organico: voce, pianoforte


Edizione: Editio Musica, Budapest, 1970
Tratti dai numeri 1, 2, 4, 8 e 9 dei Canti popolari ungheresi BB 42

98 1929

Húsz magyar népdal (20 Canti popolari ungheresi, in 4 fascicoli)

https://www.youtube.com/watch?v=hJVOgaPAuNY&t=63s

Fascicolo I
(Szomorú nóták, «Canti del dolore»):

A tömlöcben (In prigione)


Règi keserves (Lamento antico)
Bújdosó ének (Il fuggiasco)
Pásztornóta (Il canto del pastore)
Fascicolo II
(Táncdalok, «Canzoni a ballo»)

Székely lassu (Danza lenta)


Székely friss (Danza veloce)
Kanásztánc (Danza del porcaro)
Hatforintos nòta (La melodia dei 6 fiorini)

Fascicolo III
(Vegyes dalok, «Melodie diverse»)

Juhászcsúfoló (Il pastore)


Tréfas nóta (Scherzo)
Párositó I (Canto in coppia I)
Párositó II (Canto in coppia II)
Pár-ének (Dialogo)
Panasz (Lamento}
Bordal (Brindisi)

Fascicolo IV
(Új dalok, «Canti nuovi»)

Hej, édesanyám (O madre cara)


Èrik a ropogós cseresznye (Oggi raccolgo le ciliegie)
Már Dobozon régen leesett a hó (A Doboz c'è la neve già da molto tempo)
Sárga kukoricaszár (Giallo granoturco)
Búza, búza, búza (Grano, grano, grano)

Organico: voce, pianoforte


Prima esecuzione: Budapest, 30 gennaio 1930
Edizione: Universal Edition, Vienna 1932
Confronta la versione per voce e orchestra dei numeri 1, 2, 11, 12 e 14 al BB 108

125 1945

A férj keserve (Il dolore del marito)

Canto popolare ucraino


Organico: voce, pianoforte
Composizione: febbraio 1945
Edizione: in B. B. levelei, a cura di J. Demény, Budapest, 1951
Dedica: Pàl Kecskeméti
Musica per il teatro
Balletti

74 1914 - 1917

A fàból faragott királyfi (Il principe di legno)

https://www.youtube.com/watch?v=7ossb9jmIeU

https://www.youtube.com/watch?v=RwEkBdkiw-M

https://www.youtube.com/watch?v=nP8r48MFxyw

https://www.youtube.com/watch?v=b5N3uNKMFRU

Balletto in un atto

Sceneggiatura: Béla Balázs

Organico: 4 flauti (3 e 4 anche ottavino), 4 oboi (3 e 4 anche corno inglese), 4


clarinetti (3 anche clerinetto piccolo, 4 anche clarinetto basso), 4 fagotti (3 e 4
anche controfagotto), 2 sassofoni, 4 corni, 4 trombe, 2 cornette, 3 tromboni,
basso tuba, timpani, grancassa, tamburo, piatti, triangolo, tam-tam, castagnette,
glockenspiel, xilofono, celesta, 2 arpe, archi
Prima rappresentazione: Budapest, Teatro dell'Opera, 12 maggio 1917
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1924
Dedica: Egisto Tango

Guida all'ascolto (nota 1)

La musica drammatica occupa uno spazio esiguo nella produzione di Bela


Bartók. A di!erenza infatti della sua opera pianistica e dei quartetti per archi -
che hanno accompagnato l'intero arco creativo del compositore, registrandone
altresì le più significative svolte stilistiche - i lavori destinati al teatro sono
soltanto tre e risultano serrati in un ristretto ambito cronologico: dal 1911, anno
di composizione del Castello del duca Barbablù - la sua unica opera - al
1918-1919, periodo in cui vede la luce il balletto Il mandarino miracoloso. Tra i
due lavori drammatici si inserisce la pantomima Il principe di legno, un'opera dai
rilevati contorni fiabeschi che, scritta in pieno periodo bellico (1916), sembra per
contrasto far risaltare ancora più grottescamente l'orrore allora dilagante sullo
scenario europeo. Fu forse proprio la sua vena disimpegnata e fantastica ad
assicurare un ampio successo al Principe di legno che, rappresentato il 17
maggio 1917 al Teatro dell'opera di Budapest, segnò una svolta importante dal
punto di vista del nuovo favore mostrato dal pubblico ungherese nei confronti di
Bartók. Eppure il soggetto del balletto, a"dato ancora una volta alla penna di
Bela Balazs (già librettista del Barbablù), è apparso alla critica non pienamente
convincente, soprattutto sotto il profilo della coerenza drammatica.

Un leggendario principe vuole sedurre una bella principessa, ma i suoi tentativi


di avvicinarsi alla fanciulla vengono caparbiamente ostacolati da una fata, grazie
all'intervento di una natura (formata dai fiori, gli alberi e il torrente che dividono
i due castelli posti nello scenario uno dì fronte all'altro, dimora dei protagonisti)
da lei opportunamente animata e resa ostile. Disperato, il principe ricorre allora
ad uno stratagemma: per attirare l'attenzione della fanciulla, veste dei propri
abiti (mantello, corona e parrucca) un pezzo di legno. Ma, attratta dal
"giocattolo", la principessa ignora del tutto il principe che, privato ora degli
attributi del suo potere, diviene un uomo qualunque. La fata, quindi, con un
nuovo sortilegio, anima l'insolito manichino, con il quale la principessa si getta
in un'estatica danza. A questo punto c'è però un improvviso voltafaccia della
fata: impietosita dal giovane, che tuttavia essa stessa ha fino ad ora osteggiato,
la fata restituisce all'uomo i suoi orpelli principeschi (i fiori del bosco si
trasformano nella parrucca, nella corona e nel mantello del giovane). Ora è la
principessa a trovare attraente il principe ma, dato il suo rifiuto, essa dovrà a sua
volta a!rontare l'acqua e la foresta, spogliarsi dei suoi abiti, prima dì
riconquistare il definitivo amore del principe.

La felicità, quindi, viene raggiunta solo dopo essersi liberati delle apparenze? In
realtà, più che il contenuto, interessante è l'articolazione formale del racconto,
cioè la sua potente e studiata simmetria (che ne giustifica alcune incongruenze
drammatiche, come quella del voltafaccia della fata), nonché il sovrapporsi di
di!erenti piani strutturali: la dimensione umana (la semplice storia d'amore tra il
principe e la principessa), la dimensione fantastica e soprannaturale (gli
interventi della fata), la dimensione grottesca (quella di un "principe di legno").
Questi di!erenti elementi drammatici si traducono nel linguaggio musicale di
Bartók in altrettanti ingredienti stilistici. In quegli anni il compositore, dopo aver
ormai completamente assorbito l'influenza della tradizione tedesca (Brahms,
Wagner, Strauss e Liszt), è alla ricerca di una nuova via in grado di portare il
linguaggio musicale al di fuori delle secche in cui l'ha costretto la crisi tonale
tardo-romantica.

Una possibile soluzione al problema sembra provenirgli da un lato dal ricco


patrimonio etnofonico della sua terra (la raccolta sistematica del canto contadino
della penisola balcanica e delle regioni circostanti è da lui iniziata nel 1906 e
prosegue negli anni successivi), dall'altro dal linguaggio di Debussy.
L'emancipazione dal rigorismo delle scale maggiori e minori - i principali
contrassegni della tonalità - avviene per Bartók soprattutto grazie alla riscoperta
dei modi ecclesiastici antichi o addirittura di modi ancora più primitivi
(pentatonici) che il patrimonio melodico popolare gli andava a mano a mano
rivelando. Tale materiale gli suggerisce inoltre formule ritmiche e soluzioni
metriche più libere e varie, rendendo nel contempo possibili nuove combinazioni
armoniche. D'altronde il suo percorso non è tanto dissimile da quello compiuto
in quegli anni da Debussy che, mosso dalle stesse esigenze, non esita nelle sue
opere a ricorrere ad un melodismo pentatonico assai simile a quello rivelato
dalla musica popolare.

Il principe di legno si presenta, infatti, come una sorta di ibrido stilistico,


concorrendo in esso elementi diversificati, attivati evidentemente dalla natura
pluridimensionale del soggetto. In particolare, riprendendo alcune soluzioni
compositive già adottate da Stravinskij nell'Uccello di fuoco (contrapposizione
dell'elemento naturale/soprannaturale realizzata musicalmente mediante il
contrasto diatonismo/cromatismo), Bartók utilizza per caratterizzare il principe e
la principessa un melodismo largamente ispirato al canto contadino (fatto di
temi di struttura quaternaria, basati sulla scala pentatonica, con andamento
melodico discendente), riservando invece per i passaggi destinati all'intervento
soprannaturale un linguaggio decisamente intriso di cromatismo, quando non
modellato direttamente sulle armonie evanescenti e i ra"natissimi impasti
timbrici dell'impressionismo francese, come nella Danza delle onde.

La parte più innovativa del balletto è tuttavia quella riguardante proprio il


"principe di legno" e la sua grottesca danza con la principessa: qui il compositore
non esita ad utilizzare tutte le risorse del suo linguaggio più avanzato, quali
accordi aspramente dissonanti, ritmi "barbarici", audacie timbriche. Inoltre, vista
nel suo insieme, la partitura rivela già quella acuta sensibilità formale che sarà
un tratto tipico del linguaggio più maturo di Bartók: la simmetria degli elementi
drammatici, segnalata in precedenza, consente infatti di predisporre il discorso
musicale in vista di una ripresa rovesciata, nella seconda parte dell'opera, dei
materiali già esposti nella prima parte di essa. Tale ripresa è chiaramente
segnalata dalla riapparizione in forma abbreviata degli episodi orchestrali che
caratterizzavano i tentativi del principe, laddove la principessa li ripercorre a sua
volta. Una procedura che prefigura appieno la tipica "forma ad arco" che
contrassegnerà i lavori strumentali più maturi di Bartók.

Gloria Sta"eri

82 1924

A csodálatos mandarin (Il mandarino miracoloso)

https://www.youtube.com/watch?v=DYwegVm1q5w&t=332s

https://www.youtube.com/watch?v=rjHIBgyYCSA
https://www.youtube.com/watch?v=Zhr_QJGzLjg

https://www.youtube.com/watch?v=5PAFCTiyCkI

Pantomima in un atto
Sceneggiatura: Ményhért Lengyel e propria

Organico: 3 flauti (2 e 3 anche ottavino), 3 oboi (3 anche corno inglese), 3


clarinetti, (2 anche clarinetto piccolo e 3 anche clarinetto basso ), 3 fagotti (2 e 3
anche controfagotto), 4 corni (2 e 4 anche tuba wagneriana), 3 trombe, 3
tromboni, basso tuba, timpani, tamburo, tamburo piccolo, grancassa, piatti,
triangolo, tam-tam, xylofono, celesta, arpa, pianoforte, organo, archi
Composizione: 14 settembre 1918 - agosto 1919
Prima rappresentazione: Colonia, Stadttheater, 27 novembre 1926
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1925

Argomento

Tre malfattori costringono una ragazza ad attirare uomini che possano derubare.
La prima vittima è un vecchio cavaliere che viene subito cacciato via perché non
ha soldi. Il secondo è un timido giovane dal quale la ragazza si sente attratta. Ma
ciò non corrisponde ai propositi dei malfattori che aspettano una vittima ricca;
perciò gettano il giovane in un canale. Passa il mandarino, un uomo ripugnante
dall'aspetto terrificante che ha solo vissuto per accumulare ricchezze. Per
stimolare i suoi istinti la ragazza balla con un erotismo forzato per cadere infine
esanime al suolo. Mentre il mandarino si butta su di lei, i malfattori gli rubano
una valigia piena d'oro. Quindi vogliono liberare la ragazza ma il Mandarino
oppone una resistenza così violenta che i malfattori decidono di so!ocarlo sotto
una coperta. Ma il Mandarino che non ha mai veramente vissuto ora è
condannato a non poter morire. Anche un colpo di pugnale non pone fine alla
sua vita. Allora i malfattori lo impiccano, ma l'amore è più forte della morte. Il
Mandarino continua a muoversi e la ragazza, mossa dalla pietà, lo libera. I
malfattori terrorizzati dalla forza sovrannaturale del mandarino, sono fuggiti.
Finalmente il Mandarino può abbracciare la ragazza. Nel momento in cui ritrova
la vera vita, trova anche la liberazione nella morte.
Guida all'ascolto (nota 1)

Béla Bartók ha composto la musica per «Il Mandarino meraviglioso» nel


1918-1919 ispirandosi ad un racconto di Melchior Lengyel che redasse quindi il
libretto originariamente inteso come soggetto di una pantomima. La musica è
nata sotto il segno dell'espressionismo. Bartók intravide persino in questo tetro
argomento i segreti della natura ai quali egli aveva sempre rivolto i suoi
interessi.
Il 28 novembre 1926 la pantomima venne rappresentata in forma integrale
all'Opera di Colonia. Fu uno scandalo. La pantomima venne definita
«scandalosamente oscena, insopportabilmente macabra», la musica «un'orgia di
rumori che dà ai nervi». Immediatamente dopo la prima l'allora sindaco di
Colonia Konrad Adenauer proibì ogni altra rappresentazione su richiesta del
Partito Centrista. Nei successivi sedici anni nessun teatro del mondo ebbe il
coraggio di mettere in scena «Il Mandarino meraviglioso». In alcuni luoghi l'opera
venne proibita dalle autorità come avvenne, ad esempio, perfino a Budapest dove
non poteva essere rappresentata a causa del libretto. La musica invece a poco a
poco si impose, fu compresa e ammirata. Bartók aveva tratto dalla partitura
completa del «Mandarino» una suite che finì per conquistare le sale da concerto.

