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Paisà. Analisi del film; Riassunto

Storia e critica del cinema (Università degli Studi di Milano)

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Paisà, analisi del film


A cura di Stefania Parigi
Riassunto

 Un’idea di Lino Miccichè

Già alla fine del ’46 Paisà viene percepito come testimonianza di un tempo che con il suo carico di slancio e
di speranze appare irrimediabilmente perduto, un monumento alla memoria, un film simbolo della rinascita
della società e del cinema italiano del dopoguerra e un’opera di fondazione dello stile cosiddetto “moderno”.
Le rivisitazioni del fenomeno neorealista, a partire dalla celebre x edizione della Mostra Internazionale del
Nuovo Cinema di Pesaro(1974), hanno provveduto a rimettere in discussione molti schematismi ideologici
della critica del dopoguerra e della critica militante degli anni sessanta, interrogandosi sul concetto di
realismo. È questa una prospettiva che mette in rapporto i modi di produzione con i modi d’espressione; ci
sembra che questa impresa non si ancora stata tentata in maniera organica per Paisà. L’idea è di Lino
Miccichè(scomparso nel 2004), il metodo utilizzato è quello teorizzato nell’introduzione a Filmologia e
filologia(il suo ultimo libro), una necessaria combinazione fra la tradizione filologia, e a pratica critica e
storiografica. Con filmologia l’autore indica il discorso critico sul film, l’approccio fisiologico costituisce la
base di quello filmologico. Il primo compito è stabilire la certezza del testo, dopo la fase ectodica(l'attività di
ricerca e studio finalizzata a ricostruire l'integrità di un testo) della ricerca si procede all’analisi filologica
vera e propria, un’operazione di destrutturazione del testo, condotta attraverso gli strumenti della moviola;
questa pratica consente di radiografare i tre distinti patrimoni segnici: letterario teatrale, sonoro-musicale e
artistico visivo, che si aggiungono e si fondono con quelli specifici del film; il critico-filologo, tuttavia, non
può penetrare appieno il senso di un testo se si strania dalla dimensione storica.
Esistono due versioni di Paisà: la prima lunga è stata presentata nel 1946 alla Mostra di Venezia; la seconda
più breve è quella uscita nelle sale italiane e universalmente conosciuta, in cui il film è stato tagliato e
parzialmente rimontato dal regista. Una volta stabilita la versione su cui lavorare, abbiamo scelto quella più
fedele all’originale, ovvero quello distribuito dal quotidiano “l’Unità” che ha il pregio di conservare i
sottotitoli originariamente impressi per la distribuzione italiana.

 In viaggio con Paisà

 DAL PROGETTO ALLA REALIZZAZIONE

La squadra degli sceneggiatori riproduce al proprio interno quei fattori collaborativi e conflittuali che
emergeranno poi nel testo realizzato. Rossellini, Rod Geiger(produttore, ex soldato), Sergio Amidei(già
sceneggiatore di Roma città aperta), Marcello Pagliero(il comunista Manfredi nel film), lo scrittore
americano Alfred Hayes, e lo scrittore tedesco naturalizzato tedesco Klaus Mann(figlio di Thomas).
Il titolo originario era Seven from the U.S.(7 americani), ognuno dei sette episodi previsti doveva avere come
motore e protagonista uno yankie, mentre un prologo doveva anticipare i personaggi. La progressione degli
episodi aveva già come principio ispiratore l’avanzata dal Sud al Nord degli alleati, ma i racconti avevano
dislocazioni diverse. Negli ultimi mesi del ’45 la cooperazione degli sceneggiatori italiani e americani si
rompe per dissidi interni, Mann contestava certe impostazioni ideologiche di Amidei(per es. a
rappresentazione dei tedeschi come stupratori nell’episodio siciliano); Rossellini nel frattempo recluta
Massimo Mida e Federico Fellini, con quest’ultimo in particolare scriverà in sede di ripresa gli episodi non
previsti nella sceneggiatura. Il grande travaglio preparatorio si scioglie quando solo quando Rossellini prende
contatto diretto con i materiali della messa in scena; il suo metodo si fonda sul primato della ripresa rispetto
alla sceneggiatura, tutti gli episodi si definiscono strada facendo, le varie storie(né del tutto vere, né del tutto
inventate), nascono dal rapporto singolare che si instaura con gli ambienti e i corpi che animano i set.

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La prima è tutta costruita intorno alla protagonista, Carmela Sazio, una povera figlia di pescatori. Alla sua
selvaggia e quasi primordiale fisicità il regista affida una nuova morale della storia, in cui americani e
tedeschi appaiono come facce della stessa medaglia, dello straniero che piomba con la sua incomprensione
su una terra e una cultura sconosciute. L’episodio dei frati viene completamente inventato durante la
lavorazione, quando si scopre in maniera fortunosa il convento di Maiori; parimenti quello fiorentino viene
scritto a Napoli, con l’apporto di Vasco Pratolini(scrittore fiorentino che ha partecipato attivamente alla
resistenza), e l’ultimo ambientato sul delta del Po viene messo a punto a Firenze.
Paisà è una forma in perenne costruzione, dove la realtà può essere guardata contemporaneamente dal di
dentro e dal di fuori e offerta allo stesso tempo come testimonianza e narrazione; il termine realtà vuole
rimandare, più che al mondo oggettivo, alla dinamica relazionale che si instaura tra il soggetto e l’oggetto
della percezione. Apparentemente il regista aderisce alle cose dando l’impressione di far scaturire da esse la
narrazione e non, viceversa, di piegare le cose a un disegno premeditato. L’estetica neorealista non prevede
che le cose “parlino da sole”, la cosiddetta “realtà” al cinema è sempre il risultato di un’operazione artistica:
“per ottenere il realismo ci vogliono dei trucchi”(Rossellini).
 CORPI E VOCI

Il partito preso dell’esperienza diretta, visiva e sonora, convive con quello del “trucco” e della
rappresentazione, ne è prova il lavoro che compie sul sonoro e sul parlato. Paisà adotta una logica
combinatoria, mescolando la presa diretta e il doppiaggio, nella fase di missaggio si deve necessariamente
riparare alle sonorità sbagliate o troppo confuse, al dialogo mal registrato; altro discorso è quello che di
prevedere in anticipo il doppiaggio, esigenze di narrazione spingono infatti il regista a dotare i frati
napoletani di una parlata romagnola, anche il dialetto siciliano di Carmela probabilmente è stato aggiunto in
fase di postproduzione. Ciò nonostante emerge un registro polifonico consustanziale alla ricerca conoscitiva
che Rossellini si è prefissato, e che aderisce profondamente alla sua concezione della storia: l’immediatezza
comunicativa degli idiomi autentici si scontra con la difficoltà comunicativa delle razze, delle culture e degli
individui; la sua ricerca assume tratti di un’indagine antropologica, piuttosto che di una riflessione critica
sulla storia.
Il film vuole mostrare il passaggio della Storia, la sua incidenza nella vita degli individui, l’idea rosselliniana
del sacrificio umano che accompagna i mutamenti storici è certamente intrisa di umori messianici ma viene
tutta laicamente consumata nella solitudine, nell’incomprensione e indifferenziazione antieroica dei “poveri
cristi” anonimi che, sullo schermo, vivono gli eventi della storia esclusivamente come accadimenti creaturali.
Il vuoto industriale del cinema italiano post-bellico gli consente di lavorare come un pioniere e un
indipendente, pur maneggiando un budget relativamente alto, è la ricchezza dei mezzi di produzione a
facilitare la ricerca dei materiali “poveri” dell’esperienza e a permettere, attraverso i tempi lunghi delle
riprese(sei mesi), il metodo dell’improvvisazione e delle continue modifiche al progetto originario.
Rossellini attribuisce un valore prioritario alla rappresentatività de corpi, rispetto alla macchina recitativa, la
scelta dell’interprete è più importante della sua direzione in sede di ripresa,è la presenza fisica che definisce
il personaggio. La confidenza che si instaura tra gli interpreti conduce anche a calibrare in loco i dialoghi e le
gestualità dei personaggi; la scoperta dei frati Maiori è alla base dell’invenzione dell’episodio romagnolo
che, a parte Bill Tubbs(cap. Bill Martin, cattolico), prevede soltanto interpreti di se stessi.

Per l’episodio fiorentino sceglie come protagonista maschile un suo cugino, Renzo Avanzo, che collabora
attivamente alla strutturazione dell’ultimo episodio, che si svolge nei luoghi in cui ha combattuto durante la
guerra. Ai pescatori padani, così come prima ai partigiani fiorentini, egli richiede un appoggio e un parere sui
dialoghi, oltre che sulle azioni, in un territorio che essi conoscono perfettamente.

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 I LUOGHI DEL RACCONTO E I LUOGHI DELLA REALTA’

