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MANUALE DI STORIA DEL CINEMA

Cinema contemporaneo → dagli anni ’80 ad oggi

1. ARCHEOLOGIA DEL CINEMA

Preistoria del cinematografo

28 dicembre 1895 → nasce il cinema, con l’inizio di regolari proiezioni di Louis Lumière, al Grand Café sul
Boulevard des Capucines a Parigi. Si trattò di una nuova invenzione che ebbe enorme successo, alla cui
creazione contribuirono scoperte tecniche e scientifiche di molte persone (dalla Francia, Inghilterra, USA,
Germania…) che si dedicarono ai problemi della riproduzione della realtà in movimento → fenomeno
internazionale

Preistoria:
- proiezione di immagini su schermo
- ricerca dell’illusione del movimento
- nascita e sviluppi della fotografia

Immagini su uno schermo

Alcuni tipi di rappresentazione, per il loro carattere meccanico e la bidimensionalità delle immagini
prodotte, possono essere considerati nella preistoria del cinema perché in qualche modo anticipano lo
spettacolo che questo offrirà:
- ombre cinesi
- proiezioni della lanterna magica
- “fantasmagorie” di Robertson (fine ‘700)

Teatro d’ombre → esiste da millenni in oriente, si è diffuso molto in Europa a partire dal ‘700; si tratta della
proiezione su una parete bianca di ombre ottenute attraverso giochi delle dita oppure di proiezioni per
trasparenza di figure bidimensionali di materiale opaco su una grande tela bianca (suggestione giochi di
luce, oscurità ambiente in cui avvenivano le proiezioni…).

Lanterna magica (invenzione di Kircher) → si basa sulla proiezione per trasparenza


dell’immagine , con l’ausilio di una fonte luminosa retrostante; basato sulla staticità
delle singole figure e sulla loro successione per stacco, senza continuità; narrazione
elementare (soggetti religiosi, fantastici o contemporanei – cronaca, politica);
proiezione di figurine colorate su vetro; a metà ‘700 si cerca di ottenere l’effetto del
movimento tramite la sovrapposizione di due pezzi di vetro, il secondo, che è la parte
della figura che si desidera far muovere, è azionato da una cordicella o asticella.

Fantascopio (Robertson) → aprì nuove possibilità espressive e drammaturgiche; si trattava di una lanterna
magica fornita di otturatori speciali: gli spettacoli, fantasmagorie, consistevano in un insieme di varie
lanterne, di numerose lastre disegnate, leve e carrucole che consentivano
l’avvicinamento/l’allontanamento delle singole lanterne dallo schermo, e di vari dispositivi per ottenere
suoni e rumori → spettacolo suggestivo, consentiva di far apparire/sparire immagini,
ingrandire/rimpicciolire figure…

Tuttavia, si trattava ancora di spettacoli basati sulla successione di immagini al massimo solo parzialmente
dinamiche e non ancora fissate su particolari supporti inalterabili che permettessero di riproporre lo stesso

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identico spettacolo per infinite volte. Nelle fantasmagorie, la presenza dell’autore o di
tecnici provetti era necessaria → si è ancora nel campo di un particolare genere di
teatro
Si tratta di un’invenzione anticipatoria per lo più del cinema di animazione, in quanto
non si potevano utilizzare immagini basate sulla riproduzione corretta e obiettiva della
realtà fenomenica (la fotografia nascerà 30 anni dopo)

Mondo nuovo → apparecchio ottico in grado di proiettare una serie di immagini, anche
rudimentalmente animate, all’interno di una cassa di grandi dimensioni, che potevano
essere viste da un singolo spettatore per volta

Sia il mondo nuovo che la lanterna magica si affidavano alla presenza di un narratore che che aveva il
compito di spiegare le singole immagini e il loro legame narrativo.

Lanterna magica → antenato del cinematografo dei Lumière


Mondo nuovo → antenato kinetoscopio Edison e Dickson

Immagini in movimento

Ottocento → secolo di tentativi, esperimenti, brevetti, ricerche che consentirono il passaggio graduale dalla
proiezione statica a quella in movimento reale → rappresentazione del movimento disegnato; piccole
invenzioni tecnico-scientifiche

- Thaumatropio → dischetto di cartone rotante intorno al suo


asse, che consente, grazie alla rotazione e al fenomeno di
persistenza delle immagini, di sovrapporre le due figure
disegnate su ambedue le facce del disco in modo da formare
una sola immagine; non consente ancora la rappresentazione
del movimento

Perché l’occhio umano percepisca il movimento riprodotto, deve esserci lo scorrere a una certa
velocità di una serie di immagini statiche che rappresentano, ognuna, un movimento distinto di
un’azione.

- Fenachistoscopio o fantascopio (Plateau) → cerchio di cartone rotante, su


cui sono disegnate in genere 16 figure che rappresentano le varie fasi di
un movimento; facendo ruotare il cerchio davanti ad uno specchio, è
possibile vedere la figura disegnata muoversi, attraverso apposite

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finestrelle praticate sulla superficie stessa del cerchio. Principio su cui è basato il cinema
d’animazione, che precede il cinema fotografico di Lumière.

- Zootropio → formato da un cilindro con delle fessure esterne,


all’interno del quale erano disegnate le singole figure; facendo
ruotare il cilindro, e guardando attraverso le fessure, era possibile
osservare il movimento della figura; modello su cui si baserà il
prassinoscopio di Reynaud (1877)

Emile Reynaud e il “teatro ottico”

1877 – 1888 → messa a punto del prassinoscopio; questo apparecchio


sviluppava tecnicamente e migliorava il fenachitoscopio di Plateau; con il
prassinoscopio a proiezione si potevano proiettare su uno schermo le
immagini disegnate e animate su piccole strisce (strumento precursore del
cinema d’animazione)

Con l’invenzione del teatro ottico gli spettacoli di Reynaud, dati a partire dal
1892, diventano popolari, di massa. Si avvale di una pellicola a scorrimento,
perforata, flessibile, di celluloide. Le strisce non sono più limitate a n. pose, ma possono contenerne
centinaia, consentendo la realizzazione di una vera e propria storia disegnata e animata. Erano pellicole
trasparenti che permettevano la proiezione per trasparenza di immagini colorate, contenenti una quantità
indefinita e teoricamente infinita di “fotogrammi”.
Reynaud iniziò a proiettare i suoi spettacoli nel
1892 al Cabinet Fantastique del museo Grevin.
Gli spettacoli, si componevano, all’inizio, di tre
piccole pantomime luminose (più due realizzate
successivamente; solo due di queste si sono
conservate*):
- Pauvre Pierrot*
- Clown et ses chiens
- Un bon bock

- Un reve a coin du feu


- Autour d’une cabine*

Si trattava di piccole favole a disegni animati, la


cui durata variava dai 6 ai 15 minuti; le storie erano semplici, elementari. Ambiente e scenografia
richiamavano la commedia dell’arte; anche personaggi e temi erano tradizionali (es. Arlecchino, eterno
dramma dell’amore non ricambiato).

Le pubbliche proiezioni dei film di Lumière ridussero l’interesse degli spettatori.

Immagini fotografiche

Contemporaneamente alle ricerche sulla riproduzione del movimento, si svolgevano ricerche sulla
registrazione fotografica della realtà fenomenica.
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1826 →il francese Niepce ottenne la prima immagine impressa su una lastra sensibile alla luce; una
prospettiva di tetti di case che richiede una esposizione di diverse ore.

Nel 1829 Niepce si associa con Daguerre che perfezionò il procedimento rudimentale di Niepce ottenendo
nel 1837 il primo dagherrotipo, che aprirà alla diffusione della fotografia in tutto il mondo.

Ulteriori ricerche di altri tecnici e scienziati consentirono miglioramenti nella fedeltà riproduttiva, notevole
riduzione dei tempi di esposizione (fino a 1/25 di secondo) e l’introduzione, nel 1889, da parte di Eastman,
di una pellicola di celluloide trasparente che si rivelerà poi adatta alla ripresa e alla proiezione di film.

Muybridge e Marey → ricerche sull’analisi del movimento e messa a punto di apparecchiature in grado di
scomporlo scientificamente in immagini fisse

Muybridge (1878) → riproduzione fotografica di un cavallo in corsa, grazie a una speciale apparecchiatura
composta da un certo numero di macchine fotografiche piazzate ai bordi della pista su cui il cavallo correva;
gli otturatori erano azionati da fili disposti lungo la pista stessa, trasversalmente, a intervalli regolari, che il
cavallo tagliava nella sua corsa. Ottenne una serie di fotografie successive che riproducevano esattamente
un certo numero di fasi del movimento (→ più macchine fotografiche). Lo studioso produsse un corpus
sull’analisi scientifica del movimento attraverso la fotografia.

Marey → si interessò al lavoro di Muybridge; inventò il fucile fotografico, che consentiva di riprendere fino
a dodici immagini al secondo, riproducendo con notevole esattezza il movimento di animali/persone. Per la
scarsità di pose e la lunga esposizione richiesta, lo strumento era insufficiente per gli scopi scientifici
dell’autore. Realizzò quindi un’apparecchiatura cronofotografica composta da una sola grande camera
oscura e da un obiettivo, che permetteva di fissare, su una stessa lastra le diverse fasi del movimento di un
soggetto, su sfondo nero (→una sola macchina fotografica). Costruì successivamente un proiettore
cronografico.

Queste scoperte rimasero comunque nello stretto ambito


della ricerca scientifica: non si trattava della riproduzione
del movimento, quanto piuttosto della sua analisi,
attraverso la scomposizione in fasi statiche successive.

Thomas A. Edison e K. L. Dickson

Inizialmente le invenzioni tecniche riguardanti la riproduzione della realtà in movimento rientravano, nella
maggior parte dei casi, nel settore della curiosità scientifica (non certo in intenti spettacolari).
L’americano Edison fu tra i primi a coglierne il potenziale di spettacolo redditizio.
Progettò:
- kinetografo → apparecchio per la ripresa su pellicola
- kinetoscopio → apparecchio per la proiezione

Dickson fu incaricato di sviluppare sul piano tecnico le idee di Edison, tra il 1888 e il 1891.
Attraverso l’impiego di una pellicola sensibile di notevole lunghezza (Eastman) Dickson ottenne dei
microspettacoli che il pubblico poteva osservare, individualmente, attraverso un oculare praticato sulla
parte alta di una grossa scatola contenente la pellicola impressionata. Il kinetoscopio era azionato
dall’introduzione di una moneta nell’apposita fenditura. Venne diffuso in America e in Europa a partire dal
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1894, ottenendo un favorevole successo di pubblico.
La pellicola ricominciava sempre da capo senza interruzione e riproduceva movimenti elementari, es. quelli
di un ballerino. L’attrattiva per il pubblico e quindi il successo era dato dalla verità dell’esibizione (non
figurine disegnate), dal fascino della registrazione del movimento e di fatti autentici, diretti, non mediati
dall’opera di un artista.

Da qui la querelle sull’invenzione del cinema. I primi film di Dickson precedono di qualche anno i primi film
Lumière, ma non sono considerati a tutti gli effetti cinema, anche se il principio tecnico non è molto
differente. Diverse ragioni:
- offerta di esibizioni elementari (in contrasto con l’idea di cinema, inteso come autentico spettacolo di
proporzioni non troppo esigue e con possibilità di sviluppo in direzione documentaristica o spettacolare)
- inesistenza del pubblico; vi erano solo spettatori individuali, quasi voyeurs
- non considerazione della possibilità di aprirsi a un pubblico attraverso la proiezione schermica
- brevità dei microspettacoli che si ripetevano all’infinito senza variazioni di sorta
- limiti di tempo imposti dalla struttura stessa dello strumento
- spettacoli sempre uguali o comunque dello stesso genere: rischio di esaurire in breve tempo le possibilità
espressive dello strumento e il suo successo di pubblico

Edison e Dickson pensarono di variare ed arricchire il catalogo dei loro brevi film, in modo da costituire un
repertorio abbastanza vasto per soddisfare i diversi gusti: diversi soggetti, interpretati da noti artisti del
teatro, del circo, del varietà. Essi, infatti, furono i primi a ingaggiare per i loro film artisti di fama
(anticipando ciò che faranno molti anni dopo alcuni produttori, per assicurarsi il successo di pubblico).
Furono inoltre i primi a realizzare un vero e proprio studio cinematografico, attivo dal 1893, il “Black Maria”
(edificio illuminato dall’alto da una grande vetrata, che si poteva spostare su binari circolari, in modo da
seguire il movimento del sole; poteva essere utilizzato in tutte le ore del giorno).
Furono infine Edison e Dickson a definire il campo di soggetti da trattare, anticipando temi che si
ritroveranno anche nel cinematografo Lumière (paesaggi, luoghi esotici, scene di vita quotidiana…).

Verso il cinematografo: esperimenti in Europa

Alla fine dell’Ottocento si assistette in diversi paesi europei alla corsa alla proiezione di immagini
fotografiche in movimento:
- Onda di Marey, 1888 → più datato esempio di fotografia dinamica che conosciamo
- Bioscopio degli Skladanowsky → Germania; apparecchio che si affidava a due pellicole di 53 mm (contro
quella da 35 mm usata dai Lumière)
- Rough Sea at Dover di Paul → Inghilterra; apparecchio con cui nel gennaio 1896 (un mese dopo i Lumière)
vennero proiettati al Royal Photographic Society alcuni film tra cui quello citato, che è uno dei più celebri
film del cinema delle origini

Vennero dunque messi a punto diversi apparecchi simili al cinematografo dei Lumière, che però ebbe la
meglio su tutti per diverse ragioni:
- maneggevolezza e versatilità dell’apparecchio, che da macchina da presa si trasformava in proiettore
- strumento più perfezionato e efficace, con cui furono risolti i diversi problemi legati alla proiezione di
immagini dinamiche su grande schermo
- uso pellicola di celluloide perforata, avanzamento intermittente di fotogramma in fotogramma

Stabilirono due standard che rimarranno a lungo in tutti i paesi:


- pellicola 35 mm
- velocità di scorrimento 16 fps

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2. IL CINEMA DELLE ORIGINI

Il cinema di Louis e Auguste Lumière

I fratelli Lumière disponevano delle conoscenze tecniche e delle attrezzature necessarie per approfondire
gli studi sulla riproduzione del movimento perché avevano un’industria fotografica a Lione.
Brevettarono il loro apparecchio: il cinema, appena nato, si sarebbe sviluppato apportando piccole
modificazioni al cinematografo dei Lumière, mantenendo inalterato il principio tecnico di base.
Si trattava di un apparecchio molto semplice, leggero e facile da trasportare, azionato da una manovella
che consentiva lo scorrimento e il riavvolgimento della pellicola cinematografica, perforata e di notevole
lunghezza, in modo che le riprese continue potessero durare un tempo sufficientemente lungo per
rappresentare azioni compiute. Si trattava di un dispositivo alla portata di tutti, che non richiedeva
particolari competenze tecniche. Permetteva una rappresentazione molteplice della realtà, che poteva
essere catturata nella sua complessità (azioni e movimenti articolati).

28 dicembre 1895 → prima proiezione pubblica al Grand Café


I Lumière tentarono di commercializzare su vasta scala la loro invenzione, organizzando proiezioni
pubbliche a pagamento. La prima proiezione fu un’operazione commerciale, a cui furono invitati direttori di
teatri d’arte e d’illusionismo e del museo Grévin, per lanciare sul mercato l’invenzione e ricavarne notevoli
profitti. Il successo fu superiore alle previsioni: si definì il cinematografo come “la meraviglia del secolo”.
Il programma prevedeva la proiezione di una decina di film, per un totale di circa mezz’ora di spettacolo. I
Lumière avevano girato nel 1895 molti film, in modo da poter variare spesso i programmi, anche se i
soggetti non differivano molto nel tema di base e nella rappresentazione:
- scene di attualità
- informazione documentaria
- scenette familiari
- microspettacoli comici

Es. La sortie de l’usine Lumière à Lyon ; Arrivée d’un train à la Ciotat

L’interesse del pubblico era allora suscitato soprattutto dalla curiosità di vedere riprodotta la realtà
fenomenica con straordinaria esattezza, che era già uno spettacolo unico e imprevedibile, che non aveva
bisogno di ingredienti spettacolari per essere fruito con entusiasmo. Era il realismo della rappresentazione
e dell’autorappresentazione, della realtà in movimento nella sua naturalezza e verità dei soggetti e degli
oggetti a costituire il fascino e la novità dello spettacolo.

Primi spettacoli cinematografici:


- effetti di realismo, di illusione del movimento naturale, fedele riproduzione della realtà fenomenica
- una sola inquadratura
- cinecamera fissa, che riprende la realtà frontalmente
- campi medi, mai troppo ravvicinati né distanziati
- l’azione tende a svolgersi al cento del campo di ripresa (ma comunque già esplicita la dimensione del
fuoricampo, quando le figure umane muovendosi uscivano dal campo di ripresa)
- profondità di campo, che metteva a fuoco sia le figure vicine che quelle lontane

I fatti della quotidianità dei primi film Lumière rendevano la realtà ancora più pregnante e significativa della
stessa realtà, perché rivolgevano una nuova attenzione verso ciò che normalmente veniva trascurato e che,
quindi, assumeva un rilievo drammatico insolito. Aspetti banali e trascurabili della vita assumevano nuovo
significato.

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Il successo del cinematografo dei Lumière stava in una duplice attrattività dei loro soggetti:
- realtà
- rappresentazione

Es. mito dell’Arrivée d’un train à la Ciotat


Inquadratura di sbieco che mostra un treno avanzare e quasi sfiorare lo schermo → rappresentazione della
realtà che ne accentua delle caratteristiche fino a diventare “minacciosa” (suscitò una sorpresa e un timore
maggiore di quello che il medesimo pubblico avrebbe provato sul luogo stesso dell’azione).

Le traiettorie delle folle sono uno dei marchi che contraddistinguono il cinema dei Lumière. In questo film si
ha la riproduzione di una scena di vita quotidiana e, al tempo stesso, la rappresentazione di un fatto, la sua
drammatizzazione in termini di spettacolo.

E’ il movimento delle persone a definire il campo (totale, medio, ravvicinato); in base alla loro posizione
rispetto all’inquadratura che rimane fissa.

Es. Sortie de l’usine Lumière à Lyon → documentazione + narrazione (scelta della realtà scenica e
dell’illusione realistica del movimento)

Altri film:
- Partie d’écarté
- L’arrosseur arrosé → considerato da alcuni storici il primo film narrativo in assoluto; opera
cinematografica realizzata con intenti chiaramente ludici, secondo gli schemi drammatici e narrativi della
scenetta comica o della vignetta illustrata. La storia è elementare, presenta la tipica struttura con esordio,
intrigo, scioglimento, epilogo. Si passa da una situazione di equilibrio inziale ad una di equilibri finale,
attraverso un momento in cui tale equilibri viene rotto e poi ricomposto dal gioco delle parti che
contrappone l’eroe (giardiniere) all’antagonista (monello).
Il film era comunque fruito, sia sul piano della rappresentazione realistica che su quello degli schemi
narrativi, come gli altri prodotti dei Lumière (informativi e documentari).

1895 – 1898 → periodo di maggiore intensità produttiva dei Lumière, dopodiché declino
1905 → fine dell’attività

Lo spettacolo cinematografico, in America, in Francia e negli altri Paesi europei, si era andato sviluppando
in maniera più ampia e in forme più complesse di quanto non avessero previsto i suoi inventori. Lo
sfruttamento delle apparecchiature e dei film stava subendo profonde modificazioni. La concorrenza
richiedeva una ristrutturazione della produzione su basi industriali e commerciali, ma i Lumière erano
convinti che il cinema fosse un’arte senza grande avvenire.

Vedute documentarie e attualità

La maggior parte dei film Lumière (1422 in una decina d’anni) sono opere documentaristiche o simili a
cinegiornali di attualità: mostravano infatti vedute e panorami di luoghi, vie e piazze francesi o esotiche,
avvenimenti contemporanei come inaugurazioni, viaggi diplomatici…
Il cinema per i Lumière doveva fornire soprattutto informazioni, doveva essere l’illustrazione realistica dei
fatti quotidiani, della realtà sociale ed ambientale, della vita contemporanea. I film dei Lumière forniscono
un panorama variopinto della società fin du siècle, ed hanno un grande valore di documentazione. Tuttavia
non vanno considerati solo documenti di un’epoca.

I Lumière rappresentavano anche un certo tipo sociale, i cui gusti, preferenze, scelte ideologiche ecc. si
trasferivano nella loro opera. I loro film erano frutto di una determinata concezione dell’uomo e della
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società, e abbracciavano il punto di vista di una borghesia soddisfatta di sé e del mondo.
Caratteristica fondamentale dei loro intenti giornalistici (ma anche degli evidenti limiti), inoltre, fu la loro
tendenza enciclopedica, che li portò a costruire uno straordinario repertorio di usi e costumi di una società,
che comunque documenta soltanto alcuni aspetti del mondo che cerca di riprodurre (rappresentazione
parziale) → aspetti più facili, esteriori, immagini colte all’improvviso, passivamente, pura e semplice
rappresentazione di fatti

Ai Lumière interessava per di più sfruttare commercialmente la loro invenzione prima che l’interesse del
pubblico scemasse, dando a noleggio i propri spettacoli unitamente all’attrezzatura tecnica e all’assistenza
di personale qualificato (anziché vendere). Per questo vollero disporre di un vasto catalogo di film e di
numerosi operatori (in origine fotografi) che seguissero le proiezioni e girassero film in ogni parte del
mondo (es. Promio, Mesguich, Doublier…) → cinema di viaggio, pellicole che illustravano vita di popoli
stranieri o bellezze della natura

Le invenzioni in ambito cinematografico, a seconda dei casi e delle situazioni, nascevano spontaneamente.
Es. “carrellata” (cinecamera fissata su un mezzo mobile) e altri primi movimenti di macchina → inventati da
Promio in alcuni film girati nel 1896 a Venezia; collocò il treppiede su una gondola, dando vita a un effetto
panoramico

La realtà urbana, tipica dei primi film Lumière, cede progressivamente il posto alla visione panoramica e alla
rappresentazione di luoghi e monumenti poco noti. Si accentua l’aspetto informativo del cinema e il suo
potere di far vedere realtà dapprima conosciute solo attraverso i libri.
Questa necessità informativa modifica anche, a poco a poco, il programma generale della produzione
cinematografica di fine secolo; accanto al documentario turistico ed esotico, nasce e si sviluppa la cronaca
cinematografica e il giornale illustrato da immagini semoventi → fatti salienti della cronaca mondana e
politica

La corsa ad accaparrarsi per primi le riprese cinematografiche dei grandi fatti contemporanei spinse alcuni
alla realizzazione di cinegiornali d’attualità ricostruiti, ossia non girati sul luogo dell’azione ma in studio, con
personaggi e ambienti non autentici:
- rottura degli schemi formali del cinema “dal vero” verso un progressivo predominio del cinema
spettacolare e di finzione, in cui la realtà fenomenica è totalmente trasfigurata nella rappresentazione
- modificazione del carattere della fruizione del prodotto da parte degli spettatori, sufficientemente attenti
e maturi per cogliere la falsificazione della realtà presentata per vera o così ingenui da scambiare il falso per
autentico

Si trattava in realtà di una questione di credibilità e verosimiglianza. La questione non stava tanto nel grado
di autenticità delle riprese, ma nella loro utilizzazione corretta, ai soli fini dell’informazione/divulgazione. I
servizi giornalistici realizzati sia direttamente che indirettamente nascevano dalla necessità del pubblico di
essere tenuto al corrente di quanto accadeva nel mondo. L’importante era realizzare, prima di altri, film
d’attualità, o registrare fatti di cronaca che attirassero l’attenzione del pubblico → spettacoli già di per sé
pieni di fascino, che entusiasmavano il pubblico

1908 → si cominciò a produrre regolari cinegiornali, es. Pathé-journal


La distinzione tra finzione e realtà, spettacolo e documentario, a questo punto, era oramai condificata, sia a
livello di produzione che di fruizione.

film d’attualità ≠ film spettacolare

La produzione di fine ‘800 e inizio ‘900 fu lo specchio della sua società.

Il cinema di Georges Méliès


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Méliès comprese immediatamente le possibilità tecnico-espressive del cinema e le sue potenzialità per la
produzione di effetti di illusione (che già l’autore realizzava in un teatro).
Egli era attratto dal cinematografo non tanto perché permetteva di registrare la realtà così com’è, ma
perché le immagini semoventi (autonome) consentivano un’illusione della realtà maggiore rispetto a quella
offerta dal teatro: dava più risalto ai trucchi ottici, alle fantasticherie, ai viaggi attraverso l’impossibile.

1889 → acquista il teatro Robert-Houdin, di cui diventa direttore → sala specializzata in spettacoli
d’illusionismo → successo di pubblico; diventa una delle maggiori attrazioni parigine

Si trova vicino al museo Grévin (1892 → pantomime luminose Reynaud) e al Grand Café (1895 → proiezioni
Lumière) → luogo definito boulevard du cinéma

Lumière non volle vendergli il suo apparecchio, per cui se ne costruì uno nel 1896, su un modello inglese o
americano, con cui diede degli spettacoli di “fotografie animate” → kinetografo
Comincia una regolare produzione cinematografica (nel primo anno già 78 film)

Molti film non differiscono molto da quelli dei Lumière, ma alcuni, ad esempio Escamotage d’une dame
chez Robert-Houdin, in cui una donna è trasformata da un mago in uno scheletro, sono un’anticipazione di
quei film a trucchi per cui diventerà celebre.

1897 → Méliès costruisce a Montreuil un vero e proprio studio cinematografico, nel quale realizza i suoi
film a trucchi e può dare vita al suo estro artistico e al suo senso della messa in scena, che ne faranno il
padre del cinema come spettacolo. Da qui in avanti il teatro Robert-Houdin sarà dedicato esclusivamente
alla proiezione di film.

Poetica di Méliès:
- meraviglia
- illusione ottica
- mistero non svelato
- visualizzazione dell’impossibile
- concretizzazione dell’irreale

Méliès → interesse per lo spettacolo in senso stretto (finzione scenica, effetto comico o drammatico). Oltre
a film di illusionismo realizzò molti film comici. Non mancano nemmeno i documentari.

Es. L’affaire Dreyfus (1899; 20 minuti); sviluppa tutta la storia del processo, dall’arresto dell’ufficiale alla sua
condanna. I singoli episodi si ispirano alle illustrazioni dei giornali dell’epoca e sono ricostruiti in studio →
tableaux vivants

La fama di Mélies è comunque legata ai suoi film a trucchi, ai suoi giochi d’illusionismo e di prestigio
(apparizioni, sparizioni, ingrandimento, sostituzione…) → attrazione per il pubblico

Film che si avvalevano di diversi trucchi (teatrali, fotografici, cinematografici):


- pellicola spesso colorata a mano, utilizzavano scenografie dipinte su fondali di tela
- sovrimpressione
- interruzione e sostituzione (interrompendo la ripresa)
- scatto singolo → avanzamento della pellicola, fotogramma per fotogramma, che permetteva di far
muovere degli oggetti inanimati
- mascherino e doppia esposizione → mascherino davanti all’obiettivo: permetteva di riprendere una scena
più volte, impressionando a ogni ripresa solo una parte della pellicola → trucco alla base de L’homme
orchestre (1900) che mostra 10 orchestrali con strumenti differenti, tutti interpretati da Méliès
- avanzamento o arretramento macchina da presa → es. L’homme à la tete en caoutchou (1901), in cui la
testa di Méliès si gonfia e sgonfia a dismisura
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A rendere sconvolgenti e attrattive le immagini di questi film era il realismo fotografico da cui provenivano.
Progressivamente i film di Méliès si fanno più lunghi e complessi, costruiti secondo le regole del dramma
tradizionale o del romanzo d’avventure: più personaggi, ambienti fantastici, successioni di scene; utilizzo di
scenografie e costumi di un kitsch autentico…

I film di Méliès sono costituiti da diverse inquadrature, quasi sempre fisse e in campo medio; ogni
inquadratura costituisce un’intera scena; il montaggio è presente solo nella sua funzione minimale, ossia
quella di legare le scene (ognuna ad alto grado di autonoma) in successione. A Méliès non interessa tanto la
narrazione, è più importante mostrare l’impossibile:
Es. Voyage à travers l’impossible (1904) – pag. 25

Riprende e sviluppa il precedente Voyage à travers la lune (1902; 20 minuti); uno dei film per i quali
l’autore è riconosciuto come inventore del cinema narrativo e di finzione, nonché inventore di
numerose tecniche cinematografiche (es. montaggio); padre degli effetti speciali.
Per primo il nuovo mezzo della possibilità di rappresentare il sogno e di dare forma concreta alla
fantasia ≠ semplice registratore di eventi reali (Lumière).

- 26 quadri corrispondenti ad altrettante inquadrature fisse


- durata dei diversi piani variabile (da pochi secondo a diversi minuti)
- la messinscena ricorda un allegro balletto/farsa teatrale → la scenografia cambia in pochi secondi,
il ritmo è giocosamente frenetico
- piani spesso imperfetti (alcuni elementi sui lati rimanevano fuori campo, in quanto la cinepresa
non era ancora dotata di mirino)
- scene senza commento o didascalie; allora il pubblico era aiutato nella comprensione dalla figura
del narratore/imbonitore, fisicamente presente alle proiezioni
- tema positivista: invenzione macchina (mezzo di trasporto; → progresso uomo); lavoro in fabbrica
- trucchi: sovrimpressione, esposizione multipla (sole), overlap (scarto temporale per mostrare la
stessa scena con una diversa prospettiva: arrivo treno in sezione e poi dal punto di vista della folla)
- vettore narrativo → prima i personaggi, poi la macchina da presa (nel viaggio nello spazio)

Film che meglio rappresentano la creatività, la fantasia, l’umorismo sottile e la predilezione narrativa per la
figura del viaggio di Méliès:
- Le voyage dans la lune (1902) → spunto da un romanzo di Verne; esempio del barocchismo dell’autore
(ridicolo dinamismo, umorismo grottesco, esagerazione scenografica, ammiccamento al pubblico)
- Les quatres cents farces du diable (1906) → spirito barocco, in parte corrosivo; accesa fantasia; episodi
drammatici, grotteschi, fantastici, paurosi; rappresentazione quasi onirica
- A’ la conquete du Pole (1912) → sviluppato sui toni del romanzo d’avventure e della rappresentazione
fastosa; spirito avventuroso (piuttosto che umorismo grottesco); gusto per la messinscena; uso di
complicate macchine teatrali

Si tratta di opere che si collocano in tre momenti particolari dell’attività cinematografica di Méliès.

1902 → il fratello apre a NY un’agenzia della Star-Film, casa cinematografica di Méliès per difenderne i
diritti d’autore
1906 → la produzione flette a causa dell’agguerrita concorrenza → declino
1912 → ultimo anno di attività della Star-Film (prodotti più di 500 titoli)

Le grandi case cinematografiche (es. Pathé) non lasciano più spazio ai produttori indipendenti; costi di
realizzazione diventano troppo alti.

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Il mostro delle nevi di A’ la conquete du Pole può essere assunto come simbolo del cinema di Méliès, per il
quale la tecnica (procedimento meccanico per la realizzazione dello spettacolo) ha sempre avuto una
funzione indispensabile.

Dopo il declino della produzione, la guerra e la crisi che si aggrava ancora di più una volta finita, Méliès
viene sostanzialmente dimenticato.
Nel 1931 i surrealisti gli dedicano una retrospettiva (probabilmente la prima nella storia del cinema); Méliès
riceve la croce della Legion d’onore. Lumière lo definisce “creatore dello spettacolo cinematografico”: per
primo si dedicò alla confezione dello spettacolo cinematografico secondo principi estetici e tecnici che
costituiranno gli schemi formali della maggior parte della successiva produzione di largo consumo.
Morirà nel 1938 in condizioni di grave indigenza.

Per lungo tempo il cinema di Méliès (fantastico, finzione) è stato considerato in contrapposizione a quello
dei Lumière (realismo). In verità ci sono diversi punti di contatto:
- Méliès ha girato per un certo periodo film alla Lumière, e viceversa; i Lumière hanno introdotto ancor
prima di Méliès, l’idea del trucco → Démolition d’un mur (1896)
- sia il cinema dei Lumière che quello di Méliès si fondano inevitabilmente su un atto riproduttivo, proprio
della macchina da presa posta di fronte a un soggetto (sia esso reale o ricostruito)
- Per entrambi l’intervento del cinema sulla realtà non è mai neutrale; per Méliès si hanno i trucchi, per i
Lumière la ripresa di una realtà che si modifica nella consapevolezza che c’è qualcosa che la riprende (es.
vestiti domenicali degli operai che escono dalla fabbrica di Lione).

Il cinema sin dalle origini è qualcosa che riproduce e nello stesso tempo modifica, col suo intervento, la
realtà.

Nascita dell’industria, del racconto e conquista di un nuovo pubblico

Accanto ai film dei Lumière e di Méliès, alla fine dell’800 e all’inizio del ‘900 furono prodotti centinaia di
film, dai diversi temi e soggetti.
In Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, e poi via via negli altri Paesi europei, si sviluppò una vera e propria
industria cinematografica, di produzione e distribuzione. Si costruirono sale cinematografiche nelle città,
accanto a quelle teatrali, nobilitando il cinema stesso e trasformandolo progressivamente da attrazione da
fiera a spettacolo borghese → conquista di un nuovo pubblico, che prima si autoescludeva a causa della
“bassa origine” e della volgarità dello spettacolo

La trasformazione del pubblico determinò una modificazione graduale dei temi e dei modi della
rappresentazione, un ampliamento delle possibilità espressive, sia sul piano contenutistico che formale.

Pubblico e produzione vanno intesi come elementi contemporanei di sviluppo, che interagirono l’uno con
l’altro. Il mutamento del cinema va ricercato sia negli spettatori che nei produttori, e nei creatori dei film
che scoprirono via via le possibilità tecnico espressive del mezzo.

Il cinema, sempre più spettacolo di massa, coinvolgeva spettatori provenienti dalle più diverse classi sociali
→ spettacolo privilegiato di “pacificazione sociale”

- affermarsi di un’industria culturale


- conquista di un nuovo pubblico
- tentativo del cinema di diventare un’arte narrativa → capacità di raccontare una storia; rapidamente i film
si allungano e si costituiscono di più inquadrature, che via via perdono la loro autonomia per diventare
tasselli di uno sviluppo narrativo articolato dal montaggio → sistema dell’integrazione narrativa (dal 1905 in
11
poi) → linearizzazione narrativa (l’immagine è pensata in rapporto a quella che la precede e a quella che la
segue) → primi passi nelle prime Passioni di Cristo e film a inseguimento

Il primo cinema francese (1900-1914)

Registi e produttori francesi che posero le basi dell’industria cinematografica, consentendo al cinema di
passare dalla fase sperimentale a quella industriale e commerciale:

- Charles Pathé → primo grande industriale cinematografico; comprese che il cinema poteva essere
un’industria e che i suoi prodotti, i film, andavano venduti come tutti gli altri. Le ragioni dell’arte
dovevano essere strettamente connesse con quelle del commercio. Il prodotto, la sua qualità e il
suo pubblico dovevano essere studiati in anticipo.
Creò dapprima un grande studio a Vincennes, poi una vera e propria organizzazione industriale e
commerciale che si affermò in tutto il mondo, imponendo i prodotti Pathé per la loro qualità:
presto la sua produzione venne considerata cinema tout court, ossia spettacolo cinematografico
per eccellenza. Pathé fu un precursore anche per i produttori hollywoodiani. Oltre alla cura e alla
precisione, i suoi prodotti erano concepiti per essere adatti a pubblici diversi.
La conquista del mercato mondiale raggiunse il suo apice negli anni precedenti la Prima Guerra
mondiale (allora ancora non esisteva un’industria cinematografica americana e il cinema non aveva
ancora assunto dimensioni spettacolari grandiose).
L’organizzazione capillare di Pathé gli permise dapprima di produrre e vendere in molto Paesi i suoi
film, poi di noleggiarli e di distribuire anche film prodotti da piccole case; creò una rete di
produzione, distribuzione, esercizio e per molti anni dominò il mercato cinematografico mondiale.

- Ferdinand Zecca → uno dei primi collaboratori di Pathé; si occupò della realizzazione, della
supervisione e della produzione dei film, attraverso la formazione di équipe tecniche (registi,
operatori, tecnici) che divennero presto la struttura portante del cinema di Pathé. A lui si
attribuisce la realizzazione dello “stile Pathé” che contraddistinse, nei vari generi, il cinema di
qualità del periodo (fino alla I GM). Fu primo attore e registra principale per Pathé da dopo il 1900
(ossia da quando la produzione divenne regolare). Fu accusato di aver plagiato Méliès e alcuni film
britannici del periodo, ma l’imitazione era una prassi nella prima fase di sperimentazione del
cinematografo. Zecca fu soprattutto un producer, ossia uno scopritore di talenti e un grande
organizzatore dello spettacolo, attento agli umori del pubblico e alle esigenze della produzione, alla
qualità del prodotto e alle sue possibilità commerciali.
Nella vasta produzione dell’autore spiccano i film realistico-drammatici, es. Histoire d’un crime
(1901). Questo film inizio quel genere drammatico che si ispirava ai fatti di cronaca, alla cronaca
quotidiana e alla letteratura realistica di Zola. Realismo fotografico delle immagini, corposità dei
personaggi, stile quasi documentario si ritrovano ancora meglio, così come l’influenza dei romanzi
sociali di Zola, nei film successivi:
- Les victimes de l’alcoolisme (1902) → alcolismo
- La grève (1903) → scioperi
- Au pays noir (1905) → miniere

I film “sociali” di Zecca non sviluppavano un discorso critico nei confronti delle strutture della
società divisa in classi, ma sfruttavano la materia drammatica semplicemente perché poteva
soddisfare i gusti del pubblico popolare, di quartiere. Il fine della rappresentazione era ludico e
commerciale. La commozione non doveva portare a un giudizio politico. Il discorso era superficiale
e per questo ebbe successo l’impresa: toccava il pubblico.
12
I film di Zecca toccarono tutti i generi, con una certa predilezione per il patetico. Accanto ai drammi
sociali vi furono quelli storici, in particolare a sfondo religioso, esplicitamente edificanti, come le
Passioni:

- La vie et la Passion de Jesus Christ (1902-1905) → fu il primo kolossal di argomento


religioso, che divenne un modello per i successivi film religiosi, per via dell’ampiezza della
narrazione, la magnificenza dello spettacolo, la grandiosità delle scenografie, la scioltezza
delle riprese….

Tra i maggiori successi di Pathé:


- L’assassinat du duc de Guise (1908; Le Bargy, Calmettes) → distribuito da Pathé, ma prodotto dalla piccola
società Film d’Art, che affidò a noti scrittori e a famosi attori teatrali francesi il compito di scrivere soggetti
per il cinema e interpretarli (nobilitazione del cinema). La musica era eseguita da un’orchestra in sala. La
prima, in una sala di Parigi, fu un avvenimento mondano di notevole importanza. Il cinema riceveva per la
prima volta gli stessi onori del teatro. In realtà il film non offriva particolari motivi d’interesse perché non
rinnovava minimamente le strutture formali e contenutistiche del cinema di quegli anni; non si discostava
dalle preesistenti riproduzioni cinematografiche. Tuttavia, proprio perché il film si affidava alla cultura
ufficiale (attore nodo, scrittore affermato, musicista alla moda, apparato teatrale della Comédie
Francaise…) attirò sul cinema l’attenzione del pubblico che fino ad allora lo aveva rifiutato, perché lo
considerava inferiore a letteratura e teatro → gli intellettuali si interessano al cinema. Da qui si
cominciarono ad approfondire le analisi sulle caratteristiche estetiche del cinema dando origine alle prime
formulazioni teoriche.

Tra i primi teorici vi fu Ricciotto Canudo, letterato e uomo di teatro che si occupò seriamente di cinema →
teorie che contraddicevano totalmente i presupposti su cui si era basata la Film Art, per cui il cinema era
una macchina per riprodurre il teatro. Il cinema aveva un’autonomia espressiva e una sua peculiarità che lo
contraddistingueva dalle altre arti (idee che comunque nacquero nel nuovo clima culturale dato dal
successo dei film realizzati proprio dagli artisti raggruppatisi intorno alla Film Art).

Accanto alle grosse produzioni di Pathé, a quelle contemporanee di Gaumont e alla Film Art, vi furono film
di minor respiro spettacolare, che puntavano a un nuovo concetto di spettacolo cinematografico e su nuovi
procedimenti tecnici e artistici. Le autentiche novità, sul piano dell’espressione, furono realizzare da Cohl,
Linder, Feuillade… In particolar modo negli anni ’10, rappresentarono la migliore produzione
cinematografica francese.

Lo spettacolo cinematografico negli Stati Uniti (1896 – 1908)

Il cinema americano nacque con scopi eminentemente commerciali e speculativi, più che in Francia e in
altri Paesi europei, dove all’intento commerciale si univa spesso quello artistico.
I primi dieci anni del cinema americano sono caratterizzati dalla “guerra dei brevetti” (1900 – 1908), che finì
solo grazie ad un accordo commerciale che concluse l’azione intrapresa da Edison per proteggere i propri
brevetti contro i Lumière e altre case americane che avevano utilizzato alcune sue invenzioni tecniche.
Questa lotta accesa e violenta produsse una serie di reazioni a catena che impedirono al primo cinema
americano di essere impostato su strutture tecniche e industriali analoghe a quelle del contemporaneo
cinema francese. Le piccole case sorte a partire dal 1896 furono per lo più assorbite da quelle più grandi.

1909 → nasce la Motion Pictures Patent Company, che raggruppava le sette maggiori case di produzione
dell’epoca (Edison, Biograph di Dickson, Vitagraph di Blackton, Essanay, Selig, Lubin, Kalem), con lo scopo di
mettere ordine nel mercato cinematografico americano e eliminare le piccole case indipendenti.
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L’accanita lotta per la conquista del mercato cinematografico e l’assenza di protezione dei prodotti stranieri
(prima della legge sul diritto d’autore) determinarono, alla fine dell’800, una produzione affrettata e
semplicistica se non un’imitazione o copiatura dei film francesi. Solo a partire dall’inizio del 1900, con la
nascita di una regolamentazione per la difesa dei propri diritti, la produzione americana si rende autonoma,
raggiungendo risultati artistici e commerciali notevoli.

A partire dal 1905 si sviluppa in America una rete di sale cinematografiche, i nickelodeons, che permettono
al cinema di uscire dall’ambito delle fiere di paese e l’intensificarsi dei una produzione sempre più intensa e
articolata. Si crea un pubblico fisso, abituale, che trova nel cinema divertimento a poco prezzo e che
permetteva di sognare alla gente ai margini della società.

La prima produzione di quegli anni è piuttosto anonima e del tutto simile a quella francese per durata, temi,
generi… Anche sul piano della tecnica non si hanno particolari innovazioni.
Ci sono tuttavia alcuni autori che si staccano dall’anonimato, in cui è possibile individuare i primi germi del
cinema americano (dinamismo, riprese in esterno, eroismo quotidiano, miti della nuova frontiera) che
costituiranno l’emblema della produzione hollywoodiana. Con essi nasce il “racconto” cinematografico,
come lo intendiamo ancora oggi (anche se esistevano già dei precedenti nella produzione cinematografica
contemporanea).

Primo esempio di cinema narrativo → The Life of an American Fireman (1902; Porter per Edison); film
basato su un tema drammatico e narrativo il cui sviluppo costituiva la struttura interna di un racconto per
immagini. Inserisce nelle immagini documentaristiche una storia di finzione, quella di una madre e un
bambino avvolti dalle fiamme nella loro casa, che saranno salvati alla fine, dopo momenti forte tensione
drammatica e di attesa. La successione delle sequenze porta, alla fine, a una vera e propria catarsi.
La narrazione è piana, quasi didascalica, e ogni scena è ripresa in campo medio.
Vi è però l’inserto di alcuni particolari in funzione drammatica (es. primo piano di un apparecchio d’allarme;
attesa del salvataggio finale) trasformano un mediocre film di propaganda sull’efficienza dei vigili del fuoco
in un dramma popolare di forte tensione.
Porter da spessore e interiorità al suo protagonista, attraverso il suo sogno anticipatorio dell’intreccio del
film. Inoltre, mostra il salvataggio vero e proprio, ripetendo in modo “primitivo” la stessa scena da due
diversi punti di vista (quello interno, stanza, poi quello esterno, edificio), con un’evidente effetto di
sovrapposizione temporale. Il carattere, in ogni caso, è ancora per lo più descrittivo e documentario.

Nasceva dunque il film americano per eccellenza, costruito tematicamente su elementi tratti dalla vita
quotidiana (realismo) e formalmente su motivi ispirati al romanzo popolare e ai giornali illustrati.
La commozione era il fine ultimo della rappresentazione, che doveva essere il più verosimile possibile. Dalla
commozione doveva scaturire una sorta di identificazione dello spettatore con l’eroe della vicenda,
quotidiano e riconoscibile. In tale identificazione risiedeva la novità essenziale del cinema narrativo
americano.

Fu soprattutto con il film The Great Train Robbery (1903) che Porter impostò le nuove regole del romanzo
cinematografico (modello per i registi americani dell’epoca). Si ispirava anch’esso a fatti e situazioni tratti
dalla realtà quotidiana, ma l’aspetto drammatico era indubbiamente prevalente. Il crescendo drammatico
era ottenuto con la successione di episodi con la funzione primaria di colpire la sensibilità dello spettatore,
anziché descrivere le azioni o i luoghi → colpi di scena, drammaticità della rapina; rapida e avvincente
successione delle scene, realismo della rappresentazione, concitato muoversi dei personaggi. L’accento non
è posto soltanto all’opera di giustizia compiuta dagli abitanti del villaggio contro i malviventi.
Ogni inquadratura esaurisce un episodio narrativo. Non vi sono effetti di montaggio analitico o alternato,
ma ci sono alcune interessanti soluzioni visive:
- il quadro nel quadro → es. nella scena in interni dell’aggressione al capo stazione si vede, oltre una
finestra, il treno arrivare e fermarsi (trucco del mascherino)
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- uso drammatico della profondità → es. scena in cui i passeggeri vengono fatti scendere dal treno per
essere rapinati; la macchina da presa li inquadra di sbieco; la profondità del quadro è data dalla
disposizione dei personaggi (passeggeri sullo sfondo; bandito che spara a metà; uomo che tenta la fuga e
viene colpito sull’avan-piano).
- movimenti di macchina → accompagnano i movimenti dei banditi, es. quando si avvicinano al treno in
stazione

Un’immagine che ha reso famoso il film è il primo piano del bandito che spara verso lo schermo, ossia
contro gli spettatori. Per Porter non aveva una funzione drammatica determinata, infatti sul catalogo della
Edison si legge che la scena può essere messa alla fine (conclusione vicenda drammatica) o all’inizio del film
(funzione descrittiva iniziale, presentazione del protagonista, introduzione degli spettatori in un’atmosfera
drammatica). Il primo piano non era dunque ancora inscritto nel montaggio e non aveva un significato
drammatico o narrativo preciso: si trattava di un elemento intercambiabile del racconto, un’attrazione il cui
alto grado di drammaticità risiedeva nel tipo particolare di immagine.

➔ All’epoca si trattavano dunque drammaticamente fatti e personaggi tratti dalla realtà quotidiana o
dalla storia recente del Paese, rendendoli spettacolari e suggestivi

Il valore artistico e la portata culturale delle opere sono limitati da diversi elementi:
- ingenuità della rappresentazione
- sommarietà descrizione ambientale e psicologia dei personaggi
- semplicità narrazione
- moralismo di fondo

In questi film si possono già individuare alcune caratteristiche formali che costituiranno i canoni del cinema
di “generi” che sarà rappresentativo della produzione di Hollywood.

- The Ex-convict (1904)


- The White Caps (1905)
Film di Porter rappresentativi del suo modo di riflettere la situazione storica del suo Paese (problemi sociali,
contrasti di classe…). Lo sdegno per le situazioni disumane e ingiuste, tuttavia, si placa nel corso delle
rappresentazioni con il trionfo finale della giustizia → affermazione dell’ideologia dell’happy end, il cui
intento consolatorio svuota l’assunto di ogni motivo critico; il pubblico torna a casa rassicurato sulla bontà
delle istituzioni, il rancore placato → elemento di successo popolare dei film, quindi ampiamente utilizzato.

La Vitagraph di Blackton sviluppò il suo catalogo maggiormente nella direzione della qualità. Blackton aveva
un chiaro senso dello spettacolo e conosceva bene la tecnica cinematografica. A lui si devono i più noti film
di animazione, es. The Haunted Hotel (1907) che ebbe grande risonanza anche in Europa. Egli fu
probabilmente il primo vero produttore cinematografico americano, la cui attività si protrasse fino alle
soglie del sonoro.

Negli anni posteriori il 1906, in contemporanea alla produzione francese Fil d’Art e ai primi film storici
italiani, la Vitagraph sviluppò soprattutto due generi di spettacolo:
- life portrayals → racconti ameni, divertenti, drammatici, narrati in maniera piana, con abile alternanza dei
piani (molti primi piani per cogliere la psicologia dei personaggi)
- classics → ispirati alla letteratura e al teatro universali, con puntate sulla storia politica e sociale e nella
storia sacra

Vi era un particolare cura nella forma per entrambi i generi, per cui i film della Vitagraph erano riconosciuti
come grandi produzioni spettacolari.

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L’American Mutoscope and Biograph Company di Dickson non si discosta nei titoli, per genere e titolo, da
quelli della Edison (attualità, documentari, comico, drammatico). Si dedicherà infine a grandi produzioni a
cui collaborarono grandi registi e attori come Griffith, Sennett, Pickford → si sta costituendo la struttura
portante dell’industria cinematografica hollywoodiana

Attorno agli anni ’10 molte troupes cinematografiche cominciarono a girare gli esterni dei film, prima
realizzate a NY, a Hollywood, sulla costa californiana (sobborgo di Los Angeles). Molti produttori
indipendenti vi erano venuti, inoltre, per sfuggire alla guerra dei brevetti di Edison → terra ideale per
sviluppare una libera industria cinematografica

Qui Zukor, Loew, Leammle, Fox, Lasky, Goldwyn diedero origine a quello che viene inteso come cinema
americano, costruendo strutture tecnich, industiali, commerciali che ne permisero l’affermazione
internazionale. Fu questo tipo di cinema a definire, poi, i canoni per la realizzazione di prodotti
cinematografici di successo.

Il cinema in Europa: il caso inglese e quello italiano (1896 – 1906)

Nato in Francia e praticamente in contemporanea negli USA, il cinema si diffonde già alla fine dell’800 nei
principali Paesi europei, in particolare in Gran Bretagna, dove si sviluppò una produzione di notevole
importanza intorno alla cittadina di Brighton. Più importanti cineasti:
- Paul → pioniere del cinema inglese
- Williamson
- Smith
- Hepworth → più importante produttore nazionale fino al 1914

Il cinema inglese sperimentò le possibilità linguistiche del cinema, introducendo diversi aspetti che saranno
poi determinanti per gli anni successivi. Grande importanza ebbe il primo piano.

Es. The big Swallow (1900; Williamson) → un uomo infastidito di essere ripreso si avvicina
progressivamente all’operatore, fino a un primissimo piano, e lo divora
Es. Humourous Facial Expressions (1898; Smith) → i primi piani mettono in luce il carattere e
comportamento dei personaggi

I cineasti inglesi dimostrarono inoltre una particolare attenzione nell’uso del montaggio:
Es. The Kiss in the Tunnel (1898; Smith) → articolato in tre inquadrature, si apre e si chiude con l’immagine
in movimento ripresa da una locomotiva (movimento di macchina; phantom ride = viaggio fantasma) che
entra e poi esce dal tunnel. Fra queste due inquadrature, quella centrale mostra un uomo e una donna
all’interno di uno scompartimento che, approfittando del buio, si baciano.
Il montaggio ha qui una funzione essenziale nel fluido passaggio da un esterno a un interno e costituisce un
esempio concreto del modo in cui esso può arrivare a organizzare lo spazio e il tempo per i propri fini
drammatici.