In quel periodo Aurelio M. Millóss, allora soltanto ballerino, era sempre in cerca
di ruoli interessanti. Ascoltando la musica di Bartók ne rimase subito a!ascinato,
come pure dalla vicenda drammatica. «Il Mandarino meraviglioso» finì per avere
un ruolo essenziale nella vita di Milloss. Leggiamo nelle parole dello stesso
coreografo la storia autentica di come si trasformò la pantomima «Il Mandarino
meraviglioso» in un dramma coreografico.

«Devo confessare che ciò che più mi colpì nel "Mandarino", era la musica,
l'argomento, proprio a causa della concezione musicale di Bartók, mi si presentò
invece completamente diverso da come era descritto nel libretto. Ciò anche
malgrado la precisa aderenza della musica ai singoli momenti dell'azione
scenica. Ho subito avvertito la profondità e la verità dell'espressione musicale.
Nella trama Bartók doveva aver intuito più di quello che un primo sguardo sullo
svolgimento esteriore poteva suggerire. Ovviamente Bartók vi ha visto fenomeni
che a!ondano le loro radici nei più remoti segreti del destino umano.
Certamente sono stati questi motivi vigorosi che l'hanno ispirato e che lui
intendeva esprimere nella musica, e così ha finito col mettere in primo piano le
forze motrici nascoste nei segreti dell'azione. Tutto ciò mi a!ascinava e mi
incitava a dare una adeguata forma scenica all'opera. Mi sembrava indispensabile
rivalutare l'impianto librettistico secondo il prisma dei summenzionati criteri
musicali.

Questo mio lavoro di analisi mi portò infallibilmente a concepire i personaggi


diversamente da come appaiono nel libretto della pantomima. In primo luogo mi
sembrava assurdo che un potente personaggio cinese si facesse uccidere per
una prostituta tre volte senza poter trovare la morte. Era perciò inconcepibile
interpretare il Mandarino come un uomo sano senza problemi, tutto d'un pezzo.
Doveva avere i suoi segreti e vi dovevano essere ragioni ben precise per cui tutto
ciò che succedeva nel libretto potesse accadergli. Inoltre mi accorsi che Bartók
suggeriva nella musica, ancor prima che il sipario si alzasse, i rumori della
grande città, impressione questa che venne mantenuta anche in seguito. Perciò
non poteva trattarsi del destino di un singolo individuo isolato in una stanza, ma
certamente di un dramma generale e riferibile ad un aspetto tipico della grande
città.

«Per poter giustificare questo significato più vasto della figura del Mandarino e
rendere palese il senso di un dramma tipico della grande città, anche la figura
della ragazza e il suo destino dovevano trovare una corrispondente prospettiva».

Erano questi i pensieri di Milloss verso la fine degli anni venti. Allora ballerino
non trovava ancora possibilità di lavorare, come era suo desiderio, anche come
coreografo. La realizzazione delle sue idee sul «Mandarino meraviglioso» doveva
dunque aspettare. Milloss iniziò la sua carriera di coreografo nel 1932, ma nei
primi anni non trovò alcun teatro che fosse disposto a rappresentare «Il
Mandarino meraviglioso». Oggi possiamo dire per fortuna, perché così, prima
ancora che nascesse il nuovo Mandarino, avvenne l'incontro decisivo con Béla
Bartók. Dei molti colloqui avuti col musicista, Milloss ci racconta: «Negli anni
1936-1938 Budapest era il centro della mia attività. Un contattò con Bartók fu
presto stabilito, e mi sentii subito ìntimamente attratto dal suo mondo spirituale.
Le nostre conversazioni su "Il Mandarino meraviglioso" furono tanto più
spontanee quanto la mia concezione trovava una conferma da parte di Bartók.
Ora si trattava soltanto di portare avanti il lavoro.

Bartók disse, misconoscendo con troppa autocritica la situazione: — "Non è vero


che il Mandarino è stato proibito sempre solo a causa del libretto
apparentemente osceno — non piace la mia musica!" — lo gli feci l'elenco dei
suoi successi per sottolineare che il noto divieto veramente si riferiva solo al
libretto. Allora Bartók — "Non è possibile. Gli uomini non possono sopportare la
verità? Sono cose che succedono nella natura! — Convinsi Bartók che l'errore
stava nel sottotitolo dell'opera e che il giudizio erroneo era nato dalla prima
assoluta in forma di pantomima. Sostenevo dunque che il Mandarino non era una
pantomima, ma un dramma coreografico. Bartók andò al pianoforte per suonare
alcuni passi dell'opera domandandomi: — "E come si fa a ballare su questa
musica?" — Subito glielo mostrai improvvisando. Bartók suonò altri brani ed io
ballavo. Infine Bartók concluse: — "È vero, la danza rende visibili le forze motrici
che stanno nel profondo".

Feci alcune altre proposte a Bartók. All'entrata del Mandarino la musica


suggerisce la paura della ragazza. Perciò il Mandarino deve avere un aspetto
terrificante, repulsivo, misterioso. Egli ha soppresso i suoi istinti, i suoi sensi
perché pensava solo al potere e alla ricchezza, e così ha subito una metamorfosi
kafkiana, una deformazione al non umano. La ragazza deve superare il proprio
disgusto, la sua paura, per poter quindi fare ogni sforzo per svegliare i sensi del
Mandarino. Appena svegliati i sensi è la vittoria dell'umano, della natura. Anche
volendo ucciderlo, il Mandarino non morirebbe poiché la verità della natura, la
vita, sono diventate in lui più forti della morte. Potrà trovare la liberazione della
morte solo quando avrà soddisfatto i suoi sensi nelle braccia della ragazza.

Così la figura della ragazza adeguatamente acquistava un profilo. La vedevo


come una povera creatura di cui i malfattori abusavano costringendola ad
attirare le vittime, a fare la parte della prostituta, ma in verità non lo era. Dopo le
vicissitudini con il vecchio cavaliere e con il giovane la ragazza è doppiamente
spaventata alla vista del terrificante Mandarino. Saranno la bontà e il senso
umano che infine la indurranno a togliere l'impiccato che non può morire.
Superando ogni disgusto si abbandona a lui.

Questa interpretazione eleva il lavoro al di sopra del livello di una pura storia
d'orrore. Ecco perché ho spostato l'azione da una stanza chiusa in un angolo
triste e abbandonato di una grande città, dove il Mandarino passa solo per caso.
Il caso fa da destino, restituendo alla natura i suoi diritti.

In tal modo l'opera acquistava inoltre una dimensione morale. Questa


circostanza convinse Bartók, che aveva del resto già dato il suo consenso alle
mie idee, completamente».

Ma al coreografo Milloss mancava sempre il teatro. C'era la speranza di una


esecuzione in un teatro privato di Budapest, ma prima Milloss dovette comporre
la coreografia per il «Mandarino» con alcuni ballerini liberi nel suo studio privato.
Il primo compito era di sviluppare la danza dagli impulsi psicologici che
determinano gli eventi. Inoltre nell'interpretare la musica, gesti tipici
dell'espressionismo dovevano essere resi visibili, sì, ma anche nello stesso
tempo superati. La rappresentazione programmata per il teatro privato però non
poteva aver luogo per motivi finanziari e politici. Milloss non perdette mai la
fiducia di poter rappresentare l'opera in qualche luogo. Nei corso degli eventi
della seconda guerra mondiale Milloss si ritrovò in Italia e Bartók negli Stati Uniti.
Milloss lavorava come coreografo a Napoli, Roma e Firenze. Quindi venne
invitato per una stagione di opere contemporanee alla Scala, ed ivi avvenne il 12
ottobre 1942 la prima assoluta del coreodramma «Il Mandarino meraviglioso»
con grande successo di pubblico e di critica.

Bartók non ne sapeva nulla. Nel 1945, dopo la morte di Bartók, Milloss presentò
l'opera anche a Roma, e fu solo dopo l'edizione romana che anche altri
coreografi crearono versioni proprie. Milloss ha presentato il «Mandarino» inoltre
a Rio de Janeiro (1954), San Paolo (1955), Firenze (1957 e 1964 al Maggio
Musicale espressionista) e nel 1962 su invito di Oscar Fritz Schuh a Colonia dove
l'opera venne data in una sola stagione 24 volte in teatri sempre esauriti.
L'ultima realizzazione della sua versione di questo balletto drammatico è stata
presentata da Milloss nell'autunno del 1972 all'Opera di Stato di Vienna.
Lothar Knessl

Opere liriche

62 1911

A kékszakàllù Herceg vara (Il castello del principe Barbablù)

https://www.youtube.com/watch?v=XRbtOM892qc

https://www.youtube.com/watch?v=p9Aq2WWds8k

https://www.youtube.com/watch?v=qyHVaUBA2e0

https://www.youtube.com/watch?v=N5r1soNdUpo

https://www.youtube.com/watch?v=GoImjQOEp-Q

Opera in un atto
Libretto: Béla Balázs

Organico: 4 flauti, (3 e 4 anche ottavino), 2 oboi, corno inglese, 3 clarinetti (3


anche clarinetto basso), 4 fagotti (4 anche controfagotto), 4 corni, 4 trombe, 4
tromboni, basso tuba, timpani, tamburo, grancassa, piatti, piatto sospeso,
triangolo, tam-tam, xilofono, celesta, organo, 2 arpe, archi
Sulla scena: 4 trombe, 4 tromboni
Composizione: settembre 1911 (rev. 1912 e 1918)
Prima rappresentazione: Budapest, Teatro dell'Opera, 24 maggio 1918
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1922 (spartito), 1925 (partitura)
Dedica: Marta Bartók

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Nel 1910 Béla Balázs, scrittore di talento ma soprattutto uomo di cinema a tutto
campo, sottopose all'attenzione di Béla Bartók e Zoltán Kodály un suo breve
dramma ispirato al fiabesco personaggio di Barbablù. L'amicizia leale e la piena
identità di vedute che legava i tre artisti rendeva superfluo stabilire una priorità
dell'uno o dell'altro compositore su questo soggetto. A far decidere Bartók fu
l'occasione di un concorso per un'opera in un atto, bandito nel 1911 dal
Ministero per le belle arti di Budapest. Allora il clima culturale e politico in
Ungheria non era dei più favorevoli a lavori tanto innovativi, e la commissione se
la cavò giudicando «ineseguibile» la partitura del Castello del duca Barbablù,
criticandone inoltre la «fragile articolazione drammatica e il linguaggio
musicale». Apparentemente lo scacco non sembrò lasciare gran traccia
nell'animo del compositore, che proseguì la sua attività di concertista e di
ricercatore nel campo della musica etnica. Dal canto suo Balázs pubblicò nel
1912 il suo dramma insieme ad altri due atti (La fata, Il sangue della santa
Vergine), intitolando il trittico Misztériumok. I destini dei due artisti tornarono a
incrociarsi poco prima della fine della grande guerra in un clima politico più
favorevole, grazie alla mediazione del romano Egisto Tango. Insediatosi sin dal
1913 alla testa del Teatro dell'Opera di Budapest, Tango fu musicista di
tendenza cosmopolita, maturata agli inizi del secolo durante il lungo soggiorno
berlinese quale concertatore alla Volksoper, e in seguito al Metropolitan di New
York, dove per due anni fu a contatto diretto con Mahler e Toscanini. Era un
uomo estremamente aperto alle novità, e si adoperò per mettere in scena A fából
faragott királyfi (Il principe di legno) nel 1917: il balletto di Bartók su scenario di
Balázs ottenne un vivo successo, e ciò consentì al direttore italiano di riproporlo
il 24 maggio 1918 insieme a Barbablù, interpretato da Oszkár Kalmán e Olga
Haselbeck con la regia di Dezsó Zádor. Per il compositore e per tutti gli artisti e
intellettuali che partecipavano dei suoi stessi ideali fu una serata memorabile.
Purtroppo una sanguinosa guerra civile scoppiò dopo che Béla Kun aveva
formato, nel 1919, un governo ispirato a principi social-comunisti, di cui
facevano parte il filosofo Lukács e lo stesso Balázs, mentre Bartók, Kodály e
Dohnány divennero membri di un prestigioso comitato preposto alle attività
musicali. Gli eventi precipitarono nel volgere di pochi mesi, con la conquista del
potere da parte dell'ammiraglio Miklós Horthy, che impose un controllo spietato
su ogni aspetto della vita civile, con particolare attenzione per l'attività artistica:
Tango fu allontanato, Balázs dovette fuggire in Austria, mentre per i compositori
che avevano partecipato all'esperienza rivoluzionaria cominciarono tempi assai
duri.