La macchina da presa, lasciando i teatri di posa, diviene il più potente mezzo di conoscenza del territorio.
In realtà il viaggio compiuto dalle truppe alleate non è esattamente quello intrapreso dalla troupe di paisà, i
luoghi del film corrispondono solo in parte ai luoghi reali.
L’incipit è l’autorità del materiale di repertorio sullo sbarco americano presso Gela a imporre come veritiera
l’ambientazione dell’episodio siciliano, che viene invece girato a Maiori, l’inquadratura finale viene
addirittura girata ad Anzio.
La storia napoletana presenta una perfetta coincidenza tra i luoghi del racconto e i luoghi della realtà, al pari
di quello fiorentino e di quello ambientato sul Po.
La storia romana, girata per ultima, instaura una dialettica tipicamente professionale tra interni girati in loco
ed esterni scelti per analogia in altre zone geografiche, tra interni dal vero(il locale Moka Abdul, ritrovo di
americani e ragazze italiane) e interni ricostruiti in studio(nei locali della Capitani Film).
Questa logica combinatoria ritorna a tratti lungo tutto il corso del film, i luoghi rappresentati non hanno
soltanto una declinazione realistica, ma una connotazione simbolica. Dalla topografia di Paisà emergono una
serie di figure capaci di spingere la lettura oltre il livello della certificazione documentaria.
L’episodio siciliano evoca un luogo primordiale e fantastico, accidentalmente colpito dalla storia, vista dagli
occhi dello straniero, la torre diroccata è un cumulo di rovine e caverne gotiche, che può essere descritto solo
attraverso il ricorso ai clichè della letteratura fantastica e avventurosa(Frankenstein o i pirati). Ad amplificare
il mistero del luogo contribuisce il buio fitto in cui tutti, eccetto Carmela, si lamentano di essere coinvolti,
c’è un’oscurità che pare avere un sedimento ancestrale, dell’uomo perso nella propria dimensione inconscia.
Significativamente lo scioglimento delle tenebre è portatore di morte, questa dialettica tra oscurità e chiarore,
tra inconscio e ragione, tra preistoria e storia ritorna nell’episodio napoletano, anch’esso chiuso nel cuore di
un Sud mitico e atemporale, la cui barbarie è anche frutto del passaggio rovinoso della civiltà.
Alla piazza lugubre antistante la chiesa dell’episodio siciliano si sostituisce qui quella solare, carnevalesca,
quasi medioevale di Napoli, un luogo aperto alla contaminazione della diversità, ma subito dopo riaffiora la
figura della grotta buia nella rappresentazione del teatro dei pupi. Il conflitto buio/luce viene giustapposto al
contrasto bianco/nero esemplificato dalla pelle dei due protagonisti, che è all’origine di un altro
antagonismo: quello tra piccolo e grande. Il teatrino dei pupi, nella sua configurazione di cavità buia, animata
dalle allucinazioni del nero ubriaco, è soltanto l’anticipazione di un’altra caverna: le grotte di Mergellina.
Abitate dagli sfollati, dagli orfani, da tutti i disgraziati vittime della guerra e della miseria atavica, acquistano
una dimensione da inferno omerico e dantesco.
Nell’episodio romano i luoghi assumono improvvisamente una natura prosaica e demitizzante, tutto si gioca
sul contrasto fra il ricordo di un mondo incantato(un romance perduto), e i degrado della situazione attuale.
All’interno piccolo borghese della casa di Francesca, si contrappongono l’interno squallido della stanza a ore
e il locale notturno seminterrato, mentre alla luce radiosa del giorno della liberazione fanno riscontro sei
mesi dopo le strade notturne della capitale, dove le persone non si riconoscono, o gli esterni piovosi del
finale, che sottolineano il grigiore degli animi. Queste sono il riflesso della disillusione del giovane yankie
che, dopo essere uscito dal proprio carro come un eroe trionfante, non ritrova più le coordinate geografiche e
umane dei tempi luminosi della liberazione, essa ora è solo un nostalgico flashback.
A Firenze, invece, la lotta è ancora aperta e all’ultimo sangue, due mesi dopo la liberazione di Roma. C’è il
sapore della leggenda, delle gesta avventurose, legate al non luogo abitato da Lupo, il capo partigiano
realmente esistito; è finalmente la storia partecipata, in cui i personaggi entrano in campo come vettori di
movimento all’interno delle strutture ambientali. L’attraversamento della città da parte di Harriet e Massimo,
descritto come un ininterrotto seguito di portoni, scale, antri, tetti, corridoi, decreta il passaggio all’azione
che conduce al’incontro con la morte, quella cruenta dei fascisti e quella del partigiano.
Nell’episodio romagnolo la storia sembra di nuovo arrestarsi, non più dentro un flashback, ma alle soglie del
convento; ma anche in questo mondo soavemente sereno e ingenuo che usa le mura del monastero e della

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fede per ripararsi dalle barbarie della storia, gli echi del conflitto mondiale irrompono dal’esterno attraverso
le figure dei tre cappellani militari, rappresentanti di tre confessioni diverse(cattolica, protestante, ebrea).
Essi scatenano l’unica guerra che i frati sappiano guerreggiare: quella della fede, dell’intolleranza religiosa.
Lo spazio arcadico diventa così un luogo conflittuale, solcato da ombre espressionistiche, spostando la
dialettica conflittuale dal mondo esterno al mondo interiore e sottolineandone l’irriducibilità.
Nell’ultimo episodio la guerra abbandona il campo chiuso della coscienza per tornare a manifestarsi come
storia in atto. Ma lo scenario recupera i connotati della primitività: una natura elementare, segnata dalla in
distinzione animale e vegetale, dall’avvicendarsi del giorno e della notte. Questa natura elementare diventa il
teatro di un epos tragico, dove i confini della vita e della morte si mescolano con quelli del giorno e della
notte e la storia produce atti sacrificali. Rossellini conclude il racconto con la visione della vittima
sacrificale, demandando all’esterno, fuori dal film, l’idea di una morte rigeneratrice, capace di aprire dei
varchi verso un futuro migliore. I gorghi del fiume, evocano la fissità di una natura indifferente che accoglie
e assorbe il dolore di un’esistenza massacrata dal tempo. Un sentimento di circolarità è suscitato dall’aprirsi
e chiudersi del film sull’immagine dell’acqua, che porta i liberatori e inghiotte i cadaveri. Il lavoro
rosselliniano di simbolizzazione della materia si esercita nella raffigurazione di costanti opposizioni: fra il
dentro e il fuori, fra l’alto e il basso, fra il pieno e il vuoto, fra il vicino e il lontano, fra l’ombra e la luce.
Questa logica conflittuale costituisce il principio informatore della fotografia di Otello Martelli, attraverso i
contrasti chiaroscurali, ‘operatore partecipa esemplarmente alla doppia natura documentaria e simbolica di
Paisà, adottando un taglio da reportage che tende continuamente ad assumere connotazioni espressionistiche.
 IMMAGINE DI REPERTORIO E IMMAGINE NARRATIVA

Brani di repertorio commentati dalla voce di uno speaker cinegiornali stico introducono e collegano i diversi
episodi di Paisà, la loro funzione è di orientare e plasmare il regime narrativo del film in direzione di un
effetto diretto di cronaca. All’inizio del film l’immagine narrativa succede naturalmente, senza soluzione di
continuità, a quella documentaria. Nel secondo inserto è arduo distinguere la soglia in cui finisce
l’esposizione del repertorio e comincia il racconto. La premessa dell’episodio romano è più lunga, in questo
caso il racconto registra una discontinuità rispetto al documento, il racconto si allontana dagli avvenimenti;
una didascalia(“sei mesi dopo”), e una dissolvenza musicale(da La canzone del Piave al boogie-woogie)
introdotto dagli americani nella Roma liberata, segnalano questo sfasamento di dimensioni.
Il quarto intervento del repertorio nell’episodio fiorentino, torna a suggellare la simultaneità tra documento e
racconto, esaltata dalla voce dello speaker che invade per la prima volta le immagini della finzione,
annullando il confine tra realtà e la sua ricostruzione. Anche la storia romagnola si intreccia attraverso la
persistenza dello stesso elemento sonoro(i rumori della battaglia che poi cedono il posto ai rintocchi delle
campane).
Il sesto episodio è l’unico a essere privo di introduzione, la voce dello speaker commenta la prima e l’ultima
immagine del racconto come se fossero immagine della realtà.
Alla voice over, lungo tutto il corso del film, si affida il compito di ordinare gli eventi narrati in una
progressione spazio-temporale, che è quella della ritirata tedesca e dell’avanzata dell’esercito di Liberazione;
lo speaker fornisce quasi sempre date e precisazioni geografiche, che consentono di situare i sei racconti,
anche quando le immagini non bastano a farlo. È dunque lo spaio-tempo della storia a dare la linea maestra
su cui innestano le sei microstorie, il repertorio partecipa così attivamente alla struttura narrativa del film.
Oltre alla funzione di attribuire uno status documentario ai diversi episodi, esso di assume anche quella di
comporli in un insieme organico e coerente; lo speaker perciò non è commentatore neutro, ma guida
insostituibile per affrontare il viaggio di Paisà. Detiene il sapere che origina e costruisce il racconto, l’entità
onnisciente, è portatrice di un’enunciazione impersonale che nell’ultimo episodio del film cerca di slittare
dall’esterno all’interno del racconto; passaggio che esplicita la vicinanza tra il regista dell’immagine
documentaria, e il regista dell’immagine narrativa.

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 LE STRUTTURE DELLA NARRAZIONE

L’originalità della costruzione narrativa di Paisà viene messa in rilievo dalla critica francese, paragonandone
la tecnica cinegiornalistica, allo stile diretto e asciutto della letteratura americana degli anni trenta e
quaranta(Steinbeck, Caldwell, Hemingway, Faulkner). L’unità strutturale di Paisà è dovuta alla tecnica
narrativa prima che alla natura dei singoli racconti, è cioè unità stilistica prima che tematica; lo sguardo
privilegia sempre l’insieme rispetto al dettaglio e sacrifica i nessi logici tra le inquadrature, procedendo per
fulminee sintesi, assumendo l’ellissi come figura chiave il regista asciuga il linguaggio fino al rischio
del’incomprensione, e imprime alle immagini un movimento emotivo che, invece di basarsi sulla costruzione
tradizionale del climax, si affida all’improvviso rompersi del fraseggio narrativo, al repentino precipitare dei
fatti. Lo spettatore viene messo davanti alle conclusioni senza spiegazioni e preparazioni preliminari,
Rossellini vuole far emergere il respiro accelerato o bloccato dell’esistenza sotto la superficie di storie
abbozzate più che rifinite secondo la maniera tradizionale; dopo l’anteprima veneziana egli riprende in mano
il film per scarnificarlo ancora di più, per renderlo sempre più ellittico.
La composizione di Paisà si presta perfettamente a una lettura strutturale del tipo di quella che Ejzenstejn ha
applicato a La corazzata Potemkin(1925), entrambi possiedono un alto grado di rappresentatività storica,
Paisà si pone come opera riassuntiva di un’epoca. Si procede per accelerazioni, stasi, rovesciamenti
repentini, improvvisi arresti; i rimandi fra e parti e la loro dinamica oppositiva sono evidenti e permettono di
mettere in luce un sistema di rime incrociate e di riflessi strutturali. In tutti gli episodi, i personaggi si
mettono in moto alla ricerca di qualcosa: le prime tre storie sono costruite su una coppia di personaggi, uno
americano e l’altro italiano, che hanno problemi di comunicazione e di riconoscimento. All’interno di
ciascuna di esse si ha un momento in cui i due componenti della coppia si isolano dal mondo circostante in
un lungo dialogo rivelatore delle loro più intime tensioni. Il dialogo riguarda sempre gli affetti e la nostalgia
verso qualcosa che è lontano, perduto o assente.
Nei tre episodi successivi avviene il passaggio dalla dimensione individuale a quella collettiva: protagonista
è una comunità. Tutti gli episodi si concludono con un innalzamento retorico della musica di commento, che
crea un vertice patetico, in contrasto con l’asciuttezza dell’immagine, e che viene subito contrappuntato dalla
voce indifferente dello speaker, introducendo la tappa successiva del viaggio. Un espediente narrativo tipico
dei miti e delle fiabe, che ricorre in molti episodi è il destino del rincontro tra i personaggi; a carico dei
processi di convenzionalizzazione narrativa va messa anche la tipizzazione di certi personaggi e di certe
scene. Questi stereotipi vengono attenuati e ridefiniti nella loro natura dall’inserimento in situazioni
stereotipate, spesso violentemente stridenti. Dei sei episodi, tre rappresentano la guerra in atto, tre le sue
conseguenze. Gli episodi bellici sono all’inizio, alla fine e al centro, ognuno di essi si conclude con la morte.
Il primo e l’ultimo episodio sono i più ellittici, e si richiamano per il ritorno della figurazione dell’acqua,
oltre che per il fatto che sono gli unici a mostrare in azione i tedeschi. Tutte e tre le storie di guerra, vedono i
personaggi coinvolti nell’attraversamento di un territorio insidioso, fra i tre episodi si inseriscono gli altri tre
in cui la riflessione succede all’azione, e il problema della convivenza in tempi di pace balza in primo piano.
Ai finali mortiferi degli episodi bellici, gli altri tre sostituiscono, con l’eccezione di quello romagnolo,
epiloghi amari di miseria, impotenza, difficoltà.
La dialettica tra gli americani liberatori e gli italiani liberati si svolge all’insegna di diffidenze e
incomprensioni reciproche; a partire dal quarto, i rapporti di comunicazione si fanno gradualmente sempre
più intensi, culminando nel gesto pacificatore del cappellano cattolico statunitense, e nel gesto sacrificale di
Dale, l’ufficiale americano che si immola per i partigiani. La progressione degli episodi sembra suggerire
anche una rivisitazione degli archetipi del racconto, al racconto mitico l’episodio siciliano, alla favola quello
napoletano, al romance quello romano, al dramma fiorentino, al racconto bucolico quello romagnolo e
all’epos quello sulle foci del Po. Questi schemi emergono sotto il travestimento documentario
del’’immagine, che agisce come filo omologante e conferisce loro una vibrazione di attualità immediata e
insieme una risonanza atemporale.