Es. The Grandma’s Reading Glass (1900; Smith) → in questo film è ancora più evidente il ruolo del
montaggio e di altre componenti del linguaggio cinematografico. L’immagine di base è il piano d’insieme di
una nonna e il suo nipotino che gioca con una lente d’ingrandimento, che è costantemente alternata a una
serie di altre immagini che ci mostrano ciò che il ragazzino sta osservando con la lente (soggettiva).
Nel film si trovano tre importanti possibilità del linguaggio cinematografico:
- inquadratura soggettiva → lo spettatore vede qualcosa così come la vede un personaggio
- dettagli e particolari → rompono l’egemonia dei piani medi che dominavano i primi film; il cinema può per
la prima volta mostrare il movimento dei soggetti ingranditi (in modo ravvicinato)
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- montaggio all’interno di una scena → effetti di montaggio in uno stesso spazio che viene frantumato in
una serie di inquadrature che ci danno di esso una serie di scorci parziali e diversi l’uno dall’altro (il cinema
si allontana risolutamente dalle possibilità espressive del teatro). La struttura complessiva della scena è
ancora molto meccanica ed elementare, il criterio è sistematicamente quello di alternare lo stesso piano
d’insieme a un particolare ogni volta diverso; è uno dei primi esempi di montaggio analitico.

Il contributo del cinema inglese allo sviluppo del montaggio fu decisivo anche per quanto riguarda i chase
films (di inseguimento e fuga), es. Rescued by Rover (1905; Hepworth).

Sul piano dei contenuti il cinema inglese, come quello americano, si caratterizza per i suoi intenti educativi
e la sua impronta moralista → logica vittoriana per cui la trasgressione dell’ordine deve essere funzionale al
suo ripristino e il lieto fine è un bene necessario

In Italia Alberini brevettò nel 1895 il kinetografo, simile all’apparecchio dei Lumière. La maggior parte dei
film proiettati a fine ‘800, però, erano di produzione francese. Il cinema era “ambulante”, non c’erano
ancora vere e proprie sale cinematografiche e i film costituivano soprattutto uno spettacolo da fiera. A
partire dal 1896 compare qualche documentario e farsa di origine italiana, ad esempio Il bagno di Diana
(1896; Filippi). Negli anni seguenti la produzione si intensifica con il lavoro di alcuni operatori, tutti
rappresentanti della società Lumière, come Filippi, Moro, i fratelli Salvi…
Sul finire del secolo si affermano Pacchioni e Fregoli, definiti i primi due autori del cinema muto italiano.

Alcuni anni dopo si aprono nelle principali città italiane sale di spettacolo per proiezioni continuate, e si
pongono le basi per una vera e propria industria cinematografica (Torino → Ambrosio; Milano →
Comerio…). Nel 1905 nasce a Roma il Primo Stabilimento Italiano di Manifattura Cinematografica Alberini e
Santoni, che si trasformerà poi nella società Cines, una delle più importanti case di produzione italiane.

Nel 1905 Alberini realizza:


- La presa di Roma → primo film a soggetto italiano, di circa 15 minuti, che inaugura la serie dei “film
storici” di cui gli italiani diverranno specialisti
- Il terremoto di Calabria → documentario prodotto da Alberini e girato da Omegna

E’ fra il 1906 e il 1908 che vi sarà la vera nascita del cinema italiano.

3. GRIFFITH E IL CINEMA AMERICANO DEGLI ANNI DIECI: LINGUAGGIO E RACCONTO, ARTE E


INDUSTRIA

Il cinema americano degli anni Dieci

1909 → nascita della Motion Picture Patents Company (MPPC), conglomerato di case di produzione tra cui
la Edison e la Biograph, che di fatto dominavano il settore. Ad essere era infatti stato riconosciuto il
brevetto dell’invenzione e dello sfruttamento della macchina da presa e proiettore. Le altre società che
facevano parte del conglomerato dovevano pagare delle tasse a queste due maggiori compagnie, per
produrre film.

Chi non faceva parte di questo sistema rischiava di essere condannato per violazione della legge sui
brevetti. Diverse società, però, dette indipendenti, corsero questo rischio. Tra queste la Indipendent Motion
Picture Corporation (1909), futura Universal. La nuova guerra terminò nel 1915, quando fu la MPPC a essere
condannata per la legge unti-trust.

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La comparsa di produttori indipendenti portò:
- rottura dell’oligopolio
- spostamento dell’industria cinematografica a Hollywood (grande varietà paesaggi naturali; frequenza luce
solare; lontananza dai principali centri di controllo e di potere; vicinanza al Messico, rifugio in caso di
problemi finanziari o legali).
- innovazione → ruolo importante nella nascita del lungometraggio

La nascita del lungometraggio è dovuta anche alla conquista del pubblico borghese, più colto e dunque
esigente (film più complessi e articolati). Nella stessa direzione va la nascita di organizzazioni come il
National Board of Censorship, che si occupava di controllare il rispetto del codice morale dominante nei
film. I nickelodeon vengono ristrutturati, diventano sale più eleganti e costose, adatte al nuovo pubblico.

Con la guerra, che rallenta la produzione cinematografica europea, l’industria americana conquista un ruolo
dominante.

1914 → nascita della Paramount; si avvia lo studio system, ossia un sistema che concepiva come merce il
cinema, che quindi come tale andava pianificato.

- Nascono i primi divi e la figura del producer, che doveva presiedere l’intera lavorazione di un film,
fondata su una precisa divisione del lavoro → relega in secondo piano la figura del director
(regista), limitato al ruolo di responsabile delle riprese
- Il linguaggio cinematografico si evolve, ponendo le basi di quello che sarà il cinema classico; vi è la
necessità di aiutare lo spettatore nella comprensione del racconto; nel 1905 vengono introdotte le
didascalie
- La macchina da presa viene utilizzata per sperimentare piani più variati e angolazioni più
accentuate
- Le scenografie dipinte tendono a scomparire, l’ampliamento degli studi favorisce ste in cui lavorare
sulla profondità di campo e sull’utilizzo della luce artificiale
- Si fa spesso affidamento al colore (viraggio, imbibizione), che presto viene codificato
- Il montaggio va in tre direzioni: analitico (dall’immagine d’insieme di un luogo si passava a immagini
dei suoi particolari); contiguo (consente di stabilire la vicinanza di due spazi attraverso spostamenti
e sguardi); alternato (passaggio da un luogo a un altro, da un’azione a un’altra, evidenziandone la
contemporaneità e accentuando la tensione drammatica)

David Wark Griffith

Griffith → regista che diede un contributo essenziale alla nascita di un cinema più elaborato formalmente e
inteso come mezzo autonomo di espressione, come nuovo linguaggio artistico per la rappresentazione di
una personale concezione del mondo

Esordisce nel 1908 come regista per la Biograph, con The Adventures of Dollie (fino al 1913).
Lasciata la Biograph affronterà i lungometraggi, che lo affermeranno in campo internazionale.

Anche se le rappresentazioni dei suoi primi film sono per lo più tradizionali, le opere di Griffith sono ricche
di nuovi elementi espressivi (che possono essere considerati come base per la formazione di uno stile
personale) → precisa ricerca formale, intento spettacolare che si manifesterà appieno nelle opere maggiori,
dopo Judith of Bethulia (1913). Sebbene la materia narrativa sia sostanzialmente tradizionale, quindi, nelle
sue opere si trovano elementi di un linguaggio oggettivamente nuovo. Vi sono alcuni titoli che meglio
rappresentano la formazione progressiva dell’autore.

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Nei film di questo periodo troviamo:
- impiego di particolari inquadrature, come il piano americano (taglio dei personaggi all’altezza del
ginocchio), es. For Love fo Gold (1908)
- sviluppo della suspense con un abile montaggio alternato che contrappone due differenti situazioni
drammatiche, es. The Lonely Villa (1909)
- suggestivi effetti di luci ed ombre, es. Pippa Passes (1909)
- cinema sociale (sottoalimentazione e speculazione alimentare), es. A Corner in Wheat (1909)
- western, es. Old California (1910) → primo western di Griffith, che utilizza campi totali in
contrapposizione ai piani ravvicinati della storia; è uno dei primi film realizzati dall’autore in California, dove
girerà la maggior parte delle sue opere
- alternanza degli interni e degli esterni, inserti con la funzione di dilatare il tempo d’azione e sottolineare la
situazione drammatica, producendo un notevole crescendo di tensione, es. The Lonedal Operator (1911)
- effetti di controluce, es. Enoch Arden → anticipa le opere della maturità, più curate nella definizione degli
ambienti e nell’approfondimento psicologico dei personaggi
- grandi mezzi (numerose comparse, oggetti, animali…); rappresentazione prospettica della guerra fra
bianchi e pellirosse, es. The Last Drop of Water
- utilizzo di tre cinecamere per riprendere una scena in The Squaw’s Love; la novità sta nel riprendere senza
soluzione di continuità un’azione da diversi punti di vista, lasciando alla fase del montaggio la scelta
definitiva delle singole inquadrature
- movimento delle masse, eccellente tecnica di montaggio e realismo, es. Birth of a Nation (1915)
- effetti di chiaroscuro ottenuti con il sapiente uso del controluce, evidenziazione della profondità di campo
- esterni reali e storie di gangster

The Birth of a Nation (1915) – pg. 52

Ambientato al tempo della Guerra di secessione americana (schiavisti contro abolizionisti), si compone di
due atti. Nel primo vi è la presentazione dei vari protagonisti (due famiglie amiche, una del nord e una del
sud, che si troveranno su fronti opposti) tramite anche l’uso di didascalie.
Primo atto → melodrammatico, introduzione alla tragedia bellica, esplicitazione delle due correnti di
pensiero:
- uno dei primi campo-controcampo della storia del cinema
- scene di massa
- colori vivati
- ricostruzione storica (studio Lincoln)
- soggettiva
Secondo atto → guerra finita (vinta dal nord → abolizionisti) → mostra gli effetti della ricostruzione:
- emerge l’ideologia razzista di Griffith: i neri sono rappresentati come selvaggi, incarnazione del male
pronto ad annientare l’identità di una nazione; la diaspora tra nord e sud non è identificata con una lotta
per l’indipendenza, ma piuttosto in una vera e propria crociata contro il male; apologia della nascita del Ku
Klux Klan
- per evitare le critiche al suo razzismo, l’autore inserisce una citazione all’inizio dell’atto
- valore artistico nella raggiunta maturità nell’utilizzo dei mezzi espressivi: montaggio parallelo, “alla
Griffith”, alternanza di campi lunghissimi e primi piani, direzione degli attori, grandiose scene di massa,
effetti luministici, utilizzo di mascherini che rompono la monotonia dello schermo rettangolare…

Fra il 1908 e il 1913 Griffith realizzò per la Biograph oltre 450 film, repertorio di differenti temi e modi.
In essi il discorso morale del regista si affida anche ai personaggi e alla loro caratterizzazione psicologica.
Egli fu uno scopritore di talenti e un ottimo direttore di attori, che rese famosi. Agli attori e al primo piano
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affidava il compito di comunicare fin dalla loro prima apparizione la concezione del mondo del loro
personaggio, la rappresentazione del loro tipo determinato, in modo che il pubblico potesse collocarli
subito nella giusta dimensione morale e sociale, senza che però fossero semplici maschere.

Primi piani, personaggi, montaggio alternato, taglio delle inquadrature, effetti luministici → elementi
fondamentali della sua poetica
L’ultimo film realizzato per la Biograph fu Judith of Bethulia (1913), primo lungometraggio della casa di
produzione. In questo film il regista sviluppò tutte le tecniche di ripresa sperimentate nei film precedenti:
può essere considerato una summa del suo mestiere di regista fino a quel momento e la prova generale di
quelli che saranno poi i suoi capolavori. Si tratta di una storia biblica che gli permise di realizzare uno
spettacolo articolato, con alternanza di elementi patetici, idilliaci, tragici, avventurosi… Utilizzò il montaggio
a incastro, scene parallele, diversi piani di ripresa, scene di massa, effetti spettacolari…
Nel film si trova la poetica della solitudine e del coraggio individuale che Griffith aveva sviluppato di film in
film, sottolineando il contrasto fra il singolo e la società, fra l’uomo e la storia → idealismo e moralismo con
vene puritane. Lo spettatore rimaneva ammirato per la grandiosità della messinscena e commosso per i
casi personali dei protagonisti.

Il film risultò troppo lungo per poter entrare nel circuito cinematografico della Biograph per cui la casa lo
distribuì mutilato. Griffith, in disaccordo, passò alla Mutual, che raggruppava diverse case indipendenti, per
poter lavorare a un progetto ancora più ambizioso: Nascita di una nazione (1915). Il film suscitò molte
polemiche, ma ebbe un notevole successo per la grandiosità della realizzazione e la materia incandescente
trattata. Nel film i fatti storici si integrano con le vicende individuali (equilibrio tra le due dimensioni).

Le accuse fondate accuse di razzismo mosse al film spinsero Griffith a realizzare, nel 1916, Intolerance, un
film di proporzioni inusuali (tre ore di proiezione) che prendeva spunto da una storia contemporanea di
conflitti sociali per estendersi a una rappresentazione globale dell’intolleranza nella storia dell’umanità. Il
film è articolato in quattro episodi:
- caduta di Babilonia
- Passione di Cristo
- notte di San Bartolomeo (massacro degli ugonotti)
- episodio contemporaneo (sciopero e attività di una banda di gangster)

Le quattro storie sono intrecciate e unite dal leit motiv della giovane madre che dondola la culla, simbolo
della purezza e della bontà dell’uomo liberato dai pregiudizi, che contribuiscono invece a scatenare
l’aggressività e manifestarne l’intolleranza. Lo scopo è quello di denunciare i pregiudizi, cantare la
fratellanza umana e la comprensione reciproca.

La caratteristica fondamentale di Intolerance sta nel montaggio a incastro, sempre più accelerato. Gli
episodi passano continuamente da uno all’altro, in modo sempre più veloce, fino ai passaggi della parte
finale dove tutto sembra precipitare (Babilonia sta per cadere, Gesù per essere crocefisso, gli ugonotti
uccisi, l’operaio giustiziato). Il montaggio è epico e pieno di pathos, sperimentale, per cui l’inedita
articolazione spazio temporale del finale è ricordata come uno dei momenti più alti della storia del cinema.

Fra i successivi film di Griffith vi è Broken Blossoms (Giglio infranto; 1919) che sviluppa il tema dell’amore e
della solitudine dell’uomo in una dimensione intimista, che non rinuncia alla descrizione ambientale e al
dramma sociale. I personaggi fragili sono in contrapposizione con la brutalità dell’ambiente; essi sono
simbolo della purezza corrotta, la purezza dell’uomo che la società, nella sua violenza obbiettiva, tende a
distruggere (tema dominante nella poetica di Griffith). Film con maggiore linearità e semplicità della
narrazione.

L’importanza attribuita a Griffith sta nel fatto che portò a compimento il lavoro sul linguaggio
cinematografico dei primi vent’anni di storia del cinema (esiti più elevati di quelli raggiunti altrove in quegli
20
anni). La sua opera è un punto d’arrivo per ciò che è accaduto prima e un punto di partenza per ciò che
accadrà poi.

Mack Sennett e il cinema comico

Sennett fu attore in alcuni film comici e leggeri girati da Griffith.


Egli divenne presto il più prolifico regista e produttore di film comici, prima alla Biograph e poi alla
Keystone, di cui divenne capo, e in cui formò numerosi attori che divennero stelle del cinema comico, come
Chaplin.

Con l’opera di Sennett nasce un vero e proprio genere cinematografico, basato sul ribaltamento grottesco e
irriverente del cinema drammatico, usandone i medesimi ingredienti formali e spesso contenutistici, in
funzione demistificatoria. La comicità cinematografica, fino a quel momento, aveva avuto certo uno
sviluppo non trascurabile, ma non c’era ancora una produzione continuativa. Sennett fu dunque maestro
del nuovo genere cinematografico. Mise il linguaggio cinematografico al servizio del cinema comico,
facendo propria la lezione di Griffith e applicandola a una rappresentazione della realtà fenomenica
stravolta, fantastica, grottesca, deformata (stessi mezzi espressivi).
Sennett lascia trasparire una visione satirica e beffarda della societàin cui i suoi personaggi d’ogni genere
sono travolti in una sorta di balletto surreale che può essere interpretato come una critica ironica e
pungente delle strutture sociali americane, di cui, invece, Griffith tentava di esaltare le virtù morali.
Sennett fu grande divulgatore delle slapstick comedies (comiche violente), costituite da sberle e calci,
inseguimenti e cadute, torte in faccia → motivi ricorrenti di una comicità volgare; delle keystone cops
(vicende di poliziotti stupidi); delle bathing beauties (fanciulle in costume da bagno)

A Sennett si deve il modello di cinema comico che verrà identificato come stile Keystone; la grande novità
nella sua arte stava nell’aver saputo cogliere e utilizzare le possibilità comiche che il cinema poteva offrire,
ricavandole dai suoi mezzi specifici, in primis il montaggio. Egli ha rinnovato con nuovi mezzi tecnico-
espressivi la dinamica della commedia dell’arte, della farsa popolare, del lazzo...
Proprio nel momento in cui il cinema veniva nobilitato con la conquista del nuovo pubblico borghese e il
coinvolgimento della cultura ufficiale, Sennett proponeva uno spettacolo volutamente plebeo, con film
rozzi, banali, carichi di aggressività, che mettevano in burla la rispettabilità borghese con toni corrosivi e
dissacranti.

Egli sviluppò e approfondì diversi elementi della composizione cinematografica: ritmo narrativo, montaggio
come asse della costruzione drammatica, recitazione non teatrale, alternaza dei piani, movimento
all’interno dell’inquadratura… I suoi film contenevano i principi di un linguaggio autonomo, con proprie
caratteristiche estetiche, diverso da quello delle arti tradizionali, opposto al linguaggio teatrale a cui si
erano rifatti alcuni autori per nobilitare il cinema.

Confezionò più di mille film, dal 1908 al 1935, es. A Noise from the Deep (1913) e Married Life (1920). In
quasi tutti I film da lui realizzati ci sono invenzioni farsesche, trovate comiche, elementi dinamici, soluzioni
narrative che sorreggono l’impianto spettacolare, nonostante la banalità delle situazioni e la continua
iterazione dei motivi umoristici. Nei suoi film si trova un fantasmagorico e grottesco inventario di
personaggi e luoghi scenici che riflettono, in modo deformante, la realtà umana e sociale di quegli anni →
saga popolare corrosiva e beffarda di una società in piena trasformazione.

I serials

Serials → film a episodi settimanali, che trasformavano il materiale narrativo dei feuillettons ottocenteschi
in uno spettacolo nuovo che attirerà l’attenzione di intellettuali e artisti d’avanguardia.
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I serials nacquero quasi contemporaneamente in Francia e negli USA. Essi offrirono una nuova occasione
per analizzare e sperimentare le possibilità espressive del cinema. Essi mettevano in luce il gusto del
racconto del cinema e il carattere fantastico e onirico delle immagini filmiche. Le avventure
cinematografiche acquistavano sullo schermo, per effetto del continuo scambio fra realtà e fantasia dato
dal realismo delle immagini semoventi in contrasto con l’eccezionalità delle situazioni drammatiche, una
dimensione onirica. Il film poteva divenire il nuovo “oppio dei popoli” o essere, invece, un arricchimento
dell’esperienza sensibile.

La nascita dei serials negli Stati Uniti è strettamente legata alla diffusione dei giornali a grande tiratura, che
pubblicavano romanzi a puntate.

Un primo esempio di feuilletton cinematografico, prodotto secondo le regole del romanzo d’appendice, fu
The Adventures of Kathlyn (1913), uscito in concomitanza con la sua pubblicazione su un giornale. La
meccanica del racconto era la stessa sia per il romanzo che per il film. L’eroina era al centro di colpi di
scena, inseguimenti, catture, liberazioni… La narrazione si interrompeva ad ogni puntata nel momento di
maggiore tensione drammatica, suspense. In tal modo, i singoli episodi, che comunque avevano una loro
compiutezza narrativa e logica, rimanevano “aperti” in una continuità che suscitava l’attenzione del
pubblico. Il carattere a episodi di questi film aiutò il cinema nel passaggio da film composti da uno o due
rulli al lungometraggio vero e proprio.

Il serial che ebbe maggior successo di pubblico fu The Perils of Pauline (1914). Gli episodi erano costruiti su
un crescendo drammatico notevole che si accentuava nel finale, dove l’eroina era mostrata invariabilmente
in grave pericolo di morte.

Dopo il 1920 i serials non trovarono più un pubblico adatto. La loro fu una stagione breve (meno di un
decennio).

Il cinema americano per eccellenza: il caso western

Il western sintetizzò quei caratteri di aggressività, coraggio, avventura, individualismo, lealtà che
costituiscono il mito della società americana. Evidenziò, nella dinamica dell’azione, i principi formali che
saranno abituali e ricorrenti nella produzione cinematografica hollywoodiana, anche in settori differenti.

Già in La grande rapina al treno di Porte vi erano i germi del genere, poi ripreso anche da Griffith. Ma il
genere si sviluppò e ampliò attorno agli anni Dieci, soprattutto per merito di Thomas Harper Ince.
Il suo cinema si basava sull’azione dei personaggi, inquadrata da paesaggi che ne determinavano i caratteri
sommari ma indicativi. Il western, costruito su pochi elementi ricorrenti, su pochi modelli narrativi e
drammatici che si rifacevano al romanzo d’avventure, legato tematicamente alla storia recente degli USA e
alla guerra contro i pellerossa, si impose più che come un particolare genere, come cinema tout court.

Nasce in questo momento il concetto stesso di “genere” cinematografico, che si impose nell’industria
hollywoodiana come base della produzione e catalogazione delle possibilità espressive. Il cinema americano
divenne un cinema di generi, in cui la produzione era organizzata, lo spettacolo meccanizzato, i mezzi
espressivi sfruttati integralmente → da qui l’elaborazione di canoni formali e la creazione di modelli
estetici, per cui la struttura dello spettacolo, al di là di temi e soggetti, rimaneva inalterata. Il cinema
americano diventa un cinema di produttori, in cui la confezione dei film si andava uniformando secondo
schemi fissi.

Il western rappresentò l’esempio più valido e cospicuo del prodotto di serie, che affondava le sue radici in
un tessuto storico-culturale e in una tradizione precisa → mitizzazione della storia complessa e atroce della
conquista del West e del genocidio dei pellerossa. Il western trasformò la storia, romanzata, in mitologia, in
cui gli eroi simboleggiavano le sacre virtù di una società puritana nell’epoca del suo maggior sviluppo.
22
Il mito del West si identificava con il mito dell’America, paese giovane, dinamico, aperto al futuro, in
contrapposizione alla vecchia Europa. Il cinema, per sua stessa natura, era lo strumento adatto a
rappresentare e divulgare questo nuovo mito.

Thomas Harper Ince fu il primo grande interprete della mitologia del West. Si dedicò con continuità alla
realizzazione/produzione di centinaia di film, molti dei quali ambientati nell’Ovest selvaggio. Spesso affidò
la realizzazione dei film ad altri registi, come Francis Ford, Reginald Barker, William Surrey Hart.

Hart divenne simbolo della nuova frontiera, creando un personaggio di forte carattere, coraggioso e
generoso, duro e violento quando occorre, imponendosi su tutti gli altri attori del genere. I film da lui
interpretati sono molto numerosi, ma ripetono sostanzialmente i medesimi canoni espressivi. La maggior
parte dei film da lui interpretati furono girati da Barker o da lui stesso, tuttavia la presenza di Harper Ince fu
sempre determinante.

Harper Ince fu infatti grande scopritore di talenti, organizzatore di spettacoli di successo, conoscitore dei
gusti del pubblico, ottimo tecnico di montaggio. Divenne il terzo grande del cinema americano, accanto a
Griffith e Sennett, divulgando un cinema di qualità, influenzato da Griffith e dal cinema di movimento,
radicato nella tradizione culturale americana, in contrapposizione al cinema di qualità europeo, letterario e
intellettuale.

Il cinema americano degli anni Dieci porta a maturazione ricerche e sperimentazioni del primo cinema
narrativo drammatico. Anticipa i modelli estetici e la tematica del cinema di larga diffusione degli anni
seguenti. E’ il risultato dell’equilibrio fra due programmi: l’arte del cinema e l’industria del cinema.

4. LE SCUOLE EUROPEE NEL CINEMA DEGLI ANNI DIECI

Verso un cinema nazionale

A differenza degli Stati Uniti, dove si era delineata una cinematografia nazionale, di cui era possibile
riconoscere le caratteristiche fondamentali, per cui si poteva parlare di un cinema americano per eccellenza
(alludendo al western), in Europa manca un comune denominatore. Di qui l’originalità e la genialità di
alcune opere e autori, ma anche la difficoltà a individuare dei comuni intenti e un carattere nazionale della
produzione.

Tuttavia, si possono rintracciare nelle diverse produzioni (francese, italiana, nordica) alcuni elementi
ricorrenti → stile unitario. Il cinema europeo del periodo, a differenza di quello americano che si concentrò
sul montaggio, lavorò sulla profondità di campo.

Francia → comico, fantastico, naturalismo


Italia → film storico (e letterario)
Danimarca e Svezia → importanza dimensione paesaggistica nel cinema romanzesco e narrativo, stretto
connubio uomo-natura

Francia: comicità, fantasia e naturalismo

La produzione cinematografica francese era in mano a due compagnie, la Pathé e la Gaumont (+ l’Eclair).
Il mercato cinematografico calò negli anni della guerra, quando il cinema americano, distribuito dalla Pathé
stessa a partire dal 1913 (quando cessò di produrre e si dedicò alla distribuzione e all’esercizio), arrivò in
Francia.

In Francia i Lumière avevano girato il primo film comico della storia, L’arrosseur arrosé.
Sono i francesi, particolarmente Deed e Linder, a porre le basi della comicità a cui si ispireranno
23
abbondantemente gli americani (a partire da Sennett stesso). I film comici francesi infatti precedono quelli
americani (dal 1905 la produzione è già continuativa). Essi fornirono una serie di modelli contenutistici e
formali che saranno appunto poi ripresi e utilizzati dagli americani.

André Deed → elabora una comicità meccanica, data dalla successione delle trovate comiche e grottesche,
che però non consente una maggiore e approfondita caratterizzazione del personaggio, che rimane un
mero pretesto per far ridere, ridicolizzando i rituali della borghesia.

Max Linder → anticipa la comicità che troveremo in Chaplin, creando un personaggio sfaccettato e a tutto
tondo. Sarà, dopo Deed, a partire dal 1909, la star della Pathé. Il suo personaggio non è identificabile in un
unico tipo umano e sociale; Linder ha composto una galleria di ritratti, le cui caratteristiche comuni sono
l’imbarazzo in società, la frustrazione sentimentale, una tristezza di fondo accompagnati dall’eleganza del
tratto, compostezza nei modi, arguzia dello spirito. Il personaggio è il centro dell’azione scenica, circoscritta
spesso in un’unica situazione drammatica o in pochissimi elementi narrativi → es. Tout est bien qui finit
bien (1910). E’ il personaggio a determinare il clima ironico del film, cogliendo il sostrato comico della vita.
Per via della tristezza di fondo caratterizzante il personaggio, esso diviene emblema dell’umanità ferita,
mostrando il risvolto grottesco di una felicità mai raggiunta.

Emile Cohl → opera in un ambito più stretto; è considerato l’inventore del disegno animato, sebbene già
prima di lui ci fossero stati esempi di cinema d’animazione (es. Balckton). Egli fu il primo a dedicarsi
esclusivamente all’animazione, per un certo periodo di tempo. A partire dal 1908, produsse per la Gaumont
una lunga serie di film d’animazione. Il cinema d’animazione viene considerato non un genere ma un mezzo
espressivo autonomo. Con Cohl entra nel cinema la dimensione fantastica e poetica che si richiama alla
tradizione figurativa della pittura, della grafica, dell’illustrazione popolare, del fumetto. Il cinema
d’animazione non risente dei condizionamenti della realtà fenomenica e offre una vasta gamma di
possibilità fantastiche e una certa libertà d’invenzione.
Il disegno di Cohl, disegnatore, operatore e regista, è elementare, limitato a pochi tratti o a una linea
continua, ai contorni. L’attenzione dello spettatore è del tutto centrata sul movimento.
Nel 1908 realizza Fantasmagorie, un disegno animato trasformazionale, costruito sulle mutazioni delle
figure dall’una all’altra per variazioni impercettibili di particolari formali. I lavori seguenti, es. Le cauchemar
du fantoche, saranno più corposi, vere e proprie rappresentazioni con personaggi e una storia (racconto e
gag) con una vena di humour.
Tra il 1912 e il 1914 Cohl si trasferisce negli Stati Uniti, dove darà inizio a una vasta produzione di disegni
animati derivati da fumetti, che presto diventeranno struttura portante del cinema d’animazione
americano. Tornato in Francia si dedicherà al cinema documentaristico e pubblicitario, proprio quando il
disegno animato americano di serie, che egli stesso aveva contribuito a creare, conquisterà i mercati
europei.

Opera di Linder e Cohl → raffinatezza del tratto, sottigliezza dell’umorismo, gusto del paradosso; ésprit de
finesse che si ritrova anche in Feuillade, regista di serials.
Alla base della sua rappresentazione cinematografica, c’è una visione naturalistica della realtà e
un’osservazione attenta degli aspetti minori della vita umana e sociale, che derivano dalla tradizione
letteraria di fine ‘800. C’è anche un certo gusto per l’avventura (caro ai surrealisti) che aggiunge alla
rappresentazione realistica dei fatti una dimensione metafisica e ambigua, in cui ogni personaggio,
ambiente, azione, può essere contemporaneamente altre cose, stimolando la fantasia.
Feuillade su un regista della Gaumont, il cui apprendistato giornalistico pose le basi per un cinema che
alternava continuamente la verità alla fantasia, la documentazione alla rappresentazione.
Il primo serial di Feuillade, che non aveva ancora il carattere del romanzo cinematografico d’appendice,

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perché articolato in cinque differenti film che sviluppano narrativamente elementi romanzeschi attorno a
uno stesso personaggio, è Fantomas, del 1913. La struttura del racconto segue le regole codificate dal
genere di narrativa, con colpi di scena, suspense, inseguimenti, metamorfosi… Il personaggio serve da filo
conduttore per una serie di azioni a sorpresa. Il realismo dato dalla realtà quotidiana (vie e case di Parigi,
luoghi frequentati e riconoscibili da tutti gli spettatori) è inserito in un dramma sconvolgente, troppo
incredibile per essere vero → connubio di realismo e fantasia, in cui il gusto dell’avventura fantastica è
calato in una rappresentazione minuziosa e naturalistica della realtà fenomenica. Accade anche in Les
vampires (10 episodi; 1915-1916) e Judex (1916-1917). Il naturalismo delle riprese muta, a contatto con
l’invenzione romanzesca, in una rappresentazione quasi surrealistica → c’è un’ambiguità di fondo nel
cinema romanzesco di Feuillade.
Gli eroi dei suoi romanzi cinematografici mettono in crisi il sistema di valori della società borghese,
attraverso lo spirito rivoltoso e anarchico dei personaggi che, integrato in una rappresentazione obiettiva
della realtà, ne potenzia il carattere corrosivo.

Il dopoguerra segna una progressiva involuzione creativa per Linder, Cohl e Feuillade, coincidente con una
profonda trasformazione della società francese. La Prima guerra mondiale segnò, anche per quanto
riguarda il cinema, una frattura profonda che chiuse un periodo storico e ne aprì un altro.

Italia: storia romanzata e film storico

1906 → inizia in Italia una regolare produzione cinematografica, prevalentemente a Roma, Torino, Milano,
Firenze, Napoli.

Roma → opera la Cines, fondata da Alberini, che con La presa di Roma (1905) inaugura il filone del film
storico in costume (primo film a soggetto italiano)

Torino → sempre nel 1905 nasce la casa di produzione Ambrosio, che nel 1908 realizza Gli ultimi giorni di
Pompei (Maggi), uno dei primi film spettacolari catastrofici della storia del cinema. Nasce nel 1906 la Itala
Film di Pastrone, che inaugura la “Serie d’Arte” con La caduta di Troia (1910).

Milano → la Milano Films, con il suo Inferno (1911; Padova, Bertolini) realizza il primo lungometraggio
italiano e adattamento della Divina Commedia.

La presa di Roma è un emblema della cinematografia italiana che nel campo delle ricostruzioni storiche e
mitologiche si affermò internazionalmente → cinema italiano = cinema in costume; predominanza delle
scenografie, recitazione di stampo teatrale, narrazione magniloquente, rappresentazione pomposa,
narrazione che spaziava dal mondo antico al Risorgimento.

Giovanni Pastrone fu l’artigiano più abile di quel cinema, e lo trasformò diminuendone la retorica letteraria
e figurativa.

Con il cinema storico e in costume nasce l’idea del kolossal, un cinema di grande spettacolo che affonda le
sue origini nell’opera lirica e sfrutta la grandiosità delle scenografie, centinaia di comparse e i trucchi. Vi
sono delle affinità tra il film storico italiano e i prodotti della Film Art francese, ma sul piano della tecnica
rappresentativa e nella scelta degli argomenti drammatici e narrativi, il film storico italiano fu meno legato
alla fissità di stampo teatrale e ai canoni espressivi di una rappresentatività colta e raffinata (non c’era quel
chiaro e sistematico intento di nobilitare il cinema attraverso il teatro). I fil italiani erano film popolari, in cui
i temi ricorrenti della storia della patria e dell’antichità romana o del mondo mitico erano filtrati attraverso
la letteratura romanzesca di tipo popolare e la cultura scolastica di base. La durata degli spettacoli, inoltre,
spesso di solo dieci o quindici minuti, costringeva a concentrare l’azione in pochi momenti drammatici, fatti
e personaggi sufficientemente noti al pubblico.
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Sia i film storici che quelli comico-grotteschi si inserivano in un panorama cinematografico di opere di largo
consumo, caratteristico di tutto il cinema europeo e americano del momento (prima della Prima guerra
mondiale).

Il cinema italiano fin dalle origini fece riferimento alla tradizione culturale autoctona, caratterizzata da
retorica e nazionalismo, commedia dell’arte e farsa popolaresca, naturalismo e verismo.
Il filone cinematografico verista aveva agganci con la letteratura e il teatro dialettale, ne sono esempi
Sperduti nel buio (1914; Martoglio, Bracco) e Assunta Spina (1915; Serena, Bertini).

Il cinema italiano degli anni ’10 fu una fiorente industria dello spettacolo, per successo internazionale e
quantità di prodotti paragonabile a quella francese e americana. In particolare, fu il cinema storico, in
costume ad affermarsi in tutto il mondo, dando vita a un vero e proprio genere cinematografico, che stabilì
i primi canoni estetici che influenzarono autori come Griffith, che per la composizione di Intolerance ebbe
come modello Cabiria (1914; Pastrone).

Altri registi contribuirono a creare e sviluppare il genere con opere come Quo Vadis (1913; Guazzoni), che
divulgarono all’estero il cinema italiano e consentirono una produzione continuativa di film storici. Non è
tanto la singola opera a iniziare un genere, quanto la quantità e continuità della produzione, che stabilì una
serie di canoni contenutistici e formali che caratterizzarono e affermarono il genere.

Giovanni Pastrone e “Cabiria”

Pastrone fu un importante produttore e regista del cinema italiano. Fu autore di Cabiria (1914), film che
ottenne un grande rilievo anche per il contributo dell’eccellente tecnico cinematografico Chomon
(sperimentò nuove tecniche di ripresa) e per un ben orchestrato battage pubblicitario. Il film divenne un
caso, anche per le sue due ore e mezza di durata, in cui si trovavano didascalie di Gabriele D’Annunzio, che
conferirono una certa nobiltà al dramma. Lo spettacolo doveva essere un prodotto che univa le esigenze
dello spettacolo popolare a quelle della cultura mondana. Narrava la storia di una fanciulla sullo sfondo
storico della Seconda guerra punica (200 a.C.). Dopo la collaborazione con D’Annunzio Patrone adottò lo
pseudonimo di Piero Fosco, suggerito dall’artista (a partire dal 1915, con Il fuoco).
La proiezione del film era accompagnata da una Sinfonia del fuoco appositamente composta → grande
operazione commerciale. La realizzazione spettacolare utilizzava tutti i mezzi tecnici che il cinema metteva
a disposizione, tra cui il sonoro, da cui potevano scaturire grandi effetti. Cabiria dimostrò che il cinema
possedeva un linguaggio autonomo diverso da quello teatrale:
- utilizzo di vere e proprie costruzioni in muratura anziché semplici fondali dipinti bidimensionali
- sfruttamento delle lampade elettriche (luce artificiale) che permettevano espressivi effetti di contrasto
- montaggio interno alle scene, con modifica del punto di vista (abbandono del dominante sistema delle
riprese lunghe)
- uso del carrello, brevettato dallo stesso Pastrone nel 1912, che permise una più ricca esplorazione dello
spazio
- recitazione naturalistica e popolare, distante da quella artificiosa del teatro accademico e dei film
spettacolari che si rifacevano a quel teatro

Cabiria, visione storica del III secolo a.C. (1914, Pastrone)

Film ispirato alle opere di Tito Livio, Salgari, Flaubert. Non c’è una particolare attenzione alla fedeltà della
ricostruzione documentata. Il film presenta molti temi tipici del romanzo storico: vergine insidiata dalle
barbarie, giovane leale che la difende, gigante buono… La struttura è complessa, scandita in cinque episodi
che a loro volta sviluppano parallelamente una serie di intrecci. La dimensione storica funge da corollario
alle vicende di Cabiria, a partire dalla spettacolare eruzione dell’Etna (Catania) a Cartagine (Tunisia).
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La narrazione alterna sequenze drammatiche a momenti di maggiore serenità, calibrando sapientemente il
ritmo del film.

Il film di Pastrone è il primo vero kolossal della storia del cinema. Farà tradurre in inglese, francese e
tedesco i sottotitoli. D’Annunzio si occuperà del commento scritto e dei nomi dei personaggi.

Il fuoco, elemento presente in molti film italiani, attraversa tutta la pellicola fino a diventare quasi un
personaggio.

Pastrone aveva concepito il film sulla scia dell’entusiasmo patriottico suscitato dall’impresa coloniale che
aveva condotto l’Italia a una precaria occupazione delle Libia, ponendo così la pellicola a servizio
dell’ideologia nazionalista del tempo (evocazione dell’antica Roma, eventi storici al servizio dell’ideologia).
La narrazione presenta contenuti fortemente ideologici: la rappresentazione del confronto fra romani e
cartaginesi pone i primi in una luce completamente positiva, contrapponendo acriticamente l’azione
civilizzatrice di un paese ricco di storia come l’Italia ai “barbari” africani.

Il film contribuì a stabilire i codici linguistici e produttivi dello spettacolo cinematografico capitalistico.
Cabiria costituisce un emblema del cinema muto italiano, con la sua costruzione narrativa di ampio respiro
e le scenografie imponenti e accurate, la disposizione studiata delle masse, la recitazione magniloquente
(es. di Pagano, nei panni di Maciste).

Innovazioni tecniche: illuminazione artificiale (luci e ombre sul volto/corpo dei personaggi nei momenti di
massima tensione). Novità stilistica: movimenti della macchina da presa (panoramiche e carrelli, vengono
sfruttati per la prima volta in funzione espressiva). Le riprese avvengono in movimento e non più a
immagine fissa, dando alla scena grande profondità.
Studiate scenografie, vere e proprie ricostruzioni architettoniche realizzate in cartapesta negli studi di
Torino. Varietà dei piani utilizzati, dalla profondità di campo (campo lunghissimo) al particolare.

Il film influenzò illustri registi hollywoodiani come Griffith in Nascita di una nazione (1915) e Intolerance
(1916).

Il film cercò di rappresentarsi come erede dell’opera lirica: prove generali, dilatazione della durata,
aumento del prezzo dei biglietti, orchestra e coro di sala, opuscoli in cui si potevano leggere le didascalie
dell’opera (imitazione del libretto d’opera).

Il divismo, il filone naturalista e il cinema comico

Nel corso degli anni Dieci si impose in Italia anche un cinema dedicato alla rappresentazione della società
mondana, costituito da storie d’amore, intrighi, passione, morte. Ma l’amore mio non muore (1913;
Caserini) ne è l’esempio per eccellenza.
In queste opere la mondanità derivava dalla tradizione dei romanzi d’appendice e tardo-romantici, che
evidenziavano un costume sociale che il realismo delle immagini cinematografiche caricava di un valore
documentario inaspettato. Questi film proponevano modelli umani tali che divennero dei campioni di un
nuovo saper vivere, da imitare e invidiare. Diedero regole a moda, atteggiamenti, galatei, comportamento
sociale… Nacque così il “divismo cinematografico”, che rappresentava la sintesi, evidenziata in pochi
caratteri, del costume sociale del momento → si era creata una nuova mitologia, legata a protagonisti
modesti, quotidiani, dai connotati riconoscibili e persino banali, ma allo stesso tempo irriconoscibili e
irraggiungibili. I personaggi di queste opere assunsero un significato e una funzione più generale, che
esulava dalla storia e dalla vicenda del film. Essi, in particolare le dive, erano fissati in lunghe pose statiche
che ne esprimevano, in modo eccessivo e kitsch, passioni e tormenti. Le immagini enfatiche e
melodrammatiche divennero presto nuove categorie estetiche, nuovi modelli di comportamento a cui

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ispirarsi per uscire dall’anonimato della vita quotidiana. Diversi divi del cinema italiano, come Lydia Borelli e
Mario Bonnard, diedero vita a personaggi emblematici d’un costume e d’una moralità sociali.

In questo contesto si distinsero l’attrice Francesca Bertini e l’attore e regista Emilio Ghione, che pur nella
dimensione di un cinema divistico e convenzionale, proposero nuovi canoni interpretativi meno legati alla
tradizione del romanzo d’appendice.

Ghione → approccio naturalistico, aderente a una realtà colta nella sua quotidianità, in particolare quella
delle periferie urbane. Si impose per la sua recitazione stilizzata, contratta, lontana dall’enfasi del periodo.

Bertini → maggior realismo nel tratteggiare figure di donne del popolo e di altre classi sociali; rappresentò il
cinema naturalistico che si opponeva al cinema pomposo dei film storico-mitologici e passionali. Lavorò al
di fuori dei canoni stereotipati della recitazione divistica alla moda in quel periodo. Riuscì a conferire ai sui
personaggi, anche se sostanzialmente di maniera, un certo spessore umano, una consistenza drammatica,
come ad esempio in Assunta Spina (1915; Serena), in cui tratteggiò la psicologia e la naturalezza del suo
personaggio. Nei diversi film da lei interpretati, dipinse una galleria di diverse donne, fuori dai canoni
stereotipati delle dive contemporanee. Il naturalismo della sua recitazione fu il corrispettivo
cinematografico del verismo letterario e teatrale italiano di fine ‘800 e inizio ‘900. Film che si potrebbero
definire dialettali così come la drammaturgia alla quale si ispiravano: rappresentazione non enfatica della
realtà quotidiana e ambientazione naturale, in luoghi non ricostruiti in teatro. Personaggi ancorati a una
certa concretezza umana e scoiale, autentica. Esempi di tale corrente è Sperduti nel buio (1914; Martoglio),
in cui vi è la descrizione attenta e precisa di un ambiente povero, della caratterizzazione non banale di due
personaggi alla deriva. Il paesaggio conferisce alla storia una dimensione realistica e polemica. Si tratta
della Napoli non delle cartoline illustrate ma piuttosto dei quartieri popolari; il paesaggio diventava esso
stesso il dramma.
Si trattò di un cinema autenticamente popolare che però, nel panorama italiano, ebbe scarsa risonanza e si
esaurì con Cenere, nel 1916 (dal un romanzo della Deledda, interpretato da Eleonora Duse).

Il cinema comico italiano rappresenta il risvolto grottesco di questo naturalismo descrittivo, dai toni
popolareschi e dialettali. Cretinetti e Polidor furono creatori di una comicità di stampo più internazionale,
mentre Vaser fu più rappresentativo di questa comicità legata al naturalismo.
Fabre fu invece autore di una comicità più raffinata e originale, che mise in burla lo spirito dell’epoca in
maniera sottilmente ironica: es. Amor pedestre (1914) → avventura erotica grottesca, situazioni assurde,
interpretazione della realtà contemporanea in chiave fantastica.

Danimarca e Svezia: un cinema di paesaggio

Il cinema nordico vantava una grande tradizione drammaturgica (Ibsen, Strindberg). Fece i primi passi in
Danimarca e Svezia, all’inizio del secolo, e si affermò intorno agli anni Dieci come una delle più importanti
cinematografie mondiali. Cinema caratterizzato da:
- recitazione → secca, antiretorica, adatta al realismo del cinema (più dalla parte danese, con la diva
Nielsen)
- paesaggio → uso del paesaggio non soltanto in funzione descrittiva, ma narrativa e drammatica (più dalla
parte svedese, con il regista Stiller)

Il cinema danese e quello svedese ebbe si imposero per la loro autenticità e originalità, data dallo stile
asciutto, non melodrammatico, diverso da quello abituale del cinema di quegli anni. Esso affrontava temi e
soggetti scarsamente trattati da altre cinematografie, a volte scabrosi, per una maggiore libertà morale e
una diversa tradizione culturale.

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Gli autori danesi più significativi furono Christensen e Dreyer, che fu tra i più influenti e apprezzati al mondo
negli anni Dieci. Ole Olsen fu l’imprenditore che nel 1905 fondò la casa di produzione Nordisk.

Ciò che del cinema danese più colpì il pubblico dell’epoca fu il nuovo divismo di Asta Nielsen. Ella fu
un’attrice che impostò su nuove basi la recitazione cinematografica, liberandosi progressivamente dai
condizionamenti del palcoscenico e dalla mimica accentuata del primo cinema muto. Si impose per un
erotismo inusitato per il cinema di allora e, diversamente dalle dive italiane, per una recitazione controllata
ed appassionata al tempo stesso, provocante e concreta nella definizione di donne “perdute”. Divenne
simbolo di una nuova sessualità aggressiva, ma anche di una donna disposta a sacrificare tutto alla sua
passione, prototipo della vamp che caratterizzerà il divismo successi (soprattutto americano).
Negli anni Venti, con la sua esperienza tedesca, andò sempre più orientandosi verso una drammaturgia
meno banale, affrontando testi e temi di una profonda risonanza umana e sociale, ambientati in una
Germania misera e travolta dai problemi della disoccupazione, della miseria… es. La via senza gioia (1925;
Gasse). Raggiunse un alto livello interpretativo.

Christensen si distinse per il lavoro sulla luce, sia naturale che artificiale, che utilizzò per ottenere intensi
effetti espressivi. Il suo film più famoso fu Heksen (o La stregoneria attraverso i secoli; Svezia; 1918 – 1921),
che era una sorta di affresco sulla storia della stregoneria, con pagine di forte drammaticità e crudo
realismo, in cui i fatti si susseguono come in un documentario, senza stretti legami narrativi.

Il cinema svedese (casa di produzione principale Svenska Bio, fondata da Magnusson, per cui lavorarono
Sjostrom e Stiller) riuscì a mantenere un ruolo di primo piano nel cinema europeo anche negli anni
successivi alla Prima guerra mondiale, sino al 1921, quando andò in crisi e vi fu la fuga dei suoi talenti
(Sjostrom e Stiller e anche Greta Garbo).

Sjostrom → fu interprete ne Il posto delle fragole (1957; Bergman). In lui, anche regista, troviamo una
particolare attenzione al paesaggio, che assume la funzione drammatica di contraltare alla vicenda dei
personaggi, elemento fondamentale della costruzione narrativa. La sua fu una pagina di cinema che influì
molto, per esempio, sull’ultimo Griffith e sui registi sovietici, per i quali la natura avrà grande importanza.
Il culto della natura è un tema fondamentale della cultura scandinava degli ultimi anni dell’800 e inizio ‘900.
Tale poetica romantica vedeva in un nuovo e più autentico rapporto uomo/ambiente naturale la soluzione
dei conflitti sociali e umani causati dall’avanzare della società industriale. Sjostrom riprese il tema e lo
sviluppò in diverse forme. Si ispirò in diverse occasioni alla scrittrice Largelof (rappresentante del tema
uomo/natura), per esempio con la trilogia di Jerusalem (1918 – 1920), in cui la natura si integrava nella
vicenda dei personaggi, diventando essa stessa personaggio e determinando una serie di azioni e reazioni
che costituivano il tessuto narrativo della storia, la sua ragion d’essere. Ancora, ne Il carretto fantasma
(1920), si ispirò alla Largelof. Nella storia vi sono diversi flashback e visioni oniriche e incubi. La
rappresentazione si differenzia perché fantastica e angosciante, analisi critica dell’esistenza umana (ma non
dramma sociale e umano). Questo film esercitò una notevole influenza nel cinema europeo.
Sjostrom si trasferì a Hollywood per la MGM, in cui realizzò alcuni film, tra cui spiccò Il vento (1928),
ambientato nel deserto americano, dove riprese il tema natura/uomo. La natura selvaggia assume il ruolo
di personaggio.

Stiller → grande direttore di attori, amico di Sjostrom, interessato in particolar modo all’aspetto tecnico-
espressivo del cinema e alle sue possibilità spettacolari, impose all’estero la nuova scuola cinematografica
svedese. I suoi film furono modello di una cinematografia diversa dalle altre, per il suo interesse per le
questioni di linguaggio. I suoi prodotti abbastanza inconsueti, lo stile vigoroso e drammaticamente efficace,
la scelta di argomenti di forte incidenza morale e sociale. Anche nella sua opera, il paesaggio ha una
funzione determinante, ma esso rientra in una visione panica della vita, in cui l’uomo è elemento del tutto.
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Di qui la sua necessità di ampliare il racconto, di uscire dai casi individuali, di integrare la storia dell’uomo in
una più generale storia del mondo. A differenza del cinema di Sjostrom che era più intimista e psicologico, il
cinema di Stiller fu soprattutto epico e lirico, con una predilezione per il simbolismo figurativo. Esempio
della sua poetica panteista sono Il tesoro di Arnie (1919) e La saga di Gosta Berling (1923; in cui debuttò
Greta Garbo) → film considerati dai critici come il culmine dell’arte di Stiller.
Nel suo racconto non viene sottolineata tanto la tragicità di una particolare situazione umana e sociale, ma
piuttosto la perennità della condizione umana: isolati nei grandi spazi di una natura impassibile, i destini
individuali si intersecano per formare un grande quadro incomprensibile della vita dell’uomo, segnata da
malinconia e senso tragico dell’esistenza, resi attraverso immagine ariose e crudo realismo.
Nell’opera maggiore di Stiller, La saga di Gosta Berling, i personaggi e il paesaggio costituiscono i due
elementi concomitanti di una rappresentazione quasi mitica del reale. Rimane il carattere epico e
fantastico. La struttura polifonica del dramma porta avanti più temi e li sviluppa secondo un disegno non
lineare. L’opera di Stiller si pone come esempio di un cinema aperto, che influenzerà il cinema successivo
(strutturalmente aperto, libero dai condizionamenti narrativi tradizionali, ampio respiro).

Il cinema è oramai, a metà degli anni Dieci e nei diversi Paesi, una forma di spettacolo sufficientemente
diffusa in larghi strati di pubblico, tecnicamente evoluta e artisticamente elaborata. E’ un fatto di cultura
ormai acquisito.