Nonostante la fama internazionale di Bartók si stesse consolidando, l'ostilità


degli ambienti u"ciali e quella della censura impedì altre riprese di Barbablù in
Ungheria. L'opera fu data in Germania in lingua tedesca due volte (Francoforte
1922, Berlino 1929), e per risentirla nel suo idioma originale si dovette attendere
il 1935. Sergio Failoni la diresse poi al Maggio musicale fiorentino nel '38,
utilizzando interpreti ungheresi e il nuovo allestimento di Budapest, ma fu solo
dopo la fine del secondo conflitto mondiale che Barbablù poté occupare il posto
che gli spetta nel rango dei capolavori del teatro musicale del nostro secolo.

Sinossi

Luogo dell'azione: nel castello del duca barbablù durante il Medio Evo.

Un prologo declamato da un bardo introduce la materia dell'azione in chiave


simbolica; poi il sipario si leva su una grande sala nel castello del duca Barbablù.
Questi entra in scena insieme a Judit e inizia a dialogare con lei nell'oscurità
quasi totale, ricordandole l'ostilità di madre, padre e fratello per aver deciso di
abbandonare la casa natale. Judit non ha avuto esitazioni nel lasciare tutto quello
che le era caro per seguirlo, ma le gelide tenebre del castello, privo di finestre, e
l'acqua che traspira dalle mura, quasi lacrimassero, la sgomentano. Altrettanto
misteriose e sinistre le paiono le sette porte chiuse che danno sulla sala
principale: vorrebbe aprirle per vedere le stanze da esse celate alla sua vista, e
portare luce e calore ovunque. Barbablù tenta di dissuaderla, ma Judit insiste
sinché ottiene la chiave della prima porta, la camera della tortura, dove il sangue
cola dalle pareti. Il marito le chiede di non andare oltre, ma la donna riesce a
farsi dare la chiave della stanza successiva, una sala d'armi. Anche sui lugubri
ferri Judit intravede delle chiazze di sangue, e a nulla vale la viva resistenza di
Barbablù, che è costretto a porgerle la terza chiave. Si spalanca la sala del tesoro,
ricca di sfavillanti gioie, ma anche sugli splendidi monili vi sono tracce di
sangue, che macchia anche i fiori e le magnifiche piante del giardino del duca,
celati dietro la quarta porta. Dietro la successiva si rivela il vasto reame del
protagonista, una prospettiva abbacinante, ma ancora una volta Judit vede nubi
rossastre che sovrastano il magnifico paesaggio. Un lungo gemito si ode quando
la sesta porta viene aperta, e invano Barbablù tenta con sempre maggiore
determinazione di impedire che la moglie entri: appare un lago bianco dalla
superficie appena increspata dalla brezza. Esso è alimentato dalle sue lacrime,
spiega il duca. Resta da svelare l'ultimo mistero. Barbablù è sempre più fermo
nel rifiuto, e cede molto a malincuore solo quando Judit dichiara di sapere quel
che vedrà: armi, tesoro, giardino, luci filtrate dal sangue preludono al
ritrovamento dei corpi senza vita delle precedenti mogli, come vogliono le
dicerie carpite nel villaggio. Di fronte a quest'accusa Barbablù consegna la
settima chiave, ed è grande lo stupore della donna quando, in luogo di cadaveri,
vede sfilare avanti a sé tre donne riccamente addobbate. Sono le mogli del
mattino, del mezzogiorno e della sera, spiega l'uomo, e Judit, che egli ha
incontrato di notte, sarà la donna della notte. Inutilmente ella chiede pietà, il suo
destino è segnato. Barbablù la ricopre di gioielli meravigliosi e la avvolge in un
manto stellato; quindi Judit segue le tre compagne sinché la porta non si chiude
alle sue spalle. Il duca s'allontana, mentre le tenebre tornano a invadere il suo
castello.

Commento

Fu il mondo artistico francese a stimolare la nascita del Castello del duca


Barbablù, e in particolare il clima culturale legato allo scrittore belga Maurice
Maeterlinck, cui dobbiamo il dramma Pelléas et Mélisande utilizzato come
libretto da Debussy (1902). In esso l'ambientazione medioevale, allora di moda
sui palcoscenici europei, diviene il pretesto per una narrazione simbolica, dove il
remoto nel tempo è il luogo che accoglie istanze tanto universali quanto sfumate
nei contorni, in cui i personaggi camminano in punta di piedi, sussurrando l'uno
all'altro domande che mai avranno risposta mentre percorrono un sentiero
tracciato dal destino. Nell'elaborare il proprio dramma, Balázs tenne conto della
pièce di Maeterlinck Ariane et Barbe-Bleue, messa in musica da Paul Dukas nel
1907. Tale mediazione non fu importante solo per la forza con cui il clima
simbolista s'impone nel lavoro di Maeterlinck, ma anche per il modo in cui questi
aveva rivisitato la celebre fiaba che Perrault pubblicò nella raccolta Histoires ou
contes du temps passé (1697). Lo scrittore belga conferì un ruolo attivo alla
protagonista, e palesò il suo intento ribattezzandola Arianna, in omaggio
all'eroina leggendaria che aveva liberato il mondo dal minotauro. Ella non
incarna, come avviene in altre trattazioni del mito, la colpevole curiosità
femminile, ma la disobbedienza: giunge infatti nel castello con lo scopo di
liberare le cinque mogli che l'hanno preceduta, poiché esse sono vive e custodite
in una delle sette sale. Balázs mantenne chiavi, porte e sale in numero di sette,
come in Maeterlinck, e reintrodusse nei versi della protagonista, che chiamò
Judit, l'immagine del sangue, anche se non la legò a una chiave fatata come
accade in Perrault. Fece inoltre tesoro della novità più importante di Ariane :
anche le precedenti spose di Barbablù vivono, ma invece di cinque sono tre.
L'impianto simbolico del dramma acquisì in tal modo maggiore spessore, poiché
ogni moglie rappresenta infatti un quarto della giornata, partizione che
corrisponde implicitamente anche alla divisione dell'anno in quattro stagioni.
L'intero ciclo temporale viene poi completato dal numero delle porte, sette come
i giorni della settimana. Due altre modifiche furono altrettanto radicali, a
cominciare dall'idea di tenere in scena Barbablù dall'inizio alla fine facendone il
vero protagonista, mentre nell'opera di Dukas il personaggio canta soltanto
pochi minuti. Il secondo cambiamento è di capitale importanza per la struttura
stessa dell'opera, poiché Balázs sviluppò tutta l'azione sull'apertura delle porte
secondo uno schema rituale del tutto assente nell'Ariane, dove la cerimonia
occupa soltanto una breve porzione del primo atto. Il fatto che la vicenda si
svolga in tempo reale, oltre a osservare le coordinate formali dell'atto unico,
aggiunge un nuovo tassello all'intrico simbolico: una volta entrati in scena i due
personaggi vivranno in un eterno presente, che neppure la conclusione risolverà
del tutto.

Prima di Barbablù Bartók non si era mai cimentato col teatro, né aveva mai
scritto composizioni strumentali di vasto respiro; ma nonostante la mancanza
d'esperienza nel trattamento delle grandi forme risolse brillantemente ogni
problema, anche perché l'impianto del dramma di Balázs si rivelò perfettamente
congeniale alla sua natura. L'apertura delle sette porte gli fornì la scansione
ideale per altrettanti episodi, in ciascuno dei quali caratterizzò con estrema
varietà l'interno della sala che si o!re alla vista dei personaggi. La struttura viene
completata da una lunga introduzione, ripresa come epilogo dopo che l'ultima
porta si sarà richiusa alle spalle di Judit. Tale forma si attaglia perfettamente a
una peripezia dove giocano un ruolo chiarificatore diversi parametri scenico-
musicali fra loro coordinati. Ogni porta chiusa cela un brandello di verità
illusoria, che viene simboleggiato da raggi di luce di di!erenti colori. La luce
invade progressivamente il castello immerso nella tenebra, fino a toccare l'apice
all'apertura della quinta porta; poi cala nelle due successive sino a che l'oscurità
non torna a impadronirsi della scena. Questo arco trova piena rispondenza
nell'uso di una specifica tonalità, intrecciata con elementi modali, per ciascun
episodio, basato sulla polarità fra due estremi simmetrici: la cupa sezione
iniziale in fa diesis, e quella sfolgorante in do maggiore, situata alla metà esatta
della gamma esatonale. Mentre cala la luce, si torna progressivamente al tono di
partenza: 0) introduzione, fa diesis pentafono, tenebre; 1) sala della tortura, fa
diesis, raggio rosso; 2) sala delle armi, fa diesis - do diesis min., sol diesis min.
- raggio giallastro; 3) sala del tesoro, re magg., raggio dorato; 4) sala del
giardino, mi bemolle magg., raggio verde bluastro; 5) sala del regno, do magg.,
raggio bianco luminosissimo; 6) sala del lago di lacrime, la min., la luce cala
d'intensità; 7) sala delle mogli, do min., chiudono le porte 5 e 6, raggio
argenteo; 0) epilogo, fa diesis pentatonico, tenebre.

Il piano di contrasti che regge l'opera viene ulteriormente evidenziato dal livello
dei volumi orchestrali, che va e torna al pianissimo dopo aver sfogato nella
quinta porta una potenza sonora formidabile - accordi paralleli dalla piena
orchestra, ra!orzata dagli ottoni in scena e dall'organo. Questa struttura ha
un'immediata presa teatrale poiché comunica con chiarezza allo spettatore
l'evoluzione della vicenda.

Collocare il Castello al centro di una corrente artistica non è impresa da poco,


poiché nelle vene della partitura circola un sangue di"cilmente riducibile a
formule. Lo si può intendere come una sintesi tra forma chiusa e aperta, fra
opera all'italiana e dramma musicale, come ha fatto Leibowitz, ma a nessuno dei
due generi - ammesso che una simile distinzione avesse ancora senso nel
momento in cui l'atto fu prodotto - si attaglia il complesso rapporto fra i singoli
episodi, dettato da un'interazione fra due componenti, colore luminoso e
orchestrale, ognuna delle quali interviene sul flusso temporale del dialogo, ora
accorciandolo ora dilatandolo. Manca inoltre lo sviluppo delle idee tematiche,
sovente ottenute per semplice derivazione, e la caratterizzazione dei personaggi
non avviene mediante lo stile di canto, dove prevale l'uniforme tetrametro
trocaico, né per temi conduttori, ma per motti plasmati sugli accenti tonici della
lingua ungherese.