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 La luce, il fuoricampo e la morte; il primo episodio.

 MUOVERSI NEL BUIO

I due luoghi in cui si svolge l’azione, la chiesa e la torre, suscitano fantasie mortuarie e spettrali; gli atti
fondamentali dei personaggi sono il camminare, il guardare e il commentare. La maggior parte dei commenti
riguarda l’aspetto insolito e strano del luogo e accomuna americani e tedeschi, che usano espressioni
analoghe; soltanto Carmela, creatura selvaggia e istintiva, si muove con naturalezza nella notte all’interno.
La giovane è fatta della stessa materia dei luoghi, in cui natura e cultura si mescolano in un impasto antico,
quasi primordiale, che ha il sapore del mito; il suo corpo è sgraziato, ma anche seducente.
La forza della sua presenza viene sottolineata fin dal suo primo apparire all’interno della chiesa, quando
viene avvicinata combinando panoramica e carrello avanti, Carmela sembra rappresentare il principio
femminile di una natura non contaminata dalla storia, contrapposta al principio maschile portatore della
civilizzazione e della morte. È un personaggio da tragedia, che si muove per impulsi elementari(amore,
vendetta), e si sottopone a un rito sacrificale; in quanto creature della notte non riesce ad uscire dal buio, ed
emblematicamente la luce irrompe nel racconto come un fattore insidioso, portatore di lutto. Durante il
dialogo tra Joe e Carmela le parole dei due giovani evocano bagliori, l’accendino di Joe spezza questo
incantesimo, provocando l’arrivo del proiettile, in seguito le torce elettriche dei tedeschi sono responsabili
della cattura della ragazza e il chiarore dell’alba accompagna la sua esecuzione sulle rocce.
 LA COMUNICAZIONE OSTACOLATA E INTERROTTA

Il buio pare divorare le cose e i corpi, ponendo i personaggi sullo stesso piano di ambiguità identitaria e
rendendo difficile per lo spettatore il loro riconoscimento. I diversi idiomi fungono come caratteri distintivi,
tuttavia è proprio su di essi che il regista gioca per rappresentare una rete di reciprocità e indistinzioni che
unisce gli alleati e i nazisti, percepiti come elementi di alterità e violazione; il linguaggio rappresenta così un
principio di individuazione e al contempo di indifferenziazione dello straniero. Nella prima sequenza i
soldati statunitensi vengono scambiati per nazisti, la rappresentazione dello spazio sottolinea la divaricazione
tra gli autoctoni inermi e gi estranei con le armi puntate, come due fronti opposti. Poi i fucili vengono
abbassati e i due fronti si mescolano all’interno della chiesa, dove il dialogo continua a registrare reciproci
sospetti e incomprensioni. L’aspetto degli yankie, e il loro tono di superiorità contrastano con i veli neri delle
donne, i volti impietriti e assenti dei vecchi, il grande catafalco funebre davanti al’altare pieno di decorazioni
barocche. Vengono totalmente cancellate, sempre rispetto al copione, sia l’esaltazione dei soldati americani,
sia la condanna dei tedeschi come personificazione delle forze del male e stupratori di Carmela, un processo
di revisione che guida tutto Paisà. La difficoltà di comunicazione in tutto il film, accomuna i personaggi del
racconto e lo spettatore; egli se non è anglofono o tedescofono, può contare comunque su un livello di
comprensione superiore ai personaggi assicurato dai sottotitoli, che tuttavia non sono traduzioni esatte dei
dialoghi, ma sintetiche e lacunose interpretazioni e spesso tradiscono il dettato dell’originale. Se però non
comprende il siciliano, si ritrova a disporre di una marcia in meno rispetto ai personaggi.
Alla frammentazione delle inquadrature dialogiche della scena in chiesa si contrappone la ripresa in
continuità della conversazione tra Joe e Carmela all’interno della torre. Qui la comunicazione, sempre
ostacolata dalla diversità degli idiomi, si apre alla comprensione affettiva, se non amorosa. Il rifiuto della
retorica conflittuale del campo-controcampo porta a privilegiare la prossimità e l’imbarazzato contatto dei
corpi. Il passaggio dalla coralità alla dimensione privata permette l’abbattimento delle barriere linguistiche e
culturali e l’isolamento della guerra diventa fonte di intimità. La sequenza è costituita da due lunghe
inquadrature di 1 minuto e 34 secondi e addirittura 4 minuti e 12 secondi, che ci mostrano il progressivo
placarsi delle diffidenze ideologiche e l’instaurarsi di uno scambio comunicativo autentico. Le due
inquadrature(93 e 94) rappresentano l’avvicendarsi di due stadi, di due ritmi emotivi: il passaggio dal
movimento alla stasi, dalla conflittualità all’intesa. Nella prima la gestualità degli attori si accompagna a una

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forte presenza della macchina da presa; nella seconda dopo sospetti e i pregiudizi, lo sguardo si assesta
insieme ai personaggi su uno scenario evidentemente romantico, e appare il mare.
L’immagine può facilmente evocare un effetto-quadro, con le figure umane poste su una soglia aperta verso
un paesaggio fortemente intriso di echi e stratificazioni figurative. L’apertura in cui i due giovani sono
collocati rimanda all’icona della grotta, e la macchina da presa diventa contemplativa. La musica anticipa il
cambiamento di atmosfera predisponendo l’idillio, insieme ad altri ingrediente(stelle cadenti, nostalgia di
casa, ecc.). questi motivi possono sembrare stereotipati a un primo sguardo, l’epilogo non convenzionale
provvede a ricollocarli in una dimensione tragica, gli stereotipi sentimentali tendono cos’ ad assumere la
forza degli archetipi. Carmela e Joe riescono a stabilire una comunicazione paritaria basata esclusivamente
sulla loro incandescente umanità e sessualità, perché mettono fra parentesi la guerra e i rapporti di forza,
collocandosi in una frana del tempo e dello spazio, in cui la natura sembra cancellare la storia. Il piano-
sequenza sullo sfondo del mare assume così la forza di un intermezzo onirico, che viene bruscamente
interrotto dal sibilo del proiettile che colpisce Joe. È l’irruzione della guerra a rendere impossibile la
comunicazione creaturale fra gli individui e fra i sessi.
 IL FUORICAMPO E LA MORTE

L’episodio è costituito da 148 inquadrature narrative, che possono essere suddivise in 7 sequenze, ognuna
definita da un movimento di avvicinamento-penetrazione-allontanamento rispetto ai due luoghi in cui si
svolge il racconto: la chiesa e la torre. La prima sequenza è dedicata all’arrivo nel paese e alla visitazione
della chiesa, dalla seconda l’azione si sposta intorno e dentro la torre, e le dissolvenze incrociate
intervengono a marcare la soglia che separa l’interno dall’esterno; fa eccezione la fine della terza sequenza,
dove troviamo una cesura con due esterni piuttosto anomali(inq.91 e 92). Dal punto di vista della grammatica
codificata si tratta di un errore, che tuttavia ha come funzione quella di isolare dal continuum spazio-
temporale il dialogo di Joe e Carmela. Delle 8 dissolvenze presenti in totale nell’episodio, soltanto 3
sembrano non partecipare alla scansione sequenziale. A partire dalla quarta sequenza, dedicata al dialogo tra
Carmela e Joe, Rossellini fa muovere il racconto attraverso scatti fulminei, il proiettile che colpisce Joe
provoca il passaggio dall’azione degli americani ai tedeschi. Quando Joe inizia ad accasciarsi, Rossellini
cambia subito inquadratura con il primo piano di un tedesco che abbassa il fucile; in questa soluzione di
montaggio è annunciata “una delle intuizioni narrative di Paisà che è nell’unire in un racconto trame di
personaggi che si impongono una all’altra per un salto brutale, la tensione narrativa si produce in modo
nuovissimo. È anche nel sonoro che questo brusco salto si impone con l’improvvisa parlata
tedesca”(Brunello Rondi).
Questo procedimento di montaggio si discosta così radicalmente dai canoni classici, fondati sula gradualità
delle narrazione e sula chiarezza e comprensibilità per lo spettatore, il violento cambiamento innesca un
montaggio alternato che vede coinvolti i nazisti, Carmela e Joe. All’alternanza visiva si contrappone la
continuità dell’elemento sonoro: le voci dei tedeschi.
Alla fine della sesta sequenza si ripete il passaggio di consegne tra i personaggi già presenti nella quarta
sequenza, il punto di vista rimbalza ora dai tedeschi agli americani seguendo le stesse dinamiche: al nazista
che viene ucciso da Carmela, succedono gli americani; è nuovamente l’eco di un’arma da fuoco ad attivare
l’antagonista e a provocare il suo spostamento. Lo stesso procedimento si ripete nelle inquadrature finali, con
le “soggettive” sui cadaveri di Joe e Carmela, su quello di Joe il sergente commenta”sporca ragazza
italiana!”, dal fuori campo arriva il rumore di uno sparo; l’inq. 160 mostra tre tedeschi in piano americano
che guardano verso il basso, nella 161 i nazisti sono ripresi dal basso e in campo lungo, sulla cima di un
costone. Una panoramica verso il basso e verso destra scopre il corpo di Carmela, la similarità tra lo sguardo
degli americani, che vedono un tradimento, e quello dei tedeschi che osservano la vittima è sottolineata dal
ricorso ad analogie figurative e stilistiche. Il sistema di equivalenze non si manifesta quindi solo a livello dei
dialoghi, ma coinvolge profondamente le modalità di rappresentazione. In questo suo uso conflittuale e
metaforico del montaggio, si ritrova un segno ezjensteiniano: le immagini si succedono secondo la dinamica
dell’attrazione violenta, destinata a suscitare nello spettatore un corto circuito dei sensi e del pensiero. Tutte

