https://www.youtube.com/watch?v=uUG5fYLSC8w
Nella seguente lista si segue il Catalogo Somfai (sigla delle composizioni BB)
pubblicato nel 1996 da László Somfai; è il più completo perché comprende tutto
ciò che Bartók ha lasciato.
Indice
Pianoforte solo
Due pianoforti
Voce e orchestra
Voce e pianoforte
Balletti
Opere liriche
BB Anno
Orchestra
Composizioni per orchestra
https://www.youtube.com/watch?
v=vIiXwXsAQW0&list=PLfHAncN_1O5J9FH1K6l01vvW76LbMOu0K
https://youtu.be/oBjnhcWROKE
31 1903
Kossuth
https://www.youtube.com/watch?v=Ik8nZrMQ0Hw
https://www.youtube.com/watch?v=hojF5hnhEFo
https://www.youtube.com/watch?v=EEoBfp08Iw8
Kossut
Quale tristezza ti opprime l'animo, dolce mio sposo
La patria è in pericolo!
Una volta vivemmo tempi migliori
Ma poi il nostro destino si volse al peggio...
Su, alla lotta!
Venite, venite prodi guerrieri magiari!
.......
Tutto è finito
C'è il silenzio, il silenzio dappertutto
(testo del programma del poema sinfonico scritto dal compositore nel 1903)
Nella storia ungherese il 1848 è uno degli anni più conosciuti: fu in quell'anno
che scoppiò la rivoluzione nazionale ungherese, la guerra per la libertà, lotta a
vita e a morte che aveva come scopo la liberazione definitiva dal giogo del
dominio austriaco e della dinastia asburgica. Guida ed anima della rivoluzione fu
Luigi Kossuth. Nel 1849 gli austriaci, visto che di fronte alle armate ungheresi
riportavano una sconfitta dopo l'altra, chiamarono in aiuto i russi, i quali
riuscirono a vincere completamente l'esercito ungherese. In apparenza
l'esistenza statale ungherese fu annientata per sempre.
Giovanni Ugolini
39 1905
Suite n. 1
https://www.youtube.com/watch?v=UX5J95CSiU0
https://www.youtube.com/watch?v=UUozGxJF7YY
https://www.youtube.com/watch?v=Gyq_q3qMY9I
Allegro vivace
Poco adagio
Presto
Moderato
Molto vivace
40 1905 - 1907
https://www.youtube.com/watch?v=tLUg0--sBuk
Commodo
Allegro scherzando
Andante
Commodo
59 1910
https://www.youtube.com/watch?v=lQ0DDU3agAY
https://www.youtube.com/watch?v=XvBhdwoWHvo
L'opinione più di!usa su Béla Bartók, quella, diciamo, u"ciale, suole fare di lui,
sempre e comunque, un compositore di grande statura morale, ideologicamente
e politicamente impegnato, un ascetico e instancabile ricercatore e studioso del
patrimonio musicale della sua terra, un innamorato dei contadini e della natura.
Tutto questo, ovviamente, è presente in Bartók: ma è opportuno ricordare che
tale «scelta di campo» è l'approdo di un cammino umano e stilistico, punteggiato
di esperienze che si chiamano tardo-romanticismo, debussismo, politonalità,
cromatismo: e che l'avvicinamento di Bartók alla cultura musicale più «à la page»
del suo tempo produsse capolavori assoluti, prima ancora della sua conversione
al culto del popolare.
Le «Due immagini» op. 10, come, fra le altre opere, i «Due ritratti» o «Il Castello
di Barbablù» testimoniano i vari momenti di tale acquisizione linguistico-
culturale, essendo state scritte nel 1910, quando Bartók, attraverso la
mediazione di Zoltan Kodaly, aveva approfondito la sua conoscenza di Debussy.
Il primo brano, «Poco adagio», porta chiaramente i segni del linguaggio
armonico debussiano, soprattutto nell'uso della scala per toni interi e per
l'adozione di melodie pentatoniche. Particolare significato assume questo
fenomeno se si considera che, al contrario di Debussy il quale per «scoprire» tali
scale aveva dovuto guardare all'Estremo Oriente, Bartók le ritrovava nei modi del
canto popolare della sua terra: la presenza del ra"nato linguaggio
impressionistico si intreccia così al recupero di una cultura di tutt'altre matrici,
«subalterna», per usare un termine sintetico. La pagina porta per titolo «In pieno
fiore», ma l'impressione complessiva che essa suscita è di un misterioso
paesaggio, attraversato dalle pungenti voci dei legni e, nella parte centrale, del
corno: un mormorio notturno è suggerito dallo scorrevole movimento degli archi
e dagli interventi franti dei vari timbri strumentali, impiegati con straordinario
gusto coloristico. Una suggestione di natura notturna, animata da oscure
presenze, per la quale non è di"cile pensare al grande esempio del «Pelléas et
Mélisande» di Debussy e, al tempo stesso, ai grandi, angosciosi «notturni», che
Bartók scriverà: si ricordi il movimento centrale della Sonata per due pianoforti, o
il quarto brano della suite "All'aria aperta" e lo stesso "Barbablù".
Assai diverso, sul piano della struttura formale e del clima espressivo, è l'altro
brano, che pure impiega ancora scale di cinque e sei suoni e, nella parte
centrale, fa risuonare il misterioso tema della prima Immagine. Ma si tratta di
una parentesi: la vivace Danza campagnola si sviluppa come un Rondò (e qui
sottolineiamo la fedeltà che Bartók sempre manterrà per le forme classiche) in
ritmo popolaresco, massiccio, fortemente scandito, anche per l'alternarsi di legni
ed archi: una pagina che ha tutte le caratteristiche del Bartók maturo.
Cesare Orselli
Danze ungheresi e rumene
https://youtu.be/MLV1Fze-x8Y
61 1911
https://www.youtube.com/watch?v=PuQSdNjFdrY
Organico: orchestra
Prima esecuzione: Budapest, 12 febbraio 1911
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1965
Trascrizione della prima delle 2 Danze romene, opera 8a per pianoforte BB 56
64 1912
https://www.youtube.com/watch?v=F8IbbHwNrHo
https://www.youtube.com/watch?v=jC91qiRlmAE
Preludio
Scherzo
Intermezzo
Marcia funebre
76 1917
Romàn népi tàncok (Danze popolari rumene)
https://www.youtube.com/watch?v=hi_yck_hXS
https://www.youtube.com/watch?v=4HAIHSqiwAA
Organico (solo della prima): ottavino, 2 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti,
clarinetto piccolo, 2 clarinetti bassi, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni,
timpani, triangolo, 2 tamburelli, piatti, grancassa, tam-tam, 2 arpe, archi
Prima esecuzione: Budapest, 11 febbraio 1918
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1922
Trascrizione dalle Danze popolari rumene per pianoforte BB 68
Una prova indiretta di questa visione aperta e non partigiana del problema della
musica popolare si ha nel fatto che i primi tentativi in questo campo
riguardassero i canti popolari rumeni e conducessero, subito dopo la raccolta e
lo studio di numerose melodie del dipartimento di Bihar - l'una e l'altro
pubblicati dall'Accademia rumena -, a una serie di lavori basati su quelle
esperienze: esperienze, appunto, nelle quali i modelli delle strutture melodiche e
ritmiche oggetto d'indagine si travasano in saggi compositivi fusi con il bagaglio
della cultura tradizionale.
Ognuna delle sette danze, oltre al luogo di provenienza, reca un titolo che ne
definisce il carattere e la destinazione d'uso. Abbiamo così, nell'ordine, Danza
col bastone, Girotondo, Sul posto, Danza del corno, Polca rumena, Passettino di
Belényes e Passettino di Nyàgra. Il riferimento a movimenti e passi di danza tipici
delle diverse tradizioni contadine arricchisce la musica di connotazioni gestuali,
accrescendo così l'evidenza plastica delle figure ritmiche e melodiche nel
contesto tutto moderno del tessuto armonico e della veste timbrica.
Sergio Sablich
A proposito degli studi di Bartok sul folclore rumeno, va ricordata una lunga
polemica condotta contro di lui, e da lui circostanziatamente ribadita, circa il
modo di intendere l'area «rumena» e circa le rispettive autenticità delle fonti.
Questa collana di sette Danze rumene fu scritta da Bartok prima per pianoforte,
nel 1915, poi nel 1917 fu strumentata per piccola orchestra. Tutte collegate,
queste Danze dichiarano precisi riferimenti regionali cui rispettivamente hanno
attinto; e formano un tutto compatto, nell'ambiente armonico modale
ovviamente omogeneo, nella sequenza e nei contrasti dinamici e ritmici, oltre
che in quelli espressivi, dall'accorata e nostalgica malinconia all'allegria sfrenata.
82a 1927
Il Mandarino miracoloso
https://www.youtube.com/watch?v=Zhr_QJGzLjg
https://www.youtube.com/watch?v=zyvFDdYM-rU
https://www.youtube.com/watch?v=b_QyNQs6nIo
https://youtu.be/DYwegVm1q5w
Suite da concerto
Allegro
Maestoso
Tempo di valse
«Nella periferia di una metropoli (quale, non è specificato, n.d.r.) tre malviventi
costringono una ragazza ad adescare i passanti per poi derubarli. Capita fra
questi un misterioso straniero, un mandarino cinese che s'innamora
perdutamente della ragazza. Niente può vincere la sua passione, e invano i
malviventi lo pugnalano, lo so!ocano, lo impiccano; egli non morrà se non dopo
aver avuto la ragazza».
Magari accade proprio così, ma qualche dubbio dovevano averlo anche i direttori
dei teatri europei, che punirono, non eseguendola, l'audacia della fiaba di
Menyhert Lengyel e della musica di Bartók, autori di questa "pantomima in un
atto", composta tra 1918 e '19, orchestrata nel 1923, rivista l'anno successivo,
ma allestita soltanto nel novembre del 1926 (Colonia, Stadtheater, regìa
Strobach).
Intanto l'astuzia della ragione, di chi ha ragione, persuade Bartók a trarre dal
lavoro una suite da concerto, che il comune senso morale giudica meno
peccatrice, meno rischiosa: il debutto avviene a Budapest nel 1928. La musica,
questa volta, appare pura, non contaminata dal gesto, dalle allusioni teatrali. E
diventata meno "immorale": i censori sono sempre stolti, e realisti.
Due brevi tagli interni, la sostituzione dell'ultima scena della "pantomima" (quasi
un terzo della durata complessiva) con una chiusa di sole quattordici battute,
l'eliminazione del coro a quattro voci, sono le modifiche apportate dal
compositore. Resta immutata la dimensione, la violenza dell'orchestra: ottavino,
tre flauti, tre oboi, corno inglese, tre clarinetti, clarinetto basso, tre fagotti, due
controfagotti, quattro corni, tre trombe, tre tromboni, basso tuba, timpani,
tamburo, piatti, gong grande, grancassa, triangolo, gong, xilofono, celesta, arpa,
pianoforte, organo, archi.
Tutti gli strumenti prediletti dal "barbaro" Bartók. Sinistramente dolcissimo nella
melodia che intona il clarinetto solo, metafora della seduzione, voce della
bambina che attira le prede. Non si sottrae il meraviglioso/miracoloso extra-
comunitario (annunciato dai tromboni pentatonici), al quale la bimba, forse non
ignara delle qualità di Salome, riserva una danza piuttosto persuasiva.
Sono vicine la Sagra della Primavera (Parigi, 1913) e la Suite Scita (Pietroburgo,
1916), ma il titanismo orchestrale, la forza selvaggia del ritmo non bastano ad
assimilare Il mandarino ai due capolavori. Ben prima di Lulu di Berg, ma anche
del film di Pabst, delle commedie di Brecht, Bartók - per una volta espressionista
metropolitano - sceglie suburbi cittadini. Nelle sue so"tte non s'incontrano
Mimi, Lolite semmai.
Sandro Cappelletto
Guida all'ascolto 2 (nota 2)
La genesi della musica del Mandarino meraviglioso - terzo e ultimo lavoro per la
scena di Béla Bartòk - ha una storia tormentata e abbastanza complessa, che ben
si attaglia alle novità poco gradevoli dei suoi contenuti sia linguistici che
drammatici. Siamo di fronte a un caso di strenua volontà da parte di un autore
nei confronti della propria opera, fondata sulla convinzione della necessità delle
sue scelte e forse sulla intuizione che quel che ne nascerà non è così inattuale e
irreale, per quanto scandaloso possa sembrare.
Ma già molti anni prima l'autore aveva deciso di estrarre dalla partitura una Suite
da concerto che consentisse la circolazione almeno parziale della musica: segno,
da un lato, della consapevolezza che gli ostacoli maggiori stavano proprio nel
contenuto della vicenda e nella forma drammatica scelta a rappresentarlo;
dall'altro lato, però, anche della convinzione che la musica fosse dotata di una
sua autonomia e non dovesse essere rigettata in quanto tale, per quanto nuova e
dissonante potesse suonare. La stesura definitiva della Suite fu ultimata nel 1927
ed eseguita per la prima volta a Budapest il 15 ottobre 1928 dall'Orchestra
Filarmonica ungherese sotto la direzione di Ernö von Dohnànyi. Essa comprende
i due terzi circa della partitura completa, dall'inizio della grande scena centrale
della lotta selvaggia fra la ragazza e il Mandarino, che culmina in un forsennato
amplesso: la conclusione sinfonica si concentra su questo culmine,
interrompendo la scena all'apice della tensione e rinunciando così alla
trasfigurazione che nella pantomima segue con l'intervento stupefatto del coro
invisibile, che accompagna lo spegnersi dell'azione con attoniti vocalizzi.
Sergio Sablich
Guida all'ascolto 3
Come per l'opera "Il castello del principe Barbablù" opera in un atto Opus 11 ci si
può chiedere: cosa ha voluto dirci Bartók? Qual è la morale da trarre da questa
pantomima?
Dirò subito che questa è l'unica opera che si svolge in una città del compositore
ungherese che, come ho già detto, si rivolse sempre alla Natura nelle sue varie
forme.
Il primo è un vecchio cavaliere che viene allontanato dai tre manigoldi perché
non riesce a concludere nulla con la ragazza.
Il secondo è un povero giovane timido che piace molto alla ragazza ma che ha
un solo "piccolo difetto": è completamente al verde e, dunque, anche questo
viene scacciato in malo modo e la ragazza rimproverata.
I tre malviventi strappano la ragazza dalle mani del Mandarino, lo derubano e poi
decidono di ucciderlo, so!ocandolo con i guanciali. Il Mandarino però non
muore. A questo punto lo trafiggono tre volte con una vecchia spada arrugginita:
il Mandarino, seppur vacillante ed esausto, non muore neanche questa volta:
sempre in tutto questo marasma, non ha tolto mai gli occhi, bramosi di
desiderio, di dosso alla ragazza. A questo punto decidono di impiccarlo al
lampadario ma, il suo corpo comincia ad emettere una luce verde-azzurra e i
suoi occhi, incessantemente, guardano con lo stesso desiderio e la stessa
libidine la ragazza.
La ragazza guarda il Mandarino e comprende la verità: egli non potrà mai morire
finché lei non si concederà a lui. E lei, spinta da un atto di pietà, le si concede ed
egli muore dopo una breve agonia.
Io penso che la morale di questa storia sia proprio questa: noi possiamo morire
in pace solo se siamo riusciti ad ispirare un atto d'amore e di pietà in qualcuno,
altro da noi. E quell'atto d'amore e di pietà redime sia chi lo riceve sia chi lo
compie.
Daniele Scarpetti
86 1923
https://www.youtube.com/watch?v=Z1-emYm_Q8Q
https://www.youtube.com/watch?v=vg5RmyO6ZBk
https://www.youtube.com/watch?v=aOr7tSPgV7s
Moderato
Allegro molto
Allegro vivace
Molto tranquillo
Comodo
Finale. Allegro
Bartók spiegò in una conferenza le intenzioni da cui era nata la Suite di danze:
«Essa è formata da sei brevi pezzi in forma di danza, di cui uno fa da ritornello e
quindi ha funzione di Leitmotiv. Tutto il materiale tematico della composizione è
ad imitazione della musica contadina; questo infatti era lo scopo della Suite:
realizzare una specie di musica popolare ideale in modo che ogni parte
rappresentasse caratteri musicali ben definiti. Mi sono servito di melodie di
diversa provenienza: ungherese, valacca, slovacca, persino araba, talvolta
mescolandole. Così ad esempio la melodia del primo tema del primo pezzo
ricorda la musica popolare araba più antica, mentre il ritmo si ricollega a quella
dell'Europa orientale. Il tema del ritornello è talmente fedele allo schema di certe
melodie popolari ungheresi, che potrebbe ingannare anche un esperto studioso.
Il secondo pezzo è di carattere ungherese, mentre il terzo alterna elementi
ungheresi e valacchi». La composizione persegue quindi l'accostamento di
linguaggi appartenenti ad etnie diverse, ma senza citazioni, perché i temi sono
tutti di Bartók. Quest'idea spiacque ai nazionalisti ungheresi e, all'opposto, non
trovò d'accordo nemmeno la critica d'avanguardia, tanto che Theodor
Wiesegrund Adorno, recensendo l'esecuzione di Praga, liquidò la Suite di danze
come «occasionale». Le esecuzioni pubbliche della composizione, dopo la prima
fiammata, divennero quindi rare, e rare sono anche oggi.
Piero Rattalino
102b 1931
Erdélyi táncok (Danze transilvane)
https://www.youtube.com/watch?v=Op9XGxjmW08
https://www.youtube.com/watch?v=K44VVl2Axao
103 1931
https://www.youtube.com/watch?v=eHll9AacLGs
https://www.youtube.com/watch?v=vyYNnufYv7M
https://www.youtube.com/watch?v=r_BAiyegiYE
Domenico De Paoli
107 1933
https://www.youtube.com/watch?v=zOKx6YJ2WzI
https://www.youtube.com/watch?v=lyGfCIDCoqw
Organico: orchestra
Prima esecuzione: Szombathely, 18 marzo, 1934
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1933
Trascrizione dei numeri 6 - 12, 14 e 15 dai 15 Canti contadini ungheresi per
pianoforte BB 79
114 1936
https://www.youtube.com/watch?v=IKSXgMDJ2PM
https://www.youtube.com/watch?v=HGJcsTtJ188
https://www.youtube.com/watch?v=SQA2XakFYy4
https://www.youtube.com/watch?v=L0bX1BVXJak
https://www.youtube.com/watch?v=yUKRYLm-urg
https://www.youtube.com/watch?v=AZeRjP0kpwg
https://www.youtube.com/watch?v=Djy1SMCxMwA
Andante tranquillo
Allegro
Adagio
Allegro molto
Francesco De Grada
Le essenziali indicazioni sulla genesi del linguaggio di Bartók che siamo venuti
fornendo costituiscono, forse, un troppo comodo e generico passepartout per
l'ascolto della sua musica, quale essa sia, di modesta o eccelsa qualità; ma la
«Musica per achi, percussione e celesta» è uno dei vertici di tutta la produzione
bartókiana, uno di quei capolavori che danno ragione — con la loro eccellenza —
a qualsivoglia poetica, rendendola operante e vitale. Essa nacque nel 1936 su
commissione, per la famosa orchestra di Basilea diretta da Paul Sacher e
raccoglie in una sintesi di straordinaria suggestione la tematica bartókiana della
notte, il ricorso a furiosi ritmi magiari, una certa visionarietà allucinata. L'opera è
articolata in quattro movimenti e trova origine (secondo il Carner) in un solo
tema, simile per il suo cromatismo al tema principale del Sesto quartetto,
mostrando quanto abilmente Bartók utilizzi il principio della forma ciclica
lisztiana (appunto l'adorato Liszt: chi ha inventato la contrapposizione Liszt-
Bartók per ragioni di autenticità magiara, reciti ormai un «mea culpa»).
L'«Andante tranquillo» è una fuga a cinque voci, costruita sul già citato tema
cromatico, un vagare misterioso, ai limiti dell'atonalità, che esplode in un
vigoroso accordo di mi bemolle. Di tutt'altro carattere il secondo movimento,
ispirato alla febbrile ritmica ungherese seppure costruito in forma-sonata: al
nostro orecchio, può forse suggerire l'immagine di una musica di colore
orientale, la cui eleganza e flessibilità melodica siano state «barbaricamente»
sconvolte.
Cesare Orselli
www.wikipedia.org
Musica per archi, percussioni e celesta, Sz. 106, BB 114 è una delle composizioni
più note del compositore ungherese Béla Bartók. Commissionata da Paul Sacher
per celebrare il decimo anniversario della orchestra da camera Basler
Kammerorchester, lo spartito è del 7 settembre 1936. La prima esecuzione del
brano è avvenuta a Basilea, Svizzera il 21 gennaio 1937, da parte dell'orchestra
da camera diretta da Sacher, ed è stato pubblicato nello stesso anno dalla
Universal Edition.
Analisi
Come indica il titolo, il pezzo è stato scritto per strumenti ad arco (violini, viole,
violoncelli, contrabbassi, e arpa), strumenti a percussione (xilofono, rullante,
piatti, tam-tam, grancassa, e timpani) e celesta. L'organico comprende anche un
pianoforte, che può essere classificato come uno strumento a percussione o ad
arco (il musicista addetto alla celesta suona anche il pianoforte in alcuni
passaggi a 4 mani col pianista).
Andante tranquillo
Allegro
Adagio
Allegro molto
Il primo movimento è una fuga lenta. La sua indicazione del tempo cambia
continuamente. Si basa intorno alla nota la, con la quale inizia e termina il
movimento. Gli archi iniziano con la sordina, e man mano che entrano più voci,
la tessitura si infittisce e la musica diventa più forte fino al punto culminante su
mi bemolle, lontano un tritono dal la. Le sordine vengono poi rimosse, e la
musica diventa gradualmente più tranquilla con i dolci arpeggi della celesta. Il
movimento si conclude con la seconda frase del soggetto della fuga suonato
delicatamente insieme alla sua inversione. Del materiale dal primo movimento
viene riproposto nel resto della composizione, come ad esempio il soggetto della
fuga.
Il secondo movimento è rapido, con un tema in 2/4 che si trasforma in 3/8
tempo verso la fine. Esso è contrassegnato dalle forti sincopi del pianoforte e
dagli accenti delle percussioni che creano una danza vorticosa, evolvendo in una
sezione estesa di pizzicati, con una conclusione simile ad un concerto per
pianoforte.
118 1939
https://www.youtube.com/watch?v=tG9lbFG0vXc
https://www.youtube.com/watch?v=V-q9PwAZ7qQ
https://www.youtube.com/watch?v=PuKcLq5NSjM
https://www.youtube.com/watch?v=wjKn_c8VOW0
È alla fine del 1940 che Bela Bartók lascia l'Ungheria per avviarsi all'esilio
volontario negli Stati Uniti. «Questo viaggio è, in fin dei conti, un salto
nell'incertezza da una certezza insopportabile», scrive il 14 ottobre all'amica
svizzera Muller-Widmann. Non era solo il clima bellico a far allontanare il
compositore, ma ancor più la ferma avversione verso le dittature europee e il
loro fiancheggiamento da parte del governo ungherese. Due anni prima, dopo
l'Anschluss dell'Austria al Reich, Bartók si era rivolto in termini crudi alla
medesima amica: «Scrivere di questa catastrofe, io credo, è del tutto inutile. [...]
C'è il reale pericolo che anche l'Ungheria si arrenda a questo regime di ladri e
assassini. La domanda ora è: quando? come? E non è concepibile che io possa
ancora vivere, ancora lavorare (il che è lo stesso) in un paese di questo tipo. Io
avrei davvero l'obbligo di espatriare».
Questo dunque il clima degli ultimi anni ungheresi di Bartók, anni di intensa
produttività, che vedono nascere, fra l'altro, la Sonata per due pianoforti e
percussione, il Sesto Quartetto, il Secondo Concerto per violino e orchestra,
nonché il Divertimento per orchestra d'archi: un gruppo di lavori che sommano,
con grande maestria di scrittura, complessità costruttiva, ricerca timbrica, alte
ambizioni concettuali.
Ecco dunque che nell'Allegro con troppo iniziale viene in secondo piano la
costruzione secondo lo schema della forma-sonata classica, e la
contrapposizione dei vari temi, e si impongono invece allri fattori, come la nitida
contrapposizione fra soli e tutti, la variabilità degli schemi ritmici (propria del
canto popolare), i netti contrasti dinamici, la limpidezza della tessitura. La coda
del movimento riprende il materiale tematico in una sorta di contemplazione,
rinunciando quasi alla logica di contrasti in favore di una dinamica contenuta.
In posizione centrale troviamo un Molto adagio che è una delle grandi pagine
notturne di Bartók; basterebbe ascoltare la sapienza strumentale con cui l'autore
definisce l'esordio, una sorta di tappeto sonoro con sordina, su cui si stagliano
nudi disegni di violini e viole. Si impone in questo movimento soprattutto la
sezione centrale, con un lungo e calibratissimo crescendo innervato da
angoscianti doppi trilli dei violini, cui fa seguito un rapido diminuendo.
Arrigo Quattrocchi
Il finale è in forma di rondò con un lungo sviluppo finale e presenta nella sua
parte centrale una doppia fuga con il soggetto utilizzato nella sua forma diretta
e in inversione. Soli del violoncello e del violino, e poi l'inversione dei temi
conducono a un finale dal sapore burlesco, con la citazione di una polka seguita
da rapidissime terzine che si condensano in clusters per poi sfociare in una
vivacissima coda.
123 1943
https://www.youtube.com/watch?v=pK_X0QuZuZc
https://www.youtube.com/watch?v=OQb3VUljpa0
https://www.youtube.com/watch?v=clzcGIdMaN0
https://www.youtube.com/watch?v=CjnbUmbHO9o
https://www.youtube.com/watch?v=-GfMqpFSmzQ
https://www.youtube.com/watch?v=mvvFKI9A5Y8
Scritto da Bartók nel 1943 durante i di"cili anni del suo esilio americano, il
Concerto per orchestra, termine con cui si indica il ruolo virtuosistico e
concertante svolto dalle diverse sezioni strumentali, fu accolto da un successo di
pubblico tale da garantirgli per anni centinaia di repliche in tutto il mondo, ma al
tempo stesso fece storcere il naso a molti dei critici più intransigenti, i quali
accusarono l'autore di aver abbandonato la propria fedeltà «giacobina» nei
confronti della dissonanza per mostrarsi accondiscendente verso i facili gusti del
pubblico americano.
Andante non troppo (Introduzione) - Allegro vivace. L'Andante non troppo che fa
da prologo al primo tempo si apre con un cupo profilo melodico dei bassi
seguito da leggeri fremiti di archi e flauti, nel quale troviamo il germe tematico
di tutta l'opera: l'intervallo melodico di quarta. Dopo la terza e più ampia
enunciazione di questo spunto iniziale, i flauti, e successivamente le trombe,
delineano il motivo tematico dell'Andante. Con un forte improvviso il tema si
trasforma quindi in un grido lancinante dei violini, mentre una breve coda
conduce all'Allegro vivace con un ostinato accelerando.
Un improvviso stacco dinamico dà il via allo Sviluppo che si apre con una
ridondante riproposizione del primo tema. In netto contrasto con questa prima
parte Bartók inserisce un'oasi centrale nella quale il clarinetto riporta a
un'atmosfera più pacata e rarefatta. Si noti come Bartók non crei mai uno scontro
dialettico tra primo e secondo tema (quest'ultimo è assente nello Sviluppo), ma
preferisca la suggestiva alternanza tra la pulsione ritmica e la staticità proprie
dei due temi stessi. Ritorna quindi con forza il primo tema sul quale si intreccia
subito un fugato degli ottoni formato dal motivo di collegamento, che, appena
punteggiato da brevi interventi dell'orchestra, culmina in un potente unisono. La
successiva Ripresa ripropone inaspettatamente secondo tema e primo tema in
ordine invertito, mentre uno stacco degli ottoni basato sulla melodia di
collegamento conclude il movimento.
Un nuovo spunto melodico delle viole viene ripreso dai legni inframmezzati da
elastici stacchi accordali dell'orchestra, mentre il ritorno del fluire intrecciato
viene interrotto dal tema che, dopo aver toccato il suo punto culminante, si
dissolve rapidamente ponendo fine all'ultimo momento intensamente
drammatico del concerto. La ripresa variata della sezione iniziale è infine seguita
dal tema iniziale dei contrabbassi ripresentato dai violini e da una delicata
ondulazione dell'ottavino sospeso in tessitura acuta.
Finale. Dal perentorio unisono introduttivo dei corni prende il via il primo gruppo
tematico con un fitto brulicare degli archi, in graduale crescendo, che libera la
sua energia in un breve ma incisivo spunto tematico. Il moto degli archi si
articola quindi attraverso diverse sezioni orchestrali culminando in un ostinato
ossessivo che lascia spazio a un breve fugato sul motivo iniziale dei corni. I due
pacati episodi successivi portano al secondo gruppo tematico nel quale
un'incalzante reiterazione di una cellula ritmico-melodica che ricorda una danza
popolaresca, sostiene il brillante e irresistibile motivo della tromba.
Il Presto finale, introdotto da poche battute in tempo pesante con una specie di
motto dei corni, è un vertiginoso intreccio di danze popolaresche. Si ode il suono
festoso delle trombe sul fitto moto perpetuo di violini e viole; si inserisono i
corni e dopo varie alternative il Concerto si conclude con un gioioso fugato dei
flauti, quasi a ria!ermare un sentimento di fiducia nei valori della vita. Da
segnalare infine, l'organico dell'orchestra piuttosto massiccio, con quattro
strumenti per ogni categoria di legni, quattro corni, tre trombe, tre tromboni,
basso tuba, due arpe, una percussione abbastanza nutrita e un proporzionato
schieramento di archi.
La forma del Concerto per orchestra, in cinque tempi, o!re un altro esempio
della struttura "a ponte" tipica della maturità bartókiana. Attorno al tempo
centrale (Elegia: Andante non troppo), la cui intensa espressività lirica si avvale di
moduli tematici e ritmici del folclore ungherese, si dispongono una coppia di
tempi esterni (il primo Introduzione: Andante non troppo, Allegro vivace e il
quinto Finale: Pesante) di ampia estensione e nella classica forma-sonata,
accomunati da forti a"nità tematiche. Il secondo e il quarto tempo
(rispettivamente Gioco delle coppie: Allegretto, scherzando e Intermezzo
interrotto: Allegretto) sono entrambi costruiti secondo lo schema ABA di uno
scherzo con trio, e caratterizzati da una scrittura più animata e informale,
elegantemente padrona di se stessa. Val la pena di segnalare che nel Concerto
per orchestra figurano, fatto insuale in Bartók, pagine composte
precedentemente all'insieme della partitura, e originariamente destinate a un
balletto.