Se si guarda invece a Pelléas di Debussy, lo scarto è dato dall'enorme carica


teatrale che il lavoro di Bartók possiede, e manca per statuto invece in quello del
francese, nonostante ambedue i lavori siano basati su una narrazione di tipo
simbolico. Forse i maggiori punti di contatto del Barbablù sono quelli col mondo
del primo espressionismo, che a!onda le sue radici nel teatro fin de siècle, dove
si rivolge un nuovo e profondo interesse all'animo umano, come fonte di
passioni e perversioni. Tale premessa portò gli artisti a scegliere soggetti in cui il
testo fosse veicolo dell'interiorità, dove l'esteriorizzazione del sentimento e il
riconoscimento della solitudine come male del vivere contemporaneo si
mescolano alla tensione erotica e a paure ancestrali. Valori in parte analoghi a
questi emergono nell'opera di Bartók, che però si di!erenzia mostrando di
credere al potere mimetico della musica in rapporto al testo, come rivela una
caratterizzazione musicale precisa sin nel dettaglio. Il bicordo di seconda minore
che appare quando Judit esclama «Il tuo castello piange!», a esprimere una
dolorosa tensione, diviene l'emblema musicale della sua ossessione per il sangue
e si ripresenterà nella parte conclusiva di ogni episodio, eccezion fatta per il
quinto e il settimo. Il tetracordo che corrisponde al nome del protagonista,
motto sulla parola ‘Kékszakállú', verrà poi frequentemente intonato da Judit,
rappresentandone lo stato d'animo cangiante mediante la divaricazione di ritmi e
di intervalli. Tali elementi s'inseriscono in un tessuto che giunge al culmine del
pathos nella scena del lago di lacrime, dove la musica stabilisce una tensione
sottilissima, come se un sospiro increspasse la piattezza della superficie. Su
questa linea è l'intera parte conclusiva, da quando un raggio argenteo si proietta
dalla settima porta nell'ovale, mentre sale il canto appassionato del clarinetto.
Per Judit è la visione più orribile di tutte, per Barbablù inizia una vera e propria
estasi: sin qui la sua linea vocale si era prevalentemente mossa per gradi
congiunti nel registro centrale, riflettendo quel sentimento di desolazione che lo
dominava, ora prende toni accesi e appassionati quando le tre mogli entrano in
scena. Egli presenta ciascuna con dolcezza e orgoglio, e la tonalità sale di un
tono a ogni sezione, mimando il crescere della sua passione: ad esse si aggiunge
la sposa più bella e più amata, cioè l'ultima, Judit, la donna della notte.
Dopodiché le tenebre invadono il castello, consegnando Barbablù all'eterna
solitudine.

Benché nell'opera agiscano due personaggi che rappresentano il conflitto fra


mondo maschile e femminile, metafora di tutte le possibili opposizioni, ambedue
caratterizzati con tratti universalmente riconducibili alle psicologie in conflitto,
nel punto nodale dell'intreccio va collocato il luogo stesso dell'azione. Il castello
vive di una propria vita, entro cui s'inscrive la vicenda rappresentata, che ne
ritaglia una limitata porzione di tempo all'interno del suo fluire perenne. Se
questo luogo, nella costellazione simbolica, rappresenta 'una coscienza', come
preannuncia il bardo all'inizio, allora il conflitto rimane in realtà all'interno
dell'io, che corre incontro al tempo reale senza riuscire a coglierlo veramente. Un
tempo che si nutre di età simboliche e si manifesta in sette aspetti diversi,
stimolato da una componente femminile che incarna il completamento di un
ciclo: quattro mogli, quattro stagioni, quattro periodi della vita; fino a ritrovare
l'unico equilibrio possibile nella solitudine iniziale.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Bartók compose Il Castello del principe Barbablù nel 1911: ma dovette aspettare
sette anni per vederlo sulle scene. Comunque la prima rappresentazione, diretta
all'Opera di Budapest il 24 maggio 1918 dal romano Egisto Tango (uno dei due
direttori prediletti da Bartók, l'altro era Sergio Failoni, italiano anche lui),segnò
una svolta importante per la notorietà del compositore nel suo paese; che solo
dopo questo successo cominciò ad ammettere nei concerti la sua musica con
una certa frequenza.

Il libretto si deve a una figura di primo piano nella cultura ungherese del tempo.
Bela Balàzs; il quale, drammaturgo, regista e sceneggiatore cinematografico, è
considerato tuttora fra i fondatori dell'estetica del film, accanto a Pudovkin e ad
Arnheim. Nato nel 1884, Balàzs doveva passare lentamente dalle iniziali
posizioni idealistiche al marxismo, a cui già lo inclinavano le tendenze politiche:
partecipò infatti alla rivoluzione comunista del 1919 (alla quale anche Bartók
dette la sua adesione) e perciò, quando intervenne la repressione, dovette
rifugiarsi in Austria, donde passò nel '32 a Mosca per tornare a Budapest solo nel
'45, poco prima della morte (1949). Ma il libretto del Barbablù, come quello del
balletto Il principe di legno, scritto pure per Bartók nel 1914, riflette soltanto la
sua fase giovanile, legata a un mondo poetico simbolista non privo di venature
espressioniste e pessimiste.
Dalla famosa favola divulgata da Perrault il Barbablù di Balàzs trae non più che
alcuni lineamenti esterni a pretesto di significati del tutto nuovi. Barbablù nel suo
libretto è semplicemente l'uomo che cerca l'appagamento per sé, senza dar nulla
in cambio, ed è condannato a non trovarlo: le sue donne sono solo momenti
provvisori della sua vita, destinati a sparire nel buio lasciandolo alla sua
solitudine. D'altro canto l'ultima ch'egli ha di fronte, dalla stessa sete di
dedizione e di sacrificio che possiede è spinta a voler tutto conoscere di lui; ma
conoscere il segreto di Barbablù vuoi dire scoprire appunto il suo destino di
solitudine e perciò la sua incapacità di accogliere ciò che la donna gli o!re.

Due soli sono i personaggi cantanti. L'inizio coglie la donna, Judith, nel momento
in cui segue per la prima volta Barbablù nel suo tetro castello. Judith ha
abbandonato tutto, e senza rimpianti lascia richiudere la porta del castello dietro
di sé. Ma vuol conoscere il passato di Barbablù: e una dopo l'altra ottiene le
chiavi delle sette porte segrete. La prima porta s'apre sulla camera di tortura, la
seconda sull'armeria, la terza sui tesori, la quarta sui giardini, la quinta sui
domimi di Barbablù; ma sebbene i raggi di luce che partono da ogni stanza, e
vanno uno dopo l'altro ad allinearsi sul pavimento, siano di colori diversi,
dappertutto la luce e le cose sono macchiate di sangue. La sesta porta s'apre
sopra un lago opalescente, che raccoglie le lacrime di Barbablù. Davanti alla
settima Barbablù oppone una resistenza maggiore. Ma Judith preme. Crede
d'aver capito: là dietro, pensa, saranno i cadaveri delle mogli assassinate,
sporche di sangue come i fiori, le armi, i gioielli delle altre stanze. E vuole aprire
per toccare il fondo del segreto, e dissolvere l'incubo. Barbablù cede: e
dall'ultima porta appaiono le sue prime tre donne. Ma vive, ingioiellate, regali.
Escono lentamente a una a una, e raggiungono Barbablù. Judith è come
annientata dalla loro bellezza. Ma Barbablù le rinvia una dopo l'altra: la donna
del suo mattino, la donna del suo meriggio, la donna della sua sera. Non sono
ormai che un ricordo del passato, un ricordo che dilegua. Judith le seguirà.
Barbablù la incorona, la riveste dei gioielli più luminosi, d'un mantello stellato, la
fa più splendida di tutte. E Judith, la donna della sua notte, sparisce dietro le
altre nella settima stanza che si richiude su di lei mentre l'oscurità invade per
sempre il castello sull'eterna solitudine di Barbablù.

Kodàly definì quest'unica opera di Bartók «il Pelléas ungherese». Ma questa frase
indica semplicemente che nel suo rigoroso rifiuto delle strutture operistiche
tradizionali (sia quelle italo-francesi che quelle wagneriane), nella sua purezza e
intransigenza stilistica, e anche in certo modo di concepire il rapporto fra il
declamato e l'orchestra, Barbablù può genericamente ricordare il capolavoro di
Debussy, e può aver esercitato, nel suo paese, una funzione storica in parte
analoga. Ma le somiglianze non vanno molto oltre questi termini. Lo stesso
giudizio tradizionale, che in quest'opera, scritta a trent'anni, vede il momento
impressionista dell'evoluzione del suo autore, va preso con molta cautela.
Evidentemente il gioco delle luci e dei colori, suggerito dal testo stesso, nel
Barbablù ha una importanza fondamentale; ma ben più come elemento di
un'architettura drammatica che come magia da coltivare in sé per sé. Infatti non
è quasi mai a"dato a mezzi puramente armonici e timbrici, ma quasi sempre
risulta dalla combinazione con fattori timbrici e tematici: e inoltre, si tratta il più
spesso di colori crudi, taglienti, che ben poco hanno a che fare con le soavità
debussyane.

La continuità dell'atmosfera, che mantiene a tutta l'opera, senza fratture, la sua


tensione specifica, non le impedisce una notevole varietà di strutture, legate tra
di loro da rapporti molto più complessi di quanto appaia a prima vista. L'opera
consta di nove scene: il colloquio introduttivo di Barbablù e Judith (relativamente
lungo rispetto al testo), le sette porte, la conclusione. Ogni scena ha i suoi temi
propri, esposti dall'orchestra, i suoi giri armonici e i suoi timbri caratteristici. In
ciascuna delle scene delle sette porte i temi sono esposti all'inizio, cioè al
momento dell'apertura della porta, e valgono come la rivelazione d'uno dei
segreti di Barbablù; segue una seconda parte (qualche volta anche una terza) in
cui i temi stessi sono variamente sviluppati o ripresi, e che costituisce, scrive
Sandor Veress, una sorta di "riflessione" sulla rivelazione iniziale. I primi temi
della scena introduttiva ritornano nella conclusione, che riporta appunto il
castello all'oscurità primitiva.

Il Barbablù costituisce il culmine e la conclusione del primo periodo dell'attività


pienamente autonoma di Bartók: del periodo cioè che segue a quello giovanile e
che, iniziato circa il 1906, comprende lavori già importanti, come il primo
quartetto e le straordinarie Bagatelle per pianoforte. È questo il periodo in cui
Bartók inizia la sua attività di raccoglitore e studioso di musiche popolari, le
quali orientano il suo stesso stile di compositore in una direzione a!atto nuova.
Il Barbablù è appunto il primo suo lavoro di grandi dimensioni in cui questa
esperienza del canto popolare è accolta come base di tutto il linguaggio
musicale; nel quale la fusione del modo maggiore con quello minore,
l'integrazione di modalità diverse da quelle tradizionali nella musica colta dei
secoli XVII-XIX, la qualità stessa dell'invenzione ritmica, non sono che sviluppi
coerenti di proprietà latenti nel canto popolare ungherese e romeno.

Particolarmente evidente è questa origine nella parte del canto: un recitativo a


frammenti piuttosto brevi, ma tuttavia intensamente melodico, privo di vistosi
ardimenti vocali ma anche di contorsioni espressionistiche, semplice e
penetrante. È concepito quasi interamente nello spirito dei canti ungheresi più
antichi, fondati su scale pentatoniche, con una marcata predilezione per i disegni
discendenti; e come quelli, dovrebbe eseguirsi in tempo rubato (il cosiddetto
parlando-rubato, è infatti una caratteristica di quei canti, scoperta e teorizzata
appunto da Bartók). Il sistema di accenti che questo stile comporta è dunque
strettamente legato alla lingua originale e di"cilmente assimilabile dalle
traduzioni.

L'opera non conosce Leitmotive, ma solo, come elemento ritornante, una cellula
elementarissima che simboleggia il sangue; la cui ossessione, come abbiamo
visto, torna quasi in ogni scena. Questa cellula consta semplicemente di un
bicordo, e precisamente del bicordo più dissonante che si conosca, la seconda
minore. Questo urto armonico, che talvolta si scioglie melodicamente in due
note successive, riappare continuamente, come un tarlo segreto, ogni volta che
lo spettro del sangue ria"ora alla vista e immaginazione di Judith e genera le
conseguenze armoniche e melodiche più diverse.

