Sei sulla pagina 1di 6

Il concetto di ludico

Adesso passeremo all’analisi di film o sequenze che attribuiscono ai suoni, soprattutto quelli
organizzati secondo strutture musicali, un ruolo protagonistico. È bene distinguere tra due
forme di ​protagonismo musicale: ​una prima forma narrativa, in cui la musica diventa anche
solo temporaneamente, il centro della narrazione e una forma non-narrativa, in cui la musica
è parte integrante di un organismo filmico che si libera dalle leggi del racconto
sospendendolo momentaneamente.
Al termine non-narrativo sarà sostituito il termine “ludico”, riferendosi ad un concetto molto
funzionale nell’estetica ovvero il ​gioco​. Applicato al linguaggio audiovisivo, il concetto di
ludico va oltre ciò che è divertente o addirittura comico, perché il gioco viene considerato
come movimento autorappresentativo che non è indirizzato verso un fine specifico.
I momenti ludici pertanto sono costituiti da una combinazione autorappresentativa di suoni e
immagini, priva di una meta narrativa che viene sospesa durante tutta la sequenza.

Musica in fabula: pretesto, materia, dimensione

Ci sono casi in cui all’interno di un film narrativo, una circostanza musicale diegetica si
aggiudica un ruolo protagonistico. Tale momento può essere sfruttato dal regista per
indagare alcune sfaccettature della realtà oggetto del racconto filmico o della psicologia di
un personaggio.
In una sequenza tratta da Sinfonia d’autunno (1978) di Ingmar Bergman, le due diverse
interpretazioni pianistiche delle stesso preludio di Chopin, descrivono le opposte personalità
di un’affermata pianista e di sua figlia, rivelando rancori, fratture, incomprensioni e distanze
all’interno del loro rapporto e costituiscono un pretesto per indagare la loro psicologia.
Il protagonismo musicale può conquistare un intero film, in questi casi l’arte dei suoni
attraversa alternativamente ​diéghesis​ e ​golfo mistico invisibile,​ conservando sempre il ruolo
di protagonista.
Nella complessa sequenza tratta da Amadeus (1984) di Milos Forman, il regista ricostruisce
il processo creativo che portò alla creazione del ​Confutatis d ​ el Requiem di Mozart,
attraverso un protagonismo musicale di tipo narrativo, unito ad alcune ambiguità diegetiche
che rendono la musica l’elemento fondamentale dell’intera sequenza, materia dalla quale
deriva il racconto filmico.
In questi casi la musica crea una dimensione nella quale far muovere ed esprimere i
personaggi, in cui svolgere gli eventi. È il caso del musical cinematografico che esattamente
come l’opera lirica e il musical teatrale, ci rende partecipi di un universo tutto musicale, in cui
i personaggi agiscono inconsapevolmente su ritmi e melodie, intrappolati in un sogno che in
parte abbandona le leggi della nuda realtà.
Perfetto esempio di questo supremo protagonismo musicale è il film Moulin Rouge (2001) di
Baz Luhrmann, dove un mosaico di musiche di ogni epoca invade ​diéghesis​ e ​golfo mistico
invisibile, ​infrangendo le regole della realtà diegetica. Il momento che esprime meglio questa
realtà inafferrabile e illusoria è la sequenza soprannominata “Elephant Love Medley” nella
quale il protagonista Christian dichiara il proprio amore a Satine cantando un medley di
canzoni scritte tra il 1967 e il 1985.
Fotogrammi come note: l’addio alla dieghésis

Le sale cinematografiche ospitano generalmente lungometraggi narrativi, quelli che ormai