5. LA GRANDE STAGIONE DEL CINEMA MUTO AMERICANO (1918 – 1929)

Hollywood negli anni Venti

Anni della Prima guerra mondiale → segnarono il consolidamento di Hollywood come capitale mondiale del
cinema, i cui spettacoli si affermarono, nel dopoguerra, quali modelli universali.
Tale trasformazione si deve sia al posizionamento isolazionista degli USA nei confronti dell’Europa
belligerante, sia all’industria cinematografica che oramai aveva solidissime basi finanziarie,
un’organizzazione tecnica pregevole, vasti canali di distribuzione commerciale e una numerosa schiera di
artisti, tecnici, produttori, attori…

Negli anni Venti, il cinema hollywoodiano, forte anche del contributo di diversi registi e attori europei, si
sviluppò in varie direzioni. Il cinema fu una sorta di specchio dell’”età del jazz”, comprendente gli anni dalla
fine della Prima guerra mondiale alla crisi del ’29, che misero in luce la sostanziale debolezza di un sistema
politico e sociale che non era riuscito a risolvere i diversi problemi di una nazione in via di sviluppo
economico. Il cinema americano attraversò una stagione straordinaria, in cui giunsero a maturazione le
istanze degli anni precedenti.

Gli Stati Uniti avevano raggiunto, grazie alla Prima guerra mondiale, lo status di potenza economica, fattore
che consentiva al cinema una grande disponibilità di capitali e investimenti finanziari che, grazie a film
spettacolari, portò a sua volta a un aumento delle vendite delle pellicole e degli spettatori. Importante per
la solidità dell’industria cinematografica americana fu la sua verticalità: le principali compagnie, Paramount
e MGM, controllavano l’intero ciclo produttivo e possedevano molte sale. Le sale indipendenti erano
costrette da tali case al block booking, ossia per ottenere a noleggio un fil di un certo successo dovevano
noleggiarne altri dalle prospettive commerciali inferiori.

Nacquero diverse sale, veri e propri palazzi, che nel loro esotismo e lusso delle architetture barocche e
rococò costituivano già uno spettacolo atto a contenere lo spettacolo del film. Essi si sostituirono al
nickelodeon, rappresentando bene come il cinema fosse sempre più proteso alla conquista di un pubblico
più rispettabile e influente di quello popolare iniziale.
Sempre nel tentativo di dare al cinema una maggiore rispettabilità, si formò, nel 1922, la Motion Picture
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Producers and Distributors Association (MPPDA), un’organizzazione dei principali studi cinematografici atta
a regolamentare il contenuto morale dei film ed eliminarne eventuali momenti offensivi.
I produttori dell’epoca erano coscienti che il sesso e la violenza erano un’arma a doppio taglio: essi
potevano infatti attirare il pubblico popolare, e allo stesso tempo inimicarsi quello più altolocato e potente.

La MPPDA aveva due compiti:


- trovare il giusto equilibrio tra la possibilità di rappresentare certe situazioni eticamente riprovevoli, ma
redditizie in termini commerciali, e al contempo di condannarle
- stabilire da sé, all’interno della stessa industria cinematografica, un proprio codice di regolamentazione
morale, prima che intervenisse lo Stato con regole ben più severe

Un’altra tendenza importante di questo periodo fu la politica d’acquisto di alcuni dei maggiori talenti del
cinema europeo, che portò a una notevole influenza dei cineasti europei sul cinema americano, sia si quel
periodo che successivo, sia dal punto di vista della poetica che stilistico. Tra i tanti che arrivarono a
Hollywood negli anni Venti: Lubitsch, Murnau, Paul Leni, Greta Garbo, Sjostrom, Stiller, curtiz, Fejos…

Negli anni Venti inoltre continuò l’affinamento del linguaggio cinematografico già intrapreso negli anni
precedenti, soprattutto verso quella trasparenza della rappresentazione e cancellazione degli effetti del
montaggio, in particolare quello analitico, tramite raccordi di sguardo, movimento, asse → attenuazione
della discontinuità della scrittura cinematografica, per rendere più fluida possibile la rappresentazione
filmica e per arrivare all’auspicato effetto di realtà, fortemente voluto da tutto il cinema classico
hollywoodiano.

Anche sul piano strettamente tecnico, il decennio vide diversi passi avanti:
- sviluppo illuminazione artificiale e elaborazione del sistema a tre luci (principale, riempimento, controluce)
- prassi di tenere a fuoco l’avan-piano dell’immagine e sfocare lo sfondo, ottenendo l’effetto flou o soft
style, per invitare lo spettatore a concentrarsi su ciò che è mostrato in primo piano (riduzione importanza
profondità di campo)

Stroheim (allievo di Griffith) e Chaplin (allievo di Sennett) diedero le opere più importanti e significative
degli anni Venti al cinema americano.

Il cinema americano era un cinema di generi, che si impose grazie alla garanzia del marchio di fabbrica
hollywoodiano rappresentato dalle principali case cinematografiche, le Tre Grandi (Paramount, MGM, First
National) che controllavano diverse catene di sale, e le Cinque Piccole (Universal, Fox, Warner Bros,
Producers Distributing Corporation, Film Booking Office).

Hollywood inoltre, oltre ai film che vi si realizzavano, divenne il mondo irraggiungibile dei nuovi dèi della
mitologia cinematografica. Attori, registi, divi vi vivevano una vita diversa da quella degli altri uomini,
potendosi permettere non solo un lusso e sfarzo smodato, ma anche libertà di costumi e atteggiamenti che
la tradizione, la legge, la moralità corrente vietavano alle persone comuni. La Hollywood Babilonia
(scandali, casi, stranezze, crimini che riempivano le pagine dei giornali scandalistici) serviva egregiamente la
causa dell’industria cinematografica e contribuivano a mantenere e rafforzare il mito hollywoodiano. I divi
degli anni Venti erano oramai una componente imprescindibile del cinema americano, entità divine che
nulla avevano più a che vedere con i comuni mortali.

Modelli d’americanismo:
- Mary Pickford e Douglas Fairbanks → rappresentavano sia in patria che all’estero un certo modello di
americanismo. Ebbero un successo eccezionale. La Pickford rappresentava la “fidanzata d’America”, un tipo
umano ancorato alle tradizioni dell’America puritana e romantica, la purezza vincitrice → propagandista
dell’american way of life (ottimismo, entusiasmo).
Fairbanks rappresentava invece il modello del nuovo eroe americano uscito dal conflitto bellico per
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affrontare coraggiosamente la realtà quotidiana, le cui virtù principali erano lealtà, coraggio, onestà,
temerarietà. Simbolo vivente di un’America legalitaria e progressista, di un’America dei pionieri (interpretò
Zorro, un moschettiere, Robin Hood…).

- Theda Bara e Rodolfo Valentino → loro rappresentavano l’altra faccia del divismo, quello non edificante e
educativo, ma conturbante e languido. Maggiori rappresentanti degli “anni folli”. Erano provocatori,
passionali, le loro avventure erano peccaminose, erano protagonisti di scandali privati. Theda Bara
rappresentava la donna fatale, aggressiva, perversa, conturbante. Fu la prima vera vamp dello schermo,
simbolo di una femminilità che si contrapponeva esplicitamente a quella ingenua e casalinga della Pickford.
Costituì il prototipo americano delle dive successive, le cui caratteristiche femminili spesso si identificavano
con l’esplicita sessualità.
Rodolfo Valentino fu simbolo dell’amante latino appassionato e bello, virile, romantico ma non tipo da
smancerie. La morte prematura contribuì a mantenerne vivo il mito.

Il regista che meglio rappresentò i caratteri peculiari del cinema di Hollywood fu De Mille, che costruì la sua
fama sull’eclettismo della sua opera e sul suo grande senso dello spettacolo. Già negli anni della Prima
guerra mondiale girò un film apprezzato sia in America che in Europa, I prevaricatori (1915), che si impose
anche per l’uso espressivo della luce “alla Rembrandt”, con effetti di taglio che illuminavano solo la parte
voluta dell’immagine. Nell’immediato dopoguerra diresse film, come Perché cambiare moglie? (1920), che
puntarono soprattutto su temi leggeri, a sfondo erotico, che diedero vita a un nuovo filone
cinematografico, ossia la commedia brillante e libertina. Nel 1923 cambiò nuovamente registro,
realizzando, grazie alla crescita del budget, I dieci comandamenti (1923), un film biblico di eccezionale
spettacolarità (Bibbia al servizio dello spettacolo hollywoodiano). Fece propria la lezione di Griffith e degli
italiani, affidandosi alla grandiosità delle scenografie, alla massa di comparse, al ritmo narrativo ad incastro,
alla storia popolare di forte attrattiva… Il genere dei film biblici e storici in America fu coltivato
principalmente da De Mille, che però continuò allo stesso tempo a coltivare il genere drammatico e
passionale, passando anche al western e portando in questo genere classico americano la sua pomposità, il
suo stile barocco, le sue colossali messinscene.

La quintessenza del cinema americano sono:


- spettacolo → cinema che trasforma ogni cosa in materia di spettacolo e mantiene lo spettatore in uno
stato di passività, di suggestione dovuta alle immagini, allo sfarzo di costumi e scenografie
- coinvolgimento → coinvolgimento dello spettatore in un’avventura che lo porta fuori dalla realtà
quotidiana, in cui fatti e personaggi, anche se tratti dalla storia e dalla cronaca, si collocano in una
dimensione onirica e fantastica

All’interno di questo sistema si mossero tuttavia alcuni autori che riuscirono a dare della realtà umana e
sociale di quegli anni una rappresentazione critica, personale, profonda, ponendo il cinema sul piano
dell’arte e della cultura.

Charles Spencer Chaplin

Chaplin cominciò a lavorare nel cinema presso la Keystone di Sennett nel 1914. I primi film non uscivano
dagli schemi sennettiani (meccanicità delle situazioni, schema fisso e stereotipato).
Il personaggio di Charlot si andò perfezionando non soltanto nei suoi caratteri esteriori (frac, scarpe enormi
sfondate, bombetta, bastone) ma anche nella sua psicologia a partire dal 1915, quando Chaplin cominciò a
lavorare per la Essanay, con un contratto che gli consentiva di scrivere e dirigere i propri film con più calma

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→ maggior cura dei soggetti e nella realizzazione e definizione dei personaggi.
Alcuni temi ricorrenti nella sua opera successiva sono già presenti nel 1915 (Charlot boxeur; Charlot
vagabondo…). La comicità si fa più profonda, nasce dalle situazioni in cui viene a trovarsi il personaggio, si
carica progressivamente di una dimensione umana, quasi patetica. Contemporaneamente compare sempre
più la sostanziale solitudine ci Charlot, che deve risolvere da solo i problemi della vita, forte solo del suo
ingegno, della sua astuzia e di un po’ di fortuna. La comicità prende a volte una piega più amara, perché
calata in una rappresentazione della realtà che non nasconde i lati negativi della società, anzi ne dipinge
miseria, disuguaglianza, violenza…
Chaplin scava più profondamente nel suo tessuto sociale, non si accontenta di prendersi gioco degli aspetti
esteriori della società (mode, manie) ma ancora il suo personaggio a una visione dei problemi umani e
sociali che ne determinano un certo spessore umano.
La sua esperienza personale, i suoi ricordi di infanzia cominciano ad apparire nelle pieghe del racconto. Le
storie nascono da una situazione reale, storicamente determinata.
Non vi è ancora, come accadrà nelle opere della maturità, un chiaro intento critico, politico, polemico, ma
già vi sono elementi non superficiali della realtà. La comicità diventa strumento di indagine, a volte mezzo
eversivo.

Nel 1916 passa alla Mutual, poi alla First National. Questi cambiamenti gli permettono di lavorare ancora e
meglio sul suo personaggio, che oramai ha perso quasi totalmente il carattere di macchietta ed è diventato
simbolo di un’umanità debole e oppressa ma allo stesso tempo ribelle verso la sua condizione.

- Il vagabondo (1916) → acuta osservazione della miseria


- Charlot conte → raffigurazione dell’alta società in chiave di satira anche violenta
- La strada della paura (1917) → osservazioni acute sulla vita d’un quartiere popolare, di cui sono messe in
rilievo miserie, squallore, paura
- Charlot emigrante → critica sociale più esplicita; traversata atlantica di una nave di emigranti che non
troveranno la felicità sperata ma altra miseria, disoccupazione, solitudine

Le sue opere più mature e riuscite, realizzate nel 1918, sono:


- Vita da cani → tema del vagabondo, uomo indifeso, solo (tema ricorrente nella poetica di Chaplin); offre
nuove possibilità per uno studio umano e sociale di più ampie proporzioni. Il rapporto fra personaggio e
ambiente è meglio precisato, le soluzioni comiche del racconto scaturiscono dall’osservazione della realtà.
Il quadro di insieme è più complesso e articolato.
- Charlot soldato → esplicito nella satira, la rappresentazione della guerra è tratteggiata non solo con toni
comici e grotteschi ma anche violentemente accusatori (fu censurato). La satira della guerra era costruita in
chiave pacifista, e anarchica. Contraddiceva la politica americana di quegli anni (IGM). Il discorso poetico di
Chaplin non è più limitato a una satira sui costumi o a un ammiccante umorismo, ma affonda le radici sul
giudizio della società, esplicitamente politico e ideologico.

Accanto a tale impegno politico, c’è nell’opera di Chaplin anche un risvolto più romantico, un tono più
sentimentale, es. Luci della città (1931; film muto in piena epoca sonora). Tuttavia, già ne Il monello (1921;
primo lungometraggio di Chaplin) l’elemento sentimentale ha il sopravvento. Charlot raccoglie e alleva
come un figlio un orfanello. In questo rapporto, i temi della satira sociale, della critica alle istituzioni, della
rivolta anarcoide si placano. La critica si pone in un’altra prospettiva, che riguarda la messa in discussione di
valori come la carità, l’interclassismo, la famiglia, le istituzioni sociali…

In alcuni film vi è inoltre un intento di più dichiarato ottimismo, come per esempio ne I tempi moderni
(1936) e Il dittatore (1940) che si concludono positivamente, in un clima di speranza verso il futuro e un
appello alla fratellanza umana e un augurio per un mondo migliore.

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Anche sul piano stilistico l’opera di Chaplin si è affinata a mano a mano. Il linguaggio è duttile e senza
compiacimenti formali: l’utilizzazione dei mezzi tecnico espressivi è sempre subordinata alla mimica del
personaggio, anche se non mancano descrizioni ambientali acute, un ritmo del racconto sostenuto, una
scioltezza discorsiva accattivante ed efficace.

Chaplin ha una eccellente padronanza del mezzo cinematografico, costruisce uno spettacolo di qualità
alternando situazioni di tensione drammatica a pause narrative.

Non sempre alla maturazione dello stile corrispose, però, un approfondimento della visione critica della
realtà. Con il tempo, nei suoi lungometraggi come La febbre dell’oro e Luci della città (secondi anni Venti), il
personaggio di Charlot si fa meno corrosivo e dissacrante, più sentimentale, umanizzato, vicino alle passioni
dell’uomo comune, stereotipato, meno genuinamente anarchico e simbolico della sua lotta contro le
storture sociali. Questa parziale involuzione, però, cambia tendenza negli anni ’30, quando Chaplin tratterà
argomenti di maggiore impegno sociale, con Tempi Moderni (1936) e Il dittatore (1940).

Tempi moderni → tappa importante nella carriera di Chaplin e vertice del cinema poetico politico satirico
del tempo. In questo film Charlot è inserito in un tessuto sociale determinato, è un operaio in una grande
officina meccanica, strettamente legato ai problemi economici e sociali di quegli anni (società americana
anni ’30). La storia integra gli elementi di satira sociale e critica delle istituzioni con i casi di due vicende
individuali, patetiche e commoventi (quella del disoccupato e dell’orfanella).
Le sequenze esplicitamente comiche sono maggiormente legate alla storia e ne costituiscono le opportune
pause narrative, che servono anche a meglio evidenziare le situazioni più tese.
La visione di Chaplin rimane comunque ancora ancorata a un certo individualismo che si identifica in larga
misura con la lotta del singolo per l’esistenza, sorretta da un generico umanitarismo che fa leva sul
sentimento.

Il dittatore → l’umanitarismo è alla base di questo film; si tratta di un’opera sul fascismo e sul nazismo.
Anche qui sono sviluppate due storie parallele, che però si integreranno in un’unica struttura narrativa solo
nel finale, in cui vi è un discorso umanitario e pacifista (fatto dall’ebreo in sostituzione al dittatore).
Chaplin coglie i risvolti grotteschi delle situazioni e tratteggia il ritratto del debole e quello del potente.
Tuttavia, l’uomo è genericamente inteso, è l’ebreo a costituire il simbolo dell’umanità oppressa, tema di
fondo, e non l’uomo storico, inserito in una determinata struttura sociale e politica. I riferimenti storici
sono piuttosto chiari, tuttavia il discorso politico e ideologico rimane generico, e l’appello finale alla
fratellanza universale retorico.
La critica più acuta si ha nella demolizione del mito del dittatore, nel suo svuotamento grottesco e
sarcastico, mostrato come un piccolo uomo oppresso da assurde manie di grandezza, nevrotico,
psicopatico, debole e sciocco.

Frattura rispetto alle opere precedenti è Monsieur Verdoux (1947), ritratto amaro, sarcastico e impietoso di
un’umanità che ha perduto il senso autentico della vita, ha smarrito i valori morali, è uscita dalla guerra
senza aver compreso la necessità di un mutamento radicale nei rapporti umani e sociali. Il personaggio non
è più il vagabondo e anarchico Charlot, ma Verdoux, un cinico e avventuriero, che uccide via via le donne
che sposa, per ottenerne l’eredità, ma è al tempo stesso premuroso e affettuoso con la sua vera moglie,
paralitica e bisognosa di cure. E’ l’emblema della nuova morale del nazismo, ma anche di quella del
capitalismo in espansione, in cui l’interesse del singolo o del gruppo di potenti giustifica qualsiasi delitto
(utilizza il sonoro) → film distante dalla poetica abituale di Chaplin definitasi negli ann Venti e Trenta,
intriso di humour noir.

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Chaplin dipinse un ritratto del periodo storico tra le due guerre mondiali in modo acuto, critico, da
un’angolazione che vedeva nel singolo il punto di forza per la trasformazione della società. Il suo cinema
trovò ragion d’essere nella dimensione dell’attore.

Tempi moderni (1936; Chaplin)

- alienante ripetitività del lavoro alla catena di montaggio


- conclusione carica di speranza
- patetismo e commozione fanno da contraltare alla sferzante satira sociale e alla critica alle istituzioni, veri
motivi che ispirano il film
- meccanizzazione del lavoro, ma anche dei bisogni (pranzo), alienazione, taylorismo, scioperi, fame →
elementi che segnano l’epoca della Grande depressione
- concretezza all’ansia dei tempi moderni, di cui il ritmo concitato del lavoro in fabbrica diventa emblema
- riflessione sul tempo della fabbrica e il tempo dell’uomo
- uomo ingranaggio di una macchina; disumana condizione operaia (gregge di pecore, massa senza volto)
- i pezzi d’arte comica costituiscono pause narrative, utili per sottolineare ancora di più la drammaticità di
altre scene e temi (ricerca disperata di un impiego, abbruttimento del lavoro operaio, impossibilità per
l’essere umano di esprimere la sua intima poesia…)
- impostazione teatrale del piano, in particolare nelle gags, in cui i personaggi sono ripresi frontalmente con
la macchina da presa fissa
- film che, a circa 10 anni dalla comparsa del sonoro, è ancora quasi muto; suoni, rumori e musica sono al
servizio della messa in scena; Chaplin cede alla parola solo nel finale, per cantare la Nonsense Song (quando
Charlot si esibisce al ristorante). La voce e le parole sono dissociate, l’intento con cui il nuovo mezzo
(sonoro) è introdotto è dissacratorio → testo in una lingua inventata che mescola termini di diverse lingue,
storpiate e assemblate senza un vero costrutto. Chaplin non amava suono e parola
- emblema dell’alienazione umana, in particolare delle classi sociali più emarginate, nell’era del progresso
industriale ed economico
- sembra che l’autore perda l’illusione che vi sia la possibilità per l’individuo di dominare la complessità e le
ingiustizie della macchina produttiva (complice la crisi linguistico-espressiva determinata dall’avvento del
sonoro)

Eric von Stroheim

Anche alla base del cinema di Stroheim c’è il personaggio, che ha un ruolo centrale, elemento catalizzatore
di un dramma umano che si fa gradatamente sociale. Come per Chaplin, anche Stroheim ha una visione
della realtà sostanzialmente individualistica, venata da una parte da un sentimentalismo di stampo
ottocentesco, dall’altra da una cattiveria acre e pungente. Stroheim è caratterizzato da uno spirito più
violento, che di film in film rende i suoi ritratti a mano a mano più accesi, espressionisti, lividi. Il suo spirito
satirico è sempre violento, pesante e volutamente volgare (mentre Chaplin si rifà al tono della farsa, della
comicità).

Come Chaplin, anche Stroheim proviene dall’Europa ed è mal tollerato dall’industria cinematografica
hollywoodiana per la sua insofferenza alle restrizioni e per il suo anticonformismo. Ma, mentre Chaplin, che
non dovette dipendere finanziariamente da nessuno, diventando egli stesso produttore, potè agire senza
troppi problemi, Stroheim subì continui attacchi, tanto che pochissimi dei suoi film furono presentati al
pubblico così come lui li aveva concepiti. Dopo il 1930 dovette abbandonare il suo lavoro di regista per
accontentarsi di far l’attore.

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La sua formazione è debitrice della lezione di Griffith, di cui fu assistente e anche attore.
Alla base della sua poetica vi è la cultura decadentistica europea, una certa filosofia nicciana della vita, un
certo romanticismo disincantato.
Una leggenda vuole Stroheim figlio di un ufficiale asburgico, di nobile famiglia, quando in verità egli era
figlio di un modesto cappellaio ebreo che aveva disertato.
Nella sua opera si trovano elementi della cultura mitteleuropea fra Ottocento e Novecento: decadentismo
e naturalismo, “mito asburgico” capovolto e dissacrato… (le sue opere si rifanno a una cultura differente da
quella americana del tempo in cui predominava il western, i temi della frontiera, concezione puritana della
vita…). Stroheim descrive nella sua opera un mondo di orrori, miseria morale, corruzione, violenza,
richiamandosi alla tradizione del romanzo naturalistico e del verismo artistico e letterario,
all’espressionismo pittorico, senza trascurare il gusto per l’orrido, il deforme, il malsano, al kitsch e al
simbolismo volgare.

1914 → incontro con Griffith; anni di apprendistato, coincidono con il periodo della guerra, dai quali
Stroheim trarrà i temi dei suoi film, pervasi da amarezza, sconforto, violenza mal repressa, odio.

I suoi primi film, La legge della montagna (1919) e La chiave del diavolo (1920) riflettono la crisi di valori
morali e ideali determinata dal crollo della struttura sociale causato dalla guerra → rivelazione delle sue
contraddizioni, orrori.

Stroheim è interessato in particolare alla definizione naturalistica dei caratteri, e già nelle prime prove si
preoccupa dei più piccoli particolari che servono a meglio definire un comportamento.

Tale naturalismo si trova, ad esempio, in Femmine folli (1922), in cui vengono mostrati vizi e turpitudini
della società mondana. I personaggi sono tratteggiati in maniera impietosa così come è feroce il modo di
sottolineare i difetti e i vizi della società mondana: per la prima volta e in maniera esplicita e violenta, il
cinema indaga senza falsi pudori i risvolti corrotti della rispettabilità borghese attraverso precisione del
quadro, obiettività della cinecamera, realismo della rappresentazione…
Con questo film l’autore si impose violentemente al pubblico e alla critica, e si scontrò anche con l’industria
cinematografica hollywoodiana (conflitto director e producer) preoccupata di non scatenare i furori dei
benpensanti. Il film fu notevolmente ridotto, nell’edizione commerciale, così come capitò ad altre opere del
regista che ben presto divenne un autore “maledetto”: i suoi film furono boicottati, mutilati, affidati ad
altri, interrotti in produzione… Dopo Femmine folli i film che egli realizzò non rappresentavano che in
minima parte quanto egli voleva creare. Nel 1932 diresse il suo ultimo film.

Nonostante questa situazione, Stroheim riuscì a comporre uno straordinario campionario di personaggi e
affreschi di ambienti e situazioni drammatiche. Egli fece ricorso an un linguaggio cinematografico
caratterizzato da un minuto realismo (meticolosa e accurata ricostruzione degli ambienti, ricorrenza ai
dettagli) deformato attraverso insistite metafore e accentuazioni simboliche che lo spingono in una
dimensione caricaturale e espressionistica:
- lentezza del ritmo
- abbondanza delle inquadrature fisse che persistevano a lungo sugli eventi rappresentati nel tentativo di
condensare il senso della storia e lo stato d’animo dei personaggi
- uso esasperato dei primi piani e della profondità di campo come modo per dare corpo, attraverso
l’accumulo di vari elementi, a diversi contrasti drammatici (es. in Greed dove durante una cerimonia
nunziale si vede passare sullo sfondo un corteo funebre)

Anche nelle scelte stilistiche Stroheim costringe i suoi spettatori a un duro impegno intellettuale e fisico
(Greed doveva durare in origine 9 ore) offrendo loro poco enterteinment. Egli fu regista dell’eccesso,

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indifferente alla misura economica (budget) e ad ogni censura sociale, cosa che lo porta infatti a trattare in
maniera disinvolta il sesso e le sue degenerazioni in un atteggiamento che mescola repulsione e attrazione
(diverse sono le scene di nudo, orge, feticismo, marcata l’attenzione verso la sensualità del corpo
femminile).

Nei suoi film, l’umanità è osservata con occhi indagatori, pronti a denunciare le bassezze morali, le
ipocrisie, i falsi miti, l’apparente rispettabilità, senza differenze di classi sociali, condizioni economiche,
ideologia morali e politiche → regista della crudeltà, si richiama all’universo sadiano (da Sade).
Stroheim è interessato alla dimensione bestiale e pulsionale della natura umana e alla sua incapacità di
porre freno ai propri desideri e alle proprie ossessioni.

Greed (1924) si differenzia dalla maggior parte dei film, ambientati nell’alta società. Il film descrive infatti,
sullo sfondo di un’America provinciale e mediocre, la passione per il denaro che dilania a poco a poco i tre
protagonisti della vicenda. Vi è un’analisi impietosa della rapacità propria dell’uomo, che esplode in certe
circostanze storiche o ambientali. Stroheim accentua il realismo della rappresentazione e, allo stesso
tempo, l’aspetto metaforico di certe sequenze in cui gli elementi naturalistici si caricano di indicazioni
chiaramente emblematiche (es. il regista prevedeva di colorare a mano sulla pellicola gli oggetti d’oro,
perché l’oro fosse il leit motiv del dramma). L’opera può essere considerata come la maggiore dell’autore,
per la sua capacità di dare alla realtà quotidiana un rilievo straordinario con un uso attento e metodico del
linguaggio cinematografico in modo inquirente, analitico, lentissimo → esplorazione minuziosa di ogni
particolare della realtà fenomenica. Il film è esempio del “film maledetto”.

Stroheim tornò ai temi della crisi morale della società mondana con Sinfonia nunziale (1928), in cui sviluppò
il tema dell’ipocrisia di una società che maschera il suo fallimento con la rispettabilità, dello sfarzo, del
denaro, della morale utilizzata per difendere i propri interessi di classe (storia di un giovane principe
costretto a sposare una donna che disprezza per risollevare le sorti finanziarie della propria casata). Dopo
questo film, per i vari impedimenti, il cinema dell’autore volse alla fine (con Queen Kelly e Walking down
Broadway, 1932).

Fine anni Venti → conclusione di un periodo particolare per Hollywood e l’America; il sopraggiungere del
cinema sonoro modificherà ampiamente i criteri di produzione e allontanerà molti attori e registi
dall’attività cinematografica. La crisi del ’29 e la trasformazione tecnico-produttiva segneranno una
profonda cesura nell’evoluzione del cinema.

Stroheim rivelò per la prima volta la potenza inquisitoria del cinema e le sue possibilità demistificatrici.

Greed (1924; Stroheim)

- sfida provocatoria della società e dell’epoca in cui fu girato, opera infatti pesantemente mutilata dalla
produzione
- precisione maniacale del set, caratteristica del gigantismo del regista
- sguardo crudele e disincantato sui protagonisti della vicenda, sconvolti dalla brama di ricchezza e sete di
denaro che li renderà brutali, voraci, rapaci
- il protagonista del film uccide l’amico dopo aver ucciso la ragazza a lui sottratta, il movente sono i soldi
- ricchezza di significati simbolici: l’iconografia religiosa fa da sfondo al bacio blasfemo del finto dentista alla
paziente che poi sposerà; la battuta “amici fino alla morte” dei due protagonisti prefigura beffardamente il
tragico e caustico finale del film; il rapporto tra la donna e i due spasimanti è caratterizzato da una violenta
e sotterranea carica erotica che sottolinea il carattere sacrilego dei loro sentimenti
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- denaro = motore dell’azione umana; oro = leit motiv della vicenda
- i personaggi sono lentamente condannati alla prigionia dovuta alla brama di denaro, c’è un’escalation di
degrado; frequenti sono i parallelismi tra uomini e animali; bestialità delle persone
- il marcato simbolismo offre la vera chiave di lettura di numerose scene: l’opera di Stroheim ricerca un
realismo estremo aderendo al determinismo naturalista di stampo ottocentesco che caratterizza il
romanzo. Lo sguardo del regista è frontale e privo di retorica nel rappresentare lo squallore del contratto
matrimoniale e dei rapporti familiari
- utilizzo di violenti primi piani e particolari che mostrano aspetti sgradevolmente significativi quali sudore,
sporcizia, sofferenza fisica… analisi impietosa della crudeltà dei personaggi negativi

Buster Keaton e la nuova comicità

Sulla fine degli anni Dieci, alcuni comici (come ad esempio Chaplin) si affermarono per la loro autonomia
creativa rispetto alla scuola sennettiana con cui si identificò il primo cinema comico americano. I film
diventano lungometraggi, con diverse e più ampie possibilità espressive → lezione di Sennett superata;
nuova stagione del comico americano negli anni ’20. Si impone il personaggio, caratterizzato non soltanto
da un aspetto esteriore che lo rende immediatamente riconoscibile, ma anche da una sua dimensione
umana e psicologica. I nuovi protagonisti del cinema comico saranno Keaton, Llyod, Langdon → i loro
diversi personaggi rappresentano diversi aspetti della società americana. Questo periodo aureo avrà fine
con l’avvento del sonoro, che renderà inadeguati i canoni estetici del cinema narrativo.

Keaton lavorò dapprima in teatro, poi, dal 1917, esordì nel cinema. La sua carriera durò un decennio
appena, ma fu folgorante. Egli interpretò e speso diresse una dozzina di lungometraggi e una ventina di
cortometraggi.

Egli fu definito “l’uomo che non ride mai” oppure “l’uomo con il volto di pietra”; i suoi film facevano ridere
ed erano pieni di gags divertenti, anche se il suo stile di recitazione andava apertamente contro corrente,
era immutabile e pietrificato. La sua comicità era lontana dall’esperienza quotidiana, la sua concezione del
mondo “extraterrestre”. Fu amato dai surrealisti. Ebbe successo, ma probabilmente non fu capito fino in
fondo. La sua rappresentazione della realtà era geometrica e razionale. L’assenza di un’apparente e
esplicita drammaticità, di una carica umana evidente e di un approfondimento psicologico del personaggio
era frutto di un cosciente e rigoroso impegno artistico. La sua recitazione era controllatissima e quasi
innaturale, le sue avventure lineari e meccaniche. Keaton non era interessato all’apparenza delle cose ma
piuttosto alla loro essenza. Il suo cinema aveva un carattere astratto, antidrammatico, antinarrativo,
antipsicologico e antimoralistico: questi tratti erano una condizione per estrarre dai fatti quotidiani la loro
motivazione profonda, per portare a compimento il suo discorso sull’uomo e sul suo senso di alienazione in
una società dominata da macchine e oggetti. Era lontano da un’adesione sentimentale ai fatti della vita,
alieno a un atteggiamento critico nei confronti delle situazioni esistenziali: la sua posizione era “atarassia”
(libera dalle passioni) di fronte alle vicende umane, distante: la sua era la figura dell’osservatore del mondo
e della società. L’universo keatoniano era uno specchio deformante della realtà fenomenica → poetica
dell’astrazione intellettuale. Qualche opera:
- Accidenti… che ospitalità! (1923) → amore/odio rapporto uomini/oggetti
- Come vinsi la guerra (1926) → giudizio di valore sulla civiltà delle macchine e sul sodalizio uomo/macchina
- La palla n. 13 (1924) → riflessione sull’alienazione cinematografica; alienazione dell’uomo nella civiltà
meccanizzata e sulla difficoltà del suo inserimento in società
- Il cameraman (1928) → analisi del fenomeno cinematografico e delle possibilità della cinecamera di
rappresentare la realtà fenomenica; questo film è considerato uno dei punti più alti raggiunti da Keaton
nell’arte del comico. Pone il problema della rappresentazione della realtà, ossia la possibilità che l’uomo ha

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di riprodurre meccanicamente i fatti reali e al tempo stesso di manipolarli a proprio piacimento facendoli
apparire come autentici. Posizione distaccata, apparentemente acritica e indifferente; opera con funzione
demitizzante.

- centralità tema uomo/macchina nella sua opera


- poetica demitizzante; messa in crisi delle tradizioni e pratiche sociali americane (es. matrimonio come
condizione per ottenere eredità)

L’avvento del sonoro mette in crisi Keaton, con il finire degli anni Venti la sua stagione era ormai compiuta.
Prima di morire interpretò lo sperimentale Atto senza parole di Beckett.

Keaton fu molto discreto nell’impiego della cinecamera, in sintonia con la ricercata sottrazione che è una
caratteristica peculiare del suo modo di intendere il cinema. E’ interessato a sottolineare i rapporti
intercorrenti fra i personaggi e l’ambiente che li circonda. La recitazione è trattenuta, tenuta sul piano
dell’uniformità, quasi astratta, fuori dai canoni di psicologismo e naturalismo. Si uniforma a un ambiente
rappresentato nelle sue caratteristiche essenziali.

Llyod → si affermò come attore a partire dal 1915 in una serie di film comici prodotti dall’amico Hal Roach,
che diventò uno dei più noti produttori e registi del cinema comico americano fra le due guerre. Verso il
1917 si andò precisando il suo nuovo tipo di comicità: egli impersonava il classico giovanotto americano, un
po’ impacciato, pronto ad affrontare rischi vari per amore della sua ragazza. Intrepido, leale, un paio di
occhiali rotondi che ne accentuavano la riservatezza erano il suo marchio più evidente. I suoi film erano
costruiti sui casi che il personaggio doveva affrontare per affermare la sua personalità e mostrarsi degno
dell’amore della ragazza. Erano lontani dal ritrarre la realtà con un tratto ironico, satirico, graffiante.

Langdon → i suoi primi film furono del 1924. Furono accolti con una certa sorpresa dalla critica e dal
pubblico, perché il suo personaggio si staccava nettamente da quelli sennettiani. Egli elaborò una comicità
in cui l’elemento patetico e malinconico costituiva uno dei caratteri fondamentali del personaggio,
sognatore, imbambolato, incapace di inserirsi attivamente in società, semplice, puro, ingenuo quindi spesso
truffato. Ha il volto infantile dell’ingenuità. Il mondo viene rappresentato in modo incantato, fiabesco, dove
i valori che contano sono onestà, lealtà, altruismo, sincerità.

La vecchia comicità sennettiana della slapstick era profondamente cambiata durante gli anni ’20, in cui c’è
stata la creazione di personaggi con caratteristiche psicologiche ben precise, una loro autonomia espressiva
e originalità. Il cinema comico aveva raggiunto una certa maturità e un certo peso all’interno della
produzione hollywoodiana. Nel periodo di affermazione mondiale del divismo, i comici stessi erano
diventati dei divi, anche se la parabola di Keaton, Llyod, Langdon stava volgendo al termine.

Il divismo comico ebbe una ripresa negli anni ’30, con Hal Roach (produttore e regista) e la coppia di attori
Laurel e Hardy. Roach sottolineò la staticità della situazione comica (in contrapposizione con il dinamismo
sennettiano). La sua comicità era situazionista, basata sulle reazioni psicologiche dei personaggi a una data
situazione, che prendeva l’avvio con un banale incidente, una contrarietà che provocava tutta una serie di
azioni e reazioni a catena sino alla catastrofe finale. L’interesse dello spettatore era spostato dalla storia
all’accadimento. La dimensione ideale per questo tipo di comicità fu il cortometraggio. Ebbero un enorme
successo di pubblico. La catena di azioni e reazioni di cui era protagonista la coppia di attori, formatasi nel
1926, costituiva il tessuto di una comicità esilarante, immediata, irresistibile, che era fuori dall’ironia e dal
sarcasmo, fine a sé stessa, ma comunque travolgente e di grande impatto.

Il cameraman (1928; Sedwick e Buster Keaton)


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- intreccio di momenti di divertimento con momenti più sentimentali
- poche, misuratissime e quasi impercettibili espressioni del volto di Keaton
- ripresa del tema del cinema e dei suoi rapporti con il reale: Keaton sottolinea l’estraneità del protagonista
rispetto al mondo e l’impossibilità di lui di viverci. L’oggetto della satira cinematografica è in particolare la
forma estrema dell’avanguardia più intellettualistica (es. Vertov, autore de L’uomo con la macchina da
presa; 1929), da una parte, e la modalità di ripresa del reale banale, al punto da poter essere filmata da una
scimmia → polemica verso il mondo hollywoodiano. Il cinema è mostrato sia come documento veritiero
della realtà sia come suo doppio, spesso falso
- il fare cinema è organizzato attorno a tre modalità di fondo: la maschera dell’attore, di origine teatrale; il
rapporto con lo spazio delimitato, di matrice figurativa e formale; l’uso del tempo come narrazione e come
scansione della narrazione, stretto rapporto con la narratività
- sapiente messinscena, efficace rapporto fra la dimensione spazio-temporale e il fisico dell’attore, davanti
alla macchina da presa

Verso un cinema sociale

A metà degli anni Venti Hollywood stabiliva leggi, modi e forme del mondo cinematografico: Il cinema
americano divenne un modello spettacolare, che andrà precisandosi ancor di più in schemi rigidi negli anni
Trenta. La prevalenza di interessi industriali e commerciali non precluse, però, lo spazio per un discorso
critico sulla realtà, sui problemi umani e sociali di quegli anni. Diversi autori contribuirono efficacemente
alla definizione del cinema come mezzo espressivo autonomo, come linguaggio artistico.

King Vidor → sviluppò la lezione di Griffith, maggiore attenzione ai casi personali e allo studio dei caratteri.
Si affermò internazionalmente con La grande parata (1925), film pacifista sulla Prima guerra mondiale, in
cui il discorso umanitario era affidato soprattutto ai sentimenti e alla facile commozione, e al supporto
drammatico che evidenziava gli orrori della guerra. Girò inoltre La folla (1928), in cui la descrizione delle
miserie della vita quotidiana era uno sguardo amaro e ironico sul sogno americano e il mito del self made
man. E’ un esempio del suo uso espressivo del linguaggio cinematografico (ampio ricorso a carrelli). La sua
produzione fu multiforme e eclettica. Alleluja (1929; uso del sonoro e del silenzio in funzione drammatica) e
Nostro pane quotidiano (1934; studio sociologico con intenti politici, che predica la necessità di un ritorno
alla terra per superare la grave crisi economica mondiale) sono considerati dalla critica i suoi capolavori.

Henry King → fece uso di una drammaturgia semplice ma efficace, basata sui buoni sentimenti, sui
contrasti drammatici elementari e un certo moralismo. Girò L’uomo e la bestia (1921) in cui fece una
minuziosa descrizione della provincia americana.

James Cruze, con I pionieri (1923), e John Ford, con Il cavallo d’acciaio, furono due autori fondamentali per
l’evoluzione del genere western, che si sviluppò su linee di maggior respiro epico, in cui l’azione cedeva il
posto, in parte, alla descrizione ambientale, a una maggiore caratterizzazione dei personaggi e analisi della
società.

Robert Flaherty e la nascita del documentario

L’alternativa al cinema spettacolare hollywoodiano (basato sulla finzione indipendentemente dal grado di
realismo delle immagini), che ebbe la sua grande stagione negli anni Venti, venne proposta dal regista
americano Robert Flaherty. Egli propose un nuovo modo di rappresentare la realtà, in modo non
manipolato, riconoscibile nei luoghi e nelle persone, in cui la verità dell’immagine non era il prodotto di una
scelta esterna ma nasceva dalla realtà stessa, con la partecipazione attiva e determinante degli uomini
raffigurati nelle loro azioni quotidiane. Si tratta di un documentarismo che si opponeva al cinegiornale
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d’attualità e ai prodotti di pura documentazione, perché gli uomini, le cose, i luoghi e le azioni non erano
semplici oggetti da osservare e da riprendere cinematograficamente, ma soggetti. Flaherty si opponeva alla
presunta oggettività della macchina da presa. Egli voleva che il cinema fosse compartecipe della vita
dell’uomo, per metterlo in luce e diffondere la sua autenticità. Nasceva quindi un cinema documentaristico
che poneva le basi per i successivi “cinema verità”, “film etnografici”, “docu-fiction”.

Per raggiungere un alto grado di verità e ridurre al minimo la contraffazione e limitare gli interventi
successivi (in fase di montaggio, ad esempio) occorreva secondo Flaherty che i protagonisti della storia
fossero pienamente coscienti della presenza della cinecamera e agissero di conseguenza. La durata della
rappresentazione doveva coincidere con quella della realtà fenomenica.
Questo modo di far cinema, si basava sulla coscienza che l’intervento della macchina da presa sulla realtà la
modifica, e che proprio questa realtà “modificata” potesse fornire gli elementi validi per mettere in luce la
sua autenticità.

Flaherty si accostò al cinema per caso, volendo in una spedizione al nord, tra il 1920 e il 1916, documentare
la vita degli esquimesi. Nel 1920 compì un altro viaggio, nelle regioni artiche canadesi, da cui trarrà il
materiale per il suo primo documentario, che avrà risonanza mondiale, Nanuk l’esquimese (1922). Egli
riprese la vita di un esquimese e della sua famiglia, che aveva i toni di un dramma epico pur conservando il
suo carattere di descrizione minuta di fatti e azioni quotidiani, perché dalle immagini emergeva il conflitto
fra uomo e natura, che sarà una costante nell’opera successiva dell’autore. Non siamo sul piano del
documentario freddo, passivo, perché i personaggi flahertiani partecipano direttamente a quanto accade
intorno a loro, si mettono deliberatamente in scena e compartecipano alla realizzazione del film. Questo
documentario ha il carattere della docu-fiction, infatti ricorre a una certa messa in scena, come testimonia
l’igloo costruito solo in parte per permettere di filmarne la vita al suo interno. Fu distribuito da una
compagnia indipendente.

In seguito al successo mondiale di questo documentario, la Paramount decise di finanziare la lavorazione di


Moana (o L’ultimo Eden; 1925). Questo documentario descrive vita e usanze di un popolo che vive allo
stato di natura. E’ sempre il dramma dell’uomo nella sua lotta per l’esistenza a costituire il tema ricorrente
della poetica dell’autore. Moana fu il primo episodio di una trilogia dei Mari del Sud, i cui episodi successivi
furono, però, solo in parte opera di Flaherty (Ombre bianche – 1928; Tabù – 1931). Egli dovette sostenere
una difficile collaborazione con Murnau, da cui risultò Tabù, opera disuguale e dilacerata da due diverse
tendenze etiche ed estetiche. Dopo questa opera Flaherty si allontanò dall’industria hollywoodiana, per
poter lavorare in libertà.

Trasferitosi in Gran Bretagna, nel 1934 Flaherty realizza L’uomo di Aran, in cui trovarono sintesi rigorosa le
diverse componenti della sua arte: realismo minuzioso, attenta descrizione di fatti e azioni quotidiane,
illustrazione documentaristica di usi e costumi di un popolo… Il documentario ritrae la vita quotidiana di
una famiglia di pescatori sulle isole di Aran. Le sequenze descrittive si caricano quasi impercettibilmente di
una certa drammaticità, rappresentativa della condizione umana → uomini che vivono a contatto con una
natura arida, minacciosa ma che nonostante le avversità riescono a costruirsi una loro vita → canto
discreto e sommesso al coraggio e alla bontà dell’uomo, spinto dall’istinto vitale e da uno spirito di
fratellanza.

L’autore tornò poi negli USA dove lavorò fra il ’39 e ’42 a un ampio documentario, commissionato dall’U.S.
Department of Agriculture, con lo scopo di studiare i problemi relativi all’abbandono dei campi e alla crisi
dell’agricoltura in seguito alla sia meccanizzazione. Realizzò quindi The Land (1942), che descriveva la
crudeltà della vita contadina, miserevole, sulla loro lotta quotidiana per la sopravvivenza, sui rapporti di
diseguaglianza fra uomini e sulla natura avversa → dramma eterno dell’esistenza umana calato in un
contesto preciso, i cui risvolti politici potevano essere evidenti, ma Flaherty rinunciava a svolgere un’analisi
in termini politici o ideologici.
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The Land si inseriva in una situazione storica che aveva visto l’affermarsi di un documentarismo impegnato
sia socialmente che politicamente, da parte di altri autori. Il documentario si era dunque sviluppato con
notevoli risultati artistici e culturali.

Realizzò in ultimo Louisiana Story (1946 – 1948), in cui il suo interesse era rivolto ai rapporti determinati
non solo fra l’uomo e l’ambiente ostile ma anche fra l’uomo e la macchina (che in questo caso determinava
l’abbandono forzato da parte dei cajun dalle loro terre al sopraggiungere dell’industrializzazione). Le
macchine non sono viste come mostri ma, semmai, come il male necessario per il progresso. Si conferma
l’attenzione che il regista ha sempre mostrato per la vita di individui ai margini del mondo moderno.

6. L’avanguardia cinematografica

Dalla teoria alla pratica

Le prime formulazioni teoriche sul cinema risalgono agli anni Dieci. E’ soprattutto dopo la Prima guerra
mondiale che, con l’affermarsi del cinema del grande spettacolo in America e in Europa, lo studio del
cinema da un punto di vista estetico è impostato su basi rigorose e porta a risultati di grande interesse e
valore (Balazs, Canudo, Delluc, Pudovkin, Ejzenstejn), attraverso la pubblicazione di libri od articoli su riviste
di cultura ed arte, se non specificatamente cinematografiche. Sono in particolare le riviste d’avanguardia a
dare spazio ai primi articoli sul cinema. I teorici studiano il cinema non solo sulle opere dei grandi registi
americano ed europei, ma anche tenendo d’occhio la produzione irregolare di film sperimentali realizzati
da artisti indipendenti al di fuori delle strutture dell’industria cinematografica. Queste sono presentate nei
circoli artistici e nelle salette specializzate, i primi cineclub nati a Parigi fra gli anni ’10 e ’20. Gli anni ’20
saranno la migliore stagione del cinema d’avanguardia, che portò alle estreme conseguenze le ricerche
linguistiche cinematografiche, rifiutando il cinema ufficiale e le sue leggi e affidandosi a un’autentica
sperimentazione nel tentativo di realizzare tutte le possibilità del cinema come forma di espressione
davvero autonoma.

1916 → Manifesto della cinematografia futurista (testo programmatico che ebbe scarsa influenza pratica
immediata); è nell’ambito del futurismo e della sua celebrazione dell’”era della macchina” e del “secolo
della tecnica” che il cinema viene per la prima volta analizzato come mezzo autonomo d’espressione, che
godeva del vantaggio di essere privo di passato e libero da tradizioni. Il cinema è pensato come mezzo che
deve creare una nuova realtà sensibile, grazie al montaggio e al movimento, senza limitarsi a riprodurre la
realtà fenomenica secondo vecchi scemi letterari/teatrali/fotografici. “Il cinematografo è un’arte a sé”; il
cinematografo è da liberare per farne “lo strumento ideale di una nuova arte”.
Nel manifesto si trovano alcune proposte interessanti:
- creazione di analogie cinematografiche, la realtà come uno dei due elementi dell’analogia
- simultaneità e compenetrazione di tempi e luoghi diversi
- drammi d’oggetti posti in condizioni anormali
- ricostruzioni irreali del corpo umano

La prima avanguardia cinematografica quindi si muove nel contesto futurista, a cui si rifarà esplicitamente e
più radicalmente il dadaismo.

Già alcuni anni prima del 1916 Bruno Corra e Arnaldo Ginna Corradini, letterati e pittori di formazione
futurista, si accostarono al cinema per utilizzarne le “possibilità cine-pittoriche”, dipingendo sulla pellicola,
ispirandosi a qualche brano musicale o poetico → primi brevi film astratti (1911); la successione di colori
doveva provocare nello spettatore un piacere estetico paragonabile sia alla suggestione della pittura sia a
quella della musica → sorta di visualizzazione cinematografica della pittura, della poesia e della musica. Si
tratta di uno dei primi tentativi di utilizzare il cinema come “arte della luce” e “arte del movimento”.

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Comunque, le dichiarazioni programmatiche contenute nel manifesto futurista non aprono una nuova
strada per l’arte cinematografica futurista, ma si limitano a dare veste ufficiale a un’esperienza filmica
precedente, già conclusa e non più ripresa in seguito, es. Vita futurista di Ginna (1916; perduto) e Thais di
Bragaglia (1916). Il discorso di un cinema alternativo alla grande produzione spettacolare, in ogni caso,
prende le mosse proprio dal futurismo.

Thais → coniuga una convenzionale storia melodrammatica (diva-film) a scenografie e costumi geometrici,
realizzati dal pittore Prampolini. E’ un esempio di cinema grafico che verrà ripreso e accentuato da Il
gabinetto del dottor Caligari. Il film, alla fine, non usciva da una concezione della regia cinematografica
come mise en scene in senso teatrale. I futuristi pensano al cinema come linguaggio ma non fanno ancora
di questa teoria una vera e propria prassi.

Il cinema astratto dei pittori

Fine anni Venti, Léger (pittore) scrive che i film d’avanguardia:


- sono fantasia e gioco contro l’ordine commerciale degli altri
- sono la rivincita dei pittori e dei poeti per un’arte in cui l’immagine deve essere tutto
- sono modi per provare che le arti dell’immaginazione possono, da sole, con i loro propri mezzi, costruire
dei film senza scenario, considerando l’immagine mobile come personaggio principale

C’è la volontà di sviluppare le possibilità artistiche del cinema al di fuori dei canoni spettacolari estranei
all’autenticità del cinema (ossia derivanti da altre arti). A dire il vero, però, questi poeti e pittori ridussero
molto spesso le potenzialità espressive del mezzo all’unica funzione dinamico-figurativa, con richiami
espliciti alla pittura e alla musica, senza rendersi conto che questa riduzione era un riportare nuovamente il
cinema sotto l’influenza di arti tradizionali: semplicemente la pittura e la musica anziché la letteratura e il
teatro, a cui si richiamava il cinema spettacolare, L’importanza dell’avanguardia cinematografica, in ogni
caso, sta soprattutto nei programmi e nei modelli ideologici proposti, che si inseriscono in un clima di
rinnovamento generale della cultura e dell’arte nel periodo fra le due guerre mondiali. L’avanguardia
cinematografica si preoccupò di dare al cinema un linguaggio proprio e non, come le avanguardie rivolte
alle altre arti, di combatterne l’usura con il rinnovamento. L’avanguardia esercitò una certa influenza sui
registi del cinema spettacolare e d’autore, ad esempio si pensi all’Espressionismo sul cinema tedesco e al
Cubofuturismo e Costruttivismo su quello sovietico.