Ai primi di aprile del 1940 Béla Bartók s'imbarcò a Napoli sul Rex, diretto alla
volta di New York. Sotto il pretesto di un giro di concerti con il violinista Szigeti,
il viaggio aveva un essenziale scopo esplorativo: sondare le possibilità di
residenza e di lavoro negli Stati Uniti, in vista di un eventuale trasferimento.
Nella vecchia, cara Europa, divampavano le fiamme della guerra; da due anni,
dalla annessione che aveva segnato la fine dell'Austria, Bartók viveva in una
tormentosa angoscia, sempre più acuta, per la tragica sequenza delle vicende
d'Europa: anche se, per il momento, l'Ungheria, patria del musicista (era nato a
Nagyszentmiklós nel 1881), non appariva minacciata.
Assunto dalla Columbia University di New York per il biennio 1941/42, con
l'incarico di riordinare e studiare le musiche balcaniche in possesso dell'istituto
(un compito fatto su misura per un musicista da sempre appassionato del canto
popolare e del folclore nazionale della sua terra), Bartók abbandonò
definitivamente l'Europa a fine ottobre del 1940, con la moglie Ditta de
Paszthóry, dopo aver trascorso la sua ultima estate in patria. A Budapest, invano
Zoltàn Kodàly aveva tentato di persuaderlo che il suo posto, in tempi sì oscuri,
era la natia Ungheria. Ma era allora l'Ungheria ancora quella di un tempo?
In un testamento, vergato prima di partire, Bartók vietava fra l'altro che al suo
nome venissero intestate vie o piazze ungheresi, finché sulle targhe della città di
Budapest fossero rimasti impressi i nomi, da poco innalzati a e"mera, funesta
gloria, di Hitler e Mussolini.
Non che Bartók si illudesse troppo sulla sua nuova vita nord-americana:
«Dall'incertezza - aveva confidato agli amici di Budapest - compio il salto verso
una insopportabile sicurezza». I cinque ultimi anni trascorsi in America furono i
più di"cili, amari e tristi, della sua vita. Anzi esacerbati da gravi di"coltà
economiche, soprattutto dopo la scadenza, senza rinnovo, dell'incarico
all'università, e dal progressivo acuirsi del male, una forma di leucemia, che lo
avrebbe condotto alla tomba. A di!erenza del suo grande contemporaneo
europeo legato da un medesimo destino, Arnold Schönberg, Bartók respinse
fermamente ogni concreta o!erta di aiuto finanziario, e altrettanto fermamente
ricusò di impartire redditizie lezioni di composizione, per cui gli americani,
addosso ai quali la guerra aveva fatto piovere una vera manna di esuli della
musica europea, andavano letteralmente pazzi. Ma la composizione, asseriva
Bartók, non si può insegnare. Che poi egli fosse, in assoluto, un mostro di
didatta, è altro discorso: perché in ventisette anni di permanenza come docente
al Conservatorio di Budapest, aveva voluto insegnare sempre solo il pianoforte.
Il Concerto per orchestra venne eseguito per la prima vola a New York il 1°
dicembre 1944, con esito trionfale, sotto la direzione di Kussewitzky.
L'architettura del lavoro corrisponde a quella di un'ampia Sinfonia in cinque
tempi, ma il titolo di Concerto è giustificato dall'autore stesso, nelle note redatte
per la prima esecuzione: «Il titolo di questo lavoro orchestrale simile a una
sinfonia è dato dalla tendenza a trattare i singoli strumenti dell'orchestra in stile
concertante o solistico. L'elemento virtuosistico si palesa, ad esempio, nelle
sezioni fugate dello sviluppo del primo tempo (ottoni) o nei passaggi a guisa di
moto perpetuo del tema principale dell'ultimo tempo (archi), e specialmente nel
secondo tempo, ove coppie di strumenti entrano successivamente con passaggi
brillanti... L'aspetto generale del lavoro rappresenta, a parte il danzante secondo
tempo, un graduale passaggio dalla severità del primo tempo e dal cupo canto di
morte del terzo all'a!ermazione di vita dell'ultimo tempo».
Una rievocazione ora attonita (la stupenda «musica notturna» del terzo tempo,
intitolato Elegia), ora sferzante di ironia e di malizioso humour (la citazione
fantasiosa, nel quarto tempo, denominato in italiano «Intermezzo interrotto», del
tema del trionfale crescendo della Settima Sinfonia, detta «di Leningrado», di
Sciostakovic, congegnata a bella posta per sottolineare la parentela del tema
«eroico» di Sciostakovic con una frivola canzonetta, di sapore viennese, dalla
Vedova allegra di Lehar). Giustamente ha scritto Massimo Mila: «Il sacro e il
profano, il carattere e il caratteristico, l'essenzialità della melodia contadina
magiara e il pittoresco si conciliano nel Concerto per orchestra, unificati dalla
Stimmung fondamentale che è la nostalgia dell'esule, lo spasimo intenerito della
rievocazione».
Sergio Sablich
www.wikipedia.org
Il Concerto per Orchestra fu composto da Béla Bartók tra il 1942 e il 1943 per la
Fondazione Musicale "Koussevitzky", ed eseguito per la prima volta dalla Boston
Symphony Orchestra diretta da Serge Koussevitzky, il 1º dicembre 1944.
Struttura dell'opera
35 1904
Scherzo (o Burlesque)
https://www.youtube.com/watch?v=Qns_LSfTaKs
36b 1904
https://www.youtube.com/watch?v=ryevLf91Dyk
https://www.youtube.com/watch?v=urXl-k876Ls
https://www.youtube.com/watch?v=dRn7y7VjmVE
https://www.youtube.com/watch?v=rEXVr6C4MT4
48a 1907
https://www.youtube.com/watch?v=J2HlpbESkic
https://www.youtube.com/watch?v=RQVWIrHfke4
https://www.youtube.com/watch?v=CLDn-F2Q4Gs
https://www.youtube.com/watch?v=-4ek7KOBk7c
Andante sostenuto
Allegro giocoso
Stefi Geyer era una delle migliori allieve di Jenõ Hubay nella classe di violino
dell'Accademia Liszt di Budapest. Bartók la conobbe nel 1907, in occasione di un
concerto dell'Accademia, dove il giovane pianista e compositore aveva appena
ottenuto una cattedra di pianoforte. Stefi, di diciotto anni, aveva una bellezza
melanconica e languida, che unita a un talento musicale di prim'ordine provocò
un contraccolpo immediato sull'animo del giovane e brillante docente. Bartók
iniziò a corteggiare la giovane violinista a suon d'interminabili lettere, in cui
riversava l'ardente flusso delle molteplici idee e riflessioni che ribollivano nella
sua mente, spaziando dalla musica alla filosofia, alla religione, alla poesia, alla
politica. In termini pratici, la strategia di Bartók si rivelò fallimentare, perché la
veemenza e il radicalismo delle sue opinioni, soprattutto in materia di ateismo e
di rifiuto della religione, finirono per spaventare la ragazza, che continuava a
proclamarsi troppo giovane e inesperta per sostenere quel confronto
intellettuale, fino a costringerla a chiudersi in un freddo silenzio, probabilmente
penoso per entrambi. Per dare un esempio della mancanza di tatto dell'irruento
corteggiatore, un passo di una lettera a Stefi del 27 luglio 1907, scritta durante
un viaggio di ricerca sui monti della regione Csik per raccogliere canti popolari,
recita: «Lavori il cui contenuto non si eleva oltre una certa altezza possono
essere compresi da ragazzi tanto quanto da coloro che 'hanno so!erto molto'. In
tali lavori, le emozioni espresse sono più generiche e molto meno complesse,
sono emozioni che potrebbero essere appropriatamente espresse più o meno
con una parola: dolore, furore, gentilezza, eccetera. Dal momento che un
ragazzo ha già fatto esperienza di tali sentimenti, è in grado di provarli. Per
esempio, il Concerto per violino di Mendelssohn è uno di questi lavori. Ho
accompagnato molte volte questo lavoro quando avevo undici anni, e ricordo
assai bene come mi sentivo; in e!etti, molto meglio di adesso, perché al
presente lo trovo noioso...». Non era probabilmente la frase più galante da dire a
una giovane violinista, che sicuramente profondeva tutta l'anima suonando il
Concerto di Mendelssohn. In conclusione, verso metà settembre Bartók riceve da
Stefi un paio di lettere che mettono definitivamente in so"tta i suoi sogni
sentimentali: «Appena ho finito di leggere la tua lettera, ero quasi in lacrime - e
questo, come puoi immaginare, non è una cosa che mi accada ogni giorno». Più
avanti, l'amareggiato compositore aggiunge una frase significativa, che illustra
bene l'atteggiamento di Bartók anche per il resto della sua vita: «Dopo aver letto
la tua lettera, mi sono seduto al pianoforte - avevo il triste presentimento che
non troverò mai una consolazione nella vita tranne che nella musica».
Il dono d'addio per il suo bell'amore perduto, infatti, è un Concerto per violino,
che Bartók invia a Stefi nel febbraio 1908, forse nella vaga speranza di
riaccendere in lei la fiammella sentimentale. Anche questa volta andò male,
perché come tutta risposta Stefi decise di interrompere i rapporti con
l'ingombrante corteggiatore, pur conservando il manoscritto fino all'ultimo
giorno. Stefi Geyer divenne poi una violinista di primo piano, ammirata da
compositori come Alban Berg e Othmar Schoeck, ma non volle mai eseguire in
pubblico né rendere noto il Concerto scritto per lei da Bartók, anche quando
negli anni Trenta riallacciò in Svizzera i rapporti con il suo antico spasimante,
aiutandolo tra l'altro a espatriare negli Stati Uniti.
Solo dopo la sua morte, avvenuta a Zurigo nel 1956, il lavoro è stato pubblicato
e introdotto nel catalogo di Bartók come Primo Concerto. La prima esecuzione
avvenne il 30 maggio 1958 a Basilea, con Hans-Heinz Schneeberger come solista
e Paul Sacher come direttore. In e!etti, più che un vero Concerto, si tratta di una
fantasia concertante per violino e orchestra, divisa in due parti. L'intenzione di
Bartók era di ra"gurare musicalmente la personalità di Stefi, la donna amata nel
primo movimento e la violinista ammirata nel secondo. Avrebbe dovuto esserci
anche un terzo movimento, nel quale dipingere l'aspetto freddo e distante di
Stefi, ma come scrisse l'autore ne sarebbe venuta fuori una musica troppo
orribile. L'idea del ritratto è confermata, inoltre, dal fatto che il primo movimento
fu poi trasformato nel primo dei Két portré (Due ritratti, BB 48b), eseguiti a
Budapest nel 1909 con solista Imre Walbauer. Tuttavia, il Concerto non era
soltanto il ritratto di Stefi, ma anche un autoritratto dell'autore, e del travaglio
spirituale che stava attraversando in quella fase di transizione. La passione per
Stefi, infatti, si tinge fin dall'inizio di un colore tristaniano, con accenti di
dolorosa rinuncia all'amore e di piaga incurabile. Il tema stesso di Stefi, intonato
in apertura dal violino solo, è una triade di re maggiore alla quale si aggiunge un
do diesis, una settima maggiore irrisolta, che crea una tensione melodica
spalancata sulla prospettiva dell'infinito.
Oreste Bossini
Il materiale del primo tempo fu in seguito utilizzato da Bartok per il primo dei
suoi Due Ritratti.
Alberto Pironti
www.wikipedia.org
Storia
Il Primo Concerto per violino e orchestra fu terminato nel 1908, un anno
particolarmente felice per il compositore ungherese sotto il profilo creativo. Le
sue attenzioni verso la pedagogia lo avevano spinto in quell'epoca a scrivere una
serie di brani pianistici con il fine di colmare le lacune del repertorio per i
principianti; nacque così la prima serie di ventiquattro pezzi tratti da canzoni
popolari ungheresi e slovacche costituente il ciclo Per i bambini. Nel maggio di
quello stesso anno Bartók completò un’altra composizione pianistica, le 14
Bagatelle op.6, e inoltre terminò il suo primo quartetto per archi in la minore op.
7, salutato dal suo fraterno amico e collega Zoltán Kodály quale capolavoro
«come non ne erano stati più scritti dagli ultimi Quartetti di Beethoven».
L’ispirazione a comporre il suo Primo Concerto per violino Bartók la ebbe nel
periodo in cui durò la breve amicizia per la violinista Stefi Geyer (1888-1956), da
lui conosciuta allorché era professore di pianoforte all’Accademia musicale di
Budapest[2]. Rimasto a!ascinato dalla talentuosa diciannovenne ragazza, allieva
di Jenő Hubay (professore di violino anche del direttore d’orchestra Eugene
Ormandy)[3], Bartók iniziò a lavorare sulla partitura del Primo Concerto il 1º
luglio 1907, alcuni giorni dopo aver compiuto un viaggio a Jászberény, villaggio
situato a una sessantina di chilometri a est di Budapest.
Struttura
Allegro giocoso
91 1926
https://www.youtube.com/watch?v=sYAc8PROp9U
https://www.youtube.com/watch?v=97HvdYjOYrY
https://www.youtube.com/watch?v=koC1q_7DYBs
https://www.youtube.com/watch?v=q9Fq5lUGKv0
Allegro moderato
Andante
Allegro molto
Bartók è una personalità di spicco nel panorama della musica del Novecento e la
sua ricerca artistica ha una originalità che gli deriva dalla estrema mobilità e
variabilità tematica e dall'uso di accordi dissonanti di gusto espressionistico,
rielaborati dal materiale folclorico magiaro e balcanico, in funzione anche di
contestazione della tradizione "colta" europea. Egli stesso nella sua autobiografia
ha spiegato il significato e il valore dello studio e della scoperta "in forma
scientifica" della musica contadina della sua terra, che lo «portò decisamente
all'emancipazione dallo schematismo dei sistemi allora in uso, basati
esclusivamente sui modi maggiore e minore».
www.wikipedia.org
Storia
Il Primo Concerto per pianoforte e orchestra viene composto da Bartók nel 1926,
lo stesso anno in cui furono create altre importanti opere pianistiche quali la
Sonata, i Nove piccoli pezzi e la suite All’aria aperta; il genio del compositore
ungherese, osserva Massimo Mila, si estendeva a «tutta la gamma delle
possibilità concertistiche: dal grande pezzo di concerto solistico a quello con
orchestra, sino a composizioni più frammentarie, a cui attingere magari persino i
bis». La maggior parte di questi lavori lascia intravedere un momentaneo
accostamento di Bartók alla cosiddetta “tendenza neoclassica” che da Parigi
esercitava in quel periodo una notevole influenza sul mondo della musica. È il
caso, ad esempio, della Sonata per pianoforte che presenta alcune a"nità con la
Sonata composta due anni prima da Igor Stravinski, specie per quanto riguarda
la ferma scrittura contrappuntistica e modale. Nella stessa direzione della Sonata
si muove il Primo Concerto, nel quale Bartók accentua il carattere di percussione
con cui è brutalmente trattato il pianoforte; in questi lavori si avverte
l’accostamento del musicista ungherese a un sommo maestro del passato che
per lungo tempo gli era completamente estraneo: Johann Sebastian Bach. In
proposito, nella lettera che scrisse al critico Edwin von der Nüll nel 1928, Bartók
precisò: «Nella mia giovinezza il mio ideale di bellezza non era tanto la maniera
di Mozart o di Bach, quanto quella di Beethoven». E aggiungeva: «Negli ultimi
anni mi sono interessato molto anche a musica pre - bachiana, e credo che se ne
possano scorgere le tracce, per esempio, nel Concerto per pianoforte e nei Nove
piccoli pezzi». Tuttavia, pur applicandosi al culto della scrittura
contrappuntistica, Bartók non parla mai per bocca di Bach o di Händel, né egli si
piega (a di!erenza di altri grandi compositori suoi contemporanei come André
Bloch, Jaroslav Vogel, William Walton, Casella o Petrassi) all’imitazione di forme e
locuzioni antiche. Egli non scrive concerti grossi, né passacaglie, né partite e
nemmeno pensa a parafrasare i Concerti Brandeburghesi. Pur servendosi di un
linguaggio contrappuntistico, egli rimane un musicista moderno e non cessa mai
di parlare in prima persona.
Struttura
Allegro molto
Nel terzo movimento, che si distingue dal precedente per la trascinante
animazione ed il clima più vivace, Bartók ridà voce agli archi il cui ostinato fa da
sfondo all’enunciazione del primo tema. Le idee successive, analogamente al
primo movimento, non si configurano come temi veri e propri ma piuttosto come
varianti di un unico nucleo. Si possono ravvisare relazioni tra il materiale
tematico del primo e del terzo movimento, anche se non sistematicamente
costruite come nel successivo Secondo Concerto per pianoforte.
94b 1928
https://www.youtube.com/watch?v=VuMTISOHRKg
https://www.youtube.com/watch?v=dPZ_NFyn5Xw
Organico: violino solo, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2
fagotti, controfagotto, 2 corni, 2 trombe, trombone, basso tuba, cimbalom, archi
Prima esecuzione: Königsberg, 1 novembre 1929
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1929
Dedica: Josef Szigeti
Trascrizione della Rapsodia per violino e pianoforte n. 1; vedi BB 094a
96b 1928
https://www.youtube.com/watch?v=nDt2Pfg4TnQ
https://www.youtube.com/watch?v=0rn0iC60j-0
https://www.youtube.com/watch?v=Gv6SLY6t4rE
https://www.youtube.com/watch?v=5NMDM-UgXlA
https://www.youtube.com/watch?v=snMiVyQ1xVs
Allegro
Adagio, Presto, Adagio
Allegro molto
Bela Bartók è stato uno dei più grandi compositori-pianisti del nostro secolo, con
Prokof'ev e Rachmaninov, anzi, a giudizio di qualcuno che li aveva ascoltati tutti
e tre, egli era il più sicuro, il più schietto, il più essenziale, il più grande,
insomma. Nelle sue esecuzioni, anche in quelle dei classici del pianismo (e dei
poemi di Richard Strauss trascritti per pianoforte!) l'energia e la potenza
espressiva erano impressionanti senza essere a!atto virtuosistiche. Si
comprende, dunque, che tra i suoi lavori la musica pianistica abbia per noi oggi
un'indole speciale, si direbbe biografica, nel senso che ci è lecito immaginare
un'immediata ed esplicita rispondenza di attitudini e caratteri tra la creazione
oggettiva e il creatore, quasi che egli non l'avesse sentita in sé e scritta solo con
il suo genio creativo ma anche per il proprio talento interpretativo. Infatti egli era
un interprete eccelso della sua musica. Si sa, lo stesso vale per Liszt (Chopin è
isolato e unico), per Prokof'ev, per Rachmaninov, ma nel caso di Bartók la
concentrazione dei mezzi e l'asciutto rapporto tra contenuti emotivi ed
espressione ci suggeriscono, nella sua musica per pianoforte, una specie di
identità tra l'artista e il suono, tra l'invenzione e l'esecuzione, o addirittura tra
l'improvvisazione del grande pianista e l'elaborazione del musicista
(elaborazione che era accuratissima). Anche se poi questa musica non è quasi
mai ideata e scritta nei modi del pianismo tradizionale, non ha nulla di consueto
nel lessico e nella sintassi, e dunque non è musica per pianisti (Bartók, avendo
quelle capacità tecniche che aveva, non componeva al pianoforte), proprio per
questo il rapporto tra immaginazione e carattere dell'artista e la pagina creata ci
appare intrinseco e necessario.
Così è per il Secondo Concerto per pianoforte e orchestra (nel catalogo Szòllòsy
è il n. 95). Bartók lo compose dall'ottobre del 1930 al novembre del 1931,
dunque quattro anni dopo il Primo Concerto, nel quale si avverte già la
disposizione a un'invenzione, e quindi a uno stile, di natura meno concentrata e
meno aspra rispetto alle opere maggiori degli anni precedenti. Tuttavia quella
che è stata chiamata la svolta stilistica di Bartók non era ancora definitiva, perché
tra il Primo e il Secondo Concerto per pianoforte egli scrisse il Terzo e il Quarto
Quartetto, i suoi lavori di più ostico ascetismo, nei quali la posizione stilistica è
prossima a quella dell'avanguardia radicale. Ma è anche vero che alla fine degli
anni Venti l'approfondimento dei suoi temi esistenziali e artistici primari (un
misticismo delle forze naturali primordiali e notturne, l'idealizzazione di
un'arcaica innocenza, e per essa una dolorosa, drammatica immagine dell'uomo
civilizzato, la convinzione, infine, che la musica sia un ordine simbolico
complesso, imposto sul frastuono della disumanità, e che quindi essa debba
essere il legame di uno verso i molti) produsse in Bartók idee e invenzioni
linguistiche irriducibili alle tendenze principali del moderno, eversive (la
dodecafonia) o restauratoci (il neoclassicismo e la nuova oggettività) che fossero.
Il Secondo Concerto segna, appunto, un momento di transizione nelle idee e
nella tecnica compositiva di Bartók, e anche nella relazione con il Primo e con il
Terzo tiene dei caratteri dell'uno e dell'altro, cioè di un certo impulso selvaggio
del precedente e, nel tempo mediano, della sobrietà e del lirismo del seguente:
senza per questo indebolirsi mai in un impersonale eclettismo, anzi
presentandosi fin dalla prima battuta con i caratteri inconfondibili del suo genio.
E questo è tanto vero che esso è stato a lungo una delle sue composizioni più
popolari e più spesso eseguite e oggi, dopo qualche anno di oblio, torna nel
favore del pubblico.
«Nel mio Secondo Concerto ho deciso di fornire un lavoro diverso dal primo:
meno di"cile per l'orchestra e con un materiale tematico più attraente. La natura
abbastanza popolare e facile della maggior parte dei suoi motivi si spiega con
questa mia intenzione» (B. Bartók, Analisi del Secondo Concerto, ora in Essays, a
cura di B. Sucho!, London, Faber and Faber, 1976, p. 419). Non tutto nel
commento del suo autore pare corrisponda alla sostanza di questa musica (non
tutto infatti vi è propriamente attraente o facile), tuttavia l'idea generale è quella
di un vero Concerto, concepito per il piacere, e non poche soddisfacenti fatiche,
di tutti gli esecutori e per l'attenzione e la sorpresa degli ascoltatori. Ma gli
e!etti, gli estri, il virtuosismo e la fluidità degli episodi celano, né sempre
possono celare, una solida logica costruttiva, un fermo proposito architettonico,
attuato, e perfettamente, non per puro gusto formalistico ma come simbolismo
esistenziale, quello della circolarità delle energie della vita e di una pagana
concezione degli eventi umani destinati a tornare su se stessi. Lo schema
compositivo concentrico è ricorrente nella musica di Bartók, ma nel Secondo
Concerto un tale ordine si è fatto contenuto del pensiero musicale comparendo
subito già nella disposizione esteriore dei tempi: due Allegri che includono un
tempo lento, il quale ha in sé un breve nucleo di moto rapido. Questo episodio,
che sembra essere, ma non è, parentetico ed e!ettìstico nell'Adagio, è dunque il
perno attorno al quale ruota tutta la composizione, è un centro vigoroso e
pulsante in cui le forze delle idee precedenti si raccolgono per ripresentarsi
tutte, dall'ultima alla prima, in forma uguale e variata. La relazione drammatica
delle cinque parti fra loro è quella, fondamentale nel mondo poetico di Bartók,
tra vitalità positiva e cupezza, tra mondo diurno e mondo notturno, tra immagini
chiare e dinamiche e statiche fantasie visionarie.
Franco Serpa
Soprattutto nei primi anni della sua carriera internazionale Bartók praticò il
pianoforte sia come virtuoso sia come insegnante, avvalendosene spesso anche
nella sua opera creativa in funzione solistica. Il binomio compositore-pianista,
dopo il sensazionale esordio con il Primo Concerto per pianoforte e orchestra,
tenuto a battesimo a Francoforte sul Meno da Wilhelm Furtwängler nel 1927, si
ripeté pochi anni dopo con un Secondo Concerto, composto tra il 1930 e il 1931
ed eseguito per la prima volta il 23 gennaio 1933 sotto la bacchetta di Hans
Rosbaud, sempre a Francoforte e sempre con l'autore al pianoforte.
Opera della piena maturità artistica, esso indica un notevole mutamento di rotta
rispetto al radicalismo fortemente innovativo del lavoro precedente. Pur se vi
permangono alcuni tratti specifici, individuabili nel serrato impulso ritmico che
lo percorre da un capo all'altro, nella sicura e audace scrittura polifonica e
orchestrale, nella sensibilità timbrica di un pianismo ricco e fantasioso, il gesto
espressivo si fa più composto ed essenziale, traendo un ordine unitario
dall'equilibrio e dalla spiccata personalità espressiva degli elementi tematici.
Anche dal punto di vista formale il profilo si orienta su una maggiore chiarezza e
simmetria; la struttura in tre tempi si riverbera qui in un'ulteriore tripartizione
del tempo centrale, ma a termini invertiti: due sezioni in tempo "Adagio"
incorniciano al centro un "Presto", con funzioni di scherzo. Nei due tempi
esterni, in tempo "Allegro", la prospettiva tonale si stabilizza attorno all'asse di
sol, mentre la scrittura si arricchisce di frequenti episodi contrappuntistici.
Nel primo movimento l'orchestra è rappresentata dai soli fiati, legni ed ottoni,
unitamente alla percussione. L'inizio si presenta tanto agile e mosso quanto
denso e complesso. Vengono enunciati dapprima, sovrapposti, due temi: uno
ritmico di accordi, al pianoforte; l'altro di fanfara, quasi con carattere di motto,
agli ottoni, presto coinvolto in capriccioso sviluppo tra le varie sezioni dei fiati.
Dopo un serrato canone a cinque, condotto su un clamoroso sfondo pianistico di
veloci semicrome, viene introdotto dal clarinetto un nuovo tema, inarcato su una
linea fittamente ondulata, che presto svelerà un pretto carattere ungherese. Su
questi elementi e su altri più o meno palesemente da essi dedotti si svolge la
fitta e lucente trama di un procedere orchestrale pregnante e concettoso, al
quale ora consente, ora si contrappone l'ostinata, altisonante ritmica pianistica.
Alla fine, una cadenza del solista porta alla ripresa riassuntiva e semplificativa
delle idee svolte, e quindi speditamente alla conclusione franca e calorosa.
Gli archi, che avevano taciuto durante tutto il primo movimento, sono i
protagonisti dell' "Adagio", con calcolata preparazione del nuovo clima
espressivo. Su un tessuto sonoro vaporoso e freddo, questi svolgono una lunga
frase, come di corale; il pianoforte risponde sostenuto da qualche sommesso
rullo di timpano: l'alternanza dialogica dei due elementi si di!onde nella
atmosfera estatica e rarefatta di una evocazione spettrale, inquieta, che
improvvisamente si sospende. Attacca l'episodio centrale, "Presto", dominato dal
virtuosismo toccatistico del pianoforte: un lieve turbinio di note, commentato da
isolate notazioni orchestrali, in un ambiente sonoro fantastico, irreale. Pochi
arpeggi evanescenti congiungono questo episodio alla ripresa dell"`Adagio". Alla
fine, dopo un tragico grido del pianoforte, quasi urlo nella notte, sulla
persistenza ossessiva di un suono di timpano perduto nello sfondo dei bassi
orchestrali gli archi riprendono un'ultima volta il loro tema iniziale. Una breve,
dolcissima risposta del pianoforte, e il pezzo si chiude, trasfigurato.
Sergio Sablich
www,wikipedia.org
Storia
Nel 1930 Bartók intraprese la composizione del suo Secondo Concerto per
pianoforte e orchestra, secondo criteri guida alquanto di!erenti rispetto al primo
Concerto. In quel periodo, aveva portato a compimento la stesura della Cantata
profana ed era sempre più animato dal convincimento che la sua opera creatrice
dovesse costituire un vero e proprio messaggio all’umanità intera: «La mia idea
fondamentale è quella della fratellanza dei popoli. È per questo che non rifiuto
alcuna influenza, sia essa di origine slava, romena, araba o altro ancora, a
condizione che si tratti di una fonte pura, fresca e sana!». Iniziato durante i brevi
intervalli di quiete tra due tournée, il Secondo Concerto fu portato a compimento
al termine del 1931, durante un soggiorno estivo in Svizzera. Bartók profuse
particolare impegno nella scrittura della parte solistica che volle abbellire di
fioriture decorative, in guisa di ornamenti classici, ai fini di rinnovarne la forma
ed il carattere. Eseguito per la prima volta il 23 gennaio 1933 a Francoforte sul
Meno sotto la direzione di Hans Rosbaud con Bartók al pianoforte (il quale non si
sarebbe più recato in Germania per il resto della sua vita), il Concerto riscosse il
favore del pubblico (specie a Parigi, dove l’accoglienza fu assai calorosa) a
dispetto della critica. In un articolo pubblicato alcuni anni dopo, Bartók volle
precisare i criteri di base che lo avevano guidato nella stesura dell’opera: «Il mio
primo Concerto lo ritengo un lavoro riuscito, sebbene la sua scrittura riesca in
certa misura di"cile, forse anche molto di"cile, per l’orchestra e per il pubblico.
Perciò mi decisi, alcuni anni più tardi, nel 1930/31, a comporre il mio secondo
Concerto da a"ancare al Primo, con meno di"coltà per l’orchestra e anche più
piacevole tematicamente. Questo mio scopo spiega il carattere più popolare e
facile della maggior parte dei temi …». In verità, osserva Paolo Petazzi, tale
dichiarazione del compositore non va presa troppo alla lettera. Nel Secondo
Concerto non si ravvisano di certo concessioni compromissorie alla “facilità”, ma
è pur vero che il materiale tematico è qui più chiaramente individuabile, che il
clima espressivo è più mobile rispetto alla serrata tensione del Primo Concerto e
che la scrittura orchestrale o!re una maggior varietà di colori.
Struttura
Il Secondo Concerto per pianoforte presenta una mescolanza dei due principali
modelli formali: da una parte il vecchio principio del concerto classico, con la sua
alternanza tra tutti e solo (quest’ultimo, grazie all’impiego di altri strumenti
solisti, particolarmente le percussioni, assume talvolta l’aspetto di un vero e
proprio concertino tipico del Concerto grosso barocco) e dell’altra la tradizione
virtuosistica del XIX secolo (che solitamente viene indicata con il nome di
concerto sinfonico, intendendo con tale espressione un processo di sviluppo
unitario tra la parte solistica e l’orchestra). Una notevole rilevanza è conferita al
colore orchestrale, non soltanto nel senso della ricerca di particolari e!etti
coloristici ma anche sotto il profilo dell’elemento formale costitutivo. Ad
esempio, nel primo movimento compaiono assieme al pianoforte solo i fiati e le
percussioni, mentre nel secondo sono inizialmente gli archi con sordino e i
timpani ad accompagnare il solista, sostituiti da fiati, percussioni ed archi nella
sezione centrale (scherzo). È soltanto nel finale che tutti gli strumenti del
Concerto vengono a suonare insieme.