sono penetrati nella nostra consuetudine fruitiva. Ma non tutti i film sono narrativi. Alcuni - a
partire da quelle incursioni sperimentali di pittori e poeti d’avanguardia nel cinema -
compongono immagini e suoni liberandosi dalla necessità di raccontare alcunché,
rinunciando alla ​diéghesis, ​emancipandosi dalla struttura narrativa e dalle sue ragioni
semantiche, contenutistiche. In questi casi il cinema è già musica, prima ancora di essere
musicato, perché tutti i suoi elementi costitutivi (inquadrature, fotografia, movimenti di
macchina, montaggio) seguono le stesse leggi asemantiche dell’arte del suono: ritmo,
armonia, dinamica, disarmonia, associazione, contrasto.
Qual è dunque il ruolo della musica in questi organismi filmici avulsi da principi narrativi?
La musica non sta né dentro, né fuori dalla ​diéghesis, ​perché la ​diéghesis ​non c’è e quindi
non c’è nemmeno il ​golfo mistico invisibile. ​Non può instaurare con le immagini alcun tipo di
rapporto sia esso parallelismo, contrappunto oppure anempatia, perché non ci sono
contenuti narrativi. La musica trovandosi spoglia di qualsiasi funzionalità che abbia a vedere
con significati e concetti, può soltanto regalare la propria libera fisicità fatta di timbri,
dinamiche e frasi melodiche, confermando attraverso i suoni la pura musicalità dei
fotogrammi. Il protagonismo assoluto della musica nel film non-narrativo consiste nella sua
presenza all’interno dei movimenti visivi già a prescindere dai suoni, e nel suo confermare
attraverso i suoni le successioni di immagini in quanto coreografia visuale.
Si tratta di un protagonismo ​ludico​, in quanto autorappresentativo e slegato da ogni fine
narrativo e referenziale.
Alcuni esempi di protagonismo musicale all’interno di film non narrativi sono offerti da ​Le
ballet mécanique​ di Ferdinand Léger con musiche di Dudley Murphy, ed ​Entr’acte​ di René
Clair con musiche di Erik Satie. In ​Entr’acte,​ libere associazioni squisitamente dada di
immagini grottesche e dissacratorie, al ritmo di un montaggio abile e incalzante, approdano
alla parodia di un funerale. Nella parte antecedente alla sequenza finale, che invece
presenta una componente narrativa sostenuta musicalmente da un parallelismo parodistico,
Satie regala alla musica, riducendola ad elemento dinamico-ritmico puramente astratto, un
protagonismo ludico che la rende libera da qualsiasi riferimento alla realtà.
Nonostante i film non-narrativi rimangano tuttavia esperimenti isolati, anche nei più usuali
film narrativi è possibile rintracciare dei ​momenti ludici​, in cui immagini e suoni si
intrecciano senza dover necessariamente raccontare alcunché. rimanendo estranei ad
esigenze narrative, descrittive o referenziali. Possono introdurre un film (ritardo ludico della
narratività) oppure essere inseriti durante il suo svolgimento (sospensione ludica della
narratività) o infine costituirne il suo finale (conclusione ludica della narratività).

Ritardo ludico della narratività

Si presenta come un’iniziale riluttanza del film a prendere un avvio narrativo lineare. Così
Come l’ouverture di un'opera lirica preannuncia il materiale tematico che nel corso della
rappresentazione prenderà il volto dei personaggi e delle situazioni sulla scena, così il
ritardo ludico può farsi serbatoio non-narrativo di elementi audiovisivi che più avanti
acquisiranno un senso nuovo, diventando finalmente intelligibili allo spettatore.
Esempi di ritardo ludico della narratività si possono trovare nei titoli di testa di ​Nostalghia​ di
Tarkovskij oppure nel prologo di ​Persona​ di Bergman e infine nella celebre Ouverture
prevalentemente non narrativa del film Apocalypse Now di Francis Ford Coppola.

Sospensione ludica della narratività

Quando il regista decide di inserire nel lineare svolgimento narrativo di un film un momento
statico dal punto di vista dell'azione, fa uso della sospensione ludica della narratività. Le
funzioni sono molteplici: attraverso questa sospensione il regista può provvisoriamente
evadere dalla schematica consequenzialità del racconto, può racchiudere in parentesi non
narrative un sistema di rimandi simbolici alle tematiche della fabula, può esprimere una
verità complessa o un senso sfuggente che risulta impossibile intrappolare nelle gabbie
semantiche della narrazione. Molto spesso questa sospensione nasconde però la propria
sostanza non-narrativa dietro una giustificazione narrativo-descrittiva.
Nel film ​A clockwork Orange​ di Kubrick, c'è una sequenza in cui il protagonista Alex ascolta
il secondo movimento della nona sinfonia di Beethoven, in questo momento la narrazione
viene sospesa e dietro il pretesto narrativo di descrivere la stravagante stanza del
protagonista e le sue fantasticherie di violenza, si nasconde il desiderio del regista di
indugiare in una sorta di videoclip che non racconta nulla.
In ​Pulp Fiction​ di Tarantino il balletto simil Twist sulle note di You Never Can Tell di Chuck
Berry sembra far parte di un percorso narrativo, in realtà la lunghezza di questa scena è
narrativamente ingiustificata in un momento in cui siamo ansiosi di scoprire come andranno
le cose tra i due personaggi, è una sequenza che sembra dimenticarsi della tensione del
racconto, per giocare con le aspettative dello spettatore. Questo è un caso di sospensione
della narratività in cui è possibile rintracciare una funzione drammaturgica che moltiplica
nello spettatore l'aspettativa di una evoluzione narrativa.