Dopo gli esperimenti futuristi, il cinema d’avanguardia si sviluppò nell’ambiente del Dadaismo
internazionale (nato in Svizzera nel 1916, da Tzara e Ball, attorno a un gruppo di artisti e letterati che si
riunivano al Cabaret Voltaire di Zurigo), negli anni seguenti la Prima guerra mondiale. Il Dadaismo propose
una radicale negazione della cultura e dell’arte tradizionale, un superamento totale in direzione di una
poetica del caso e di un’arte globale. Gli artisti rifiutavano la morale corrente, in un atteggiamento di
rivolta; vollero un’arte contro tutte le arti, gratuita, casuale, ludica, anarchica, libera dal dover significare→
uso condizionato e non programmato di qualsiasi tecnica e reimpiego di oggetti d’uso comune in diversi
contesti ambientali (ready-made; Duchamp, Man Ray); integrazione dei diversi linguaggi espressivi e
superamento della specificità dell’arte per un affrancamento dalla tradizione artistica e culturale
occidentale. Il cinema, per la sua novità e mancanza di tradizione, per la molteplicità dei suoi usi e l’aspetto
meccanico e impersonale della sua tecnica era lo strumento ideale per realizzare questi propositi.

Eggeling e Ritcher furono gli artisti che con le loro sperimentazioni filmiche arrivarono al superamento
radicale della staticità della pittura e al “cinema astratto”, “pittura-dinamica” aperta alle suggestioni del
ritmo. Realizzarono dapprima dei “rotoli” come fossero “spartiti pittorici” costruiti secondo le regole della
composizione musicale. La musica era intesa non tanto come suono ma piuttosto come ritmo, arte del
movimento per eccellenza.

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Lo sviluppo ritmico di queste forme non poteva prendere corpo che sullo schermo cinematografico:
Rythmus 21 (1921; Ritcher) e Horizontal-Vertical Orchestra (1921; Eggeling).
Ritcher passerà dal cinema d’animazione a quello “dal vero”, abbandonando la raffigurazione astratta per
quella realistica. Sviluppò il suo discorso tecnico-estetico senza rinunciare alle preoccupazioni iniziali: alla
base dei suoi film c’è sempre il ritmo, es. Gioco di cappelli (1927): la tecnica dell’animazione è mescolata
alle normali riprese dal vero, in modo da ottenere effetti fantastici, grotteschi, satirici. Le sue opere sono
ispirate all’unione della ricerca sperimentale con la “logica” Dada, fondata sull’assurdo, il nonsense e il
gioco. Colaborò con Ernst, Duchamp; Léger, Ray per il film antologico (sei episodi) Dreams That Money Can
Buy (’44 – ’46) d’ispirazione surrealista, considerato da molti l’ultimo film dell’avanguardia o punto di
partenza del cinema sperimentale americano.

Eggeling nel 1925 crea Diagonal Symphonie portando a una conseguenza estrema e rigorosamente
controllata il superamento della pittura da cavalletto. Al tempo stesso opera un’attenta indagine del nuovo
mezzo espressivo impiegato.

Negli stessi anni opera anche Ruttmann, che parte dalle stesse ricerche estetiche e formali di Ritcher e
Eggeling. Ma già i suoi primi film, Opus (1921 – 1925) si rivelano molto diversi. Egli si dedica a un cinema
astratto più attento agli effetti spettacolari; acquisisce il nuovo mezzo in funzione delle sue possibilità di
racconto. Le immagini acquistano a poco a poco una loro dimensione spettacolare. Con Ritcher si ha invece
un’esigenza estetica ben precisa rivolta a superare la staticità della pittura verso un dinamismo che ne
conservi tuttavia le caratteristiche strutturali.
Con Ruttmann la struttura filmica vede il montaggio come l’equivalente del ritmo musicale, applicato al
vero. Ad esempio, in Berlino, sinfonia di una grande città (1929) la città è colta nelle sue strutture
geometriche. Invece di lavorare su forme astratte, l’autore sfrutta persone piazze edifici luci e movimento
per dar vita, attraverso appunto il montaggio, a una composizione visiva e ritmica suggestiva; compone una
“sinfonia metropolitana” fondata sul movimento, il ritmo e la composizione visiva.

Eggeling e Ritcher utilizzano la struttura musicale come un corrispettivo di quella cinematografica;


Ruttmann fa, invece, “musica ottica” adoperando la musica come supporto estetico per ottenere
suggestioni.

Dal Dadaismo al Surrealismo

Il Surrealismo nascerà dallo stesso Dadaismo. Entrambi si posero nei confronti degli altri gruppi
d’avanguardia in posizione alternativa che voleva una radicale e nuova concezione del mondo, una nuova
filosofia della vita e dell’arte che negasse ogni specializzazione artistica o intellettuale, in una sorta di
identificazione arte/vita, in un recupero e potenziamento di tutte le facoltà dell’uomo, consce o inconsce.

L’opera di altri autori cinematografici dell’avanguardia ebbero influenze diverse, oltre al Dadaismo e al
Surrealismo, come per esempio il Cubismo, il Futurismo, Razionalismo…

Léger vide nel cinema uno strumento per a un “nuovo realismo” che sapesse cogliere e rappresentare la
nuova civiltà della macchina, dove l’oggetto poteva essere protagonista. Realizzò un solo film, Ballet
mécanique (1923 – 1924), dove si liberò dall’obbligo di raccontare una storia e dove fece dell’oggetto e del
corpo oggettivato gli assoluti protagonisti di una danza di immagini e ritmi accompagnata da una musica
spezzata e cubista → plasticità, dinamismo, ritmo visivo erano le componenti cinematografiche essenziali.
Gli oggetti prendevano vita attraverso il loro dinamismo e l’intervento del montaggio, mentre le
componenti umane, tramite un insistito gioco di meccaniche ripetizioni, sembravano diventare oggetti,
cose.

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Duchamp realizzò, invece, nel 1925, Anemic Cinéma. I suoi esperimenti cinematografici vertevano sulla
possibilità di riprendere gli oggetti in movimento da differenti punti di vista in modo da metterne in luce la
poliespressività, attraverso un movimento ipnotico e giochi di parole squisitamente Dada.

Man Ray attorno al 1921 si avvicina al “rayograph”, procedimento tecnico già noto ma scarsamente
utilizzato, che consisteva nell’impressionare la pellicola esponendola direttamente alla luce dopo averla
cosparsa di oggetti minuti come spilli o puntine da disegno. Estenderà il rayograph al cinema, in Retour à la
raison (1923) dove lo utilizzerà con altri diversi materiali cinematografici (sequenze isolate, riprese in
esterni, ready-made…) in un assemblaggio gratuito e casuale all’insegna del caos e del rifiuto di ogni
struttura formale o contenutistica. Era tutto fuorché ragionevole. Casualità, improvvisazione, gioco
intellettuale, ossia elementi Dada, negavano ogni possibilità di classificazione artistica, teorizzazione. Si
appellava al concetto dadaista della non-arte. Il film era un oggetto dadaista il cui significato culturale era
direttamente proporzionale al suo potere d’urto nell’infrangere le convenzioni dell’arte e della cultura. In
sostanza, si voleva distruggere ogni tentativo di incasellare il cinema nelle categorie dell’arte e di delimitare
il suo campo d’azione agli “specifici (es. montaggio, primo piano…) che si andavano teorizzando e
sperimentando in quegli anni.

Man Ray si mosse nella stessa direzione negli anni seguenti, rifiutando la struttura formale e operando una
continua provocazione al gusto corrente con la rinuncia di ogni razionalità compositiva.

L’opera che per la maggior parte degli storici costituisce il prototipo dell’opera cinematografica dadaista è
Entr’acte (1924; Clair), che doveva essere un semplice intermezzo cinematografico di un balletto realizzato
da Picabia. Lo scenario è una semplice elencazione di otto episodi indipendenti e privi di logica, uniti fra
loro da alcune didascalie. Vi erano i caratteri peculiari del nonsense dadaista: gioco, gratuità, sberleffo
antiborghese, gusto della provocazione… Dal punto di vista formale lo scenario conferma la posizione
antiartistica dei dadaisti e la loro battaglia per il superamento della tradizione artistica ma anche della
sperimentazione formale delle avanguardie → le nega entrambe. Nella realizzazione filmica, tuttavia, Clair
accentuò l’aspetto formale, utilizzando ampiamente le tecniche d’avanguardia che il dadaismo rifiutava:
ritmo preciso, ottenuto da un montaggio rigoroso, struttura sinfonica complessa, preziosità immagini… Il
film fu realizzato con cura e perizia tecnica, estetica e artistica. In ogni caso, il film è esempio di un cinema
antitradizionale, illogico, provocatorio, il cui irrazionalismo non è gratuito ma derivante da una
riconsiderazione totale dell’uomo e delle sue funzioni vitali, alla luce della psicanalisi di Freud e della
filosofia di Marx, che sarà riscontrabile anche nel Surrealismo, il cui manifesto programmatico si deve a
Breton, 1924.

I surrealisti incontrarono il cinema negli anni in cui si affermò il loro movimento e, allo stesso tempo, si
stava affermando l’avanguardia cinematografica. I surrealisti erano grandi consumatori di film e si
interessarono anche alla grande produzione di consumo trascurata dalla nascente critica cinematografica.
Essi utilizzarono il cinema solo marginalmente rispetto alla loro produzione artistica abituale, anche per una
sola questione economica. Era più facile scrivere scenari, immaginare film, costruirsi un proprio cinema
mentale, che non realizzarli concretamente. Il cinema era di fatto per loro un esempio concreto di
surrealtà. La frequenza del cinema, la sua continua fruizione era una esaltante esperienza surrealista, anche
per via della sua dimensione onirica.

Esperienza onirica e scrittura automatica avevano grande importanza nella poetica surrealista, in quanto
aspetti essenziali per il lavoro sull’inconscio, attraverso il quale si poteva esplicitare l’animo umano e
andare oltre l’apparenza delle cose. Si trattava però di elementi difficilmente applicabili al cinema, vista la
macchinosità della sua tecnica. Anche l’amour fou, misto di passione e desiderio erotico incapace di
frenarsi, aveva la sua importanza, dato che consentiva all’uomo di spezzare il gioco del Super-Io e di ogni
dovere sociale. In sostanza il Surrealismo porta alle estreme conseguenze le istanze del Dadaismo.

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Gli storici concordano nell’individuare in tre film le opere più rappresentative del cinema surrealista:
- La coquille e le clergyman (1927; Artaud e Dulac)
- Un chien andalou (1928; Bunuel e Dalì)
- L’age d’or (1930; Bunuel e Dalì)

Un chien andalou si apre sull’immagine di un occhio tagliato da una lama di rasoio, vera e propria
dichiarazione di poetica nel suo invito a gettare un vecchio modo di guardare per appropriarsi di un altro
modo radicalmente nuovo e diverso → sguardo dell’inconscio. Il film narra, nella “logica” di un racconto
onirico, dell’impetuoso desiderio di un uomo e una donna di potersi congiungere, frustrato però da una
serie di eventi e situazioni imprevedibili.

Il tema dell’amour fou è ripreso da L’age d’or, composto da episodi abbastanza slegati in cui gli ostacoli che
si frappongono ai due amanti sono esplicitamente di ordine istituzionale; religione, politica, cultura
tradizionale. Il film è costellato da immagini e situazioni paradossali e provocanti, come il finale blasfemo in
cui Gesù è rappresentato come il duca di Blagis, un sadico e pervertito personaggio di Le centoventi
giornate di Sodoma di de Sade.

Nei film surrealisti vi è il disprezzo della tecnica a favore della preminenza del contenuto. Nei film di Bunuel
e Dalì si trova una “poetica del brutto”, in alternativa e opposizione all’arte e alla cultura tradizionalmente
borghesi; vi è quindi anche una polemica nei confronti del cinema d’avanguardia, quello di poeti e pittori di
Léger. Le immagini diventano per i surrealisti un supporto per messaggi rivoltosi, anarchici, antiborghesi,
anticlericali, d’esaltazione dell’individualismo, dell’amour fou, o della morte. La forma distrugge la sostanza:
la bella immagine, il virtuosismo tecnico-espressivo, la sinfonia visiva sono elementi formali estranei al
discorso violento che si vuol fare, ne annullano la portata rivoluzionaria e ne riducono la forza d’urto.
Attraverso l’immediatezza della realtà bruta è possibile costruire una nuova realtà, una surrealtà capace di
smascherare la falsità e i miti della cultura ufficiale. L’abbandono di tutti i canoni espressivi propri di tutte le
arti tradizionali e l’utilizzazione del mezzo cinematografico allo scopo di estrinsecare direttamente
un’esperienza interiore non è altro un modo per portare il film surrealista su un piano analogo a quello
della scrittura automatica, anche se il recupero è valido solo a livello teorico. Immagini e sequenze sono il
riflesso immediato e diretto di un’azione e di un pensiero che si configurano come surrealisti, la
trascuratezza formale con cui esse sono realizzate è l’unica via d’accesso all’autenticità di una particolare
azione o di un pensiero. La materia bruta mostrata sullo schermo, senza abbellimenti, fa di questi film degli
atti d’accusa contro le strutture borghesi della società. E’ una denuncia il cui valore risiede nel grado di
realismo e antiformalismo delle immagini.
Disprezzo della tecnica e preminenza del contenuto portano con sé l’esigenza di una esperienza globale. Il
superamento del Dadaismo è riscontrabile proprio nell’allargamento della rivolta contro l’arte e la cultura
tradizionali. Al “partire da zero” di Tsara (fare qualcosa di nuovo) si sostituisce l’”andare oltre” di Breton
(distruggendo quel che già c’è).

La forza dell’urto dell’immagine cinematografica surrealista, accresciuta dalla brutalità del suo realismo,
porta i film su un piano di violenza espressiva a volte intollerabile per la cultura borghese del periodo.
Alcuni film di Bunuel furono vietati a causa della violenza di alcune immagini, una violenza che andava al di
là della semplice rappresentazione naturalistica della realtà, perché intaccava le strutture di una società che
tollerava quella realtà o che ne era addirittura complice (es. rappresentazione della miseria). Erano opere
pericolose che furono censurate anche con la scusa che si trattasse di film senza valore artistico.

Entr’Acte (1924; Clair) → Dada

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- nasce come intermezzo di un balletto realizzato su uno schematico scenario del pittore e scrittore Picabia
- suggestivo montaggio di inquadrature, con effetti di sovrimpressione, split screen, ralenti e accelerazioni,
sequenze con un embrionale sviluppo narrativo
- critica al culto futurista delle macchine e della velocità nelle inquadrature con tanti mezzi di trasporto
- pellicola divisa in due parti; nella prima il ritmo è più lento e ricorre l’immagine di una ballerina, intorno a
cui si snodano variazioni di luce acqua e gioco; nella seconda il fulcro è il funerale che si sviluppa in una
successione di movimenti sempre più rapidi
- sono rintracciabili trucchi alla Méliès e gags sennettiane; il divertimento è studiato e razionale
- esempio significativo di un cinema antitradizionale, illogico, provocatorio, antiborghese, che sembra dare
corpo a un flusso di coscienza joyciano (associazioni di idee…)
- alternanza momenti di slow motion con momenti più frenetici, non sense, deformazioni ironiche della
realtà, sberleffo della logica e del decoro borghese
- uso delle tecniche d’avanguardia che proprio il dadaismo rifiutava e che caratterizzavano i film
sperimentali

Un chien andalou (1929; Bunuel)

- titolo enigmatico: nel film non ci sono riferimenti né all’Andalusia né a cani


- sceneggiatura scritta a partire da sogni di Bunuel e Dalì
- film privo di una linea narrativa, se non lievemente accennata; concatenazione di elementi incongrui, che
procede per analogie, associazioni, dissociazioni, contrapposizioni
- creazione di un effetto straniante, ottenuto con espedienti quali dissolvenze, ralenti, sovrapposizione;
colpisce lo spettatore con shock provocati da singole immagini (es. occhio tagliato con rasoio)
- occhio tagliato con rasoio → simbolo di iniziazione o castrazione, occhio nuovo, rifiuto conformismo dello
sguardo anche a costo di grandi sofferenze, per vedere ciò che non si è mai visto o mai voluto vedere (è lo
stesso Bunuel a tagliare l’occhio)
- regia sporca, sperimentale, con evidenti errori e intuizioni

Discorso sulla tecnica

Dadaisti e surrealisti → disprezzo per la tecnica


Alcuni autori d’avanguardia → indagine attenta delle possibilità espressive del linguaggio cinematografico
che contribuì alla sua evoluzione, in quanto furono messe in luce possibilità insospettate e furono portate
alle estreme conseguenze formali ricerche appena iniziate, stabilendo una sorta di repertorio figurativo e
ritmico.

Belazs diede nel 1930 una definizione negativa di cinema d’avanguardia → cinema che aveva posto, con la
sua impossibilità, un limite oltre il quale non si poteva andare, saggiando tutte le possibilità tecnico
espressive del mezzo fino all’assurdo. In questo modo aveva però anche segnato una strada lungo la quale
si poteva procedere.

Tra i ricercatori e sperimentatori che tentarono di analizzare i caratteri espressivi del cinema sul piano
teorico e pratico vi fu Moholy-Nagy. Le sue ricerche indagavano i rapporti fra arte e nuove tecnologie e una
“nuova arte della luce”. Le sue formulazioni teoriche vedevano nel cinema un ampliamento e
prolungamento delle facoltà visive e acustiche dell’uomo, verso una nuova acquisizione formale della realtà
fenomenica. Questi elementi trovarono riscontro nei suoi film, in cui impiegò le più diverse tecniche per
sperimentare tutte le trasformazioni, movimenti, sovrimpressioni, modificazioni della luce e dell’ombra…
Fece anche una serie di sperimentazioni nel campo del suono sintetico (creato attraverso l’impiego della

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cellula fotoelettrica) e nella ricerca di un nuovo alfabeto musicale costruito su suoni e rumori ottenuti
artificialmente.

In questo periodo il cinema stava raggiungendo da un lato risultati espressivi di altissimo livello (con la fine
del periodo muto) e dall’altro si avviava verso una profonda crisi artistico-produttiva (con gli inizi del
periodo sonoro). Il superamento di queste contraddizioni formali darà avvio a una nuova stagione del
cinema mondiale, estremamente ricca e varia, sostanzialmente diversa da quella precedente.

7. IL CINEMA DELL’UNIONE SOVIETICA

Verso un cinema rivoluzionario

Il cinema russo prima della rivoluzione si era sviluppato su basi artistiche e industriali non dissimili da quelle
degli altri Paesi europei e degli USA → aveva anche raggiunto una buona e a volte alta qualità formale.

Con la Rivoluzione d’ottobre, 1917, si affermano le avanguardie operaie e la storia della Russia subisce una
violenta cesura che modificherà radicalmente le strutture della società e i rapporti di produzione, che si
rifletteranno anche nell’arte e nella letteratura, quindi nello spettacolo.
I contrasti e le violente lotte di classe, la guerra civile, impongono una battuta d’arresto al cinema.
Con il trionfo della Rivoluzione d’ottobre, la riorganizzazione dello Stato e della società su nuove basi
ideologiche e politiche, anche il cinema subisce delle modificazioni strutturali che lo porteranno su un piano
totalmente diverso rispetto a quello delle economie capitalistiche.

Fra il ’17 e ’18 le più importanti società di produzione russe chiusero i battenti. Nel ’19 l’industria
cinematografica viene nazionalizzata. La situazione è alquanto critica: mancano attrezzature, personale
tecnico-artistico, pellicole… La rete delle sale cinematografiche necessitava di essere ristrutturata e
potenziata per penetrare i vasti strati della popolazione, in funzione politico-didattica.
Il cinema era concepito come mezzo di istruzione del popolo, documentazione e propaganda →
l’immediatezza della documentazione e l’efficacia del discorso illustrativo ne facevano uno strumento
ideale per rivolgersi a un pubblico in larga misura analfabeta.
L’intento educativo troverà la sua più rigorosa applicazione nei film documentari e di attualità, ma sarà il
punto di partenza anche per i film spettacolari.
Per Lenin il cinema è la più importante di tutte le arti, perché ha un carattere e una funzione
autenticamente rivoluzionaria, didattica ed educativa, propagandistica e politica.
Il nuovo interesse dei dirigenti sovietici verso il cinema facilita la ripresa della produzione cinematografica e
consente la riorganizzazione dell’industria, su nuove basi → cinema autenticamente nuovo.
Accanto ad alcuni artisti di formazione prerivoluzionaria, se ne affermeranno altri come Kulesov, Pudovkin,
Vertov.

Nel 1922 nasce la prima Scuola statale di cinematografia. Viene inoltre fondata la Goskino, una nuova
compagnia con il compito di rilanciare l’industria cinematografica controllandone la produzione,
distribuzione ed esercizio. Questa produrrà nel 1925 La corazzata Potemkin, che renderà celebre il cinema
sovietico in tutto il mondo. Alla Goskino si aggiungerà, poi, la Sovkino, strettamente legata alla politica
governativa, con il compito di contribuire alla diffusione del cinema in tutto il paese (utilizzò treni
equipaggiati per le proiezioni). Una terza compagnia, nota in particolare per aver realizzato i film di
Pudovkin, è la Mezhapbom-Russ.

La produzione, in tale contesto storico, sarà ovviamente strettamente legata alle esigenze del partito
comunista e alle direttive culturali del governo. Gli anni Venti, tuttavia, sono ancora un periodo di relativa
libertà, in quanto le preoccupazioni economiche e sociali del governo sovietico erano tali da investire in
altri campi gli sforzi di rinnovamento e trasformazione. I registi innovatori riuscirono quindi a sviluppare il
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loro discorso con una relativa libertà. Saranno gli inizi degli anni Trenta, con la teorizzazione del “realismo
socialista” e l’affermarsi della linea politica staliniana e del potere personale di Stalin a dettare imposizioni
ancora più restrittive.

Proprio il successo internazionale raggiunto da alcuni capolavori del cinema, come La corrazzata Potemkin
e La madre (1926), rese il regima comunista più guardingo rispetto ai propri film e agevolò lo sviluppo di
una tendenza “anti-formalista” che considerava le sperimentazioni estetiche dei film come quelli di
Ejzenstejn e Vertov inadatte alle masse popolari. La Sovkino fu accusata di essere troppo tollerante verso
questi cineasti e di pensare più al pubblico occidentale che a quello del proprio paese.

Nel 1930 fu fondata la Sojuzkino, incaricata di presiedere a tutte le produzioni delle repubbliche socialiste e
sovietiche, così come a distribuzione e esercizio → normalizzazione dei film sul piano dei contenuti e su
quello formale → fine della stagione delle avanguardie e della sperimentazione; inizio della corrente del
realismo socialista.

Il cinema sovietico degli anni Venti fu dunque condizionato dalla politica, ma anche dal dibattito estetico
che si stava sviluppando nei circoli dell’avanguardia artistica e letteraria. Il cinema come nuovo linguaggio
visivo costituiva il fulcro del discorso teorico e programmatico anche nell’ambito della teoria e critica
letteraria. Furono pubblicati, in diverse riviste, interventi sui problemi formali del cinema e del teatro e sui
loro rapporti con le altre arti → scritti di Ejzenstejn, Vertov, Kulesov → cinema inteso come produttore di
immagini piuttosto che come riproduttore della realtà. I movimenti d’avanguardia non furono estranei,
dunque, alla creazione del primo cinema sovietico. Anzi, in larga misura ne determinarono le scelte teoriche
e ne favorirono le sperimentazioni pratiche. In ogni caso, problemi formali e vari dibattiti teorici erano
continuamente rapportati alla situazione storica contingente (lotta politica, trasformazione sociale).

Una delle correnti d’avanguardia che probabilmente ebbe un ruolo prominente nel cinema rivoluzionario
sovietico fu il Costruttivismo, formatosi intorno al 1920 (influenzato da Cubismo, Futurismo). Esso
sosteneva la funzione sociale dell’arte e concepiva il creatore non tanto come un’artista ma come un
artigiano, un tecnico che utilizzava un approccio strumentale e razionale verso i materiali, per la creazione
di determinati prodotti estetici. Il lavoro artistico era equiparato a quello meccanico, l’opera d’arte a una
macchina in grado di provocare precise reazioni nel suo fruitore → questo cinema farà del montaggio la sua
ragion d’essere.

Il cine-occhio di Dziga Vertov

Tra gli artisti rivoluzionari dell’avanguardia sovietica vi è Dziga Vertov. Egli ebbe una formazione musicale e
fu influenzato dal futurismo italiano e dal costruttivismo. Si accostò al cinema negli anni della guerra civile
collaborando alla redazione di un cinegiornale, dedicandosi in particolare alla selezione del materiale
cinematografico e al montaggio.

Creerà il primo gruppo di cineoperatori, i kinoki (cineocchi), di cui si servì per la realizzazione dei suoi
lungometraggi successivi. Il movimento dei kinoki, analogamente a quello di altri artisti d’avanguardia come
ad esempio i cubofuturisti o i costruttivisti, costituì una precisa tendenza teorica, oltre che pratica, del
cinema sovietico.

1922 → manifesto dei kinoki → vi si riscontrano i principi basilari del cinema vertoviano, inteso come
superamento radicale del cinema spettacolare, considerato da Vertov una derivazione dal teatro e dalla
letteratura, che opprime e aliena le classi subalterne → “il cine-dramma è l’oppio dei popoli”. Egli si oppose
alla concezione borghese dell’arte come duplicazione del reale o falsificazione dei dati immediati
dell’esperienza attraverso la negazione dell’attore e dell’elaborazione drammatica e narrativa della realtà
→ affermazione del cinema che vuole “cogliere la vita alla sprovvista” e fondarsi sulle “immagini-fatto”. Egli
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voleva, al posto dei surrogati della vita (rappresentazione teatrale, dramma cinematografico ecc.), i fatti.
Tuttavia, le immagini-fatto, sulla base di una elaborazione formale della materia non lontana dai concetti
espressi dai costruttivisti, dovevano essere “manipolate”, dovevano produrre “immagini nuove” che
dessero alla realtà fenomenica la corretta interpretazione critica e che fossero in grado di esprimere “il
punto di vista del proletariato”. Da qui la necessità dei “trucchi” (sovrimpressioni, schermi divisi ossia split-
screen, accelerati, rallentati ecc.) e soprattutto del montaggio, che Vertov intende non solo per ciò che
concerne il rapporto fra le inquadrature, ma anche come metodo che presiede le diverse fasi della
realizzazione di un film e che riguarda la selezione e la combinazione, ovvero la scelta e l’organizzazione dei
materiali. Nasce così la teoria del cine-occhio: esalta la potenzialità della macchina da presa e insiste sulla
superiorità dell’occhio meccanico, rispetto a quello umano. Il cine-occhio permette di vedere le cose così
come non le abbiamo mai viste.

Il cine-occhio (1924) → doveva essere il primo film di una serie di sei, raggruppati sotto il titolo di La vita
colta alla sprovvista. Verte sul contrasto tra il vecchio (lo zarismo) e il nuovo (il socialismo). Film imperfetto
a causa degli scarsi mezzi finanziari e attrezzature tecniche. Vi si individua già, però, una rigorosa
sperimentazione tecnico-formale che non era frutto di improvvisazione ma obbediva a un piano organico e
ideologico. L’avanguardia di Vertov differiva dalle correnti del dadaismo e del cinema “puro” e “assoluto”
per le implicazioni politiche e per la teoria cinematografica che contenevano → chiari ed espliciti intenti
politici e ideologici, nell’ambito del costruttivismo sovietico.

I film successivi saranno più compiuti per l’impiego dei vari procedimenti tecnico-espressivi già
sperimentati, che subiscono una sorta di revisione teorica, alla luce di una più corretta visione critica della
realtà e delle funzioni del linguaggio cinematografico come organizzatore di segni e produttore di
significati: Avanti, Soviet! (1926), La sesta parte del mondo (1926), L’undicesimo (1928) → tutti e tre film di
commissione. Si tratta delle opere tra le più rappresentative della teoria e della pratica di Vertov, che ne
denunciano però allo stesso tempo i limiti e le difficoltà → non sempre risolvevano la contraddizione tra un
autentico discorso critico e i modi del cinema di propaganda, tra il “miracolismo” della cinepresa e del
montaggio e le autentiche necessità espressive. In ogni caso si tratta di documentari che offrono non solo
una rappresentazione critica della situazione sovietica a metà degli anni Venti, ma anche una lezione di
cinema.

L’opera considerata capolavoro di Vertov è L’uomo con la macchina da presa (1929), sinfonia metropolitana
in cui la pratica cinematografica e la teoria estetica si fondono in un’opera che ha tutti i caratteri di un
trattato teorico e tecnico sul cinema, scritto con le immagini → saggio di metacinema, del cinema che si
interroga sul suo linguaggio. Il pubblico assiste a una serie di riprese cinematografiche, alla loro selezione, al
loro montaggio e proiezione in una successione di fasi esplicative che chiariscono dall’interno il fenomeno
della produzione di immagini e del loro significato. Il film fu accusato di formalismo e fu visto come esempio
evidente del limite di “miracolismo della cinecamera” con cui sommariamente si volle sintetizzare l’opera di
Vertov. L’opera è in realtà frutto di un paziente e approfondito lavoro di ricerca teorica e pratica, nel vivo
del confronto con la nuova realtà dell’URSS → tentativo di definire le nuove strutture della visione cinetica
della realtà (filo conduttore dell’intera opera vertoviana).

Il film può essere considerato come la summa del precedente lavoro dell’artista, ma anche come suo
epilogo (con l’eccezione di Sinfonia del bacino del Don, 1930 → sapiente uso del sonoro). L’opera seguente
di Vertov si svolgerà nell’ambito del “realismo socialista”, naturalmente reinterpretato alla luce delle
precedenti esperienze estetiche e formali, politiche e ideologiche → continuo richiamo a Lenin; l’opera si
colora dei toni d’esaltazione celebrativa in un contesto che è già quello del culto della personalità (Stalin).

Anni Seconda guerra mondiale → Vertov si occupa nuovamente di cinegiornali e documentari d’attualità; è
ormai lontano dagli anni della sperimentazione.

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L’uomo con la macchina da presa (1929; Vertov)

- documentario su una giornata a Mosca in cui un operatore riprende vari aspetti della vita quotidiana,
metropolitana (sinfonia metropolitana)
- ritrae fatti selezionati dalla vita di ricchi e lavoratori, montati vorticosamente al fine di restituire
un’interpretazione critica della realtà, a cui contribuiscono alcune immagini surreali
- uniche didascalie presenti nel film → avvertenza iniziale che fa presente agli spettatori che il film è un
esperimento di trascrizione cinematografica; l’intento è quello di creare un linguaggio cinematografico
“assoluto”, sciolto dai legami con il linguaggio teatrale e letterario
- Vertov è fautore convinto di un cinema non-narrativo (quindi non-borghese); dissemina la pellicola di
tracce minimali del racconto della giornata del cineoperatore, che non deve essere confuso con il vero
obiettivo del film, ossia l’operazione stessa del fare cinema, l’agire nella realtà e sulla realtà per mezzo dello
strumento “macchina da presa” → alla fine del film, non a caso, la cinepresa è in grado di muoversi da sola
e sostituirà al proprio obiettivo un occhio umano
- formulazione teorica del cine-occhio → dal cinema doveva essere bandito tutto ciò che non era preso “dal
vero” → compito della ripresa era cogliere la vita all’improvviso, attribuendo valenza artistica al montaggio,
alle scelte ritmiche, alla giustapposizione delle inquadrature
- manifesto sperimentale che molto deve alle suggestioni delle avanguardie artistiche di inizio secolo:
estetica della velocità futurista, effetti visivi di matrice costruttivista (inquadrature inclinate e schermo
diviso in due, secondo una logica di scomposizione e ricomposizione delle immagini, sovraimpressioni,
dissolvenze, ralenti…)
- assimilate le premesse tecniche e ambizioni creative del costruttivismo → realizzazione con risorse e
codici di vari linguaggi di una realtà nuova, omologa alla nuova realtà sociale
- opera meta-cinematografica
- realtà criticamente ricreata attraverso la mdp
- oltre alle potenzialità del linguaggio cinematografico, sono indagate anche la pratica dei cineasti e le loro
tentazioni voyeuristiche; la pellicola analizza e svela anche, ironicamente, il rapporto tra cinema e
spettatore, fin dall’inizio del film
- rivelazione dell’artificiosità del mezzo cinematografico attraverso la sistematica distruzione della
disponibilità dello spettatore all’identificazione e alla partecipazione emotiva (straniamento)
- Vertov affida al cinema il compito di creare il mondo e una nuova umanità, in un accanito richiamo dello
spettatore a se stesso, per scuotere il suo equilibrio passivo
- aspramente criticato come formalista ed estremista

Da Lev Kulesov a Vsevolod Pudovkin

Esordi di Kulesov → girava film documentari dal fronte, seguendo la situazione politica e militare dell’URSS
all’indomani della Rivoluzione. Con il materiale raccolto produsse un originale esperimento di film di
propaganda, metà documentario e metà di finzione → Dal fronte rosso (1920).
L’autore si era accostato al cinema prima di Vertov, come scenografo e regista prima della Rivoluzione.
Aveva creato un collettivo di lavoro, di cui fecero parte anche Pudovkin e Barnet, dando vita a una vera e
propria scuola di cinematografia in cui gli allievi apprendevano, sia teoricamente che praticamente, le
regole fondamentali di un cinema che voleva contrastare lo spettacolo usuale, di ispirazione teatrale o
letteraria, rifacendosi alle caratteristiche peculiari del nuovo mezzo tecnico-espressivo, ossia immagine e
montaggio.

Kulesov → esperimenti sul montaggio, di cui fu vero e proprio pioniere nell’URSS: diede vita all’“effetto
Kulesov”. Es. in un’occasione il regista accostò a tre identiche inquadrature di un attore, diverse immagini
(es. piatto di minestra, bara, bambina), dimostrando come in questo modo si ottenesse l’impressione di

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diverse emozioni sul viso dell’attore, nella realtà sempre uguale → dimostrò come il senso, nel cinema, non
fosse generato tanto dalle singole immagini quanto dall’associazione che fra esse il montaggio crea.
Dimostrò anche il potere del montaggio di creare città e volti immaginari.
Nei suoi esperimenti vi era un evidente impulso costruttivista che pensava al lavoro dell’artista secondo
una logica tecnico-scientifica simile a quella di un ingegnere o scienziato.

A differenza di Vertov, Kulesov riteneva che lo spettacolo potesse costituire una nuova realtà significante e
rivoluzionaria, purché il materiale cinematografico fosse impiegato in maniera corretta, ossia fuori degli
schemi teatrali o del dramma borghese.
Attori e scenografie, dunque, costituivano elementi essenziali della costruzione del film, che non poteva
fare a meno anche della costruzione di una sceneggiatura, un racconto che coinvolgesse in qualche misura
lo spettatore → l’importante era che questi elementi fossero controllati dal regista attraverso il montaggio.
Kulesov si ispirò al cinema americano, in particolare alla lezione di Griffith, in cui il montaggio aveva una
funzione determinante → suggestioni ritmiche e dinamiche che potevano essere riprese in altri contesti
drammatici.

Kulesov → discorso strutturalista: il significato del film deriva dal corretto impiego delle strutture
cinematografiche, quali:
- scelta immagini
- struttura dinamica del racconto
- montaggio creativo
- recitazione controllata attori
- integrazione azione e scenografia

L’importanza di Kulesov fu circoscritta soprattutto al campo della teoria e della didattica del cinema,
tuttavia realizzò diverse opere interessanti. Il primo film a soggetto che egli realizzò con gli allievi del suo
“laboratorio sperimentale” fu Le straordinarie avventure di Mr. West (1924) → esempio delle concezioni
rivoluzionarie di Kulesov riguardo al cinema spettacolare e originale saggio di cinema satirico, in cui il
coinvolgimento ironico dei generi cinematografici hollywoodiani serve a sorreggere un discorso politico di
chiaro intento propagandistico. Evidenzia i nuovi contenuti rivoluzionari della realtà sovietica per contrasto,
rispetto agli stilemi consueti del cinema di consumo.

Il raggio della morte (1925); Dura lex (1926) → storie di spie e cercatori d’oro; temi polemici e
propagandistici.

Tra gli allievi di Kulesov si impose Pudovkin → apprendistato tra il 1920 e 1925, realizza due cortometraggi
di stampo costruttivista → La febbre degli scacchi (1925) e La meccanica del cervello (1926).
Il suo lavoro creativo non era disgiunto da quello teorico (scrisse diversi opuscoli). La realizzazione di un film
era frutto di un attento studio del linguaggio filmico in tutte le sue componenti espressive e, dalla stesura
alla sceneggiatura al montaggio finale, il lavoro creativo si svolgeva come un processo unitario,
attentamente seguito in tutte le sue fasi.

La madre (1926) → primo maturo risultato di Pudovkin → fece proprie le esigenze rinnovatrici di Kulesov e
il suo principio del montaggio come base estetica del film, sviluppandone però maggiormente le
componenti artistiche e calandosi più direttamente nel vivo della realtà umana e sociale, di cui voleva
cogliere gli aspetti più “veri” e drammatici → approfondimento psicologico dei personaggi e della loro
collocazione in una determinata realtà o classe sociale. Pudovkin si preoccupò di realizzare un’opera che
coinvolgesse totalmente lo spettatore, a livello razionale e emozionale:
- stile epico-lirico
- immagini ricche di pathos

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- temi rivoluzionari (presa di coscienza, tema che sarà centrale in gran parte dell’opera del regista)
- analisi critica dei fatti e naturalismo confluiscono in una superiore unità drammatica
- montaggio lirico, analogico, metaforico, accelerato; immagini via via sempre più brevi e raccordate in
modo volutamente “sbagliato”
- direzione degli attori estremamente accurata e funzionale

Il film ebbe notevole successo di critica e pubblico. Fu giudicato, assieme a La corazzata Potemkin di
Ejzenstejn, l’opera che diede inizio al nuovo cinema sovietico rivoluzionario. Fu il primo episodio di una
sorta di trilogia dell’autore, sulla Rivoluzione e l’avvento del socialismo → discorso unitario:
- La fine di San Pietroburgo (1927)
- Tempeste sull’Asia (1929)

Strutturati come romanzi d’avventure di forte incidenza emotiva, in cui si può vedere l’influenza di Kulesov,
questi film sviluppano con estrema coerenza i principi del montaggio come base estetica del film, ma non
trascurano l’importanza dell’attore, non più considerato semplice “materiale plastico” ma nella sua
concretezza di essere umano, con una propria psicologia. In particolare, è in La madre e in Tempeste
sull’Asia che sono maggiori la vicenda individuale e il contrasto di psicologia e atteggiamenti personali. Il
dramma dell’individuo si inserisce in quello della collettività, si stabilisce un rapporto stretto fra
personaggio e ambiente storico e sociale → attore = elemento determinante nella costruzione del film.
Questa tendenza sarà una caratteristica non solo del Pudovkin maturo, ma anche di tutto il cinema
sovietico a partire dai primi anni ’30, in concomitanza con l’imposizione del “realismo socialista” come arte
di Stato.

L’avvento del sonoro segna la brusca fine di un periodo di grandi scoperte e invenzioni, perché costringe a
un riesame totale delle caratteristiche peculiari e delle possibilità del mezzo del linguaggio cinematografico
muto, in cui si era raggiunta una certa “perfezione”.

Nel 1928 Pudovkin e Ejsenstejn scrissero un articolo teorico sul cinema sonoro, considerato “manifesto
dell’asincronismo” in cui sostenevano la necessaria autonomia e indipendenza, a volte anche conflittualità,
dei suoni rispetto alle immagini.

Pudovkin girò due film costruiti sul suono, usato in funzione drammatica:
- Un caso semplice (1930 – 31) → realizzato muto, anche se concepito come sonoro; sorta di esperimento
della teoria espressa nel manifesto; saggio del cinema nuovo, in cui lo scenario emozionale era dato in
termini di pura visibilità → i conflitti psicologici erano risolti in una sorta di dilatazione del tempo filmico e
in una accentuazione del significato simbolico dell’immagine
- Il disertore (1933) → uso dell’asincronismo e di altri effetti ottenuti con il montaggio della colonna sonora
→ prevalsero sulla costruzione drammatica del film e sulla caratterizzazione del personaggio e
dell’ambiente

Gli anni ’30 e ’40 del cinema di Pudovkin furono segnati dall’avvento del realismo socialista.
Solo al termine della sua carriera, nel 1953, ritrovò l’antico vigore con un film rinnovatore rispetto alle
opere precedenti e alla situazione del cinema sovietico di quegli anni: Il ritorno di Vasili Bortnikov → duplice
piano della vicenda individuale e del dramma sociale.

Nello stesso anno morì Stalin. Si avviò lentamente il processo di destalinizzazione che prese le mosse
ufficialmente nel 1956 in occasione del XX Congresso del partito comunista dell’URSS. L’ultimo film di
Pudovkin annunciava il “disgelo”, attraverso la sua riproposta del tema d’indagine e rappresentazione
drammatica della vita quotidiana dei singoli, vista nelle sue diverse componenti, fuori degli schemi rigidi

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dell’arte programmata e propagandistica del realismo socialista.

Teoria, prassi e montaggio in Sergej M. Ejsenstejn

L’opera artistica e teorica di Ejsenstejn è stata considerata come rappresentativa del cinema sovietico tout
court, anche se debitrice del lavoro svolto da altri artisti e teorici come Vertov, Kulesov, Mejerchol’d e
Majakovskij. Ejsenstejn si differenziò tuttavia da questi artisti per la sua individualità. Nonostante le
difficoltà degli anni Trenta e Quaranta (sorte comune dei diversi artisti) l’opera di Ejsenstejn riuscì a non
esaurirsi in poco tempo e l’autore riuscì a proseguire dunque il discorso contenutistico e formale con
estrema coerenza stilistica. Ejsenstejn sviluppò un grande progetto di cinema rivoluzionario, costituito da
una profonda analisi del cinema come mezzo autonomo di rivelazione e interpretazione della realtà.
Influenzerà molti registi successivi, non solo sovietici.

Apprendistato → studi in ingegneria; prima esperienza artistica e politica nel turbine della Rivoluzione,
durante la quale lavorò per l’Esercito Rosso come scenografo, aiuto-regista e regista in un teatro di Mosca;
a contatto con artisti come Mejerchol’d e Majakovskij; l’apprendistato si svolse contemporaneamente in
differenti campi, per poi confluire nel 1924 nel cinema, con il primo film, Sciopero.

A differenza di Vertov, Ejsenstejn sosteneva l’importanza dello spettacolo e concepiva l’attrazione come un
“qualsiasi momento aggressivo” in grado di esercitare “sullo spettatore un effetto sensoriale e psicologico,
verificato sperimentalmente e calcolato matematicamente, tale da produrre determinate scosse emotive le
quali a loro volta, tutte insieme, determinano in chi le percepisce la condizione per recepire il lato ideale e
la finale conclusione ideologica dello spettacolo” → in sostanza attraverso il montaggio cinematografico
delle attrazioni si voleva colpire emozionalmente lo spettatore con una serie di shock visivi in grado di
produrre un determinato significato → da cine-occhio a cine-pugno.

Per Ejsenstejn non contava tanto la possibilità del cinema di rappresentare la realtà, quando quella di
poterla interpretare, di coglierne il senso proprio dietro la sua semplice apparenza; ovviamente
interpretazione e senso dell’autore erano legati all’ideologia comunista. Lo strumento primo per la
decifrazione della realtà era il montaggio → per Ejsenstejn aveva una funzione connotativa: associare due
immagini propriamente scelte può produrre un significato che non sta né nell’una né nell’altra, ma solo
nella loro associazione; l’associazione seguiva per lo più la logica del conflitto e poteva realizzarsi già
all’interno di una stessa inquadratura, pensata come cellula di montaggio. Il montaggio per Ejsenstejn
esiste già all’interno dell’inquadratura; è per lui presente in tutte le arti e fasi della scrittura filmica
(montaggio luci, colori, tempi, suoni…).

Sciopero (1924) → specie di trasposizione sullo schermo della sua teoria del “montaggio delle attrazioni”:
discorso sul teatro e sul nuovo concetto di spettacolo, sostanzialmente provocatorio, con influenze
futuriste e costruttiviste, che poteva essere esteso al cinema (dove anzi avrebbe trovato terreno più adatto
per la sperimentazione). Descrive uno sciopero e la sua repressione da parte della polizia zarista; vi si trova
il “montaggio delle attrazioni”, il recupero di immagini e situazioni provenienti dal mondo del circo e
dell’eccentrismo teatrale, il ricordo al “tipo” (rappresentativo di una certa condizione o classe sociale)
piuttosto che al personaggio, presenza di un soggetto più legato a situazioni collettive che individuali
(grandi differenze con Pudovkin).

Successivamente gira La corazzata Potemkin (1925), che contiene ulteriori sviluppi della sua ricerca. Parla
della rivoluzione mancata del 1905, in particolare dell’episodio dell’ammutinamento dell’equipaggio della
corazzata Potemkin → carica l’azione drammatica di una funzione politica esplicita, quasi un invito a
combattere contro l’oppressione e la tirannia. Il film è suddiviso, come una tragedia classica, in cinque atti;
si richiama dunque al teatro e riflette la precedente esperienza dell’autore. La struttura è compatta, anche
se articola all’interno di ogni atto una serie di elementi indipendenti collegati l’un l’atro da una precisa
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necessità narrativa e drammatica, che consente all’azione di procedere per successivi momenti di tensione
e di pausa. Conclude con un finale aperto, in cui la vittoria dei marinai della Potemki assume un chiaro
significato metaforico, superando il dato storico e distorcendolo, per accentuarne il contenuto
rivoluzionario e il carattere epico. Si tratta di un film il cui andamento ritmico è radicato nel contenuto
dell’opera; è quello della glorificazione della rivoluzione come necessaria trasformazione radicale delle
strutture repressive e ingiuste verso un’autentica liberazione dell’uomo in quanto essere sociale.
Il film ebbe grande successo di pubblico e di critica. Questa opera di Ejsenstejn fu considerata un esempio
eccellente di dramma cinematografico che distrugge le convenzioni narrative e drammatiche del cinema
precedente:
- grande forza spettacolare delle immagini
- montaggio geniale di Ejsenstejn; dilatazione del tempo dell’azione, caricato di una drammaticità sempre
crescente

Atto I: Uomini e vermi


Atto II: Dramma sul ponte di poppa
Atto III: L’appello del morto
Atto IV: La scalinata di Odessa
Atto V: Incontro con la squadra

Si tratta di un film che ha, però, anche dei limiti strutturali, in particolare per quanto riguarda gli shock che
non sempre diventavano motivo di riflessione critica e di approfondimento contenutistico (il dramma
colpiva più la sensibilità dello spettatore anziché la sua razionalità).

Negli anni successivi Ejsenstejn elabora sia sul pino teorico che pratico una più sofisticata e astratta teoria
di cinema e montaggio intellettuale → sintesi di arte e scienza. Si ritrova un esempio di montaggio
intellettuale in Ottobre (1927), film che si libera di qualsiasi funzione narrativa per dar vita a una
successione di immagini che mostrano, intorno alla figura del reazionario Kornilov, una serie di oggetti e
simboli di ricchezza, potere, restaurazione, patria, religione (tutto ciò che la rivoluzione dovrebbe spazzare
via) con l’esplicito fine di individuarne gli stetti legami e la loro funzione oppressiva.

Ejsenstejn e il suo cinema intellettuale sarà duramente criticato in URSS. Nel 1926, il film La linea generale,
che affrontava tra realtà e utopia il problema della collettivizzazione della campagna e della
meccanizzazione dell’agricoltura, fu interrotto. La politica era sempre più presente, a scapito della cultura,
che veniva considerata in maniera del tutto strumentale. La teoria del realismo socialista non era ancora
stata formulata e applicata rigorosamente, ma i dibattiti politico-culturali della fine degli anni Venti
accentuavano sempre di più la funzione subalterna dell’arte e della cultura. La campagna contro l’arte
d’avanguardia e il formalismo si faceva sempre più violenta. Il film di Ejsenstejn cercava di portare il
discorso politico da un livello emozionale a uno razionale, facendo uso di metafore visive, con una struttura
maggiormente libera da condizionamenti narrativi e drammatici; le componenti ideologiche e politiche
erano accentuate, senza rinunciare agli effetti di shock.

Ottobre (1927) → film con intenti apparentemente celebrativi del trionfo della rivoluzione; Ejsenstejn
utilizzò la descrizione documentaristica della crisi politica del governo di Kerenskij e del crollo definitivo
dello zarismo (assalto a Palazzo d’Inverno), in maniera eminentemente politica, sviluppando un discorso
intellettuale, che si basava sull’impiego rigoroso della metafora e sull’integrazione di immagini e didascalie
non più in funzione “drammatica” ma didascalica e razionale, es. sequenza in cui le didascalie dei ruoli e
delle cariche attribuite a Kerenskij sono mostrate in associazione ad immagini in cui si vede l’uomo salire
più volte sempre lo stesso tratto di scale del Palazzo d’Inverno → discredito satirico. Questo film è
considerato il lavoro più maturo della teoria e della pratica del cinema svolta da Ejsenstejn, nel tentativo di
fondare un cinema intellettuale, rivolto a un pubblico adulto, critico, razionalmente e culturalmente
55
partecipe, attento, in un certo senso intellettualmente collaborativo.

Dopo il 1929 Ejsenstejn fa un viaggio in Europa occidentale, dove incontra i più significativi artisti
dell’avanguardia politica e culturale e tiene importanti conferenze. Va ad Hollywood e poi si trasferisce in
Messico; qui tra il ’30 e ’32 gira molto materiale che avrebbe dovuto essere la base per un grande film epico
sulla storia del Messico, Que viva Mexico, progetto non terminato. Il fallimento di questa esperienza
determina una profonda crisi in Ejsenstejn, che rientra in URSS, dove però trova un clima diverso, dove la
l’arte è totalmente subordinata a uno scopo propagandistico: clima non più adatto alla ripresa di una
attività creativa originale. Ejsenstejn si dedica di più a problemi tecnici e teorici. Nel 1935 torna alla regia,
con Il prato di Bezin, anche questo un progetto fallito. Il film affrontava il tema del contrasto tra padri e figli
e quello controverso della collettivizzazione delle campagne → andava in una nuova direzione, quella dello
spettacolo totale, che doveva coinvolgere lo spettatore nella sua totalità, richiamandosi al concetto
wagneriano di opera d’arte totale. Questo sviluppo della poetica di Ejsenstejn trova compiuta realizzazione
nella successiva trilogia di Ivan Groznyj, interrotta questa per la prematura morte dell’artista.

Nel 1938 è incaricato di dirigere Aleksandr Nevskij, un film biografico-apologetico che rientrava nella nuova
politica culturale di esaltazione della cultura passata, con chiaro intento propagandistico. Ejsenstejn cerca
di non cadere totalmente negli schemi del culto della personalità, tentando un allargamento del discorso
critico oltre la figura del santo-condottiero e la sua azione politica, ma comunque sul piano stilistico è
preponderante un certo accademismo formale che denuncia l’interesse del regista rivolto soprattutto a
problemi di ordine estetico. Il film è una sorta di saggio di integrazione audiovisiva, in direzione di una cine-
opera di ispirazione wagneriana. Tale struttura polifonica verrà ripresa e meglio sviluppata in particolare sul
piano dell’integrazione del discorso estetico formale e contenutistico-ideologico in Ivan Groznyj. Ejsenstejn
ne completò solo i primi due episodi. L’argomento principale della trattazione drammatica sono il potere e
la sua degenerazione. Lo stile dell’opera è composito, si affida a un uso marcato della profondità di campo
e utilizza elementi tratti da varie tradizioni culturali e artistiche (espressionismo, poema epico, teatro
elisabettiano…) rivisitati alla luce di un originale concetto di poli espressività semantica propria del cinema,
a cui contribuisce per esempio l’uso del colore (dove giallo, rosso, nero sviluppano ognuno un tema preciso,
cupidigia, sangue, morte, dando vita a un sotto testo visivo e a una vera e propria drammaturgia del
colore). Ejsenstejn non opera un’esaltazione acritica dell’opera politica dello zar, così come era nelle
intenzioni di Stalin, ma fa un’analisi spregiudicata e acuta delle contraddizioni interne alla conquista e alla
gestione del potere, insistendo sulla rappresentazione di dubbi e incertezze di Ivan, attraverso la profondità
di campo, congiunta all’uso della luce (con cui crea, ad esempio, immagini in cui il protagonista è
schiacciato dalla sua stessa ombra) → la seconda parte del film verrà infatti bloccata.