Opera densa di forze rattenute, di compresse violenze, Il Castello del prìncipe


Barbablù non è di quelle che si rivelano interamente al primo contatto; anche se
sia ben di"cile sottrarsi al suo fascino, all'estrema altezza del suo impegno
artistico e morale. Perciò, pur nella generale ammirazione da cui fu sempre
circondata, stante a farsi riconoscere per quello che da gran tempo è nel giudizio
dei più: uno dei più fermi capolavori del teatro musicale del secolo.

Fedele d'Amico

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Nel 1918 Zoltan Kodàly scrisse un articolo sulla prima rappresentazione del
Castello del principe Barbablù: è un documento che vale la pena di ricordare se
non altro per gli stretti legami di amicizia e collaborazione che univano Bartók a
questo musicista. Kodàly si preoccupò soprattutto di mettere in luce il carattere
profondamente ungherese dell'opera e il suo legame con una tradizione
popolare il cui vero valore consisteva, secondo lui, in ciò che vi si era conservato
di una «musica primigenia», e cioè «l'intensa espressione del sentimento,
immune da ogni formula, non costretta da alcuno schema, il libero, spontaneo
linguaggio dell'anima». Una musica riscoperta nella sua autenticità proprio
grazie alle ricerche di Bartók e Kodàly: nell'articolo citato si sottolinea la
verginità, la purezza ancora sconosciuta di una tradizione popolare contadina,
che rappresenta «un carattere ungherese universale, profondamente tragico». E
senza esitazione Kodàly riconosce nel Barbablù la prima opera ungherese dove
lo stile vocale aderisce perfettamente ai caratteri della lingua. È naturale che
Kodàly insista soprattutto sulle peculiarità «nazionali» dell'opera e sugli aspetti
che maggiormente la distinguono da altre correnti musicali europee dell'inizio
del secolo; ma per comprendere esattamente il senso delle sue a!ermazioni non
si deve dimenticare che aveva in precedenza parlato di «individualissima fusione
tra una cultura primigenia e una cultura altamente sviluppata», fornendo subito
così una implicita indicazione sull'importanza dei rapporti tra Bartók e la musica
europea.

Nel 1911, l'anno di composizione del Barbablù, Bartók era ormai pervenuto alla
definizione dei caratteri della sua prima maturità. Aveva già composto, fra l'altro,
il primo Quartetto (1908-9), dove si riassumevano le esperienze giovanili, dagli
esordi sotto il segno di Strauss, Liszt, Wagner, alla originale e fondamentale
rimeditazione della lezione dell'ultimo Beethoven, alla scoperta di Debussy, ai
primi studi sulla musica popolare contadina ungherese, iniziati con Kodàly nel
1905. Quegli studi avevano lasciato il segno soprattutto in diverse composizioni
pianistiche, che in parte sono vere e proprie rielaborazioni di materiale popolare
ungherese e balcanico e in parte rivelano invece l'originale assimilazione di
alcuni suoi caratteri ritmici, melodici e armonici estranei alla tradizione
ottocentesca. Bartók ne veniva stimolato a sottrarsi, come egli scrisse, «alla
tirannia dei modi maggiore e minore» e ne mediava la assimilazione con una
consapevole, apertissima attenzione alle ricerche delle avanguardie del suo
tempo.

In tale ambito era senza dubbio Debussy l'autore da cui gli venivano gli stimoli e
le conferme maggiori negli anni del Barbablù, e proprio quest'opera è stata
spesso definita il «Pelléas ungherese». Sulla reale fondatezza di questa
definizione, sugli equivoci e sulle approssimazioni che rischia di comportare
converrà so!ermarsi, prendendo le mosse dal necessario punto di partenza, il
testo di Béla Balàzs. Il nome di Balàzs (1884-1949) è comunemente noto in Italia
per i lavori teorici sul cinema, scritti in URSS, ma all'epoca del «mistero in un
atto» Il castello del principe Barbablù (1909-10) era un poeta e scrittore
appartenente alla cerchia di Bartók e Kodàly e molto sensibile all'influenza della
poesia di Ady in Ungheria e del teatro di Maeterlinck. Il testo del suo dramma,
pubblicato nel 1910 con dedica appunto ai due amici musicisti, era stato o!erto
inizialmente a Kodàly, ma aveva invece interessato immediatamente Bartók, che
lo mise in musica (con qualche, omissione e modifica quasi sempre di scarso
rilievo) tra il febbraio e il 20 settembre 1911. In quello stesso anno l'opera fu
presentata ad un concorso operistico a Budapest, ad una commissione guidata
da Istvan Kerner (direttore dell'Opera di Budapest), e fu respinta e dichiarata
ineseguibile. Solo nel 1918, sull'onda del successo ottenuto l'anno prima dal
Principe di legno (il balletto del 1916-17 basato su un soggetto di Balàzs) l'unica
opera di Bartók potè essere rappresentata: andò in scena a Budapest, insieme
alla ripresa del Principe di legno, il 24 maggio sotto la direzione di Egisto Tango.
Il successo segnò una svolta nella carriera di Bartók, ma fu seguito da un periodo
di lungo silenzio, perché a partire dal novembre 1919, da quando cioè si impose
la dittatura dell'ammiraglio Horthy, l'opera fu messa al bando fino al 1936.

Nei sette anni che separarono il compimento del Castello del principe Barbablù
dalla prima rappresentazione, Bartók non lasciò la partitura immutata: nel 1912
e nel 1913 ritornò sulla sezione conclusiva, che solo nella primavera del 1918,
dopo ulteriori correzioni, trovò la forma definitiva. Tra il 1918 e il 1921, anno
della pubblicazione dello spartito per canto e piano, Bartók rivide a più riprese la
parte vocale dell'intera opera, apportando correzioni minori, attente
essenzialmente alle soluzioni prosodiche.

***

Balàzs aveva fatto ricerche sulle vicende letterarie e musicali della fiaba di
Barbablù, la cui storia «u"ciale» comincia nel 1697, con la pubblicazione dei
Contes di Perrault. Tra i precedenti musicali vi sono opere di Grétry (1789), Mayr
(1809), Morlacchi (1811), un balletto di Peter Winter (1795), varie musiche di
scena, la mordente operetta di O!enbach Barbe-bleu (1866); tra quelli letterari
vanno citati il Ritier Blaubart (1797) di Tieck e una fiaba dei fratelli Grimm; ma lo
studio di questi testi, indispensabile per la ricostruzione della storia di Barbablù,
non serve in modo diretto alla comprensione dell'opera di Balàzs e Bartók. Per la
stessa ragione non ci so!ermiamo sulla ricostruzione delle ragioni che portarono
ad un leggendario collegamento tra la figura di Barbablù e quella storica di Gilles
de Rais (o Retz) (1404-1440), il compagno d'armi di Giovanna d'Arco che nel
proprio castello si diede a pratiche di magia nera e si rese responsabile della
scomparsa e della morte di numerosi giovani e ragazzi: al processo in cui fu
condannato a morte confessò di aver provato profonda soddisfazione nel
«sangue, nella tortura e nelle lacrime», ma diede tali segni di pentimento che gli
fu revocata la scomunica. Solo in un secondo momento in leggende bretoni
l'oggetto delle sue crudeltà sadiche divennero figure femminili.

Un'altra tradizione collega la figura di Barbablù ad un nobile bretone del sesto


secolo, Comorre; ma ai nostri fini è importante soprattutto ricordare che nella
fiaba di Perrault convergono temi che hanno larga di!usione in diverse tradizioni
popolari. Il tabù della «camera proibita» conosce numerose e antiche varianti in
paesi diversi, e per altri aspetti Barbablù va associato ai miti legati al conflitto tra
uomo e donna (talvolta sentito come variante di un primigenio conflitto tra
oscurità e luce) e ai miti imperniati sulla curiosità femminile (da Eva alla moglie
di Lot al vaso di Pandora). È essenziale tenere presente la profondità e
l'ampiezza delle radici mitico-folcloriche della fiaba di Barbablù, come è per
tutt'altre ragioni illuminante la conoscenza dell'antecedente letterario «colto» più
vicino a Balàzs, il teatro di Maeterlinck (solo in termini strettamente cronologici il
testo più vicino al Castello del principe Barbablù, è un racconto di Anatole
France, Les sept femmes de la Barbe-bleue del 1909, ironico capovolgimento
della leggenda tradizionale che non poteva esercitare su Balàzs nessuna
suggestione). Nel 1901 Maeterlinck aveva scritto il «conte en trois actes» Ariane
et Barbe-bleue ou la délivrance inutile, e sul suo testo si era basata nel 1907
l'omonima opera di Paul Dukas, che è uno dei capolavori di questo troppo
dimenticato musicista. La «liberazione inutile» cui allude il titolo è quella che
Arianna, sesta moglie di Barbablù, vorrebbe compiere traendo le cinque mogli
precedenti fuori dall'oscura stanza dove egli le aveva relegate. Arianna è una
sorta di luminosa fata, che porta luce e aria nel castello, ma che non può
corrispondere all'amore esclusivo che da lei vorrebbe Barbablù. Il loro conflitto è
insolubile, non c'è possibile comunicazione, ma non c'è neppure alcun gesto o
minaccia di crudeltà sanguinaria: quando gli abitanti del villaggio si ribellano
contro Barbablù e lo fanno prigioniero, Arianna lo libera e si allontana invitando
le altre cinque donne a seguirla; ma esse scelgono di restare con l'uomo nel
castello-prigione, di cui serrano la porta.

Il testo di Balàzs rivela una sostanziale autonomia rispetto all'impostazione di


Maeterlinck (dove fra l'altro il personaggio di Barbablù è relegato ad un ruolo del
tutto marginale) ma ne accoglie diverse suggestioni, e, soprattutto, si ricollega
ad alcuni caratteri generali del teatro maeterlinckiano, come il gusto simbolista,
il clima arcano, sospeso, l'importanza della suggestione misteriosa di luci e
colori. Anche Balàzs, come Maeterlinck, rinuncia ai concreti e crudeli avvenimenti
narrati dalla fiaba, e ancor più dello scrittore belga riconduce la vicenda ad una
dimensione interiore: due soli sono i personaggi, che si confrontano in un unico
luogo, in uno spazio scenico dove ogni elemento ha un significato simbolico,
allusivo. La vicenda è costituita semplicemente dallo svolgersi di un confronto a
due che approda ad un esito negativo, posto sotto il segno di una fatale
incomunicabilità: nulla alla fine può porre rimedio alla assoluta solitudine di
Judith e Barbablù. Secondo il già citato articolo di Kodàly il testo di Balàzs
«spezza il guscio dell'antica fiaba per mostrare l'eterna insolubilità del problema
del rapporto tra uomo e donna», e in tal modo questo dramma «privo di
avvenimenti» «incatena il pubblico dalla prima parola all'ultima in un clima di
tragica tensione».

Per giungere a questo risultato Balàzs non si limitò a far proprie suggestioni
maeterlinckiane, e in generale del teatro simbolista. È di particolare interesse
una sua dichiarazione retrospettiva, in un articolo pubblicato sul giornale
ungherese di Vienna («Bécsi Magyar Ujsàg») il 21 maggio 1922: «... Mi sforzavo
di sviluppare uno stile drammatico ungherese... Volevo ritrarre anime moderne
con i semplici colori primitivi dei canti popolari. Volevo la stessa cosa cui mirava
Bartók... Secondo noi una totale novità poteva derivare solo da ciò che era
antico, perché solo da un materiale primigenio ci si poteva attendere che
reggesse la nostra spiritualizzazione senza volatilizzarsi tra le nostre mani».