Allegro
Il primo tema del movimento iniziale, annunciato dal caldo timbro della tromba
(che lancia all’entrata una sorta di richiamo al pianoforte, col quale dialogherà in
totale assenza degli archi[1]) denuncia l’ispirazione dalla musica di Stravinski; il
profilo melodico delle prime note coincide infatti con l’inizio del tema intonato
dai corni all’attacco del finale de L'uccello di fuoco. Altre analogie si possono
trovare con Petruška, ma in ogni caso Bartók sa fare uso di questo materiale in
modo assolutamente personale. Nella costruzione della forma sonata, in cui la
ripresa presenta l’inversione dei temi dell’esposizione, Bartók si mostra capace
di profondere una grande varietà di invenzione e di atteggiamenti espressivi.
L’Adagio del secondo movimento, con il suo carattere di “musica della notte”,
ricorda l’Andante del Primo Concerto ma si basa su un clima timbrico a!atto
di!erente, con il tranquillo mormorio degli archi a mo’ di corale, al quale il
solista risponde con il sostegno di alcuni sommessi rulli dei timpani. Al primo
Adagio segue un nervoso e scattante Presto nel quale il solista a!ronta passaggi
di notevole e arduo virtuosismo. Dopo questa vivace parentesi, ritorna l’episodio
iniziale e l’Adagio finale svanisce quietamente.
Il movimento finale sembra riportare al clima del Primo Concerto con la vigorosa
energia barbarica che contrassegna il primo tema, il quale funge da ritornello.
Motivi melodici di derivazione slava animano questo movimento, nel quale
Giacomo Manzoni rinviene la vigorosa impostazione ritmica del più tipico Bartók;
si tratta anche in questo caso di un brano di straordinario virtuosismo che pone
la parola fine al Secondo Concerto in un clima di smagliante aggressività.
https://www.youtube.com/watch?v=Lr0Vg24lKQQ
https://www.youtube.com/watch?v=W5eypfL4iG0
https://www.youtube.com/watch?v=-HlqDkv1PzE
È alla fine del 1940 che Bela Bartók lascia l'Ungheria per avviarsi all'esilio
volontario negli Stati Uniti. «Questo viaggio è, in fin dei conti, un salto
nell'incertezza da una certezza insopportabile» scrive il 14 ottobre all'amica
svizzera Müller-Widmann. Non era solo il clima bellico a far allontanare il
compositore, ma ancor più la ferma avversione verso le dittature europee e il
loro fiancheggiamento da parte del governo ungherese. Due anni prima, dopo
l'Anschluss dell'Austria al Reich, Bartók si era rivolto in termini crudi alla
medesima amica: «Scrivere di questa catastrofe, io credo, è del tutto inutile. [...]
C'è il reale pericolo che anche l'Ungheria si arrenda a questo regime di ladri e
assassini. La domanda ora è: quando? come? E non è concepibile che io possa
ancora vivere, ancora lavorare (il che è lo stesso) in un paese di questo tipo. Io
avrei davvero l'obbligo di espatriare».
Questo dunque il clima degli ultimi anni ungheresi di Bartók, anni di intensa
produttività, che vedono nascere, fra l'altro, la Sonata per due pianoforti e
percussione, il Divertimento per orchestra d'archi, il Sesto Quartetto, nonché il
Secondo Concerto per violino e orchestra: un gruppo di lavori che sommano, con
grande maestria di scrittura, complessità costruttiva, ricerca timbrica, alte
ambizioni concettuali.
In particolare il Concerto per violino venne scritto dietro richiesta del violinista
ungherese Zoltan Szekely, che fu felicissimo del risultato. Iniziata nel 1937,
terminata il 31 dicembre 1938, la partitura venne eseguita per la prima volta ad
Amsterdam il 23 aprile 1939, dal dedicatario Szekely, sotto la direzione di
Willem Mengelberg.
Non era la prima volta che Bartók si applicava alla stesura di un Concerto per
violino; ma il Primo Concerto, creato negli anni di formazione, nel 1907-08, era
stato accantonato dall'autore, che aveva riutilizzato parte del suo materiale per il
primo dei Deux Portraits op.5; questa prima partitura doveva poi riemergere
postuma nel I960.
Se il Primo Concerto ha il suo interesse prioritario nel far luce sugli "juvenilia"
dell'autore, il Secondo Concerto è invece il grande capolavoro di Bartók
nell'ambito del violino. Nel volgere degli anni Trenta, d'altronde, tutti i principali
compositori europei si erano dedicati allo strumento ad arco: Stravinsky (1931),
Berg (1935), Prokof'ev (Secondo Concerto, 1935), Schönberg (1936). La partitura
di Bartók si inserisce dunque in questo aureo decennio del concerto violinistico
in una posizione di rilievo assoluto. Vi troviamo innanzitutto una scrittura
trascendentale per il solista, che tuttavia non indulge mai all'e!ettismo, e
piuttosto evita scoperti esibizionismi. Il violino rimane comunque sempre in
primo piano, nonostante la presenza di una orchestrazione estremamente
corposa, che, oltre al consueto organico strumentale, fa ricorso a arpa, celesta e
un nutrito gruppo di strumenti a percussione. Altro elemento di fascino è dato
dal fatto che all'interno della partitura possiamo riscontrare, nel contempo, in
una sintesi matura, tutte le riflessioni sulla forma e la materia sonora che il
compositore aveva condotto nei lustri precedenti.
Era nel 1927 che Bartók aveva applicato, per la prima volta, nel Terzo Quartetto
per archi una peculiare organizzazione architettonica che lo studioso Halsey
Stevens ha definito "forma ad arco". Questa forma venne reimpiegata poi in
lavori quali il Quarto e il Quinto Quartetto, il Secondo Concerto per pianoforte,
nonché appunto il Secondo Concerto per violino; e consiste nell'impiego del
medesimo materiale tematico nel primo e nel terzo movimento di una parura,
come punti di forza di un arco al centro del quale si colloca, una chiave di volta,
un movimento centrale. Ed è esattamente questala forma del Secondo Concerto
per violino, resa però più complessa dall'idea di variazione integrale che vi si
a!erma. Il movimento centrale, infatti, è costituito da un Tema con sei
variazioni; e poiché il finale riprende, variandoli, i motivi del tema iniziale, ecco
che nella partitura tutto è idealmente variazione.
Determinante era stato infatti per Bartók l'insieme delle indagini esperite nella
ricerca delle tradizioni contadine e folcloriche del suo paese perché l'analisi del
repertorio popolare lo condusse ad assimilare caratteri melodici, armonici e
ritmici del tutto estranei alle tradizioni della musica colta d'Occidente,
assimilandone i connotati fondamentali in maniera da rinnovare il proprio
linguaggio in una prospettiva che non coincideva né con la scelta neoclassica
stravinskiana, o francese, né con l'espressionismo della Seconda Scuola di
Vienna. Allo stesso tempo Bartók a!ermava anche una propria scelta etica e
politica, in correlazione con una solidarietà morale nei confronti dei valori che
egli riconosceva in una cultura, come quella popolare ungherese, di!erente
rispetto a quella della classe dominante che era condizionata dall'influenza della
cultura germanica.
In varie occasioni nella prima metà del 1937 il violinista e compositore magiaro
Zoltan Szekely, discepolo di Hubay, s'era rivolto a Bartók per chiedergli di
scrivere un Concerto per violino ma, a quanto riferiscono vari passi del suo
epistolario, Bartók si mostrava tutt'altro che incline al riguardo, o!rendosi invece
di stendere una vasta Suite in forma di variazioni. Szekely però ambiva a
cimentarsi in un Concerto vero e proprio e così, cedendo alle reiterate sue
istanze, Bartók si decise in proposito: iniziato in Svizzera, a Braunwald,
nell'agosto 1937, il Secondo Concerto fu completato e condotto a termine a
Budapest il 31 dicembre 1938.
Nell'ottobre del 1943 però Bartók potè ascoltare il suo Concerto per violino in
un'esecuzione a New York e nel gennaio del 1944, scrivendo a Joseph Szigeti, gli
partecipò con le seguenti parole le sue emozioni al riguardo: "Ciò che
maggiormente mi ha soddisfatto è stata la constatazione che la parte
dell'orchestra non abbisognava di alcuna revisione, non era necessario che
cambiassi neanche una nota o una qualsiasi indicazione espressiva. Certo, non
pochi critici mi hanno frainteso e c'è stato chi ha scritto che questo lavoro non
avrebbe surrogato i Concerti di Beethoven o di Mendelssohn o di Brahms.... Ma
chi mai potrebbe soltanto pensare un'idiozia simile? Chi osasse volere una cosa
del genere meriterebbe di essere ricoverato d'urgenza in manicomio..."
L'avvio del primo movimento, Allegro non troppo, è con sei battute introduttive
di arpe, pizzicato dei bassi e corno nella tonalità di si minore. L'intero tempo è
costruito secondo la forma sonata, con due idee motiviche principali e diversi
temi sussidiari. Il solista presenta il tema principale, una frase cantabile in tempo
rubato che attinge accenti di carattere eroico. Alcuni incisi motivici di transizione
conducono alla seconda idea principale, ove si fa notare una successione di
dodici suoni, il cui senso in un lavoro essenzialmente tonale è stato oggetto di
varie opinioni - Halsey Stevens, per esempio, ha accennato ad un probabile
intento satirico. A questo tema, proposto dal solista, seguono robusti interventi
dell'orchestra, sin quando il violino solista porta a termine l'esposizione con
un'ampia e serena cantilena, derivata dall'idea introduttiva. Una breve sezione di
sviluppo o!re all'ascolto un momento assai interessante quando si ode
l'inversione del primo tema principale sul trasparente, quasi diafano
accompagnamento di arpa, celesta ed archi. Nella ripresa ritornano in veste
di!erente gli spunti tematici dell'esposizione. Si perviene quindi alla cadenza,
che prende l'avvio con un passaggio in quarti di tono del violino solista e, dopo
un vasto svolgimento strumentale, si approda alla coda, permeata da un a!abile
e gradevole ritmo popolaresco.
Luigi Bellingardi
Il Finale è stato descritto da Menubin come «una specie di specchio: del primo
tempo»: ma uno specchio sensibilissimo capace di riflettere e di dar nuova forma
alla sensibilità del musicista. In un gioco d'una fantasia mirabile, continuamente
rinnovati in variazioni, inversioni, intrecci e colori sempre riuovi, tutti gli
elementi del primo tempo riappaiono in una pagina brillante e vivacissima che
conclude mirabilmente questo Concerto.
www.wikipedia.org
Storia
Struttura
Il primo movimento si apre con alcuni accordi dell’arpa, cui segue l’entrata del
solista che presenta il primo tema di una distesa cantabilità e di sapore
decisamente popolare (una copia manoscritta della parte del violino portava
originariamente in testa alla partitura l’indicazione Tempo di Verbunkos in luogo
dell’attuale Allegro non troppo), mentre nel secondo tema Bartók fa impiego di
una serie di dodici suoni che ha indotto taluni a un paragone con il Concerto alla
memoria di un angelo di Alban Berg; in realtà non vi è alcun riferimento alla
musica dodecafonica della Scuola di Vienna ed il Secondo Concerto, per la sua
base tonale, non può ragionevolmente essere imparentato ad un’opera come
quella di Berg la cui estetica è essenzialmente seriale[1]. Il secondo tema non
appare che alla battuta 73 ed è a"dato al solista, le cui sonorità avvolte in una
luce misteriosa sono interrotte da una brusca fanfara dell’orchestra che rianima
il dialogo. Dopo lo sviluppo alquanto articolato segue la riesposizione, quindi è
la volta della cadenza, di grande e!etto ed assai impegnativa per le doti di
virtuoso del solista. Dopo una citazione del tema introduttivo, conclude il
movimento la coda, contraddistinta dal vivace ritmo che richiama il frenetico brio
di una danza paesana.
Andante tranquillo
Allegro molto
121 1940
https://www.youtube.com/watch?v=j6_Enhaw1Wg
https://www.youtube.com/watch?v=qz5wDbV3gMg
https://www.youtube.com/watch?v=z2G-XSfuACU
https://www.youtube.com/watch?v=ZhcWtcbrEjE
https://www.youtube.com/watch?v=j6_Enhaw1Wg
Andante tranquillo
Allegro
Adagio
Allegro molto
Guida all’ascolto
Storia
Malgrado tutto, proprio in questo periodo così travagliato e di"cile per lui,
Bartók trovò l’ispirazione per comporre alcune delle sue opere più geniali e
originali che avrebbero lasciato una traccia profonda nella storia della musica
contemporanea: la Musica per archi, percussione e celesta e la Sonata per due
pianoforti e percussioni
Struttura
Animato dal desiderio di sperimentare nuove idee, Bartók aveva già provato a
realizzare insolite combinazioni sonore tra il pianoforte e le percussioni nel
Primo e Secondo Concerto per pianoforte. Nel Concerto per due pianoforti, la
volontà di sperimentare si manifesta in maniera ancora più accentuata, con gli
strumenti a percussione (xilofono, tre timpani, due tamburi, grancassa, piatti,
piatti sospesi, triangolo e tam-tam) che hanno una parte fondamentale nella
composizione in quanto, oltre a sottolineare le parti musicali dei due pianoforti,
diventano in taluni passaggi importanti strumenti solisti[2]. Non vi è indicazione
esplicita di tonalità, ma nelle mutevoli modalità formate da strutture
intervallistiche asimmetriche sono chiaramente presenti, seppure sfuggenti,
precisi centri tonali.
In questo lavoro sono evidenti alcuni tratti precipui dello stile di Bartók, come
l’uso di temi brevi, ritmi selvaggi ed energici e del contrappunto (specialmente
nel primo movimento), oltre alla suggestione di suoni notturni nel secondo
tempo (che si ritrova in molti tempi lenti di opere di Bartók) ed agli accenni a
melodie del folclore mitteleuropeo nel finale “a rondò”.
www,wikipedia.org
Storia
Malgrado tutto, proprio in questo periodo così travagliato e di"cile per lui,
Bartók trovò l’ispirazione per comporre alcune delle sue opere più geniali e
originali che avrebbero lasciato una traccia profonda nella storia della musica
contemporanea: la Musica per archi, percussione e celesta e la Sonata per due
pianoforti e percussioni.
Struttura
Animato dal desiderio di sperimentare nuove idee, Bartók aveva già provato a
realizzare insolite combinazioni sonore tra il pianoforte e le percussioni nel
Primo e Secondo Concerto per pianoforte. Nel Concerto per due pianoforti, la
volontà di sperimentare si manifesta in maniera ancora più accentuata, con gli
strumenti a percussione (xilofono, tre timpani, due tamburi, grancassa, piatti,
piatti sospesi, triangolo e tam-tam) che hanno una parte fondamentale nella
composizione in quanto, oltre a sottolineare le parti musicali dei due pianoforti,
diventano in taluni passaggi importanti strumenti solisti. Non vi è indicazione
esplicita di tonalità, ma nelle mutevoli modalità formate da strutture
intervallistiche asimmetriche sono chiaramente presenti, seppure sfuggenti,
precisi centri tonali.
In questo lavoro sono evidenti alcuni tratti precipui dello stile di Bartók, come
l’uso di temi brevi, ritmi selvaggi ed energici e del contrappunto (specialmente
nel primo movimento), oltre alla suggestione di suoni notturni nel secondo
tempo (che si ritrova in molti tempi lenti di opere di Bartók) ed agli accenni a
melodie del folclore mitteleuropeo nel finale “a rondò”.
127 1945
https://www.youtube.com/watch?v=rlJP4fAckpM
https://www.youtube.com/watch?v=lPW-jpGCZC4
https://www.youtube.com/watch?v=l7J7L53b8U0
https://www.youtube.com/watch?v=_Lr8Ams8rqo
Allegretto
Adagio religioso
Allegro vivace
Béla Bartók è stato uno dei massimi compositori-pianisti del Novecento, con
Rachmanino! e Prokof'ev, anzi a giudizio di qualcuno che li aveva ascoltati tutti
e tre egli era il più energico, il più incisivo, il più autorevole, insomma il più
grande. Nelle sue esecuzioni, non solo delle sue musiche ma anche dei classici
del pianismo (Liszt, naturalmente, ma anche Zarathustra di Strauss, in una sua
trascrizione per pianoforte!), il rigore tecnico e la concentrazione espressiva
erano impressionanti senza che mai dessero neppure un'idea di esibizione. Si
comprende, dunque, che tra i suoi lavori la musica pianistica abbia per noi oggi
un carattere speciale, si direbbe biografico, nel senso che ci è lecito pensare a
una naturale corrispondenza di attitudini e di forze tra il creatore e la sua
creazione oggettiva, quasi che egli l'avesse sentita in sé e subito scritta senza
mediazioni tecniche, cioè non solo con il suo genio creativo ma anche per la
propria attitudine interpretativa: e infatti Bartók era un interprete eccelso della
sua musica. Lo stesso vale, è logico, per tutti i grandi compositori-pianisti, per
Liszt (Chopin è isolato e unico), per Prokof'ev, per Rachmanino!, ma nel caso di
Bartók la severità dei mezzi e l'asciutto rapporto tra pensiero, contenuti emotivi,
assai ricchi, e linguaggio ci suggeriscono nella sua musica per pianoforte una
specie di identità tra l'artista e il suono, tra l'invenzione e l'esecuzione, o
addirittura tra l'improvvisazione del grande pianista e l'elaborazione del
musicista (elaborazione che poi nella realtà era accuratissima). Anche se questa
musica non è quasi mai ideata e scritta nei modi del pianismo tradizionale, ha
ben poco di consueto nel lessico e nella sintassi, e dunque non è musica per
pianisti (Bartók, avendo le capacità tecniche che aveva, non componeva al
pianoforte), proprio per questo, ripeto, il nesso tra l'immaginazione dell'artista,
la sua indole e la pagina creata ci appare intrinseco e necessario.
Cittadino di un paese 'intermedio', l'Ungheria, Bartók col suo genio accolse in sé,
elaborò, anzi conquistò due culture musicali con la loro quasi opposta natura,
l'europea occidentale, e in particolare la novecentesca di tradizioni colte e
individualistiche, e la danubiana-balcanica, spontanea, collettiva, rurale (che egli
studiò con metodo, interessandosi anche alle culture non europee). Furono in lui
due istinti e due 'passioni', la sperimentazione d'avanguardia e il primitivismo,
che crearono la sua personalità di artista, il suo credo poetico, il tipicissimo
linguaggio e l'inconfondibile modernità del suo stile, che quasi non conosce
segni di eclettismo. Insomma, il rigore, l'energia, l'originalità della musica ci
arrivano come la trasposizione sonora di un ritratto, morale ma anche fisico. E
questo è un carattere che appartiene tra i moderni soprattutto, direi, alla musica
di Bartók e specialmente alla pianistica.
Non desta stupore, tuttavia, che uno stile così personale sia poi maturato anche
sottraendosi allo sviluppo comune della musica radicale. E sebbene tra il 1910 e
il '35 circa egli abbia sperimentato ascetismi espressionistici (per esempio, il
Terzo Quartetto e il Quarto) e aggressività barbariche nelle sue composizioni più
avanzate, Bartók non fu mai un artista astratto. Anzi, col tempo e con i
sovvertimenti politici e sociali egli, antifascista convinto, si esiliò prima
dall'Ungheria, poi dall'Europa trasferendosi negli Stati Uniti: e nell'ultimo
decennio della sua vita la sua musica, per il bisogno, si direbbe, di parlare a tutti,
di contrastare la storia peggiore con l'arte più umana e di poter comunicare
anche in una società, l'americana, che non gli era familiare - la sua musica,
dunque, divenne più semplice, più cordiale (anche nel pessimismo), più lirica. Ne
è esempio significativo il Terzo Concerto per pianoforte e orchestra.
Nel passaggio tra uno e l'altro dei due Concerti precedenti, scritti molto prima,
nel 1927 e nel 19339, era già evidente la disposizione a una maggiore
semplicità. Nel Terzo Concerto manca del tutto il dinamismo turbolento e la
tensione di molti lavori del passato, l'architettura è chiara, rigorosa, quasi
'classica', sostenuta dalle simmetrie costruttive (e anche da celate relazioni
numeriche) che Bartók prediligeva. Perfino gli assetti tonali sono precisi e i loro
rapporti evidenti.
L'Adagio religioso, in forma tripartita ABA', è una delle pagine maggiori scritte da
Bartók, una meraviglia di quiete e raccoglimento. In pianissimo gli archi,
sostenuti dal clarinetto, cantano con grande respiro un tema polifonico, al quale
risponde, dopo un breve silenzio, il pianoforte con un corale di accordi solenni e
fermi che avanzano, sostano, avanzano con una calma che sembra non finire
mai. Ma la pace è drammaticamente turbata (B) da singulti, scintille e bagliori,
con un crescendo di angoscia che all'improvviso si estingue, misteriosamente
come era apparsa. Oboi, clarinetto, fagotti riprendono il corale (A") prima
suonato dal pianoforte, in una progressione maestosa a cui lentamente partecipa
tutta l'orchestra.
L'Allegro vivace è nella forma del Rondò, nel quale a un tema di estrema
eccitazione ritmica, tutto costituito com'è da note in sincope, si alterna un ilare
disegno fugato. La bizzarria di questo movimento sta nell'intervento solistico,
intenzionalmente bu!onesco, dei timpani.
Bartók avviò già gravemente ammalato la composizione del Concerto, che per
poche battute, le ultime quindici, non potè strumentare. Morì a New York il 26
settembre 1945 e il fedele amico e collaboratore Tibor Serly completò la poca
parte mancante.
Franco Serpa
Bartók compose il suo Terzo Concerto per pianoforte e orchestra durante l'estate
del 1945. A quel tempo era già gravemente malato e non poté completare la
partitura. Le ultime diciassette misure furono ricostruite e orchestrate dal suo
amico e allievo Tibor Serly, che rivide anche alcuni dettagli di scrittura, come
pure le indicazioni di tempo e di metronomo, che mancavano del tutto per il
terzo movimento. A quelli di Serly si aggiunsero alcuni ritocchi di Eugene
Ormandy, direttore della prima esecuzione avvenuta l'8 febbraio 1946 a
Filadelfia, con György Sándor al pianoforte. L'edizione della partitura, pubblicata
nel 1947 da Boosey & Hawkes, dà conto con estrema cura e precisione di questi
interventi. L'opera, a conti fatti, può dirsi pressoché compiuta dall'autore.
Il Terzo Concerto è, nei suoi lineamenti stilistici, un'opera tipica della tarda
maniera di Bartók. Una semplice chiarezza strutturale e perfino tonale
caratterizza questo lavoro. Esso si di!erenzia decisamente dai due Concerti per
pianoforte che lo avevano preceduto, del 1926 e del 1930-31, scritti per così
dire dal Bartók compositore in funzione dell'a!ermazione del Bartók pianista: in
essi infatti lo strumento solista, con la sua scrittura martellata e aggressiva, si
contrapponeva alla potente e compatta massa orchestrale in una sfida
drammatica, quasi eroica. Qui ogni residuo di sfida e di competizione è
concettualmente e idealmente superato: pur non escludendo contrasti, il
Concerto mira alla collaborazione armoniosa, alla distillazione dei conflitti, alla
serena pacatezza della contemplazione, alla ra"nata concertazione. In questo
tipo di pianismo più di!erenziato e controllato non è ininfluente il pensiero alla
destinataria del Concerto, la moglie di Bartók Ditta Pásztory.
Cuore del Concerto è l'Adagio religioso centrale, nel quale può essere visto un
riferimento ispirato al Heiliger Dankgesang ("preghiera di ringraziamento") del
Quartetto per archi op. 132 di Beethoven. Due assorte sezioni esterne,
imperniate su figure di stampo polifonico e su una melodia corale del pianoforte,
racchiudono un vasto episodio atematico percorso da fremiti metafisici,
timbricamente esemplare dell'atmosfera angosciosa di tante "musiche della
notte" bartókiane. L'estrema rarefazione e concentrazione della materia
sembrano quasi valori a sé stanti, ma non escludono interpretazioni più
suggestive o programmatiche, spirituali o laiche, come quella di Massimo Mila
nel suo libro einaudiano su Bartók: "Tale il senso della religiosità a cui è fatto
esplicito riferimento nell'indicazione del secondo tempo: una depurazione dei
grumi troppo spessi della materia vitale, una risoluzione dei nodi tumultuosi in
cui s'aggrappa la turbolenza dell'uomo sospinto dalla pienezza delle sue energie,
un posare stanco dall'a!anno del vivere, che se non è proprio assoluta certezza
di pace futura, è almeno distacco, acquisita convinzione della vanità di tanto
gioire, so!rire, sperare, lottare".
Sergio Sablich
128 1945
https://www.youtube.com/watch?v=QiIBUAprXBU
https://www.youtube.com/watch?v=yfpCCJqu4Ts
https://www.youtube.com/watch?v=DiBX0MUY3-I
https://www.youtube.com/watch?v=URoGryx2Fkc
Moderato
Adagio religioso
Allegro vivace
Poco prima della morte, avvenuta il 26 settembre 1945, Bartók così scriveva al
violinista e violista scozzese William Primrose, al quale è dedicata la partitura
oggi in programma: «Sono molto contento di dirvi che il "Concerto per viola" è
pronto in abbozzo; non resta più che da scrivere la partitura, cioè un lavoro
puramente meccanico, per così dire. Se tutto va bene, mi sbrigherò in cinque o
sei settimane, ossia potrò mandarvi una copia della partitura d'orchestra nella
seconda metà di ottobre, e poche settimane dopo una copia (o più copie, se
volete) dello spartito per pianoforte. Molti interessanti problemi mi si sono
presentati durante la composizione di questo lavoro. L'orchestrazione sarà
piuttosto trasparente, più trasparente che nel "Concerto per violino". Anche il
carattere cupo, più virile del vostro strumento ha esercitato una certa influenza
sul carattere generale del lavoro. La nota più alta che uso è il "la", ma sfrutto
piuttosto frequentemente i registri bassi. Il lavoro è concepito in stile
virtuosistico...». Purtroppo la leucemia di lì a poco mise fine alla tormentata vita
dell'artista che non potè portare a termine e strumentare questo concerto: il
compito di orchestrarlo fu assolto dal pianista ungherese Tibor Serly, il più
fedele e devoto allievo di Bartók. Lo stesso Serly si preoccupò, sulla scorta degli
abbozzi del compositore, di completare le ultime 17 battute del Terzo Concerto
per pianoforte e orchestra, con il quale questo Concerto per viola presenta molti
punti di contatto sia spirituale che estetico, soprattutto per quel senso di sereno
e rassegnato distacco dalla vita e di depurazione da tutto ciò che di drammatico,
di convulso, di tumultuoso e di impetuosamente vitale aveva caratterizzato le
opere del periodo precedente, in un lungo arco di tempo che va dall'Allegro
barbaro del 1911 al Sesto Quartetto per archi del 1939. Infatti in ambedue i
concerti l'arte di Bartók raggiunge un clima di pacata e pensosa contemplazione
e acquista una sua chiarezza strutturale e tonale che la rende ricca di vibrazioni
umane, pur nel contesto di un discorso più asciutto e stilizzato che alcuni
studiosi paragonano a quello degli ultimi quartetti beethoveniani.
A proposito di queste due composizioni anche Massimo Mila riconosce che «si
estingue l'elemento demoniaco che con tanta irruenza aveva rumoreggiato un
tempo nella sua musica, e sempre più vengono in luce valori di libera religiosità,
con una caratteristica frequenza d'armonizzazioni in stile di corale. In ognuno
dei due "adagio religioso" che stanno al centro dei due concerti si trova un
episodio agitato, che nella pace serena della stanchezza senile si colloca come
una spettrale rievocazione dei fremiti, delle agitazioni e dei tumulti della vita
intensa, pulsanti un tempo nei grandi quartetti e nella Musica per archi». Non c'è
dubbio che l'Adagio religioso con il suo severo discorso diatonico è il momento
più alto e più compiutamente espressivo di questo Concerto per viola e orchestra
ed è rivelatore dell'aspetto più significativo e riassuntivo dell'anima di Bartók
tutta protesa a difendere la sua individualità e integrità morale e artistica, pur
partecipando, è vero, a tutte le tendenze e a tutti i tentativi della musica
moderna, senza cedere però né al neoclassicismo tonale né all'espressionismo
dodecafonico.
Alcuni anni fa, poco prima della sua scomparsa, György Lukacs in uno scritto
dedicato a Bartók notava che per il compositore ungherese «alla base della
questione centrale del rinnovamento del mondo (e dunque della musica)», sta «la
contraddizione inconciliabile tra il contadino che vive una vita naturale e l'uomo
moderno deformato e alienato la quale gli fornisce il punto di partenza per la
ricerca di una soluzione del problema della realizzazione di una vita 'umanizzata'
dell'uomo di oggi».
Se è vero dunque, come è stato più volte a!ermato e come lo stesso Lukacs
riconferma, che alla base dell'umanesimo bartokiano c'è l'ispirazione del mondo
popolare e contadino della sua terra, reinventata però in un linguaggio
assolutamente originale, è anche vero che negli ultimi lavori del compositore,
corrispondenti agli anni dell'esilio americano, questo riferimento appare sempre
più mediato attraverso un linguaggio che tende ad evadere dalla tensione
drammatica caratteristica dei suoi grandi capolavori precedenti (quali la «Cantata
profana», il «Quinto Quartetto», la «Musica per strumenti a corda, celesta e
percussione», la «Sonata per due pianoforti e percussione») per manifestarsi
nelle forme di un accentuato lirismo.
A contatto con una società alienante come quella americana gli atteggiamenti
possibili per un artista erano infatti sostanzialmente quello dell'integrazione o
quello dell'isolamento. Molti furono costretti dalle necessità economiche o dal
tipo di attività esercitata a scegliere, in maggiore o minor misura, il primo: si
pensi alla fine tristissima, dal punto di vista artistico, di un compositore geniale
come Kurt Weill o a quella dei grandi cineasti dell'espressionismo tedesco. Artisti
di una coerenza morale che non è retorico definire eroica, quali Bartók e
Schönberg, scelsero consapevolmente la strada dell'isolamento con le sue
conseguenze di incomprensione, e spesso, anche di miseria materiale.
In una disperata lettera indirizzata ad un amico nel 1942, Bartók scriveva infatti:
«La mia carriera di compositore è praticamente finita; continua il boicottaggio
quasi totale delle mie opere da parte delle orchestre importanti; non si eseguono
né le mie opere vecchie, né le nuove, è una vergogna, ma non per me
evidentemente».