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e tre le uccisioni sono caratterizzate dalla rifrazione di un elemento sonoro in un fuoricampo indefinito, che
viene immediatamente visualizzato provocando il passaggio di prospettiva; è sempre dal fuoricampo che
arrivano, all’improvviso, segnali di morte(i raccordo tra l’eco dello sparo e il fuoricampo “assassino” è
sempre lo stesso. Allo spettatore, l’inquadratura finale, gli mostra la contiguità tra il carnefice e a vittima e
l’episodio si chiude, senza nessuna sottolineatura drammatica, sul cadavere di Carmela. Solo la musica cerca
di dare un po’ di enfasi, la macchina da presa non si avvicina al corpo della ragazza, deludendo così le attese
di uno spettatore abituato alla decantazione patetica. Il suo sguardo pare distaccato e indifferente, così come
la voce dello speaker che nell’ultima inquadratura del film, davanti ai corpi dei partigiani, si limita a passare
oltre. Il rigore con cui il regista concerta il disegno e i ritmi narrativi “spiazzanti” dell’episodio siciliano è
confermato dal fatto che le ultime due inquadrature sono entrambe originate da ripensamenti, da
raggiustamenti. La morte di Carmela è un sacrificio non riconosciuto, bisognerà aspettare la fine del sesto
episodio, perché l’atteggiamento di incomprensione degli americani venga risarcito dal gesto sacrificale e
fraterno di Dale.

 Fra teatro e storia, la doppia scena del reale; il secondo episodio.

 IL NEGRO E LO SCIUSCIA’

Il nucleo narrativo dell’episodio consta di 130 inquadrature, esso è marcato da una forte cesura fra le inqq.
93 e 94, in cui all’utilizzo di una soluzione sintattica forte si aggiungono un cambiamento di luogo manifesto
e un’ellissi temporale quantificabile. Il primo tempo avrebbe un’estensione di 9 minuti abbondanti, a fronte
di un secondo tempo di 5 minuti scarsi; tuttavia, diversi indici simbolici e stilistici, mi portano a considerare
come segmento autonomo la se. III(inqq. 65-93). Si viene così a configurare un più efficace modello di
partizione in tre blocchi narrativi, compresi fra 4 e 5 minuti: prima parte(seqq. I-II, inqq. 7-64, 4’), seconda
parte(seq. III, inqq. 65-93, 5’), terza parte(seqq. IV-V, inqq. 94-136, 4’).
 IL SAPERE E IL VEDERE

I due personaggi chiave sono Pascà e Joe. Pascà entra in scena nella seq. IA(inq.10), intento a imbonire la
folla sulle prodezze acrobatiche di un altro scugnizzo; il soldato americano entra nella seq IB(inq. 21), in
tenuta libera, ubriaco e in balia di due ladruncoli.
La funzione dei due personaggi è dichiarata: Pascà è un soggetto, il soldato è un oggetto, senza volontà,
questo per la prima parte dell’episodio. Nella seconda parte, la divisione di ruoli fra Pascà e Joe mantiene
pressoché i medesimi valori.
Nella terza parte, i ruoli appaiono rovesciati. È Joe a ricomparire in campo per primo, e fino alla fine
dell’episodio è lui a condurre il gioco. Sul piano cognitivo l’equilibrio viene ristabilito solo all’apparenza:
nonostante Pascà sia costretto a una funzione di oggetto, il suo sapere diegetico continua ad essere superiore
a quello di Joe, è solo alla fine della visita nelle grotte di Margellina che lo squilibrio viene risolto con la
presa di coscienza di Joe delle condizioni in cui Pascà vive(seq.VB, inqq. 117-135). Sul piano ottico-
percettivo non si registrano soggettive di Pascà, mentre ve ne sono ben 6 ascrivibili a Joe.
In sintesi: sul piano attanziale, è Pascà a svolgere la funzione di soggetto per tutta la prima parte, attenuata
nella seconda, per poi cederla a Joe nella terza; sul piano cognitivo, la focalizzazione è sostanzialmente
calibrata sulla coppia Pascà/Joe, con una chiara prevalenza del ragazzino; sul piano ottico-percettivo, la
gestione del punto di vista è appannaggio di un’istanza esterna forte(la mdp), con sporadiche incursioni in
soggettiva che riguardano soprattutto Joe nella terza parte. Dopo la grande cesura, è Joe a gestire il gioco, ma
il suo deficit cognitivo può essere riscattato soltanto dalla curiosità e dalla volontà di capire messe in valore
dalle soggettive. Rossellini si guarda bene dallo schiacciare la propria prospettiva su quella dello scugnizzo,
costruendo in questa relazione una dialettica efficace proprio perché non giocata su equilibri preordinati.
 LO SGUARDO E LA PAROLA

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La serie di sguardi che Joe e Pascà si scambiano conferma l’impressione di trovarci di fronte a un rapporto
asimmetrico: 17 inqq. Ce li mostrano occhi negli occhi, 30 inqq. Ci mostrano Pascà rivolgere lo sguardo
verso Joe, e solo 7 in cui la direttrice è diversa.
Diversi i momenti in cui la comunicazione visiva fra i due appare squilibrata, tre su tutti: lo spettacolo dei
pupi, il soliloquio del ritorno dell’eroe, la scoperta del microcosmo delle grotte. L’asimmetria diventa ancora
più manifesta nella seq. IIIB: Joe inseguendo i propri fantasmi interiori, si produce in un lungo monologo,
con lo sguardo costantemente rivolto verso il vuoto, mentre Pascà lo segue senza staccargli gli occhi di
dosso. Ma il caso più eclatante ed emblematica si verifica nella seq. VB(inq. 122), Joe volge lo sguardo
verso l’infernale spettacolo della baraccopoli(inq. 123), Pascà si applica con zelo impagabile nel tentativo di
stabilire una comunicazione frontale con Joe. In questo frammento Rossellini riesce a far parlare i corpi,
dando espressione, col linguaggio della prossemica(La prossemica è la disciplina semiologica che studia i
gesti, il comportamento, lo spazio e le distanze all'interno di una comunicazione, sia verbale sia non verbale),
a una ricerca di contatto che non produce esito(quello di Pascà) e a una ricerca di verità che produce un
sapere insostenibile(quella di Joe).
Ma non ne possiamo affrontare la complessità se non affrontiamo anche la sfera della parola. Al primo atto
verbale, ognuno attribuisce all’altro un nome generico, Joe per il GI americano, Paisan per lo scugnizzo.
Le due scene dialogiche di un certo peso sono i due monologhi di Joe. Nel primo Rossellini sintetizza la
propria visione impietosa dell’american dream, una malinconica attestazione di nostalgia di casa, ma anche
una sconfortante presa di coscienza della propria condizione, ma l’amara etica del regista appare ancor di più
nel secondo. Joe ci appare reintegrato pienamente nel proprio status , è quindi un uomo diverso a pronunciare
quest’aspra reprimenda contro i ragazzi di strada come Pascà. Alla fine Joe non può che tagliare la corda
davanti all’evidenza che è a causa dei bombardamenti americani se Pascà ha perso i genitori ed è costretto a
vivere in quella grotta. A fronte di un uomo scandalizzato dalla verità, Rossellini ci presenta un bambino
adulto, dall’etica rigorosa, quanto tragica. In un’intervista del 1954 al “Cahiers du Cinèma” Rossellini ha
ricordato tutto il valore di quella battuta che sintetizza l’impietosa morale dello scugnizzo: “Joe! Si tu
ruorm’, io m’arrubb’ ‘e scarpe!”(inq. 93, dopo primo soliloquio di Joe)
Il peso di questa morale della sopravvivenza, che offre scarsi margini alla costruzione di rapporti
disinteressati, Rossellini ce lo mostra agire su Pascà attraverso il linguaggio non verbale, e in modo
particolare il discorso degli sguardi, che inseguono, studiano, tormentano il volto di Joe, alla ricerca di
qualcosa che possa colmare un insanabile vuoto affettivo.
 EFFETTO DI REALE

Pascà può raccogliere soltanto in minima parte il senso dei due monologhi pronunciati da Joe, così come il
nero decodifica di rado le risposte in napoletano; i due comunicano in realtà sul filo dei linguaggi
extraverbali, delle esperienze condivise, degli oggetti feticcio. Rossellini non si preoccupa affatto di
assicurare un livello di comprensione ampio, né di minimizzare, attraverso le didascalie, le differenze di
ricezione fra uno spettatore esclusivamente italofono e un altro con competenze linguistiche più estese. Si
tratta di una scelta consapevole, che denota la predilezione di Rossellini per modelli di racconto aperti a una
pluralità estrema, di spettatori e di chiavi di lettura, suggerisce un trattamento della zona dialogica forse più
complesso. Un ascolto attento della colonna dialoghi, dimostra come Rossellini, abbia miscelato con cura le
diverse tracce, lasciando correre casi anche evidenti di cattiva sincronizzazione fra audio e labiale, e
passando nella stessa scena da brani in presa diretta ad altri doppiati. Questa apparente negligenza può essere
messa in relazione con la scelta di un plurilinguismo non adeguatamente supportato dalle didascalie,
configurando l’ipotesi di un utilizzo formalista della colonna dialoghi, come traccia fonetica, eco umoristica
volutamente sporca del reale.
Il trattamento antinaturalistico della colonna dialoghi è solo uno dei segni che testimoniano dell’alto tasso di
stilizzazione cui Rossellini sottopone i materiali del pro filmico, spesso restituiti nella loro natura fisica ma
altrettanto spesso manipolati con sottile perizia.