***

Il testo di Balàzs non potrebbe definirsi troppo semplicisticamente opera di un


Maeterlinck ungherese, per ragioni in parte simili a quelle che rendono di"cile
accettare (se non con molte riserve e distinzioni) la definizione di «Pelléas
ungherese» per la musica di Bartók. Uno degli aspetti essenziali della vicenda, la
situazione di assoluta, invalicabile solitudine esistenziale, trovava certamente
risonanza profonda nello spirito di Bartók (c'è anche chi ha voluto proporre una
identificazione psicologica tra la scontrosa, chiusissima, severa riservatezza del
suo carattere e la figura del principe Barbablù), e si coìlegava ad un tema
centrale della letteratura e della musica dell'inizio del secolo, tra il gusto
simbolista e l'Espressionismo nascente. Non è di"cile vedere i molti legami che
uniscono il Castello del principe Barbablù ai temi poetici e drammatici in cui si
manifestava l'inquieta consapevolezza della crisi negli artisti più sensibili in
quegli anni; ma è innegabile che le angosciate, cupe atmosfere incombenti sulla
tragedia di Judith e Barbablù presentano un carattere particolare, non
compiutamente riconducibile né ai velenosi arabeschi dell'Art nouveau, né ai
presagi dell'Espressionismo. Nelle arcane, misteriose, sospese atmosfere
dell'unica opera di Bartók lo scavo negli abissi dell'anima umana e nella tragica
fatalità che incombe sui protagonisti si riporta, come in un dramma simbolista,
ad una situazione fuori del tempo, ma cerca di collegare questa atemporalità alla
forza espressiva e alla semplicità primigenia di una ballata popolare. Il clima di
fosca, antichissima ballata è subito suggerito dal prologo, e mantenuto, nel
testo, dalla regolare cadenza dei versi di otto sillabe, e nella musica in primo
luogo dagli aspetti ispirati (attraverso una originalissima e autonoma
mediazione) al canto popolare. La spiritualizzazione di cui parla Balàzs va
cercando antiche radici cui idealmente ricollegarsi, ed è di natura assolutamente
diversa da quella radicale spiritualizzazione che, ad esempio perseguiva in
quegli anni uno Schönberg. Così nella tensione verso una interiorizzazione ed
essenzialità radicali il «monodramma» Erwartung (dove il tema centrale è una
condizione di solitudine ancor più disperata) brucia i legami con la tonalità e con
le forme tradizionali.

Nel prologo (che è soltanto recitato) si avvertono gli spettatori del carattere tutto
interiore della vicenda («dov'è il palcoscenico, fuori o dentro?») e si parla di una
antica melodia nascosta, dal misterioso significato. Raccogliendo la suggestione
di questi versi introduttivi Bartók inizia l'opera con una melodia pentatonica che
evoca subito il clima di antica, leggendaria ballata e che ritornerà alla fine, a
chiudere la partitura con il ritorno alla situazione iniziale, quando il castello di
Barbablù è ripiombato nella cupa oscurità in cui era immerso al momento
dell'ingresso dei protagonisti. Le inflessioni pentatoniche sono uno degli aspetti
che collega lo stile del Castello del principe Barbablù alla rimeditazione del canto
popolare. Non meno essenziale è il legame riconoscibile con lo studio del
«parlando rubato» tipico del canto popolare magiaro e adattissimo ai peculiari
caratteri della accentuazione delle parole nell'ungherese. Bartók riuscì a ricreare
nella propria scrittura vocale uno stile capace di rispettare con flessibilità
altrettanto precisa i caratteri della lingua e del verso di Balàzs, seppe aderire
perfettamente alla prosodia del testo. Il fatto che i versi siano tutti di otto sillabe
(con il loro «monotono» ritmo da ballata) costringe Bartók ad una virtuosistica
sottigliezza di soluzioni ritmico-melodiche nel musicarli. La perfetta adesione
della sua vocalità alla lingua e al verso rende più intraducibile che mai il Castello
del prìncipe Barbablù, perché la trasposizione in altre lingue appiattisce e rende
monotono il ritmo della declamazione vocale. La prevalenza di disegni melodici
discendenti, la frequente adozione di intervalli non ampi (con eccezioni che
assumono però un rilievo particolarmente significativo), la sobrietà di un
recitativo «parlando» fondato su figurazioni brevi, ma capace di aprirsi a
momenti di respiro melodico intenso, con continue flessibili alternanze, sono
tutti aspetti peculiari della vocalità del Barbablù e riconducibili anche a
suggestioni dello studio del canto popolare. La singolarità di questo stile vocale,
che, come si è già detto citando Kodàly, costituiva un fatto del tutto nuovo nella
storia dell'opera ungherese, rende di"cile proporre il confronto con il Pelléas di
Debussy, basato su un testo in prosa, in lingua francese, teso ad esiti di natura
profondamente diversa. È stato detto che la vocalità dei personaggi del Pelléas
risulta molto più di!erenziata rispetto a quella dei due soli protagonisti del
Barbablù. In realtà nella scarna, disadorna, a!ascinante sobrietà del canto
bartokiano c'è spazio per una grande varietà di di!erenziazioni, che si legano
alla evoluzione psicologica dei due personaggi e al diverso rilievo che assumono
nello svolgersi dell'opera.

La scrittura vocale è uno dei mezzi con cui la musica di Bartók si impadronisce
del testo di Balàzs per conferirgli una evidenza drammatica e psicologica
straordinariamente incisiva, investendolo di una intensità espressiva che,
accogliendone con sensibile adesione le suggestioni, tende in un certo senso a
semplificarle, o meglio, a renderle più esplicite con un rilievo e un respiro tragico
che in sé non avrebbero. Il fatale percorso che Judith e Barbablù compiono verso
l'oscurità totale e la solitudine assume un carattere serrato, implacabile, grazie
anche alla geniale coerenza della soluzione formale complessiva. L'apertura delle
sette porte e la scoperta di ciò che celano comporta di necessità soluzioni
musicali ben caratterizzate, del tutto diverse l'una dall'altra, in un rinnovarsi
inventivo continuo che dà ad ogni scena una compattezza autonoma
(accogliendo anche soluzioni di «pittura» musicale, in senso non banalmente
descrittivo). Ma i diversi quadri sembrano nascere l'uno dall'altro, si collegano in
una continuità sinfonica sottolineata, come vedremo, da un elemento ricorrente:
la partitura è tutta sorretta da un respiro sinfonico unitario, che giustifica la
duplice e chiarificatrice definizione di Kodàly («Revue musicale» 1921)
«symphonie à tableaux», ma anche «drame accompagné d'une symphonie».

Nello svolgimento del dramma così come lo realizza la musica si chiariscono


situazioni psicologiche che alla sola lettura del testo appaiono assenti o appena
accennate. Guardando la linea vocale si noterà che nella prima parte dell'opera è
soprattutto a Judith che toccano le frasi più cantabili, mentre Barbablù ha una
parte circoscritta e si limita a recitativi estremamente spogli. Judith vuole portare
la luce nel tetro castello, vuole asciugarne le umide mura: per amore chiede di
aprire le porte misteriose, per amore non si ritrae di fronte agli orrori della
camera di tortura e della sala d'armi. Nella sua parte (che rispetto a quella di
Barbablù ha sempre una scrittura più nervosa e agitata) vi sono accenti di
cantabilità appassionata; ma dopo l'apertura della terza porta gradualmente
questo carattere scompare: crescono in lei i sospetti nei confronti di Barbablù e
un sentimento di gelosia, e ciò si manifesta in frasi brevi, nervose, frantumate.
Questa trasformazione del ruolo vocale di Judith si incrocia con un opposto
percorso di quello di Barbablù (la cui vocalità ricorre più frequentemente a
figurazioni pentatoniche), perché egli si apre man mano a più cantabili frasi
melodiche, come quella che descrive la vastità del regno dopo l'apertura della
quinta porta, o come quelle, di sobria e intensa commozione, con cui prende
congedo dalle tre mogli precedenti e da Judith.

Che significato dare a questa caratterizzazione vocale? Analizzando scena per


scena la partitura Gyòrgy Kroó interpreta la impostazione bartokiana della
tragedia alla luce di un nuovo, ultimo fallimento di Barbablù in un rapporto
amoroso. Il castello è l'anima stessa di Barbablù, che la svela man mano a Judith
in tutti i suoi aspetti: in quelli più crudeli e aggressivi, in quelli più ricchi e
splendidi (dove il rosso colore del sangue che copre le nuvole del paesaggio, o il
gambo dei fiori nel giardino sarebbe semplicemente simbolo delle so!erenze di
Barbablù). Ma Judith non sa fermarsi in tempo, in un'ansia di impossibile
possesso totale: troppo tardi comprende che vi sono segreti che nessuno può
condividere, come il dolore so!erto in segreta solitudine (il lago di lacrime), e i
ricordi del passato (le tre donne precedenti, vive nel ricordo, e da esso abbellite,
come la stessa Judith dopo il fallimento del rapporto con Barbablù). Secondo
questa interpretazione la solitudine di Barbablù può essere anche un simbolo
della solitudine dell'artista, e Bartók avrebbe tenuto presenti echi di soggetti
wagneriani, dal divieto di Lohengrin che Elsa trasgredisce, alla speranza, qui
delusa, della redenzione attraverso l'amore.

Tra gli argomenti che si possono citare a sostegno di questa interpretazione


analizzando la partitura se ne può ricordare qui almeno uno, il rilievo che di
scena in scena assume un elemento musicale ricorrente, quasi un Leitmotiv,
oggetto di ripetizioni e poi variazioni estremamente significative. Si tratta della
figura musicale che è simbolo del sangue, una stridente dissonanza di seconda
minore, un ricordo che appare ogni volta che Judith vede sangue sugli oggetti,
sui fiori, sul paesaggio che le porte schiudono. È il segno di ciò che separa Judith
da Barbablù: prima dell'apertura della sesta porta dalla seconda minore nasce
uno strisciante tema cromatico, che si ripresenta in seguito con un ruolo
drammatico decisivo (quasi un emblema dei dubbi che allontanano Judith da
Barbablù, o forse, vedendo le cose in un'altra luce, del senso di disperata
impotenza che essa avverte di fronte all'uomo). Dopo che Judith ha visto il lago
delle lacrime si ha il momento dell'unione amorosa, segnato da un tema di
intenso calore lirico; ma l'incontro è breve, e presto si crea una eloquente,
drammatica opposizione tra il tema cromatico di cui si è detto (derivato dalla
seconda minore esso accompagna in orchestra gli angosciati interrogativi di
Judith) e il tema d'amore, legato alle frasi di Barbablù. Quando infine Judith in un
parossistico crescendo chiede la verità sugli amori precedenti di Barbablù
l'ostinato serpeggiare cromatico trionfa con grande evidenza e la dissonanza di
seconda minore si impone violenta in diversi registri. È l'ultimo episodio di
drammatica concitazione, prima dell'ampio, desolato congedo conclusivo.

La pertinenza delle analisi del Kroó (che ha però il torto di voler leggere in chiave
marcatamente negativa il personaggio di Judith) non esclude la possibilità di
altre interpretazioni: il Castello del principe Barbablù è per sua natura aperto a
letture diverse, che non tutte si elidono a vicenda, contribuendo ad arricchire la
suggestione di quest'opera. Le tappe del confronto tra Judith e Barbablù si
prestano agevolmente ad una interpretazione psicanalitica (e non potrebbe
essere Judith colei che cerca invano di superare un blocco, un rifiuto da parte di
Barbablù?); ma potrebbero intendersi anche come i diversi momenti di un rito
iniziatico (con esito tragico). Occorre prestare attenzione al percorso ad arco, dal
buio alla luce al buio, che caratterizza in modo decisivo l'azione. La luce cresce
gradualmente fino allo splendore luminoso dato dall'apertura della quinta porta,
e poi cala fino all'oscurità totale in cui Barbablù scompare. Questa
contrapposizione tra oscurità e luce, tra notte e giorno, tra morte e vita sembra
ricondurre alle più lontane radici mitiche della storia di Barbablù, a elementari
simboli originari. Ernö Lendvai ha studiato la partitura nei rapporti tonali e nelle
soluzioni armoniche da questo punto di vista. L'arcano tema pentatonico iniziale,
che ritorna alla fine, è in fa diesis minore: coincide con i momenti di massima
oscurità. In do maggiore è invece la scena più luminosa, con il solenne tema
sottolineato da una successione di accordi perfetti maggiori per moto parallelo.
Fa diesis e do costituiscono dunque due poli opposti, e questa opposizione
coincide significativamente con la collocazione che hanno queste due tonalità nel
punto più alto e più basso del ciclo delle quinte. Lendvai cerca di riconoscere in
questa polarità, e nel rapporto che con essa hanno le soluzioni armonico-tonali
delle altre scene, un simbolo che giustifichi una interpretazione più ampia del
Castello del principe Barbablù al di là del problema del rapporto uomo-donna.
Secondo lui il castello di Barbablù potrebbe essere la vita stessa, che Judith
percorre aprendo l'una dopo l'altra le sette porte, fatalmente approdando alla
morte. E il suo amore potrebbe essere l'amore per la vita contrapposto all'anelito
all'infinito. In ogni caso anche l'impostazione dei rapporti tonali, e soprattutto la
accennata polarità fa diesis-do, può essere considerata un altro degli aspetti
della musica di Bartók che riconducono la vicenda a miti e riti lontani, ad una
dimensione antica, archetipica (ma ciò può valere anche per alcune altre delle
interpretazioni cui si è accennato).