Quest'ultimo, gli era stato richiesto nel 1945, pochi mesi prima della morte, dal
grande violista William Primrose e Bartók non riuscì ad andare oltre la
composizione di alcuni temi e l'indicazione di un disegno generale dell'opera che
fu poi portata a termine, seguendo scrupolosamente le indicazioni anche verbali
ricevute dal maestro, dal suo amico Tibor Serly.
Marco Sperenzi
www.wikipedia.org
Storia
Nel gennaio 1945, cinque anni dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti per
sottrarsi all’orrore della guerra e della barbarie nazista, Béla Bartók stava ancora
lavorando al suo Terzo concerto per pianoforte quando ricevette la richiesta da
parte del violista scozzese William Primrose di scrivere un concerto per il suo
strumento. Nonostante la salute già alquanto malferma, il compositore aderì di
buon grado alla richiesta del committente e incominciò a mettere sul
pentagramma i primi abbozzi della futura opera. Probabilmente era a!ascinato
dall’idea di comporre un’opera impegnativa per uno strumento come la viola
che, salvo pochi grandi compositori contemporanei come Paul Hindemith e
William Walton, non era preso molto in considerazione, al punto da indurre lo
stesso Primrose a definirlo come “uno strumento in pensione”. Poco tempo dopo
aver accolto la richiesta, Bartók si procurò la partitura de l’Aroldo in Italia di
Hector Berlioz; forse era sua intenzione prendere a modello l’opera del grande
musicista francese al fine di scrivere una composizione che si fosse discostata
alquanto dal classico concerto per strumento solista e orchestra. Nel mese di
settembre, Bartók scrisse a Primrose per comunicargli che il Concerto per viola
era stato già schizzato: «Resta solo da scrivere la partitura orchestrale
(l’orchestrazione sarà piuttosto trasparente), la qual cosa non è più che un lavoro
meccanico […] Se non succede niente, la finirò in cinque o sei settimane e potrò
allora inviarvi una copia di questa partitura nella seconda quindicina di ottobre e,
qualche settimana più tardi una o più copie della riduzione per pianoforte».
Nel manoscritto originale di Bartók, la parte della viola solista è scritta dal
principio alla fine dal compositore medesimo; là dove Serly ha dovuto fare quasi
tutto da solo è nell’orchestrazione; è curioso, tuttavia, che in alcune parti dove il
compositore aveva lasciato talune annotazioni Serly non se ne sia servito; ad
esempio nella parte introduttiva del concerto da parte della viola si legge
l’annotazione timp.; benché questa parte possa essere facilmente eseguita su
timpani in tempo moderato, Serly ha inserito al loro posto il pizzicato di
violoncelli e contrabbassi.
Struttura
Secondo Giacomo Manzoni, il Concerto per viola «rimane in ogni senso una
pagina degna di Bartók, che per distensione lirica e nell’insieme del linguaggio
armonico e melodico può essere paragonata al Terzo concerto per pianoforte».
Musica da camera
Pianoforte solo
https://www.youtube.com/watch?
v=__mcRwhUlY0&list=OLAK5uy_n4cAwWul9nue87FeeSJQsoOF5dkqUdXwM
2/1 1894
Organico: pianoforte
2/2 1894
Organico: pianoforte
3 1895
Fantasia in la minore
Organico: pianoforte
4 1895
Organico: pianoforte
5 1895
Capriccio in si minore
Organico: pianoforte
8 1897
Tre Pezzi
Organico: pianoforte
11 1897
Organico: pianoforte
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1956
14 1898
Intermezzo in do maggiore
Adagio in sol minore
Scherzo in mi maggiore
Organico: pianoforte
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1956 (solo i primi 2)
16 1898
Scherzo in si minore
Organico: pianoforte
21 1900
Organico: pianoforte
Dedica: signora F. F.
22 1900 - 1901
Organico: pianoforte
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1965
23 1901
Tempo di minuetto
Organico: pianoforte
27 1903
https://www.youtube.com/watch?v=AtLvLEX8ZT0
Organico: pianoforte
Composizione: gennaio - ottobre 1903
Edizione: F. Bárd et Frère, Budapest, 1904
36a 1904
Rapsodia
https://www.youtube.com/watch?v=gCenn3ASdV0
Organico: pianoforte
Composizione: novembre 1904
Prima esecuzione: Pozsony, 4 novembre 1906
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1923
Dedica: Emma Gruber
Trascritta anche per pianoforte e orchestra BB 36b e per due pianoforti
38 1905 - 1907
https://www.youtube.com/watch?v=fMqw1nfMa1s
Organico: pianoforte
Edizione: Editio Musica, Budapest, 1965
Libero adattamento del n. 2 dai Canti popolari ungheresi BB 37 e del n. 1 dai
Quattro Canti BB 24
45b 1907
https://www.youtube.com/watch?v=PnSWq_1quYg
https://www.youtube.com/watch?v=7mdlJa2GnCg
Rubato
L'istesso tempo
Poco vivo
Organico: pianoforte
Edizione: Károly Rozsnyai, Budapest, 1910
Rielaborazione di Gyergyóból BB 45a
49 1908 - 1909
Organico: pianoforte
Grave
Molto adagio, sempre rubato
50 1908
https://youtu.be/asE80lrcwTQ?list=PLBS4VpTglwoARUmN2JTt_iadLpgPu2qCp
https://www.youtube.com/watch?v=ylyYwmCcRoU
https://youtu.be/0HPlvQomqCo
Molto sostenuto
Allegro giocoso
Andante
Mikor gulyásbojtár voltam (Quand'ero un giovane pastore) - Grave
Ej' po pred naš, po pred naš (Ah!, con noi, con noi) - Vivo
Lento
Allegretto molto capriccioso
Andante sostenuto
Allegretto grazioso
Allegro
Allegretto molto rubato
Rubato
Elle est morte - Lento funebre
Ma mie qui danse - Presto
Organico: pianoforte
Composizione: maggio 1908
Prima esecuzione: Baden, 29 giugno 1908
Edizione: Károly Rozsnyai, Budapest, 1908
Il n. 14 arrangiato per orchestra costituisce il n. 2 dei Due ritratti BB 18b
Due delle Bagatelle (le nn. 5 e 6) adottano, in modi opposti, due canti popolari:
in "Ero un giovane pastore" la melodia viene a"data alla voce superiore e
armonizzata con soluzioni variate, assai personali in alcuni casi, poiché l'accordo
con la settima (tradizionalmente una dissonanza) viene considerato una
consonanza a tutti gli e!etti. In tal modo, per creare un moto di tensione verso
la cadenza armonica, Bartók deve reinventare nuovi equilibri nei collegamenti tra
gli accordi. In "Ahi, con noi" (canto slovacco) la melodia viene fatta viaggiare
sotto un compulsivo susseguirsi di accordi veloci e staccati. Gli ultimi due brani
recano inoltre un sottotitolo, legato autobiograficamente alla relazione con la
violinista Ste" Geyer. Il n. 13 non fa però riferimento ad una morte reale, ma al
troncamento della relazione voluto dalla ragazza: una circostanza sublimata in
una intensa quanto mesta elegia, resa funebre dallo sconsolato ritmo giambico
dell'accompagnamento. L'ultima Bagatella fu invece rielaborata e orchestrata
come secondo (Grotesque) dei Due ritratti per violino e orchestra op. 5.
51 1908
https://www.youtube.com/watch?v=lY4FrQQWuO8
https://www.youtube.com/watch?
v=y__cgwxK9K0&list=PLSjhBNtWU2oj7bp10iDDVz59dQWIp7-HT
Dedica
Paraszti nóta (Canzone rustica) - Allegro moderato
Lassú vergődés (Delusione) - Lento
Tóth legények tánca (Danza di ragazzi slovacchi) - Allegro
Sostenuto
Este a székelyeknél (Una sera con quelli di Székely) - Vivo, non rubato
Magyar népdal (Canto popolare ungherese) - Allegretto
Hajnal (Aurora) - Molto andante
Azt mondják, nem adnak (Canzone popolare slovacca) - Poco andante
Ujjgyakorlat (Esercizio per le cinque dita) - Moderato
Medvetánc (Danza dell'orso) - Allegro vivace
Organico: pianoforte
Prima esecuzione: Budapest, 15 novembre 1909
Edizione: Károly Rozsnyai, Budapest, 1908
I numeri 5 e 10 trascritti per orchestra costituiscono i primi due movimenti degli
Schizzi ungheresi BB 103
53 1908 - 1909
https://www.youtube.com/watch?v=MR8ljgVVamI
https://www.youtube.com/watch?v=d8HGOJlycqk&t=26s
https://www.youtube.com/watch?v=UOMgmm9chhY
Volume I
Children at play
Children's Song
Quasi adagio
Pillow Dance
Play
Study for the Left Hand
Play Song
Children's Game
Song
Children's Dance
Lento
Allegro
Ballad
Allegretto
Allegro moderato
Old Hungarian Tune
Round Dance
Soldier's Song
Allegretto
Drinking Song
Allegro robusto
Alegretto
Dance Song
Andante sostenuto
Parlando
Moderato
Jest
Choral
Pentatonic Tune
Jeering Song
Andante tranquillo
Andante
Allegro non troppo
Allegretto
Con moto
Drunkard's Song
Swine-Herd's Song
Winter Solstice Song
Allegro moderato
Swine-Herd's Dance
Volume II
Allegro
Andante
Allegretto
Wedding Song
Variations
Round Dance I
Sorrow
Dance
Round Dance II
Funeral Song
Lento
Andante rubato
Allegro
Moderato
Bagpipe I
Lament
Andante
Teasing Song
Romance
Game of Tag
Pleasantry
Revelry
Andante tranquillo
Andante
Scherzando
Peasant's Flute
Pleasantry II
Andante, molto rubato
Canon
Bagpipe II
The Highway Robber
Pesante
Andante tranquillo
Farewell
Ballad
Rhapsody
Rhapsody
Dirge
Mourning Song
Organico: pianoforte
Prima esecuzione: forse Kecskemét, 1 febbraio 1913
Edizione: Károly Rozsnyai, Budapest, 1910 - 1912; 2a versione Boosey &
Hawkes, Londra - New York, 1947
La prima versione è composta di 85 brani in 4 volumi mentre la seconda ne
comprende 79 in 2 volumi. Qui riportiamo l'elenco dei brani della seconda
versione.
Carlo Cavalletti
54 1908 - 1910
https://www.youtube.com/watch?v=Yuy9V-vpXNI
Leányi arckép (Ritratto di ragazza)
Hinta palinta (L'altalena)
Lento
Non troppo lento
Román népdal (Canto popolare romeno)
Oláhos (Nello stile slovacco)
Poco lento
Organico: pianoforte
Edizione: Károly Rozsnyai, Budapest, 1912
Dedica: il n. 1 a Márta Bartók, il n. 3 a Emma e Zoltán Kodály
55 1908 - 1911
https://www.youtube.com/watch?v=QWkXuN5_sik
https://www.youtube.com/watch?v=vj6yBfJRER4
Organico: pianoforte
Prima esecuzione: Budapest, 12 novembre 1921
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1912
Dedica: Marta Bartók
Il n. 2 trascritto per orchestra costituisce il n. 4 delle Scene ungheresi BB 103
56 1909 - 1910
https://www.youtube.com/watch?v=qQ0yH7gIfDs
Allegro vivace
Poco allegro
Organico: pianoforte
Composizione: 1909 - 2 Marzo 1910
Prima esecuzione: Parigi, 12 Marzo 1910 (solo la prima)
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1910
La prima trascritta per orchestra nel 1911, vedi BB 61
58 1910
https://www.youtube.com/watch?v=Kk18FUdU7d4
Adagio
Andante
Poco lento
Assai andante
Organico: pianoforte
Prima esecuzione: Budapest, 17 ottobre 1917
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1912
La Nenia n. 2 è orchestrata con il n. 3 negli Schizzi ungheresi, BB 103
63 1911
Allegro barbaro
https://youtu.be/FpoTxL-uOco
https://www.youtube.com/watch?v=AwCP2US7BaU
https://www.youtube.com/watch?v=LQ1RfxNLZd0
https://www.youtube.com/watch?v=VK-PAf1fwz8
https://www.youtube.com/watch?v=Isze3GAKfmU+
Tempo giusto
Organico: pianoforte
Prima esecuzione: Kecskemét, 1 febbraio 1913
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1918
Il concerto termina con l'Allegro barbaro, il più celebre brano pianistico di Bela
Bartók brano la cui popolarità è arrivato da tempo al punto da renderlo quasi
sospetto di banalità agli occhi di quei critici i quali non sembrano di poter
concepire che anche un lavoro tutt'altro che banale possa raggiungere una
di!usione universale. Quando Bartók scrisse di getto l'Allegro barbaro tra la fine
del 1910 e l'inizio del 1911 e lo fece ascoltare in pubblico nel corso di
quest'ultimo anno, il brano suscitò uno scandalo memorabile e i critici gridarono
al «grande talento smarritosi... nel dedalo di tendenze morbose» e caduto in
preda al «disordine» e addirittura alla «pazzia». In quel momento, quando cioè la
barbara violenza della Sagra strawinskyana non si era ancora scatenata, l'Allegro
barbaro di Bartók era indiscutibilmente un brano di una «barbarie» fonica senza
precedenti. In esso Bartók aveva ormai completamente assimilato gli autoctoni
elementi della musica popolare ungherese, aveva assimilato e superato altresì
tanto la scrittura pianistica di derivazione lisztiana, quanto l'impressionistico
stemperarsi delle armonie debussyane. La martellante meccanica pianistica e lo
scatenarsi di primordiali trame ritmiche si pongono in primo piano ingenerando
insieme quel senso di modernità, da epoca delle macchine, e di arcaica epopea.
Di qua i riferimenti immaginifici alle orde di Attila o di Genghis Khan che si sono
spesso letti a proposito di questo brano per il cui intendimento basterebbe
indicare lo sprigionamento di una forza vitale autentica e di formidabile potenza.
Roman Vlad
66 1913
https://www.youtube.com/watch?v=ckZS_K9DAQw
https://www.youtube.com/watch?v=zw1i56KIjvs
https://www.youtube.com/watch?v=vRwwGvcmgig
https://www.youtube.com/watch?v=-dzsmBIz_xo
https://www.youtube.com/watch?v=a0KV19GzATI
https://www.youtube.com/watch?v=SVgeYUi9efk
https://www.youtube.com/watch?v=utXlWT6Dh3Q
https://www.youtube.com/watch?v=ph_nZFEsmns
https://www.youtube.com/watch?v=JonghpDYAlE
https://www.youtube.com/watch?v=905BDRJGjag
https://www.youtube.com/watch?v=YVCHofXZwVY
https://www.youtube.com/watch?v=4KP7RTeY4Gg
https://www.youtube.com/watch?v=4KP7RTeY4Gg
https://www.youtube.com/watch?v=5asjLkIgNhg
https://www.youtube.com/watch?v=O5PsrzTZpeY
https://www.youtube.com/watch?v=yW1rHj1Lb7g
https://www.youtube.com/watch?v=dShUUlOlon8
https://www.youtube.com/watch?v=RRqwxHAv-AA
Organico: pianoforte
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1913 e 1929
67 1915
https://www.youtube.com/watch?v=oUJQhKAHJ4o
68 1915
https://www.youtube.com/watch?v=OoaKYJrXoVw
https://www.youtube.com/watch?v=cW4AHmTzyMo
Organico: pianoforte
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1918
Dedica: prof. Ion Busitia
Vedi al BB 76 la trascrizione per orchestra
69 1915
https://www.youtube.com/watch?v=HhKPILHIjjA
https://www.youtube.com/watch?v=EulCuekV0c0
Organico: pianoforte
Prima esecuzione: forse Berlino, 8 marzo 1920
Edizione: Rózsavőlgyi & Társa, Budapest, 1919
Trascritte per orchestra nel 1931 con il titolo Danze transilvane, BB 102b
70 1916
https://www.youtube.com/watch?v=dEde5ZWD1AQ
https://www.youtube.com/watch?v=KIFt-c_ByVQ
https://www.youtube.com/watch?v=f-Qm76JtY1o
https://www.youtube.com/watch?v=j4Uw2lPBI3M
Allegretto
Scherzo
Allegro molto
Sostenuto
Organico: pianoforte
Composizione: febbraio 1916
Prima esecuzione: Budapest, 21 aprile 1919
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1918
L'influsso del canto contadino ungherese si avverte nella Suite op. 14 e per di più
nel terzo movimento l'autore fa uso di temi arabi raccolti nell'oasi di Biskra e la
cui ostinazione ritmica ripete quella già avvertita nell'Allegro barbaro per
pianoforte del 1911. Questo terzo movimento è caratterizzato da una vivace
concitazione agogica e da una ridda vertiginosa di suoni che richiamano alla
mente il primo Stravinsky; negli altri tre tempi pianistici, che si susseguono
senza soluzione di continuità e secondo una traiettoria ascensionale e non
dialettica, si notano meglio le figurazioni armoniche derivate dallo studio del
canto popolare, con la mescolanza e contemporaneità di modo maggiore e
minore, con la frequente alterazione di tonalità e l'uso della dissonanza come
stimolo all'e!etto dinamico. Nel Sostenuto finale l'atmosfera diventa triste e
assorta per un ripiegamento interiore dell' anima, staticamente rappreso in una
serie di accordi gravi e stridenti.
Ennio Melchiorre
Comunque siano andate le cose, questo secondo premio alle spalle di uno dei
maggiori pianisti del Novecento in quello che allora era il più importante
concorso pianistico del mondo dà la dimensione del valore di Bela Bartók come
pianista. In e!etti il ruolo fondamentale occupato dalla sua produzione musicale
nella storia della musica del nostro secolo fa inevitabilmente passare in secondo
piano altri aspetti della sua ricca e multiforme attività, non meno importanti e
ricchi di frutti. Oltre ad essere stato, come si è detto, un eccellente pianaista,
Bartók ha svolto un'infaticabile e fondamentale attività di etnomusicologo,
concretizzatasi in un'infinità di ricerche sul campo in Ungheria e in altre zone
d'Europa e in un gran numero di scritti teorici ancor oggi di granade interesse; e
infine, a partire dal 1907, ha insegnato per quasi trent'anni pianoforte
all'Accademia di Musica di Budapest. L'influenza di questi tre aspetti - le capacità
di strumentista, le ricerche sul canto popolare, l'attività didattica - non manca
ovviamente di farsi sentire nella sua produzione musicale.
Sono i primi due aspetti a emergere con partcolare evidenza nella Suite op. 14,
composta a Ràkoskeresztur nel febbraio del 1916, pubblicata dalla Universal nel
1918 ed eseguita per la prima volta dall'autore a Budapest il 21 aprile del 1919,
nello stesso concerto in cui furono presentati anche i Tre Studi op. 18. La Suite si
apre con un Allegretto sereno e giocoso, non privo di una certa ironia, dal sapore
ingenuamente popolareggiante. In questo caso l'etnomusicologo Bartók non
ricorre a citazioni o imprestiti di melodie e ritmi contadini, ma raggiunge uno dei
suoi esiti più felici nel conseguimento di quel cosidetto folklore «immaginario»,
perseguito creando melodie e ritmi assolutamente originali ma interamente
sostanziati dallo spirito del patrimonio folklorico in linea con lo scopo che si
prefiggeva: «portare nella musica colta il tipico carattere della musica contadina
(che è assolutamente impossibile esprimere con le parole): non basta insomma
immettervi dei tempi o l'imitazione dei temi contadini, perché in tal modo si
finirebbe col fare un banale travestimento del materiale popolare, ma bisogna
trasferire in essa l'atmosfera della musica creata dai contadini».
Carlo Cavalletti
La composizione della Suite op. 14 risale al 1916: per Bartók stava per
concludersi il periodo della prima maturità, quello che aveva preso le mosse fra il
1905 e il 1906, sull'onda di due fondamentali esperienze, la conoscenza
dell'Impressionismo francese e la scoperta del folklore magiaro e rumeno,
ambedue compiute per il tramite e l'ispirazione di Zoltàn Kodàly. In modo
dapprima abbastanza incerto e incoerente, questi due interessi avevano
impresso una drastica svolta alla sua evoluzione stilistica, orientandola, dopo le
prove giovanili ancora legate a un epigonismo lisztiano, verso la ricerca di un
linguaggio più aggiornato, e al tempo stesso capace di originalità nei confronti
anche delle correnti europee più avanzate.
La Suite op. 14 costituì uno dei risultati più importanti conseguiti da Bartók nel
periodo dell'Impressionismo e del canto popolare: uno dei più importanti anche
perché in essa già si avvertono i segni di una prossima uscita da questa fase di
ricerca: dell'Impressionismo non restano qui che le tracce di una particolare
sensiiblità timbrica, certo minoritarie rispetto alla massiccia presenza di
dimensioni tipiche di tutto il pianismo bartókiano (violenze foniche, martellare di
ostinati, soluzioni «percussive») e comunque più vicine al Ravel visionario di
Gaspara de la nuit che non alle magie sonore dei Preludi debussyani; e il dato
popolare, pur ampiamente utilizzato, è del tutto depurato di tentazioni
folkloriche in senso esteriore, per farsi base di un linguaggio a!atto inedito.
Nell'Allegretto iniziale, i temi si ispirano al folklore rumeno (si tratta però di
motivi originali di Bartók), e la ritmica sembra qua e là stilizzare una danza
popolaresca. Ma basta l'impianto armonico, per lo più bitonale, a togliere ogni
sospetto di banale compiacimento coloristico; e le brusche cesure che
interrompono, verso la conclusione, il moto del discorso, contribuiscono a
determinare la fisionomia di netta modernità di questo primo brano. Nello
Scherzo il segno si fa ancora più acre. In esso compare addirittura la serie
dodecafonica: niente a che vedere con la scuola di Vienna, naturalmente; ma ciò
indica chiaramente in quale direzione si stesse movendo l'arte di Bartók via via
che essa proseguiva il suo libero cammino. I pochi spezzoni melodici che
a"orano nel corso del brano non interrompono il rapidissimo, martellante scatto
del ritmo. Secondo una disposizione in crescendo, il terzo movimento, che
utilizza temi arabi raccolti da Bartók nell'oasi di Biskra, si scatena in una
vorticosa e inarrestabile ossessione ritmica, che sembra voler toccare un vero e
proprio parossismo fonico, quando d'improvviso il movimento veloce trapassa
senza soluzione di continuità nel quarto e ultimo brano della Suite, un
Sostenuto: il lento moto degli accordi a poco a poco si smaterializza in
prospettive timbriche sempre più rarefatte, metafisiche, finché la chiusa sfuma in
pianissimo.
Daniele Spini
79 1914 - 1918
https://www.youtube.com/watch?v=2iKlXp_559w
https://youtu.be/2motjDR1q7k
Scherzo
Ballade (Tema con variazioni)
Organico: pianoforte
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1920
Vedi al n. BB 107 la trascrizione per orchestra dei numeri 6 - 12, 14 e 15
Organico: pianoforte
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1942
81 1918
Allegro molto
Andante sostenuto
Rubato
Organico: pianoforte
Composizione: 1918
Prima esecuzione: Budapest, 21 Aprile 1919
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1920
83 1920
https://www.youtube.com/watch?v=b8UpJxQeC8M
Molto moderato
Molto capriccioso
Lento, rubato
Allegretto scherzando
Allegro molto
Allegro moderato, molto capriccioso
Sostenuto, rubato
Allegro
Organico: pianoforte
Prima esecuzione: Budapest, 27 febbraio 1921
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1922
Dedica: il n. 7 è dedicato alla memoria di Claude Debussy
88 1926
Sonata
https://www.youtube.com/watch?v=lpIlo8tGbSo
https://www.youtube.com/watch?v=lpIlo8tGbSo
https://www.youtube.com/watch?v=pj-7lhKgPiU
https://www.youtube.com/watch?v=_PGeUx0M8NY
Allegro moderato
Sostenuto e pesante
Allegro molto
Organico: pianoforte
Composizione: giugno 1926
Prima esecuzione: Budapest, 8 dicembre 1926
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1927
Dedica: Ditta Bartók
L'opera pianistica di Bartók può facilmente esser divisa in due settori: musica a
destinazione concertistica, musica a destinazione didattica. Mentre la seconda si
distribuisce uniformemente su tutto l'arco della creatività bartokiana, la prima si
addensa in alcuni momenti che hanno a che vedere con lo sviluppo della carriera.
La Sonata appare nel momento in cui Bartók, dopo aver raggiunto negli anni
precedenti il punto di massimo avvicinamento a Schönberg, entra nella fase
neoclassica della sua poetica. Le strutture architettoniche sono geometriche e
facilmente comprensibili, la scrittura procede per linee nettamente stagliate, la
ritmica è semplice ed icastica chiaramente definiti sono i poli tonali, e la sonorità
pianistica è netta, percussiva. Neoclassicismo non significa però, per Bartók,
recupero della dimensione cameristica familiare del pianoforte. Il confronto con
la Sonata dì Stravinsky, scritta due anni prima, è a questo proposito illuminante.
Detto in soldoni, la Sonata di Stravinsky è un pezzo di media di"coltà, che
nettamente si distingue dal virtuosismo delirante dei Tre Movimenti da
"Petruska". La Sonata di Bartók è invece molto di"cile, ma nello stesso tempo
non ricalca i modelli del virtuosismo trascendentale romantico e tardo-
romantico, a cui Bartók si era ispirato in gioventù. Con la Sonata e con All'aria
aperta Bartók apriva dunque una fase nuova nella storia della musica per
pianoforte a destinazione concertistica. L'aprì e non la percorse perché, ancora
una volta, le sue fortune di concertista non volsero al bello e il pubblico preferì
ascoltare da lui, magari, qualcuno dei suoi vecchi pezzi. Ma dallo stile pianistico
messo a punto nella Sonata per pianoforte solo sarebbe nata, dieci anni più
tardi, la Sonata per due pianoforti e strumenti a percussione.
Composta nel 1926, l'anno in cui videro la luce anche il Primo Concerto per
pianoforte e orchestra e la Suite "Szabadban" ("All'aria aperta"), la Sonata
costituisce uno dei primi risultati dell'inserimento di Bartók a livello europeo e
l'inizio di un periodo di felicità creativa, ricco di opere di enorme rilievo.
Considerata fra i migliori frutti del Novecento pianistico e, da alcuni, il
capolavoro di Bartók fra le composizioni per pianoforte, questa Sonata presenta
una struttura unitaria che si svolge su una solida scrittura contrappuntistica, con
una rigorosa economia dei mezzi espressivi.
Salvatore Caprì
L'enfasi romantica e i densi grappoli di note che caratterizzavano molte delle sue
opere precedenti cedono ora il posto ad un linguaggio depurato, fondato su una
scrittura contrappuntistica e modale e sulla rigorosa economia dei mezzi
espressivi. È interessante però notare come in Bartók queste acquisizioni non
comportino mai gli arcaismi stilistici caratteristici del neoclassicismo e di autori
quali, ad esempio, Igor Stravinskij; Bartók cioè non rinuncia mai ad essere se
stesso, a parlare in prima persona.
Ugualmente, il secondo tempo si svolge con larghi accordi e con una melodia
che ripete all'infinito gli stessi suoni con un carattere ostinato e ossessivo tipico
della musica popolare; il terzo movimento, infine, è un Allegro molto che si
svolge in forma di rondò con variazioni con un andamento assai virtuosistico e
con il tema principale che richiama quello di carattere popolare del primo
movimento.
Non va dimenticato anche, per una più puntuale collocazione storica del lavoro,
che esso è esattamente contemporaneo del «Primo Concerto» per pianoforte, dei
«Nove piccoli pezzi» e dei cinque pezzi pianistici di «All'aria aperta», tutti lavori
nei quali le componenti dell'arte bartokiana trovano significativa espressione.
Mario Sperenzi
89 1926
https://www.youtube.com/watch?v=BYFrTelfvvg
https://www.youtube.com/watch?v=deDOEqha8hg
https://www.youtube.com/watch?v=6Wb4Bn5Ax3A
https://www.youtube.com/watch?v=0xU-p9wmSqg
Organico: pianoforte
Composizione: giugno - agosto 1926
Prima esecuzione: Budapest, 8 dicembre 1926
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1927
Dedica: Il n. 4 è dedicato a Ditta Bartók
Composta nel 1926, l'anno della Sonata per pianoforte e del Primo Concerto per
pianoforte e orchestra (che consolidarono la fama di Bartók negli ambienti
musicali del tempo), la Suite "All'aria aperta" è forse il capolavoro pianistico del
compositore ungherese.
I cinque brevi pezzi che la compongono (la cui durata totale è inferiore ai
quindici minuti) sono di un virtuosismo trascendentale, basato su costruzioni
timbriche da far tremare i più agguerriti pianisti, e costituiscono l'a!ermazione
di un Bartók romantico, istintivo e visionario, liberamente ispirato dagli aspetti di
quella Natura che costituì fondamentalmente il credo e la religione del musicista.
Il primo brano "Con pi!eri e tamburi" alterna le percussioni sul registro basso
del pianoforte (ad imitazione dei tamburi) con frasi più distese (di pi!eri). La
"Barcarola" che segue, nel continuo movimento ondeggiante dei bassi,
volutamente asimmetrici, suscita una sensazione di accorata, nostalgica poesia.
Il terzo brano, "Musettes", ha un particolare sapore popolare, arricchito da
geniali ornamenti melodici e caratterizzato dall'uso di un pedale continuo.
"Musiche notturne" è una delle pagine più straordinarie di Bartók, piena di
poetiche evocazioni, in un'atmosfera rarefatta e misteriosa, percorsa da sottili
fremiti di foglie e lontane grida di sconosciuti uccelli. Sembra un drammatico
ricordo, al limite fra l'umano e il surreale, fra la musica e il rumore. L'ultimo
brano, ¡l cui titolo più appropriato sarebbe "agitazione" o "palpitazione" piuttosto
che "caccia" o "inseguimento", suscita una tensione continua, ossessiva, con l'uso
di un mi ostinato del basso contro cui vanno ad infrangersi i deliranti ritmi della
mano destra.
