apparato industriale di straordinaria efficienza. Le piccole compagnie di distribuzione e produzione tendono a
fondersi in aziende più grandi. Nascono nel corso del decennio molte case importanti. Il modo di produzione
dunque si trasforma, e dopo il 1914 si afferma così il producer system, al cui centro si pone non più il regista ma il
produttore.
La modernità cinematografica
La modernità cinematografica è un concetto attraverso il quale crolla tutta un’estetica, sintetizzata da una formula:
"tutto torna”, come sempre in un film hollywoodiano. Formula che corrisponde allo stesso tempo sia al “non accade
nulla nel film che non abbia una spiegazione” e sia al “non accade nulla nel film che non rientri nell’intreccio”. Con
la modernità cinematografica quella formula si ribalta nel suo opposto: "nulla torna". Ad esempio, in uno dei
capolavori di Vittorio De Sica Ladri di biciclette (1948) i personaggi e gli spettatori rimangono sospesi, la certezza
iniziale sull'individuazione del colpevole durante il film vacilla, il protagonista del film poteva trovare come non
trovare la sua bicicletta, e da questo deriva il valore politico del film stesso. La serie di scene che si susseguono
poteva essere variata nel loro ordine senza che il film mutasse di senso. Ciò significa che il film non ha un arco
narrativo vincolante, perché non racconta alcuna vera azione, e senza azione non c'è storia, se non c'è storia c'è
solo visione. Il cinema moderno inizia dunque con la sospensione dell'azione; film esemplare in tal senso è La
finestra sul cortile di Hitchcock. La potenza dello stile al cinema si afferma dunque attraverso l'intercessione del
personaggio, la cui "invenzione" avviene con il cinema moderno. Il personaggio diventa intercessione dell'autore,
l'autore cioè trova un intermediario che sostituisce il personaggio-agente del cinema classico. Il cinema classico non
inventava personaggi, costruiva mondi.
Non c'è gerarchia di soggetti, di genere, di personaggi: non c'è più la divisione aristotelica tra personaggi "migliore
di noi" e quelli "peggiori di noi”, il cinema della modernità ha una visione più “democratica”.
dell’attore professionista. Il film più simbolico è La terra trema, in cui tutti i personaggi sono interpretati da
autentici pescatori. La maggior parte delle volte si ha una composizione ibrida del cast. Proponendosi come
scoperta del paesaggio e del territorio italiano, il Neorealismo affronta le culture regionalistiche e marginali anche
attraverso le loro particolarità linguistica: il dialetto. Paisà adotta un registro plurilinguistico, mescolando i dialetti
italiani all’inglese degli alleati o al tedesco dei nazisti sottolineando la difficoltà di comunicazione tra le varie
culture. L’esperimento più estremo viene da Visconti con La terra trema che sacrifica la comprensibilità dei
dialoghi per le sonorità del dialetto acitrezzino. Il film di Visconti rappresenta anche uno dei rari casi in cui si tenta
di usare la presa diretta del suono. La maggior parte delle opere neorealiste viene totalmente o parzialmente
doppiata. A causa delle difficoltà di gestire in esterni le strumentazioni di registrazioni del sonoro viene dissociata
la voce dal corpo, in profonda contraddizione con il principio di autenticità professato dai registi neorealisti.
Il super-spettacolo d’autore
Antonioni e Fellini sono stati visti come il simbolo di un cinema di grande ambizione artistica e produttiva,
affiancati in parte da Visconti, ma anche da esordienti come Pier Paolo Pasolini e Francesco Rosi. Tuttavia la
triade Fellini-Antonioni-Visconti presentano delle peculiarità italiane forti rispetto al cinema internazionale degli
stessi anni. Il periodo aureo è il giro di anni che va dal 1960 al ’63, con la Palma d’Oro a Cannes per La dolce vita e
altri premi a L’Avventura nel 1960, di Antonioni. L’Italia vincerà quasi tutti i principali premi internazionali nel
1963 con Il Gattopardo (Luchino Visconti 1963), e 8 1\2 (Fellini, 1963). In quella stessa stagione giunge a
maturità lo status internazionale di una serie di divi: Sophia Loren, Anna Magnani, Alberto Sordi, Marcello
Mastroianni, Nino Manfredi.
Federico Fellini
La dolce vita (Federico Fellini, 1960), forse il film più celebre dell’intera storia del cinema italiano, è un’opera
estremamente stratificata, nella quale convergono elementi molto diversi. Nasce dalla cronaca di quegli anni,
racconta la contemporanea cultura di massa e allo stesso tempo, ne diviene oggetto: le riprese diventano una
specie di evento permanente, seguito dai giornali e riviste, e l’uscita del film avverrà sotto il segno delle polemiche
da parte della cultura conservatrice di alcuni settori del Vaticano. Fellini alterna improvvisi rallentamenti e
accelerazioni, scene intime “a due” o di stanchezza da dopo-festa a vertiginose e affollate composizioni collettive.
Ma la forza registica di Fellini consiste nella sua disposizione dentro la singola sequenza, o addirittura dentro la
singola inquadratura. Con 8 1\2 invece nascerà il cosiddetto cinema “felliniano”. Il film racconta di una crisi creativa
di un regista (trasparente proiezione autobiografica), e alterna il quotidiano con improvvise irruzioni del mondo dei
sogni e dei ricordi d’infanzia. Proprio l’autobiografismo, intrecciato all’onirico e al ricordo sarà la cifra con cui
si identificherà il cinema di Fellini. Ma va ricordato che vi è una forte componente inquietante: i sogni sono
anzitutto incubi, e i ricordi grottesche caricature.