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La Napoli che Rossellini scopre in Paisà. È tanto un paesaggio fisico e antropico concreto, calato nella storia,
quanto lo sfondo di una commedia(dell’arte) senza tempo. Ad evidenziarlo è il filo rosso che lega i due antri
oscuri attraversati da Pascà e Joe, il teatro e la grotta. È proprio questa rete inestricabile di nessi che unisce i
due luoghi, a riscattare lo scacco storico del HI americano, ad avvicinarlo nella sua natura di pupo destinato,
non meno di Pascà, alla sconfitta. Le tracce di uno spiritualismo e di uno junghismo felliniano, dobbiamo
forse proprio a lui, se Rossellini ha abbandonato l’esile soggetto di Hayes e Mann, per riscrivere l’episodio
sulla carne viva dei suoi interpreti e sulla forza plastica di questo straordinario teatro naturale.

 Il classicismo nella modernità, il terzo episodio

L’episodio romano di Paisà è stato quasi sempre considerato alla stregua di un corpo estraneo, introdottosi
come per errore; pesantemente attaccato dalla critica già al momento dell’uscita, oppure vittima di un
processo di rimozione. Non riscosse il nemmeno il consenso dello stesso Rossellini, e non piacque neppure a
Sergio Amidei, uno dei suoi artefici insieme ad Hayes.
Un approccio critico di questo tipo presuppone che Paisà risponda in maniera incondizionata e in tutti i suoi
distinti episodi al ruolo paradigmatico di opera neorealista per eccellenza. Qui non si tratta di rovesciare
l’opinione diffusa secondo cui l’episodio costituirebbe la propaggine anacronistica di un modello di
rappresentazione superstite all’interno di un’opera proiettata con decisione verso il futuro, ma piuttosto,
sembra ragionevole considerare il terzo episodio senza perdere di vista Paisà nel suo complesso, film vitale e
innovativo proprio per la sua pluralità di opzioni narrative e di tonalità espressive che lo sostengono, e per la
lontananza abissale da un senso di bilanciamento e di pulizia “classici”.
Una novità assoluta, infatti, compare nell’episodio, che si snoda su due distinti piani temporali, il passato
prossimo e il presente, messi in relazione dapprima tramite una didascalia sovrimpressa, e poi mediante il
racconto del soldato americano Fred, un flashback esteso, un vero e proprio unicum nell’opera di Rossellini
che amava filmare al presente senza salti nella cronologia del racconto. Inoltre l’episodio romano è costituito
da 98 inquadrature(considerando anche il materiale di repertorio), meno di quelle degli altri episodi, questo
sembra confutare l’idea in base alla quale a un modello di scrittura cinematografica convenzionale come
quello su cui l’episodio romano pare fondarsi, dovrebbe corrispondere una durata media assai ridotta per
ciascuna inquadratura. Le inquadrature di repertorio sono 43, una quantità superiore a quelle che aprono i
restanti cinque episodi, ma addirittura anche della loro somma, in altre parole, risulta determinante rispetto
alla vicenda avente per protagonista Fred e Francesca. Delle 43, dopo i primi quattro piani, il quinto,
finalmente ambientato a Roma, offre una visione d’assieme della capitale. 19 sono quelle dedicate alla
ritirata dei nazisti, e 19 quelle che testimoniano l’arrivo dell’esercito americano, entrambe suturate da una
dissolvenza “a tendina”, ma risultano al contempo separate da una serie di scelte espressive collocate agli
antipodi.
Le immagini della disfatta nazista sono accompagnate in colonna sonora da un commento musicale invasivo
con tensione crescente, mentre gli uomini e i mezzi percorrono luoghi noti e facilmente riconoscibili. I
legami tra le inquadrature sono rafforzati dalla presenza di piani che costituiscono il proseguimento dei
precedenti, a fare da collante vi è il ricorso ossessivo al raccordo di direzione, in una città quasi deserta, e
allude al carattere ineludibile della sconfitta. Le 19 inquadrature successive sono contraddistinte dalle
manifestazioni di tripudio della popolazione in festa, rese in colonna sonora mediante ‘effetto rumore, che
prende il posto dalla musica. Soprattutto, sembra che adesso le inquadrature si succedano in modo più
morbido e rilassato, senza quell’effetto di ossessionante regolarità suggerito dai sistematici raccordi di
direzione. Un’organizzazione ferrea del materiale di repertorio, a cui fa da contraltare, nelle successive 53
inquadrature narrative, un analogo rigore nell’improntare la successione dei piani sulla base del rispetto di
quelle regole del cinema classico ampiamente note agli studiosi e agli spettatori consapevoli. Si vede nella
frammentazione costante dello spazio, così come nella frequenza dei raccordi di tutti i tipi, che creano
un’evidente sensazione di continuità tra le inquadrature; nel sistema di illuminazione impiegato, tanto quanto
nella volontà di imprimere un carattere ineluttabile di necessità al concatenarsi degli eventi.

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L’originalità del metodo di lavorazione adottato da Rossellini è il motivo conduttore anche di un elogiativo
articolo che esalta la scelta rosselliniana di girare in un locale equivoco realmente esistente, il “Moka
Abdul”, anziché in studio. Ma la “verità di Rossellini” appare discutibile se valutiamo il principio di
organizzazione che regola la successione del nutrito gruppo di brevi inquadrature(45-69). L’inq. 45 offre un
establishing shot, l’inq. 46 è un rapido piano ravvicinato sui soldati americani e le ragazze italiane, per
meglio delineare la situazione, seguito da un’incalzante successione di campo(47) e controcampo(48), con i
relativi proseguimenti, per raccordare il diverbio tra Francesca e una collega; la rissa che scoppia fra queste
due viene raccontata con efficacia nella 55. Rossellini ha accolto, nell’episodio romano, fondamenti su cui si
basa il “modo di rappresentazione istituzionale”, questa appena considerata non è certo l’unica spia
dell’adozione, da parte di Rossellini, di un nucleo di convenzioni ormai consolidate. Si pensi alla decisione
di affidare l’apertura e la chiusura delle singole sequenze a dissolvenze incrociate o a tendine, oppure alle
scelte espressive, che sottolineano la radicale diversità dei due incontri tra Francesca e Fred. Il primo vede la
giovane, una ragazza “fresca e pura”, il secondo incontro si svolge di notte, con il buio che avvolge la stanza
della pensione ad ore, allusiva di una condizione di smarrimento morale, suggerita ancora, ma per contrasto,
nell’ultima sequenza, diurna e con la protagonista di nuovo nei panni della “brava ragazza”, in attesa di Fred
nell’inutile tentativo di riportare in vita un passato ormai irrecuperabile.
Un principio manicheo pare regolare il rapporto tra il passato prossimo(giugno 1944), rappresentato nella sua
duplice valenza di liberazione collettiva dal dominio privato e di privato incontro romantico; e il presente,
misero e corrotto, è questo, uno dei numerosi punti di contatto con Roma città aperta.
Analogo è soprattutto il sistema di opposizioni nel delineare la peculiarità dei personaggi, tratteggiati con
l’intento di smuovere sentimenti di empatia e di suscitare reazioni di ripulsa da parte del pubblico. Molto
simile è l’intento di proporre una concatenazione di situazioni ben congegnate e dal ritmo incalzante, grazie a
un efficace ma convenzionale impiego delle risorse tipiche del dècoupage analitico.
Si può ipotizzare che l’episodio romano sia nato dalla scelta consapevole di puntare su diversi ingredienti
narrativi e su un ampio ventaglio di soluzioni espressive differenziate, evitando di cancellare salti stilistici e
variazioni di tono, secondo un’idea moderna, personale e libera della regia cinematografica. Mi sembra
questo, un ottimo motivo perché il terzo episodio non venga liquidato in modo così frettoloso.

 Uscire dal tunnel; il quarto episodio

 STRUTTURA E PLOT: NOME DI BATTAGLIA “LUPO”

Si divide in cinque grandi sequenze, precedute da una sequenza di collegamento che chiameremo 0,
composta di materiali di repertorio(inqq. 1-6).

1. Presentazione del personaggio Harriet e della leggenda di Lupo. Seq. Composta di due scene: una in esterno giorno, l’altra all’interno
dell’infermeria;
2. Incontro tra Harriet e Massimo e l’inizio del viaggio attraverso Firenze. Seq. Composta di tre scene: una all’esterno del Palazzo Pitti, una
all’interno del cortile del palazzo, una nel Giardino di Boboli;
3. Attraversamento dell’Arno attraverso gli Uffizi, tre scene: una in esterno giorno, la seconda in interno, la terza ancora in esterno;
4. È la seq. In cui si introducono i personaggi in una serie di labirinti della città, tre scene: una in esterno giorno, la seconda in interno, la terza in
esterno dall’altra parte della città;
5. Arrivo di Massimo a destinazione, uccisone del partigiano e annuncio della porte di Lupo. Un’unica grande scena in esterno giorno, ma
divisibile in tre segmenti narrativi.

Materiali di repertorio ci spiegano la progressiva avanzata delle truppe di Liberazione e ci conduce nella
Firenze occupata per metà dalle forze partigiane e alleate, per metà ancora dai tedeschi. Harriet è
un’infermiera volontaria americana che è già stata a Firenze prima della guerra, e ha avuto un fidanzato
fiorentino, il pittore Guido, che ora scopre essere il leggendario Lupo. Decide allora, di mettersi sulle tracce
dell’ex amato e va a Palazzo Pitti, dove la popolazione si sta rifugiando. Qui incontra Massimo, un uomo
ferito a un braccio che sta cercando di ricongiungersi alla famiglia, che abita nella parte della città dove
ancora si combatte, inizia così la loro peregrinazione.