Salvatore Caprì
90 1926
https://www.youtube.com/watch?v=xJ28WgK2bUk
Moderato
Andante
Lento
Allegro vivace
Menuetto - Moderato
Dal (Aria) - Allegro
Marcia degli animali - Comodo
Csörgő tánc (Tamburino) - Allegro molto
Preludio all'ungherese - Molto moderato
Organico: pianoforte
Composizione: 31 ottobre 1926
Prima esecuzione: Budapest, 8 dicembre 1926
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1927
92 1916
https://www.youtube.com/watch?v=Eo9g_CENNV4
https://www.youtube.com/watch?v=7GKcsB77jQA
https://www.youtube.com/watch?v=5AzemHYOlkY
Organico: pianoforte
Composizione: Il primo rondò nel 1917, gli altri due nel 1927
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1930
Mikrokosmos
https://youtu.be/uJXnj55_BzI
https://www.youtube.com/watch?v=Q0kSDqwOxos
https://www.youtube.com/watch?v=kPRxjd2ETSo&t=46s
https://www.youtube.com/watch?v=K44mcMjH2GE
https://www.youtube.com/watch?v=iWsXyGQi-zI
https://www.youtube.com/watch?v=0lgB_uqFCrI
https://www.youtube.com/watch?
v=pQx73SQ75lg&list=PLB8nEMjv0pHU3I7SdDO6uLJ6RPyN5NZUV
https://www.youtube.com/watch?v=6rs3jAEG6Vc
Appendice: 13 esercizi relativi ai nn. 38, 41, 42, 43, 47, 55, 56, 58, 62, 65 e 66
Notturno
Alátevés (Passaggio del pollice)
Kézkeresztezés (Mani incrociate)
Népdalféle (Come una canzone popolare)
Szűkitett ötödnyi távolság (Intervalli di quinta diminuita
Felhangok (Suoni armonici)
Moli és dur (Minore e maggiore)
Vandorlás egyik hangnemből a másikba (Passeggiando attraverso le tonalità)
Játék (két ötfokú hangsorral) (Gioco [con 2 scale pentatoniche])
Gyermekdal (Canto di bambini)
Dallam ködgomolyagban (Melodia avvolta di nebbia)
Birkózás (Lotta)
Báli szigetén (Sull'isola di Bali)
És összecsendülnek-pendülnek a hangok (I suoni s'incontrano e si scontrano)
Intermezzo
Változatok egy népdal fölött (Variazioni su un canto popolare)
Bolgàr ritmus (Ritmo bulgaro) (n. 1)
Téma ès fordítása (Tema e inversione)
Bolgàr ritmus (Ritmo bulgaro) (n. 2)
Nóta (Melodia)
Bourrée
Triolák 9/8-ban (Terzine in 9/8)
3/4-es tánc (Danza in 3/4)
Kvintakkordok (Accordi di quinta)
Kétszólamú tanulmány (Studio a 2 voci)
Appendice: 2 esercizi relativi ai nn. 98 e 113
Organico: pianoforte
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra, 1940
Dedica: i primi due fascicoli al figlio Péter; i numeri 148 - 153 a Harriet Cohen
Guida all’ascolto
Storia
Nel 1940 il compositore creò una versione per due pianoforti di sette pezzi tratti
da Mikrokosmos, cercando di realizzare una sorta di summa della sua ricerca
tecnico-istruttiva sul pianoforte. La raccolta comprende:
Analisi
Il titolo dell'opera può essere inteso sia come "Piccolo mondo" sia come "Mondo
dei piccoli" indicando come il lavoro, oltre ad essere destinato a giovani pianisti,
racchiudesse anche tutti i vari aspetti del mondo musicale[2].
Bartók con la sua raccolta segue l'esempio di molti musicisti che nel passato
avevano dedicato loro opere alla didattica, da Bach (Piccolo libro di Anna
Magdalena Bach), a Schumann (Album per la gioventù) e, più recentemente,
Prokof'ev (Dodici pezzi per l'infanzia).
L'opera consiste di 153 piccoli pezzi progressivi, ognuno dei quali dura spesso
meno di un minuto, altri poco di più e soltanto uno supera i tre minuti di
esecuzione. La di"coltà è crescente, si passa dai primi pezzi all'unisono di sole
otto battute a brani più complessi, fino a giungere al celebre Ostinato e alle Sei
danze su ritmi bulgari dal virtuosismo di stampo concertistico, dal sesto volume.
Il lavoro non prende in considerazione esclusivamente la musica per pianoforte
solo, ma comprende anche brani in cui è previsto il canto con accompagnamento
e altri per esecuzione a quattro mani o per due pianoforti.
Mikrokosmos, senza voler essere un vero e proprio metodo per lo studio dello
strumento, è diventato un punto fermo per la didattica pianistica; Bartók insegna
a suonare il pianoforte legando strettamente la sua metodologia all'evoluzione
del linguaggio musicale moderno; i suoi brani conducono attraverso le di"coltà
elementari, quali lo staccato o le mani incrociate, passando ad aspetti tecnico-
compositivi come la scala pentatonica o ritmi asimmetrici, fino alla politonalità
con pezzi che presentano tonalità diverse fra mano destra e mano sinistra.
Notevole è inoltre l'importanza che il compositore dà all'utilizzo del folklore
musicale, azzardando anche contaminazioni fra melodie tipicamente ungheresi e
altre bulgare, con sconfinamenti in motivi orientaleggianti; non mancano omaggi
a compositori del passato: Johann Sebastian Bach (III, 79) e Robert Schumann (III,
80).
I volumi cinque e sei sono pensati come pezzi da concerto per professionisti; fra
i pianisti che hanno registrato tutti i sei volumi si annoverano György Sándor,
Homero Francesch, Zoltán Kocsis, Jenő Jandó, Claude Hel!er, Dezsö Ranki.
113 1936
https://www.youtube.com/watch?v=EBizNRWIlMw
Organico: pianoforte
Prima esecuzione: Békéscsaba, 6 dicembre 1936
Edizione: Universal, Vienna, 1938
Trascrizione dei numeri 28, 38, 43, 16, 36 dei 44 Duetti per 2 violini, BB 104
Due pianoforti
115 1937
https://www.youtube.com/watch?v=j6_Enhaw1Wg
https://www.youtube.com/watch?v=B-8Mmk6jRhI
https://www.youtube.com/watch?v=qz5wDbV3gMg
https://www.youtube.com/watch?v=EurDzYGoTaw&t=39s
https://www.youtube.com/watch?v=pydEoJI8X84
https://www.youtube.com/watch?v=NI8rHetwJGY
https://www.youtube.com/watch?v=ZTYGcNEYAmc
https://www.youtube.com/watch?v=5jm7wnk1SwM
Organico: 2 pianoforti, timpani, xilofono, cassa chiara senza timbro, idem con
timbro, piatto sospeso, piatti, grancassa, triangolo, tam-tam
Composizione: luglio - agosto 1937
Prima esecuzione: Basilea, 16 gennaio 1938
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1942
Vedi al n. BB 121 la versione per orchestra
Nasce così la Sonata per due pianoforti e percussioni, una delle opere più
originali e significative del repertorio bartokiano nella quale l'insolito e audace
accostamento timbrico da la possibilità all'autore di sperimentare colorazioni
acustiche inedite, con sonorità secche ed elastiche al tempo stesso.
I tre tempi della sonata si presentano come tre quadri espressivi nettamente
distinti: il primo, tormentato e inquieto, a volte selvaggio e brutale, che
comprende una Introduzione lenta e un Allegro molto costituito da una forma
sonata complessa e articolata: il secondo, composto da una successione di
episodi avvolti in un clima misterioso e ovattato, inframmezzato da brividi e
fremiti passeggeri; il terzo, anch'esso in forma sonata, gioioso e vitale, informato
da un brillante motivo di ispirazione folkloristica.
Assai lento. Allegro molto. L'introduzione, una sorta di graduale conquista dello
spazio sonoro che esploderà con violenza nell'Allegro molto, si apre con un rullo
di timpani seguito da un cupo incedere quasi inanimato dei due pianoforti in
successione. Per due volte un lampo improvviso crea uno squarcio nella sonorità
iniziale, mentre il moto iniziale diviene accordale, e accelera crescendo
inesorabilmente verso un fortissimo. Una scansione tribale dei timpani con
percussioni accordali dei pianoforti porta, con un ulteriore accelerando,
all'Allegro molto. L'ampia Esposizione si articola in tre temi principali, il primo
dei quali è uno sferzante inciso dal ritmo sincopato, reiterato in forma accordale
dai pianoforti sopra il battere frenetico dei timpani. I due gruppi strumentali
quindi invertono i ruoli, il tema viene infatti scandito ritmicamente dalle
percussioni sull'ostinato dei pianoforti, per poi dialogare sul tema stesso fino al
graduale spegnersi della pulsione ritmica. Il secondo tema (Un poco più
tranquillo] è invece una melodia dal profilo graduale, sebbene con scansione
ritmica irregolare, accompagnata da ottave ribattute e da trilli, mentre il terzo
elemento tematico, che similmente al primo è connotato dalla sua struttura
ritmica (un insistente ritmo anacrusico). si snoda animandosi progressivamente,
per poi dar vita a un fugato sotteso dal fluttuante rullo dei timpani. L'Esposizione
si chiude quindi con un pacato intreccio dei due pianoforti che riprendono il
secondo tema, seguito da una sequenza di trilli e da un fitto movimento di
quarte parallele.
Nella Ripresa il ritorno del primo tema è camu!ato dalla variazione del suo
profilo melodico riproposto tramite una rapida successione imitativa dei due
pianoforti che giunge a un'ossessiva ondulazione ritmica dei pianoforti stessi e
dello xilofono. A sua volta la ripresa del secondo tema avviene anch'essa in
stretta imitazione contrappuntistica, l'evoluzione del tema stesso ritorna variata
e ampliata portando a un turbinoso moto di semicrome, mentre con il
riecheggiare accordale della cellula ritmica dei due temi, inframmezzato da un
suggestivo tremolo, si spegne progressivamente l'intera composizione.
È alla fine del 1940 che Bela Bartók lascia l'Ungheria per avviarsi all'esilio
volontario negli Stati Uniti. «Questo viaggio è, in fin dei conti, un salto
nell'incertezza da una certezza insopportabile» scrive il 14 ottobre all'amica
svizzera Müller-Widmann. Non era solo il clima bellico a far allontanare il
compositore, ma ancor più la ferma avversione verso le dittature europee e il
loro fiancheggiamento da parte del governo ungherese. Due anni prima, dopo
l'Anschluss dell'Austria al Reich, Bartók si era rivolto in termini crudi alla
medesima amica: «Scrivere di questa catastrofe, io credo, è del tutto inutile. [...]
C'è il reale pericolo che anche l'Ungheria si arrenda a questo regime di ladri e
assassini. La domanda ora è: quando? come? E non è concepibile che io possa
ancora vivere, ancora lavorare (il che è lo stesso) in un paese di questo tipo. Io
avrei davvero l'obbligo di espatriare».
Questo dunque il clima degli ultimi anni ungheresi di Bartók, anni di intensa
produttività, che vedono nascere, fra l'altro, il Sesto Quartetto, il Secondo
Concerto per violino e orchestra, il Divertimento per orchestra d'archi, nonché la
Sonata per due pianoforti e percussioni: un gruppo di lavori che sommano, con
grande maestria di scrittura, complessità costruttiva, ricerca timbrica, alte
ambizioni concettuali.
In particolare la Sonata per due pianoforti e percussioni venne scritta nel luglio-
agosto del 1937, come commissione per il decimo anniversario della Società
Internazionale di Musica Contemporanea, e venne poi eseguita il 16 gennaio
1938 a Basilea, dallo stesso compositore in coppia con la moglie Ditta Pàsztory,
insieme ai percussionisti Fritz, Schiesser e Philipp Rühling. Secondo la
testimonianza dell'autore «il tutto suonò abbastanza inusuale, ma comunque il
pubblico di Basilea apprezzò, decretando un grande successo». Alla base della
partitura si pone il lungo processo di emancipazione delle percussioni, da
strumenti idonei ad un sobrio impiego orchestrale, a strumenti dotati di una
dignità solistica e di un ruolo autonomo. In particolare la fusione di pianoforti e
percussioni era già stata tentata in modo avveniristico in Les noces di Stravinsky
(la descrizione di un rito nuziale russo con l'organico di soli, coro, quattro
pianoforti e percussioni), e lo stesso Bartók, nel 1936, aveva o!erto uno
straordinario contributo alla letteratura per percussioni con la Musica per archi
percussione e celesta.
La Sonata per due pianoforti e percussioni si colloca sulla scia dell'esperienza del
brano scritto l'anno precedente, con esiti però a!atto originali. Secondo le parole
di Massimo Mila: «È come se i fantasmi poetici evocati nella Musica per archi non
avessero ancora esaurito la loro e"cacia e sollecitassero la fantasia del
compositore, chiedendo altre sistemazioni». Si tratta innanzitutto di uno studio
della timbrica, e dunque converrà leggere le parole dello stesso autore:
«I sette strumenti a percussione - timpani (3), gran cassa, piatti, gong, tamburo
militare, cassa rullante e xilofono - richiedono solo due esecutori, uno dei quali
non suona mai lo xilofono, mentre l'altro non suona mai i timpani. Queste due
parti di percussioni sono del tutto uguali come importanza a ciascuna delle parti
pianistiche. Il timbro degli strumenti a percussione ha varie funzioni: in molti
casi dona solamente colore al suono del pianoforte, in altri sottolinea i più
importanti accenti; occasionalmente gli strumenti a percussione introducono
motivi contrappuntistici contrapponendosi alle parti pianistiche, e spesso i
timpani e lo xilofono suonano dei temi, anche come solisti».
La maturità della fase creativa di Bartók risulta evidente anche dal tipo di
configurazione del materiale melodico, che si basa, è vero, sul foklore magiaro,
ma che non compie citazioni popolari in un contesto colto; piuttosto il
tematismo folklorico informa delle sue configurazioni intervallari, delle proprie
strutture ritmiche asimmetriche il materiale musicale, che in qualche maniera ne
assimila le leggi, piega le regole di costruzione sonora della tradizione eurocolta
a quelle vergini e dotate di forza vulcanica della melodia popolare.
Con il secondo tempo, Lento, ma non troppo, ci troviamo di fronte a una delle
celebri "musiche della notte" di Bartók, pagine di ambientazione sospesa e
peculiare, che realizzano una sorta di religiosità pannaturalistica. Si apre con una
sorta di marcia funebre, con i tamburi che sostengono sommessamente il canto
elegiaco delle tastiere. Il tutto sfocia in una sezione centrale innervata da
nervose quintine, poi il secondo pianoforte riprende il tema iniziale, mentre il
primo vi ricama sopra; riappare nella coda l'elemento ritmico delle quintine.
Si arriva così all'ultimo tempo, Allegro non troppo, che ha una impostazione
diatonica, con un tematismo popolare presentato all' inizio dallo xilofono; la
forma del rondò, che alterna un tema principale con episodi secondari, è ideale
per realizzare gli intenti ludici e scherzosi di questo finale, ricco di soluzioni
espressive continuamente rinnovate, e di un uso dello strumentale veramente
giocoso. Si tratta insomma di una transizione dall'ombra alla luce, tipica di tante
pagine di Bartók, ma non esente da una certa ambiguità, per il riapparire, negli
episodi secondari, di vaste zone cromatiche, e per la ria!ermazione di una zona
comune fra suono e rumore, con gli e!etti illusionistici degli strumenti che
portano la Sonata a concludersi nel nulla, come fosse esaurita l'energia
propulsiva che aveva dato vita a tutta la partitura.
Arrigo Quattrocchi
120 1940
https://www.youtube.com/watch?v=NLnPXTVtn0k
https://www.youtube.com/watch?v=5y4f4mLh_Og
Organico: 2 pianoforti
Prima esecuzione: Budapest, 29 gennaio 1940
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra, 1970
Per la versione originale di Mikrokosmos vedi BB 105
Sergio Sablich
122 1941
https://www.youtube.com/watch?v=PKdm2HIDOSQ
Serenata
Allegro diabolico
Scena della Puszte
Per finire
Organico: 2 pianoforti
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1960
Arrangiamento della Suite n. 2 op. 4 per orchestra BB 40
La Suite op. 4 per orchestra aveva rappresentato ai suoi tempi una composizione
sperimentale in un periodo di transizione e di trasformazione. Bartók si trovava
allora alle soglie di un'epoca nuova, che per lui sarebbe cominciata col Primo
Quartetto op. 7. Ancora legato alla tradizione straussiana e brahmsiana da un
lato, influenzato dal filone nazionalistico e cavalieresco di Liszt e Erkel dall'altro,
si dibatteva in una crisi venata di pessimismo ma dominata con lucidità;
presagiva che qualcosa stava per accadere, ma non aveva ancora fatto le due
esperienze che sarebbero state fondamentali per la sua vita artistica: più ancora
che la conoscenza dell'impressionismo francese e di Debussy, la rivelazione della
vera natura del canto popolare contadino, la cui assimilazione dopo la conquista
avrebbe dato frutti decisivi. Queste esperienze sarebbero avvenute proprio in
quegli anni, e alcune premesse se ne intuiscono nella Suite op. 4, soprattutto se
messa a confronto con la robusta animosità della precedente, op. 3: rispetto alla
quale essa mostra un carattere di moderazione espressiva più scoperta e un
accento più riflessivo e temperato.
Bartók stesso definì la sua trascrizione di molti anni dopo come una "libera
rielaborazione". E in e!etti si tratta di una nuova versione tutta pensata e
calcolata per le possibilità timbriche e strumentali del nuovo organico. Nel senso
di una depurazione del timbro va per esempio la scrittura pianistica, equamente
distribuita fra i due strumenti, in un dialogo serrato che proprio nel processo di
semplificazione e di chiarificazione presuppone un atteggiamento antiretorico e
disciplinato, e richiede perciò un'esecuzione sensibile e delicata. L'energia
ritmica tende a perdere peso e materia, per snellirsi in figure più incisive e a
tratti quasi neoclassicheggianti; ma non mancano l'imperiosa vena barbarica
caratteristica del compositore, il dinamismo ritmico nei passi ostinati e nei
ribattuti martellanti, la foga nelle accensioni liriche ora strepitose ora ripiegate
su se stesse e la visionarietà negli e!etti armonicamente più avanzati. La fitta
schiera di percussioni presente nell'organico orchestrale viene sfruttata nella
rielaborazione sul modello della Sonata, con una varietà timbrica ricreata sul
pianoforte in modo del tutto originale. Ognuno dei quattro pezzi ha un titolo che
ne definisce il clima e lo spessore: il primo è una Serenata cantata su un motivo
popolare, schietto e melodicamente espanso; il secondo un Allegro diabolico di
nome e di fatto, nel quale la tastiera è trattata come uno strumento a
percussione; il terzo s'intitola Scena della Puszta ed è di atmosfera tranquilla e
trasognata; mentre il quarto, Per finire, ha un carattere di raccoglimento, nel
duplice senso di raccoglimento interiore dello spirito e di compendio delle
esperienze compositive precedenti.
Sergio Sablich
6 1895
https://youtu.be/nQ9DUOqGmSc
https://www.youtube.com/watch?v=cbZ7k01Sr44
13 1898
https://www.youtube.com/watch?v=40w0ABSg0eM
https://www.youtube.com/watch?v=Y6RoNXZDclk
https://www.youtube.com/watch?v=9lV1Os8nC1o
https://www.youtube.com/watch?v=BLQPD1dUrXU
17 1898
26a 1902
https://www.youtube.com/watch?v=F-dP9UXo0Hk
Organico: 2 violini
Composizione: 12 - 15 novembre 1902
26b 1902
Andante (Albumblatt) in la maggiore
https://www.youtube.com/watch?v=j33KjpzOnqc
28 1903
https://www.youtube.com/watch?v=S41roGiRkUo
33 1903 - 1904
https://www.youtube.com/watch?v=pm6k7JVh1y4
https://www.youtube.com/watch?v=VZdhIa4PgQ4
45a 1907
https://www.youtube.com/watch?v=7mdlJa2GnCg
https://www.youtube.com/watch?v=5ZqXVhePy-Y
52 1908 - 1909
https://www.youtube.com/watch?v=J6uquVTt1UM
https://www.youtube.com/watch?v=4-PL_uT3ZFI
https://www.youtube.com/watch?v=6s37-gicZG8
Lento
Allegretto
Allegro vivace
I sei Quartetti di Bartók sono un momento fondamentale nella storia della musica
della prima metà del Ventesimo secolo, accanto a quelli dei compositori della
Scuola di Vienna: ma mentre le composizioni per Quartetto d'archi di Schönberg
- e ancor più quelle di Berg e Webern - non costituiscono un gruppo compatto, i
Quartetti di Bartók rivelano, pur nella loro diversità, una grande omogeneità e
coerenza. Inoltre ognuno di loro marca una tappa nell'evoluzione del linguaggio
di Bartók, segnando un percorso coerente lungo più di trent'anni e intessendo
una fitta rete di somiglianze e relazioni con le altre partiture di Bartók.
Tutta l'evoluzione del linguaggio di Bartók può essere tracciata sulla base dei
suoi sei Quartetti: la fase della presa di distanza dal post-romanticismo nel
primo, la fase espressionista nel secondo, la fase della ricerca più audace e della
concentrazione estrema nel terzo, l'adozione della forma ad arco (cinque
movimenti disposti in modo concentrico) nel quarto, la fase del riavvicinamento
alla tonalità nel quinto, infine il momento del doloroso distacco dall'Ungheria nel
sesto (un settimo quartetto restò allo stato di progetto). Non è un caso se
Beethoven torna spesso come un paragone ineludibile nei discorsi sui Quartetti
di Bartók, perché i Quartetti sono dei gradini ineludibili per giungere alla
comprensione dell'arte di questi due musicisti, ma anche perché nessun altro
gruppo di Quartetti posteriore a Beethoven propone un così audace
rinnovamento della struttura di questo genere.
Un passaggio in terze parallele (vi si può sentire un'eco del terzo atto del
Tristano e Isotta) porta senza interruzione all'Allegretto, che riprende la forma
classica, con due temi che vengono elaborati e sviluppati a lungo. Questo
secondo movimento ruota intorno alla nota si, senza che la tonalità sia
chiaramente a!ermata, anche perché Bartók utilizza in alcuni momenti la scala
per toni interi (la cosiddetta "scala di Debussy"). La transizione che porta al terzo
movimento si basa sul contrasto tra una formula ritmica e una frase del
violoncello che costituisce poi il tema principale dell'Allegro vivace, in cui si ha
un esempio della predilezione di Bartók per i finali basati su spunti popolari: in
questo caso è il ritmo sincopato del primo tema, che deriva dal folklore
ungherese e diventa l'elemento caratterizzante dell'intero movimento.
Mauro Mariani
75 1915
Moderato
Allegro molto capriccioso
Lento
La prima Sonata è stata composta negli ultimi mesi del 1921, e rispetta, almeno
esteriormente, lo schema della sonata classica in tre tempi. Pur caratterizzati da
una certa libertà nell'impianto formale, troviamo due tempi veloci che
racchiudono un Adagio visionario assai espressivo. Nei passaggi pianistici
introduttivi del primo tempo pare scorgere il timbro del cymbalom, più avanti è
innegabile l'influsso di Debussy, e il finale si rifà a ritmi di danza romeni, dando
luogo a un travolgente perpetuum mobile che accanto all'elementare forza
ritmica non disdegna tensioni armoniche dovute all'impiego simultaneo di tre
tonalità diverse. A!ascinato, come tanti compositori della sua generazione, dal
"Sacre" strawinskiano, grazie ai suoi studi etnomusicologici Bartók potè stabilire
analogie tra certo Strawinsky e musiche popolari russe, ungheresi ed arabe.
Secondo lo stesso Bartók, "La continua ripetizione di motivi primitivi crea
un'atmosfera di strana agitazione febbrile" - il gusto "barbarico" degli ostinati
sarà un elemento portante di molte tra le musiche più a!ascinanti di Bartók, ma
anche di Sciostakovic.
Al contrario della prima Sonata, la seconda si articola in soli due movimenti, una
rapsodica e riflessiva introduzione a cui segue, senza soluzione di continuità, un
Allegretto fortemente ritmizzato. Il primo movimento reca l'indicazione Molto
moderato, ma non vi è quasi battuta in cui non ci siano altre indicazioni
agogiche, e oltretutto il metro cambia di continuo: si passa da 4 battute di 6/8 a
due di 9/8, poi si alternano 6/8, 9/8, 4/8, 7/8, 5/8, 3/8 e 2/8, nel Poco più
andante abbiamo i 5/8 del violino contro i 4 del pianoforte e così via. Una certa
unità è creata da un motivo ritmico di terzine e dalle sue derivazioni che
ricorrono anche nel secondo tempo, e dalla decisa predilezione per gli intervalli
di seconda maggiore, quarta giusta e aumentata, settima maggiore e nona
minore che a partire dalla sezione Sostenuto del primo tempo compaiono con
sempre maggior frequenza nel gioco delle doppie corde del violino. L'Allegretto
si apre con una specie di cluster (fa, fa diesis, sol, la bemolle) che ricorre quattro
volte nel pianoforte prima di cedere il passo al violino (pizzicato), un accelerando
(altra indicazione usata con una certa frequenza) prepara la seconda entrata del
violino con la prima idea variata (sempre pizzicato); dal Poco più vivo successivo
(arco) nel violino compare con sempre maggiore frequenza l'intervallo di
seconda minore, e il primo ostinato di seconde minori va addirittura "battuto,
ruvido" - siamo nel pieno della predilezione espressionistica per il suono
volutamente brutto, ma gonfio di messaggi nuovi. Il resto del movimento è tutto
un gioco di accelerando, glissandi inaspettati, pause poste lì unicamente per
poter riprendere con rinnovate energie, ostinati sempre più pressanti, crescendi
che chiedono ai due interpreti la completa padronanza dei loro strumenti, che
per brevi sezioni vengono impiegati anche singolarmente: il pianoforte in un
Quasi a tempo (maestoso), il violino verso la fine, quando introduce il
rallentando finale che porta all'ultima battuta Adagio, un etereo accordo di do
maggiore.
Dal 1918 Bartók aveva una nuova casa editrice, la prestigiosa Universal di
Vienna, e in questa città avvenne anche la prima esecuzione della prima Sonata,
l'8 febbraio 1922 ad opera di Mary Dickens-Auner e di Eduard Steuermann, il
pianista che si è tanto adoperato per Schönberg. A Londra, la prima Sonata
venne presentata nel marzo successivo dalla violinista Jelly D'Arànyi (1893-1966)
e dallo stesso compositore, e il grande successo li indusse a tentare l'impresa di
nuovo, presentandovi l'anno seguente la seconda Sonata, dedicata alla stessa
D'Arànyi. Tra i grandi interpreti predestinati di oggi, Sàndor Vegh ed Attila
Kubinyi, allievo di un altro stretto collaboratore di Bartók, Ede Zathureczky.
Johannes Streicher
84 1921
https://www.youtube.com/watch?v=nQ9DUOqGmSc
https://www.youtube.com/watch?v=UakdQno0t0Y
https://www.youtube.com/watch?v=CFmBsoUyAbs
https://www.youtube.com/watch?v=HTmYnX-boxU
Allegro appassionato
Adagio
Allegro molto
Le due Sonate per violino e pianoforte sono diverse anche dal punto di vista
formale. La prima è in tre tempi e rispetta lo schema della sonata classica, pur
nel carattere rapsodico della musica, mentre la seconda è in due movimenti: il
primo (Molto moderato) ha un tono pensoso e di riflessione, come
un'introduzione al successivo Allegretto, da cui si sprigiona quella vitalità ritmica
e molto vivace armonicamente che resta la sigla creatrice tipica del musicista.
Si sa che le due Sonate bartókiane per violino e pianoforte furono dedicate alla
giovane Jelly d'Arányi, nipote del celebre violinista Joseph Joachim e anche lei
violinista di grande talento. La D'Arányi suonò con successo i due pezzi a Londra
in due concerti nel 1922 e nel 1923 e Bartók mostrò gratitudine e riconoscenza
verso questa virtuosa dell'archetto, apprezzata anche da altri illustri compositori
dell'epoca.
Ennio Melchiorre
Bruno Cagli
85 1922
https://www.youtube.com/watch?v=1KdFK2kRiOo
https://www.youtube.com/watch?v=TKrX6rxU9pI
https://www.youtube.com/watch?v=3Ji7vuHZ7-E
Molto moderato
Allegretto
Le due Sonate per violino e pianoforte sono diverse anche dal punto di vista
formale. La prima è in tre tempi e rispetta lo schema della sonata classica, pur
nel carattere rapsodico della musica, mentre la seconda è in due movimenti: il
primo (Molto moderato) ha un tono pensoso e di riflessione, come
un'introduzione al successivo Allegretto, da cui si sprigiona quella vitalità ritmica
e molto vivace armonicamente che resta la sigla creatrice tipica del musicista. Va
aggiunto che le due Sonate per violino e pianoforte furono dedicate alla giovane
Jelly d'Arànyi, nipote del celebre violinista Joseph Joachim e anche lei violinista di
grande talento. La d'Arànyi suonò con successo i due pezzi a Londra in due
concerti nel 1922 e nel 1923 e Bartók manifestò gratitudine e riconoscenza
verso questa virtuosa dell'archetto, apprezzata anche da illustri compositori
dell'epoca.
Nella musica da camera di Bartók, le opere per vio lino occupano un posto
preminente. Il primo brano cameristico del tredicenne Béla era un arrangiamento
per violino e pianoforte di un proprio pezzo pianistico "Il corso del Danubio",
dedicato alla madre. Del 1895 è una prima sonata in do minore per violino, e
pianoforte, a cui seguirono una seconda sonata (1897), oltre a un Albumblatt e
una terza sonata, che risale al 1903, l'anno del poema sinfonico "Kossuth"
ancora straussiano. Questa sonata fu eseguita il 25 gennaio 1904 dal grande
Jenò Hubay, con lo stesso Bartók al pianoforte. Ma in seguito il compositore
ripudiò questi lavori giovanili, cosicché di opere u"ciali rimangono le due sonate
del 1921 e del 1922, le due rapsodie del 1928, i 44 duetti per due violini del
1931, "Contrasts" per violino, clarinetto e pianoforte del 1938 (scritti per Joseph
Szigeti e Benny Goodman) e la Sonata per violino solo del 1944, dedicata a
Yehudi Menuhin. Era lo stesso Menuhin a sostenere nel 1976 che Bach e Bartók
fossero i due compositori che hanno dimostrato di possedere la più profonda e
intensa conoscenza del violino. Difatti i problemi tecnici oltreché musicali posti,
dalle due Sonate le collocano (assieme ai concerti dello, stesso autore) tra le
opere più complesse dell'intera letteratura violinistica. Bartók, instancabile
etnomusicologo in quanto raccoglitore dei canti popolari dell'Ungheria e delle
regioni limitrofe, non ha rinunciato ad impiegarne le caratteristiche nelle proprie
musiche. Laddove anche nel periodo più audacemente espressionistico, cioè gli
anni intorno al 1920, si ritrovano peculiarità ritmiche ed armoniche: della musica
popolare magiara o romena.