Conclusione ludica della narratività

La conclusione ludica della narratività può precedere, comprendere, coincidere con i titoli di
coda, e consiste o in un progressivo approdare del racconto filmico a un finale costruito
attraverso sovrapposizioni non narrative tra i livelli sonoro e visivo, o in una sorta di
appendice non narrativa immediatamente successiva al finale narrativo, qui non si tratta più
di danzare con suoni e immagini per evadere dal racconto, né di costruire sospensioni
drammaturgiche o edonistiche del discorso narrativo, siamo al finale al punto di arrivo di un
film. Quando il regista opta per una conclusione ludica, il fatto che essa contenga gli ultimi
elementi audiovisivi che lo spettatore percepisce del lungometraggio è determinante, questi
simboli sembrano suggerire il senso più profondo dell'intero film, un senso che dunque
trascende i messaggi univoci del racconto, qualcosa che è impossibile esprimere con segni
linguistici convenzionali e che pertanto rimane aperto.
Il finale di ​Otto e Mezzo​ di Fellini si configura come espressione eminentemente ludica del
traguardo esistenziale del protagonista, proprio perché questo traguardo è intimamente
ludico. Guido, infatti, costantemente alienato in un mondo caotico è incapace di trovare
l'ispirazione per girare un film, nel suo ultimo monologo interiore giunge alla conclusione che
quel caos lo rispecchia e quindi può costituire esso stesso la materia prima del suo film. In
una totale astrazione della realtà, Guido diventa regista della passerella surreale di tutti i
personaggi, che si uniscono in un girotondo simbolico, al suono di una stravagante banda
circense che esegue, aiutato da un'orchestra invisibile, le celebri musiche di Nino Rota. In
questo assurdo meta-cinematografico, l'azione narrativa svanisce nel nulla confermando il
ruolo protagonistico della musica, suggerendo inoltre che il senso stesso della vita è ludico.

Il silenzio

All'epoca del cinema muto, una delle funzioni della “musica da accompagnamento” era
quella fondamentale di farsi antidoto contro la cosiddetta terribilità dell'immagine
cinematografica muta, neutralizzando la sensazione tetra e sgradevole di un impiego
unilaterale dei sensi. Con l'avvento del sonoro cambia tutto, il silenzio diventa scelta
consapevole di un regista, dettata da precisi intenti estetici ed espressivi, non più necessità
imposta da impedimenti tecnici. Nel cinema sonoro Il silenzio è paradossalmente più
presente che nel cinema muto, quando nel golfo mistico (visibile) di un teatro lirico
l'orchestra rimane in silenzio, abbiamo modo di ascoltare rumori e voci che popolano il
palcoscenico, nel cinema sonoro narrativo invece, il ​golfo mistico invisibile​ può ospitare due
forme di silenzio: una passiva, cioè l'assenza di suoni extradiegetici; e una attiva, un vuoto
sonoro over che si sostituisce ai suoni diegetici e che in quanto spettatori dovremmo
verosimilmente ascoltare. Il cinema dunque può offrire, a seconda delle circostanze, sia un
silenzio diegetico​ generato dall'assenza di dialoghi, di eventi narrativi e musiche
diegetiche; sia un ​silenzio extradiegetico​ prodotto cioè proprio dal ​golfo mistico invisibile
che, tutto a un tratto, ci impedisce di ascoltare gli eventi sonori della ​diéghesis​ sostituendosi
ad essi senza una giustificazione narrativa.

Silenzio diegetico

Il silenzio diegetico non è soltanto la conseguenza sonora accidentale di un'azione


silenziosa e priva di dialoghi, in alcuni film si conquista addirittura un ruolo protagonistico,
tradendo così l'esigenza vitale da parte del regista di proiettare in esso un prezioso universo
simbolico. Tarkovskij ad esempio ci regala una personalissima interpretazione di quel
silenzio in cui sono immerse lunghe e numerose scene prive di dialoghi dei suoi film. È un
silenzio che nella sua relatività lascia affiorare dalla ​diéghesis​ l'eco di suoni lontani e
impercettibili come avviene nel film ​Offret​ del 1986. I proverbiali silenzi diegetici di Bergman,
costituiscono la dimora privilegiata dei rumori anempatici appena percettibili che
scandiscono con la propria indifferenza la solitudine e il dolore dell'uomo. Sono silenzi che
alludono quasi sempre al tema, fondamentale nella filmografia del regista svedese, del
Silenzio di Dio.
In ​Tystnaden​ (il silenzio, 1963) Dio sembra completamente assente, il film è ambientato in
un paese imprecisato dove si parla una lingua incomprensibile, quasi a vivere la parola
stessa come rumore semantico e anempatico, a conferma di quella indifferenza, di quella
solitudine, di quella incomunicabilità, di quel silenzio, appunto, a cui il lungometraggio è
intitolato.
Il silenzio diegetico è sostanzialmente relativo, in quanto rappresenta l’assenza di dialoghi e
di eventi particolarmente rumorosi in un contesto che tuttavia, per il solo fatto di essere
narrativo e verosimile, rimane sonoro.
Un caso particolare di​ silenzio diegetico assoluto​ è quello che troviamo in alcune scene del
film ​2001: A space Odyssey​ di Kubrick, è il silenzio dello spazio, il silenzio più assoluto che
la ​diéghesis​ possa giustificare, che ha bisogno di essere assoluto proprio per essere
realistico.