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Cominciano a incontrare una coppia di inglesi ufficiali che osservano i monumenti della città, una guardia in
divisa(ma non fascista) che da loro una dritta fondamentale: si può passare dall’altra parte dell’Arnò.
Massimo si precipita verso la Galleria degli Uffizi, il passaggio che collega Palazzo Pitti con il Palazzo
Vecchio, le due sponde della città medicea. Qui però i due vengono bloccati dai partigiani, ma Harriet di
precipita dentro il tunnel, e così i due sboccano dall’altra parte. Comincia la seconda tappa del loro viaggio,
incontrano un veterano della Grande Guerra, ma anche la folla che si accalca ai lati di una scala, in cerca di
notizie. I due personaggi arrivano nel quartiere di San Jacopino, dove infuria lo scontro. Massimo è quasi a
casa e cerca di convincere un nuovo posto di blocco a lasciarlo passare, forza poi la resistenza e attraversa la
strada, qui il suo gesto provoca il ferimento a morte di uno dei partigiani. Nel frattempo i franchi tiratori
fascisti vengono scovati e uccisi, ma il partigiano ferito muore tra le braccia di Harriet, il quale riesce anche a
mormorare una notizia: è morto Lupo.
 IL LAVORO FILOLOGICO: VARIANTI

Se si analizza la versione proiettata a Venezia nel ’46, si possono scoprire delle varianti interessanti da un
punto di vista filologico.
La più importante è all’inizio, che vede alcune scene determinanti nel plot, tagliate nella versione definitiva.
Ad esempio il partigiano ferito con cui Harriet comincia l’indagine su Guido, che non conosce il pittore e né
lo identifica con Lupo, nella stessa scena, un altro dei partigiani evoca il mito del leader Lupo, che non viene
assolutamente associato a Guido. L’ altra variante essenziale è che Harriet incontra Massimo già nella scena
all’interno dell’infermeria, l’uomo è ferito, colpito dalle schegge di una bomba alleata(non c’è dunque nulla
di eroico in lui). Questo è in sintonia con lo sviluppo successivo del personaggio, che non si distingue per un
ideale pubblico, ma per un desiderio privato, rischiando anche di mettere in difficoltà la Resistenza, ed alla
fine per puro egoismo provoca la morte di un partigiano. Harriet e Massimo si sono incontrati già prima della
guerra, ed è a lui che la donna chiede per la prima volta notizie di Guido. La vera scoperta che Guido è Lupo
avviene nella scena successiva, tagliata nella versione definitiva, attraverso Massimo, a cui chiede invano di
accompagnarla in città, lui invece sale su un camion e se ne va. Nella versione definitiva la presentazione di
Lupo è più diretta, ma soprattutto si rimanda l’incontro con Massimo, provocando radicali differenze a
livello di dialogo. Nella prima versione infatti, Massimo è distaccato, persino antipatico(“E poi, con quel
vestito…” dice alla ragazza guardandole il vestito un pochino scollato), mentre nella versione definitiva è lui
a proporre di passare insieme dall’atra parte della città. La prima versione accentua la caratterizzazione di
anti-eroe di Massimo, ma c’è soprattutto una frase del primo dialogo tra Massimo e Harriet che getta luce
sull’intero episodio: parlando del suo amato Guido Harriet dice: “com’è romanzesco”; un elemento questo,
inteso come storia sentimentale, che permette di giudicare l’intero episodio.
 GENERI E GENDER: UN FILM AMERICANO

Il plot sembra quello di un melodramma, ma i due protagonisti non sono degli eroi, mettono invece a rischio
la propria vita per un affetto privato: Harriet dimentica i doveri di infermiera, e Massimo non accetta i
consigli di chi combatte davvero. La cocciutaggine dei due si giustifica solo in un impianto mèlo, ribadito dal
primo piano sulla donna nell’inquadratura finale, e sottolineato dalla musica a volte ridondante. La sequenza
della morte del partigiano va messa in relazione con quella della morte di Pina in Roma città aperta, in
entrambe il montaggio alternato sottolinea il climax drammatico e l’atmosfera (melo)drammatica. In
entrambe le sequenze c’è una sorta di citazione della Pietà michelangiolesca, o comunque della Deposizione
dalla croce; come Don Pietro sorregge Pina, Harriet/Maria sorregge il partigiano/Cristo, tornando cos’
all’iconografia tradizionale. Ma ci sono altre tracce di generi: il film di guerra, qualche indizio di commedia,
e soprattutto il film di viaggio che permea tutto Paisà come nello specifico l’episodio fiorentino. Alcuni dei
personaggi incontrati sono dei veri e propri caratteristi, creano in pochissimo tempo una gag, e portano
dunque leggere chiavi comiche: i due ufficiali inglese, la guardia fiorentina, l’ex militare. Il film di guerra
emerge nell’attraversamento degli uffizi, ed esplode con la sequenza finale. Per queste ragioni parlo di Paisà
come di un film “americano”, non nel senso di hollywoodiano, ma in quello che alla cultura americana

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attribuisce Bazin, accostando il film alle tecniche narrative di Faulkner, Hemingway e Dos Passos: il primo
film ad essere l’equivalente rigoroso di una raccolta di novelle. Ma soprattutto la lunghezza di ogni storia, la
struttura, la sua materia, la sua durata estetica; Paisà insomma, si inserisce in pieno in un mito americano,
quello di Vittorini per Cain.
 LABIRINTO DI PASSIONI: NEL TUNNEL DI FIRENZE

I due protagonisti penetrano dentro cunicoli, saltano muri, si inerpicano, o spettatore si perde nel labirinto
cittadino che corrisponde ai labirinti di passioni, legati al desiderio e ai sentimenti dei protagonisti, e alle
confusioni, agli spiazzamenti, alla perdita d’orientamento della popolazione apice estremo è
l’attraversamento del corridoio vasariano in cui i protagonisti cominciano davvero a intravedere la luce
all’uscita del tunnel, qui siamo dentro le viscere culturali della città: Gli Uffizi, l’arte, la tradizione, la storia.
Il reticolo di strade viste dall’alto assumono una valenza altamente psicanalitica: i due elementi insieme,
viaggio e labirinti, propongono con forza un’irruzione dell’inconscio, un percorso interiore; una uscita dal
tunnel, individuale e collettiva, a riveder le stelle.
 TRA CLASSICO E MODERNO: LA MESSA IN SCENA

Una serie di scelte propongono una lettura onirica piuttosto che realistica, risulta centrale la sequenza del
corridoio vasariano, dove in dissolvenza incrociata il montaggio porta lo spettatore dall’ingresso del tunnel
all’ingresso del corridoio. L’obiettivo è una grandangolo che tende a deformare le linee orizzontali e lascia
avvicinare i corpi dei protagonisti da CL/FI sino a CM/FI, passando da zone oscure a zone luminose. Quando
Harriet e Massimo sono più vicini alla mdp, questa comincia a carrellare all’indietro, i due si alzano e
camminano a sx della macchina, e poi escono dall’altra parte, mentre la mdp si è alzata con un leggero
movimento di dolly. Nelle successive inq(87-91) il tono fotografico cambia: la luce è più diffusa, a
dimostrazione che c’è un adeguato impianto di luci artificiali, nella 90 i due rientrano in campo siano
all’ampio finestrone, qui un interessante movimento di carrello si avvicina alla finestra scavalcandoli e
offrendo la visione della città dominata dai tedeschi, poi la dissolvenza incrociata segna il passaggio alla
quarta sequenza. Questo modello permette di ottenere un clima tra sogno e incubo, con le loro soggettive o
semisoggettive sula città popolata di tedeschi. Molto intense le ultime due inqq. Della seq. Finale(133-134),
Harriet in CM sostiene il partigiano morente, poi, il montaggio va direttamente sul PP a due della donna e del
ferito. Tutto il segmento della quinta seq. È girato con grande piglio, degno di un melodramma, ma anche di
un film di guerra; la musica, con l’orchestrazione alla maniera hollywoodiana, un po’ ridondante e tesa ad
assecondare le emozioni. Classico e moderno si coniugano, spesso nella stessa scena si passa da uno stile più
documentario, a una messa in scena più tradizionale, a un montaggio analitico fondato sulla dinamica del
campo-controcampo. Nella scena all’interno dell’infermeria, da un primo momento in cui lo sguardo della
mdp è più freddo, quasi a documentare quello che succede8arrivano i feriti in CM), si cambia poi marcia
improvvisamente con inquadratura in campo- controcampo: una sorta di establishing shot.
“Classico” può essere il piano-sequenza sul terrazzo, con la gag dell’ex militare, o nella successiva, con la
mdp che panoramica verticalmente per seguire la discesa di Harriet e Massimo nella scala.
“Moderne” sono alcune inquadrature negli esterni della città, le donne che si passano la damigiana
dell’acqua, i partigiani che sparano, e soprattutto le inquadrature dall’alto della città, che servono spesso da
passaggio emotivo da una scena all’altra, qui stanno gli indizi di un rinnovamento anche stilistico, oltre che
etico. Ma l’elemento intrigante dell’episodio sta proprio in questa sua ambiguità tra classico e moderno, di
cui il regista appare ampiamente cosciente. La doppiezza del film è ribadita anche dal suo sonoro, che alterna
presa diretta a doppiaggio, il doppiaggio di Harriet risulta del resto indispensabile nella scelta che Rossellini
fa di tagliare tutto il primo incontro con Massimo, l’impianto sonoro risulta doppio, appunto, ambiguo tra la
voglia di cogliere la realtà in presa diretta e quella di deformarla teatralmente.
 REALISMO O ANTIREALISMO: PER UNA RILETTURA DI “PAISA’”

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Paisà dev’essere rivisitato come un’operazione culturale di grande tensione etica, ma interessata anche a
promuovere la nuova Italia nel mondo. Per questo nasce un film parlato per lo più in inglese, i cui interpreti
principali sono sempre americani. Bazin accosta Paisà anche a Citizen Kane, essi dopo il 1940 fanno fare un
progresso decisivo al realismo, la grandezza del “nuovo” realismo non sta nella verosimiglianza, ma nello
stile. L’adesione spirituale al’epoca, l’aderenza all’attualità decollano poeticamente grazie alla cifra stilistica,
all’estetica rosselliniana, che Bazin identifica in vari elementi: l’improvvisazione, la sensibilità della
macchina da presa, l’imparzialità tra l’interessa per i protagonisti e gli avvenimenti intorno, l’unità del
racconto affidata al “fatto” ecc. Elementi su cui oggi si può discutere, ma certo l’analisi richiama per la
prima volta a una lettura testuale. In anni molto recenti il volume di Casetti e di Chio ha dedicato
un’indagine strutturalista-semiologico all’episodio fiorentino. Viene usato come esempio per un metodo di
analisi le cui tappe sono la segmentazione, la stratificazione, l’enumerazione e l’ordinamento, la
ricompattazione e la modellizzazione. I due autori propongono sei seq. Invece di cinque, ma la scelta
“politica” è molto simile: quella di affrancare il film da una lettura banalizzante in senso ideologico e di
applicare ad esso un metodo adeguato ai tempi. Casetti e Chio propongono l’identificazione di una serie di
elementi omogenei, colgono opposizioni e varianti, poi procedono a quella che chiamano la ricomposizione,
con quattro operazioni(l’enumerazione, l’ordinamento, il ricompattamento e la modellizzazione9 e in questo
processo analitico colgono alcuni indizi importanti anche per il mio tipo di analisi.(ospedale e casa di
Massimo visti come due luoghi speculari, l’unificazione dei due atteggiamenti dei protagonisti, i modelli
figurativo della “passione di Cristo, la figura di Lupo, la dinamica collettivo individuale, l’opposizione
verità-falsità).
Insomma una rilettura di Paisà deve contribuire a una revisione complessiva del fenomeno neorealista in
senso meno banale. La grandezza dell’episodio fiorentino e di tutto il capolavoro rosselliniano non sta
tanto(o soltanto) nel suo ritratto epocale, nel suo messaggio resistenziale, nell’eroismo dei suoi personaggi,
volontari o involontari, privati o mitici, ma nella sua cifra stilistica altissima. La sua grandezza sta nella
negazione di un realismo inteso in senso convenzionale, Rossellini si riallaccia invece alle tradizioni più alte
della narrativa nordamericana, e punta alla costruzione di una dimensione simbolica che a volte sfiora
addirittura l’irrealismo.