La prima Sonata è stata composta negli ultimi mesi del 1921, e rispetta, almeno
esteriormente, lo schema della sonata classica in tre tempi. Pur caratterizzati da
una certa libertà nell'impianto formale, troviamo due tempi veloci che
racchiudono un Adagio visionario assai espressivo. Nei passaggi pianistici
introduttivi del primo tempo pare scorgere il timbro del cymbalom, più avanti è
innegabile l'influsso di Debussy, e il finale si rifà a ritmi di danza romeni, dando
luogo a un travolgente perpetuum mobile che accanto all'elementare forza
ritmica non disdegna tensioni armoniche dovute all'impiego simultaneo di tre
tonalità diverse. A!ascinato, come tanti compositori della sua generazione, dal
"Sacre" strawinskiano, grazie ai suoi studi etnomusicologici Bartók potè stabilire
analogie tra certo Strawinsky e musiche popolari russe, ungheresi ed arabe.
Secondo lo stesso Bartók, "La continua ripetizione di motivi primitivi crea
un'atmosfera di strana agitazione febbrile" - il gusto "barbarico" degli ostinati
sarà un elemento portante di molte tra le musiche più a!ascinanti di Bartók, ma
anche di Sciostakovic.
Al contrario della prima Sonata, la seconda si articola in soli due movimenti, una
rapsodica e riflessiva introduzione a cui segue, senza soluzione di continuità, un
Allegretto fortemente ritmizzato. Il primo movimento reca l'indicazione Molto
moderato, ma non vi è quasi battuta in cui non ci siano altre indicazioni
agogiche, e oltretutto il metro cambia di continuo: si passa da 4 battute di 6/8 a
due di 9/8, poi si alternano 6/8, 9/8, 4/8, 7/8, 5/8, 3/8 e 2/8, nel Poco più
andante abbiamo i 5/8 del violino contro i 4 del pianoforte e così via. Una certa
unità è creata da un motivo ritmico di terzine e dalle sue derivazioni che
ricorrono anche nel secondo tempo, e dalla decisa predilezione per gli intervalli
di seconda maggiore, quarta giusta e aumentata, settima maggiore e nona
minore che a partire dalla sezione Sostenuto del primo tempo compaiono con
sempre maggior frequenza nel gioco delle doppie corde del violino. L'Allegretto
si apre con una specie di cluster (fa, fa diesis, sol, la bemolle) che ricorre quattro
volte nel pianoforte prima di cedere il passo al violino (pizzicato), un accelerando
(altra indicazione usata con una certa frequenza) prepara la seconda entrata del
violino con la prima idea variata (sempre pizzicato); dal Poco più vivo successivo
(arco) nel violino compare con sempre maggiore frequenza l'intervallo di
seconda minore, e il primo ostinato di seconde minori va addirittura "battuto,
ruvido" - siamo nel pieno della predilezione espressionistica per il suono
volutamente brutto, ma gonfio di messaggi nuovi. Il resto del movimento è tutto
un gioco di accelerando, glissandi inaspettati, pause poste lì unicamente per
poter riprendere con rinnovate energie, ostinati sempre più pressanti, crescendi
che chiedono ai due interpreti la completa padronanza dei loro strumenti, che
per brevi sezioni vengono impiegati anche singolarmente: il pianoforte in un
Quasi a tempo (maestoso), il violino verso la fine, quando introduce il
rallentando finale che porta all'ultima battuta Adagio, un etereo accordo di do
maggiore.
Dal 1918 Bartók aveva una nuova casa editrice, la prestigiosa Universal di
Vienna, e in questa città avvenne anche la prima esecuzione della prima Sonata,
l'8 febbraio 1922 ad opera di Mary Dickens-Auner e di Eduard Steuermann, il
pianista che si è tanto adoperato per Schönberg. A Londra, la prima Sonata
venne presentata nel marzo successivo dalla violinista Jelly D'Arànyi (1893-1966)
e dallo stesso compositore, e il grande successo li indusse a tentare l'impresa di
nuovo, presentandovi l'anno seguente la seconda Sonata, dedicata alla stessa
D'Arànyi. Tra i grandi interpreti predestinati di oggi, Sàndor Vegh ed Attila
Kubinyi, allievo di un altro stretto collaboratore di Bartók, Ede Zathureczky.
Johannes Streicher
93 1927
https://www.youtube.com/watch?v=XUg7N9AWuTU
https://www.youtube.com/watch?v=_dBhIX686FI
Fu probabilmente l'ascolto della Suite lirica di Alban Berg a spingere Bartók verso
la composizione del Quartetto n. 3. Da dieci anni il musicista non scriveva per
questo organico (il Quartetto n. 2 è del 1917) e in soli tre mesi, nell'estate del
1927 portò a termine la partitura, un lavoro in cui le influenze di Berg sono
evidenti sia nella forma sia nelle sonorità. Della particolarità ed originalità di
questo Quartetto si resero conto i membri della "Philadelphia Music Found
Society" che gli conferirono, ex-equo con Alfredo Casella, il primo premio di
6.000 dollari. Oggi, a distanza di tanti anni, sappiamo quanto quel premio sia
stato lungimirante: «Il Terzo Quartetto non fa semplicemente un uso nuovissimo
del medium quartettistico, esso è anche estremamente anticonvenzionale nella
sua stessa concezione, ellittico nel metodo formale e talvolta brutalmente aspro
nelle sonorità» (StephenWalsh). Il Terzo Quartetto è una sorta di "campionario"
delle tecniche compositive in uso nel primo Novecento, tecniche che Bartók usa a
suo modo giungendo ad un linguaggio completamente nuovo. Troviamo
mescolati tonalità e atonalità, novità e tradizione, contrappunto severo e
polifonia lineare, melodia lirica e brutali accordi basati solo sul timbro; il suono,
accanto alla bellezza, non ha paura di mostrare il suo aspetto primitivo di
materiale da plasmare e se la prima pagina si apre con una morbida ma
penetrante dissonanza, l'ultima è una sequenza di violenti accordi dissonanti.
Bela Bartók non era il primo ad usare sonorità aspre; negli stessi anni Igor
Stravinkij e Edgar Varèse lavoravano con materiali analoghi ma in direzione neo-
impressionista.
Fabrizio Scipioni
Le conquiste più interessanti avvengono proprio nei Quartetti composti alla fine
degli anni Venti, fra cui è compreso il Terzo Quartetto, scritto nel settembre del
1927. Se nel Primo Quartetto vi è una sorta di giustapposizione piuttosto forzosa
di stilemi eterogenei e contrastanti - dal tardo Romanticismo tedesco,
all'Impressionismo francese e alla musica etnica dell'Europa orientale - a partire
dal Terzo e dal Quarto Quartetto tali elementi risultano fusi in un linguaggio
inedito di notevole complessità, che fa un uso estremamente anticonvenzionale
del medium quartettistico. Tale originalità non era sfuggita neanche alla
commissione di un concorso indetto dalla "Philadelphia Music Found Society", cui
Bartók sottopose il Quartetto nei mesi successivi: il lavoro ottenne infatti il primo
premio di 6000 dollari, condiviso col compositore italiano Alfredo Casella.
In ogni caso la terminologia di Bartók sembra indicare una concezione del lavoro
in due movimenti, in cui il principio della staticità, con l'accumulo della tensione,
e quello della dinamicità ed espansività, in cui l'energia accumulata diventa quasi
esplosiva frenesia, sono fortemente contrapposti. In questo dualismo, anche
espressivo, traspare un implicito riferimento agli ultimi Quartetti beethoveniani,
in particolare alle risolute opposizioni che aprono l'op. 130 e l'op. 132. Di
derivazione beethoveniana potrebbe risultare anche un altro aspetto peculiare
riguardante la struttura ritmico-armonica, quello della cosiddetta "dissonanza
metrica", con la sovrapposizione a strati di impulsi ritmici di!erenti. Questa
caratteristica viene esasperata dall'impiego di scale e modi di matrice folklorica,
liberamente combinati con astratte costruzioni di intervalli simmetrici che si
integrano con elementi cromatici e diatonici. Fondamentalmente il materiale
motivico-tematico è costituito da micro-melodie che Bartók espande tramite
ra"nati artifici contrappuntistici, in un'organizzazione quasi seriale che da vita a
continue catene di motivi tra loro interconnessi.
Anna Ficarella
94a 1928
https://www.youtube.com/watch?v=WwiVAKcatkM
https://www.youtube.com/watch?v=HW4Y1hKALmU
https://www.youtube.com/watch?v=09x-F6Xuh3g
Moderato
Allegretto moderato
Bartók scrisse nel 1928 due Rapsodie per violino e pianoforte e le dedicò
rispettivamente ai due grandi violinisti, József Szigeti e Zoltàn Székely, che le
inclusero subito nei loro programmi e le fecero conoscere durante i concerti
compiuti poco dopo nei maggiori centri europei. Della Rapsodia n. 1 esistono tre
versioni elaborate dallo stesso compositore: quella originale per violino e
pianoforte, quella per violino e orchestra e quella per violoncello e pianoforte;
della Rapsodia n. 2 ci sono invece due versioni: per violino e pianoforte e per
violino e orchestra. La versione per violino e pianoforte della Rapsodia n. 1 fu
eseguita per la prima volta a Berlino il 22 ottobre 1929 dal violinista Szigeti
accompagnato da Adolphe Hallis. Sempre Szigeti interpretò l'edizione per violino
e orchestra della Rapsodia n. 1 in un concerto del 22 novembre 1929 nella
grande sala dell'Accademia di musica di Budapest con l'Orchestra Filarmonica
della capitale magiara diretta da Antal Fleischer. Nella stessa sede Bartók
presentò il 20 marzo 1929, accompagnato da Jenò Kerpely, la versione per
violoncello e pianoforte della Rapsodia, che è un po' diversa dalle altre due nella
esposizione della cadenza della parte principale. In sostanza però la Rapsodia n.
1 nel suo triplice aspetto mantiene la stessa caratterizzazione tematica e si
richiama a melodie e stilemi della musica popolare ungherese, secondo una
precisa scelta estetica del compositore, che utilizzò il materiale folclorico della
sua terra (risale al 1906 la pubblicazione dei Venti canti popolari ungheresi con
accompagnamento di pianoforte) come via d'uscita dalla crisi dell'armonia
romantica. E' il musicista che lo dichiara in un suo scritto autobiografico quando
dice che «lo studio di tutta questa musica contadina era per me di decisiva
importanza, perché esso mi ha resa possibile la liberazione dalla tirannia dei
sistemi maggiore e minore fino allora in vigore».
Nasce nel 1928, la Rapsodia n.° 1 per violino e pianoforte, insieme alla pagina
gemella che reca il numero due. Vista la buona riuscita, subito dopo entrambi i
lavori saranno trascritti dall'autore per violino e orchestra. Il pezzo è dedicato al
violinista ungherese Joseph Szigeti (1892-1973), grande virtuoso insieme al
quale Bela Bartók occasionalmente si esibisce in recitals, per i quali il
compositore ritiene opportuno disporre anche di proposte più "leggere". In
e!etti, nel decennio per lui così fecondo, che segue alla prima guerra mondiale,
più volte Bartók alterna, alla creazione di capolavori "impegnati", la stesura di
musiche più accessibili. Ciò, forse, nell'intento di sperimentare le sue conquiste
stilistiche in una cornice meno astratta, più attenta a coinvolgere il largo
pubblico.
Del resto, la musica da camera di Bartók è copiosa e assai varia, come tutto il
suo catalogo; e riserva un'attenzione particolare agli strumenti ad arco. Su
questo fronte, sono infatti da ricordare le due Sonate per violino e pianoforte, la
ricca raccolta di Duo per due violini, la tardiva Sonata per violino solo, e appunto
le due Rapsodie. Il tutto si staglia poi sullo sfondo costituito dall'imponente
a!resco dei Sei Quartetti per archi, autentico monumento nel loro genere e nella
musica della prima metà del secolo ventesimo, lungo la quale tracciano una
traiettoria d'importanza strategica. E proprio nell'intervallo fra Terzo e Quarto
Quartetto, vedono la luce le due Rapsodie. Opere gemelle, che rispecchiano la
ben nota ricchezza delle esperienze bartókiane negli studi sulla musica
popolare, da lui indagata scientificamente alle fonti, al di là degli arbitrari
adattamenti di gusto urbano e occidentalizzante, propagati da tante orchestrine
tzigane.
Francesco A. Saponaro
94c 1928
https://www.youtube.com/watch?v=tezvVaUJf_E
https://www.youtube.com/watch?v=9mjDg98DheM
https://www.youtube.com/watch?v=aWVOpUOqhrI
95 1928
https://www.youtube.com/watch?v=E_XNfKk-Qbs
https://www.youtube.com/watch?v=p7vuuRZlGbc
https://www.youtube.com/watch?v=5xPhenUxi0c
Allegro
Prestissimo, con sordino
Non troppo lento
Allegretto pizzicato
Allegro molto
Di ritorno da una tournée concertistica negli Stati Uniti Bartók scrisse tra luglio e
settembre del 1928 il Quarto Quartetto in do, eseguito per la prima volta a
Budapest il 20 marzo 1929 dal Quartetto Waldbauer-Kerpely; fu dedicato al
Quartetto Pro-Arte e pubblicato nel 1929. Esso consta di cinque tempi, di cui il
primo (Allegro) sta in simmetria con il quinto (Allegro molto) per espliciti
riferimenti tematici, mentre il secondo (Prestissimo, con sordino) e il quarto
(Allegretto pizzicato) hanno carattere di scherzo, vivace e capriccioso. Al centro è
collocato il terzo tempo (Non troppo lento), considerato come una specie di
musica notturna con il canto declamante del violoncello, in un clima di
malinconia pastorale. Al Quarto Quartetto si può applicare in particolare ciò che
Boulez a!erma sulla tecnica usata da Bartók per gli strumenti ad arco: «Egli sa
utilizzare tutti gli e!etti riguardanti gli archi, come i pizzicati che battono sulla
tastiera e i suoni sul ponticello, e sa ammirevolmente dosare la mescolanza delle
loro diverse sonorità. Inoltre l'arco ritrova per suo mezzo un vigore e
un'aggressività d'attacco che la concezione romantica gli avevano fatto perdere
».
Il primo tempo del Quarto Quartetto è in forma di sonata, con l'esposizione, lo
svolgimento e la riesposizione, seguita da un'ampia conclusione. Frammenti
tematici, proposti prima dal violoncello e poi dai due violini, si congiungono e si
intersecano fra di loro, in una continua tensione dinamica. Ripetizioni ostinate,
bruschi arresti, grappoli di note costrette insieme da accordi impossibili, prodotti
dal moto orizzontale delle parti, sostanziano lo svolgimento e la ripresa. Un
ritmo rapido e asciutto domina nel Prestissimo, con sordino, dove si manifesta
quell'inventiva musicale puntata sulle ripetizioni e sugli strappi sonori così tipica
della fantasia bartokiana. Il terzo tempo è in tre parti: nella prima il violoncello
svolge un recitativo, sullo sfondo di suoni uniformi realizzato dai due violini e
dalla viola; nella seconda parte gli strumenti svolgono una serie di arabeschi
leggeri e frizzanti, come ispirati ai canti degli uccelli; nella terza parte ritorna il
canto del violoncello, ma senza fioriture e armonizzata a canone con il primo
violino. Nell'Allegro pizzicato il quartetto sembra un concerto di chitarre, in
quanto gli esecutori non usano l'arco. Nella melodia circolare che la viola
presenta per prima, tra le strappate ritmiche degli altri strumenti, non è di"cile
ravvisare una trasformazione del rapido saliscendi che costituiva il tema dello
scherzo precedente (Prestissimo, con sordino). Nel finale (Allegro molto) la
violenza dell'attacco iniziale con i suoi ritmi marcati e ripetitivi fa pensare a certi
passaggi del Sacre du printemps stravinskiano, pur nell'inconfondibile tono di
pesante danza rustica. Il tema dei violini presenta analogie con l'attacco
dell'Allegro del primo tempo, quasi a sottolineare la cellula da cui è nata l'intera
composizione, ritenuta da molti studiosi uno dei punti più alti dell'arte
bartokiana.
Nel movimento di centro del quartetto, Non troppo lento, a"ora una delle più
tipiche costanti ispirative di Bartók, particolarmente dell'ultimo Bartók: la poesia
della notte, cioè, con la sua atmosfera ora sospesa e immota, ora traversata da
estrosi potremmo dire rapsodici fremiti sonori che talvolta salgono a canto, in
forma qua di monologo (tale il violoncello sull'inizio), più oltre di fiorito dialogo
o di gorgheggi, forse d'usignoli. Pagina, insomma, che ferma uno dei più alti
momenti di quella creatività timbrica di che fiorisce l'arte strumentale
bartokiana.
Giorgio Graziosi
Composti tra il 1908 e il 1939, i sei Quartetti per archi di Béla Bartók sono
considerati da molti studiosi la massima espressione di questa classica
formazione cameristica nel secolo scorso. Forse nessun altro compositore del
Novecento è riuscito a fondere in modo altrettanto profondo tradizione e
innovazione, sguardo verso il passato e slancio verso il futuro: i quartetti
bartokiani sono una vera miniera di invenzioni timbriche e formali, ma allo
stesso tempo dialogano esplicitamente con la letteratura quartettistica Sette-
ottocentesca, soprattutto con Beethoven (per esempio nel gusto per i "giochi" di
simmetrie e per le inversioni melodiche, tipico delle tarde opere beethoveniane).
A questi elementi si aggiungono poi le caratteristiche consolidate del linguaggio
musicale del compositore: l'influenza del canto popolare e la grande vitalità
ritmica, che in alcuni istanti - basta citare l'ultimo movimento del Quarto
Quartetto - raggiungono e!etti di trascinante energia "percussiva" e di altissima
suggestione.
Il Quarto Quartetto venne composto nel 1928, neanche un anno dopo il Terzo:
evidentemente Bartók sentiva che quest'ultimo brano, tra i suoi più sperimentali,
aveva lasciato aperte alcune questioni, o forse aveva fatto nascere nuovi stimoli.
Sta di fatto che con il Quarto si apre una fase nuova dell'arte bartokiana. Sembra
quasi che il compositore intenda dare più ordine alle sue idee, conciliare la forza
del linguaggio musicale sviluppato nel decennio precedente - in opere come Il
Mandarino miracoloso, il Primo concerto per pianoforte o il ciclo pianistico
All'aria aperta - con un gusto nuovo e straordinario, per l'architettura formale
simmetrica che dominerà la sua produzione degli anni Trenta: nel Secondo
Concerto per pianoforte, nel Quinto Quartetto e in molte altre opere successive.
Detto in altro modo, l'organizzazione simmetrica (la cosiddetta "forma ad arco"
bartokiana) funge da contrappeso, riequilibra la violenza delle dissonanze e la
dirompente energia ritmica di questa musica.
E proprio l'uso di modalità esecutive e di attacchi del suono insoliti è uno degli
aspetti più noti e più ammirati del Quarto Quartetto. I due Scherzi, per esempio,
si di!erenziano (oltre che nella scrittura cromatica/diatonica) soprattutto per
l'invenzione timbrica: interamente Con sordino il secondo movimento. Pizzicato
il quarto. In quest'ultimo brano la ricerca del compositore si spinge fino
all'invenzione di un suono totalmente nuovo: l'idea di pizzicare la corda con tale
forza da farla rimbalzare sulla tastiera, con un e!etto letteralmente percussivo
(un altro evidente tentativo di avvicinare suono e rumore). E!etto che non a caso
oggi è universalmente noto come "il pizzicato alla Bartók".
Giovanni Bietti
96a 1928
https://www.youtube.com/watch?v=nDt2Pfg4TnQ
https://www.youtube.com/watch?v=uFBKtND5-no
https://www.youtube.com/watch?v=xgBrKTZpDK4
Moderato
Allegro moderato
102a 1930
https://www.youtube.com/watch?v=ZmbqaEB-tSM
https://www.youtube.com/watch?v=0_s1lnixJ9w
https://www.youtube.com/watch?v=NTwgnOqEbFs
104 1931
https://www.youtube.com/watch?
v=32OiRKdFGsU&list=PLPoMtSx6DdQvJfWWxeJhXG-gVHAKOqCq-
https://www.youtube.com/watch?v=zTnB0_0ASsE
https://www.youtube.com/watch?v=8Twqrhz8B6M
Libro I:
Libro II:
Libro III:
Libro IV:
Organico: 2 violini
Composizione: 1931
Prima esecuzione: Budapest, 20 gennaio 1932
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1933
Vedi al n. BB 113 Piccola Suite la trascrizione per pianoforte dei numeri 28, 32,
38, 43, 16, 36
109 1934
https://www.youtube.com/watch?v=UzWKCKyaB_0
https://www.youtube.com/watch?v=CQ1Et7yJ1_w
110 1934
https://www.youtube.com/watch?v=pdCXD43AVho
https://www.youtube.com/watch?v=2XmMaXefnb4
https://www.youtube.com/watch?v=cM-SIWPDlVo
Allegro
Adagio molto
Scherzo: alla bulgarese
Andante
Finale: Allegro vivace
Porre, come accade nel concerto di questa sera, Bartók dopo Kurtág significa
anche ricordare il legame che unisce, quasi come l'allievo al maestro, i due
compositori ungheresi. Il primo periodo dell'attività di Kurtág viene solitamente
considerato di ascendenza bartokiana e il punto d'incontro lo si trova nel suo
proseguire quel lavoro di studio e libera elaborazione del materiale folklorico che
a lungo impegnò Bela Bartók. Ma, al di là dell'esito diverso che esprimono le
opere della maturità di Kurtág, un altro contatto può essere stabilito, tra loro
come tra i maggiori autori contemporanei: l'indagine sul potere e la forza di
seduzione e smarrimento del suono.
Bartók scrive il Quinto Quartetto per archi nel 1934, dedicandolo a Elizabeth
Sprague Coolidge. Sei anni prima aveva vinto, con il Terzo Quartetto, il
prestigioso Premio Coolidge di Filadelfia, consacrazione internazionale al
proprio, lavoro. In quell'occasione, un'altra opera era stata premiata: la Serenata,
di Alfredo Casella.
Nell'Adagio molto, una frase del violino tenta di tracciare un percorso in questo
paesaggio di desolazione, attraversato - sono brividi - da tremoli e dal
rintoccare di corde a vuoto, senza sviluppo. Quella frase si sfalda, precipita
vibrante verso il silenzio che l'inghiotte. Nello Scherzo ("alla bulgara"), dopo un
vortice di suono e di rumore, la musica stupisce di se stessa, fermandosi a
contemplare un racconto sospeso. Poi, le sconvolgenti sonorità dell'Andante,
introdotto e chiuso da glissandi: un pulviscolo sonoro, cornucopia di luce dalla
quale volano via le urla dei suoni sovracuti. È ancora possibile una forma, un
canto? Un motivo di danza, furtivo come uno spettro, tenta di dialogare con
l'intreccio ossessivo disegnato dai movimenti precedenti. Bartók sembra temere
la conclusione, la annuncia e la evita, infine la fa piombare improvvisa dopo
averla preparata e rinviata. Come conciliare le anime del compositore? Il
desiderio del canto e la violenta introspezione visionaria, la immaginata libertà
dei mondi antichi («Lo studio di tutta questa musica contadina era per me di
decisiva importanza, perché m'ha reso possibile la liberazione dalla tirannia dei
sistemi maggiore e minore fino allora in vigore») e la lotta alla tirannia politica e
sociale che non ha smesso di occuparlo, fino all'esilio americano e agli ultimi
giorni di vita?
116 1938
https://www.youtube.com/watch?v=kaTqsHVDmgY
https://www.youtube.com/watch?v=B3M0BqRM0P8
https://www.youtube.com/watch?v=h1cqtx_p5uU
Quello di Contrasti è l'unico caso in cui il clarinetto entra nella musica di Bartók
con un ruolo primario e ciò avviene nella fase più creativa del compositore (nello
stesso anno del Concerto per violino, il 1938), quella che porta Bartók sulla
scena internazionale, mentre la situazione politica del suo paese, e dell'Europa in
genere, si fa sempre più di"cile. Due anni più tardi infatti egli si stabilirà
definitivamente negli Stati Uniti dove, nei cinque anni prima della morte,
nasceranno i suoi ultimi capolavori. Per quanto scritti a Budapest, i Contrasti
nascono da un rapporto con la musica americana, espressamente con il violinista
Joseph Szigeti e il clarinettista Benny Goodman che gli commissionano i tre
pezzi, della durata complessiva di circa un quarto d'ora. Ma alla prima
esecuzione (New York, 9 gennaio 1939) saranno eseguite soltanto le due danze
(che stanno all'inizio e alla fine): Verbunkos (Danza del reclutamento) e Sebes
(Veloce). Gli esecutori erano Szigeti, Goodman e al pianoforte Endre Petri. Il
pezzo centrale, quello lento, intitolato Pihenó (Riposo), sarà terminato più tardi
ed entrerà nella prima edizione della Hawkes & Son di Londra, nel 1942.
Il primo dei tre pezzi, Verbunkos, mantiene più che gli altri un carattere
rapsodico, anche se l'elemento dominante e ricorrente è praticamente uno solo,
quello a valori puntati, di carattere un po' grottescamente marziale, che viene
proposto in modo esplicito dalla linea del clarinetto alla terza battuta, estrosa e
mobile, la quale spezza l'ostinato ritmo a semiminime tenuto dal violino con
accordi pizzicati. Poco più avanti i ruoli si cambieranno, o meglio sarà il violino a
riproporre lo stesso tema, con il movimento segnato questa volta dal pianoforte,
mentre al clarinetto è a"dato un movimento continuo a terzine di semicrome.
Attraverso passaggi fantasiosi la zona centrale alterna situazioni agogicamente
diversificate, ma quasi mai viene a cessare lo spunto ritmico iniziale, anche se
l'interesse sembra spostato su una situazione più impellente di terzine nella
configurazione particolare di croma più semiminima e viceversa. Un passaggio in
cadute sincrone di violino e clarinetto, spezzate dai continui glissandi del
pianoforte, conduce ad una specie di ripresa con qualche spunto imitativo senza
interesse contrappuntistico rilevante; verso la fine si ripropone per poco il clima
dell'inizio, ma solo per lasciare al clarinetto lo spazio di esprimere, con una
vistosa cadenza, il suo ruolo di improvvisazione.
Renato Chiesa
119 1939
https://www.youtube.com/watch?v=xo7TgHO7Ul8
https://www.youtube.com/watch?v=SWHLjHKWVdk
https://www.youtube.com/watch?v=3_DuutkW9WY
https://www.youtube.com/watch?v=ZRARwsnY630
Mesto - Vivace
Mesto - Marcia
Mesto - Burletta
Mesto - Molto tranquillo
Giovanni Bietti
124 1944
https://www.youtube.com/watch?v=oXURzK!Abk
https://www.youtube.com/watch?v=QQccciEPmoI
https://www.youtube.com/watch?v=keMuEVVdaac
Tempo di ciaccona
Fuga (Risoluto, non troppo vivo)
Melodia (Adagio)
Presto
Organico: violino
Prima esecuzione: New York, 26 novembre 1944
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra - New York, 1947
Dedica: Yehudi Menuhin
In realtà la Sonata per violino solo occupa una posizione isolata rispetto alle altre
opere americane, segnando un brusco ritorno al momento
"espressionista" (senza peraltro avvicinarsi all'a!ascinante inventiva delle due
Sonate per violino e pianoforte del 1921 e '22). Questo è forse da attribuirsi alla
necessità di sfruttare al massimo tutte le caratteristiche tecniche dello
strumento, dunque di fornire al solista un brano di eccezionale complessità e
di"coltà. La composizione infatti fu commissionata dal grande Yehudi Menuhin,
allora ventottenne, che ne detenne per due anni i diritti esclusivi. Composta fra il
novembre del '43 e il marzo del '44 e pubblicata nel '47 - due anni dopo la
morte dell'autore - allo scadere dei diritti di Menuhin, la Sonata per violino solo
si ispira apertamente alle tre Sonate di Bach, sia nella scrittura polifonica che
nella concezione d'impianto (l'alternanza di movimenti lenti a movimenti veloci e
la presenza di una Fuga come secondo dei quattro tempi). Il primo movimento
reca l'indicazione Tempo di ciaccona e si richiama alla danza barocca per la
decisione ritmica del primo tema, ma in realtà è in forma-sonata, con un
secondo tema dal carattere cantabile e uno sviluppo basato principalmente sulla
prima idea. La Fuga supera in ambizione, con le sue quattro voci, gli stessi
modelli bachiani (che si limitano a tre entrate) e si basa su un soggetto
tipicamente bartokiano per l'ambitus limitato e il profuso cromatismo; nel corso
del movimento l'ordito contrappuntistico si fa progressivamente meno rigido e
più sfumato. La connotazione severa e asciutta dei primi due movimenti lascia il
posto negli ultimi due a un maggior rilassamento della tensione espressiva. La
Melodia ha dei punti di contatto con l' "Adagio religioso" del coevo Concerto per
pianoforte n. 3 per la struttura tripartita (A-B-A) e l'ambientazione
"notturna" (Bartok valutava l'opportunità che il movimento fosse eseguito
interamente con la sordina). Il Presto finale - il cui tema misterioso e guizzante
prevedeva in origine l'impiego dei quarti di tono - è un rondò con due episodi
basati su un materiale tematico di ascendenza folklorica e con una coda che
riassume brevemente il contenuto dell'intero movimento.
Arrigo Quattrocchi
30 1903
Est (Sera)
https://www.youtube.com/watch?v=R4hpbGLrzRs
57 1909 circa
60 1910 - 1912
https://www.youtube.com/watch?v=ZhXQXXm7FL4
https://youtu.be/_ElojNxnAag
77 1917
https://www.youtube.com/watch?v=BAlMVOTYwkI
https://www.youtube.com/watch?v=Kg75MLdZwKY
78 1917
https://www.youtube.com/watch?v=G6Ofm-_sduc
https://www.youtube.com/watch?v=adpE0xGwRSc
Testo
Una sposa infelice torna da sua madre sotto forma di un merlo, ma la madre non
la riconosce e la caccia via. L'infelice lamenta la sua sorte.
Tu non ami che ballare, non pensi mai al lavoro, al cucito! Io ho pagato i
suonatori, ma tu balli con gli altri e mi lasci solo.
Suonate pi!erai, venite a ballare, giovani! Spenderemo il nostro ultimo soldo per
pagare i suonatori, e balleremo al suono della cornamusa.