In questi anni Ejsenstejn sviluppa ulteriormente, in La natura non indifferente, la sua attività teorica intono
al concetto di pathos e organicità dell’opera (“l’organicità dell’opera e il sentimento di organicità prodotto
dall’opera insorgono quando la legge di costruzione dell’opera corrisponde alle leggi di strutturazione dei
fenomeni della natura”). Il pathos è tra gli elementi che possono contribuire all’organicità dell’opera → si
tratta di ciò che costringe lo spettatore a balzare in piedi dalla sua sedia e a uscire da sé stesso → lo
conduce a uno stato di estasi (=essere fuori di sé) → spinge lo spettatore verso un nuovo stato, una diversa
condizione.

L’opera complessiva di Ejsenstejn fu acerbamente criticata e sostanzialmente incompresa in URSS per molti
anni, e solo dopo la destalinizzazione fu studiata con attenzione e rivalutata; essa va inserita in un più
ampio quadro culturale in cui il cinema costituisce la parte più vasta e importante, ma che comprende
anche teatro, letteratura, attività didattica, saggi teorici…

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La corazzata Potemkin (1926; Ejsenstejn)

- primo esempio compiuto di cinema rivoluzionario, che rivela l’adesione di Ejsenstejn al costruttivismo e
alle teorie formaliste, superandone però al contempo le istanze, individuando nel montaggio “il più potente
mezzo compositivo per dare sostanza al soggetto narrativo”
- messa in scena di un unico episodio della rivoluzione mancata del 1905: ammutinamento della corrazzata
Potemkin → si concretizzano qui le teorie sul montaggio cinematografico come conflitto di Ejsenstejn
- strutturato come una tragedia classica, in cinque atti
- il montaggio determina il significato dell’opera e il suo valore estetico, stabilendo i rapporti di tempo e
spazio e costruendo una narrazione fortemente drammatizzata
- utilizzo della teoria del montaggio delle attrazioni → libero montaggio di azioni (attrazioni)
arbitrariamente scelte e autonome (anche fuori dalla composizione data o dell’ambientazione del film)
dotate di un preciso orientamento verso un determinato effetto tematico finale → spettatore sottoposto
agli effetti di una continua collisione tra inquadrature successive
- successione dei piani in grado di costruire significati simbolici; singolo piano = cellula di montaggio dove si
può comporre una rappresentazione del conflitto (es. corpo del bambino ferito disteso in diagonale sulla
scalinata)

Lirismo, eccentrismo e formalismo

Dovcenko → pittore e letterato giunto tardi al cinema; rappresentante più significativo del cinema epico-
lirico, in cui la realtà umana e sociale è continuamente trasferita in termini di canto. I suoi film esaltano la
vita e l’amore, il coraggio e la sincerità, l’uomo “nuovo” nei suoi rapporti con la collettività, la natura, la
visione panica dell’esistenza… Per molti versi si contrappone ai film rivoluzionari di Vertov, Kilesov,
Pudovkin, Ejsenstejn.

Nei film di Dovcenko sono riscontrabili elementi autobiografici ed è avvertibile un discorso sulla natura e
sull’integrazione dell’uomo nel flusso naturale dell’evoluzione biologica, più che storica. Tuttavia, essi
hanno anche un intento didattico e documentaristico e sono connotati da forte impegno sociale e politico.
Vi si ritrovano i temi della rivoluzione e del socialismo, sempre inquadrati in una più ampia
rappresentazione dell’uomo e della società; ne vuole evidenziare i caratteri costanti → visione del mondo
umanistica e romantica.

Primi esperimenti → 1926/1927: affrontò direttamente i grandi temi della Rivoluzione e dell’avvento del
socialismo con La montagna incantata (1928), L’arsenale (1929), La terra (1930) → l’ambiente di queste tre
opere, che per certi versi costituiscono una trilogia, è la campagna ucraina di cui Dovcenko canta con
accenti di genuina partecipazione sentimentale la bellezza. Egli dà una rappresentazione del suo paese
venata di accenti romantici e da lirismo ma sempre sorretta da un vigile senso critico e impegno politico.
Dovcenko punta sui momenti di maggiore tensione emotiva, privilegiando l’attesa come situazione di
massima carica lirica, la violenza dei fatti come elemento epico. Il suo è uno stile ellittico, dato
dall’alternanza di dramma e contemplazione.
Il cinema poetico di Dovcenko si andrà trasformando negli anni Trenta, quando alla poesia della rivoluzione
subentrerà la prosa della costruzione dello Stato socialista. Anch’egli dovrà fare i conti con il realismo
sovietico, ma riuscirà comunque a continuare la sua attività con coerenza, nonostante subisca l’influenza
del mutato clima politico e culturale. Si adatta meglio di altri al realismo socialista, anche sul piano stilistico
e formale, perché per quanto lirico ed epico, il suo fondo naturalistico non contrastava con certi
presupposti del realismo. Si accentuano gli elementi retorici.
Una delle costanti di Dovcenko sarà il didascalismo; la funzione educatrice dell’arte determina certe scelte
stilistiche e la costruzione dello scenario, in cui l’alternanza degli elementi lirici ed epici e di quelli didattici
segue un tracciato rigorosamente predisposto → si ritrova nei film del periodo staliniano e ricompare in
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Micurin (1949), considerato il miglior film di Dovcenco da certi critici. Si tratta di una biografia di un
agronomo in cui vi è una lirica rappresentazione della natura, che si integra all’analisi delle stesse leggi
naturali attraverso il lavoro sperimentale del protagonista.

Il gruppo FEKS (fabbrica dell’attore eccentrico), costituitosi a Pietrogrado nel 1921, occupa un posto in
primo piano fra i movimenti del cinema sovietico di quel periodo. Era formato da pittori, attori, acrobati,
cineasti ecc. che si richiamavano ai manifesti del futurismo russo e italiano e alla nuova arte del futuro,
negatrice radicale del passatismo, meccanica e meccanizzata, antiborghese → elaborarono un programma
in cui propugnavano a fianco della rivoluzione politica e sociale anche una rivoluzione artistica.
L’eccentrismo proponeva un teatro di trucchi, inseguimenti, fughe, attori dai movimenti meccanizzati, testi
improvvisati: un teatro inteso come sintesi dei movimenti acrobatici, sportivi, di danza, meccanici…
Utilizzavano anche il cinema come elemento integrativo della composizione scenica → tipo di teatro più
vicino al circo e al teatro di varietà che al dramma borghese o alla tragedia classica; aveva molti punti in
comune con il cinema, in cui poteva trovare i mezzi tecnico-espressivi che meglio consentivano tutti quei
trucchi e movimenti sincopati.

Nel 1924 si dedicarono dunque al cinema Kozincev e Trauberg con Le avventure di Ottobrina, campionario
di trucchi eccentrici, invenzioni grottesche, ironiche, provocatorie (stile teatro varietà e circo equestre). Con
La grande ruota (1926) gli autori sviluppavano i concetti estetici dell’eccentrismo, mescolando elementi
disparati del cinema di quegli anni, sia sovietico che americano, in un connubio volutamente kitsch, che
svuotava del contenuto melodrammatico la storia per accentuare gli aspetti ironici e provocatori di una
rappresentazione affabulata della realtà, dai risvolti violentemente satirici e polemici.
Le opere seguenti avranno una maggiore cura formale, ma comunque il gruppo di film di Kozincev e
Trauberg forma un insieme unitario, influenzato in questa parziale modificazione dello stile dei due autori
dal “formalismo”. Ci fu un tentativo di superare lo schematismo della FEKS introducendovi elementi tratti
da più ampi contesti artistici e culturali, con influenze anche letterarie e pittoriche, attraverso l’uso di
scenari molto elaborati, il richiamo al teatro e al cinema espressionista… Alla base del discorso di Kozincev e
Trauberg rimase sempre, tuttavia, l’esigenza di non fermarsi alla riproduzione della realtà fenomenica, ma
di giungere a una sua interpretazione in termini puramente filmici, in cui i dati dell’esperienza erano
continuamente filtrati da uno stile personale, originale. Ciò è riscontrabile ne Il cappotto (1926), che utilizza
elementi narrativi e drammatici tratti da due racconti di Gogol’ → film in cui vi è la stilizzazione di
personaggi e ambiente, che gioca sui piani della realtà e della fantasia, della vita e del sogno, facendo un
ritratto amaro e disincantato dell’esistenza. Kozincev e Trauberg non modificarono, con il tempo, il loro
approccio alla realtà, che era un modo per opporsi all’invadente naturalismo, che nel volgere di pochi anni
sarebbe diventato l’unico genere artistico accettato ufficialmente → mettono in luce i risvolti grotteschi,
ironici, drammatici di una realtà che non poteva essere compresa sul piano della sua semplice riproduzione
cinematografica.

Negli anni del realismo socialista Kozincev e Trauberg realizzarono una sola opera, che solo
superficialmente e sul piano del soggetto era riducibile al genere, allora imperante, della biografia
romanzata dei grandi artefici della rivoluzione e dell’esaltazione dell’eroe positivo: Trilogia di Massimo
(1935 – 1939; La giovinezza di Massimo; Il ritorno di Massimo; Il quartiere di Viborg). Racconta la storia di
un giovane operaio che, divenuto bolscevico, combatte a fianco dei compagni fino al trionfo della
Rivoluzione. La rappresentazione è a prima vista piana, naturalistica, cronologica; si arricchisce invece, nel
corso dello svolgimento dei fatti, di elementi nuovi, allargando la prospettiva drammatica e sviluppando il
discorso ideologico-politico al di fuori dei canoni didascalici e prosaici del cinema di propaganda → esempio
originale e intelligente di superamento critico della teoria del realismo socialista.

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8. LA GRANDE STAGIONE DEL CINEMA MUTO EUROPEO

L’Europa dopo la fine della IGM è profondamente mutata. In certi casi, la situazione sfocerà in movimenti
eversivi di destra, dittature fasciste e fine delle democrazie liberali. In questa nuova situazione il cinema è in
una posizione abbastanza critica, sia perché deve reimpostare o potenziare il suo apparato industriale e
commerciale dopo la pausa bellica, sia perché deve rispondere alle nuove esigenze, frutto della crisi dei
valori e delle trasformazioni politiche e sociali di quegli anni. Il cinema europeo attraversa quindi una
stagione di grande incertezza, con il declino del settore in Danimarca, Svezia e Italia. Tuttavia, in alcuni
Paesi, come Germania e Francia, la situazione contingente (contrasti sociali e politici, avanguardie, alto
livello culturale) favorì una ripresa eccezionale.

Il cinema tedesco: espressionismo, “film da camera” e “nuova oggettività”

Germania dopo la IGM → sconfitta, schiacciata dai debiti e dall’inflazione che aveva ridotto i tedeschi alla
fame. La situazione tuttavia non incise negativamente sull’industria cinematografica tedesca che, anche
grazie all’inflazione, riusciva a vendere i suoi film negli altri paesi a prezzi estremamente competitivi.
Inoltre, proprio nei momenti socialmente difficili le persone scelgono di recarsi al cinema per dimenticare le
ansie della vita quotidiana.
Negli anni Venti il cinema tedesco diventa una solida industria e raggiunge un alto livello estetico,
diventando una realtà di punta nel cinema internazionale.
Tale sviluppo fu favorito da:
- scelta del governo di bloccare durante gli anni della guerra (’16-’20) l’importazione di film stranieri
- nascita nel 1917 della UFA, casa di produzione che avrà un ruolo di primo piano nel cinema tedesco

Le tendenze estetiche più importanti del cinema tedesco degli anni Venti furono:
- Espressionismo
- Kammerspiel (teatro da camera)
- Neue Sachlickeit (Nuova Oggettività)

L’Espressionismo si afferma in ambito pittorico alla fine del primo decennio del ‘900, per poi allargarsi man
mano a tutti gli altri ambiti artistici (teatro, letteratura, cinema). Ciò che caratterizza il movimento
espressionista è il ricorso a un segno distorto, come uno sforzo esasperato di esternazione di sentimenti
interiori, nel più totale discredito di ogni logica di verosimiglianza naturalistica. L’espressionismo tuttavia
non fu che una delle tendenze che segnarono questa stagione cinematografica. Sono pochi i film fino in
fondo espressionisti. Tra questi troviamo Il gabinetto del dottor Caligari (1919; Wiene; sceneggiato da Carl
Mayer), considerato prototipo del cinema espressionista, che contiene però elementi del romanticismo.
Aspetti formali e di poetica espressionista si ritrovano in molti altri film del cinema tedesco degli anni ‘20 →
panorama vario e articolato.

Il gabinetto del dottor Caligari narra la storia del dottor Caligari, il quale si serve di un sonnambulo per
compiere i suoi delitti. Una volta scoperto e arrestato, fugge in un ospedale psichiatrico di cui diventa
direttore. La vicenda dell’orrore ha chiari risvolti politici e ideologici (l’ospedale psichiatrico simboleggia lo
Stato governato da irresponsabili aguzzini), che furono smorzati per volontà del produttore, attraverso il
cambiamento del finale, in cui la storia diventa frutto dell’immaginazione di un malato di mente ricoverato
nella clinica psichiatrica. Si tratta del caso più radicale della tendenza espressionista del cinema tedesco:
“caligarismo”. L’Espressionismo cinematografico si caratterizza soprattutto per il suo lavoro di messinscena
(≠ montaggio), che si concentra sul contenuto dell’inquadratura e la costruzione di uno spazio dove gli
elementi puramente grafici hanno la meglio sulla simulazione del reale (influenze del futurista Thais). Le
scenografie sono alterate, frutto di una deformazione che procede per linee sghembe, oblique, a zig-zag,

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che falsano la prospettiva; alcuni oggetti sono di dimensione più grande del normale, le case sono distorte.
Lo spazio, in sostanza, assume su di sé le angosce, i dolori, le paure e le ossessioni dei personaggi, impressi
nello spazio rappresentato, alterato e allucinato, come se appartenesse a un incubo. La recitazione, quanto
le scenografie, è spinta al parossismo (esasperazione) → uso accentuato del movimento, del gesto, della
mimica facciale; trucco pesante, particolarmente evidente. Gli attori si integrano alle scenografie,
attraverso i costumi che ne riprendono il disegno e le pose che ne richiamano la struttura. La luce è uno
degli aspetti essenziali di questo cinema, che gioca su evidenti contrasti, sul rapporto di chiari e scuri, spazi
bui in cui solo qualcosa è illuminato, sulla presenza di ombre minacciose che evocano un mondo
enigmatico, in cui l’oscurità, le forze demoniache, il male sembrano sempre sul punto di avere la meglio
sulle istanze morali e il bene.
Il montaggio è parco (sobrio), il ritmo lento. Le inquadrature particolarmente lunghe e i movimenti di
macchina quasi del tutto assenti.
I protagonisti dei film espressionisti sono gli emarginati, gli ossessionati, i frustrati e angosciati. Soggetti
spesso scissi, entità alienate e guidate da delirio di onnipotenza: tiranni, doppi, cloni, ipnotizzatori, vampiri,
demoni, assassini…

I film tedeschi degli anni Venti mettono in luce in termini psicanalitici tutte le incertezze e le ambiguità
dell’Io. Molte di queste opere sono pervase dal senso di angoscia esistenziale, dalla follia e l’irrazionalità
della condizione umana, che riflette forse inconsciamente la Germania sconfitta del dopoguerra, la sua crisi
ideologica, politica e sociale, impregnata di insicurezza, pessimismo e senso di disfatta morale: es. Lo
studente di Praga (1913, 1926), Il Golem (1914,1920), Destino (1921; Lang), Nosferatu (1922; Murnau).

Una figura chiave del cinema tedesco degli anni Venti è lo sceneggiatore Carl Mayer, la cui opera si presta a
disegnare il passaggio dal cinema espressionista a quello del Kammerspiel, le cui origini si devono a
Reinhardt. Si tratta di uno spettacolo dal carattere intimista, per un pubblico ristretto (teatro da camera),
fondato sul rispetto dell’unità di tempo, luogo e azione e da un numero ristretto di personaggi. Mayer
sceneggio gran parte dei film con questa tendenza (es. L’ultima risata; 1924; Murnau).
Si trattava di un tipo di cinema in cui vi erano:
- dettagli con funzione evocativa
- raro uso delle didascalie
- rappresentazione disincantata, pessimistica, disillusa della realtà quotidiana colta in tutta la sua
mediocrità, di fatti comuni e abituali, personaggi antieroici per eccellenza
- tragedia della condizione umana; condizione di crisi destinata a sfociare in un gesto tragico e disperato

Rispetto ai film espressionisti lo stile si fece più semplice: si abbandonarono le scenografie distorte, i
contrasti di luce. I toni erano smorzati, attenuati, la recitazione minimale e attenta alle sfumature, supporto
di una rappresentazione il cui centro drammatico era il personaggio. Si fece uso in modo insistito ai
movimenti di macchina, spesso a ridosso degli interpreti, per stanarne ogni minimo sentimento.
I migliori film del Kammerspiel tentarono un discorso sull’uomo, di cui era messa in rilievo soprattutto la
perennità della situazione esistenziale, anche se non si trascurava la realtà sociale colta e rappresentata nei
suoi elementi drammatici (es. Trilogia della solitudine di Meyer: La rotaia – 1921, La notte di San Silvestro –
1923, L’ultimo uomo – 1924 → fallimento dell’individuo travolto dal destino, dall’ingiustizia immanente nei
rapporti umani e sociali; pessimismo del discorso di fondo dato dalle analogie dei tre fallimenti esistenziali
raccontati, in cui le cause sociali sono secondarie rispetto a quelle umane; concezione fatalistica
dell’esistenza).

Il legame fra Kammerspiel e espressionismo è stretto, e si vede nella riproposizione del tema della
negatività. Il Kammerspiel indica una tecnica di rappresentazione, un genere, piuttosto che una sua poetica.

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La terza tendenza del cinema tedesco degli anni Venti, non slegata da Kammerspiel e espressionismo, in
particolare nella sua vocazione al tragico e all’ineluttabilità del destino, è la Nuova Oggettività, di origini
pittoriche, legata alla critica della realtà sociale contemporanea. I film di tale tendenza hanno una certa
vocazione al realismo, privilegiano un’ambientazione urbana fatta di quartieri degradati dove regnano
miseria e vizio; denunciano le ingiustizie sociali e la crudeltà delle differenze di classe. I protagonisti sono
operai, disoccupati, criminali, prostitute, piccolo borghesi che si imbattono in questo mondo di miseria e
corruzione → nascono i drammi di strada, di cui l’esempio più noto è La strada (1923; Grune), film che
riprende il tema della solitudine esistenziale e il motivo formale dell’unità di tempo, luogo e azione.
La strada diviene vero e proprio simbolo della vita e delle sue trappole (film rappresentativi di questa
tendenza sono quelli di Jutzi, es. Nostro pane quotidiano – 1929, girato nelle miniere di carbone).

L’espressionismo dunque, che privilegiava al lavoro di montaggio quello sulla messinscena, fu accusato di
teatralità. Il cinema tedesco, tuttavia, diede un grande contributo alle possibilità espressive del linguaggio
cinematografico, per quanto riguarda luci, costumi, trucco, recitazione… Codici certo di derivazione
teatrale, ma propri anche del cinema e della sua natura espressiva. Inoltre, il contributo tedesco fu
importante anche per quanto riguarda i movimenti di macchina, non tanto in campo espressionista quanto
nel campo del Kammerspiel. Vi fu la volontà di dar vita a una cinecamera che si potesse muovere
liberamente nello spazio, la cosiddetta entfesselte camera (mdp slegata), in grado di sperimentare e
elaborare spettacolari movimenti (uso di bracci meccanici, gru, piattaforme girevoli…) → liberazione della
cinepresa e esaltazione delle sue possibilità dinamiche.
Il contributo tedesco fu importante anche per quanto riguarda gli effetti speciali: es. effetto Shufftan →
tecnica che consisteva nel proiettare e ingigantire attraverso un gioco di specchi un edificio disegnato su
cartone, facendolo entrare a far parte della scenografia che appariva così molto più ampia di quanto non
fosse realmente.

Il gabinetto del dottor Caligari (1920; Wiene)

- ritenuto manifesto dell’espressionismo cinematografico, presenta numerosi aspetti vicini all’immaginario


cubista e surrealista; elemento romantico della bella e del mostro
- nasce nel pieno della crisi morale, ideologica, politica e sociale della Germania del dopoguerra, sconfitta e
umiliata
- interrogazione cinematografica sulla verità del visibile e sulla sua ambiguità
- considerato dai sociologi come sintomo dell’instabilità psicologica che dagli anni Venti avrebbe prodotto la
resa del popolo tedesco alle seduzioni dell’autoritarismo
- sceneggiatura di Mayer e Janowitz
- dramma in sei atti sulla follia, sulla distinzione fra allucinazione e realtà, sull’ambiguità del sogno, sul
doppio
- scenografie allucinate, caratterizzate da una stilizzazione antinaturalistica, composta dagli artisti della
rivista d’arte espressionista Der Sturm
- dimensione plastica e artificiosa dell’immagine, quinte aggressivamente dipinte, geometria scomposta e
dai tracciati diagonali e distorti, spigoli appuntiti e taglienti, ombre minacciose, strade a zigzag, prospettive
deformate
- le distorsioni estreme cercano di esprimere le emozioni profonde, nascoste sotto la superficie della realtà
- recitazione molto teatrale, attori pesantemente truccati, quasi figurine dipinte o danzatori di uno
stralunato balletto
- contrasto bianco e nero, assenza di profondità, spazio prettamente bidimensionale
- ritmo lento, inquadrature che fanno largo uso di sovrimpressioni, angolature insolite, flou, mascherini; uso
di iris, foro circolare che si apre o stinge intorno ai visi per esasperarne ulteriormente le espressioni
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stravolte dall’angoscia
- rari movimenti di macchina
- flashback
- rapporto immediato con lo spettatore, quasi ipnotico; dimensione onirica e fantastica, contesto allucinato
e allucinante (pellicola capostipite del cinema fantastico e dell’horror)
- intenzioni allegoriche: racconto della follia individuale che riflette l’orrore di un ordine sociale che
pervertiva la libertà creativa dell’uomo (autorità perversa, passività del suddito) → finale smorzato per
volontà del produttore, che ne capovolse la conclusione e la cornice → racconto di un pazzo; voleva
svuotare di senso le intenzioni satiriche espresse dagli sceneggiatori contro l’autoritarismo, che rimane
però nell’angosciante soddisfazione finale del direttore del manicomio
- rappresentazione sarcastica dei luoghi deputati al potere (oggetti ingigantiti)

Friedrich Wilhelm Murnau: il lavoro sulla forma e lo scacco esistenziale

Opera dello sceneggiatore Carl Mayer → sorta di filo rosso che unisce esperienze estetiche e formali
differenti (espressionismo, Kammerspiel, nuova oggettività) sulla base di una medesima Weltanschauung (=
concezione del mondo, della vita, e del posto che l’uomo vi occupa).

Nel panorama della cinematografia tedesca muta spiccano alcune personalità d’artisti che si distinsero per
la loro originalità e per il carattere personale della loro poetica, non incasellabili in schemi di comodo: tra
questi Murnau. Giunse al cinema dopo aver compiuto studi letterari e filosofici ed aver fatto l’attore. Portò
nel suo lavoro cinematografico la sua precedente esperienza artistica e culturale, imponendosi per il rigore
dello stile e la ricerca incessante di un linguaggio specificatamente filmico. La sua produzione seguì sempre
un preciso intento artistico, ponendosi il problema della forma come struttura portante dell’intera
costruzione drammatica dell’opera. Si formò nel clima del primo espressionismo e visse l’esperienza bellica
in tutti i suoi orrori. Nell’opera di Murnau è presente un certo gusto per l’orrido, la difformità, il fascino del
terrore. Si tratta di reminiscenze romantiche e decadentistiche continuamente filtrate da un’acuta
osservazione delle contraddizioni dell’uomo, incapace di stabilire rapporti autenticamente umani nella sua
vita di relazione, chiuso nella sua individualità e solitudine. Si tratta di una poetica che si andrà meglio
definendo e approfondendo con la collaborazione dell’artista con Mayer. Tuttavia, già alcuni dei suoi film
precedenti, in particolare Nosferatu (1922; dal Dracula di Stocker) e Il fantasma (1922), il problema della
solitudine dell’uomo e del suo scacco esistenziale era presente.

Nosferatu → in questo film fatti e personaggi, storia fantastica e ambiente naturalistico, realtà e incubo
paiono fondersi in una superiore unità espressiva; la rappresentazione drammatica è continuamente
sottolineata dal tema dell’orrore, che nasce non da una deformazione esplicita della realtà, come nei film
caligaristi, ma da ambienti inconsueti e misteriosi, il più delle volte reali, che la cinecamera scopre come
parte di un mondo allucinato (castello, veliero, città). L’orrore nasce dunque da ambienti reali ma
inconsueti e misteriosi. Nel film la paura è la conseguenza del modo in cui, attraverso la lentezza dei gesti, i
contrasti di luce e ombra, i movimenti di macchina ridotti al minimo, l’uso della profondità di campo e del
fuoricampo, sono trasmesse le angosce profonde dell’animo umano, così come le vive il protagonista
vampiro, unico elemento trasfigurato e deforme. La realtà si manifesta nei suoi risvolti irrazionali. Il film ha i
toni di una disincantata rappresentazione dell’uomo, di cui lo stesso Nosferatu è metafora (anche se
incarna il male). Paure, angosce, mondo disumano possono essere combattuti solo sul piano dell’impegno
individuale, dell’amore, anche se si tratta di una battaglia destinata a fallire.

Lo scacco esistenziale è il tema di L’ultimo uomo, in Italia conosciuto come L’ultima risata (1924), realizzato
da Murnau in collaborazione con Mayer (trilogia della solitudine). E’ la storia di un usciere d’un grande
albergo che diviene guardiano di latrine; è affrontato il tema della tragedia del quotidiano, della perdita
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d’identità e soprattutto del suo ruolo nel definire i rapporti fra il singolo e la società. Questo film supera i
limiti del dramma individuale e ci da un’interpretazione dell’esistenza che si richiama alla poetica
dell’espressionismo e a una visione kafkiana dell’uomo e della società, messa in maggior luce dal finale, in
cui il protagonista, diventato improvvisamente milionario, viene accolto con grandi onori nello stesso
albergo in cui lavorava. L’ironia amara che scaturisce da questo capovolgimento grottesco di situazioni
sottolinea la degradazione morale e sociale del protagonista e della realtà. La cinecamera è indagatrice,
sempre in movimento; diventa mezzo di rivelazione della realtà, non come semplice calco o doppio, ma
come interpretazione formale di quella fenomenica.

In seguito, Murnau gira Tartufo (1925; da Molière) e Faust (1926), in cui approfondisce il discorso circa le
strutture spettacolari proprie del cinema, cercando di indagarne la natura illusoria e le possibilità espressive
autonome.
In Tartufo troviamo una trascrizione cinematografica originale, in cui il soggetto è il film nel film, ossia un
film che viene proiettato al protagonista della storia; il cinema è utilizzato come elemento drammatico
centrale di uno spettacolo cinematografico (= Amleto, Shakespeare). Questo espediente serve a Murnau
per svelare l’illusorietà e il gioco di finzione che accomunano la vita, il cinema e lo spettacolo.
Le due opere mettono in luce i risvolti crudeli, amari, negativi di una visione complessiva dell’uomo e della
società, venata da un profondo pessimismo.
Faust avrà un successo internazionale che porterà Murnau a Hollywood, dove collaborerà con Flaherty in
Tabu (1931). Girerà poi Aurora (1927), in cui ancora una volta il centro dell’azione drammatica è l’amore
come condizione necessaria per superare la solitudine dell’uomo e lo scacco dell’esistenza. Vi si trovano
suggestioni espressioniste. Murnau indaga le coscienze dei protagonisti cercando di coglierne dubbi e
incertezze, ansie e paure, sentimenti e stati d’animo universali. Rappresenta la tensione tra il bisogno di
sicurezza e quello di avventura, tra l’amore coniugale e la passione impetuosa, utilizzando ancora la mdp
come mezzo di rivelazione della realtà.

Nosferatu (1922; Murnau)

- contrasto tra i vari personaggi e i valori di cui sono portatori


- reaction shot (effetto di montaggio)
- falso raccordo di sguardo esemplare di uno dei momenti più intensi del film (tra due personaggi che si
trovano in luoghi diversi)
- inquietante ritratto di una città che tracolla, insieme ai suoi abitanti, impotente di fronte all’incedere del
male e dell’essere che lo incarna
- Nosferatu = tipico eroe espressionista, vittima di una solitudine senza fine e di un destino maledetto
- accurata riflessione sulla forma come elemento portante dell’intera costruzione drammatica
- tema del tragico, declinato in chiave fantastica e orrifica, in linea con la tradizione romantica propria del
cinema tedesco del primo dopoguerra (elementi romantici e decadentisti)
- girato quasi tutto in luoghi reali (≠ ambientazioni espressioniste e teatralità); il vampiro spaventa anche
perché calato in luoghi reali
- vi sono certe influenze espressioniste, ma Murnau non incute paura attraverso la deformazione delle
scene o ricorrendo a allucinazioni visionarie: la paura nasce dal fatto che il regista trasmette allo spettatore
le angosce profonde dell’animo umano
- solo il protagonista è deforme, naso adunco e dita ad artiglio
- la dimensione dell’orrore, l’inconsueto, il misterioso, l’abnorme non nascono dallo spavento suscitato
nello spettatore in modo immediato e gratuito ma vengono introdotti a poco a poco, attraverso il lento
incedere del protagonista, il continuo variare della luce sugli oggetti, i pochi e misurati movimenti di
macchina
- riflessione metafisica sul male e sul nulla, utilizzo di tutte le possibilità espressive del cinema (es. uso del
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negativo della pellicola per i boschi)
- film carico di simboli e metafore che sconfinano nel mondo dell’occultismo, trascendendo e spaziando su
figure, immagini e temi che rappresentano l’uomo e la sua esistenza
- presenza di presagi, dati dallo strano comportamento degli animali, dagli avvertimenti della gente…;
atmosfera raccapricciante da incubo
- vi è un’interpretazione psicanalitica in cui Nosferatu sarebbe il doppio di Hutter (l’agente immobiliare); si
tratta delle pulsioni dell’inconscio in conflitto con il Super-Io
- storia fantastica e ambiente naturalistico, realtà e dimensione onirica → intima unità
- nomi cambiati (es. al posto di Londra, Brema) rispetto al Dracula dello Stocker per questioni di diritti
d’autore

Il rigore geometrico di Fritz Lang

Lang sviluppò un rigoroso discorso sull’uomo e sulla società dandone un ritratto prospettico dominato dalla
lucida visione delle colpe e degli errori di una struttura sociale fondamentalmente ingiusta e disumana.
Viennese, studiò pittura e architettura; travasò nelle sue prime esperienze cinematografiche il gusto
eminentemente figurativo della composizione dell’immagine, della scenografia, dell’illuminazione,
sviluppando uno stile raffinato: ciò si vide in particolare nei due film considerati dalla critica fra i suoi più
importanti, ossia I Nibelunghi (1924) e Metropolis (1926). Qui i movimenti delle masse erano calibrati sul
ritmo di una rappresentazione spettacolare fortemente caratterizzata da elementi pittorici e architettonici,
in cui si ravvisa anche l’influenza del teatro di Reinhardt. Anche il ritmo della narrazione, in questi film,
seguiva la concezione scenografica dello spettacolo, con prevalenza di tempi lunghi, pause descrittive, lenti
movimenti all’interno del piano, montaggio di scarso significato drammatico… Lang è molto attento alla
composizione dell’inquadratura, attraverso principi simmetrici e elementi di geometria visiva.

L’elemento figurativo e teatrale, tuttavia, non fu predominante nell’opera di Lang. Anzi, nelle sue opere di
più forte rilievo drammatico, è il ritmo dell’azione a produrre la tensione che fa scaturire dai fatti il loro
risvolto politico. In questi film la composizione dell’immagine è sempre messa in rapporto alla
caratterizzazione dei personaggi, alla descrizione ambientale, alla narrazione dei fatti (es. Il dottor Mabuse
– 1922, M – 1931, Il testamento del dottor Mabuse – 1933).
Vi sono due aspetti, dunque, divergenti ma anche complementari, dell’opera di Lang:
- magniloquente, teatrale, scenografico
- drammatico, ritmico, narrativo

Egli esordì nel cinema nel 1916 come sceneggiatore. Tra i suoi primi film come regista vi è I ragni (1920), un
serial spionistico in cui si ravvisa il gusto per l’avventura, l’intrigo e le complicazioni narrative della storia,
che verrà accentuato nei film che l’autore girerà negli USA (dove si trasferirà dopo l’avvento di Hitler in
Germania, nel ’33).

I suoi film sviluppano un discorso di chiara denuncia politica, in cui fatti e personaggi assumono un
significato metaforico, attraverso una tecnica romanzesca e una struttura narrativa basata su colpi di scena,
inseguimenti, tensione drammatica, montaggio ritmico ecc. (fatta eccezione de I Nibelunghi e Metropolis).
l’atmosfera da incubo che viene dipinta è una metafora della Germania sconfitta, della delusione, della
paura del futuro, delle incertezze e confusioni politiche di quegli anni. La visione di Lang non è mai
deformata (come nell’espressionismo), lo sguardo è lucido, razionale, geometrico: la sua è una visione
chiara e netta del dramma della condizione umana.

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Metropolis (1926) è un film dalle imponenti scenografie, d’argomento fantascientifico, che descrive i
contrasti di classe in una società del futuro dominata dallo sfruttamento e dalla meccanizzazione, in cui la
dinamica dello spettacolo fine a sé stesso cede il posto a considerazioni umani e sociali più profonde,
pervase da uno spirito umanitario e di riconciliazione sociale. Lang svolge un discorso sull’uomo, vittima
delle ingiustizie sociali, schiavo del potere, bisognoso di riscatto non soltanto morale e spirituale ma anche
politico e sociale.

Il dottor Mabuse (1922) e il suo seguito Il testamento del dottor Mabuse (1933) sono costruiti intorno a una
diabolica figura di criminale, ispirata al superuomo nietzchiano e alla sua volontà di potenza, che si muove a
suo agio nel caos della Germania del dopoguerra, direttamente riconducibile a un riflesso di una più
generale angoscia che Lang analizza con lucidità nelle sue componenti, piuttosto che all’avvento del
nazismo in sé (lo trascende).

I film di Lang offrono un ritratto prospettico autenticamente drammatico della realtà sociale della
Germania nel periodo che va dalla sconfitta postbellica del ’18 alla conquista del potere da parte di Hitler
nel ’33, anno in cui Lang se ne andrà per poi arrivare a Hollywood. Qui ricomincerà un’intensa carriera
registica, in particolare nell’ambito poliziesco e noir. Le prime opere che diresse furono Furia (1936) e Sono
innocente! (1937), in cui fece uno studio attento della società americana degli anni Trenta: egli mise a
fuoco certi aspetti contraddittori del costume sociale americano, rivelando i lati nascosti di una democrazia
che tollerava l’ingiustizia, la sopraffazione, la violenza e l’intolleranza → tema fondamentale del Lang
americano: lotta, senza garanzie, dell’uomo contro un destino che assai di frequente incarna i meccanismi
sociali. La donna del ritratto (1944), La strada scarlatta (1945), Il grande caldo (1953) sono solo alcuni dei
film che approfondiscono il discorso sull’uomo e sulla società, nei suoi meccanismi complessi e risvolti
drammatici, attraverso gli schemi della narrativa gialla e poliziesca, rielaborati con uno stile estremamente
lucido e essenziale. Il soggetto dei film è sempre un pretesto per indagare la realtà dietro le apparenze,
lungo il sottile confine del dubbio, dell’ambiguità, della polivalenza delle situazioni, delle contraddizioni, di
un certo fascino del male, di personaggi deboli e perdenti. Lang abbandona via via le regole della
drammaturgia classica, rinunciando ad approfondire psicologicamente i personaggi o socialmente le
situazioni, per concentrare l’attenzione sulla meccanica del racconto, inteso come struttura portante di una
dimostrazione razionale dell’irrazionalità dell’esistenza. Al centro dei suoi film si trova il più delle volte il
colpevole-innocente, un personaggio ambiguo in una situazione ambigua, che sfugge a una dimensione
univoca. Lang è affascinato dal dubbio, narra storie che mettono in crisi la presunta casualità di ogni
situazione, la razionalità del comportamento umano. E’ interessato all’aspetto teorico del dubbio, al
meccanismo sociale per cui la realtà appare contraddittoria e non facilmente decifrabile → stile freddo e
rigoroso, rinuncia a ogni effetto spettacolare, a ogni soluzione drammatica di facile presa sul pubblico
(Hitchcock ricorre invece alo shock visivo o narrativo per capovolgere, in extremis, una situazione che aveva
lentamente descritto nell’ambito di una normalità assoluta).

Il cinema di Lang fu emblematico della situazione morale e politica, ideologica e sociale della Repubblica di
Weimar, riflettendone variamente contraddizioni e confitti; fu invece meno emblematica per quanto
riguarda la società americana degli anni ’30, ’40, ’50, di cui diede un quadro volutamente parziale, che
utilizzò come pretesto per un più ampio discorso sull’uomo e sui rapporti sociali. Tuttavia, la
rappresentazione che Lang dà della realtà si richiama di continuo al concetto di “colpevolezza relativa”, per
cui i suoi film forniscono una serie di indicazioni lucide e razionali sui risvolti tragici e violenti della
rispettabilità borghese e sulla necessità di andare oltre l’apparenza dei fatti. Sviluppa un discorso
approfondito sull’uomo e sulla società attraverso una razionalizzazione del dramma e lo svuotamento
progressivo del carattere puramente ludico del cinema di consumo.

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Metropolis (1927; Lang)

- melodrammatica storia fantascientifica ambientata in una megalopoli del futuro


- imponenti scenografie realizzate attraverso la combinazione di modellini e scenografie a grandezza
naturale (effetto Shufftan)
- movimento delle masse → meccanico, ordinato, che lo rende simile a un robot che si contrappone al
movimento paradossalmente più vivace delle macchine (geometrici movimenti operai-schiavi); scomposto,
ribelle rispetto alla schiavitù dell’industrializzazione
- gigantismo di Lang → trasforma scene di massa in coreografie
- prevalenza di tempi lunghi, pause descrittive, lenti movimenti all’interno delle inquadrature, montaggio
con scarsa funzione drammatica → monumentalità dell’opera
- Maria → personaggio chiave; influenze letterarie; prima donna-angelo (valori cristiani di pace e
sopportazione, speranza e amore), poi donna diavolo (androide, simbolo della perdizione, che sobilla gli
operai alla violenza e irrazionalità; verrà bruciata legata a un palo come una strega)
- tema tipicamente espressionista del doppio
- esplosione della follia collettiva; tema della rivolta dell’uomo contro la macchina, che sfocerà in un finale
contraddittorio
- il regista sembra voler trasmettere il messaggio per cui una società anche se fortemente permeata dal
progresso non possa mantenere la concordia tra le varie classi se non ha valori spirituali; importanza
spiritualità e religione e rischio della manipolazione del loro ruolo
- molti simboli (cristianesimo, paganesimo, superstizione ecc.)
- il film introduce il problema morale della sfida di scienza e tecnologia ai limiti imposti all’uomo; film
riconosciuto come modello per gran parte del cinema di fantascienza moderno (ispiratore, ad esempio, di
Star Wars – 1977).

Ernst Lubitsch e l’arte della commedia

Anche Lubitsch lasciò il suo Paese per andare negli Stati Uniti, dove continuò la sua carriera cinematografica
e, anzi, si impose proprio con l’attività americana (più nota), iniziata a Hollywood nel 1923. Questo per
Lubitsch è l’ambiente ideale, in quanto uomo di spettacolo, bisognoso di grandi mezzi, di scenografie
sontuose, attori noti e stile internazionale.
L’autore ha una concezione della vita in fondo individualistica e astorica; elabora uno stile che da eclettico
via via diventa sempre più raffinato fino a una padronanza straordinaria del mezzo espressivo.
Nel miglior cinema di Lubitsch i personaggi e gli ambienti sono totalmente affabulati, rappresentano
l’aristocrazia di sangue o di denaro, abitano in paesi di fantasia e sono gli elementi di una sorta di balletto
condotto sul filo d’una intelligenza sottile, sorretta da una visione ironica dell’esistenza. Dietro a queste
situazioni c’è un discorso sulla solitudine dell’uomo e sui suoi continui sforzi per apparire allegro, brillante,
mondano, affascinante, per conquistare successo e ricchezza, che ne denunciano un certo disagio
esistenziale. Lo scetticismo, l’amoralità, l’edonismo che caratterizzano l’opera dell’autore sono venati da
una malinconia impercettibile, sottofondo serio di una poetica all’insegna dell’umorismo, della gioia di
vivere e del disimpegno politico (è apolitico).

Lubitsch fu attore e regista teatrale. Passò nel 1918 alla regia cinematografica. Era eclettico nella scelta
degli argomenti dei suoi film, interessato soprattutto ai problemi della recitazione e della messinscena.
Nel periodo tedesco (’18 – ’22) girò film storici e drammatici, che lo imposero al pubblico e alla critica (es.
Madame Du Barry; 1919; successo internazionale).
Contemporaneamente ai film di grande spettacolo, però, riprese in chiave più ironica e sottile l’umorismo
dei suoi iniziali cortometraggi comici, con film come ad esempio La principessa delle ostriche (1919) e La

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bambola di carne (1919). Si tratta di film che rappresentano l’immagine della società tedesca, allucinata e
allucinante, che l’espressionismo già aveva dato, ma in chiave satirica e fantasiosa, in stile teatro di cabaret.

Lubitsch riuscirà ad ambientarsi meglio di altri artisti a Hollywood. Qui realizzerà pienamente la sua poetica
in uno stile fatto di allusioni, discrezione, ammiccamenti e doppi sensi, che verrà sintetizzato nella formula
del Lubitsch touch. Un tocco impercettibile affidato a gesti, pose e sguardi degli attori e ad effetti di
messinscena e regia.

Con l’avvento del sonoro, in particolare, la leggerezza della sua regia si fa più evidente con l’accostamento
di parole, suoni, rumori all’unità spettacolare. Il suo primo film sonoro è Il principe consorte (1929),
prototipo di musical hollywoodiano, dove la satira della vita di corte si scioglie in uno spettacolo in cui
abbondano canzoni, musica, scenografie sfarzose…
Il contributo più originale di Lubitsch al cinema hollywoodiano è quello della commedia sofistica (in tale
genere si andava affermando anche Frank Capra), di cui sono esempio Mancia competente (1932) e Il cielo
può attendere (1943), considerato quest’ultimo come una sorta di autobiografia ideale, testamento
artistico e spirituale dell’autore, che lo compone pochi anni prima di morire prematuramente.

Lubitsch introdusse nelle sue opere, anche se confezionate secondo le regole hollywoodiane del prodotto
di largo consumo internazionale, un carattere personale, originale, non privo di acute osservazioni sulla
fragilità della condizione umana e sulla relatività delle convenzioni morali e sociali. Fu un gioioso descrittore
dei lati comici e grotteschi della vita, rappresentante di un’altra faccia dell’anima germanica del tempo.

I problemi sociali e il cinema di Georg Wilhelm Pabst

Nel cinema tedesco muto si trova anche una corrente con intento sociale, che si prefigge la
documentazione critica di alcune situazioni umane determinate dalle condizioni politiche e sociali del
momento. Si tratta in particolare dei film raggruppati sotto il nome di Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit)
o Nuovo Realismo: vogliono approfondire il discorso sull’uomo in rapporto alla società, toccando temi
riguardanti il lavoro, la disoccupazione, i conflitti di classe, la crisi economica ecc.
L’interesse per i problemi quotidiani lo si ritrova nei “drammi di strada”, tra i cui autori si distingue Pabst,
che influenzerà molti registi tedeschi degli anni Venti e diventerà un modello per una rappresentazione
approfondita della realtà, in cui il dramma del singolo è integrato in un più vasto dramma collettivo.

Egli, con il suo stile personale, affrontò con coraggio e spregiudicatezza temi e argomenti come
prostituzione, erotismo e degradazione morale (prima affrontati genericamente o con toni
melodrammatici) e antimilitarismo, pacifismo, critica sociale (in larga misura vietati). Fu influenzato sia
dall’Espressionismo che dal Kammerspiel, ma fu attento in particolare ai fatti quotidiani, ai drammi umani e
sociali provocati dalle incertezze e contraddizioni della realtà tedesca all’indomani della sconfitta bellica.
Pabst tentò la strada del cinema sociale, realistico, anche se venato da un certo romanticismo, non
trascurando però i problemi formali, anzi sperimentando le varie possibilità espressive del mezzo
cinematografico (chiaroscuro, angolazioni di ripresa, montaggio parallelo e alternato, fuori campo, primi
piani, movimenti di macchina…) sempre in rapporto alla materia affrontata.

La dimensione sociale del cinema di Pabst è attestata in particolare dal dramma di strada La via senza gioia
(1925), interpretato da Greta Garbo e Asta Nielsen, in cui si trova un realismo sociale accompagnato dalla
presentazione di un tipo psicologico, particolarmente legato ai due personaggi femminili. Egli è attento alla
complessità dell’anima, e svilupperà questo tema nelle opere successive, ad esempio in I misteri di
un’anima (1926), realizzato con la consulenza di due psicanalisti.

Pabst approfondisce il suo discorso nella cosiddetta “trilogia sessuale”, in cui affronta i temi della
condizione della donna nella società borghese contemporanea, e i problemi relativi a una corretta
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educazione sessuale (Crisi – 1928; Lulù – 1928; Il diario di una donna perduta – 1929). Con gli ultimi due
film, interpretati dall’attrice Louise Brooks, prototipo della donna seduttrice, Pabst portò alle estreme
conseguenze il suo realismo analitico (insistenza dell’osservazione; vivisezione della realtà fenomenica e
psicologica).

Dopo tale trilogia ritornò a problemi più specificatamente sociali e politici; verrà considerato uno dei registi
tra i più politicamente impegnati del cinema internazionale. Realizzerà una “trilogia sociale” in cui
affronterà i temi dell’antimilitarismo e del pacifismo, semplicemente attraverso una descrizione degli orrori
della guerra (Westfront – 1930), la satira antiborghese e la feroce descrizione dei vizi di una società
dominata dal denaro e dal successo mondano, lasciandosi andare a volte in un retorico appello di
fratellanza universale. Nelle sue opere successive si fece evidente una certa involuzione artistica e politica,
poiché il suo stile divenne sempre più manieristico.

Con l’avvento del sonoro, l’esodo di alcuni dei più prestigiosi registi e attori, la crisi economica e i
rivolgimenti politici, il cinema tedesco si stava avviando verso la fine. L’angelo azzurro di Sternberg, del
1930, unica sua opera realizzata in Germania, viene considerata l’opera che chiude questo periodo
cinematografico, portando a maturazione e ricreando con nuova sensibilità i temi, le forme, lo spirito che
erano stati propri di tutta la cinematografia tedesca degli anni ’20. Il film metteva a fuoco le contraddizioni
di una società che non aveva trovato un equilibrio fra una concezione conservatrice dell’esistenza e i nuovi
fermenti di libertà che nascevano da diversi concetti morali e ideologici; si trattava di una metafora del
fallimento sociale dei tedeschi che porterà a pesanti conseguenze.

Ai margini dell’avanguardia: l’impressionismo francese

La situazione del cinema francese nel dopoguerra è critica. Subisce la concorrenza del cinema americano e
di quello tedesco e non ha mezzi sufficienti per svilupparsi. Le due maggiori industrie, Pathé e Gaumont, si
erano dedicate quasi esclusivamente alla distribuzione e all’esercizio, men tre la produzione era
frammentata in una miriade di piccole società.
Nonostante la situazione critica, in Francia il cinema era riconosciuto come fatto culturale, per cui vi erano
diversi cineclub, si organizzavano rassegne, dibattiti, manifestazioni ecc. a riguardo.
In questo contesto emerse una nuova generazione di cineasti sotto la corrente dell’impressionismo
francese, nato in contrapposizione all’espressionismo tedesco. Esso accentuava i caratteri formali,
descrittivi, visivi del linguaggio cinematografico, dando particolare rilievo all’immagine, al ritmo, alla
“figurazione”, spesso funzionali all’indagine psicologica e ai percorsi della psiche più che alla narrazione.
Riprese la tradizione letteraria del Naturalismo zoliano e del romanzo popolare di fine Ottocento, oltre che
l’impressionismo pittorico. La tendenza al formalismo, inoltre, derivava dai presupposti dell’avanguardia
cinematografica francese.

Si sviluppò dunque una produzione di qualità che si richiamava all’esperienza della Film d’Art e allo stesso
tempo al suo superamento; l’intento di creazione di uno stile francese di grande prestigio culturale, infatti,
era simile, ma tale produzione si oppose alle convenzioni teatrali e letterarie (a cui si rifaceva la Fil d’Art per
nobilitare il teatro) per trovare l’autonomia espressiva del mezzo cinematografico, che puntava in
particolare su immagine e montaggio.
L’impressionismo francese affiancò alla produzione cinematografica anche un’ampia serie di riflessioni
teoriche sul cinema, inteso come vera e propria forma d’arte. Il cinema era dunque un’arte che si legava ad
altre arti (pittura, musica e poesia) e un’arte del tutto nuova, da cui tentarono di creare una nuova lingua
visiva, universale, costruita su immagini e ritmi. Un concetto su cui si rifletté molto fu quello di fotogenia,
ossia il valore aggiunto che l’immagine cinematografica attribuisce a un volto o un’immagine rispetto a
com’è nella semplice realtà → rivelazione di qualità altrimenti impercettibili. Fecero dunque largo uso del
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primo piano, che secondo loro poteva davvero rendere visibile l’animo umano.
Tale cinema era di “pura visibilità”, piegato alla volontà di esprimere i sentimenti dei personaggi, le loro
“impressioni” su sé stessi e sul mondo che li circonda, prima che raccontare una vera e propria storia. Si
tratta di un cinema fortemente soggettivo, che appunto faceva frequente uso di inquadrature in soggettiva,
di immagini che evocassero stati mentali, flashback (ricordi)… I registi tendevano a alterare le immagini con
effetti ottici, sovrimpressioni, mascherini, filtri, ralenti ecc. per sottolinearne il carattere soggettivo.
Utilizzarono molto i movimenti di macchina e un montaggio breve e frammentato, al fine di esprimere il
tumulto interiore vissuto dai personaggi.
Le storie narrate erano piuttosto convenzionali, ispirate spesso alla tradizione del romanzo popolare e del
feuilletton. La loro continuità narrativa era però spezzata dalla soggettività di ricordi, fantasticherie, sogni.
Oggetti e paesaggio avevano un dato ruolo, che suggeriva atmosfere, caratteri, azioni e comportamenti dei
personaggi. Per certi aspetti si trattava di una sorta di “nuovo realismo”.

Le tecniche messe a punto dal cinema impressionista divennero però nel volgere di pochi anni una sorta di
maniera, che spinse alcuni cineasti a distaccarsi e percorrere altre strade. Con l’avvento del sonoro si ebbe
poi la fine del movimento.

Un ruolo predominante nell’ambito dell’impressionismo cinematografico lo ebbe Delluc, che sviluppò un


discorso sul cinema come forma originale d’espressione artistica ed ebbe un’influenza significativa su tutta
la corrente dei purovisibilisti. Girò Fièvre (1921), un dramma della gelosia fatto di sguardi, volti e oggetti, e
La femme de nulle part (1922), una storia di ricordi.