Solo una minuziosa analisi potrebbe render conto dell'intensità con cui la musica
di Bartók si impadronisce del testo e ne segue e chiarisce l'articolazione, con una
forza espressiva, una ricchezza inventiva e insieme una sapiente sottigliezza che
non conoscono cedimenti. Ciò si deve anche alla peculiarità della soluzione
formale, che concilia, come già si è detto, la compiuta individuazione delle
singole scene (definite ciascuna da un proprio colore, da una propria tonalità e
da un elemento base che vi funge da nucleo centrale) con la continuità del fluire
sinfonico (che mantiene fra l'altro quasi costantemente una sostanziale
indipendenza dalla parte vocale).

Si è già accennato alle matrici stilistiche cui si può riferire l'opera: lo studio della
musica popolare (che influenza ovviamente anche la dimensione armonica: è
verosimile tra l'altro che la presenza di accordi per quarte debba ricondursi a
questa fonte assai più che ad antecedenti schönberghiani come la
Kammersymphonie op. 9) e le suggestioni di Debussy, che sono originalmente
reinterpretate nel magistrale uso dei colori orchestrali e in alcune soluzioni
armoniche. Anche Strauss, in particolare quello di Salome ed Elektra esercita una
qualche influenza non marginale. Ma questi punti di riferimento non tolgono
nulla all'interna coerenza e all'autonomia del Castello del principe Barbablù.
Convivono qui un conflitto drammatico profondo, che si svolge in una
dimensione teatrale astratta, non convenzionale, ma assolutamente avvincente, e
soluzioni musicali tendenzialmente statiche, come la frequente presenza
dell'ostinato, la scrittura prevalentemente omofona, armonie stagnanti,
ripetizioni ossessive o note lungamente tenute (e la monotonia prosodica dei
versi di otto sillabe). La convivenza di queste componenti statiche con l'e!etto di
coinvolgente continuità drammatica è straordinariamente e"cace e vale a
suggerire l'ineluttabilità di questa tragedia della solitudine, il senso di fatale
chiusura incombente sui personaggi. A tale e!etto contribuisce anche la relativa
sobrietà della scrittura orchestrale, pur così densa di invenzioni timbriche, e il
già accennato carattere spoglio della linea vocale, oltre alla brevità che sempre
prevale nei disegni melodici, vocali o strumentali.

Il Castello del principe Barbablù oltre ad essere uno dei capolavori della prima
maturità di Bartók, è una chiave preziosa per penetrare nel suo mondo poetico,
svelato più esplicitamente dalla presenza di un testo. Vi sono qui vocaboli che si
ritrovano in tutta la produzione successiva: si pensi al rapido rabbrividente
arpeggio che si accompagna alla visione del lago di lacrime, un gesto livido, un
fremito doloroso che come altri gesti analoghi, ritorna più volte in Bartók.
Quest'opera introduce agli aspetti più misteriosi e visionari della sua poetica.

Paolo Petazzi

Biografia

www.wikipedia.org

Béla Viktor János Bartók (/ˈbeːlɒ ˈbɒrtoːk/; Nagyszentmiklós, 25 marzo 1881 –


New York, 26 settembre 1945) è stato un compositore, pianista ed
etnomusicologo ungherese. Studioso della musica popolare dell'Europa orientale
e del Medio Oriente, fu uno dei pionieri dell'etnomusicologia.

Biografia

Infanzia e giovinezza

Béla Bartók nacque a Nagyszentmiklós, nella regione ungherese del Banato (oggi
Sânnicolau Mare, in Romania).
Il padre, anch'egli di nome Béla, era direttore di una Scuola di agricoltura ed era
un musicista dilettante; la madre era un'insegnante di pianoforte. Dopo la morte
di suo padre (1888), Bartók si trasferì con la madre dapprima a Nagyszőlős (oggi
Vynohradiv, in Ucraina) e, successivamente, a Pozsony (oggi Bratislava, capitale
della Slovacchia).

Gli inizi della carriera musicale

Venne educato alla musica sin dall'età di cinque anni, dapprima dalla madre che
gli insegnò i rudimenti del pianoforte; a otto anni iniziò i primi tentativi di
composizione di piccoli pezzi. In seguito, a soli dodici anni, divenne allievo di L.
Erkel che lo iniziò alla composizione. Nel 1897 scrisse la sua prima sonata per
pianoforte. Dopo aver conseguito il diploma liceale si iscrisse all'Accademia
Reale di Musica di Budapest; qui studiò pianoforte con István Thomán, che era
stato alunno di Franz Liszt, e composizione con János Koessler. Conobbe in quel
periodo la musica tedesca, soprattutto Richard Wagner e Johannes Brahms; la
scoperta della musica di Debussy fu per lui di fondamentale importanza per la
sua evoluzione di compositore. In quegli anni incontrò Zoltán Kodály di cui
divenne amico e con cui successivamente raccolse molta musica popolare dalla
regione. Questo ebbe molta influenza sul suo stile; precedentemente, l'idea che
Bartók aveva della musica popolare ungherese derivava dalle melodie ascoltate
nei lavori di Liszt. Nel 1903 Bartók scrisse un grande lavoro orchestrale, il poema
sinfonico Kossuth, in onore di Lajos Kossuth, eroe della rivoluzione ungherese
del 1848, contenente melodie in quello stile e da cui lavorò per estrarre una
marcia funebre pianistica che lo rese celebre come pianista-concertista-
compositore per lo stile "nazional-ungherese" , capeggiato da Paderewsky,
Busoni, d'Albert e dall'ungherese Ernő Dohnányi.

Influenze sulla musica di Bartók

Dopo aver scoperto le musiche contadine dei magiari, che erano le autentiche
musiche popolari ungheresi, Bartók cominciò a includere canzoni popolari nelle
proprie composizioni e a scrivere temi originali con caratteristiche simili, oltre ad
usare frequentemente figure ritmiche di matrice folklorica.

La musica di Richard Strauss, che incontrò alla prima di Also sprach Zarathustra
a Budapest nel 1902, lo influenzò molto (trascrisse ed eseguì più volte a
memoria il poema sinfonico Vita d'Eroe). Questo nuovo stile emerse durante gli
anni seguenti. Bartók stava costruendo la sua carriera pianistica, quando nel
1907 ottenne il posto di professore di pianoforte all'Accademia Reale. Questo gli
permise di rimanere in Ungheria e di non girare l'Europa come pianista e gli
lasciò più tempo per raccogliere altre canzoni popolari, soprattutto in
Transilvania. Intanto la sua musica cominciava ad essere influenzata da
composizioni di Claude Debussy che Kodály aveva portato da Parigi. I suoi lavori
orchestrali erano ancora scritti alla maniera di Johannes Brahms o Richard
Strauss, ma scrisse numerose composizioni brevi per pianoforte che mostrano il
suo crescente interesse per la musica tradizionale. Probabilmente il primo brano
che mostrava chiaramente i suoi nuovi interessi è il Quartetto per archi n. 1
(1908), che contiene vari rimandi alla musica folklorica. Nel 1908 scrisse le 14
bagatelle per pianoforte, in cui cominciò a delineare il suo stile che appunto
parte dal pianoforte, distaccandosi dal romanticismo, basandosi su procedimenti
armonici basati su intervalli diminuiti ed eccedenti, sulla bitonalità e su una
marcata percussività, elemento che si ritrova anche in Prokof'ev e Stravinskij.
Altre composizioni pianistiche importanti in Bartók sono la Rapsodia Op.1 e i
Quattro pezzi per pianoforte, ricchi di influenze Brahmsiane, più altri lavori da
camera quali la Sonata per violino e pianoforte e il Quintetto per pianoforte ed
archi.

La carriera concertistica di Bartók non riuscì però mai a ricevere onorificenze,


nemmeno in campo esclusivamente compositivo.

Come pianista-compositore al contrario di altri come Rachmaninov (che aveva


composto in quegli anni il Secondo concerto per pianoforte e orchestra),
Dohnányi che ebbe fortuna col suo Concerto per pianoforte e orchestra, o lo
svedese Stenhammar. Questo scarso successo internazionale lo costrinse ad
accontentarsi di un posto come insegnante di pianoforte all'Accademia Musicale
di Budapest.

Le prime influenze popolari nelle sue composizioni cominciarono quando iniziò a


raccogliere melodie popolari con Zoltán Kodály: nel 1907 compose le Tre
canzoni popolari del distretto di Csík, due semplici melodie ascoltate da un
pastore che suonava un flauto. Qui si dimostra la tenacia di Bartók che
nonostante gli insuccessi continua a cercare un connubio tra la musica popolare
e le sale da concerto nello stile pianistico, cominciando con le Due Elegie Op.8b,
influenzate dallo stile pianistico delle Elegie di Busoni, e con le Quattro Nenie
Op.9 che risentono invece dello stile di Debussy, che troviamo anche nelle
Burlesche Op.8c. Le Nenie sono basate sul canto popolare ungherese che fa delle
scale modali, non presenti nella musica occidentale, armonizzate in maniera
quasi impressionistica. Lo stile di Bartók cominciò a uscire dalle influenze di
Busoni e Debussy con le Due danze rumene Op.8a per pianoforte, in cui lo stile
divenne decisamente percussivo e d'avanguardia, anche se non riuscì a trovare il
modo di proporre i suoi lavori come recital pianistico, se non negli anni Venti,
sfruttando anche l'ingigantimento delle capacità tecnico-stilistiche e timbriche
del pianoforte che già presso Paderewsky e Rachmaninov avevano raggiunto
livelli ragguardevoli.

Bartók focalizzò sulla percussività l'Allegro Barbaro del 1911, parallelamente alla
Toccata Op.11 di Prokof'ev e alla Danza Rituale del Fuoco di Manuel de Falla in
cui il pianista rende l'e!etto percussivo anche con la gestualità.

Gli anni centrali

Nel 1909 Bartók sposò Márta Ziegler. Il loro figlio, anch'egli di nome Béla,
nacque nel 1910.

L'avvicinamento alla musica popolare di Bartók (su esempio di Franz Liszt) è


stato compiuto in maniera scientifica, influenzando in maniera metodica il suo
stile, ricco di richiami alla musica popolare di molti popoli dell'area europea
orientale e medio-orientale (uso di scale pentatonica e modale) ma
contemporaneamente aggiornato anche sulle innovazioni ritmiche e armoniche
portate dai contemporanei come Igor' Fëdorovič Stravinskij.

Nel 1911, Bartók scrisse quella che sarebbe stata la sua unica opera, Il castello di
Barbablù, dedicata a sua moglie, Márta, ancora ricca di influenze stilistiche
derivanti da Strauss e Debussy. Con questa composizione partecipò a un
concorso indetto dalla Commissione Ungherese per le Belle Arti, ma questi
dissero che era insuonabile, e la respinsero. L'opera rimase ineseguita fino al
1918, quando il governo fece pressione su Bartók perché togliesse il nome del
librettista, Béla Balázs, dal programma a causa delle sue convinzioni politiche.
Bartók si rifiutò, e alla fine ritirò il lavoro. Per il resto della sua vita, Bartók non si
sentì molto legato al governo o alle istituzioni ungheresi, pur continuando la sua
passione per la musica popolare.