99 1930
https://www.youtube.com/watch?v=pe1ibdIFyC8
https://www.youtube.com/watch?v=QRzM8hblk3c
https://www.youtube.com/watch?v=yK0vw-tVS0U
https://www.youtube.com/watch?v=tLIc748Mm90
https://www.youtube.com/watch?v=FzaeyX8xRZg
111 1935
Tavasz (Primavera)
https://www.youtube.com/watch?v=Pwpndw21g-g
Jószágigéző (Incantesimo)
https://www.youtube.com/watch?v=7RGCjnnONnE
Jaték (Divertimento)
https://www.youtube.com/watch?v=VpGWxk_rfsw
Keserves (Lamento)
https://www.youtube.com/watch?v=cHGwT3IVVnE
Csujogató (Burla)
https://www.youtube.com/watch?v=Oyd6cESM6A4
Bánat (Dolore)
https://www.youtube.com/watch?v=QFJuLh8Nwho
https://www.youtube.com/watch?v=DS5LomLfhRo
https://www.youtube.com/watch?v=8xZ-aXhHuTk
https://www.youtube.com/watch?v=H6kCR3s20hU
Voce e orchestra
18 1899
Tiefblaue Veilchen
https://www.youtube.com/watch?v=jTRRu0Xatw8
Testo di G. Schönaich-Carolath
Organico: voce, orchestra
87b 1926
https://www.youtube.com/watch?v=uxbLvEfjqXk
https://www.youtube.com/watch?v=PER2XnHrox8
https://www.youtube.com/watch?v=7RGss0uPouw
100 1930
https://www.youtube.com/watch?v=CZhMPJeT-jg
https://www.youtube.com/watch?v=6aj61iLxDFM
Cantata profana (da testi natalizi romeni) per tenore, baritono, doppio coro e
orchestra
Molto moderato
Andante
Moderato
Il soggetto della Cantata profana deriva da due versioni di canti popolari rumeni
del genere "colinda", cioè di canti del periodo natalizio. Il carattere di tale testo
presenta un doppio motivo d'interesse, folclorico non meno che storico-
culturale. In gran parte il soggetto nulla ha a che vedere con qualsiasi sorta di
leggende dell'occidente cristiano ma a!onda le sue origini nell'antico patrimonio
slavo, al di fuori d'una specifica pratica religiosa. La vicenda colpì
l'immaginazione del musicista per le implicazioni simboliche che coinvolgeva,
dal desiderio di fuga nel cuore della foresta, come ritorno alle origini
dell'umanità, al rifiuto della civiltà metropolitana e delle lusinghe del progresso:
in parte essendovi marcate analogie con la genesi del Principe di legno. In
proposito lo stesso Bartók, in un articolo pubblicato nel 1933 sulla
"Schweizerische Musikzeitung", chiarì: «Invece di accennare alla storia di
Betlemme, in queste leggende del periodo natalizio si parla di battaglie vittoriose
contro un leone considerato invincibile e contro un temibile cervo: e tipica è la
leggenda dei nove fratelli addestrati dal padre soltanto alla caccia nei boschi, e
dell'improvvisa loro trasmutazione in cervi; così come c'è il "miracle-play" del
matrimonio del sole con sua sorella, la luna... In breve, tutto rimanda alla cultura
delle comunità pre-cristiane, al mondo pagano».
Al di fuori del soggetto, nella Cantata profana non vi sono specifici e continuativi
influssi del lessico folclorico rumeno che Bartók aveva cominciato a studiare nel
1915, curando gli arrangiamenti di due album di "colinde". Secondo Ernö
Lendvai, le arcate melismatiche degli interventi del tenore ricordano la "hora
lunga" della tradizione popolare rumena. Vi è poi, nel linguaggio di quest'opera
«un netto influsso modale, di elementi dei modi lidio e misolidio con i
caratteristici intervalli di quarta aumentata e settima minore». Assai più rilevanti
risultano però le influenze della musica antica che Bartók in quegli anni aveva
studiato attentamente, dai mottetti rinascimentali alle cantate e messe bachiane,
almeno per quanto attiene alla tecnica polifonica. Sotto tale punto di vista la
maestria della sagacia compositiva bartokiana attinge nella Cantata profana
l'esito costruttivo più elevato, nell'impiego di due cori misti .in un dovizioso e
serrato edificio contrappuntistico a otto voci mentre l'orchestra, oltre a svolgere
un ruolo prevalentemente di sostegno al canto dei solisti e del coro, raramente
interviene in primo piano ad organico completo. Al di fuori di alcuni passaggi
d'inequivoco risalto coloristico, l'esito globale assume un aspetto nettamente
spoglio ed austero, segnato da una marcatissima scansione ritmica.
Destinata ad aprire un ciclo, non realizzato, di tre o forse quattro cantate ispirate
a tradizioni popolari dell'area etnica danubiana, la Cantata profana, compiuta l'8
settembre 1930, fu eseguita per la prima volta a Londra il 25 maggio 1934 dai
complessi della BBC, diretti da Aylmer Buesst.
«Nella Cantata profana - scriveva Bartók nel 1931 - di rumeno c'è solo il testo; il
materiale tematico è di mia propria invenzione, e non è neppure rimodellato su
musiche popolari rumene, anzi, talune parti non sono nemmeno in tono
popolare». Il testo, che riunisce due versioni di una colinda (canto popolare
connesso alle cerimonie pagane per la celebrazione del solstizio d'inverno),
racconta dei nove figli di un cacciatore, educati dal padre alla sola caccia e
trasformati per un misterioso incantesimo, durante una battuta, in altrettanti
cervi. Ritrovati dal padre, che dopo aver tentato di farne preda, li riconosce e li
supplica di tornare a casa, i nove cervi respingono l'invito, consci ormai della
loro nuova condizione, che li esclude definitivamente dal consorzio umano. Sotto
il profilo tematico, struttura portante della Cantata è la cosiddetta "scala
acustica", determinata dalla successioni naturale dei suoni armonici, secondo il
modulo intervallare: T,T,T,S,T,S,T, ove T vale tono e S semitono.
Il lavoro è diviso in tre parti, di lunghezza diseguale. Nella prima, la più estesa, si
possono individuare tre sezioni: un'evocativa introduzione Molto moderato; un
violento Allegro molto, per la tumultuosa scena di caccia; un arcano Moderato,
per il sortilegio che trasforma i giovani in cervi. Di concezione unitaria è la
seconda parte, sebbene apparentemente frantumata da ben diciotto successive
prescrizioni metronomiche. Ne è oggetto il drammatico dialogo tra il figlio
maggiore (tenore) e il padre (baritono), spezzato da interventi corali di taglio
bachiano. Nel compatto finale, prima Moderato, poi Molto tranquillo, il doppio
coro riepiloga il senso dell'intera vicenda, mentre un estremo intervento del
tenore sembra sancire una nuova condizione di libertà, conseguita mediante la
rinuncia ad ogni compromesso sociale.
Il testo raccolto dal musicista stesso appartiene a una «colinda» [canto di natale
risalente ad antiche cerimonie pagane] rumena, nella quale si esalta l'amore per
la natura e la libertà, in opposizione ai falsi miti della società (in questo caso
simboleggiata dalla famiglia) e della violenza (la caccia).
La musica di pura invenzione dell'autore presuppone una profonda assimilazione
del patrimonio folclorico: «non basta — dichiara Bartók negli «Scritti sulla musica
popolare» — immettere nella musica colta dei tempi o l'imitazione dei temi
contadini, perché in tal modo si finirebbe col fare un banale travestimento del
materiale popolare, ma bisogna trasferire in essa l'atmosfera della musica creata
dai contadini».
Fiamma Nicolodi
108 1933
https://www.youtube.com/watch?v=jrLvQe1QA_s
15 1894
Tre Lieder
Testo: H. Heine
Testo (nota 1)
Nacht am Rheine
20 1900
Liebeslieder
24 1902
29 1903
Est (Sera)
34 1904
37 1904 - 1905
https://www.youtube.com/watch?v=jOzEQUxo29I
41 1905
42 1906
https://www.youtube.com/watch?v=rz8oN9iZPUc
https://www.youtube.com/watch?v=8vwUTja9SEM
https://www.youtube.com/watch?v=-MBE6k_TOI8
https://www.youtube.com/watch?v=q7eghojkP98
https://www.youtube.com/watch?v=oO67bLSS3dk
https://www.youtube.com/watch?v=n2e_7yGAWSw
43 1906 - 1907
Magyar népdalok (Canti popolari ungheresi)
https://www.youtube.com/watch?v=wZ0PR0ph-EA
https://www.youtube.com/watch?v=HorWESrivvo
https://www.youtube.com/watch?v=1ojEo3pJTmc
https://www.youtube.com/watch?v=wevkKXBQXzg
https://www.youtube.com/watch?v=LLDQRnz54lM
https://www.youtube.com/watch?v=tim-y5m0SSs
https://www.youtube.com/watch?v=E_a-fRfBAEc
https://www.youtube.com/watch?v=mrqlOBRuciM
Tiszán innen Dunán tul (Al di qua del Tibisco e al di là del Danubio)
Erdők, völgyek, szűk ligetek (Foreste, valli, strette praterie)
Olvad a hó (La neve si scioglie)
Ha bemegyek a csárdába (Quando vado alla taverna)
Fehér László lovat lopott (L. F. ha rubato un cavallo)
Megittam a piros bort (Ho bevuto vino rosso)
Ez a kislány gyöngyöt fűz (Questa ragazza si orna di perle)
Sej, mikor engem katonának visznek (Ah! se dovrò fare il soldato)
Még azt mondják (Ciò che la gente dice)
Kis kece lányom (La mia cara ragazza)
44 1906 circa
46 1907 circa
47 1907 - 1917
65 1915
71 1916
Öt dal (5 Canti)
72 1916
Öt dal (5 Canti)
73 1916 circa
87a 1924
Falun (Dedinské scény) (In campagna - Scene rurali)
97 1929
98 1929
https://www.youtube.com/watch?v=hJVOgaPAuNY&t=63s
Fascicolo I
(Szomorú nóták, «Canti del dolore»):
Fascicolo III
(Vegyes dalok, «Melodie diverse»)
Fascicolo IV
(Új dalok, «Canti nuovi»)
125 1945
74 1914 - 1917
https://www.youtube.com/watch?v=7ossb9jmIeU
https://www.youtube.com/watch?v=RwEkBdkiw-M
https://www.youtube.com/watch?v=nP8r48MFxyw
https://www.youtube.com/watch?v=b5N3uNKMFRU
Balletto in un atto
La felicità, quindi, viene raggiunta solo dopo essersi liberati delle apparenze? In
realtà, più che il contenuto, interessante è l'articolazione formale del racconto,
cioè la sua potente e studiata simmetria (che ne giustifica alcune incongruenze
drammatiche, come quella del voltafaccia della fata), nonché il sovrapporsi di
di!erenti piani strutturali: la dimensione umana (la semplice storia d'amore tra il
principe e la principessa), la dimensione fantastica e soprannaturale (gli
interventi della fata), la dimensione grottesca (quella di un "principe di legno").
Questi di!erenti elementi drammatici si traducono nel linguaggio musicale di
Bartók in altrettanti ingredienti stilistici. In quegli anni il compositore, dopo aver
ormai completamente assorbito l'influenza della tradizione tedesca (Brahms,
Wagner, Strauss e Liszt), è alla ricerca di una nuova via in grado di portare il
linguaggio musicale al di fuori delle secche in cui l'ha costretto la crisi tonale
tardo-romantica.
Gloria Sta"eri
82 1924
https://www.youtube.com/watch?v=DYwegVm1q5w&t=332s
https://www.youtube.com/watch?v=rjHIBgyYCSA
https://www.youtube.com/watch?v=Zhr_QJGzLjg
https://www.youtube.com/watch?v=5PAFCTiyCkI
Pantomima in un atto
Sceneggiatura: Ményhért Lengyel e propria
Argomento
Tre malfattori costringono una ragazza ad attirare uomini che possano derubare.
La prima vittima è un vecchio cavaliere che viene subito cacciato via perché non
ha soldi. Il secondo è un timido giovane dal quale la ragazza si sente attratta. Ma
ciò non corrisponde ai propositi dei malfattori che aspettano una vittima ricca;
perciò gettano il giovane in un canale. Passa il mandarino, un uomo ripugnante
dall'aspetto terrificante che ha solo vissuto per accumulare ricchezze. Per
stimolare i suoi istinti la ragazza balla con un erotismo forzato per cadere infine
esanime al suolo. Mentre il mandarino si butta su di lei, i malfattori gli rubano
una valigia piena d'oro. Quindi vogliono liberare la ragazza ma il Mandarino
oppone una resistenza così violenta che i malfattori decidono di so!ocarlo sotto
una coperta. Ma il Mandarino che non ha mai veramente vissuto ora è
condannato a non poter morire. Anche un colpo di pugnale non pone fine alla
sua vita. Allora i malfattori lo impiccano, ma l'amore è più forte della morte. Il
Mandarino continua a muoversi e la ragazza, mossa dalla pietà, lo libera. I
malfattori terrorizzati dalla forza sovrannaturale del mandarino, sono fuggiti.
Finalmente il Mandarino può abbracciare la ragazza. Nel momento in cui ritrova
la vera vita, trova anche la liberazione nella morte.
Guida all'ascolto (nota 1)
In quel periodo Aurelio M. Millóss, allora soltanto ballerino, era sempre in cerca
di ruoli interessanti. Ascoltando la musica di Bartók ne rimase subito a!ascinato,
come pure dalla vicenda drammatica. «Il Mandarino meraviglioso» finì per avere
un ruolo essenziale nella vita di Milloss. Leggiamo nelle parole dello stesso
coreografo la storia autentica di come si trasformò la pantomima «Il Mandarino
meraviglioso» in un dramma coreografico.
«Devo confessare che ciò che più mi colpì nel "Mandarino", era la musica,
l'argomento, proprio a causa della concezione musicale di Bartók, mi si presentò
invece completamente diverso da come era descritto nel libretto. Ciò anche
malgrado la precisa aderenza della musica ai singoli momenti dell'azione
scenica. Ho subito avvertito la profondità e la verità dell'espressione musicale.
Nella trama Bartók doveva aver intuito più di quello che un primo sguardo sullo
svolgimento esteriore poteva suggerire. Ovviamente Bartók vi ha visto fenomeni
che a!ondano le loro radici nei più remoti segreti del destino umano.
Certamente sono stati questi motivi vigorosi che l'hanno ispirato e che lui
intendeva esprimere nella musica, e così ha finito col mettere in primo piano le
forze motrici nascoste nei segreti dell'azione. Tutto ciò mi a!ascinava e mi
incitava a dare una adeguata forma scenica all'opera. Mi sembrava indispensabile
rivalutare l'impianto librettistico secondo il prisma dei summenzionati criteri
musicali.
«Per poter giustificare questo significato più vasto della figura del Mandarino e
rendere palese il senso di un dramma tipico della grande città, anche la figura
della ragazza e il suo destino dovevano trovare una corrispondente prospettiva».
Erano questi i pensieri di Milloss verso la fine degli anni venti. Allora ballerino
non trovava ancora possibilità di lavorare, come era suo desiderio, anche come
coreografo. La realizzazione delle sue idee sul «Mandarino meraviglioso» doveva
dunque aspettare. Milloss iniziò la sua carriera di coreografo nel 1932, ma nei
primi anni non trovò alcun teatro che fosse disposto a rappresentare «Il
Mandarino meraviglioso». Oggi possiamo dire per fortuna, perché così, prima
ancora che nascesse il nuovo Mandarino, avvenne l'incontro decisivo con Béla
Bartók. Dei molti colloqui avuti col musicista, Milloss ci racconta: «Negli anni
1936-1938 Budapest era il centro della mia attività. Un contattò con Bartók fu
presto stabilito, e mi sentii subito ìntimamente attratto dal suo mondo spirituale.
Le nostre conversazioni su "Il Mandarino meraviglioso" furono tanto più
spontanee quanto la mia concezione trovava una conferma da parte di Bartók.
Ora si trattava soltanto di portare avanti il lavoro.
Questa interpretazione eleva il lavoro al di sopra del livello di una pura storia
d'orrore. Ecco perché ho spostato l'azione da una stanza chiusa in un angolo
triste e abbandonato di una grande città, dove il Mandarino passa solo per caso.
Il caso fa da destino, restituendo alla natura i suoi diritti.
Bartók non ne sapeva nulla. Nel 1945, dopo la morte di Bartók, Milloss presentò
l'opera anche a Roma, e fu solo dopo l'edizione romana che anche altri
coreografi crearono versioni proprie. Milloss ha presentato il «Mandarino» inoltre
a Rio de Janeiro (1954), San Paolo (1955), Firenze (1957 e 1964 al Maggio
Musicale espressionista) e nel 1962 su invito di Oscar Fritz Schuh a Colonia dove
l'opera venne data in una sola stagione 24 volte in teatri sempre esauriti.
L'ultima realizzazione della sua versione di questo balletto drammatico è stata
presentata da Milloss nell'autunno del 1972 all'Opera di Stato di Vienna.
Lothar Knessl
Opere liriche
62 1911
https://www.youtube.com/watch?v=XRbtOM892qc
https://www.youtube.com/watch?v=p9Aq2WWds8k
https://www.youtube.com/watch?v=qyHVaUBA2e0
https://www.youtube.com/watch?v=N5r1soNdUpo
https://www.youtube.com/watch?v=GoImjQOEp-Q
Opera in un atto
Libretto: Béla Balázs
Nel 1910 Béla Balázs, scrittore di talento ma soprattutto uomo di cinema a tutto
campo, sottopose all'attenzione di Béla Bartók e Zoltán Kodály un suo breve
dramma ispirato al fiabesco personaggio di Barbablù. L'amicizia leale e la piena
identità di vedute che legava i tre artisti rendeva superfluo stabilire una priorità
dell'uno o dell'altro compositore su questo soggetto. A far decidere Bartók fu
l'occasione di un concorso per un'opera in un atto, bandito nel 1911 dal
Ministero per le belle arti di Budapest. Allora il clima culturale e politico in
Ungheria non era dei più favorevoli a lavori tanto innovativi, e la commissione se
la cavò giudicando «ineseguibile» la partitura del Castello del duca Barbablù,
criticandone inoltre la «fragile articolazione drammatica e il linguaggio
musicale». Apparentemente lo scacco non sembrò lasciare gran traccia
nell'animo del compositore, che proseguì la sua attività di concertista e di
ricercatore nel campo della musica etnica. Dal canto suo Balázs pubblicò nel
1912 il suo dramma insieme ad altri due atti (La fata, Il sangue della santa
Vergine), intitolando il trittico Misztériumok. I destini dei due artisti tornarono a
incrociarsi poco prima della fine della grande guerra in un clima politico più
favorevole, grazie alla mediazione del romano Egisto Tango. Insediatosi sin dal
1913 alla testa del Teatro dell'Opera di Budapest, Tango fu musicista di
tendenza cosmopolita, maturata agli inizi del secolo durante il lungo soggiorno
berlinese quale concertatore alla Volksoper, e in seguito al Metropolitan di New
York, dove per due anni fu a contatto diretto con Mahler e Toscanini. Era un
uomo estremamente aperto alle novità, e si adoperò per mettere in scena A fából
faragott királyfi (Il principe di legno) nel 1917: il balletto di Bartók su scenario di
Balázs ottenne un vivo successo, e ciò consentì al direttore italiano di riproporlo
il 24 maggio 1918 insieme a Barbablù, interpretato da Oszkár Kalmán e Olga
Haselbeck con la regia di Dezsó Zádor. Per il compositore e per tutti gli artisti e
intellettuali che partecipavano dei suoi stessi ideali fu una serata memorabile.
Purtroppo una sanguinosa guerra civile scoppiò dopo che Béla Kun aveva
formato, nel 1919, un governo ispirato a principi social-comunisti, di cui
facevano parte il filosofo Lukács e lo stesso Balázs, mentre Bartók, Kodály e
Dohnány divennero membri di un prestigioso comitato preposto alle attività
musicali. Gli eventi precipitarono nel volgere di pochi mesi, con la conquista del
potere da parte dell'ammiraglio Miklós Horthy, che impose un controllo spietato
su ogni aspetto della vita civile, con particolare attenzione per l'attività artistica:
Tango fu allontanato, Balázs dovette fuggire in Austria, mentre per i compositori
che avevano partecipato all'esperienza rivoluzionaria cominciarono tempi assai
duri.
Sinossi
Luogo dell'azione: nel castello del duca barbablù durante il Medio Evo.
Commento
Prima di Barbablù Bartók non si era mai cimentato col teatro, né aveva mai
scritto composizioni strumentali di vasto respiro; ma nonostante la mancanza
d'esperienza nel trattamento delle grandi forme risolse brillantemente ogni
problema, anche perché l'impianto del dramma di Balázs si rivelò perfettamente
congeniale alla sua natura. L'apertura delle sette porte gli fornì la scansione
ideale per altrettanti episodi, in ciascuno dei quali caratterizzò con estrema
varietà l'interno della sala che si o!re alla vista dei personaggi. La struttura viene
completata da una lunga introduzione, ripresa come epilogo dopo che l'ultima
porta si sarà richiusa alle spalle di Judit. Tale forma si attaglia perfettamente a
una peripezia dove giocano un ruolo chiarificatore diversi parametri scenico-
musicali fra loro coordinati. Ogni porta chiusa cela un brandello di verità
illusoria, che viene simboleggiato da raggi di luce di di!erenti colori. La luce
invade progressivamente il castello immerso nella tenebra, fino a toccare l'apice
all'apertura della quinta porta; poi cala nelle due successive sino a che l'oscurità
non torna a impadronirsi della scena. Questo arco trova piena rispondenza
nell'uso di una specifica tonalità, intrecciata con elementi modali, per ciascun
episodio, basato sulla polarità fra due estremi simmetrici: la cupa sezione
iniziale in fa diesis, e quella sfolgorante in do maggiore, situata alla metà esatta
della gamma esatonale. Mentre cala la luce, si torna progressivamente al tono di
partenza: 0) introduzione, fa diesis pentafono, tenebre; 1) sala della tortura, fa
diesis, raggio rosso; 2) sala delle armi, fa diesis - do diesis min., sol diesis min.
- raggio giallastro; 3) sala del tesoro, re magg., raggio dorato; 4) sala del
giardino, mi bemolle magg., raggio verde bluastro; 5) sala del regno, do magg.,
raggio bianco luminosissimo; 6) sala del lago di lacrime, la min., la luce cala
d'intensità; 7) sala delle mogli, do min., chiudono le porte 5 e 6, raggio
argenteo; 0) epilogo, fa diesis pentatonico, tenebre.
Il piano di contrasti che regge l'opera viene ulteriormente evidenziato dal livello
dei volumi orchestrali, che va e torna al pianissimo dopo aver sfogato nella
quinta porta una potenza sonora formidabile - accordi paralleli dalla piena
orchestra, ra!orzata dagli ottoni in scena e dall'organo. Questa struttura ha
un'immediata presa teatrale poiché comunica con chiarezza allo spettatore
l'evoluzione della vicenda.
Bartók compose Il Castello del principe Barbablù nel 1911: ma dovette aspettare
sette anni per vederlo sulle scene. Comunque la prima rappresentazione, diretta
all'Opera di Budapest il 24 maggio 1918 dal romano Egisto Tango (uno dei due
direttori prediletti da Bartók, l'altro era Sergio Failoni, italiano anche lui),segnò
una svolta importante per la notorietà del compositore nel suo paese; che solo
dopo questo successo cominciò ad ammettere nei concerti la sua musica con
una certa frequenza.
Il libretto si deve a una figura di primo piano nella cultura ungherese del tempo.
Bela Balàzs; il quale, drammaturgo, regista e sceneggiatore cinematografico, è
considerato tuttora fra i fondatori dell'estetica del film, accanto a Pudovkin e ad
Arnheim. Nato nel 1884, Balàzs doveva passare lentamente dalle iniziali
posizioni idealistiche al marxismo, a cui già lo inclinavano le tendenze politiche:
partecipò infatti alla rivoluzione comunista del 1919 (alla quale anche Bartók
dette la sua adesione) e perciò, quando intervenne la repressione, dovette
rifugiarsi in Austria, donde passò nel '32 a Mosca per tornare a Budapest solo nel
'45, poco prima della morte (1949). Ma il libretto del Barbablù, come quello del
balletto Il principe di legno, scritto pure per Bartók nel 1914, riflette soltanto la
sua fase giovanile, legata a un mondo poetico simbolista non privo di venature
espressioniste e pessimiste.
Dalla famosa favola divulgata da Perrault il Barbablù di Balàzs trae non più che
alcuni lineamenti esterni a pretesto di significati del tutto nuovi. Barbablù nel suo
libretto è semplicemente l'uomo che cerca l'appagamento per sé, senza dar nulla
in cambio, ed è condannato a non trovarlo: le sue donne sono solo momenti
provvisori della sua vita, destinati a sparire nel buio lasciandolo alla sua
solitudine. D'altro canto l'ultima ch'egli ha di fronte, dalla stessa sete di
dedizione e di sacrificio che possiede è spinta a voler tutto conoscere di lui; ma
conoscere il segreto di Barbablù vuoi dire scoprire appunto il suo destino di
solitudine e perciò la sua incapacità di accogliere ciò che la donna gli o!re.
Due soli sono i personaggi cantanti. L'inizio coglie la donna, Judith, nel momento
in cui segue per la prima volta Barbablù nel suo tetro castello. Judith ha
abbandonato tutto, e senza rimpianti lascia richiudere la porta del castello dietro
di sé. Ma vuol conoscere il passato di Barbablù: e una dopo l'altra ottiene le
chiavi delle sette porte segrete. La prima porta s'apre sulla camera di tortura, la
seconda sull'armeria, la terza sui tesori, la quarta sui giardini, la quinta sui
domimi di Barbablù; ma sebbene i raggi di luce che partono da ogni stanza, e
vanno uno dopo l'altro ad allinearsi sul pavimento, siano di colori diversi,
dappertutto la luce e le cose sono macchiate di sangue. La sesta porta s'apre
sopra un lago opalescente, che raccoglie le lacrime di Barbablù. Davanti alla
settima Barbablù oppone una resistenza maggiore. Ma Judith preme. Crede
d'aver capito: là dietro, pensa, saranno i cadaveri delle mogli assassinate,
sporche di sangue come i fiori, le armi, i gioielli delle altre stanze. E vuole aprire
per toccare il fondo del segreto, e dissolvere l'incubo. Barbablù cede: e
dall'ultima porta appaiono le sue prime tre donne. Ma vive, ingioiellate, regali.
Escono lentamente a una a una, e raggiungono Barbablù. Judith è come
annientata dalla loro bellezza. Ma Barbablù le rinvia una dopo l'altra: la donna
del suo mattino, la donna del suo meriggio, la donna della sua sera. Non sono
ormai che un ricordo del passato, un ricordo che dilegua. Judith le seguirà.
Barbablù la incorona, la riveste dei gioielli più luminosi, d'un mantello stellato, la
fa più splendida di tutte. E Judith, la donna della sua notte, sparisce dietro le
altre nella settima stanza che si richiude su di lei mentre l'oscurità invade per
sempre il castello sull'eterna solitudine di Barbablù.
Kodàly definì quest'unica opera di Bartók «il Pelléas ungherese». Ma questa frase
indica semplicemente che nel suo rigoroso rifiuto delle strutture operistiche
tradizionali (sia quelle italo-francesi che quelle wagneriane), nella sua purezza e
intransigenza stilistica, e anche in certo modo di concepire il rapporto fra il
declamato e l'orchestra, Barbablù può genericamente ricordare il capolavoro di
Debussy, e può aver esercitato, nel suo paese, una funzione storica in parte
analoga. Ma le somiglianze non vanno molto oltre questi termini. Lo stesso
giudizio tradizionale, che in quest'opera, scritta a trent'anni, vede il momento
impressionista dell'evoluzione del suo autore, va preso con molta cautela.
Evidentemente il gioco delle luci e dei colori, suggerito dal testo stesso, nel
Barbablù ha una importanza fondamentale; ma ben più come elemento di
un'architettura drammatica che come magia da coltivare in sé per sé. Infatti non
è quasi mai a"dato a mezzi puramente armonici e timbrici, ma quasi sempre
risulta dalla combinazione con fattori timbrici e tematici: e inoltre, si tratta il più
spesso di colori crudi, taglienti, che ben poco hanno a che fare con le soavità
debussyane.
L'opera non conosce Leitmotive, ma solo, come elemento ritornante, una cellula
elementarissima che simboleggia il sangue; la cui ossessione, come abbiamo
visto, torna quasi in ogni scena. Questa cellula consta semplicemente di un
bicordo, e precisamente del bicordo più dissonante che si conosca, la seconda
minore. Questo urto armonico, che talvolta si scioglie melodicamente in due
note successive, riappare continuamente, come un tarlo segreto, ogni volta che
lo spettro del sangue ria"ora alla vista e immaginazione di Judith e genera le
conseguenze armoniche e melodiche più diverse.
Fedele d'Amico
Nel 1918 Zoltan Kodàly scrisse un articolo sulla prima rappresentazione del
Castello del principe Barbablù: è un documento che vale la pena di ricordare se
non altro per gli stretti legami di amicizia e collaborazione che univano Bartók a
questo musicista. Kodàly si preoccupò soprattutto di mettere in luce il carattere
profondamente ungherese dell'opera e il suo legame con una tradizione
popolare il cui vero valore consisteva, secondo lui, in ciò che vi si era conservato
di una «musica primigenia», e cioè «l'intensa espressione del sentimento,
immune da ogni formula, non costretta da alcuno schema, il libero, spontaneo
linguaggio dell'anima». Una musica riscoperta nella sua autenticità proprio
grazie alle ricerche di Bartók e Kodàly: nell'articolo citato si sottolinea la
verginità, la purezza ancora sconosciuta di una tradizione popolare contadina,
che rappresenta «un carattere ungherese universale, profondamente tragico». E
senza esitazione Kodàly riconosce nel Barbablù la prima opera ungherese dove
lo stile vocale aderisce perfettamente ai caratteri della lingua. È naturale che
Kodàly insista soprattutto sulle peculiarità «nazionali» dell'opera e sugli aspetti
che maggiormente la distinguono da altre correnti musicali europee dell'inizio
del secolo; ma per comprendere esattamente il senso delle sue a!ermazioni non
si deve dimenticare che aveva in precedenza parlato di «individualissima fusione
tra una cultura primigenia e una cultura altamente sviluppata», fornendo subito
così una implicita indicazione sull'importanza dei rapporti tra Bartók e la musica
europea.