Gance girò invece La roue, edito in Italia come La rosa sulle rotaie (versione commerciale del ’24), film che
segnò una tappa significativa nel cinema spettacolare francese del periodo. Gance si affermò per la sua
continua sperimentazione formale, per le arditezze tecniche e per un evidente gusto per gli effetti
drammatici e spettacolari. I suoi fil che più sono esempio della sua magniloquenza, per il suo gusto del
grandioso e il sinfonismo figurativo furono appunto:
- La roue → treno e binari diventano protagonisti, nell’uso di un montaggio accelerato, fatto di
inquadrature via via sempre più brevi che riescono a esprimere il senso della vertigine e della velocità
(considerato saggio eccellente del cinema “cinematografico”).
- Napoleone (1927) → sequenze di notevole forza spettacolare con l’uso del triplo schermo; nella battaglia
a palle di neve la macchina da presa raggiunge un alto livello di dinamicità, diventando essa stessa una palla
da neve scagliata in aria; utilizzo di un vertiginoso montaggio

Lo stile di Gance si fa via via debordante, al fine di giungere una certa totalità dell’opera filmica secondo le
concezioni wagneriane → titanismo d’ispirazione, spettacolarità.

Nell’ambito di un cinema “cinematografico” si trova anche L’Herbier, che sviluppa uno stile filmico il più
possibile affrancato dal teatro e dalla letteratura, attento soprattutto ai valori prettamente figurativi e
dinamici della storia (Eldorado – 1921, Futurismo – 1924, Il fu Mattia Pascal – 1925). Nelle sue opere
l’elemento più importante è quello visivo, o meglio il rapporto tra immagine isolata, trattata con elegante
gusto per la composizione figurativa (cura dettagliata dell’inquadratura, come fosse un quadro), e il
montaggio, inteso come supporto ritmico dello spettacolo attraverso il quale, assieme ai movimenti di
macchina, si poteva ottenere un certo dinamismo. Il suo film L’argent (1929) è un saggio di magistrale
tecnicismo nel quale l’autore fa ricorso allo shock visivo in cui la cinecamera si sbizzarrisce a riprendere
dall’alto, dal basso, di traverso, in movimento circolare e obliquo, ambiente e personaggi → punto di arrivo
di un processo di scoperta del linguaggio cinematografico, ormai totalmente affrancato dal teatro e dalla

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letteratura.

Dulac promosse invece la realizzazione di quella che lei stessa chiamò “cinematografia integrale”, ovvero
una cinematografia libera da ogni condizionamento della letteratura e del teatro, costruita invece su nuove
leggi ritmiche che si richiamavano alle leggi della musica. Approfondì il suo discorso sulla musica visiva più
attraverso i suoi scritti piuttosto che i suoi film.

Epstein fu un’altra figura che si affermò, con i suoi film e scritti teorici, come propugnatore di un cinema
lirico e poetico, concepito come strumento di conoscenza, in cui l’immagine doveva essere una sorta di
corrispettivo del suono della musica e il dramma risolversi in una sinfonia visiva, giocata sull’interazione di
ambienti e personaggi (Cuore fedele – 1923). Come per Gance e L’Herbier, anche per Epstein il soggetto
drammatico è spesso un semplice pretesto per comporre un film cinematografico per eccellenza. A
differenza però di questi due autori, la sua osservazione sulla realtà umana e naturale è più genuina, e il suo
gusto per la forma non è mai disgiunto da un interesse autentico per l’uomo e per il suo ambiente. Operò
una sensibile e acuta analisi dei sentimenti attraverso gesti, sguardi, atteggiamenti dei personaggi,
anticipando in qualche modo quello che sarà il “realismo poetico” del cinema francese degli anni seguenti. I
caratteri dei personaggi nascono e si manifestano attraverso un’attenta osservazione del loro
comportamento e un continuo rapporto con la natura che li circonda, vera musa del regista.
Le opere più genuine del regista sono quelle che realizzerà in Bretagna dove supererà e abbandonerà i
tecnicismi propri dell’impressionismo, trovando lì il luogo ideale per il suo studio dell’uomo e dell’ambiente
nelle sue più naturali espressioni di vita. In Finis terrae (1929) natura e uomo paiono fondersi in un unico
discorso panteistico (= Flaherty). In questi film il lirismo di Epstein si esplica in una serie di immagini che
tentano di estrarre dalla natura l’aspetto inconsueto e meraviglioso. Gli elementi naturali che dominano il
quadro ne sono in realtà i protagonisti → realismo fantastico, intrusione del soprannaturale (carattere
peculiare del cinema stesso) e misticismo della cinecamera → caratteri predominanti della poetica di
Epstein.

René Clair: fra ironia, sentimento e “populismo”

Clair fu influenzato dall’avanguardia cinematografica francese, infatti fu autore di Entr’Acte (1924). Tale
influenza, e in particolare quella della corrente Dada, però, si fermò agli aspetti esteriori dell’arte di Clair, al
suo gusto per il nonsense e per le deformazioni ironiche della realtà. La sua poetica si svilupperà all’insegna
di un umorismo lieve e caustico, di una sottile malinconia, del piacere della beffa, di uno stile vigile e
rigoroso, lontano dalle intemperanze formali o degli eccessi sperimentali dell’avanguardia cinematografica.

Si impose non per l’originalità del suo stile, che fu piuttosto semplice, consueto e piano, ma piuttosto per il
carattere spiritoso dei suoi personaggi e delle sue storie, di cui seppe mettere in luce gli aspetti più
dichiaratamente comici e sentimentali, in un felice connubio di commedia e di dramma. Abbandonate le
ricerche tecnico formali, approfondì il suo discorso ironico e satirico sull’uomo e sulla società. Il film che lo
impose all’attenzione della critica e del pubblico fu la commedia brillante Un cappello di paglia di Firenze
(1927), in cui utilizzò gli ingredienti del teatro comico e del vaudeville per comporre una lunga sequenza di
qui pro quo, inseguimenti, fatti grotteschi, scambi di persona ecc. La tecnica cinematografica permetteva di
spingere fino all’assurdo tali elementi, in un ritmo frenetico di situazioni esilaranti → influenzato dalla
lezione di Sennett; la meccanica del racconto segue le regole ormai codificate delle comiche americane, che
però Clair rielabora alla luce di una personale interpretazione che osservava, con occhi indagatori, animati
da uno spirito fortemente ironico, l’animo umano e i fatti della vita.

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La sua arte raggiungerà risultati più ampi con l’avvento del sonoro, attraverso cui farà una più acuta
introspezione psicologica dei personaggi e una più accurata descrizione ambientale. I suoi film diventarono
esempi notevoli d’un cinema populista, in cui il discorso ironico era sempre sotteso a un’adesione
sentimentale ai casi narrati, che avevano come protagonisti operai, impiegatucci, gente del popolo, piccoli
borghesi… Questi erano visti con una certa ironia ma, allo stesso tempo, rappresentati nella loro positività
di gente sana, fiduciosa, morale (es. Sotto i tetti di Parigi – 1930; Il milione – 1931). Tra i temi affrontati
anche la meccanizzazione del lavoro, l’alienazione dell’industria, la corsa al denaro e al successo, la
necessità di tornare ai veri valori della vita (onestà, semplicità, amicizia, amore)…

Il regista si conferma descrittore finissimo di un mondo minuto, di fatti e fatterelli della realtà quotidiana,
creatore di personaggi esili e unidimensionali, ma ricchi di umanità. Clair è l’artista del piccolo mondo della
periferia parigina, raffinato ed elegante, un po’ intellettualistico e accademico, ricco di umanità e sensibile
ai casi quotidiani della gente comune. Avrà un successo mondiale che lo renderà, con Chaplin, tra i più
applauditi registi di commedie leggere, in cui i personaggi, il popolino, sono i rappresentanti più genuini di
un’umanità facilmente riconoscibile.

Il silenzio è d’oro (1947) viene considerato apice della sua carriera artistica → meditazione sul cinema come
mestiere e al tempo stesso riflessione sull’inarrestabile trascorrere del tempo, sul tramonto della giovinezza
e sulla solitudine come condizione dell’uomo. Nei film successivi si chiuderà nel suo mondo poetico
diventando così un regista fuori dalla contemporaneità.

Carl Theodor Dreyer e il cinema come “teatro dell’anima”

Il clima dell’avanguardia toccò anche l’opera di Dreyer, molto lontana dai suoi formalismi. Egli è danese, ma
i suoi film più importanti, La passione di Giovanna d’Arco (1928) e Vampyr (1932) li girò in Francia: con essi
si impose presso pubblico e critica negli anni Venti. Fu autore di alcuni film tra i più rigorosi dell’intera storia
del cinema e grande maestro di stile.

Si tratta di due film che furono tappe fondamentali nella carriera dell’artista, e che anticiparono gli
elementi fondamentali della sua poetica, che porterà a compiuta espressione nelle opere della maturità:
- immanenza della morte
- solitudine dell’uomo
- bisogno di trascendenza
- incomunicabilità fra gli esseri umani

Ne La passione di Giovanna d’Arco vi è un utilizzo insistito dei primi piani (decentrati, obliqui, dal basso,
dall’alto…), di dettagli di oggetti, di fuori campo. Il montaggio è alternato e dinamico, le didascalie presenti
in funzione drammatica e sonora, il linguaggio strettamente cinematografico (applicato a un testo letterario
e discorsivo, ossia il processo di Giovanna ricostruito sulla base degli atti). Si tratta della sintesi del miglior
cinema europeo, un eccellente esercizio di stile in cui convergono soluzioni derivate dall’avanguardia, dal
cinema sovietico, dall’espressionismo e dall’impressionismo. Esso è il primo capitolo di un “romanzo”
ininterrotto sull’esistenza dell’autore, che ruota intorno al tema centrale dell’uomo oppresso dalla società
nelle sue diverse e concomitanti manifestazioni di ideologia, politica, morale e religione. E’ un saggio di
cinema antropologico. Attraverso i piani ravvicinati, Dreyer svuota la storia di Giovanna degli accessori che
il cinema e il romanzo storico utilizzano abitualmente: utilizza scenografie spoglie, quasi astratte, sfondi di
mura bianche, in cui volti e oggetti assumono una pregnanza assoluta. L’azione drammatica è concentrata
sul tema centrale, che non è solo religioso e mistico ma prima di tutto umano. Entra nella psicologia del suo
personaggio attraverso la sua cinecamera indagatrice, che lo scompone e vivisezione. Non si tratta dunque
di un semplice ritratto psicologico, ma della creazione polidimensionale di un personaggio emblematico,
attraverso il quale è possibile cogliere il problema centrale dell’esistenza umana, ossia la sfida del singolo

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contro i condizionamenti storici e sociali.

Anche in Vampyr, film che più fra tutti risente delle influenze dell’avanguardia cinematografica
(dall’espressionismo al surrealismo), affronta il tema della solitudine e dell’amore, sviluppato lungo il
tracciato di una storia fantastica, gotica (horror atipico, atmosfera inquietante e inesplicabile). Vi si trova
una meditazione sull’esistenza e sulla sua irriducibilità a un’unica interpretazione razionale.

In questi anni Dreyer pensa un film su Gesù, di cui scriverà la sceneggiatura ma che non riuscirà a realizzare.
La vita di Gesù non è raccontata narrata per fatti od episodi cronologicamente disposti, ma è esposta nei
suoi momenti salienti; diventa, per Dreyer, motivo di contraddizione, provocazione intellettuale e morale. Il
protagonista è contraddistinto da una sostanziale solitudine, incompreso e incomprensibile, sullo sfondo di
una società che non può coglierne il vero messaggio. Miracoli e predicazioni sono veicoli per arrivare a una
interpretazione poliedrica e polivalente del significato dell’uomo, attraverso l’uso della fede e dell’amore,
componenti essenziali per l’artista nella formazione di un’autentica comunità umana → discorso che
sviluppa anche successivamente.

Essenza della poetica di Dreyer:


- amore e fede essenziali nella comunità umana
- totale dedizione dell’individuo agli altri; disponibilità in ogni situazione reale importante; non significa
accettazione passiva dei fatti, ma lotta continua per l’affermazione dell’amore
- visione che implica una precisa scelta esistenziale, a costo di sacrifici e rischi personali
- società ancorata a usanze ancora anacronistiche , immobile
- dramma dell’uomo diventa dramma della collettività → dramma dell’incomprensione che può assumere i
toni accesi dell’intolleranza e persecuzione o dell’isolamento e della solitudine

Nei film successivi Dreyer abbandona sperimentalismo e virtuosismi che aveva utilizzato in Giovanna e
Vampyr, per approdare a uno stile ascetico, minimale, rigidamente controllato. In Danimarca gira, nel 1943,
Dies irae, film che fu visto come opera antinazista (denunciava soprusi, violenza, oppressione dell’autorità e
del dogma religioso) ma che in realtà è un ulteriore capitolo del suo discorso sull’uomo → vuole portare dal
realismo delle immagini al realismo della coscienza, sempre partendo dalla storia del singolo che diventa
quella della collettività.

Con Ordet (1955) e Gertrud (1964) approda a una rappresentazione sempre più astratta della condizione
umana, a uno stile e messinscena che ricorrono a scenografie ascetiche, in cui i pochi ma decisi oggetti
acquistano valore simbolico, così come i lunghi silenzi rendono particolarmente pregnanti i momenti di
dialogo, frequente l’immobilità dei personaggi e conseguentemente della macchina da presa. Raggiunge
una certa staticità scenica, quasi anti-cinematografica, contrapposta al cinema cinematografico, quasi
provocatoria nei suoi confronti. La teatralità è inconsueta e consente di concentrare l’attenzione dello
spettatore unicamente sui personaggi, sui loro rapporti, sul loro spessore → dai personaggi nasce il
dramma, che si allarga fino a comprendere i temi fondanti del discorso di Dreyer. Lo stile è sempre più
spoglio, la tragedia sempre più interiore ai personaggi, i toni più tenui.

La passione di Giovanna d’Arco (1928; Dreyer)

- Dreyer è interessato ai particolari del processo, all’angoscia psicologica della ragazza e alla supponenza
mistificatoria degli accusatori; l’ottica è puramente emozionale; vi sono rappresentate dolore e sofferenza,
malvagità che grida all’eresia
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- essenzialità, rigore e pulizia formale → cifra stilistica dell’opera di Dreyer
- affronta i temi fondamentali della sua poetica
- compone un poema cinematografico attraverso l’utilizzo del primo e primissimo piano, i dettagli degli
oggetti; ricorre a una vicinanza e a una durata dell’inquadratura volte difficilmente sopportabile
- ogni azione interiore si esprime attraverso il tramite del viso, luogo privilegiato del corpo → vicinanza
ossessiva della mdp al volto di Giovanna e dei giudici (dal basso, dall’alto, in diagonale; deformazioni
prospettiche)
- le espressioni sono sottolineate da una cruda illuminazione; vi è la meticolosa creazione di atmosfere
d’angoscia; la lentezza dei gesti è esasperante così come l’immobilità di certe situazioni
- la mdp disseziona il volto, il corpo di Giovanna per entrare nella sua psiche; la donna si fa simbolo,
attraverso questa spietata indagine, della sfida in perfetta solitudine del singolo contro i condizionamenti
storici e sociali
- per Giovanna il movimento è interno, drammaticamente intimo, dato da primi piani fissi, spesso frontali,
inamovibili; per i frati invece vi sono continue carrellate e inquadrature da ardite angolazioni; le loro facce
sono contraffatte dagli sguardi complici e dai sorrisi sarcastici, dalle impurità; molto distanti dalla purezza
dello sguardo della vergine; lo sguardo è opposto anche nella direzione
- film che riflette sulla teoria della fotogenia (pieghe, rughe, difetti degli accusatori sono evidenziati)
- questa Giovanna incarna l’iconografia cristiana in cui il santo volge gli occhi al cielo in un’espressione di
dolorosa estasi; alcune sequenze richiamano la passione di Cristo
- ascetica astrazione; personaggi collocati sullo sfondo di pareti bianche, isolati nei loro primi piani; severa
stilizzazione; purezza e semplicità delle forme
- azione condensata in una giornata, secondo i drammi della tragedia, e in tre luoghi → massima potenza ai
dettagli

9. IL CINEMA AMERICANO: L’AVVENTO DEL SONORO E GLI ANNI DI ROOSVELT

I problemi del sonoro

L’avvento del cinema sonoro coincise con la grande crisi economica del 1929 che provocò negli Stati Uniti (e
poi di riflesso nei Paesi europei, negli anni Trenta) una grave depressione politica e sociale. Nel 1932
Roosevelt fu eletto presidente e attuò una politica lungimirante e rinnovatrice (New Deal) attraverso cui gli
USA superarono il periodo di crisi.
In questa situazione il cinema sonoro servì come una sorta di antidoto alla gravità del momento, come fuga
dalla realtà quotidiana → periodo rooseveltiano = uno dei più fruttuosi della storia del cinema.

Lo spettacolo cinematografico era stato potenziato dall’avvento del sonoro, che completava la
verosimiglianza dell’illusione filmica. Il cinema muto era limitato nelle sue possibilità di riproduzione della
realtà fenomenica:
- silenzio
- bidimensionalità dell’immagine
- assenza del colore
- presenza di una “cornice”

Alcuni teorici vedevano in tali caratteristiche le peculiari specificità dell’estetica del cinema, inteso come
interpretazione della realtà e non come sua semplice riproduzione tecnica.
In ogni caso, il sonoro fu tempestivamente colto dai produttori cinematografici come nuovo bisogno
estetico, per cui furono presto sondate le possibilità della nuova scoperta tecnica e riorganizzati criteri e
metodi di produzione sulla base delle nuove attrezzature e dei nuovi costi.

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Il primo film sonorizzato (ossia accompagnato da un commento musicale registrato, quindi non più affidato
all’orchestra in sala) fu un mediocre Don Juan (1926; Crosland), a cui seguì poi Il cantante di Jazz (1927;
Crosland), film musicato e parzialmente parlato, che fu un successo internazionale → commento musicale
predisposto una volta per sempre dagli autori del film, immutabile.

I primissimi anni del sonoro posero una serie di problemi tecnici che determinarono una sorta di
arretramento delle possibilità espressive cinematografiche:
- i microfoni captavano ogni rumore, anche il ronzio delle macchine da presa, per cui queste dovevano
essere poste in cabine insonorizzate che ne limitavano il movimento
- tutti i suoni andavano registrati nello stesso momento, quindi l’eventuale necessità di una musica
implicava l’ingombrante presenza di un gruppo di musicisti durante le riprese
- per evitare i salti di sincronia labiale tra le diverse inquadrature bisognava riprendere con più mdp
contemporaneamente

Molti di questi problemi furono risolti a partire dal 1931, con la possibilità di registrare separatamente
diverse piste sonore e poi mixarle in fase di postproduzione.

Un altro problema dell’avvento del parlato era il rischio di limitare gravemente l’esportazione dei film, per
cui la soluzione più adottata fu quella di girarne diverse versioni, riutilizzando sceneggiatura e scenografie,
ma con attori diversi (madrelingua). La possibilità di registrare il sonoro in un momento successivo portò
alla tecnica del doppiaggio (quando non si ricorreva alla sottotitolatura).

L’avvento del sonoro pone fine a una vera e propria stagione del cinema, in cui ogni proiezione, vista la
presenza dell’esecuzione musicale dal vivo e dell’imbonitore, poteva essere un’esperienza a sé. La colonna
sonora registrata su pellicola rende lo spettacolo perfettamente uguale a sé stesso ad ogni proiezione → si
inaugura l’era della “riproducibilità tecnica dell’opera d’arte” (Benjamin) nel cinema.

Il sonoro permise il rafforzamento dell’effetto di realtà cui la produzione hollywoodiana tendeva già negli
anni Venti. Il sonoro permetteva inoltre una maggiore coesione fra le inquadrature di un film, grazie al suo
procedere in modo fluido e continuo. Con l’avvento del sonoro si può davvero parlare di cinema classico,
che punta sull’effetto di realtà e vuole assorbire lo spettatore nella finzione e spingerlo a identificarsi con i
personaggi (sospensione della consapevolezza di essere semplicemente uno spettatore).
Il cinema classico, per ottenere questo risultato, cancella le tracce della sua produzione e scrittura,
rendendo invisibile il montaggio e dando vita a un découpage fondato su tre principi:
- motivazione nel passaggio da un’inquadratura a un’altra (ci deve essere un perché)
- chiarezza espositiva
- drammatizzazione (successione inquadrature deve essere studiata per rendere avvincente la
rappresentazione)

Con l’avvento del sonoro si istituzionalizzarono inoltre le figure dello sceneggiatore e dell’autore di
musiche. Si ebbero inoltre importanti innovazioni tecniche, come l’uso di dolly (braccio meccanico) e gru e
il perfezionamento del technicolor (già introdotto negli anni Venti) → permise la realizzazione di pochi (visti
i corti) film spettacolari come Il mago di Oz e Via col Vento (1939; Fleming).

Agli inizi degli anni ’30, almeno in America, il cinema muto era stato del tutto abbandonato. Il fenomeno
riaprì il dibattito sull’artisticità del cinema, e diversi autori presero posizione a favore o a sfavore del
sonoro:
- Ejsenstejn, Pudovkin → manifesto dell’asincronismo; validità del sonoro
- Chaplin → “l’essenza del cinematografo è il silenzio”

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Lo studio system

In questo nuovo contesto, a causa dei maggiori investimenti economici richiesti dal cinema sonoro, la figura
del produttore acquistò un peso determinante per la riuscita dell’operazione spettacolare; egli doveva
scegliere i soggetti, il regista, gli attori, fornire le attrezzature necessarie, i tecnici, i collaboratori… Il
prodotto era il risultato attento dei caratteri commerciali del film, e difficilmente poteva essere ricondotto
alla sola personalità di un artista. L’industria dello spettacolo, a Hollywood, si andava meccanizzando su
principi tayloristici di divisione del lavoro. Il regista, in questo ambiente di lavoro, era poco più di un
esecutore.

I film erano inseriti in generi, che tendenzialmente ripetevano le formule di successo.


Concetto di genere:
- criterio organizzazione industria
- criterio d’orientamento spettatore

Pur giocando sulla serialità del prodotto, il genere necessitava comunque di elementi di novità, che si
ponevano come varianti o deviazioni rispetto alla norma e che avevano lo scopo di non annoiare il pubblico.
Proprio grazie a questo si riscoprirà più avanti la necessità di un cinema d’autore, basato sulla creatività
individuale del regista.

Con il cinema americano di questo periodo si deve quindi parlare di studio system, ossia un sistema chiuso
e monolitico di produzione-distribuzione-esercizio e rigida pianificazione del lavoro, sorretto da un cinema
di generi e di divismo. Si ridisegna inoltre il panorama delle compagnie cinematografiche hollywoodiane:
- major → MGM, Paramount, 20th Century Fox, Warner Bros, RKO
- minor → Universal, Columbia, United Artists

Vi sono poi delle case indipendenti, anche queste divise tra piccoli e grandi produttori: Goldwyn, Selznick…

La forza di queste case era tale da incidere fortemente anche sullo stile dei diversi film, sino ad arrivare a un
vero e proprio house style → lo stile non è più un fattore individuale ma una sorta di paradigma collettivo.

In questo periodo diverse associazioni, tra cui la Legione Cattolica della Decenza, il cui bollettino che
assegnava un punteggio ai film aveva un certo peso nell’orientamento del mercato, aumentarono le loro
pressioni verso l’industria del cinema che, temendo un intervento dello Stato, reagì attraverso la MPPDA
con un nuovo Codice di produzione, ossia Codice Hays, che dal 1934 intervenne più rigidamente riguardo a
temi come sesso, crimine, violenza → i film che vi si attenevano erano certificati (marchio d’approvazione
MPPDA).

Era dunque finita l’epoca del regista dittatore, il cinema di Hollywood era ormai un cinema di generi →
mito del cinema hollywoodiano → mito del cinema per eccellenza.

John Ford e il cinema western

Il cinema americano per eccellenza fu identificato con il cinema western → rappresentativo dell’arte
cinematografica intesa come rappresentazione spettacolare della realtà fenomenica, concentrato delle
virtù americane, propagandate da una letteratura apologetica di lunga tradizione.
Si tratta di un genere cinematografico che sottende tutta la storia del cinema americano sin dalle origini →
costante puramente americana (hollywoodiana).

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Autore particolarmente rappresentativo del genere fu John Ford → cinema che può essere identificato con
l’americanismo della cinematografia hollywoodiana che, nonostante il suo presunto internazionalismo, ha
sempre mantenuto un carattere nazionale se non nazionalistico → cinema propagandistico dell’american
way of life.

Il discorso di Ford sull’America e sui suoi miti di umanità e di socialità fu esplicito ed efficace; trattò la
grande epopea della conquista degli spazi vitali, contro la natura selvaggia, gli indiani e i banditi, la
formazione della comunità all’insegna della legge dell’onore e della lealtà e dell’efficienza. La morale
individuale e sociale puritana sottende tutta l’opera di Ford, tuttavia, egli ha uno sguardo critico su fatti e
personaggi e ne rivela, al di là delle apparenze, la complessa natura per mezzo di umorismo e ironia o di
una sottile malinconia. Le storie che racconta rappresentano una società in cui la giustizia quasi sempre
trionfa, in cui coraggio e lealtà sono premiati e vi è uno spirito patriottico ottimista. Ford riesce però a
introdurre un elemento dissonante nei suoi temi, una visione del tutto personale che può sovvertire quelle
regole del vivere sociale che all’apparenza egli accetta incondizionatamente → avvertibile non solo nei suoi
western di più forte individualità, es. Ombre Rosse (1939; Ford), ma anche in altri film sociali, es. Furore
(1940) e La via del tabacco (1941) → tenta un discorso sull’uomo e sulla società che non si limita alla
contrapposizione rigida di due mondi o ideologia, ma vuole fornire materiale originale per un’analisi critica
del reale, che non si risolve nella dicotomica rappresentazione del bene e del male.
Riguardo al bene, nazione e società americana, Ford avanza delle perplessità e mette in luce contraddizioni
→ mondo civilizzato in cui agiscono uomini corrotti e senza scrupoli. Il male non appare così assoluto: gli
indiani possono essere anche nobili e amici e sono un popolo sconfitto di cui bisogna riconoscere la nobiltà
e il valore di costumi e tradizioni.

Il cinema di Ford utilizza il découpage classico, ma fa anche largo uso della profondità di campo.

Esordì nel cinema negli anni della IGM, con un intenso apprendistato che lo imporrà a Hollywood.
1924 → Il cavallo d’acciaio → western di vasto respiro che descrive la costruzione della prima ferrovia che
attraversò gli USA → apologia dell’avanzare della civiltà e di Lincoln → grande successo.

Il suo stile è attento all’individuo, ai casi personali, alla definizione psicologica dei personaggi. Non dirigerà
solo western ma anche film di vario genere, trattando i temi fondamentali della sua poetica, legata ad un
profondo spirito umanitario e democratico, rooseveltiano, puritano e conservatore.
I suoi personaggi sono nettamente caratterizzati, il più delle volte emblematici di una condizione
esistenziale o rappresentativi di qualcosa o qualcuno, anche se calati in una dimensione storica e
ambientale precisa e spesso attentamente ricreata.

Ombre rosse (1939) → costruito sul motivo di un viaggio di una diligenza in un territorio minacciato dai
pellerossa; introduce diversi elementi di critica nei confronti del perbenismo e del puritanesimo dominanti
nella società americana. E’ costruito sull’approfondimento psicologico dei personaggi e sull’attesa del
concretizzarsi della minaccia indiana → è uno dei grandi capolavori del cinema hollywoodiano.
Furore (1940) e La via del tabacco (1941) → prove dell’impegno sociale e del legame con il New Deal di
Ford.

Ford fa del western un’arte la cui ragion d’essere sta tutta dentro al mito della leggenda, al di fuori della
realtà e della storia. Arriverà anche alla demitizzazione dell’eroe condannato alla barbarie (dissonanze
fordiane, carattere critico della sua poetica). Il suo ultimo western è Il grande sentiero (1964), che pare una
sorta di scusa e atto riparatore verso gli indiani, popolo che spesso lo stesso western ha individuato come
luogo del male e delle barbarie.

Ford è quindi cantore da una parte delle virtù americane e dell’american way of life, ma allo stesso tempo,
e ancora di più nelle opere della maturità, grande critico e rilevatore di contraddizioni.
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Ombre rosse (1939; Ford)

- due premi Oscar


- ogni passeggero della diligenza incarna uno stereotipo sociale, che si contrappone ai compagni di viaggio
che rappresentano valori e ideologie diverse
- nello spazio circoscritto della carrozza esplodono quindi i conflitti propri del mondo civilizzato
- al regista sembra interessare più la conflittualità tra differenti i status incarnati dai personaggi anziché lo
scontro fra bianchi e pellerossa
- le necessità dettate dal viaggio colmeranno le distanze tra i due mondi rappresentati dai personaggi
(“rispettabili” e non), dimostrando la tesi per cui la civiltà si costruisce sulla reciproca collaborazione
- la narrazione arriverà a mettere in crisi e sovvertire il concetto stesso di rispettabilità
- il protagonista maschile positivo è in verità un ricercato; rappresenta anche il tema dell’estremo
individualismo dell’uomo che si fa da sé; eroe senza legge
- ambientato nella Monument Valley, che diventerà lo spazio simbolico del genere western delle future
pellicole
- assalto alla diligenza girato a grande velocità; macchine da presa posizionate a terra (scavalcate dai
cavalli), velocissimi carrelli, concitati primi piani, uso di luci e ombre
- paradigma del western classico
- coraggioso atto d’accusa contro l’ipocrisia sociale e l’emarginazione; potente spaccato dell’America del
tempo

Joseph von Sternberg fra realismo e decadentismo

Il cinema di Sternberg dipinse un aspetto della società americana differente da quello dominante ma ad
esso complementare, il risvolto inconfessato della medaglia → Decadentismo di marca europea, gusto
intellettualistico raffinato, ambiguità della realtà.

Il suo primo film fu Salvation Hunters (1925), in cui è riscontrabile l’influenza del Kammerspiel tedesco.
I caratteri più evidenti del linguaggio filmico di Sternberg furono:
- simbolismo, che scaturiva da una rappresentazione realistica degli ambienti e dei fatti
- contrasti tra realtà e sogno
- tensione drammatica indefinibile

Fu considerato un regista realista per via dei film realizzati nei primi anni della sua carriera, di impronta
fortemente naturalistica. La sua poetica fu in realtà caratterizzata da un lirismo esasperato, influenzata
dalla tradizione simbolista e decadente dell’arte europea degli anni della sua infanzia.
Tuttavia, solo parte del cinema di Sternberg si identifica con uno stile barocco, esagerato, compiaciuto, al
servizio dell’esaltazione della donna come creatura del male, istigatrice di delitti, personificazione del
maligno e al tempo stesso affascinante, conturbante e anche, per certi aspetti, angelica e purissima nella
sua totale amoralità → interpretata spesso da Marlene Dietrich, il cui primo film insieme fu L’angelo
azzurro (1930), unico film tedesco dell’autore, e con cui girò Marocco (1930). Tema ricorrente nell’arte di
Sternberg è appunto la femminilità, indagata nei suoi vari aspetti e nelle sue complicazioni e conseguenze
sul piano umano e sociale → tema centrale nella sua rappresentazione deformata e deformante della
realtà. Il discorso di Sternberg è tuttavia più ampio (non relegato ai film con la diva) e profondo e può
essere interpretato come un discorso pessimista sulla debolezza dell’individuo, sul fallimento dei suoi sforzi
per uscire dalla mediocrità, sulla vita come inganno e sulla delusione dell’esistenza.
Il suo stile è attento ai particolari realistici, ambientali; conferiva una dimensione quotidiana alla storia, ma

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proprio attraverso l’insistenza sui particolari questi perdevano via via il loro aspetto naturalistico per
assumerne uno simbolico fortemente espressivo.

L’angelo azzurro (1930) lo rese famoso a livello internazionale e fu considerato film conclusivo del periodo
espressionista tedesco → nella poetica dell’autore, invece, segna il passaggio non soltanto dal muto al
sonoro ma anche da una tematica più naturalistica a una più simbolista → stile espressionistico:
- vanità dell’esistenza
- impossibilità di sottrarsi alle pulsioni del desiderio
- negatività che presiede ogni atto umano
- demonismo

Il demonismo è posto in primo piano nella collaborazione dell’autore con la Dietrich, che darà una
fisionomia inconfondibile al personaggio della donna ammaliatrice, in sostanza sempre uguale. Si tratta di
un divismo ben diverso da quello di Greta Garbo, contemporaneo, estremamente edulcorato sul piano
della sensualità → il divismo di Sternberg e della Dietrich punterà soprattutto allo scardinamento di certe
convenzioni dello spettacolo hollywoodiano dei tempi, recuperando e approfondendo un certo demonismo
del cinema degli anni Venti europeo → coppia sinonimo di un cinema peccaminoso e conturbante → Ne è
esempio Marocco (1930).

I motivi drammatici e gli elementi narrativi di Sternberg sono intrisi di motivi barocchi, decadenti, fantastici,
espressionistici → tali sensazioni tuttavia non si risolvono soltanto sul piano estetico e formale, ma
intaccano profondamente il reale colto nella sua ambiguità e nei suoi risvolti irrazionali. Il suo cinema è
l’altra faccia del New Deal; coscienza di un’alterità nascosta, che invano si cerca di condannare.

Sternberg prospetta soluzioni differenti dall’ottimismo programmatico e dall’impegno sociale e politico


dichiarato dell’America puritana e conservatrice (benché agisca all’interno del sistema hollywoodiano).

Il suo barocchismo è inteso come horror vacui, dato dal sovraccaricamento di elementi figurativi e dinamici
sino alla saturazione dell’immagine e del ritmo: cura minuziosa di costumi, scenografie, effetti fotografici e
luministici… Non lascia nulla all’improvvisazione o al caso.

Tra gli ultimi film di Sternberg → Una tragedia americana (1931): discorso pessimistico e disincantato sulla
relatività dei valori umani e sociali e sul fallimento certo di ogni azione rivolta a modificare la situazione
esistenziale.

Marocco (1930; Sternberg)

- primo film americano dei 7 girati con la Dietrich


- film esotico
- primo bacio lesbico della storia del cinema: l’immagine della diva è quello di una donna trasgressiva,
dominatrice e fiera; il suo tratto più originale è proprio il rapporto duplice e ambiguo che ha con entrambi i
sessi, trattato spesso in maniera esplicita e spavalda
- l’immagine della Dietrich viene modellata da Sternberg stesso, che la ripete identica in tutti i suoi film;
l’attrice tuttavia non è passiva e contribuisce alla creazione della sua immagine
- i giochi di luce e ombre sono concepiti per risaltare l’attrice
- la regia è totalmente al servizio della diva, la segue e indugia sulle sue movenze e su seducenti primi piani
- obiettivo del regista è esaltare la donna (maligna, conturbante, angelica) → femme fatale
- l’immagine della femme fatale è controbilanciata dal mito maschile, Gary Cooper; per la prima volta, pur
continuando a incarnare una donna dalla graffiante sensualità, la donna si sottomette al maschio di cui è
perdutamente innamorata
- proprio in questi film Sternberg fa della donna fatale il personaggio chiave del suo cinema e attraverso di
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lei lascia intravedere un’interpretazione tragica dei destini umani
- vena barocca → sovraccarico delle inquadrature di elementi figurativi e dinamici fino alla saturazione
delle immagini e del ritmo → sconvolge lo spettatore; simbolismo della pellicola
- tema della duplicità accompagna la protagonista → insistita presenza di specchi
- alterità → rappresentata dalla donna conturbante e dal suo rapporto con l’altro sesso, fuori dagli schemi
borghesi → carica dirompente dell’irrazionalità; celata critica all’America puritana e conservatrice,
prospettando una soluzione diversa all’ottimismo rooseveltiano
- tratti onirici film → prototipo film del cinema hollywoodiano antirealistico; stilizzazione; inverosimiglianza
dell’ambientazione che assume connotati marcatamente simbolici (sottolineati gli aspetti più esotici e
irrealistici del paese arabo)

Howard Hawks

La sua opera rappresenta l’altra faccia dell’americanismo, non deformata dal sarcasmo europeo di
Sternberg. L’opera di Hawks è multiforme, eclettica, copiosa. Fu egli stesso producer, organizzatore dello
spettacolo cinematografico in tutti i suoi aspetti.
Il suo cinema è lo specchio, un po’ corrosivo, ma anche bonario e compiaciuto, della società americana, del
suo costume e ideologia, dagli anni ’30 ai ’60.

L’autore predilige, accanto alla commedia di costume, il western e i film d’avventure; è meno “moralista”,
più interessato agli aspetti inconsueti e ai risvolti umoristici della realtà quotidiana piuttosto che ai suoi
contenuti ideali. Il suo concetto di amicizia e lealtà è meno venato di patetismo o sfumature
nazionalistiche; i suoi personaggi sono caratterizzati da coraggio, eroismo e abnegazione ma non sono mai i
prototipi dell’uomo ideale o emblemi di una visione prettamente americana della realtà; nascono da
determinate situazioni ambientali. Le virtù americane, inoltre, sono trattate con distacco ironico.
Alla base della sua poetica troviamo l’amicizia, in particolare quella virile, come cardine di ogni situazione
esistenziale. Il suo stile è emblematico dei modelli di rappresentazione del cinema americano classico. I
dialoghi sono ridotti all’essenziale oppure all’estremo, i tempi morti banditi e i movimenti di macchina
sempre funzionali a quelli dei personaggi → regia invisibile; il ritmo del racconto è spesso molto sostenuto
e la storia sembra procedere con il massimo della naturalezza possibile.

Hawks giunse al cinema agli inizi degli anni Venti. Le sue tematiche sono:
- piacere del rischio
- spirito d’avventura
- amicizia virile
- lealtà
- sottile misoginia
- coraggio e solidarietà
- eroismo quotidiano, impercettibile, modesto

Gira Scarface (1932) → grande classico del cinema gangster, in cui la vicenda personale di un capobanda si
dilata a vicenda collettiva; vi è un capovolgimento di situazioni in cui Hawks mostra l’altra faccia delle “virtù
americane” di cui la sua opera sarà fedele testimone.

L’autore, grazie alla sua maturità espressiva, sarà in grado di trasformare semplici prodotti di consumo
immediato in film di chiaro significato culturale. Un dollaro d’onore (1959), El Dorado (1967), Rio Lobo
(1979) sono le opere considerate vertici dell’arte di Hawks, attento alle psicologie e ai rapporti affettivi che
legano i suoi personaggi.

Girerà anche film neri e polizieschi, tra cui Il grande sonno (1946), considerato uno dei capolavori della
grande stagione del film noir americano.
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Hawks affronterà i vari generi cinematografici come occasione per svolgere il suo discorso sulla realtà,
ironico, grottesco, irriverente, sempre sotteso tuttavia da un autentico amore per l’uomo, non tanto come
singolo individuo “astorico” quanto come elemento di una più vasta comunità, all’interno della quale
devono sussistere rapporti di vera amicizia, genuino cameratismo, lealtà e sincerità. Sotto questa luce la
sua poetica coincide in larga parte con l’americanismo rooseveltiano e più in generale con la filosofia della
vita propria di una civiltà nata all’insegna della conquista. Egli rimase tuttavia sempre lontano da ogni sorta
di propaganda morale.

Il grande sonno (1946; Hawks)

- grande sonno = sonno freddo della morte; il film rappresenta lo squallore e la solitudine della vita
metropolitana con crudo realismo, sequenze estenuanti, ritmo serrato
- caleidoscopio di personaggi e caratteri, tra i quali risaltano quelli femminili
- pellicola noir, che però appartiene al genere in modo atipico; non vi è voce fuoricampo, né flashback, né
abuso del grandangolo, né immagini a forte contrasto di matrice espressionista, né distorsioni linguistiche
- la regia è discreta, fatta di intervalli tra campi e controcampi, totali e dettagli, inquadrature di servizio →
sono del tutto assenti i tempi morti e le battute inutili, i movimenti di macchina sono limitati all’essenziale,
secondo le regole del cinema narrativo classico → stile asciutto, regia invisibile, che fa dimenticare la
dimensione filmica
- nel film il detective incarna l’azione, per cui in alcune sequenze lo si vede inquadrato in modo tale che
dietro al suo volto scorra rapidamente il paesaggio notturno; al contrario la protagonista femminile
rappresenta il sentimento, quindi domina sul piano delle immagini ed è ripresa in modo tale che il suo viso
appaia come astratto sulla superficie dello schermo → meccanismo tipico del cinema classico
hollywoodiano in cui l’uomo è soggetto attivo dell’azione e la donna oggetto passivo dello sguardo
- Hawks gioca molto sulla tensione passionale tra i due personaggi, anche attraverso dialoghi allusivi →
erotismo
- in alcuni momenti è presente il virtuosismo del cinema nel cinema

La commedia di costume e il musical

In questi anni esisteva un cinema di consumo autenticamente hollywoodiano (in quanto legato agli schemi
spettacolari elaborati dall’industria) che si sviluppò secondo i moduli della commedia e che, però, ne fissò
ancor di più i canoni espressivi legati al sonoro diventando un genere particolare: il musical → alternanza
obbligata di canzoni, balletti, numeri di varietà, sullo sfondo di scenografie sempre più sontuose ed
elaborate, sino all’incredibile e al kitsch. Questo genere derivava dal teatro tutti gli elementi necessari per
lo spettacolo, integrandovi però anche gli elementi prettamente cinematografici, come spettacolari
movimenti di macchina ed effetti di montaggio (che ne facevano dunque un prodotto decisamente
diverso). L’operetta di marca europea (Lubitsch) divenne il musical americano.

La commedia in senso stretto divenne invece un genere piuttosto codificato, che si sviluppava invece
sempre in medesimi concetti comico-drammatici attorno a personaggi e situazioni che si ripetevano
all’infinito e a vicende che terminavano con l’immancabile happy end, anche se alcuni autori vi
introducevano variabili derivate da fatti del giorno o problemi d’attualità, talvolta legati alle difficoltà della
Depressione. Tradizionalmente la commedia americana anni ’30 è divisa in due grandi ambiti:
- sophisticated comedy → più articolata narrativamente e elegante nei dialoghi
- screwball comedy → legata a un’idea di comico puro, affidata a personaggi eccentrici e gags talvolta
surreali se non demenziali

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Tra i migliori autori di commedie del tempo, che si richiamarono alla tradizione del cinema comico muto
aggiornandone il piano contenutistico e formale: Capra, McCarey, Cukor.

Cukor fu autore di un cinema di consumo più articolato e personale, meno convenzionale. Non si occupò
solo di commedia sentimentale, ma anche di musical e dramma passionale (per cui realizzo anche diversi
adattamenti di classici della letteratura, es. David Copperfield - 1935).
Fu attore e regista teatrale; trasferì sullo schermo il fascino del teatro, l’attenzione a scenografie, attori,
costumi, dialoghi ed anche il costante riferimento alla dialettica tra realtà e finzione. Nelle sue opere la
funzione del regista è soprattutto quella di coordinare i vari elementi dello spettacolo (testo, dialoghi,
recitazione, scenografia); egli è in primo luogo, come a teatro, un metteur en scène. La sua opera è un altro
valido esempio della trasparenza e discrezione di scrittura propria del cinema hollywoodiano classico.
Attraverso i suoi personaggi, situazioni, dialoghi, ambienti veniva fuori un’immagine critica, seppure
parziale e volutamente deformata sul piano dell’ironia, dell’alta borghesia e della società americana degli
anni Trenta; cura formale.

L’autore di commedie e di drammi sentimentali che, negli anni Trenta, meglio rappresentò la società
americana, alla luce dell’americanismo programmatico di marca rooseveltiana, fu Frank Capra, che alle
soglie del sonoro produsse regolarmente commedie di costume che riscossero un notevole successo e in
cui vi si trovavano certi aspetti quotidiani della realtà rappresentati con fine gusto e sensibilità.
Il suo stile era piano e scorrevole, l’umorismo sottile, lo spirito democratico e progressista, talvolta un po’
paternalista e moraleggiante; vi si trova la condanna al conformismo, la fiducia nell’uomo di strada,
l’avversione nei confronti del denaro e di una certa politica, l’idealismo → i suoi film costituiscono i lati
positivi di un’arte sinceramente popolare.
Accadde una notte (1934) fu uno dei suoi film di maggiore successo; si tratta di una commedia sofisticata in
cui i casi della vita, il rapporto fra i sessi, le schermaglie amorose e il femminismo americano sono
rappresentati con umorismo leggero, caratteristico dello stile di Capra, e costituiscono il filo ininterrotto di
un discorso che si proponeva di fornire al pubblico non soltanto uno spettacolo, ma anche alcuni motivi di
riflessione → insegnare divertendo. Fatti e personaggi sono in diretto rapporto con la realtà quotidiana,
con i problemi sociali e la struttura della società americana negli anni rooseveltiani; egli mostra quali sono i
diritti e doveri del buon cittadino, amante allo stesso modo di patria e giustizia, libertà e democrazia; il suo
discorso morale e politico nasce dalla visione umoristica della realtà.
L’utopia sociale e il mito rooseveltiano trovavano la loro esplicazione spettacolare nell’happy end che
concludeva ogni singola storia, individuale e collettiva, anche se il suo carattere posticcio e improvvisato lo
rendevano un po’ falso e forzato.
Negli anni della guerra supervisionò la nota serie documentaria Why We Fight? (1942 – 1945) prodotta
dall’esercito americano per illustrare ai soldati e alla nazione le ragioni dell’intervento bellico in Europa e in
Asia. Realizzò poi, dopo la guerra, altri film di successo ma meno rappresentativi della sua poetica.

Il musical fu rappresentazione fantastica, disimpegnata e volutamente libera della società che lo aveva
prodotto, libero da qualsiasi preoccupazione contenutistica → lo spettacolo per lo spettacolo. Di
derivazione teatrale, musica, canto, ballo, dialoghi, scenografie, costumi sfarzosi, situazioni comiche
brillanti sentimentali ecc. acquistavano, con le possibilità tecniche ed espressive del cinema, una nuova
dimensione e diffusione su vasta scala. Divenne un genere hollywoodiano di grande successo che, seppur
con dei limiti, rappresentò un aspetto della società americana degli anni ’30, ossia il puro divertimento
inteso come fuga dai problemi della realtà quotidiana. Durante gli anni Trenta e anche in seguito, il genere
si affermò. Le due anime principali all’interno del genere furono:

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- musical dietro le quinte → narra l’allestimento di uno spettacolo
- musical integrato → in cui i numeri di danza servono a far procedere una storia di ordine sentimentale

Berkeley fu maestro incontrastato del genere; curò la coreografia di film di notevolissimo successo di
pubblico e critica (es. 42esima strada; Footlight Parade; 1933; Bacon).

Principale obiettivo dello spettacolo era quello di far sognare il pubblico, di trasportarlo in un luogo
incantato, dove la realtà quotidiana era trasfigurata da una fantasia che puntava essenzialmente sullo
stupore e la magniloquenza scenica. Il musical è strettamente connesso alla commedia sofisticata che, nel
medesimo periodo, raggiunse significativi risultati e grande successo popolare, che riconquisterà poi anche
negli anni ’50.

Contraltare di musical e commedia sofisticata fu l’opera dei fratelli Marx, che diedero una visione
umoristica e scanzonata dell’America degli anni ’30, intenta di sarcasmo ma anche di una cattiveria
impercettibile mascherata dal nonsense. Interpretarono una serie di film sorretti da spunti originali,
grotteschi, assurdi, in un progetto chiaramente ironico e demistificatorio, attraverso una comicità
cinematografica profondamente diversa dalla tradizione comica americana. Nei loro film la realtà
fenomenica subisce ogni sorta di modificazione, deformazione, interpretazione assurda, grottesca; la
visione del reale è per certi versi simile a quella dei surrealisti, ancorata al sogno, alla fantasia,
all’immaginazione. Fatti, luoghi, azioni, ambienti mantengono in ogni loro film il loro aspetto consueto e
quotidiano; è l’intrusione violenta dell’assurdo nella realtà normale, attraverso il comportamento dei
personaggi, che capovolge la situazione drammatica. La forza eversiva del loro cinema sta proprio nel
capovolgimento dei dati immediati della conoscenza logica e razionale → mettono in crisi il conformismo
spettacolare di Hollywood. Un esempio di loro film è La guerra lampo dei fratelli Marx (1933), il cui
soggetto mette in burla la dittatura, il potere assoluto, le insufficienze della democrazia, in uno spirito
anarcoide che è il carattere fondamentale della poetica dei Marx → satira senza eguali nel cinema
americano contemporaneo.

Walt Disney contro i fratelli Fleischer

Negli anni ’30 la comicità la comicità si esplicò in:


- commedia sofisticata
- musical
- film comico sentimentale → addolcì progressivamente la carica distruttiva dei precedenti prodotti (in
parte derivata dalla loro rozzezza stilistica)

Nel disegno animato si assistette a un medesimo fenomeno: man mano che il cinema d’animazione di serie
acquistava la sua nobiltà estetica e artistica, e interessava la critica internazionale, il suo valore ideologico e
la sua funzione demistificatrice andavano scemando, in coincidenza con il rinnovato “americanismo” di
Roosevelt, che mal tollerava la critica violenta, la derisione, la beffa e la satira esplicita.

Ciò si vede bene nell’opera di Walt Disney, che con quella di Lantz e Terry dominò il mercato del disegno
animato hollywoodiano degli anni ’30. In questo clima mutato anche il disegno animato americano fu
avviato verso una rappresentazione sempre più edulcorata della realtà, sfruttando al massimo i nuovi
canoni spettacolari creati dagli industriali di Hollywood. I disegni animati si imposero al pubblico e alla
critica come complemento del cinema maggiore, come divertente integrazione.

Lo sviluppo del disegno animato americano è strettamente collegato a quello dell’industria del fumetto,
della letteratura infantile, dei giocattoli. Tutti i produttori, tra cui Disney, sfruttarono i più diversi canali
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commerciali per propagandare e diffondere la loro merce. Tutta l’industria del divertimento infantile
ruotava attorno all’industria del disegno animato; vi era una capillare penetrazione dei prodotti dell’una e
dell’altra, complementari, che non faceva che accrescere le dimensioni di un fenomeno che da
semplicemente industriale diventò progressivamente sociale e culturale.

Il caso Disney assume un significato particolare. Egli divenne l’autore-produttore più noto e applaudito del
mondo. I suoi personaggi, in primis Topolino, furono considerati i simboli di una particolare visione del
mondo, che si identificava in larga misura con l’american way of life. Fu nel 1928 che, con la fondazione
della sua propria casa di produzione, Disney cominciò una carriera che lo porterà al successo
internazionale, da un lato con Mickey Mouse, dall’altro con la serie Silly Symphonies (dal 1930 al 1939). La
sua produzione andò sempre più sviluppandosi e ingrandendosi, con la creazione di altri personaggi come
Paperino, Pippo, Pluto… Temi e soggetti, così come i modi della rappresentazione, si identificarono sempre
di più con la società da cui nacquero e alla quale si rivolsero, costituendone una sorta di specchio.
La comicità si andò facendo più raffinata, con i toni di una bonaria ironia. Lo stile della narrazione si fece più
articolato e la tendenza alla narrazione realistica. Una maggiore strutturazione drammatica e più
accentuata caratterizzazione dei personaggi indirizzerà la produzione Disney verso i lungometraggi: il primo
fu Biancaneve e i sette nani (1937).

Il disegno animato disneyano dominò con pochi oppositori e concorrenti e riflesse alcuni caratteri
fondamentali della società americana degli anni ’30. Si impose al pubblico anche per il divismo dei sui eroi,
nella misura in cui i personaggi di Disney rappresentavano le aspirazioni di un popolo in un determinato
periodo della sua storia.