 Uno sguardo amorevolmente ironico; il quinto episodio

Bazin afferma che più fattori concorrono a fare del film di Rossellini un’opera perfettamente omogenea nella
sua diversità, e si spinge fino a trovare un modello letterario a ogni episodio. Non vi è dubbio che
l’omogeneità possa essere considerata una delle caratteristiche del film, tuttavia l’enfasi posta nel
sottolineare coerenza ha finito probabilmente per mettere in ombra una gradazione di tratti e di toni
innegabili in Paisà come in ogni altra opera composita. Nei confronti dell’episodio romagnolo, che presenta
elementi oggettivi di discontinuità, spesso lo scarto o la distanza sono stati non tanto sottolineati o indagati
quanto usati a pretesto, per trascurarne l’importanza o il ruolo. Ad afferrare la peculiarità dell’episodio
furono quei gestori di sale che amputarono l’episodio, circostanza questa, spia di una lettura non certo priva
di interesse. In realtà, quanto l’episodio romagnolo fosse da sempre intimamente legato alla concezione
stessa del film lo dimostra bene la sua genesi. Nel primo trattamento di paisà, un cappellano militare,
cattolico e di origine irlandese, sbarcato con le truppe americane ad Anzio, si ritrovava coinvolto in
un’azione bellica cruenta e, davanti a dei tedeschi pronti a fucilare inermi italiani, ne uccideva due. Scappato,
bussava alla porta dei frati trappisti di San Callisto, e vi trascorreva l’intera notte, per poi rientrare dai suoi il
giorno seguente, dopo la funzione. Si può notare come venisse data importanza al rito purificatore della
messa che permetteva al cappellano di porsi di nuovo al servizio della collettività nonostante il peccato
commesso; l’episodio lasciava quindi largo spazio alla riflessione teologica, qualcosa di simile magari lo
troviamo, in termini ridotti, nella seq. IX dove il cappellano Martin controbatte efficacemente alcune tesi
sulla fede espresse dai frati francescani. Altra traccia, di segno opposto, è individuabile in un ulteriore
trattamento del film, che situava al quinto capitolo, un episodio diverso da quello girato, dal titolo di Il porco
di Predappio. In questo all’interno di un convento di francescani si celebra il Te deum per ringraziare il

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signore per la ritirata dei tedeschi, dopo si presentano al convento alcuni cappellani militari guidati da un
collega italiano, essi chiedono di restare coi frati per la notte. I cappellani americani offrono le loro scatole di
leccornie che lasciano interdetti i frati disgustati da quel cibo; i frati alla sera preparano una ricchissima cena
ai propri ospiti, un vero e proprio concentrato della cultura culinaria italiana. Lo spirito di questa storia
sembra totalmente diverso e teso a escludere quella partecipazione alla spiritualità che innerva l’episodio poi
realizzato, vi è invece un’ennesima sottolineatura della diversità culturale.
Non si può fare a meno di notare come l’episodio romagnolo sia quello più travagliato, è credibile che abbia
profondamente inciso la volontà del regista di portare la semplicità della fede al centro dell’umanità
coinvolta nel conflitto. L’episodio appartiene al gruppo dei tre in cui la guerra appare sullo sfondo come
tragedia appena vissuta, dopo la seq. Di repertorio(inqq. 1-6), si ha un vero e proprio prologo(7-13) in cui i
frati sono osservati nelle pratiche quotidiane. L’episodio inizia di fatto con l’alba di un giorno eccezionale, il
primo dopo la fine del conflitto, che contiene un evento inatteso: la visita dei tre cappellani.
Nella seq III si presentano i tre cappellani militari(un cattolico, un protestante e un ebreo), e qui l’episodio
inizia una seconda volta, nell’inq. 29 con il primo piano(americano) del trio compare anche il primo
movimento di macchina dell’episodio, che permette ai cappellani di avanzare nel cortile. I primi minuti di
Paisà trascorrono quindi senza che il cinema si articoli, e il risultato di questa riduzione alla pura essenzialità
p un’elevata produzione di senso. A questo archetipo della prima parte, risponde nella seconda una figura
cinematografica solo apparentemente opposta e altrettanto rosselliniana: il piano sequenza(inq. 77), in cui
viene ripercorso lo stesso spazio esterno(il cortile del convento) dell’inq. 29. Tra esse vie è un preciso
parallelismo, nella prima Martin, il cappellano cattolico, spiega il valore del convento, vecchio più di
cinquecento anni, le sue espressioni hanno qualcosa di eccessivamente poetico, tanto da risvegliare negli altri
due uno spirito sarcastico. Il piano sequenza termina con lo svelamento dell’identità religiosa dei due
cappellani, come una vera e propria cesura, questa apre la porta alla terza parte del racconto: la presentazione
e la familiarità. Tra questi due passaggi salienti della vicenda si svolge l’incontro tra i cappellani e i frati,
iscritto nella volontà di mostrare il rapporto tra la popolazione italiana e liberatori americani; si sa che a
Rossellini interessava il rapporto tra cultura europea e cultura americana, umanistica la prima, scientifica la
seconda, considerate come complementari secondo la sua visione personale, ma lo scontro di civiltà sotteso
non può non riguardare anche il sentimento religioso. La notizia data da fra’ Pacifico(due anime perdute nel
convento) si propaga con effetti di stupore e disorientamento, con un curioso lapsus, “uno dei due frati è
ebreo”, il regista introduce un elemento di netta comicità giocando sul contrasto fra fede antica e moderna.
Poco dopo, il padre guardiano, il meno arrogantemente arroccato, prepara un’offensiva teologica destinata a
concludersi in un fioretto d’umiltà; Martin turbato ma quasi incredulo davanti alla rigidità di una fede
riproposta in termini grezzi o almeno duri, deve confrontarsi con una visione della Chiesa che qualche decina
d’anni dopo sarebbe scomparsa. Qui si misura la diversità americana, il cappellano statunitense viene da un
universo in cui la differenza è norma e non eccezione, e la medesima attività del cappellano lo unisce agli
altri due più di quanto la disparità religiosa non li separi. Quella di Rossellini è una vera e propria riflessione
antropologico-culturale: la distinzione tra l’atteggiamento del cappellano cattolico e quello dei frati è infatti
d’ordine culturale e non di ortodossia nella fede, nel regista(come mostrato dalla seq. Finale), non c’è alcun
tipo di giudizio o di partecipazione. Nella seq. Finale, un’inattesa decisione dei frati pone i tre in uno stato di
disagio che Martin trasforma in un riconoscimento di specificità culturale. La breve vicenda dei frati e dei
cappellani militari conferma l’implicita regola del film, e cioè che ognuna delle sei microstorie integra
felicemente la macrostoria; “l’attualità su trasforma in Paisà in materia di reportage, il reportage si converte
in un documento storico, il documento storico in un documento umano e il documento umano in
poesia”(Claude Mauriac).

 L’acqua e la terra; il sesto episodio


L’arte ci offre degli enigmi, ma per fortuna nessun eroe.
MAURICE BLANCHOT

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La sceneggiatura originale di Paisà prevedeva un conclusivo ambientato in Val d’Aosta: durante l’inverno
del 1944, un ufficiale americano, paracadutatosi, entrava in contatto con alcuni esponenti della resistenza, tra
cui vi era anche una misteriosa donna bionda. Durante una pericolosa azione, la donna e un gruppo di
partigiani venivano catturati e fucilati, questo costituiva il punto culminante in cui l’ufficiale si univa alla
lotta partigiana. L’episodio rimase sulla carta, era aprile e la neve sulle Alpi si era ormai sciolta, una nuova
immagine ossessionava il regista: un cadavere che scivolava con lenta solennità sulle acque minacciose del
Po. Quando la troupe raggiunse Porto Tolle, prese forma l’episodio più crudo e solenne, più reale ed
esemplare, all’interno del film. La scelta degli interpreti corrisponde a una completa adesione alla
fisiognomica del personaggio con l’attore non professionista che ne incarna le azioni, dando origine a una
figura unica. La natura ingloba letteralmente e metaforicamente la fisicità degli esseri umani. Equiparando la
vita umana alla vita naturale. La costruzione interna dell’episodio è dettata dalla volontà di raggiungere
maggiori possibilità di sottolineatura tematica(nono chiarezza narrativa!), il regista trascura volontariamente
alcuni nessi diegetici a vantaggio dell’ approfondimento umano e sociale della vicenda. L’episodio è
composto di 181 inquadrature in 14 sequenze, Rossellini struttura internamente l’episodio inserendo elementi
di scrittura filmica destinati a punteggiare il ritmo interno della diegesi; l’uso delle dissolvenze e
l’inserimento studiato degli inserti musicali rappresentano un valido aiuto per la comprensione della
suddivisione sequenziale.
Le dissolvenze incrociate marcano gli spazi, gli interni(pochi) e gli esterni(tanti) dell’episodio, indicano la
straordinarietà di una “condizione protetta”. Per i partigiani e per le forze alleate, la dimensione domestica
rappresenta l’eccezionalità di una situazione esistenziale che prevede l’esterno come unico spazio d’azione,
di vita e di morte; il destino del paese si gioca negli esterni. Le numerose dissolvenze incrociate indicano la
sospensione dei passaggi temporali, evidenziano il tempo d’attesa che non è un momento di riposo, ma una
tensione inespressa, muscolare e mentale, perché rappresentano il momento razionale dell’atto, nel quale le
decisioni vengono prese e la mente si prepara a collegare determinate azioni con determinati pensieri. Ecco
allora che le dissolvenze non elidono ellitticamente le fasi dell’azione, ma evidenziano i momenti dell’attesa,
trasformando gli spazi in stati d’animo e i tempi morti in riflessioni sulle azioni a venire. Nel momento in cui
l’azione si fa più serrata, le dissolvenze incrociate su diradano, i segnali di rottura cronologica vengono
evidenziati dalle uniche due dissolvenze in chiusura dell’episodio, un passaggio netto dal giorno alla notte e
viceversa. La dissolvenza in chiusura assume quindi una doppia valenza spaziale e temporale, raddoppiando
il significato della dissolvenza incrociata. La danza sottile dei raccordi di montaggio si conclude con il
triplice ripetersi di un effetto tendina(inqq. 12-13, 62-63, 97-98), destinato in tutti e tre i casi a sottolineare il
momento della preparazione logistica dell’azione a venire; la tendina segna il momento in cui la decisione è
stata presa e occorre metterla in atto, rappresenta il dinamismo dell’azione, il punto di avvio. La straordinaria
struttura che collega le dissolvenze è destinata a sottolineare idee, concetti e sensazioni. Il perfetto
meccanismo di raccordo sequenziale, attraverso dissolvenze e stacchi, viene contemplato da una
utilizzazione funzionale della musica e dei silenzi, dei rumori interni all’inquadratura e dei suoni fuori
campo. La musica, nel sesto episodio di Paisà, suddivide letteralmente le sequenze, la stessa funzione di
strutturazione interna è giocata dai rumori, la cui presenza o assenza è spesso l’unica indicazione che ci
permette di identificare una sequenza come diversa dalla precedente. I suoni e i dialoghi emergono spesso in
un primo piano sonoro che la composizione dell’immagine tenderebbe a contraddire: basti pensare alla prima
sequenza notturna(seq. VIII, inqq. 81-97) girata tutta in campi lunghi e lunghissimi, in cui si odono
distintamente le voci degli uomini impegnati nello scontro, queste prendono corpo come se fossero voci della
memoria, su delle immagini che il tempo ha allontanato. La musica cessa di fronte al dialogo tra gli uomini,
e di fronte alla tragedia della morte, secondo un processo di costante pulizia emozionale che caratterizza
l’intero episodio: l’irruzione della morte annichilisce qualsiasi forma di espressione verbale. Rappresentata
con una solennità quasi religiosa.
L’aderenza dell’immagine rosselliniana alla realtà del fatto, si rileva nella costruzione in profondità di
numerose inquadrature, spesso il regista crea due piani d’azione all’interno della stessa immagine,
moltiplicando i livelli di lettura dell’inquadratura. Basti ricordare l’inq 42 che vede Dale con due soldati