Nel 1911, l'anno di composizione del Barbablù, Bartók era ormai pervenuto alla
definizione dei caratteri della sua prima maturità. Aveva già composto, fra l'altro,
il primo Quartetto (1908-9), dove si riassumevano le esperienze giovanili, dagli
esordi sotto il segno di Strauss, Liszt, Wagner, alla originale e fondamentale
rimeditazione della lezione dell'ultimo Beethoven, alla scoperta di Debussy, ai
primi studi sulla musica popolare contadina ungherese, iniziati con Kodàly nel
1905. Quegli studi avevano lasciato il segno soprattutto in diverse composizioni
pianistiche, che in parte sono vere e proprie rielaborazioni di materiale popolare
ungherese e balcanico e in parte rivelano invece l'originale assimilazione di
alcuni suoi caratteri ritmici, melodici e armonici estranei alla tradizione
ottocentesca. Bartók ne veniva stimolato a sottrarsi, come egli scrisse, «alla
tirannia dei modi maggiore e minore» e ne mediava la assimilazione con una
consapevole, apertissima attenzione alle ricerche delle avanguardie del suo
tempo.
In tale ambito era senza dubbio Debussy l'autore da cui gli venivano gli stimoli e
le conferme maggiori negli anni del Barbablù, e proprio quest'opera è stata
spesso definita il «Pelléas ungherese». Sulla reale fondatezza di questa
definizione, sugli equivoci e sulle approssimazioni che rischia di comportare
converrà so!ermarsi, prendendo le mosse dal necessario punto di partenza, il
testo di Béla Balàzs. Il nome di Balàzs (1884-1949) è comunemente noto in Italia
per i lavori teorici sul cinema, scritti in URSS, ma all'epoca del «mistero in un
atto» Il castello del principe Barbablù (1909-10) era un poeta e scrittore
appartenente alla cerchia di Bartók e Kodàly e molto sensibile all'influenza della
poesia di Ady in Ungheria e del teatro di Maeterlinck. Il testo del suo dramma,
pubblicato nel 1910 con dedica appunto ai due amici musicisti, era stato o!erto
inizialmente a Kodàly, ma aveva invece interessato immediatamente Bartók, che
lo mise in musica (con qualche, omissione e modifica quasi sempre di scarso
rilievo) tra il febbraio e il 20 settembre 1911. In quello stesso anno l'opera fu
presentata ad un concorso operistico a Budapest, ad una commissione guidata
da Istvan Kerner (direttore dell'Opera di Budapest), e fu respinta e dichiarata
ineseguibile. Solo nel 1918, sull'onda del successo ottenuto l'anno prima dal
Principe di legno (il balletto del 1916-17 basato su un soggetto di Balàzs) l'unica
opera di Bartók potè essere rappresentata: andò in scena a Budapest, insieme
alla ripresa del Principe di legno, il 24 maggio sotto la direzione di Egisto Tango.
Il successo segnò una svolta nella carriera di Bartók, ma fu seguito da un periodo
di lungo silenzio, perché a partire dal novembre 1919, da quando cioè si impose
la dittatura dell'ammiraglio Horthy, l'opera fu messa al bando fino al 1936.
Nei sette anni che separarono il compimento del Castello del principe Barbablù
dalla prima rappresentazione, Bartók non lasciò la partitura immutata: nel 1912
e nel 1913 ritornò sulla sezione conclusiva, che solo nella primavera del 1918,
dopo ulteriori correzioni, trovò la forma definitiva. Tra il 1918 e il 1921, anno
della pubblicazione dello spartito per canto e piano, Bartók rivide a più riprese la
parte vocale dell'intera opera, apportando correzioni minori, attente
essenzialmente alle soluzioni prosodiche.
***
Balàzs aveva fatto ricerche sulle vicende letterarie e musicali della fiaba di
Barbablù, la cui storia «u"ciale» comincia nel 1697, con la pubblicazione dei
Contes di Perrault. Tra i precedenti musicali vi sono opere di Grétry (1789), Mayr
(1809), Morlacchi (1811), un balletto di Peter Winter (1795), varie musiche di
scena, la mordente operetta di O!enbach Barbe-bleu (1866); tra quelli letterari
vanno citati il Ritier Blaubart (1797) di Tieck e una fiaba dei fratelli Grimm; ma lo
studio di questi testi, indispensabile per la ricostruzione della storia di Barbablù,
non serve in modo diretto alla comprensione dell'opera di Balàzs e Bartók. Per la
stessa ragione non ci so!ermiamo sulla ricostruzione delle ragioni che portarono
ad un leggendario collegamento tra la figura di Barbablù e quella storica di Gilles
de Rais (o Retz) (1404-1440), il compagno d'armi di Giovanna d'Arco che nel
proprio castello si diede a pratiche di magia nera e si rese responsabile della
scomparsa e della morte di numerosi giovani e ragazzi: al processo in cui fu
condannato a morte confessò di aver provato profonda soddisfazione nel
«sangue, nella tortura e nelle lacrime», ma diede tali segni di pentimento che gli
fu revocata la scomunica. Solo in un secondo momento in leggende bretoni
l'oggetto delle sue crudeltà sadiche divennero figure femminili.
Per giungere a questo risultato Balàzs non si limitò a far proprie suggestioni
maeterlinckiane, e in generale del teatro simbolista. È di particolare interesse
una sua dichiarazione retrospettiva, in un articolo pubblicato sul giornale
ungherese di Vienna («Bécsi Magyar Ujsàg») il 21 maggio 1922: «... Mi sforzavo
di sviluppare uno stile drammatico ungherese... Volevo ritrarre anime moderne
con i semplici colori primitivi dei canti popolari. Volevo la stessa cosa cui mirava
Bartók... Secondo noi una totale novità poteva derivare solo da ciò che era
antico, perché solo da un materiale primigenio ci si poteva attendere che
reggesse la nostra spiritualizzazione senza volatilizzarsi tra le nostre mani».
***
Nel prologo (che è soltanto recitato) si avvertono gli spettatori del carattere tutto
interiore della vicenda («dov'è il palcoscenico, fuori o dentro?») e si parla di una
antica melodia nascosta, dal misterioso significato. Raccogliendo la suggestione
di questi versi introduttivi Bartók inizia l'opera con una melodia pentatonica che
evoca subito il clima di antica, leggendaria ballata e che ritornerà alla fine, a
chiudere la partitura con il ritorno alla situazione iniziale, quando il castello di
Barbablù è ripiombato nella cupa oscurità in cui era immerso al momento
dell'ingresso dei protagonisti. Le inflessioni pentatoniche sono uno degli aspetti
che collega lo stile del Castello del principe Barbablù alla rimeditazione del canto
popolare. Non meno essenziale è il legame riconoscibile con lo studio del
«parlando rubato» tipico del canto popolare magiaro e adattissimo ai peculiari
caratteri della accentuazione delle parole nell'ungherese. Bartók riuscì a ricreare
nella propria scrittura vocale uno stile capace di rispettare con flessibilità
altrettanto precisa i caratteri della lingua e del verso di Balàzs, seppe aderire
perfettamente alla prosodia del testo. Il fatto che i versi siano tutti di otto sillabe
(con il loro «monotono» ritmo da ballata) costringe Bartók ad una virtuosistica
sottigliezza di soluzioni ritmico-melodiche nel musicarli. La perfetta adesione
della sua vocalità alla lingua e al verso rende più intraducibile che mai il Castello
del prìncipe Barbablù, perché la trasposizione in altre lingue appiattisce e rende
monotono il ritmo della declamazione vocale. La prevalenza di disegni melodici
discendenti, la frequente adozione di intervalli non ampi (con eccezioni che
assumono però un rilievo particolarmente significativo), la sobrietà di un
recitativo «parlando» fondato su figurazioni brevi, ma capace di aprirsi a
momenti di respiro melodico intenso, con continue flessibili alternanze, sono
tutti aspetti peculiari della vocalità del Barbablù e riconducibili anche a
suggestioni dello studio del canto popolare. La singolarità di questo stile vocale,
che, come si è già detto citando Kodàly, costituiva un fatto del tutto nuovo nella
storia dell'opera ungherese, rende di"cile proporre il confronto con il Pelléas di
Debussy, basato su un testo in prosa, in lingua francese, teso ad esiti di natura
profondamente diversa. È stato detto che la vocalità dei personaggi del Pelléas
risulta molto più di!erenziata rispetto a quella dei due soli protagonisti del
Barbablù. In realtà nella scarna, disadorna, a!ascinante sobrietà del canto
bartokiano c'è spazio per una grande varietà di di!erenziazioni, che si legano
alla evoluzione psicologica dei due personaggi e al diverso rilievo che assumono
nello svolgersi dell'opera.
La scrittura vocale è uno dei mezzi con cui la musica di Bartók si impadronisce
del testo di Balàzs per conferirgli una evidenza drammatica e psicologica
straordinariamente incisiva, investendolo di una intensità espressiva che,
accogliendone con sensibile adesione le suggestioni, tende in un certo senso a
semplificarle, o meglio, a renderle più esplicite con un rilievo e un respiro tragico
che in sé non avrebbero. Il fatale percorso che Judith e Barbablù compiono verso
l'oscurità totale e la solitudine assume un carattere serrato, implacabile, grazie
anche alla geniale coerenza della soluzione formale complessiva. L'apertura delle
sette porte e la scoperta di ciò che celano comporta di necessità soluzioni
musicali ben caratterizzate, del tutto diverse l'una dall'altra, in un rinnovarsi
inventivo continuo che dà ad ogni scena una compattezza autonoma
(accogliendo anche soluzioni di «pittura» musicale, in senso non banalmente
descrittivo). Ma i diversi quadri sembrano nascere l'uno dall'altro, si collegano in
una continuità sinfonica sottolineata, come vedremo, da un elemento ricorrente:
la partitura è tutta sorretta da un respiro sinfonico unitario, che giustifica la
duplice e chiarificatrice definizione di Kodàly («Revue musicale» 1921)
«symphonie à tableaux», ma anche «drame accompagné d'une symphonie».
La pertinenza delle analisi del Kroó (che ha però il torto di voler leggere in chiave
marcatamente negativa il personaggio di Judith) non esclude la possibilità di
altre interpretazioni: il Castello del principe Barbablù è per sua natura aperto a
letture diverse, che non tutte si elidono a vicenda, contribuendo ad arricchire la
suggestione di quest'opera. Le tappe del confronto tra Judith e Barbablù si
prestano agevolmente ad una interpretazione psicanalitica (e non potrebbe
essere Judith colei che cerca invano di superare un blocco, un rifiuto da parte di
Barbablù?); ma potrebbero intendersi anche come i diversi momenti di un rito
iniziatico (con esito tragico). Occorre prestare attenzione al percorso ad arco, dal
buio alla luce al buio, che caratterizza in modo decisivo l'azione. La luce cresce
gradualmente fino allo splendore luminoso dato dall'apertura della quinta porta,
e poi cala fino all'oscurità totale in cui Barbablù scompare. Questa
contrapposizione tra oscurità e luce, tra notte e giorno, tra morte e vita sembra
ricondurre alle più lontane radici mitiche della storia di Barbablù, a elementari
simboli originari. Ernö Lendvai ha studiato la partitura nei rapporti tonali e nelle
soluzioni armoniche da questo punto di vista. L'arcano tema pentatonico iniziale,
che ritorna alla fine, è in fa diesis minore: coincide con i momenti di massima
oscurità. In do maggiore è invece la scena più luminosa, con il solenne tema
sottolineato da una successione di accordi perfetti maggiori per moto parallelo.
Fa diesis e do costituiscono dunque due poli opposti, e questa opposizione
coincide significativamente con la collocazione che hanno queste due tonalità nel
punto più alto e più basso del ciclo delle quinte. Lendvai cerca di riconoscere in
questa polarità, e nel rapporto che con essa hanno le soluzioni armonico-tonali
delle altre scene, un simbolo che giustifichi una interpretazione più ampia del
Castello del principe Barbablù al di là del problema del rapporto uomo-donna.
Secondo lui il castello di Barbablù potrebbe essere la vita stessa, che Judith
percorre aprendo l'una dopo l'altra le sette porte, fatalmente approdando alla
morte. E il suo amore potrebbe essere l'amore per la vita contrapposto all'anelito
all'infinito. In ogni caso anche l'impostazione dei rapporti tonali, e soprattutto la
accennata polarità fa diesis-do, può essere considerata un altro degli aspetti
della musica di Bartók che riconducono la vicenda a miti e riti lontani, ad una
dimensione antica, archetipica (ma ciò può valere anche per alcune altre delle
interpretazioni cui si è accennato).
Solo una minuziosa analisi potrebbe render conto dell'intensità con cui la musica
di Bartók si impadronisce del testo e ne segue e chiarisce l'articolazione, con una
forza espressiva, una ricchezza inventiva e insieme una sapiente sottigliezza che
non conoscono cedimenti. Ciò si deve anche alla peculiarità della soluzione
formale, che concilia, come già si è detto, la compiuta individuazione delle
singole scene (definite ciascuna da un proprio colore, da una propria tonalità e
da un elemento base che vi funge da nucleo centrale) con la continuità del fluire
sinfonico (che mantiene fra l'altro quasi costantemente una sostanziale
indipendenza dalla parte vocale).
Si è già accennato alle matrici stilistiche cui si può riferire l'opera: lo studio della
musica popolare (che influenza ovviamente anche la dimensione armonica: è
verosimile tra l'altro che la presenza di accordi per quarte debba ricondursi a
questa fonte assai più che ad antecedenti schönberghiani come la
Kammersymphonie op. 9) e le suggestioni di Debussy, che sono originalmente
reinterpretate nel magistrale uso dei colori orchestrali e in alcune soluzioni
armoniche. Anche Strauss, in particolare quello di Salome ed Elektra esercita una
qualche influenza non marginale. Ma questi punti di riferimento non tolgono
nulla all'interna coerenza e all'autonomia del Castello del principe Barbablù.
Convivono qui un conflitto drammatico profondo, che si svolge in una
dimensione teatrale astratta, non convenzionale, ma assolutamente avvincente, e
soluzioni musicali tendenzialmente statiche, come la frequente presenza
dell'ostinato, la scrittura prevalentemente omofona, armonie stagnanti,
ripetizioni ossessive o note lungamente tenute (e la monotonia prosodica dei
versi di otto sillabe). La convivenza di queste componenti statiche con l'e!etto di
coinvolgente continuità drammatica è straordinariamente e"cace e vale a
suggerire l'ineluttabilità di questa tragedia della solitudine, il senso di fatale
chiusura incombente sui personaggi. A tale e!etto contribuisce anche la relativa
sobrietà della scrittura orchestrale, pur così densa di invenzioni timbriche, e il
già accennato carattere spoglio della linea vocale, oltre alla brevità che sempre
prevale nei disegni melodici, vocali o strumentali.
Il Castello del principe Barbablù oltre ad essere uno dei capolavori della prima
maturità di Bartók, è una chiave preziosa per penetrare nel suo mondo poetico,
svelato più esplicitamente dalla presenza di un testo. Vi sono qui vocaboli che si
ritrovano in tutta la produzione successiva: si pensi al rapido rabbrividente
arpeggio che si accompagna alla visione del lago di lacrime, un gesto livido, un
fremito doloroso che come altri gesti analoghi, ritorna più volte in Bartók.
Quest'opera introduce agli aspetti più misteriosi e visionari della sua poetica.
Paolo Petazzi
Biografia
www.wikipedia.org
Biografia
Infanzia e giovinezza
Béla Bartók nacque a Nagyszentmiklós, nella regione ungherese del Banato (oggi
Sânnicolau Mare, in Romania).
Il padre, anch'egli di nome Béla, era direttore di una Scuola di agricoltura ed era
un musicista dilettante; la madre era un'insegnante di pianoforte. Dopo la morte
di suo padre (1888), Bartók si trasferì con la madre dapprima a Nagyszőlős (oggi
Vynohradiv, in Ucraina) e, successivamente, a Pozsony (oggi Bratislava, capitale
della Slovacchia).
Venne educato alla musica sin dall'età di cinque anni, dapprima dalla madre che
gli insegnò i rudimenti del pianoforte; a otto anni iniziò i primi tentativi di
composizione di piccoli pezzi. In seguito, a soli dodici anni, divenne allievo di L.
Erkel che lo iniziò alla composizione. Nel 1897 scrisse la sua prima sonata per
pianoforte. Dopo aver conseguito il diploma liceale si iscrisse all'Accademia
Reale di Musica di Budapest; qui studiò pianoforte con István Thomán, che era
stato alunno di Franz Liszt, e composizione con János Koessler. Conobbe in quel
periodo la musica tedesca, soprattutto Richard Wagner e Johannes Brahms; la
scoperta della musica di Debussy fu per lui di fondamentale importanza per la
sua evoluzione di compositore. In quegli anni incontrò Zoltán Kodály di cui
divenne amico e con cui successivamente raccolse molta musica popolare dalla
regione. Questo ebbe molta influenza sul suo stile; precedentemente, l'idea che
Bartók aveva della musica popolare ungherese derivava dalle melodie ascoltate
nei lavori di Liszt. Nel 1903 Bartók scrisse un grande lavoro orchestrale, il poema
sinfonico Kossuth, in onore di Lajos Kossuth, eroe della rivoluzione ungherese
del 1848, contenente melodie in quello stile e da cui lavorò per estrarre una
marcia funebre pianistica che lo rese celebre come pianista-concertista-
compositore per lo stile "nazional-ungherese" , capeggiato da Paderewsky,
Busoni, d'Albert e dall'ungherese Ernő Dohnányi.
Dopo aver scoperto le musiche contadine dei magiari, che erano le autentiche
musiche popolari ungheresi, Bartók cominciò a includere canzoni popolari nelle
proprie composizioni e a scrivere temi originali con caratteristiche simili, oltre ad
usare frequentemente figure ritmiche di matrice folklorica.
La musica di Richard Strauss, che incontrò alla prima di Also sprach Zarathustra
a Budapest nel 1902, lo influenzò molto (trascrisse ed eseguì più volte a
memoria il poema sinfonico Vita d'Eroe). Questo nuovo stile emerse durante gli
anni seguenti. Bartók stava costruendo la sua carriera pianistica, quando nel
1907 ottenne il posto di professore di pianoforte all'Accademia Reale. Questo gli
permise di rimanere in Ungheria e di non girare l'Europa come pianista e gli
lasciò più tempo per raccogliere altre canzoni popolari, soprattutto in
Transilvania. Intanto la sua musica cominciava ad essere influenzata da
composizioni di Claude Debussy che Kodály aveva portato da Parigi. I suoi lavori
orchestrali erano ancora scritti alla maniera di Johannes Brahms o Richard
Strauss, ma scrisse numerose composizioni brevi per pianoforte che mostrano il
suo crescente interesse per la musica tradizionale. Probabilmente il primo brano
che mostrava chiaramente i suoi nuovi interessi è il Quartetto per archi n. 1
(1908), che contiene vari rimandi alla musica folklorica. Nel 1908 scrisse le 14
bagatelle per pianoforte, in cui cominciò a delineare il suo stile che appunto
parte dal pianoforte, distaccandosi dal romanticismo, basandosi su procedimenti
armonici basati su intervalli diminuiti ed eccedenti, sulla bitonalità e su una
marcata percussività, elemento che si ritrova anche in Prokof'ev e Stravinskij.
Altre composizioni pianistiche importanti in Bartók sono la Rapsodia Op.1 e i
Quattro pezzi per pianoforte, ricchi di influenze Brahmsiane, più altri lavori da
camera quali la Sonata per violino e pianoforte e il Quintetto per pianoforte ed
archi.
Bartók focalizzò sulla percussività l'Allegro Barbaro del 1911, parallelamente alla
Toccata Op.11 di Prokof'ev e alla Danza Rituale del Fuoco di Manuel de Falla in
cui il pianista rende l'e!etto percussivo anche con la gestualità.
Nel 1909 Bartók sposò Márta Ziegler. Il loro figlio, anch'egli di nome Béla,
nacque nel 1910.
Nel 1911, Bartók scrisse quella che sarebbe stata la sua unica opera, Il castello di
Barbablù, dedicata a sua moglie, Márta, ancora ricca di influenze stilistiche
derivanti da Strauss e Debussy. Con questa composizione partecipò a un
concorso indetto dalla Commissione Ungherese per le Belle Arti, ma questi
dissero che era insuonabile, e la respinsero. L'opera rimase ineseguita fino al
1918, quando il governo fece pressione su Bartók perché togliesse il nome del
librettista, Béla Balázs, dal programma a causa delle sue convinzioni politiche.
Bartók si rifiutò, e alla fine ritirò il lavoro. Per il resto della sua vita, Bartók non si
sentì molto legato al governo o alle istituzioni ungheresi, pur continuando la sua
passione per la musica popolare.
Di questo periodo sono anche i Due ritratti Op.5 (1907-08) e i Due quadri Op.10
(1910) per orchestra, l'Allegro barbaro (1911) per pianoforte (che ebbe molto
successo per le sue timbriche appunto barbariche e per la sua melodia semplice),
prima geniale sintesi del suo stile, la Suite per pianoforte Op.14 (1916), le due
Sonate per violino e pianoforte (1921 e 1923) scritte per Jelly d’Arányi e le Sei
danze popolari rumene per orchestra. I lavori di questo periodo sono
caratterizzati da un'energia ritmica basata sull'ossessione percussiva e una
ricerca timbrica molto fine immersa in un'armonia ai limiti dell'atonalità in cui
l'influenza popolare viene immessa attraverso rielaborazione e reinvenzione. Le
Melodie di Canzoni natalizie rumene sono dello stesso periodo delle Danze
popolari rumene (1915) che raggiunsero abbastanza successo da essere
pubblicate dalla Universal di Vienna nel 1918. Tuttavia le Danze rumene non
sono pensate come brani da concerto come la Suite Op.14, in cui Bartók dichiara
di voler superare lo stile accordale tardoromantico a favore di una
strumentazione "fatta di ossa e muscoli", trasparente e semplice come quella
dell'Allegro barbaro, ma alleggerita dall'assenza dei raddoppi. Questa suite viene
collegata da molti critici alla Sonata No.2 Op.14 di Prokofiev (1912), alla Sonatina
ad usum infantis di Busoni (1916) e a Le tombeau de Couperin di Ravel
(1914-17) e rappresenta quel percorso di distacco dal tardoromanticismo che
troverà le sue propaggini nella Sonata Op.1 di Berg (1908) e dai Tre pezzi Op.11
di Schönberg del 1909. Un altro aspetto che colpisce di questa suite è la
drammaturgia nei contrasti tra i movimenti, legabile al conflitto bellico, che trova
prodromi già nella Sesta sinfonia di Čajkovskij e nella Grande Sonata Op.33 di
Alkan. Nell'ultimo movimento (Sostenuto) vengono usate le quarte giuste con
finalità ritmico-timbriche. La simbologia bartokiana è di di"cile interpretazione,
comunque si ritiene che la presenza di un valzer sia riferita a Vienna. La
armonizzazione delle melodie popolari presenti nella Suite è ingegnosa e si basa
sulla presenza palese del tritono ottenuto dividendo l'ottava in due parti uguali
per armonizzare in maniera del tutto nuova, al contrario della maniera
ottocentesca. Nel primo movimento vengono accostati accordi di Sib maggiore e
Mi maggiore e l'accordo di settima di dominante è costruito con la settima
maggiore anzi che minore.
Dopo il disappunto causato dal premio della Commissione per le Belle Arti,
Bartók scrisse molto poco per due o tre anni, preferendo concentrarsi sulla
raccolta e l'arrangiamento di musica tradizionale (in Europa Centrale, i Balcani e
la Turchia). Comunque, lo scoppio della prima guerra mondiale lo costrinse ad
interrompere queste spedizioni, e ritornò a comporre, scrivendo il balletto Il
principe di legno nel 1914-16 e il Quartetto per archi n. 2 nel 1915-17. Fu Il
principe di legno a dargli un certo grado di fama internazionale. Bartók
successivamente lavorò a un'altra composizione, la pantomima Il mandarino
meraviglioso, con uno stile più moderno del Castello del Duca Barbablù,
influenzata in particolare dalla musica di Igor' Fëdorovič Stravinskij e dal primo
Arnold Schönberg.
Bartók divorziò da Márta nel 1923, e sposò una studentessa di pianoforte, Ditta
Pásztory. Il suo secondogenito, Péter, nacque nel 1924.
Nel 1918 portò a termine anche i Tre studi per pianoforte in cui più che il
virtuosismo emergono le idee creative e bizzarre. Sono vicini all'atmosfera dei
Tre pezzi op.11 di Schönberg ma anche alla forma di trittico-sonata che
troviamo in Debussy (Images, Estampes) e in Ravel (Gaspard de la Nuit). Nel
primo studio si trovano accenti in controtempo che anticipano leggermente gli
Studi per pianoforte di György Ligeti, specialmente il primo del Libro I. Nel 1920
scrisse su commissione della Revue musicale di Parigi le Serre improvvisazioni su
canti di contadini ungheresi (Op.20). Gli venne commissionato un solo pezzo
(che fu poi la settima improvvisazione) da pubblicare in un supplemento
chiamato Tombeau de Debussy, a cui contribuirono anche De Falla, Stravinsky,
G.F. Malipiero, Dukas e altri.
Negli anni venti intraprende una serie di tournée concertistiche per l'Europa che
gli procurarono simpatie ma pochi compensi; furono quindi accettati nei recital
solo i brani più brevi (quindi non la Suite né la Rapsodia) come pezzi di carattere
alla Grieg.
Nel 1926 ricomincia a scrivere alcune composizioni, dopo un periodo infecondo
di qualche anno: abbiamo così i Quartetti per archi nn. 3 e 4 (1927 e 1928), in
particolare il terzo quartetto è ricordato per essere stato scritto
contemporaneamente al terzo quartetto di Schönberg a cui è legato per
l'evasione tematica, mentre la ritmica è più vicina a Stravinskij, e troviamo in
esso anche un embrione della micropolifonia di Ligeti chiamato da alcuni
micromelodia, le due Rapsodie per violino e pianoforte o orchestra (1928), la
Cantata profana (1930), lavoro vocale con trama fantastica su una fiaba rumena,
il primo e il monumentale secondo concerto per pianoforte e orchestra (1926 e
1930-31), la Sonata per pianoforte del '26, legata ancora alle composizioni
giovanili ma con una struttura decisamente Beethoveniana anche se manca una
contrapposizione dialettica tra i temi. Bartók definisce la tonalità di Mi maggiore,
anche se essa rappresenta solo una tonica polarizzante all'ascolto (in origine
nell'ultimo movimento c'era un tema Moderato che è stato poi rimosso per il suo
contrastante aspetto barocco e messo come Musette della suite All'aria aperta).
Negli anni trenta nasce invece una serie di composizioni più mature e
soprattutto più equilibrate (definite da alcuni come il periodo neoclassico di
Bartók in quanto si riscontrano ascendenze Beethoveniane): Quartetto per archi
nº5 (1934), Musica per strumenti a corde, percussioni e celesta (1936) e la
Sonata per due pianoforti e percussioni (1937, di cui esiste anche la forma in
concerto con orchestra), composizioni particolarmente legate dal tono lamentoso
e macabro degli adagi "notturni" in contrasto con la vivacità ritmica dei momenti
più veloci in cui il pianoforte esprime il massimo grado di percussività che
possiamo trovare in Bartók, specialmente nella sonata, con i timpani che
anticipano i pianoforti con una scansione ritmica tribale (i pianoforti si
scambiano spesso in passaggi imitativi e nell'ultimo movimento c'è anche la
presenza dell'hoquetus; poi abbiamo ancora i Contrasti per violino, clarinetto e
pianoforte (1938, dedicati al clarinettista jazz Benny Goodman), il Concerto per
violino e orchestra (1938) e il Divertimento per archi (1939), più il Quartetto per
archi nº6 (1939), i 44 Duetti per due violini (1931) e la di"cile Sonata per violino
solo (1944, composta già negli Stati Uniti per Yehudi Menuhin) in cui Bartók
porta a compimento i propositi stilistici avviati in questi anni.
Nel 1940, dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, e con il
peggioramento della situazione politica in Europa, Bartók si convinse che doveva
andarsene dall'Ungheria. Bartók si oppose fortemente ai nazisti. Dopo che
ebbero preso il potere in Germania, non vi tenne più concerti e lasciò il suo
editore tedesco. Le sue vedute liberali (che sono evidenti nell'opera Il castello di
Barbablù e nel balletto Il mandarino meraviglioso) gli causarono una gran
quantità di guai da parte della destra ungherese. Dopo aver spedito i suoi
manoscritti all'estero, Bartók si trasferì con riluttanza negli USA con Ditta
Pásztory alla fine del 1940. Péter Bartók li raggiunse nel 1942 e più tardi si
arruolò nella Marina degli Stati Uniti. Béla Bartók Jr. rimase in Ungheria. Anche se
venne accolto con molti onori, Bartók non si sentì mai a suo agio negli USA, e
trovò molto di"cile comporre. Gli venne dato l'incarico di tenere un corso alla
Columbia University dove era stato nominato dottore honoris causa ed ebbe la
possibilità di tenere molti concerti, anche con la moglie Ditta; egli però non era
molto conosciuto in America e c'era poco interesse per la sua musica che venne
spesso stroncata. Per qualche tempo ebbe una borsa di studio per lavorare su
una collezione di canzoni tradizionali iugoslave, ma la situazione economica
della famiglia andò sempre peggiorando, così come la salute di Bartók che
incominciava a manifestare i sintomi della leucemia.
Il suo ultimo lavoro sarebbe potuto essere il Sesto quartetto per archi, lavoro
interessante per la sua tonalità aleggiante e polimodale e per la ricchezza degli
assoli di viola e violini in sordina nei movimenti lenti e mesti (vicinanza con altre
composizioni come i Contrasti per violino, clarinetto e pianoforte ma anche a
modelli come la Grande fuga per quartetto d'archi di Beethoven) se non fosse
stato per Serge Koussevitsky che gli commissionò il Concerto per orchestra, che
divenne il lavoro più popolare di Bartók e che risollevò le sue finanze; anche se
scritto con minor sentimento interiore si può notare come il compositore abbia
molto accentuato gli elementi coloristici e timbrici che ritroviamo anche nel
Concerto per pianoforte e orchestra n. 3 (1945), un lavoro arioso e quasi neo-
classico, e nel suo incompiuto Concerto per viola e orchestra, completato più
tardi dal suo allievo, Tibor Serly.
Nel Concerto per orchestra Bartók mantiene nei cinque movimenti una struttura
circolare con una costruzione strutturata a linee di intensità timbrica e atonale
con un uso accostato di omofonia e polifonia. Una struttura simile ma
rimpicciolita la troviamo nei quartetti (furono anch'essi composizione molto
discusse per la loro percussività e contrapposti per esempio ai limpidi quartetti
di Šostakovič) dove viene proprio definita una struttura ad arco o a ponte.
Béla Bartók morì a New York di leucemia il 26 settembre 1945 in grande povertà.
Le spese del suo funerale furono sostenute totalmente dall'ASCAP, l'Associazione
per la protezione dei diritti d'autore. Al suo funerale parteciparono solo dieci
persone; tra loro c'erano sua moglie Ditta, il loro figlio Péter e il pianista György
Sándor, suo allievo e amico.