Max e Dave Fleischer furono rappresentativi invece dell’antidivismo che si esplicò nel capovolgimento
grottesco e satirico del cinema disneyano da una parte, dall’altra nel sorgere nella società americana di
nuovi miti sociali e esigenze politiche → progressivo mutare della situazione dall’ottimismo e speranza dei
primi anni del New Deal all’aggressività e alle certezze degli anni immediatamente precedenti la seconda
guerra mondiale → testimoniato dal progressivo successo che ebbe il loro personaggio Braccio di Ferro
(primo episodio del 1933). Parallelamente, essi svilupparono il personaggio di Betty Boop.
L’antidivismo del cinema dei Fleischer si intende nel senso che i loro personaggi si contrapponevano, nel
segno grafico, nei caratteri umani e sociali e negli atteggiamenti, ai canoni hollywoodiani a cui invece faceva
riferimento Disney → lo stile del loro spettacolo era rozzo, volgare, violento, antiestetico.
I Fleischer svilupperanno un discorso autonomo e originale, in cui il disegno animato è utilizzato nelle sue
più autentiche possibilità di rappresentazione grottesca della realtà, come veicolo della loro visione satirica
e ironica, persino cattiva, dell’uomo e della società → i miti dell’America puritana e borghese sono
capovolti, spesso esagerati e volgari, violenti, grotteschi; personaggi deformi, brutti, spesso antipatici.
Il personaggio fondamentalmente nuovo e del tutto antitradizionale nel disegno animato di serie, che
provocò l’intervento della censura, confermando il carattere antidivistico e fortemente satirico della
poetica dei Fleischer, fu Betty Boop → primo personaggio dei disegni animati esplicitamente erotico,
costruito secondo le regole del sex appeal di marca hollywoodiana, al centro di uno spettacolo che più che
mostrarla eroina la presenta come diva, cantante, ballerina che suscita desideri e brame dei personaggi
secondari che la circondano. I film erano costruiti esclusivamente su di lei. Il divismo era quindi alla base
della costruzione filmica e in questo modo veniva svuotato, capovolto, dissacrato dal carattere caricaturale,
satirico e grottesco dello spettacolo. Betty Boop era contemporaneamente diva del disegno animato
americano e antidiva del cinema hollywoodiano.

Divismo e altri generi

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Il divismo cinematografico americano degli anni Trenta rese il cinema hollywoodiano un modello
incontrastato, lo spettacolo cinematografico per eccellenza. Divi: Gary Cooper, Cary Grant, James Stuart…
In particolare per le attrici, i film sono una sorta di campionario di atteggiamenti vari e dei caratteri più
autentici della femminilità, almeno secondo i canoni di bellezza vigenti all’epoca e in quella data cultura.
Dive: Marlene Dietrich, Greta Garbo, Ingrid Bergman…
Il panorama sfaccettato di modelli umani e sociali, sia maschili che femminili, ebbe notevole influenza sul
costume e sulla moda. Il valore spettacolare e il successo di pubblico di diversi film erano dovuti alla
semplice presenza di divi sullo schermo. Il divo rappresenta di fatto la concretizzazione di un mito che si
ripete, di film in film, e non va confuso con l’attore-interprete, che, invece, mette continuamente la propria
personalità in rapporto con i personaggi che deve interpretare. Caso esemplare di questa duplicità,
dell’ambiguità divo-attore e rappresentò al cinema il divismo per antonomasia fu Greta Garbo, che seppe
unire al suo fascino personale una forte personalità d’attrice e cercava comunque sempre di conferire ai
suoi personaggi una individualità psicologica e drammatica sempre nuova, non fissata una volta per sempre
nelle forme e nei modi del cinema corrente. Esordì giovanissima in La saga di Gosta Berling (1923; Stiller).
Fu La via senza gioia (1925; Pabst) ad aprirle le porte per Hollywood. Fu la diva cinematografica per
eccellenza, i successi nascevano dalla sola sua presenza sullo schermo e nei film tutto era in funzione della
diva.

Negli anni Trenta commedia e musical costituivano una sorta di antidoto alla crisi sociale del periodo, un
modo per dimenticarla ed esorcizzarla. Vi furono però altri generi che si possono considerare specchio
evidente di tale crisi, sia che la evocassero in termini metaforici (horror, fantastico), sia che ne
rappresentassero gli aspetti più violenti (gangster film).
Già negli anni Venti, grazie all’impatto che Il gabinetto del dottor Caligari (1920; Wiene) ebbe negli USA,
l’horror e in generale il cinema fantastico ad esso collegato, acquistò una certa importanza. Fu in
particolare la Universal a produrre alcuni dei più importanti film del genere, fra cui quelli interpretati dal
leggendario e versatile Lon Chaney (Il gobbo di Notre Dame – 1923; Il fantasma dell’opera – 1925). Quando
l’attore passerà alla MGM, si avvierà la sua collaborazione con Tod Browning, il cui film più sconvolgente fu
Freaks (1932), un campionario di autentici mostri umani sullo sfondo di un circo equestre, dove si svolge
una storia d’amore dai risvolti raccapriccianti. Nei primi anni Trenta l’horror e il fantastico arrivano a una
loro vera maturità, creando un proprio particolare divismo: Dracula (1931; Browning) e Frankenstein (1932;
Whale) rievocano entrambi figure leggendarie della cultura dell’orrore e devono molto della loro fama ai
loro interpreti Bela Lugosi e Boris Karloff.
In ambito fantastico fu importante il lavoro della coppia Schoedsack e Cooper, che realizzarono nel 1933
King Kong, uno dei più significativi film sul tema consueto della bella e la bestia, che seppe dar vita nei
reami dell’immaginario a quella paura del ritorno alle barbarie molto diffusa negli anni della grande crisi. Il
cinema dell’orrore ebbe poi un importante ritorno nei primi anni Quaranta, non a caso in coincidenza con il
coinvolgimento americano nella IIGM.

Anche il cinema di gangster muove i suoi primi importanti passi negli anni Venti, ma si configura come vero
e proprio genere nei primi anni Trenta, raccontando storie di ascesa e caduta di pericolosi criminali,
ispirandosi al mondo della malavita organizzata degli anni del Proibizionismo. Molti di questi film furono
attaccati dalla censura sia per la violenza di alcune loro scene sia perché accusati di proporre un’immagine
di criminale che correva il rischio di spingere all’emulazione. Gli studios decisero così di dare una svolta al
genere, relegando i personaggi di criminali a ruoli minori e sviliti e rendendo protagonisti poliziotti o forze
dell’ordine, esplicitando così la loro condanna al mondo del crimine. Tra i registi che si affermarono in
quegli anni nel genere ci furono Borzage, Mamoulian (girò Il dottor Jekyll; 1932), Walsh (girò Il ladro di
Bagdad; 1924). Wyler si distinguerà in tale panorama per il suo stile composito ed elaborato che

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influenzerà alcuni autori del cinema americano successivo come Orson Welles.

10. IL CINEMA FRANCESE DEGLI ANNI TRENTA E IL REALISMO SOCIALISTA

Dall’avanguardia al realismo populista

Nel corso degli anni Trenta l’industria cinematografica francese è in difficoltà. Le due maggiori compagnie
Pathé e Gaumont sono in crisi e la produzione è dispersa in molte piccole società dal carattere artigianale,
che esercitavano un minore controllo sui principali registi del periodo permettendo quindi loro una
notevole libertà creativa (Clair, Renoir, Carné, Duvivier).
Il clima politico contemporaneo portò al governo il Fronte Popolare, una coalizione di socialisti, comunisti e
repubblicani. Con l’avvento della guerra e l’occupazione tedesca il cinema francese attraverserà uno dei
periodi più drammatici della sua storia.

Con la fine degli anni Venti si esaurisce l’avanguardia francese. Si considera l’opera di Cocteau, Il sangue di
un poeta (1930), come punto di arrivo dell’avanguardia cinematografica francese, nella fase del suo declino.
Il cinema di Cocteau si pone come modello di un cinema di poesia, anti-narrativo, in cui sogno e fantasia,
ricordi e incubi, passioni e desideri vengono espressi attraverso i film, come se l’espressione filmica fosse
una sorta di rappresentazione onirica. Per Cocteau il cinema è “una potente arma per proiettare il
pensiero”. Egli fu poeta, romanziere, commediografo, pittore → ecclettismo culturale.
Nel cinema l’autore vide il mezzo privilegiato per rappresentare il sogno: le immagini erano per lui
visualizzazione dell’inconscio; si compongono come flusso di sensazioni, ricordi, desideri, fantasie. Il sangue
di un poeta è il primo esempio di cinema di poesia dell’autore. Nei suoi film successivi, come ad esempio La
bella e la bestia (1946), vi fu un intento esplicito di drammatizzazione, anche se nella dimensione della fiaba
e della fantasia. L’intento rimase comunque chiaramente poetico e si concretizzò nell’uso originale del
linguaggio dell’immagine, fuori di ogni contesto naturalistico o riferimento alla quotidianità. Il suo Il
testamento di Orfeo (1960) è considerato una sorta di summa cinematografica e poetica dell’autore, in cui
si riscontrano ancora una volta l’alogicità della narrazione, simbolismo, libera associazione di fatti e
situazioni… → esplicito richiamo agli anni dell’avanguardia.

L’eredità dell’avanguardia si riscontra anche nell’opera di altri autori che proprio in quel cinema si erano
formati e che avevano “il senso del cinema”, ossia credevano non soltanto nell’autonomia del linguaggio
cinematografico ma anche nella sua funzione sociale e nella necessità di rivolgersi a un pubblico più ampio.
Tra questi: Renoir, Vigo… Con questi autori il cinema francese anni ’30 si impone in campo nazionale e
internazionale, non soltanto attingendo ai presupposti dell’avanguardia (soprattutto per quel che riguarda
la sua ricerca espressiva) ma rinnovandola e adattandola alla nuova realtà umana e sociale, politica e
ideologica. Il contenuto di tali opere era genericamente populista, democratico, si manifestava in uno stile
che si potrebbe definire realista, per via della corposità delle immagini, della verità della rappresentazione e
dell’approccio diretto con la realtà che furono caratteristiche peculiari del realismo cinematografico
francese. Temi e modi della rappresentazione riflettevano la situazione della Francia avviata verso
l’esperienza del Fronte Popolare. In sostanza, gli stimoli dell’avanguardia si erano mutati in un più diretto
impegno culturale e artistico.

Jean Vigo: tra poesia e narrazione

Il primo film di Vigo fu girato in collaborazione con Boris Kaufman, fratello di Vertov: A’ propos de Nice
(1929) → vi si riscontra l’influenza del cineocchio; film interamente autoprodotto. Si tratta di un film
documentario su Nizza, con elementi tratti dalla poetica dei surrealisti, rivisitati però alla luce dell’originale
personalità del regista, attento ai particolari, a fatti e situazioni che possono smascherare la convenzionalità
dell’apparenza, svelare l’ipocrisia che si cela dietro la rispettabilità e la normalità del reale. Il film
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documentario ironizza sulle abitudini dei vacanzieri che frequentano la città; è un atto d’accusa verso un
mondo borghese ma anche un piccolo poema visivo e ritmico su una città.
Tutta l’opera di Vigo sarà in bilico fra satira corrosiva e lirismo. In questo documentario l’aspetto più
propriamente documentaristico predomina sulla narrazione, mentre nelle opere successive, a soggetto,
meglio si esplicherà il carattere più autentico della poetica dell’autore, che necessita di personaggi anche se
fortemente caricaturali e unidimensionali. Fatti e personaggi sono emblemi e simboli della realtà
fenomenica; l’elemento affabulatorio consente un discorso critico, demistificatorio, violentemente
demolitore dei miti e dei riti della società borghese, esplicito.
Con i cine-poemi Zero in condotta (1933; proibito dalla censura) e L’Atlante (1934) affronterà direttamente
il film narrativo, in cui la nota stonata, la deformazione dei dati realistici e l’accentuazione forzata degli
elementi grotteschi o satirici della narrazione è in contrapposizione alla rappresentazione realistica allora
dominante. Alla base della concezione del mondo e del cinema di Vigo c’è una visione anarchica dei
rapporti sociali, una profonda amarezza esistenziale di fronte alla crudeltà di una società classista e
autoritaria, un certo bisogno di rivolta.
Zero in condotta, in larga parte autobiografico, possiede gli elementi caratteristici della poetica dell’autore:
- forte spirito satirico
- gusto dello scherzo beffardo
- piacere dell’iconoclastia
- sberleffo goliardico
- lirica visione della realtà
- magica evocazione dell’infanzia e sua idealizzazione come stagione migliore della vita (libera,
rivoluzionaria)
- critica sociale, impegno morale
- severa condanna dell’ingiustizia e del sopruso, dell’ipocrisia borghese

Opera uno studio attento del cinema come “rivelatore” e non solo “riproduttore” della realtà, sulla base di
una lunga sperimentazione tecnico-formale.

Il mondo dei ragazzi è osservato con occhi partecipi, commossi, realistici, mentre quello degli adulti in
modo violentemente critico, sarcastico e deformante → paiono scontrarsi, non avere possibilità di trovare
un punto di incontro. L’infanzia è vista come portatrice di un messaggio politico e ideologico preciso, come
metafora della lotta rivoluzionaria, come inno alla ribellione, libera da condizionamenti sociali ed
economici, sostanzialmente anarchico.
La descrizione naturalistica dei personaggi e degli ambienti è combinata alla loro deformazione caricaturale,
all’intrusione del fantastico nel reale. Egli utilizza la deformazione e l’irrisione, ma anche la
rappresentazione lirica del suo mondo, per giungere a un’interpretazione della realtà.

Anche in L’Atlante realtà e fantasia, realismo e onirismo si fondono in una superiore unità espressiva dando
origine a una visione disincantata, critica e problematica della realtà. La storia è solo uno spunto per
giungere a una serie di osservazioni acute. Questo film è considerato come testamento spirituale del
regista, che mette in risalto ed esalta l’amore che, anche se attinge qui alla tradizione surrealista dell’amour
fou, tempera di una visione profondamente umana dei rapporti interpersonali e della loro difficilmente
conciliabile necessità di un legame affettivo, da una parte, e libertà, dall’altra.

L’abilità di Vigo fu quella di aver saputo ancorare il simbolismo a una rappresentazione concreta,
sfaccettata, problematica della realtà, sicché il reale e il fantastico appartengono al medesimo universo
formale.

L’Atlante (1934; Vigo)

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- L’Atlante → nome della chiatta su cui una coppia di giovani va a vivere con il padre di lui
- il film affronta un grande tema, raramente trattato nel cinema, ossia l’esordio nella vita di una giovane
coppia, le difficoltà dell’adattarsi l’uno all’altra, con all’inizio l’euforia dell’accoppiamento e poi i primi
scontri, al rivolta, la fuga, la riconciliazione (Truffaut)
- la pellicola incarna il modello filmico che Vigo andava perseguendo, in cui realtà e fantasia dovevano
fondersi in un’unità espressiva che fosse critica nei confronti della realtà fenomenica e in cui la tradizione
realista del cinema francese fosse superata in un’aura magica, sospesa, instabile
- amour fou di stampo surrealista
- vi è una potente carica erotica che permea il rapporto della giovane coppia ed anche il montaggio
alternato della notte che passano l’uno lontano dall’altra (dopo la fuga di lei); sembra facciano l’amore
- immagini oniriche → es. quelle viste nell’acqua dal ragazzo (idea che sott’acqua di vede il volto della
persona amata lontana)

Il nuovo realismo di Jean Renoir

Fu anch’egli influenzato dal clima delle avanguardie, in particolare per quanto riguarda la sua vocazione alla
sperimentazione espressiva (uso profondità di campo e piano sequenza). Renoir recuperò, adattandola al
presente, la lezione della cultura e dell’arte francese dell’Ottocento: Zola, impressionismo, Flaubert,
Maupassant… Realizzerà una serie di film profondamente legati al clima politico e sociale della Francia del
Fronte Popolare, spesso animati da un corrosivo spirito libertario e antiborghese, sempre sostenuto da un
grande senso drammatico → nuovo realismo critico e distaccato, attento non solo alle cose così come sono,
ma anche alla finzione che le permea (vita = grande teatro) e a quella del cinema che le mette in scena.
Figlio del pittore Auguste Renoir, Jean Renoir divenne un punto di riferimento per il cinema moderno e per
la Nouvelle Vague. Si accostò al cinema negli anni Venti.

Alle soglie degli anni Trenta, dominati da problemi sociali, questioni politiche e ideologiche, crisi
economica, le ricerche estetiche e le sperimentazioni linguistiche nel cinema cedono il posto all’impegno
politico degli artisti. L’avvento del sonoro, inoltre, si risolve per lo più (tranne qualche eccezione che
sperimentò nuove soluzioni espressive) in un maggior realismo.

Anche Renoir, che era parso inizialmente interessato soprattutto a questioni formali, si volse nei suoi primi
film sonori verso una più drammatica e intensa visualizzazione del reale, introducendo nuovi elementi che
consentivano una visione critica dei fatti rappresentati. Pur narrando ancora storie romanzesche di
tradizione naturalistica, si avviò verso la strada che lo porterà al “realismo” dei suoi film più celebrati.
Nel 1931 gira La cagna, film attento ai particolari, che approfondisce il carattere dei personaggi, in cui la
realtà è mostrata in tutta la sua ambiguità. Come accadrà spesso in Renoir, commedia e dramma si
fondono, la macchina da presa osserva i fatti della vita mantenendo sempre un certo distacco → si tratta di
un film già intriso del realismo poetico che renderà grande il cinema francese anni ’30. Vi si ritrova già l’idea
di finzione che sarà centrale nella poetica del regista.
Nei film successivi Renoir affronta una narrazione che si affida più alle suggestioni del momento,
all’improvvisazione formale, anziché alla logica del racconto. L’improvvisazione sarà una delle
caratteristiche fondamentali dello stile maturo del regista, con i suoi elementi fuorvianti, le pause, le
digressioni… → contribuirà al realismo del cinema di Renoir.
I rapporti con la realtà quotidiana, nei suoi film, non sono mai così diretti da consentire una sorta di fusione
degli elementi filmici con quelli reali: c’è sempre uno scarto di ironia che si manifesta il più delle volte nella
libertà della cinecamera o in quella degli attori. Rifiuta dichiaratamente un cinema come riproduttore di
una realtà prefabbricata, come surrogato del teatro o della letteratura. La cinecamera ha una funzione
attiva, ma non si abbandona a vuoti formalismi. Le sue storie e i suoi personaggi sono segni di una
concezione del mondo in ci l’artista, pur mantenendo un distacco ironico dal reale, ha la funzione di

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prospettare la realtà in termini critici e di fornire una serie di proposte interpretative che nascono dal
rifiuto di schemi imposti. A questo modo di far cinema si richiameranno alcuni registi degli anni ’60, fra cui
Godard → razionale recupero della finzione cinematografica e contemporaneo suo disvelamento.

Fra il 1934, con Toni, e il 1939, con La regola del gioco, Renoir raggiunge l’apice della sua carriera.
Toni fu considerato, per il suo realismo anti-spettacolare (ampio uso di esterni, liberi movimenti di
macchina, attori non professionisti che si esprimevano nella loro lingua – italiano), un illustre precedente
del neorealismo italiano.

Tra i temi dei suoi film:


- lotta di classe e solidarietà operaia
- esperienza del Fronte Popolare
- occasioni perdute
- beffa e spirito antiborghese
- visione malinconica della realtà, cove gli interessi economici hanno ineluttabilmente la meglio sui
sentimenti d’amore
- senso di delusione dopo il fallimento dell’esperienza del Fronte Popolare
- differenze di classe e antimilitarismo

I due film di Renoir più celebrati sono La grande illusione (1937) e La regola del gioco (1939), che segna il
punto più alto raggiunto da Renoir nella carriera di regista. Si tratta di un ritratto corale di un mondo vacuo
e fondato sull’apparenza, ambientato in una villa di campagna dove si ritrovano diversi invitati ad una festa,
insieme alla servitù. Tutte le figure sono ambigue e contraddittorie, fatue e superficiali → ne emerge il
quadro, valido sia per i padroni che per i servi, di un mondo instabile e vacuo, incapace di guardare oltre le
piccole cose e le meschinità della propria esistenza, chiuso in un insieme di relazioni fondate su convenzioni
e apparenze → le regole del gioco. Si tratta di una tragica commedia di equivoci. Renoir utilizza uno stile
anticlassico, fondato sull’improvvisazione, sulla coscienza della finzione (una battuta del film: “fate cessare
questa commedia!”), sulla libertà dei movimenti di macchina da presa, su lunghe riprese e continui giochi di
entrate e uscite di campo. L’uso tridimensionale dello spazio rende inoltre visivamente la confusione del
reale. Questo film segna la fine del periodo più fertile e significativo dell’opera di Renoir. Lo scoppio della
guerra lo porterà a un esilio volontario negli USA dove condurrà una produzione di maniera che segnerà
una frattura significativa. Tornerà negli anni ’50 in Europa, ma sarà allora fuori da quella attualità, intesa
come stretto legame con i problemi del momento, che aveva sotteso le sue opere precedenti. Negli ultimi
film della sua carriera denuncerà un’evidente involuzione che può però essere interpretata con un’apertura
a nuove prospettive (sperimenterà infatti la tecnica televisiva dell’uso di più cinecamere
contemporaneamente) verso un cinema libero dai condizionamenti della tradizione.

Improvvisazione, disprezzo per la forma chiusa, ironia pungente, direzione antitradizionale degli attori,
lavoro sulla profondità di campo → aspetti dell’arte di Renoir a cui si richiameranno alcuni dei registi
francesi che saranno impegnati alla fine degli anni ’50 a modificare radicalmente forme e strutture del
cinema commerciale. Per questo Renoir è considerato tra i padri spirituali e precursori della Nouvelle
Vague.

La regola del gioco (1939; Renoir)

- protagonisti: nobili e altoborghesi viziosi, coppie e amanti, attorniati da servi che hanno i loro stessi difetti
e manie
- spietato sberleffo antiborghese; dramma giocoso che amalgama satira, vaudeville e tragedia
- film che sottolinea insistentemente sul lusso di cui si circondano i volubili protagonisti
- allusione alle maschere (statue orientali accanto a due personaggi che conversano) indossate dai

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personaggi in società
- analisi della realtà umana e sociale pungente, ricca di spunti di riflessione, rivelatrice di un costume,
un’ideologia
- narrazione che si regge su pause, situazioni drammaticamente statiche nelle quali i personaggi hanno la
possibilità di mostrarsi nella loro vera identità; lunghi piani sequenza; i movimenti di macchina rendono
l’unità dello spazio
- nel finale viene erroneamente ucciso un ospite; la commedia si tramuta in dramma, anche se allegro
- uso del fuoricampo: i personaggi vanno e vengono, entrano ed escono continuamente dal quadro
realizzando inconsapevolmente un “effetto finestra”
- numerose divagazioni e parentesi apparentemente gratuite con la funzione di perfezionare il tono e
l’intensità della storia, oltre ad essere in qualche modo anticipatorie: es. danza macabra → diade vita e
morte è sottotraccia dell’intero film → infiltrazione del mondo dei morti in quello dei vivi
- nei giochi amorosi delle coppie nessuno è esente dal tradimento → corna di cervo appese alla parete
sembrano spuntare in alcune inquadrature dalla testa degli ospiti

Marcel Carné e gli altri interpreti del realismo poetico

Renoir, Clair, Vigo → artisti che meglio rappresentano la società francese nel passaggio dalla crisi del primo
dopoguerra all’esperienza del Fronte Popolare e il superamento del formalismo dell’avanguardia.
Altri registi in quel periodo seppero affrontare temi e problemi della realtà umana e sociale del tempo con
sufficiente chiarezza e forza espressiva → cinema in più o meno aperta polemica con quello hollywoodiano,
spesso pervaso da un sincero spirito democratico, che attirò l’attenzione del pubblico e della critica
venendo etichettato come realismo nero o poetico.

Autori significativi di tale cinema furono: Feyder, Carné, Duvivier. Essi rappresentarono in larga misura le
tendenze emergenti nella società del loro tempo.
I personaggi dei loro film, le storie narrate, gli ambienti rappresentati e una certa comunanza di stile si
evidenzia in certe loro predilezioni formali e in un realismo di stampo letterario → ricerca di un linguaggio
autonomo pur all’interno di una concezione dello spettacolo cinematografico sostanzialmente tradizionale
→ forniscono gli elementi per un’analisi della società francese degli anni Trenta, nelle sue implicazioni
politiche e sociali, e della cultura popolare.

Feyder → sarà un maestro riconosciuto del realismo poetico; influenzerà l’opera di Carné. Aspetti costanti
della sua poetica saranno: dramma intimo e satira sociale.
Il suo più apprezzato film sarà La kermesse eroica (1935), che descrive l’occupazione da parte degli spagnoli
di una cittadina delle Fiandre alla fine del ‘600. Si tratta di un film dai toni corrosivi e irriverenti, inno
all’intraprendenza femminile; le donne accolgono infatti l’invasore, lo seducono e fanno sì che questo si
allontani senza recare danno alcuno.

Carné → fu assistente e collaboratore di Feyder; si affermò nel volgere di pochi anni. Carné apprese da
Feyder una certa concezione pessimistica e fatalistica del mondo, che egli svilupperà ulteriormente in
stretta collaborazione con Prévert, artista impegnato politicamente e interessato a un’arte proletaria, suo
abituale sceneggiatore. Il realismo di Carné, che rifiuta decisamente il formalismo, conferisce ai fatti una
dimensione artistica, consentendone quindi una interpretazione critica. Si tratta quindi di un realismo
poetico, cioè filtrato attraverso un’attenta elaborazione stilistica dei dati della realtà fenomenica,
riscostruito a posteriori sulla base di un’interpretazione anche letteraria della realtà contemporanea. In
questa direzione il realismo di Carné si apre a una sorta di surrealismo (es. ricorrente tema dell’amour fou),
con i suoi personaggi che sembrano muoversi in un mondo in bilico tra realtà e sogno. Caratteri salienti
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della poetica di Carné furono → populismo, idealismo pessimistico, spirito genericamente umanitario,
romanticismo rivisitato, il tutto mediato dallo spirito fortemente iconoclasta e satirico di Prévert.
Tali caratteri sono riscontrabili in Il porto delle nebbie (1938) e Alba tragica (1939), per molto tempo
considerati modello della collaborazione tra regista e sceneggiatore. I due film sono simili,
nell’interpretazione stilistica, nella costruzione psicologica dei personaggi, nell’intenzione di allargare i
confini della storia individuale a significati generali e a una realtà umana e sociale con precisi riferimenti a
una situazione storica definita. Entrambi furono affidati all’interpretazione di Jean Gabin e sono segnati
dall’ineluttabilità di un tragico destino che si abbatte sui personaggi del mondo proletario.
L’opera che segnò una frattura fra il primo e il secondo periodo dell’attività di Carné e che per molti aspetti
viene considerata la sua più grande riuscita è Amanti perduti (1945), sempre sceneggiata da Prévert →
affresco di Parigi dell’800; storia di passioni, avventure e delitti in cui la città non è solo sfondo ma
protagonista → omaggio al teatro e allo spettacolo, sia colto che popolare, e attenta meditazione sui
rapporti fra realtà e finzione, arte e vita.

Grande interprete del cinema francese anni ’30 fu appunto Gabin, che rappresentò in quegli anni
quell’idealismo venato di tristezza che lo rese emblema dell’inutilità degli sforzi umani contro le ingiustizie
sociali → carattere di molti film da lui interpretati, anche di diversi registi, in cui la realtà quotidiana era
vista attraverso la prospettiva di un pessimismo esistenziale che rifletteva le incertezze del momento
(Europa sconvolta dai conflitti politici e sociali e IIGM alle porte). Egli fu simbolo di una condizione
proletaria e sottoproletaria.

L’interprete più suggestivo di questo clima pessimistico fu Duvivier. Il regista si concepiva come “artigiano”;
per lui il cinema era un mestiere. Fu profondamente legato al suo tempo, di cui seppe riflettere
contraddizioni e speranze. Ebbe una lunga carriera; girò 61 film che abbracciarono, nelle forme e nei
contenuti, le varie gamme dell’esperienza, dal dramma individuale a quello collettivo, dalla commedia di
costumi alla satira sociale, dall’avventura esistenziale all’intrigo poliziesco. Il su ecclettismo fu il risultato del
suo bisogno di conoscere e rappresentare il più ampio panorama di situazioni umane possibile, in
determinati contesti storici e sociali. I film che realizzò negli anni ’30 bene si inseriscono nel realismo
poetico o nero (es. Il bandito della Casbah – 1936).

I fermenti culturali che serpeggiano in tutta la produzione cinematografica francese degli anni Trenta si
fanno più forti, con più accentuate venature politiche e ideologiche, nel periodo del Fonte Popolare che
coagulò intorno a sé l’intellettualità francese → in questo periodo si va formando un cinema politico
chiaramente impostato che influenzerà altre future correnti (neorealismo italiano).

Ciapaiev e il realismo socialista

La cinematografia sovietica costituisce uno specchio abbastanza fedele non tanto della società del tempo
ma, visto lo stretto legame fra cinema e società instaurato in Russia dopo la Rivoluzione, contaminato dal
potere costituito, della visione che di questa società diedero le organizzazioni di partito e la burocrazia →
non riflesso delle contraddizioni della società socialista ma piuttosto delle sue direttive politiche e sociali.

Vi era dunque un Cinema di Stato, indirizzato verso la produzione di opere di propaganda, socialmente utili,
genericamente didascaliche e politicamente corrette → tale situazione portò alla teoria e alla pratica del
realismo socialista.

Nel 1930 il cinema sovietico viene centralizzato in un’unica società, la Sojuzkino, che rispondeva del suo
operato direttamente a Stalin ed era responsabile dell’applicazione nel cinema dei principi del realismo
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socialista, che avveniva attraverso un rigido sistema censorio (controllo sceneggiature e interruzione opere
in lavorazione, cosa che accadde peraltro a Ejzenstejn). In particolare, fra ’36 e ’38 si instaurò un vero e
proprio clima del terrore che portò diverse personalità della cultura e del cinema sovietici all’esilio se non
alla prigione o condanna a morte.

La nascita ufficiale del realismo socialista si fa risalire al 1934, anno in cui si svolse un congresso di scrittori
sovietici che sanzionò tale pratica artistica e letteraria.
La crisi del cinema sovietico fu avvertita già alla fine degli anni Venti, quando la prima generazione di grandi
registi si scontrò con una situazione politica e sociale che sempre più si andava allontanando dai caratteri
che aveva assunto all’indomani della Rivoluzione e della gestione del potere leninista (sperimentalismo,
ricerca di nuovi confini formali, analisi spregiudicata della realtà). L’avanguardia fu accusata di
intellettualismo e elitarismo e fu stroncata. L’avvento del sonoro, tra l’altro, spinse verso un maggior
realismo.

Nel 1934, in occasione del diciassettesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre uscì sugli schermi
sovietici Ciapaiev, dei cosiddetti fratelli Vasil’ev; il film fu prodotto e presentato in un particolare momento
storico, nel vivo della grande trasformazione sociale della nazione, all’indomani del congresso degli scrittori
che aveva sancito la teoria e la pratica del realismo socialista. Per il suo carattere popolare e il suo
didascalismo ammantato di poesia e di dramma, la forza spettacolare delle sequenze e il carattere del
protagonista, presentato nei suoi aspetti quotidiani, antieroici, il film ebbe grande successo → conciliava
l’elemento realista con quello socialista e dunque divenne subito il modello a cui si uniformarono la
maggior parte dei registi di quegli anni. Lo stile era piano, in gran parte convenzionale, e alternava
abilmente momenti psicologici a momenti drammatici, storie individuali a storie collettive. Il successo fu
immediato. Le discussioni che teoriche che seguirono sancirono la validità dell’opera e ne fecero discendere
una serie di regole formali e canoni spettacolari che verranno applicati ad altri film in seguito.
I problemi fondamentali di un cinema critico erano stati soppiantati da quelli più immediati di un cinema
utile, popolare. Ciapaiev chiuse definitivamente il dibattito culturale che si era sviluppato per alcuni anni tra
le varie concezioni estetiche e ideologiche → vittoria del “senso comune”, o, meglio, dell’apparato politico;
punto di arrivo della burocratizzazione dell’arte e della cultura → inizio ufficiale della “restaurazione”
sovietica; involuzione.

La trasformazione dell’uomo attraverso l’esperienza del lavoro socialista fu un tema costante nel realismo
socialista, un problema pedagogico di notevole interesse (già affrontato da Dovcenko in Ivan).
Si affermò quindi un cinema in cui lo schema ideologico, con i suoi presupposti didascalici e
immediatamente politici, era sovrapposto all’analisi realistica di personaggi e ambienti → rappresentazione
prefissata di fatti che metteva in luce solo le direttive ideali. In sostanza l’analisi della realtà obbediva a un
finalismo ideologico che ne impediva l’articolazione critica.
La maggior parte delle opere del realismo socialista, costruite sull’eroe positivo, seguiva fedelmente un
tracciato contenutistico e formale sostanzialmente uniforme. La battaglia contro il formalismo si accentuò
nei primi anni Trenta fino alla definitiva vittoria del realismo socialista come cultura di Stato: vittoria del
contenutismo contro il formalismo.

Altro ambito in cui si esplicò il realismo socialista furono i film su Lenin e quelli su altri personaggi della
storia sovietica e della storia russa. Nella politica staliniana, la funzione della biografia romanzata, ossia
della storia vista attraverso la prospettiva di un’azione individuale fortemente emblematica, serviva a
contribuire efficacemente alla costruzione di una galleria di ritratti storici che, sul piano immediato
dell’ideologia e della politica del tempo, avrebbe portato al cosiddetto “culto della personalità”. Fu
essenziale il recupero del nazionalismo in quanto consentiva una visione della continuità storica che
consentiva di presentare il “socialismo” di Stalin come compimento di un lavoro politico nazionale e sociale

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di lunga data.

Il realismo socialista fu dunque un movimento artistico fortemente voluto dal Partito Comunista e in primis
da Stalin, teso a sopprimere le tendenze formaliste del cinema rivoluzionario degli anni Venti, a favore di
opere semplici, lineari ed educative, dal linguaggio comprensibile a tutti e di grande pathos e trasporto
emotivo. Compito dell’artista, considerato un “ingegnere di anime”, è quello di offrire un modello da
seguire, sia attraverso il ritratto dell’uomo comune che quello del grande personaggio storico → deve
offrire un’immagine serena, ottimistica e idealizzata della società, popolata da eroi positivi, dall’uomo
nuova che solo il socialismo può generare.

Dopo l’invasione della Germania nel 1941, la produzione cinematografica sovietica subì un arresto, per
riprendere poi successivamente continuando a seguire i dettami del realismo socialista, che rimase la
corrente dominante nel cinema URSS fin verso la metà degli anni ’50.

Ciapaiev (1934; Vasil’ev)

- epopea di un capo partigiano e di un commissario politico che guidano un gruppo di partigiani


- realizzato nel periodo immediatamente successivo alla teorizzazione del realismo socialista, ne è un
modello; dettò alcuni canoni estetici
- naturalismo minuto e popolaresco di facile effetto drammatico
- il capo partigiano nel suo confronto con il commissario politico capisce che il suo importante compito
travalica la sua individualità
- Ciapaiev, capo partigiano, è ritratto secondo i dettami del realismo socialista, nei suoi atteggiamenti
quotidiani e antieroici, ma anche nelle manifestazioni di coraggio estremo; il suo personaggio cambierà nel
corso del film, dapprima irascibile e rozzo, attraverso il confronto con il burocrate si “nobiliterà”
- film prototipo di cinema utile, popolare, didascalico e militante; il film ha una costruzione narrativa ferrea,
che esalta il patriottismo mettendo in scena caratteri semplici e rigorosamente manichei, raccontando la
vicenda con ottimismo autentico
- la validità socialista di un’opera era data dal successo di pubblico: questo film ebbe grande successo
- realismo della rappresentazione è apparentemente complesso e sfaccettato, lo stile piano e in gran parte
convenzionale; abilmente si alternano momenti psicologici a momenti drammatici → lavoro a incastro
operato più sul piano della sceneggiatura che della regia

Satira, commedia e ironia: un cinema non allineato

Negli anni di Stalin la satira verso il potere è ovviamente bandita. L’umorismo un tempo rivolto all’interno
della società per rivelarne i mali sopravvisse quasi soltanto come critica del capitalismo e del costume
borghese. La satira si fece più rozza e toccò i “nemici” dello Stato.
Rimase una commedia di costume priva di elementi di satira, venata semmai di una visione idilliaca della
società. Prevalsero le commedie musicali socialiste. Nel panorama complessivo della produzione
cinematografica sovietica anni ’30 e seguenti, i film comici o satirici furono numericamente molto esigui.

Tra i registi che fecero dell’ironia:


- Barnet → vena tragicomica come elemento ispiratore di un’opera la cui naturalezza è molto lontana dai
codici che imperversavano nel cinema sovietico del tempo; antieroico elogio del quotidiano; interesse per
una quotidianità fatta di piccoli eventi e sentimenti comuni, messa in scena con toni delicati, ironici e
leggeri, lontani dalla tronfia retorica sovietica di quegli anni
- Medvedkin → alternativa satirica ai modelli ufficiali; venne infatti presto represso; regista originale e non
allineato; in contrapposizione ai dogmi del realismo socialista puntò al recupero di elementi legati
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all’immaginario popolare, come la fiaba, il carnevale, la satira, e a soluzioni di linguaggio mutuate dallo
sperimentalismo del decennio precedente

La rigida censura toccò dunque gli artisti cinematografici più originali e validi del cinema sovietico; l’arte di
stato ridusse, in breve tempo, notevolmente il campo d’azione degli artisti e degli intellettuali, ponendo
fine a un intero periodo di sperimentazioni, proposte, analisi contenutistiche e formali spregiudicate…

11. L’EUROPA VERSO LA GUERRA

L’Italia fascista

Il cinema italiano negli anni ’20 è in crisi, schiacciato dalla concorrenza di quello americano e europeo →
uno dei periodi più difficili della storia dell’industria cinematografica italiana.
In questi anni il fascismo, saldo dalla crisi del ’24, è concentrato sulla costruzione del nuovo stato e sembra
quindi disinteressarsi all’industria cinematografica, deficitaria e fallimentare. Leggi di tutela e
protezionistiche furono emanate solo a partire dagli anni ’30. Tuttavia, il fascismo era conscio della forza
persuasiva del cinema, che poteva essere utilizzato come ottimo strumento di propaganda.

1924 → istituzione dell’Unione Cinematografica Educativa (LUCE)


Si delineò una sempre più severa repressione censoria, in direzione di un uso “politico” del cinema:
produzione di cinegiornali, documentari di chiaro intento propagandistico e, contemporaneamente,
censura dei film stranieri che potevano trasmettere idee e concetti contrari all’ideologia dominante.

1932 → nasce la Mostra del Cinema di Venezia, concepita come grande vetrina internazionale della
produzione italiana
1934 → nasce la Direzione Generale per la Cinematografia
1935 → nasce il Centro Sperimentale di Cinematografia (scuola di cinema in cui si formeranno alcuni dei più
importanti registi italiani a venire) e l’Ente Nazionale Industrie Cinematografiche (ENIC) che rileverà la Cines
imponendo un forte controllo sull’industria italiana
1936 → si inaugurano i primi studi di Cinecittà

Vi fu dunque un’ampia serie di iniziative che contribuirono ad incrementare, almeno sul piano quantitativo,
il cinema italiano.

Verso la fine degli anni ’20, indipendentemente dal regime fascista, vi furono anche una serie di iniziative in
campo intellettuale, produttivo, industriale che proposero un modello di cinema nuovo, italiano, nazionale,
che avrebbe dovuto affermarsi in contrapposizione a quello straniero → scrittori e intellettuali si
espressero su giornali e riviste riguardo le varie questioni cinematografiche. Giovani artisti tentano di
realizzare film indipendenti legati ai temi contemporanei.

Nel 1932 Emilio Cecchi arriva alla direzione della Cines: egli volle proporre un cinema di cultura, realizzare
un cinema d’arte, chiamando attorno a sé vari artisti ed intellettuali (es. Pirandello) → tale iniziativa si
inserì in un più vasto programma di rinnovamento della cinematografia italiana.

Una delle figure più significative del cinema italiano degli anni ’30, per il carattere “nazionale” dei suoi film,
fu Alessandro Blasetti, che esordì nel 1929 con Sole, da lui stesso prodotto, sul tema della bonifica delle
paludi pontine. Si tratta di un film che risente dell’influenza del cinema sovietico: cinema epico, immagini
grandiose, ritmate, per descrivere aspetti e problemi di vita quotidiana → lo stile monumentale del regista
lo rende sul piano formale uno dei più notevoli rappresentanti del cinema di regime, a cui aderì
esplicitamente con Vecchia guardia (1934).
1860 fu considerato il capolavoro del regista; ripercorre l’impresa dei Mille di Garibaldi, con una
spettacolarità priva di retorica, attenta ai fatti minuti, alle descrizioni puntuali dei personaggi e degli
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ambienti (aspetto inconsueto nel cinema storico di quegli anni): qui si trovano la tendenza al grandioso, alle
scene di massa, ai racconti articolati su una serie di episodi di grande forza drammatica, sviluppati attorno a
personaggi psicologicamente semplici ma emblematici.
Ma lo stile di Blasetti non fu soltanto eroico e magniloquente: nello stesso 1860 si ritrovano le tracce di uno
stile più discreto e “neorealistico”.

L’aspetto neorealistico, che per certi versi costituisce il contraltare della retorica fascista, lo si ritrova in
Mario Camerini → stile dimesso, attento alle piccole cose, un poco crepuscolare, sorretto da una visione
ironica e bonaria dell’esistenza, a volte pungente, altre sentimentale. Egli fu il narratore più genuino della
piccola e media borghesia. Realizzò una serie di film in cui la vita quotidiana era rappresentata in modi e
forme antieroiche. I suoi lavori rappresentano gli esiti migliori dei cosiddetti “film dei telefoni bianchi”,
ossia commedie dell’epoca ambientate nel mondo della borghesia, fra gente ricca ed appartamenti
moderni, che davano dell’Italia un’immagine perfettamente in sintonia con quella che il regime voleva
proporre, anche a livello internazionale, del Paese.
I suoi film migliori furono le commedie di costume degli anni ’30, con il loro risvolto realistico e la loro
bonomia non priva di punte satiriche, come Darò un milione (1935) e Grandi magazzini (1939), interpretati
dalla coppia Vittorio De Sica-Assia Noris, che divenne il simbolo non solo del cinema cameriniano ma anche
di una certa diffusa mentalità piccolo borghese, di un microcosmo di situazioni personaggi e ambienti che,
sul versante di ironia e sentimento, rappresentavano bene l’Italia provinciale, quotidiana e antieroica.

Alla retorica del fascismo, contro cui si era posto il cinema di Camerini e a cui non era indifferente Blasetti,
contribuirono alcuni film di autori come Genina, Gallone, Alessandrini. Essi rappresentarono in termini
popolari, di larga udienza, la più autentica ideologia del regime, basata in larga misura su slogan
magniloquenti, sull’eroismo da parata e sul nazionalismo pomposo.

Genina → “classico” della cinematografia fascista; girò dei film di propaganda in cui la retorica politica e
ideologica era sorretta da uno stile di notevole forza drammatica, che alternava opportunamente episodi
sentimentali a episodi tragici, storie individuali a drammi collettivi, in una narrazione che voleva coinvolgere
lo spettatore soprattutto sul piano emotivo → efficace.

Alessandrini → regista ufficiale del regime; i suoi film contribuirono all’esaltazione dell’italianità come
sinonimo di vera civiltà rispetto alle varie forme di barbarie riscontrabili in contesti storici e sociali
differenti.

Gallone → produzioni intrise di fasto spettacolare; girò Scipione l’Africano (1937), tappa fondamentale nella
storia del cinema fascista → voluto dallo stesso Mussolini, voleva fare una sorta di monumento
cinematografico alla sua gloria di dittatore, dopo la vittoriosa conclusione della guerra etiopica; si rivelò
tuttavia una brutta copia dei film storici italiani precedenti (anni ’10). Al di là del suo fallimento, il film fu un
chiaro segnale, anche in campo cinematografico, che il fascismo voleva perseguire una politica
espansionistica per mostrare la sua potenza nazionale; l’epica storica era al servizio del regime e della sua
volontà di potenza.

A fianco del cinema magniloquente e di quello sommesso e discreto delle commedie di Camerini, si
sviluppò anche un cinema che faceva appello al decoro formale (lezione dei classici) o all’osservazione
attenta della realtà (indagine della complessità del reale) → di questo cinema si fecero portavoce un
gruppo di giovani, a capo della rivista “Cinema”, e, in termini più ufficiali e accademici, il Centro
Sperimentale, con la sua rivista “Bianco e Nero” → si proponeva un cinema realista che sapesse guardare
alla realtà dei fatti tornando alla grande lezione del verismo italiano, ma che prestasse anche attenzione a

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una certa letteratura americana → furono questi registi e critici a porre le basi della rinascita del cinema
italiano, verso il neorealismo postbellico (Rossellini, Visconti, Lattuada…).
Furono prodotti, in questo periodo, alcuni film lontani dall’ideologia e dalla retorica dominanti, che tuttavia
costituirono esempi isolati e di scarsa incisione sulla produzione cinematografica del tempo, es. Acciaio
(1933; Ruttmann) da un soggetto originale di Pirandello → conteneva alcuni elementi di quel realismo che
poteva essere una chiave di lettura della realtà contemporanea italiana.
Ossessione (1943) di Luchino Visconti e I bambini ci guardano (1943) di Vittorio De Sica portarono alle
estreme conseguenze formali quella tendenza al realismo che percorse sommessamente tutto l’arco della
produzione italiana del periodo fascista: osservazione minuta dei fatti, descrizione documentaristica della
realtà fenomenica, approccio alle situazioni reali non mediato da tradizioni letterarie o spettacolari… Si
tratta di elementi che si troveranno anche in alcuni film di guerra, in cui realtà e finzione si integreranno in
una visione realistica, es. La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942), L’uomo dalla croce (1943) di
Rossellini, detti “trilogia della guerra”, il cui pregio maggiore fu l’osservazione minuta e antiretorica di
alcuni momenti rivelatori del comportamento dell’uomo in determinate situazioni storiche.

Questo cinema, in maniera indiretta, attraverso il suo realismo formale, si contrapponeva alla
rappresentazione oleografica ufficiale, ossia alla politica culturale del fascismo. Ad esso fece da
contrappeso, nei primi anni di guerra, un cinema che venne definito “calligrafico”, per il gran peso che ebbe
la cura formale nella confezione delle opere → opposizione passiva al regime; fuggiva all’impegno critico
che il momento storico avrebbe richiesto attraverso la sua ricerca stilistica e letterarietà (Catellani, Poggioli,
Soldati, Lattuada). Negli anni in cui vennero realizzati questi film la situazione del paese stava precipitando;
il cinema, per forza maggiore, tacque; tuttavia aveva già posto le basi per la rinascita artistica e politica
postbellica, conosciuta come neorealismo.

La Germania hitleriana

La grande stagione del cinema tedesco si esaurì con l’avvento del sonoro, con l’esodo di molti registi di
primo piano e con la crisi economica che toccò anche l’industria cinematografica. Il vero e proprio crollo
della produzione artistica si ebbe a partire dal 1933, con l’avvento di Hitler al potere e la progressiva
trasformazione della cinematografia tedesca a opera di Goebbels, ministro dell’Istruzione popolare e della
Propaganda. Nel volgere di pochi anni il cinema si svuotò di ogni elemento critico, rivolgendosi da un lato
verso film d’evasione (commedie, drammi storici, avventure), dall’altro verso quelli più chiaramente
propagandistici → duplicità di intenti:
- divertimento fine a sé stesso
- indottrinamento politico ideologico

Questo programma riuscì in parte a realizzarsi proprio grazie al cinema, di ci Goebbels conosceva le
potenzialità → mezzo al servizio della politica hitleriana, attraverso cui si operò la sua una esaltazione.

Dal 1933 si instaurò un processo di degenerazione delle istituzioni politiche e sociali che impose una
dittatura ferrea; in questa situazione repressiva e autoritaria anche il cinema subì un analogo processo di
degenerazione. Vi fu il tentativo di espellere dall’industria cinematografica tutti gli ebrei (favorì la fuga di
numerosi talenti) e l’incoraggiamento dello stesso Goebbels alla produzione di film antisemiti.
Le tre grandi case di produzione furono progressivamente assorbite dal potere politico e nel 1937
l’industria cinematografica era praticamente nazionalizzata e nelle mani del partito nazionalsocialista, che
intensificò la produzione (chiaramente ideologica e politica) di documentari di informazione, cinegiornali,
film narrativi e spettacolari…

Le tendenze che dominarono la produzione tedesca negli anni del nazismo sono analoghe a quelle degli
altri regimi dittatoriali:

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- glorificazione eroi del nazismo
- denigrazione nemici del Reich (inglesi, russi)
- glorificazione del fanatismo e entusiasmo per lo sforzo bellico

Tendenza peculiare del regime fu invece la serie di film a tema antisemita (es. Suss l’ebreo; 1940; Harlan).
Accanto a tale produzione furono girati molti film di puro intrattenimento e evasione, anche film musicali.
I due registi che più furono compromessi con il nazismo furono la Riefenstahl e Harlan.
Riefenstahl girò Il trionfo della volontà (1935), un ampio documentario sul congresso nazista a Norimberga
del ’34 → spettacolo magniloquente alla gloria di Hitler e del suo partito.

Negli anni della guerra, da un lato si intensificava la produzione di cinegiornali bellici e di film a soggetto
propagandistici, dall’altro si continuava sulla strada del cinema magniloquente, con opere spesso
biografiche, che dovevano sorreggere lo spirito nazionale rifacendosi alla storia passata, riletta e
interpretata in chiave nazionalistica.

Anche in Austria, che dal 1934 gravitava politicamente ed economicamente attorno al III Reich, il cinema
subì una sorte non molto differente da quella del cinema tedesco. Un regista che fu profondamente legato
alla cultura viennese fu Max Ophuls (rappresentò con finezza il mondo della Vienna asburgica dell’inizio del
secolo, prossima alla fine): i suoi film erano basati sullo splendore della messinscena, sullo sfarzo dei
costumi, sulla piacevolezza narrativa e musicale, sull’eleganza dei movimenti di macchina → egli sviluppò il
suo discorso sullo “scacco” dell’uomo, o meglio della donna, che era protagonista privilegiata dei suoi film,
di fronte alla società. Leggerezza del tratto, stile spumeggiante di invenzioni formali, gusto per la
scenografia, apparente disinteresse per i problemi sociali, frivolezza nel tratteggiare personaggi e ambienti
→ maschere dietro le quali si nascondeva lo sguardo distaccato e pessimista dell’autore.
Il tema della maschera è ricorrente nel cinema del regista; egli fa continui riferimenti al mondo del teatro e
dello spettacolo; i suoi film sono un’attenta riflessione della vita come finzione. Rilesse i suoi autori preferiti
(come Maupassant) attraverso una certa amarezza esistenziale. I suoi personaggi erano evanescenti; egli
affrontò i temi dell’amore, della passione, del sentimento, del gioco…
Amanti folli (1933) fu il primo suo lavoro che lo impose alla critica e al pubblico internazionali; si tratta di
una storia d’amore e morte sullo sfondo della Vienna di fine secolo. Utilizza elaborati movimenti di
macchina. Il regista sarà costretto a lasciare la Germania dopo l’avvento del nazismo e recarsi prima in
Francia e poi in USA. In questi anni dirigerà film importanti per la sua carriera, che andavano via via
elaborando una struttura narrativa più complessa. Il suo ultimo film, Lola Montez (1955), è la biografia
romanzata della famosa danzatrice e avventuriera ottocentesca che dopo essere stata amante del re di
Baviera finisce col diventare l’attrazione di un circo americano come esempio di dissolutezza umana: atto
d’accusa alla società dello spettacolo come grande metafora della falsità della vita.