Silenzio extradiegetico (over)

Il silenzio extradiegetico proprio in quanto narrativamente ingiustificato e trasgressivo


rispetto ai principi di una riproduzione mimetica della realtà, è attivo e assoluto, colpisce lo
spettatore, stimola in lui una reazione, lo porta a chiedersi: perché il regista ha deciso di
inserire questo silenzio? che senso ha? Ecco perché il silenzio over trova il suo più ampio
utilizzo in scene particolarmente drammatiche, in sequenze oniriche, in film comici e in film
che abbracciano l'assurdo.
Quanto alla funzionalizzazione drammatica del silenzio extradiegetico, la costruzione
audiovisiva del finale di ​The Godfather, part III​ di Francis Ford Coppola è perfettamente
esemplificativa. Davanti al teatro dell'opera, dopo la rappresentazione della Cavalleria
Rusticana di Mascagni viene uccisa Mary, figlia del Padrino Michael Corleone. Nella
diéghesis​, le urla dei presenti si sovrappongono le une alle altre in un crescendo
drammatico. Improvvisamente, Tutto sembra fermarsi, e un silenzio irreale lascia affiorare
dal ​golfo mistico invisibile​ le note della Cavalleria (diegetiche fino a un attimo prima dentro il
teatro) e una voce di donna narrativamente ingiustificata, lontana, che urla <<hanno
ammazzato la signorina Maria!>>, che traccia arbitrariamente un parallelo col finale
dell'opera di Mascagni <<hanno ammazzato Compare Turiddu!>>.
L'interruzione irreale dei suoni della ​diéghesis​ con cui si manifesta il silenzio over può anche
costituire un possibile canale attraverso cui il ​golfo mistico invisibile​ suggerisce allo
spettatore l'ingresso in una dimensione altra rispetto ai contenuti realistici svolti dalla
narrazione cinematografica. L'improvvisa assenza di suoni che dovremmo ascoltare da
sorgenti sonore diegetiche in e off può avvisarci che il racconto sta momentaneamente
abbandonando la realtà per entrare nel sogno, nell'immaginazione, nel ricordo,
nell'astrazione.
Il silenzio extradiegetico, poi, può essere anche prolungato per il corso di un intero film,
quando un regista successivo alla nascita del sonoro decide ugualmente di cimentarsi in un
esperimento cinematografico. In questi casi, il “mutismo filmico” non è frutto dell'impossibilità
tecnica di riprodurre il suono, ma un'opzione estetica ad esclusivo beneficio dello spettatore.
A discrezione del regista, il golfo mistico invisibile può uscire di scena insieme al silenzio che
imprime arbitrariamente nel racconto filmico, e lasciar affiorare elementi sonori della
diéghesis​, quasi a scoprire le carte e svelare che quello non è un film muto, è piuttosto un
film sonoro che gioca ad emulare un film muto.
In ​Silent Movie​ di Mel Brooks l'effetto di questa rivelazione esilarante. Si tratta di un film che
elimina intenzionalmente il sonoro dei dialoghi e racconta di un regista alcolizzato che vuole
realizzare, guarda caso, proprio un film muto. Accettano volentieri di partecipare a questo
film, nei panni di loro stessi, i divi più improbabili: Liza Minnelli, Anne Bancroft, Paul
Newman, James Caan, Burt Reynolds. Il paradosso risiede nel fatto che l'unica piccola
infrazione di quel silenzio over che percorre tutto il lungometraggio è affidata al sonoro
<<no!>> diegetico, pronunciato al telefono dall'artista che ha meno a che fare con la parola e
che per questo sembra più degli altri perfetto per il progetto di un film muto: il celebre mimo
francese Marcel Marceau.

Potrebbero piacerti anche