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americani parlare in mezza figura mentre sullo sfondo, in campo lungo, si da inizio alla sepoltura del corpo
del partigiani recuperato nel Po. Dentro e fuori, interno ed esterno: anche nella costruzione della singola
inquadratura, nel montaggio interno dell’immagine, si gioca il dualismo tematico evidenziato
precedentemente. Nella sequenza della battaglia finale, tutto si gioca mettendo in risalto l’assoluta mancanza
di eroi, di figure dominanti, il personaggio che è sullo sfondo durante un’azione sarà il protagonista della
successiva e viceversa. Spesso è la natura a coprire, a nascondere, le canne del fiume, la notte, le acque, il
cielo e le stelle diventano anch’essi protagonisti dell’inquadratura rosselliniana, ribadendo l’assoluta
insignificanza dell’uomo nel più vasto contesto del mondo naturale. Il rifiuto dell’antropocentrismo si rivela
anche nella sostanziale obiettività della macchina da presa, posta quasi sempre in una posizione frontale,
quasi cercando di dissimulare la propria presenza dietro un’oggettività di carattere quasi documentaristico.
Rossellini costruisce la propria epica antieroica lasciando che la costruzione dell’immagine esprima
democraticamente l’assoluta parità degli uomini, la costruzione in profondità dell’inquadratura e il basso
posizionamento della macchina sono esplicite affermazioni di una poetica che si affida totalmente alla forza
del linguaggio visivo. Rossellini tocca le vette della vera arte proprio perché rifiuta categoricamente la figura
dell’eroe, convinto che la guerra di Liberazione sia stata una guerra combattuta da ogni singolo individuo
con eroismo e una forza pari a quella dell’intera nazione. Il rifiuto dell’eroe si accompagna però all’emergere
di alcuni enigmi. Il primo è un enigma dello sguardo, la mdp compie pochi movimenti sempre funzionali al
movimento del personaggio, leggeri assestamenti, l’assenza programmatica di movimenti fanno prevalere il
filmico sul profilmico; tuttavia, le regole di base vengono infrante in un’unica occasione: il ritorno di Dale a
Casal Madalena dopo l’attacco nazifascista. Qui un bambino si aggira piangendo tra i corpi distesi dei suoi
parenti(inq. 93), i nessi narrativi sono deboli, la mdp però entra in gioco direttamente: sull’inq. 95 parte un
lento carrello laterale a seguire il movimento del bambino, il bambino si ferma, ma il carrello(inq. 97)
continua escludendolo dallo sguardo per andare a fermarsi soltanto nel momento in cui il campo è sgombro
da figure umane e rimane l’immagine del fiume che scorre. La mdp guida uno sguardo che non appartiene a
nessuno dei personaggi, compie un percorso autonomo, rifiutando di soffermarsi sulla morte; il carrello
supera la staticità di un punto di vista che la coerenza cinematografica avrebbe voluto fisso su ciò che in quel
momento era l’elemento più rilevante; la mdp sceglie di continuare a muoversi sancendo l’impossibilità di
fermarsi su quello che per Bazin era uno dei grandi tabù del cinema: la morte. Rossellini attraverso queste sei
straordinarie inquadrature offre allo spettatore-testimone uno sguardo senza origine e senza destinazione,
vagante, misterioso ed enigmatico.
Il secondo enigma, è un enigma delle parti. L’intero sviluppo di Paisà, che si gioca sull’adesione di
americani e italiani a una comune lotta di Liberazione, tuttavia, queste parti vivono in maniera
contraddittoria. Gli americani recano le tracce di un legame sociale e culturale che li caratterizza come
gruppo ambiguo ed enigmatico, l’episodio del Po si fa carico ed esplicita questa contraddizione di fondo.
Durante la battaglia conclusiva l’universo di appartenenza delle parti in causa si esplicita attraverso otto
esemplari inquadrature, destinate a registrare le differenti reazioni di italiani e americani di fronte alla
disfatta(inqq. 153-160). Il partigiano si spara un colpo in testa; Dale esaurite le cartucce, getta il fucile e
attende l’esito dello scontro; il soldato dell’armata di Popsky si accende una sigaretta. Il ruolo giocato
prevedeva copioni differenti, come si evince anche dalla sequenza prefinale(inqq. 164-174), quando una
schiacciante disparità di trattamento divide i prigionieri italiani da quelli americani, intrattenuti da una
“cortese” conversazione. Le parole scambiate tra il tedesco e l’americano si vanno a sovrapporre, come un
vero e proprio tradimento linguistico, a quelle scambiate tra americani e italiani, evidenziando una forte
ambiguità nel comportamento dell’esercito alleato. L’ambiguità si scioglie nella reazione finale di Dale alle
uccisioni dei partigiani, in questo gesto repentino e inatteso, si rivive la stessa forza ribelle di Pina in Roma,
città aperta. Dale, viene raggelato dai colpi delle mitragliatrici, poi tutto si ricompone, mentre prosegue in
silenzio la fredda esecuzione dei partigiani.
Il terzo enigma è un enigma della materia. L’acqua ritorna costantemente in primo piano, i suoi significati
simbolici si riducono tradizionalmente a tre temi fondamentali: sorgente di vita, mezzo di purificazione,
centro di rigenerazione. Rossellini sembra accogliere parzialmente il secondo significato, l’ acqua apre e

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chiude l’episodio(inq. 1 e inqq. 180-181). L’acqua assume una connotazione quasi religiosa, battesimale, di
purificazione dei peccati umani; le acque lente e limacciose del fiume trattengono i corpi sulla superficie e ne
conservano le tracce, trasformandosi in un monito naturale contro la crudeltà e le ingiustizie della guerra. Il
fiume ricorda più a lungo del mare e vive in completa simbiosi con i propri abitanti. L’acqua del fiume, se da
un lato conserva, dall’altro cancella e l’ultima inquadratura, con le acque che si richiudono scure sui corpi ce
pesantemente ci penetrano, sollevano enigmatici interrogativi. L’acqua assorbe(inqq. 180-181), ma in
seguito, restituisce(inq.1). allo stesso modo, la memoria della morte si quella guerra civile, se a breve termine
verrà rimossa, non potrà, nel tempo, non riemergere come una ferita inguaribile, come un corpo restituito alla
profondità del fiume. Paradossalmente, la vera chiusura dell’episodio rosselliniano non è l’ultima
inquadratura, ma la prima, sorta di prologo epilogo scisso dal resto dell’episodio e recante un valore
altamente metaforico.

 Le due versioni di Paisà.

Paisà viene presentato in chiusura alla prima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, il 18 settembre 1946.
Non è la prima volta che Rossellini presenta un suo film a un festival in chiusura come “film a sorpresa”: per
strategia pubblicitaria, forse, o perché, in effetti, il film sembrerebbe uscito dal laboratorio all’ultimo
momento. Ciò spiega anche come gran parte dei film di Rossellini comporti “varianti tra la versione
presentata a un festival e quella uscita nelle sale italiane o estere. Le riprese del film, iniziate a metà gennaio
del 1946, si erano prolungate sino alla fine di giugno, durante la postproduzione Rossellini era stato colpito
da un tremendo lutto: la morte improvvisa del figlio Romano di nove anni.
I tagli al film non erano di mezz’ora, come segnalava a memoria Carlo Trabucco recensendo il film alla sua
uscita a Rome il 9 marzo 1947, ma non si trattava neppure di “qualche taglietto qua e là”. La possibilità di
verificare le differenze si è presentata solo nel 1998, quando il Bundesarchiv-Filmarchiv di Berlino(la
cineteca di stato) ha fatto avere alla Cineteca Nazionale di Roma un lavanda(positivo a grana fina ricavato
direttamente dal negativo) nuovo, ma mancante dell’ultimo rullo(gli ultimi dieci minuti circa). Perché il
lavanda si trovasse in Germania non è stato chiarito, si può solo ipotizzare che esso sia arrivato durante la
lavorazione di Germania anno zero, in vista di una possibile uscita in quel paese. Altrettanto difficile stabilire
perché il lavanda depositato, fosse quello della versione veneziana, date che a quelle date il film circolava
ormai in tutto il mondo nella versione riveduta e corretta. I tagli e i ridoppiaggi, probabilmente sono opera
dello stesso Rossellini: ripensamenti o “pentimenti (a lui consueti, come si è detto) dopo il montaggio
probabilmente affrettato in vista della presentazione a Venezia.

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