Di questo periodo sono anche i Due ritratti Op.5 (1907-08) e i Due quadri Op.10
(1910) per orchestra, l'Allegro barbaro (1911) per pianoforte (che ebbe molto
successo per le sue timbriche appunto barbariche e per la sua melodia semplice),
prima geniale sintesi del suo stile, la Suite per pianoforte Op.14 (1916), le due
Sonate per violino e pianoforte (1921 e 1923) scritte per Jelly d’Arányi e le Sei
danze popolari rumene per orchestra. I lavori di questo periodo sono
caratterizzati da un'energia ritmica basata sull'ossessione percussiva e una
ricerca timbrica molto fine immersa in un'armonia ai limiti dell'atonalità in cui
l'influenza popolare viene immessa attraverso rielaborazione e reinvenzione. Le
Melodie di Canzoni natalizie rumene sono dello stesso periodo delle Danze
popolari rumene (1915) che raggiunsero abbastanza successo da essere
pubblicate dalla Universal di Vienna nel 1918. Tuttavia le Danze rumene non
sono pensate come brani da concerto come la Suite Op.14, in cui Bartók dichiara
di voler superare lo stile accordale tardoromantico a favore di una
strumentazione "fatta di ossa e muscoli", trasparente e semplice come quella
dell'Allegro barbaro, ma alleggerita dall'assenza dei raddoppi. Questa suite viene
collegata da molti critici alla Sonata No.2 Op.14 di Prokofiev (1912), alla Sonatina
ad usum infantis di Busoni (1916) e a Le tombeau de Couperin di Ravel
(1914-17) e rappresenta quel percorso di distacco dal tardoromanticismo che
troverà le sue propaggini nella Sonata Op.1 di Berg (1908) e dai Tre pezzi Op.11
di Schönberg del 1909. Un altro aspetto che colpisce di questa suite è la
drammaturgia nei contrasti tra i movimenti, legabile al conflitto bellico, che trova
prodromi già nella Sesta sinfonia di Čajkovskij e nella Grande Sonata Op.33 di
Alkan. Nell'ultimo movimento (Sostenuto) vengono usate le quarte giuste con
finalità ritmico-timbriche. La simbologia bartokiana è di di"cile interpretazione,
comunque si ritiene che la presenza di un valzer sia riferita a Vienna. La
armonizzazione delle melodie popolari presenti nella Suite è ingegnosa e si basa
sulla presenza palese del tritono ottenuto dividendo l'ottava in due parti uguali
per armonizzare in maniera del tutto nuova, al contrario della maniera
ottocentesca. Nel primo movimento vengono accostati accordi di Sib maggiore e
Mi maggiore e l'accordo di settima di dominante è costruito con la settima
maggiore anzi che minore.

Questa suite è interessante per capire le posizioni di Bartók nell'ambito formale:


all'inizio al secondo posto doveva esserci un Andante in Fa# maggiore che
avrebbe reso la suite simmetrica ma Bartók lo elimina. Tuttavia vengono
rispettate le forme dei tempi secondo la tradizione occidentale (primo tempo in
forma tripartita, secondo in rondò, terzo tripartito e quarto monotematico con
intermezzo). Per quanto riguarda la ritmica abbiamo un'accelerazione del tempo
nei primi tre movimenti e una brusca caduta nel quarto.

Dopo il disappunto causato dal premio della Commissione per le Belle Arti,
Bartók scrisse molto poco per due o tre anni, preferendo concentrarsi sulla
raccolta e l'arrangiamento di musica tradizionale (in Europa Centrale, i Balcani e
la Turchia). Comunque, lo scoppio della prima guerra mondiale lo costrinse ad
interrompere queste spedizioni, e ritornò a comporre, scrivendo il balletto Il
principe di legno nel 1914-16 e il Quartetto per archi n. 2 nel 1915-17. Fu Il
principe di legno a dargli un certo grado di fama internazionale. Bartók
successivamente lavorò a un'altra composizione, la pantomima Il mandarino
meraviglioso, con uno stile più moderno del Castello del Duca Barbablù,
influenzata in particolare dalla musica di Igor' Fëdorovič Stravinskij e dal primo
Arnold Schönberg.

Il mandarino meraviglioso fu iniziato nel 1918, ma non fu eseguito fino al 1926


a causa dell'argomento trattato: una storia che parla di prostituzione, furto e
omicidio con un rapporto molto violento tra i due sessi. L'introduzione di
personaggi fiabeschi nel teatro musicale fu invece un punto che trovò come
sostenitore Ferruccio Busoni.

Bartók divorziò da Márta nel 1923, e sposò una studentessa di pianoforte, Ditta
Pásztory. Il suo secondogenito, Péter, nacque nel 1924.

Nel 1918 portò a termine anche i Tre studi per pianoforte in cui più che il
virtuosismo emergono le idee creative e bizzarre. Sono vicini all'atmosfera dei
Tre pezzi op.11 di Schönberg ma anche alla forma di trittico-sonata che
troviamo in Debussy (Images, Estampes) e in Ravel (Gaspard de la Nuit). Nel
primo studio si trovano accenti in controtempo che anticipano leggermente gli
Studi per pianoforte di György Ligeti, specialmente il primo del Libro I. Nel 1920
scrisse su commissione della Revue musicale di Parigi le Serre improvvisazioni su
canti di contadini ungheresi (Op.20). Gli venne commissionato un solo pezzo
(che fu poi la settima improvvisazione) da pubblicare in un supplemento
chiamato Tombeau de Debussy, a cui contribuirono anche De Falla, Stravinsky,
G.F. Malipiero, Dukas e altri.

La seconda guerra mondiale e gli ultimi anni di vita

Negli anni venti intraprende una serie di tournée concertistiche per l'Europa che
gli procurarono simpatie ma pochi compensi; furono quindi accettati nei recital
solo i brani più brevi (quindi non la Suite né la Rapsodia) come pezzi di carattere
alla Grieg.
Nel 1926 ricomincia a scrivere alcune composizioni, dopo un periodo infecondo
di qualche anno: abbiamo così i Quartetti per archi nn. 3 e 4 (1927 e 1928), in
particolare il terzo quartetto è ricordato per essere stato scritto
contemporaneamente al terzo quartetto di Schönberg a cui è legato per
l'evasione tematica, mentre la ritmica è più vicina a Stravinskij, e troviamo in
esso anche un embrione della micropolifonia di Ligeti chiamato da alcuni
micromelodia, le due Rapsodie per violino e pianoforte o orchestra (1928), la
Cantata profana (1930), lavoro vocale con trama fantastica su una fiaba rumena,
il primo e il monumentale secondo concerto per pianoforte e orchestra (1926 e
1930-31), la Sonata per pianoforte del '26, legata ancora alle composizioni
giovanili ma con una struttura decisamente Beethoveniana anche se manca una
contrapposizione dialettica tra i temi. Bartók definisce la tonalità di Mi maggiore,
anche se essa rappresenta solo una tonica polarizzante all'ascolto (in origine
nell'ultimo movimento c'era un tema Moderato che è stato poi rimosso per il suo
contrastante aspetto barocco e messo come Musette della suite All'aria aperta).

Verso gli anni trenta Bartók abbandona la composizione pianistica da concerto


per dedicarsi a brani didattici e per dilettanti, soprattutto grazie alla
composizione dei 153 brani che compongono i 6 libri del Mikrokosmos, iniziato
nel 1926, in cui il compositore parte da brani semplicissimi fino ad arrivare a
notevoli virtuosismi, delineando in maniera progressiva e crescente il suo stile
(contemporanei al Mikrokosmos sono i 9 Piccoli pezzi per pianoforte). L'interesse
nel pedagogico di Bartók è stato molto presente ed è testimoniato dai numerosi
pezzi infantili su melodie popolari che sono stati scritti nel corso della vita.

Negli anni trenta nasce invece una serie di composizioni più mature e
soprattutto più equilibrate (definite da alcuni come il periodo neoclassico di
Bartók in quanto si riscontrano ascendenze Beethoveniane): Quartetto per archi
nº5 (1934), Musica per strumenti a corde, percussioni e celesta (1936) e la
Sonata per due pianoforti e percussioni (1937, di cui esiste anche la forma in
concerto con orchestra), composizioni particolarmente legate dal tono lamentoso
e macabro degli adagi "notturni" in contrasto con la vivacità ritmica dei momenti
più veloci in cui il pianoforte esprime il massimo grado di percussività che
possiamo trovare in Bartók, specialmente nella sonata, con i timpani che
anticipano i pianoforti con una scansione ritmica tribale (i pianoforti si
scambiano spesso in passaggi imitativi e nell'ultimo movimento c'è anche la
presenza dell'hoquetus; poi abbiamo ancora i Contrasti per violino, clarinetto e
pianoforte (1938, dedicati al clarinettista jazz Benny Goodman), il Concerto per
violino e orchestra (1938) e il Divertimento per archi (1939), più il Quartetto per
archi nº6 (1939), i 44 Duetti per due violini (1931) e la di"cile Sonata per violino
solo (1944, composta già negli Stati Uniti per Yehudi Menuhin) in cui Bartók
porta a compimento i propositi stilistici avviati in questi anni.
Nel 1940, dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, e con il
peggioramento della situazione politica in Europa, Bartók si convinse che doveva
andarsene dall'Ungheria. Bartók si oppose fortemente ai nazisti. Dopo che
ebbero preso il potere in Germania, non vi tenne più concerti e lasciò il suo
editore tedesco. Le sue vedute liberali (che sono evidenti nell'opera Il castello di
Barbablù e nel balletto Il mandarino meraviglioso) gli causarono una gran
quantità di guai da parte della destra ungherese. Dopo aver spedito i suoi
manoscritti all'estero, Bartók si trasferì con riluttanza negli USA con Ditta
Pásztory alla fine del 1940. Péter Bartók li raggiunse nel 1942 e più tardi si
arruolò nella Marina degli Stati Uniti. Béla Bartók Jr. rimase in Ungheria. Anche se
venne accolto con molti onori, Bartók non si sentì mai a suo agio negli USA, e
trovò molto di"cile comporre. Gli venne dato l'incarico di tenere un corso alla
Columbia University dove era stato nominato dottore honoris causa ed ebbe la
possibilità di tenere molti concerti, anche con la moglie Ditta; egli però non era
molto conosciuto in America e c'era poco interesse per la sua musica che venne
spesso stroncata. Per qualche tempo ebbe una borsa di studio per lavorare su
una collezione di canzoni tradizionali iugoslave, ma la situazione economica
della famiglia andò sempre peggiorando, così come la salute di Bartók che
incominciava a manifestare i sintomi della leucemia.

Il suo ultimo lavoro sarebbe potuto essere il Sesto quartetto per archi, lavoro
interessante per la sua tonalità aleggiante e polimodale e per la ricchezza degli
assoli di viola e violini in sordina nei movimenti lenti e mesti (vicinanza con altre
composizioni come i Contrasti per violino, clarinetto e pianoforte ma anche a
modelli come la Grande fuga per quartetto d'archi di Beethoven) se non fosse
stato per Serge Koussevitsky che gli commissionò il Concerto per orchestra, che
divenne il lavoro più popolare di Bartók e che risollevò le sue finanze; anche se
scritto con minor sentimento interiore si può notare come il compositore abbia
molto accentuato gli elementi coloristici e timbrici che ritroviamo anche nel
Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 (1945), un lavoro arioso e quasi neo-
classico, e nel suo incompiuto Concerto per viola e orchestra, completato più
tardi dal suo allievo, Tibor Serly.

Nel Concerto per orchestra Bartók mantiene nei cinque movimenti una struttura
circolare con una costruzione strutturata a linee di intensità timbrica e atonale
con un uso accostato di omofonia e polifonia. Una struttura simile ma
rimpicciolita la troviamo nei quartetti (furono anch'essi composizione molto
discusse per la loro percussività e contrapposti per esempio ai limpidi quartetti
di Šostakovič) dove viene proprio definita una struttura ad arco o a ponte.

Béla Bartók morì a New York di leucemia il 26 settembre 1945 in grande povertà.
Le spese del suo funerale furono sostenute totalmente dall'ASCAP, l'Associazione
per la protezione dei diritti d'autore. Al suo funerale parteciparono solo dieci
persone; tra loro c'erano sua moglie Ditta, il loro figlio Péter e il pianista György
Sándor, suo allievo e amico.

Fu sepolto al cimitero Ferncli! ad Hartsdale, New York, ma dopo la caduta del


comunismo in Ungheria nel 1988, i suoi resti furono portati a Budapest per i
funerali di stato il 7 luglio 1988 e in seguito fu sepolto al cimitero Farkasréti di
Budapest.

Potrebbero piacerti anche