Il trionfo della volontà (1935; Riefenstahl)

- pseudo-documentario sul Congresso del partito nazionalsocialista tenutosi a Norimberga nel 1934;
documenta con intento celebrativo i quattro giorni del congresso
- per questa pellicola il Fuhrer mise a disposizione un budget molto elevato
- l’autrice collaborò con Goebbels e l’architetto personale di Hitler, Alber Speer
- il tema religioso è uno dei motivi ricorrenti del film ed è esplicitamente dichiarato nell’assunzione di un
punto di vista divino già nella prima inquadratura (riprese dall’alto; rimando all’aquila, simbolo nazismo)
- lo stesso Hitler paragonerà il partito ad un ordine sacro e si atteggerà a leader supremo in grado di
coinvolgere misticamente le masse
- numerose scene in cui suonano le campane e le masse si muovono in uno stato di fervore semi-religioso
- spesso Hitler è ripreso dal basso, in modo da farlo apparire in luce eroica
- simboli dell’aquila e della svastica tornano insistentemente
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- uso di piattaforme mobili, elevatori, teleobiettivo… diversi strumenti sono utilizzati dalla regia per
distorcere le prospettive e determinare le inquadrature epiche, che sono tra le cifre stilistiche del film
- tra le tecniche innovative vi è un nuovo uso di fotografia e musica; gli valsero la menzione di miglior
documentario di tutti i tempi, in grado di ispirare successivamente registi che presero spunto per alcune
inquadrature per tutt’altro genere di contesto (es. Star Wars; Lucas)
- la pellicola secondo alcuni intellettuali non sarebbe un vero e proprio documentario, in quanto diverse sue
porzioni furono girate successivamente
- non chiaro se il film sia una cronaca dell’evento o se l’evento sia stato pensato in funzione del film;
scenografia e coreografia delle masse furono certamente disegnate in funzione della mdp
- la tecnica del film è di ottimo livello; va distinta dalla questione del rapporto tra arte e moralità → bellezza
delle immagini e spettacolarità della tecnica al servizio della propaganda

Il cinema documentario

Nell’Inghilterra degli anni ’30, accanto al cinema di finzione che tentava di imitare quello hollywoodiano (in
cui spiccherà l’opera di Hitchcock), ebbe inizio, anche grazie all’avvento del sonoro, una produzione di
documentari con chiaro intento didattico e genericamente politico.

A partire dal ’33, in particolare grazie al lavoro di Grierson, vero animatore dell’impresa e coordinatore del
gruppo di registi e tecnici che vi lavorarono, fu prodotto un corpus unico nel suo genere. La scuola
documentaristica britannica degli anni ’30 costituì un modello eccellente di cinema statale, cui si
richiameranno successivamente altri paesi.

Grierson rinunciò alla regia per occuparsi direttamente di formare i nuovi quadri del documentarismo
britannico, sia attraverso un’opera di informazione e formazione teorica e pratica, sia sul piano
organizzativo (propugna una produzione continuativa di opere sui più diversi ma attuali temi umani e
sociali). Attorno a lui si raccolsero numerosi giovani registi che formarono una compatta schiera di
documentaristi, impegnati a rappresentare, in termini critici, nuovi, formalmente originali, la realtà
contemporanea. L’attenzione era rivolta alla realtà quotidiana, alla vita di operai, minatori, pescatori,
impiegati… al popolo minuto, non idealizzato ma studiato nella sua vera realtà sociale e umana. Per molti
registi questa tendenza costituì un modello da imitare o almeno un termine di confronto utilissimo per la
creazione di un realismo cinematografico in contrapposizione al realismo socialista che si affermò in quegli
stessi anni in URSS.

Grierson e i suoi collaboratori svilupparono nelle opere e negli scritti una teoria del documentario che
teneva conto da un lato della complessità della vita sociale contemporanea, che doveva essere analizzata
nei suoi elementi rivelatori (che potevano offrire un quadro razionale e critico della stessa realtà); dall’altro
della varietà e influenza dei moderni mezzi di comunicazione di massa, primo fra tutti il cinema, che doveva
essere analizzato nei suoi elementi costitutivi in modo da utilizzarne tutte le possibilità di documentazione
e espressione. Da queste premesse derivano:
- lavoro sociologico di studio attento della realtà sociale nei suoi vari aspetti (umano, politico, economico)
- lavoro cinematografico in profondità (sperimentazione di tecniche filmiche fino a giungere allo
sperimentalismo)

Il documentarismo si afferma anche nelle cinematografie minori, come quella olandese e quella belga, negli
stessi anni. Questa tendenza fu agevolata dalle condizioni tecniche e finanziarie insufficienti del tempo, che
rendevano più facile realizzare film di corto respiro e di genere documentaristico, perché richiedevano
pochi mezzi e un’attrezzatura elementare, oltre che magari anche un solo realizzatore.

Anche negli Stati Uniti si sviluppò un cinema documentaristico che si contrappose esplicitamente, nei temi
trattati e nei modi formali, al cinema hollywoodiano, dando della realtà americana una rappresentazione
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ben più genuina e ricca di indicazioni critiche. Si formò, ad esempio, il gruppo newyorkese della Frontier
Film, fondato nel ’36 da Paul Strand, attorno a cui si raccolsero numerosi giovani che diedero vita a quella
che fu detta “scuola di NY”.

Il problema di un cinema documentario che riflettesse la realtà contemporanea, o meglio di una


utilizzazione del cinema come strumento di documentazione sociale e di interpretazione critica del reale,
era ampiamente sentito nei vari Paesi (contro la tendenza dominante dello spettacolo cinematografico).

Ivens in Olanda e Storck in Belgio svilupparono un discorso rigoroso sul documentario, giungendo a
interessanti risultati. In particolare, Ivens girò sia in patria sia in vari Paesi (URSS, USA, Cile, Cina, Spagna…)
un gran numero di documentari, sempre orientandosi verso un uso chiaramente politico del cinema, e
seguendo con la sua mdp i vari movimenti di liberazione nazionale, guerre, rivoluzioni ecc. per
documentarne i vari aspetti. Il suo cinema costituì un complesso panorama della storia mondiale dagli anni
Trenta agli anni Settanta e fornisce documenti di grande interesse per lo studio delle differenti situazioni
politiche e sociali dei vari Paesi. Realizzò in URSS un film sulla gioventù comunista, Komsomol (1932), che lo
mise direttamente in contatto con una diversa realtà politica e sociale; da questa esperienza si allontanò
dai suoi esordi avanguardistici e, nelle opere successive, subordinò le questioni formali (che pure non
furono mai da lui trascurate) ai problemi fondamentali della documentazione sociale e della critica
ideologica e politica. Si legò via via sempre più all’attualità politica.

12. IL NEOREALISMO ITALIANO

Per un cinema della realtà

I primi germi del Neorealismo cinematografico italiano sono rintracciabili già in alcuni film prodotti durante
il fascismo e, in particolare, il periodo bellico (es. Sole; 1860…). Si trattava di film che poco avevano a che
vedere con l’epica del fascismo, e che operavano una minuta osservazione della realtà tragica.

Fu con la fine della guerra e con la liberazione dell’Italia dal fascismo e dall’occupazione tedesca, con la
vittoria delle forze della Resistenza e con la costituzione di uno Stato libero e democratico che anche il
cinema poté manifestarsi appieno nelle sue possibilità di documentazione e rivelazione della realtà
contemporanea, fuori da quegli schemi contenutistici, formali, ideologici imposti.

Il carattere peculiare dei film neorealisti fu infatti una certa libertà. Neorealismo; nuovo cinema italiano del
secondo dopoguerra → termine nato in ambito letterario alla fine degli anni ’20 (a proposito di romanzi
come “Gli indifferenti” di Moravia). I film etichettati sotto questa corrente, indipendentemente dalle loro
intrinseche differenze artistiche e culturali, denunciavano una comunità di intenti, un clima politico
effettivamente nuovo, una generale tendenza a stabilire un diverso rapporto con la vita sociale in tutti i
suoi aspetti, un totale superamento del cinema inteso come solo puro divertimento.

Molti dei registi e degli sceneggiatori del cinema italiano postbellico si erano formati negli anni precedenti e
spesso avevano realizzato durante la guerra film non molto differenti dal cinema ufficiale fascista; il clima
postbellico nuovo influì notevolmente sull’orientamento ideologico e politico di questi autori, tanto che le
loro opere spesso si opposero a quelle precedenti → passaggio dal fascismo all’antifascismo → lento
processo di chiarificazione politica e morale.

Nel campo del cinema la situazione nell’immediato dopoguerra era disastrosa sul piano economico,
industriale, finanziario… La distruzione dell’industria, però, favorì la nascita di un nuovo cinema, lo sviluppo
di prodotti realizzati al di fuori di tali complesse strutture → pochi mezzi, poco personale, utilizzando
improvvisazione e ingegno personale, scendendo per strada, utilizzando attori non professionisti. I registi
elaborarono uno stile di ripresa immediato, poco elaborato, documentaristico, che si immergeva in una
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realtà molto lontana da quella dei teatri di posa, a contatto con fatti e situazioni che suggerivano profondi
mutamenti nelle strutture codificate della finzione cinematografica. In sostanza, a un linguaggio che
tendeva a identificarsi con la pura e semplice riproduzione filmica della realtà quotidiana, spogliato dai
consueti elementi dello spettacolo (attori, scenografie, costumi, luce, montaggio elaborato…), si affiancava
un’autentica partecipazione degli autori alla realtà contemporanea. I personaggi erano fittizi, ma ispirati a
uomini e donne reali; le situazioni umane e sociali erano fittizie, ma riconducibili alla situazione storica
generale.

Come per Roma, città aperta (Rossellini), il cui successo internazionale diede ufficiale origine alla “scuola
neorealistica italiana”, così per parecchi altri film le condizioni di lavorazione erano molto precarie. La
produzione si affidava in larga misura al caso, e fu questa situazione che favorì gli esperimenti di cinema
alternativo rispetto alla produzione consueta, che segneranno l’inizio di un nuovo modello cinematografico.
La cultura democratica e progressista e la militanza politica e ideologica erano andate assumendo, nel corso
degli avvenimenti storici, un’importanza e significato determinanti. L’Italia libera consentì un vasto
dispiegamento delle forze artistiche e intellettuali, che prospettarono un diverso approccio critico alla
realtà, nuovi metodi di analisi, uno studio attento dei rapporti fra l’intellettuale e la società, fra l’artista e il
potere politico. Attorno al cinema si venne sviluppando un dibattito che si accentrò essenzialmente sul
concetto di realismo. In particolare, la rivista “Cinema”, nata nel ’36, diede inizio a un dibattito
fondamentale per la nascita del futuro neorealismo.

Il Neorealismo si pose nei confronti della realtà da rappresentare in termini non tanto “critici” quanto
disponibili, ossia volle rilevarne l’apparenza senza mistificazioni, darne una figurazione genuina senza
manipolazioni di sorta. Si volle considerare il cinema soprattutto come una “finestra aperta sul mondo” e
pertanto servirsene come eccezionale strumento di documentazione. Di qui la teoria del “pedinamento” o
del “buco della serratura” di Zavattini, uno dei più acuti teorici del neorealismo.

Il Neorealismo è stato definito dallo storico Lino Micciché come “etica dell’estetica”; le sue scelte formali
rivelavano sempre un impulso morale che vedeva nel cinema un mezzo per descrivere, conoscere e
comprendere la realtà, che doveva essere riprodotta senza manipolazioni, al fine di trasformarla.
Gli elementi che caratterizzarono il neorealismo furono dunque (con le dovute eccezioni):
- comune sentimento antifascista
- ricorso ad ambienti reali, rifiuto dei teatri di posa
- il privilegiare personaggi comuni, spesso appartenenti agli strati più bassi della società, mostrati nella loro
quotidianità
- scelta diffusa di attori presi dalla strada, da cui deriva una recitazione non teatrale
- ricorso a un parlato naturale, a volte dialettale, non teatrale
- preferenza per sceneggiature non troppo strutturate e di una disposizione all’improvvisazione durante le
riprese
- indifferenza per i soggetti letterari
- attenzione alla contemporaneità

Il neorealismo, anche perché senza soldi, strumenti, strutture produttive, abbandona i vecchi modelli del
cinema classico (ossia montaggio drammatico, inquadratura pulita, sceneggiatura ben costruita…) andando
alla ricerca di nuove forme e nuove idee capaci di comprendere il mondo. Presupposto di fondo del
neorealismo fu mostrare la realtà senza manipolazione; questa corrente influenzò gran parte del cinema
successivo, sia italiano che di altri Paesi. Tale influenza, tuttavia, nel tempo si rivelò poco adatta alla diversa
società degli anni ’50 e ’60, lontana ormai dal periodo storico caratterizzato dalle angosce e dalle speranze
dell’immediato dopoguerra.

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Il neorealismo più radicale ed autentico fu proposto da pochi autori e si concretò in non molti film; non
sopravvisse alla fine dell’unità fascista, allo stato d’assedio cui venne sottoposto dal potere politico e dalla
stessa industria cinematografica, ma riuscì comunque a modificare in modo consistente il panorama del
cinema italiano coevo. Tale corrente, di fatto, travasò molte delle sue caratteristiche nel cinema di
consumo (immaginario, ambientazioni, personaggi, lingua parlata, comportamento attoriale ecc.). Da una
parte vi fu il conseguente svilimento dell’originario impulso morale del Neorealismo vero e proprio,
dall’altra, però, questa pagina straordinaria del cinema italiano incise profondamente sul rilancio
dell’industria e del mercato cinematografico.

Roberto Rossellini: realtà, etica e trascendenza

Rossellini portò il neorealismo alle estreme conseguenze contenutistiche e formali. Girò una serie di film
che si pongono tra i risultati più significativi e illuminanti di quegli anni, tanto da farne padre spirituale del
cinema della modernità.

Negli anni di guerra girò la “trilogia bellica”, di più o meno dichiarata propaganda fascista. In queste opere
parzialmente documentaristiche Rossellini acquisisce uno stile spoglio e dimesso, sperimenta l’osservazione
attenta e minuta del quotidiano, proponendo un nuovo modello formale, la cui elaborazione e
approfondimento si avranno a partire da Roma, città aperta (1945). Si tratta di un atteggiamento morale
nei confronti della realtà che tende a ridurre al minimo l’intervento dell’artista. Rossellini è interessato in
primo luogo al comportamento dell’uomo in determinate condizioni storiche e sociali e pertanto usa il
cinema come eccellente mezzo di rivelazione, di documentazione. Rossellini sosteneva di voler procedere in
modo opposto a quello classico. Il suo rapporto con la realtà è immediato, sentimentale e intuitivo, in grado
di coglierne le componenti più genuine, fuori dagli schemi ideologici e culturali abituali. Ne deriva da un
lato la necessità di improvvisare di volta in volta i modi e le forme della rappresentazione, per mantenere
quell’immediatezza che potrebbe essere definitivamente compromessa da un lavoro preparatorio troppo
elaborato, da un rigido schema estetico e formale; dall’altro il voluto rischio dell’ambiguità, del non
dichiarato che rende le immagini interpretabili a più livelli.
Il neorealismo rosselliniano è al tempo stesso una disposizione morale e ideale, una concezione del mondo,
e un metodo di lavoro, uno stile. Già in Roma, città aperta la disponibilità verso il reale trova il suo spazio,
pur essendo ancora questo in parte legato a strutture formali tradizionali. Si tratta di una sorta di affresco,
in cui la storia di diversi personaggi, dei singoli, si intera con quella dell’intera città: film corale. Il film fa suo
anche sul piano stilistico il caos e la confusione della guerra, dando della realtà una dimensione autentica,
che non nasce soltanto dai luoghi e dagli ambienti realistici, dalla recitazione non spettacolare,
dall’aderenza degli attori ai “tipi” rappresentati, ma soprattutto dal fatto che pare la realtà nasca sullo
schermo e si manifesti cinematograficamente nel suo farsi. Da ciò deriva l’attesa, una sorta di sospensione
del dramma nell’incombenza di una tragedia imminente. Probabilmente ciò deriva anche dal metodo di
lavoro del regista, che costruisce i propri film scena per scena affidandosi in larga misura alle situazioni del
momento, agli umori dei suoi attori, ai luoghi e agli ambienti, sicché le indicazioni di sceneggiatura non
sono per lui che appunti. Egli è disponibile a “lasciar parlare” la realtà, senza intervenire dall’esterno, senza
tagliare le scene, senza forzarle entro schemi spettacolari che ne falserebbero i dati fenomenici. Roma, città
aperta impose Rossellini all’attenzione della critica e del pubblico, soprattutto stranieri, proprio per la
violenza delle sue immagini e del tono dimesso, inconsueto, documentaristico che contrastava con la
tradizione del cinema hollywoodiano. Proprio a proposito di questo film si parlò di neorealismo; la nuova
etichetta fu attribuita ai film del nuovo cinema italiano (Rossellini, De Sica, Visconti, Lattuada…) mettendo
sullo stesso piano opere e autori profondamente differenti, riferendosi più che allo stile individuale, ai
contenuti apparenti, ossia a soggetti e temi trattati, riconducibili tutti alla guerra, alla resistenza, alle
miserie e alle distruzioni dell’immediato dopoguerra…

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Il neorealismo era un movimento innovatore che si richiamava ai principi della libertà, era una posizione
morale prima che politica e ideologica, e rispondeva a un bisogno di conoscenza e di verità; fu in primo
luogo metodo di indagine, un modo nuovo di guardare intorno a sé, di vedere fatti uomini e cose non come
proiezione di una particolare ideologia ma come stimolo per una revisione di valori, approfondimento di
temi e ulteriore indagine conoscitiva → questo era il neorealismo rosselliniano → si identificava in una
visione spiritualista, non materialistica dell’uomo e della società; rimandava a una spiritualità che voleva
trascendere i fatti concreti, la vita quotidiana, per scrutare la realtà fino ai limiti del possibile e farne
emergere il significato trascendente.

Questo atteggiamento di base lo ritroviamo anche in Paisà (1946), film che ripercorre l’avanzata delle
truppe alleate in Italia, descrivendo di episodio in episodio alcune situazioni emblematiche che mettono a
fuoco i rapporti fra i singoli personaggi e la guerra, intesa come condizione abnorme e tragica → crescendo
di situazioni drammatiche che si propongono come un viaggio morale dell’esperienza della Liberazione;
affresco vasto e articolato. Qui Rossellini trova il modo di far nascere una realtà significante dalla semplice
osservazione. Paisà è fatto di attese, che come dichiara Rossellini sono condizione privilegiata per indagare
il reale nel suo autentico manifestarsi. Il valore e il significato di ciascun episodio stanno nella lunga
preparazione alla “morte” in una sorta di contemplazione di fatti che non possono non sfociare nella
negazione della vita → pessimismo di fondo; sottende tutta l’opera di Rossellini e in particolare il film
seguente, Germania anno zero (1947) che porta alle estreme conseguenze la ricerca del tragico nel
quotidiano. Fu considerato questo come terzo episodio di una “trilogia della guerra antifascista” che si
contrapponeva in larga misura alla precedente “trilogia della guerra fascista”. Per certi versi questo film
chiude un periodo dell’attività del regista e ne apre un altro, anticipando modi e forme delle opere
successive e già si pone al di fuori dei temi bellici. La città distrutta, Berlino, è un simbolo, emblema di una
crisi morale ed esistenziale, di una condizione generale, l’anno zero non solo dei tedeschi ma anche degli
uomini tutti. In chiave autobiografica è un ricominciare da capo verso un superamento di posizioni morali
ed ideologiche → manifestazione di una certa condizione umana. Equivoca rappresentazione di una realtà
ambigua. E’ la stessa realtà, nella sua polivalenza, a suggerire interpretazioni equivoche o ambigue.
Rossellini va oltre la pura rappresentazione di fatti e ne suggerisce molteplici interpretazioni.
Dopo i grandi temi della guerra e del dopoguerra, gira, tra il ’48 e ’54, una serie di film che parvero
allontanare Rossellini dal vivo del dibattito politico e culturale legato ai temi della Resistenza e
dell’antifascismo. Egli proseguiva un suo discorso personale sull’uomo accentuando l’indagine sui
sentimenti e sul comportamento interpersonale. Gira Stromboli, terra di Dio (1949) e Francesco, giullare di
Dio (1950): i nuovi interessi dell’autore, soprattutto in termini religiosi e spirituali, mettono in maggior luce
determinati elementi della sua poetica che già erano presenti, seppur non preminenti, nei film precedenti.
Francesco, giullare di Dio tratta undici episodi scelti, che ruotano attorno al concetto di santità, inteso in
senso non tanto strettamente religioso o mistico, quanto piuttosto laico e umano; la santità è sinonimo di
sincerità totale, anticonformismo, disponibilità verso gli altri. Stromboli, terra di Dio è invece la prima parte
di una “trilogia sulla solitudine” centrata su un personaggio femminile, nella fattispecie Ingrid Bergman, che
Rossellini spoglia di tutti gli orpelli dello star system hollywoodiano per scoprirne l’autentica umanità. Il
tema della solitudine non è nuovo per Rossellini; in verità tutta la sua opera gira intorno a tale tema, inteso
come sostrato dell’esistenza umana, dal quale tutti gli altri problemi scaturiscono (incomunicabilità,
incomprensione…). Opera dei ritratti di donna che mancano di spessore psicologico e della dimensione
sociale, che assumono però il significato di una condizione generale, diventano simbolo di un’umanità in
crisi.

Rossellini prende spunto dalla realtà del momento per creare le varie situazioni previste dalla
sceneggiatura, che egli utilizza come taccuino d’appunti. Il suo metodo comporta un alto grado di
disponibilità verso il reale e la pratica dell’improvvisazione come fattore determinante per la
rappresentazione della realtà nel suo farsi; nel registrare un comportamento, tuttavia, l’autore non rinuncia

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a una linea interpretativa, non si nasconde dietro l’obiettività della cinecamera, lascia sì che il personaggio
agisca “liberamente” ed esprima quindi sé stesso in una data situazione ambientale, ma sia la situazione
che il carattere fondamentale sono forniti in anticipo da Rossellini. Si tratta in un certo modo di quello che
Godard definirà “théatre-vérité”, in contrapposizione all’etica ed estetica del cinéma-vérité.
In sostanza, nei film della trilogia della solitudine Rossellini gira delle opere di finzione come fossero dei
documentari. La macchina da presa segue sempre da vicino la protagonista, ci mostra un mondo e il modo
in questa lo vede, senza volontà alcuna di predeterminare un particolare significato, ma affidando allo
spettatore e alle sue capacità il compito di costruire il senso del film e delle sue diverse situazioni.

La fedeltà ai principi di questo neorealismo etico ed estetico porterà Rossellini sulla strada difficile del
cinema antinarrativo, didascalico, che troverà il miglior campo d’applicazione nella televisione, a cui egli si
dedicherà costantemente tra ’64 e ’74 → realizzò alcuni ottimi esempi di cinema televisivo documentario-
spettacolare, il cui risultato migliore è La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966).

Roma, città aperta (1945)

- considerato manifesto del neorealismo


- affresco della quotidianità nella capitale, composto dall’intreccio con episodi della lotta partigiana
- Rossellini gira nei veri quartieri popolari segnati da nove mesi di occupazione nazista
- da questo film l’autore va elaborando ed approfondendo uno stile essenziale, che pare esaurire
l’intervento della mdp nella registrazione di un reale osservato con fresca immediatezza di sguardo, con la
volontà di superare l’artificioso cinema di regime e porsi in aperto contrasto con la retorica altisonante del
fascismo
- l’autenticità nasce dai luoghi e dagli ambienti realistici, ma anche da una recitazione lontana dai codici
cinematografici
- la realtà sembra emergere sullo schermo nel momento in cui si compie
- le torture sono mostrate fino al limite della sopportazione dello spettatore
- la realtà è colta nei sui aspetti minuti; ne sono evidenziate le componenti significative
- la lotta partigiana è raccontata nella sua dimensione morale più che politica, attraverso la scelta attenta di
episodi che registrano e ritagliano alcuni aspetti dell’eroismo quotidiano
- pellicola ancora in parte legata ai moduli che il neorealismo maturo sovvertirà
- la pellicola emerge comunque con la forza e l’urgenza dettate dal periodo storico e dal clima culturale in
cui nasce → peculiarità che si rispecchiano nel metodo di lavoro del regista (sceneggiatura ridotta all’osso,
improvvisazione, sospensione, attesa)

La teoria del “pedinamento”: il cinema di Cesare Zavattini e Vittorio De Sica

Zavattini fu sceneggiatore; si era affermato a metà degli anni Trenta per un suo stile letterario fra il
surrealistico e il grottesco. Si accostò al cinema come sceneggiatore tentando un’operazione di
demistificazione all’insegna di un bozzettismo pervaso da un vigile senso della realtà e dei problemi umani
e sociali. Già in questi film da lui sceneggiati, come Quattro passi fra le nuvole (1942; Blasetti) e I bambini
già ci guardano (1943; De Sica), l’osservazione della realtà si caricava di significati sociali e politici, in
particolare attraverso la rappresentazione di universi familiari segnati da una profonda crisi e ben lontani
dalla visione rassicurante che ne offriva il regime.

E’ nei numero si film che scrisse per de Sica che si calò più concretamente nella drammaticità e
problematicità della condizione dell’uomo nella società del dopoguerra (non dell’uomo in astratto ma delle
singole persone coinvolte nelle difficoltà di ogni giorno). Zavattini è riuscito a sviluppare un discorso
approfondito sulle contraddizioni e sulle miserie di quegli anni, mettendo in luce i risvolti di un apparente

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benessere costruito sull’ingiustizia sociale e sullo sfruttamento dell’uomo → elaborò una sua teoria
cinematografica che può essere considerata contraltare di quella rosselliniana (meno preoccupata di
questioni morali e più improntata verso il dato sociale). Individuò nel pedinamento del personaggio, o nella
poetica del coinquilino o ancora nell’estetica del buco nella serratura, la possibilità di cogliere con la
cinecamera la vera quotidianità, gli elementi più genuini di un comportamento umano determinato da
particolari condizioni ambientali e sociali. Zavattini portò alle estreme conseguenze formali un modello di
cinema “trasparente”, che avrebbe dovuto occultarsi in larga misura come mezzo di espressione per ridursi
alla semplice funzione di riproduttore della realtà fenomenica. I personaggi hanno la funzione di “tipi” di
una più generale condizione sociale; luoghi, ambienti, situazioni sono opportunamente scelti per il loro
carattere emblematico → costituiscono essi stessi il materiale drammatico attorno al quale si costruiva la
denuncia sociale e politica; la cinecamera non doveva far altro che riprendere.
Il “pedinamento” era la condizione perché il personaggio diventasse il vero centro dell’azione drammatica e
al tempo steso costituisse il filo conduttore per una rappresentazione “documentaristica” della realtà
sociale.

De Sica è stato uno dei più noti attori del cinema del fascismo; durante la guerra esordì alla regia e tra i suoi
film vi è I bambini ci guardano (1943). Con questo film parve orientarsi verso un’acuta osservazione critica
della situazione sociale; la storia consiste nell’acuta osservazione disincantata di una situazione familiare, in
una dimensione amara e dolente, che si affida essenzialmente alle piccole cose, alla quotidianità del reale,
dove si consuma la tristezza dell’esistenza.

A differenza di Rossellini, De Sica elabora uno stile di regia e mesa in scena piano e discreto, più vicino ai
modelli classici del cinema americano degli anni Trenta, nel suo impiego misurato e funzionale del
montaggio e dei movimenti di macchina, nell’assenza di preziosismi formali, nella preminenza data
all’attore e nella linearità della narrazione e chiarezza espositiva. I film di Zavattini e De Sica sono dunque
sul piano espressivo più convenzionali. Anch’essi, tuttavia, sono segnati dalla dimensione del caso,
dell’imprevisto, che è conseguenza dell’immersione nella realtà delle cose (meno segnata però da elementi
ambigui e spirituali, e più determinata sul piano dell’indicazione ideologica e politica).

Il periodo più interessante della collaborazione De Sica – Zavattini va da I bambini ci guardano (1943) e Il
tetto (1956) → periodo del crollo del fascismo, lotta resistenziale, primi anni della repubblica.
Con Sciuscià (1946) si fa imperioso l’intento critico e una profonda sensibilità per i casi tragici della vita.
Con Ladri di biciclette (1948) e con Umberto D (1952) tale poetica raggiunge un alto livello espressivo.
Ladri di biciclette è interpretato dall’“uomo di strada” Maggiorani, noto attore non professionista; l’esile
trama, il furto di una bicicletta e la sua affannosa ricerca è un pretesto per analizzare da una parte la città,
dall’altra il grave problema del lavoro e della disoccupazione. I due temi, insieme a quello dello sguardo che
figlioletto getta sulla realtà e sul dolore del padre (i due autori spesso accordano una certa importanza
all’infanzia) si intersecano e si illuminano vicendevolmente e il quadro che ne risulta è complesso →
allargano il significato del film dal ristretto ambito di un fatto di cronaca al vasto orizzonte di un problema
generale. L’universalità del tema è espressa proprio narrando la storia di un disoccupato sullo sfondo,
autentico e vero, di una città e di un popolo, senza necessità di caricare né l’uno né l’altro di simboli.
Umberto D è da molti considerato il capolavoro della coppia di autori. Il film è il ritratto della solitudine di
un vecchio, in cui l’autenticità e la verità dei personaggi e dei luoghi si fano ancora più evidenti. Il
pessimismo che grava su tutta l’opera si esprime in diversi episodi rivelatori; il metodo usato dagli autori
per denunciare una condizione ingiusta è uno stile asciutto e scarno, un intreccio minimale, l’uso dei tempi
morti, l’attenzione ai piccoli fatti del quotidiano… La tragedia si cala nella quotidianità dei personaggi e
delle situazioni, dei fatti e degli ambienti, che assumono la funzione di punti di riferimento per un esame
documentato della condizione dell’uomo nella società contemporanea. Il carattere di denuncia del film
rispetto a una certa realtà dell’Italia dell’epoca rese De Sica ostile a molta Italia benpensante e suscitò la
reazione sdegnata di alcuni politici, preoccupati dell’immagine internazionale che questi film davano
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dell’Italia. Dopo questa opera i due autori accusarono una crisi espressiva, legata strettamente alla più
generale crisi del cinema italiano anni ’50, dipendente dell’involuzione politica della società italiana del
tempo. Con Il tetto la collaborazione giunge a un punto morto.

La tecnica del pedinamento zavattiana, nella sue efficacia ma anche nella sua ingenuità, dettata dalla
convinzione che il cinema sia un mezzo oggettivo di riproduzione del reale e che sia sufficiente mettere la
mdp davanti alla realtà quotidiana perché essa si manifesti in tutte le sue implicazioni, si concreterà
maggiormente in alcuni esperimenti di “neorealismo totale” (il meno edulcorato e modificato dallo
spettacolo), anticipava chiaramente i canoni di quello che sarebbe stato parecchi anni dopo il cinéma-
vérité. Limite → chiara impossibilità di identificazione cinema-vita.
In ogni caso si costringeva la critica e il pubblico a prendere posizione di fronte a una realtà che il cinema
denunciava senza mezzi termini → il cinema era strumento di indagine sociale e di critica politica.

Ladri di biciclette (1948; De Sica)

- tra i più rappresentativi film del neorealismo


- lucida e profonda analisi della dura realtà del dopoguerra e punto più alto della collaborazione Zavattini e
De Sica
- nella pellicola si armonizzano la poetica del quotidiano e la pratica del pedinamento zavattiniano che
indaga una realtà di miseria e problemi irrisolti
- lo stile visivo del film privilegia totali e campi lunghi sia per rendere nella sua complessità la realtà sociale
in cui si muove l’umanità disgraziata, sia per ovviare alla modesta capacità espressiva degli attori
improvvisati
- la pellicola è documento di un periodo storico cruciale; ricostruisce atmosfere e riti del dopoguerra
(ossessione del calcio, riunione nei circoli comunisti, ingombrante presenza della chiesa, fascino del
cinema…)
- il lavoro registico è minuzioso, meditato e al contempo teso a dare l’impressione del caso; fa della
contingenza la materia del dramma
- attori non professionisti
- nel raccontare la storia individuale ed emblematica del protagonista e della sua famiglia, De Sica tratteggia
anche l’immagine della città, facendo di essa con i suoi abitanti un’altra protagonista
- film in cui si vedono scorci urbani di una Roma periferica e sconosciuta
- quando il protagonista si reca dalla polizia e poi dai compagni a chiedere aiuto per la bicicletta rubata,
trasparisce con forza il taglio ideologico della vicenda: la polizia è asservita agli interessi delle classi
benestanti mentre l’unica speranza per la gente misera proviene dagli ambienti di sinistra e più
precisamente comunisti
- critica tagliente anche all’ipocrisia cattolica e critica antiborghese mostrata attraverso il conflitto di classe

Il “cinema antropomorfico” e “decadente” di Luchino Visconti

Nel 1943 esce Ossessione, di Luchino Visconti, a proposito di cui scrisse sulla rivista "Cinema" un articolo
intitolato "Cinema antropomorfico" in cui sintetizzava la sua posizione estetica e morale, anticipando la sua
poetica. Carattere preminente dell'arte di Visconti → utilizzare il cinema in primo luogo come rivelazione e
documentazione dell'uomo "concreto", immerso nella realtà elemento centrale del dramma dell'esistenza,
attraverso il quale passano tutti i possibili discorsi sulla cronaca e sulla storia, sull'impegno ideologico e
politico e sulla denuncia di determinate situazioni sociali o morali → realismo critico.

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Visconti si forma negli anni del fascismo, ma è insofferente di quell'ambiente e di quella cultura. Fu
assistente di Renoir.

La visione di Visconti è concreta e critica della realtà contemporanea, cerca di metterne in luce le
contraddizioni; ha una concezione sostanzialmente aristocratica dello spettacolo. Fece proprie le esigenze
di verità e di impegno sociale del primo Neorealismo; tendeva tuttavia di superarle in una più compiuta e
formalmente elaborata struttura artistica, attraverso l'esaltazione del lavoro di messinscena, una
straordinaria sintesi cinematografica di pittura, teatro, musica, letteratura, storia.

Ossessione, unitamente a I bambini ci guardano di De Sica e altri, fu considerato uno dei film che meglio
indicava una nuova strada per il cinema italiano in direzione di un realismo che si contrapponesse
all'ufficialità o al disimpegno del cinema fascista. Fu giudicato in tal senso un precursore del Neorealismo,
ma andrebbe anche visto come il primo capitolo di un lungo romanzo in parte autobiografico che Visconti
comporrà negli anni seguenti. Il film appare infatti in una più ampia e distaccata prospettiva storica,
soprattutto come la rivolta di un artista e intellettuale sensibile al conformismo dilagante, come la proposta
di un cinema di idee, estremamente personale, da contrappore alla banalità allora dominante.
Ossessione è costruito intorno al tema dell'adulterio; desiderio e passione porteranno i protagonisti prima
alla fuga, poi al delitto, poi all'inevitabile punizione. Il film mostra sentimenti (irrefrenabilità delle pulsioni
sessuali), personaggi e ambienti inediti per il cinema italiano del periodo; riflette un disagio morale ben
lontano dall'ideologia "ottimistica" del fascismo, facendosi denuncia della presenza del tragico e del male
nel quotidiano, di quella tragedia della vita che costituirà il tema ricorrente dell'opera viscontiana, percorsa
tutta da storie e personaggi votati al fallimento; Visconti ha grande padronanza del mezzo (uso dei
movimenti di macchina, della profondità di campo...). Suscita l'entusiasmo della giovane critica ma anche le
avversioni della stampa cattolica e di Vittorio Mussolini.

Quando la guerra finisce Visconti si dedica al teatro, e solo nel 1948 uscirà La terra trema, che all'origine
doveva essere un documentario elettorale a sostegno del Partito Comunista. Il film contiene tutti i crismi
del Neorealismo: ambienti reali, attori poveri pescatori del posto, uso del dialetto siciliano, ambientazione
contemporanea, personaggi del popolo, dimensione quotidiana... L'opera è, però, per altri aspetti "oltre" il
Neorealismo, a partire dal peso della sua autorevole discendenza letteraria → c'è una componente colta,
classicista, letteraria nel lavoro di Visconti, che lo differenzia dagli altri autori del neorealismo; il suo
bisogno di osservare con occhi nuovi la realtà del Paese non si identifica con il rifiuto della tradizione, con
l'uso immediato del mezzo espressivo, nel tentativo di identificazione di realtà e finzione che era comune
ad esempio a Rossellini e Zavattini. Tale bisogno, in Visconti, è mutuato da una critica rilettura dei classici,
da un rinnovato impiego del mezzo, proprio nella sua funzione di analisi formale della realtà, di
trasposizione sul piano dell'arte dei dati immediati della conoscenza → tutto è frutto di un lungo processo
di elaborazione (es. le scene sono girate più volte, vengono curate in ogni minimo aspetto, si ricorre a
lunghe inquadrature che costringono lo spettatore ad osservarne il contenuto...).

In questa direzione, Visconti si mosse nella sua attività di regista cinematografico instaurando un rapporto
col testo letterario di partenza, che fungeva da supporto per un'opera che sarebbe stata prettamente
filmica. Il suo uso della mdp è al tempo stesso tradizionale e innovatore; conferisce ai personaggi e agli
ambienti realismo, corposità, verosimiglianza. Alla base di questa cultura artistica non è difficile rintracciare
la tradizione del romanzo ottocentesco, del melodramma, del cinema francese anni '30, il tutto filtrato dalla
sua personalità che ha saputo far propria tale tradizione. La terra trema è una rilettura critica della
tradizione; riprende temi e motivi narrativi de I Malavoglia di Giovanni Verga, personaggi e luoghi del
romanzo, anche se i tempi sono trasposti al presente (ideale dell'ostrica?) → differente prospettiva sociale
e politica dell'Italia post bellica; operazione di aggiornamento del testo letterario e di traduzione
cinematografica. Si tratta della storia di una famiglia di pescatori, sullo sfondo di una società ancora
primitiva, soggetta ai soprusi dei più forti, incapace di uscire da un fatalismo connaturato nella loro cultura,

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nonostante il tentativo di qualche membro della comunità; diventa la storia di un riscatto sociale e politico,
fondato sul bisogno di liberarsi dallo sfruttamento e sulla necessità della lotta di classe, nonostante un
pessimismo di fondo che sembra vedere la sconfitta, anche esistenziale, come inevitabile destino.

Gira poi Senso (1954), Rocco e i suoi fratelli (1960), il Gattopardo (1963; dal romanzo di Tomasi di
Lampedusa) e la Caduta degli dei (1969) → film in cui Visconti ha saputo sviluppare un discorso corale,
fortemente caratterizzato sul piano dei contenuti storici, che in larga misura si rifaceva al discorso della
Terra trema. La crisi dell'individuo o del piccolo gruppo sociale è sempre vista, in queste opere, alla luce di
una visione complessiva della società e della storia; i casi personali sono trattati nel loro significato
emblematico, caricando i personaggi e gli ambienti di valenze critiche, approfondite e non equivoche.
Tratta in questi film:
- Milano dell'immaginario e melodramma (Rocco e i suoi fratelli)
- mutare dei tempi, immobilismo e trasformismo politico delle classi dirigenti (Gattopardo)
- ascesa del nazismo e disfacimento di una famiglia (La caduta degli dei)
- Risorgimento (sfondo de Il Gattopardo e Senso)

Visconti ripropone, proprio negli anni in cui si andava elaborando un cinema antispettacolare che per
parecchi aspetti si richiamava al Neorealismo rosselliniano (nouvelle vague, free cinema, cinéma vérité), la
validità dello spettacolo, unica possibilità espressiva per lui per continuare un discorso sulla realtà che
altrimenti sarebbe risultato vano. Nelle sue opere, la crisi del personaggio, centrale nella poetica
viscontiana, tende a dilatarsi in una più generale crisi sociale → di qui la necessità dell'affresco storico.

Visconti sviluppa il suo discorso inteso a mettere in luce le contraddizioni dell'individuo, la crisi ideologica e
morale e ne contrassegna spesso la decadenza, approfondendo quell'indagine comportamentistica sul
personaggio che per esempio, ne Il gattopardo, si manifesta in lunghi indugi narrativi, in sequenze sospese
nel vortice della narrazione, in pause drammatiche illuminanti. A poco a poco torna in primo piano
l'antropomorfismo, che aveva caratterizzato il suo cinema all'inizio (nelle opere successive era spesso
relegato ai margini di una rappresentazione corale).

L'esistenzialismo di Visconti, intessuto intorno alla decadenza dell'individuo, ai risvolti tragici di una
esistenza personale votata al fallimento totale, pone in primo piano il personaggio osservato in tutte le sue
componenti morali e intellettuali; si fa ancor più preminente nei film degli anni Settanta (es. Morte a
Venezia – 1971). Nel 1976 gira L'Innocente, tratto dal romanzo di D'Annunzio; il film è ancora una volta
ritratto di un mondo immorale, in disfacimento, che passa attraverso la sconfitta di un individuo
emblematico di una determinata realtà. Chiude la carriera cinematografica del regista.

La terra trema. Episodio del mare (1948; Visconti)

- tratta dai Malavoglia di Verga


- esempio di cinema apparentemente neorealista, recitato da gente comune (poveri pescatori), nel dialetto
locale di Acitrezza, provincia di Catania
- rappresenta la rivolta individuale (del protagonista) che si arresta di fronte a una società classista; a
differenza della lotta contro il Fato, l'oscuro destino che il personaggio ingaggia nel romanzo di Verga, qui la
ribellione del protagonista è contro un sistema di oppressione economica, i cui responsabili sono dei
grossisti di pesce sfruttatori
- fra i pescatori regna la legge dello sfruttamento capitalista, tema caro a Visconti; il suo primo finanziatore
fu infatti il Partito Comunista (che gli commissionò un documentario di propaganda politica elettorale);
Visconti maturò poi la volontà di trasporre l'opera verghiana in un lungometraggio narrativo per cui trovò
un nuovo finanziatore
- l'intento dell'autore è quello di esemplificare, in negativo, le scelte politiche del Pci in cui egli militava,

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accentuando gli aspetti romanzeschi dell'adattamento cinematografico, tanto che la rivolta del
protagonista è destinata a fallire perché fondamentalmente individuale; per cambiare veramente la realtà
occorrerebbero una coscienza e un'azione collettive, di classe
- nel film il protagonista diventa simbolo di un disperato riscatto sociale e politico (una tempesta fa perdere
la barca, simbolo dell'unione della famiglia, al protagonista, per comprare la quale aveva ipotecato la casa;
il protagonista si ritrova quindi a mendicare un lavoro che non trova)
- il protagonista, dopo il suo tentativo di ribellione, si ritrova a doversi sottomettere nuovamente alle
ingiuste condizioni dettate dai grossisti
- fin dall'incipit il film era contrassegnato da toni luttuosi
- fascino e musicalità del dialetto catanese si accompagnano alla valenza polemica della scelta; "la lingua
italiana non è in Sicilia la lingua dei poveri" commenta la didascalia iniziale del film
- nonostante il tema trattato e i modi della rappresentazione a prima vista neorealistici, Visconti inserisce
nel film una componente colta, classicistica, evidente nella solennità di alcune inquadrature e
nell'immobilità ieratica delle composizioni plastiche; non lascia spazio a un uso immediato del mezzo al fine
di realizzare un'identificazione tra realtà e finzione (come era intento di Rossellini e Zavattini)
- nella trasposizione sul piano dell'arte dei dati immediati della conoscenza, nell'uso della macchina da
presa che conferisce ai personaggi e agli ambienti corposità e verosimiglianza, risiede il "realismo poetico di
Visconti; è impregnato di malinconia e amarezza, la cui ispirazione può essere rintracciata nel romando
ottocentesco e nel melodramma francese anni '30
- film di forte impatto emotivo con ritmo lento; molte sequenze si prolungano con inquadrature e
panoramiche volte a sottolineare il dolore della sconfitta
- nella visione dell'aristocratico Verga la tragedia è inevitabile e la speranza impossibile; per Visconti, che
tratta un problema di riscatto sociale nell'ottica della dissoluzione della famiglia, cardine della società e
dell'economia borghese, la tragedia non sembra essere eterna se combattuta dall'impegno comune
- in Visconti si trova un dissidio tra decadentismo e marxismo programmatico; da una parte vi è la
disperazione e l'impossibilità della rivoluzione, dall'altra la ragione con la fermezza della lotta, la dignità del
lavoro, la volontà di giustizia e la necessità del cambiamento
- il sottotitolo, episodio del mare, fa intendere che il film avrebbe dovuto comporre una trilogia con altre
pellicole

Ritorno al romanzo popolare

Negli stessi anni in cui Rossellini tentava la strada del Neorealismo "integrale" e Visconti recuperava la
tradizione del romanzo ottocentesco in un differente impegno politico e ideologico, nel cinema italiano si
andava sviluppando un cinema che si richiamava agli schemi narrativi di derivazione dal romanzo popolare:
ci fu un recupero della narrativa, o meglio della struttura spettacolare abituale del cinema popolare,
aggiornata nei temi e nei contenuti drammatici, ricavati direttamente dalla situazione politica e sociale di
quegli anni. Anche per questa produzione, varia e di valore diseguale, si parlò in genere di Neorealismo,
soprattutto perché i personaggi e le storie di tali film rientravano nel clima di "riscoperta" dell'uomo nel
dramma quotidiano dell'esistenza. A un attento esame, tuttavia, si trattava di una produzione che si
limitava a riproporre vecchi schemi formali per la rappresentazione della mutata realtà sociale. Infatti, il
cinema romanzesco, utilizzava ampiamente motivi contenutistici e formali vicini ai modelli tradizionali,
senza la forza di rottura del Neorealismo, a volte mutuati dal cinema hollywoodiano. Con Neorealismo si è
insomma intesa una situazione politica e culturale, per sommi capi → movimento cinematografico e
letterario che, sul piano etico più che estetico, tentò una riconsiderazione generale critica della società
italiana e dei nuovi rapporti che si dovevano stabilire fra l'artista e l'intellettuale e la realtà storica.

Negli anni '50 il cinema italiano conosce un forte incremento produttivo; entra inoltre a far parte di un più
generale sistema di media in cui giocano un ruolo di primo piano anche la stampa, la radio, la nascente
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televisione... (già nel 1959 presente in un milione e mezzo di abitazioni). Come questi media, il cinema si fa
promotore del processo di modernizzazione del paese, anche nella logica del consumo che portò agli anni
del boom economico, favorendo l'introduzione di nuovi modelli di comportamento sociali attraverso un
prodotto medio, di facile accessibilità, in particolare tramite le forme del comico, della commedia e del
melodramma → cinema popolare. L'affabulazione del quotidiano diventa più importante della sua
rappresentazione e rivelazione.

Tra i primi che aderirono ai nuovi temi della guerra e del dopoguerra vi sono qui registi definiti calligrafici,
come Lattuada, Soldati, Castellani, Zampa... Le opere che realizzarono nei primi anni del dopoguerra
dimostrarono un dichiarato impegno sociale, anche se vi si rintracciavano già quegli elementi
sostanzialmente "conservatori"; si trattava di narrare fatti e accadimenti della nuova realtà contemporanea
mettendo in scena personaggi e ambienti secondo una drammaturgia che non differiva, se non per certi
aspetti marginali, dal tradizionale cinema di grande spettacolo; essi differivano solo per i temi e i soggetti
trattati, di una drammaticità evidente perché strettamente legata all'attualità o al recente doloroso
passato.

- Lattuada → poetica sostanzialmente letteraria


- Soldati → scrittore e romanziere la cui produzione fu sostanzialmente di consumo
- Castellani → girò Due soldi di speranza (1952), film che, per i suoi toni ottimisti, leggeri e sentimentali, che
invitavano a riscattarsi con un sorriso dalla povertà, ma anche per gli ambienti reali, i personaggi di umili
condizioni, gli attori non professionisti è considerato un precursore del neorealismo rosa, vero e proprio
genere che dilagò nell'Italia del periodo, in cui tutto era ancora riportato alla realtà, in particolare a quella
popolare, ma a una realtà chiaramente sottomessa alle necessità del racconto e dello spettacolo
- Zampa → girò il film Vivere in pace (1946); ebbe un grande successo di pubblico e di critica, tale da venir
considerato per molti anni uno dei migliori prodotti del Neorealismo cinematografico italiano; in realtà si
trattava di un'opera bozzettistica, disuguale, genericamente umanitaria che sfruttava i nuovi contenuti
democratici e pacifisti, propri dell'antifascismo e della Resistenza

- Germi → fu tra gli autori più noti e significativi di quel cinema che allora fu genericamente definito
neorealistico; la sua poetica rimase sostanzialmente estranea al carattere autenticamente rivoluzionario
del Neorealismo, essendo legata a un concetto di spettacolo cinematografico che in larga misura poteva
identificarsi con quello hollywoodiano; è indubbio, tuttavia, che i suoi film più significativi, sdegnati,
caustici, ironici e corrosivi, proposero all'attenzione del pubblico alcuni temi importanti della vita sociale
italiana di quegli anni. La sua visione della realtà si ancora, pur muovendosi fra l'epica e il melodramma, a
certe situazioni particolarmente drammatiche ed emblematiche della società italiana, quali la mafia
siciliana e il problema dell'emigrazione → cinema di larga udienza popolare, che tuttavia non rinunciava ad
affrontare seriamente certi problemi particolarmente scottanti, ma anzi su di essi era costruito; un cinema
che si potrebbe dire "civile"; ottimo narratore di casi umani; generico socialismo democratico, sorretto più
dalla mozione degli affetti e da un individualismo umanitario che dall'analisi critica della società e dei
problemi umani che ne scaturiscono. L'impegno "civile" (genericamente politico) di Germi, la sua capacità
di rivelare le contraddizioni del tempo, riemerge negli anni Sessanta, dopo un calo, attraverso l'arma
dell'ironia e del sarcasmo per rappresentare, in alcuni film grotteschi, divertenti, satirici, ma non banali e
corrivi, i risvolti della rispettabilità borghese e certi anacronismi e ipocrisie della vita di provincia. Il nuovo
stile apparve in Divorzio all'italiana (1961), riflessione sul delitto d'onore; fa una serie di osservazioni
critiche e di costume che davano a questa commedia scanzonata una dimensione più profonda per quanto
segnata da una certa misantropia. Tale opera diede luogo a una lunga serie di opere comico satiriche dove
ancora una volta i moralisti non appaiono affatto migliori dei peccatori.

- De Santis → egli si batté a favore di un cinema che sapesse riproporre in chiave verista, civile e
antropologica la realtà italiana, attraverso drammi corali che rifiutassero il formalismo dei calligrafici e

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l'intimismo psicologico. Si inserì nel movimento neorealistico con una sorta di programma artistico-
culturale ben preciso; da un lato volle dare della realtà un'interpretazione non genericamente politica e
umanitaria ma ancorata a una visione marxista dei rapporti sociali e a una chiara militanza comunista,
dall'altro volle recuperare la grande lezione del cinema sovietico e americano (ossia uno spettacolo che
faceva leva al tempo stesso sui contenuti drammatici fortemente ideologizzati e sulle sue forme della
rappresentazione, cadenzate su ritmi visivi e narrativi di grande suggestione) per sviluppare un suo discorso
sulla società italiana del dopoguerra → cinema nazional popolare ii modelli sovietici e da quelli americani.
Il maggior successo popolare dell'autore fu Riso amaro (1949), corale, epico e melodrammatico film girato
nel mondo delle risaie vercellesi: l'ambientazione è neorealistica; i temi dello sfruttamento e della protesta
si mescolano alla storia, molto all'americana e da fotoromanzo d'azione, del furto di una collana e sconti
con una pistola. Girò poi un film "d'inchiesta", Roma ore 11 (1952), alla cui sceneggiatura partecipò anche
Zavattini; spaccato della condizione femminile dell'Italia degli anni '50 che prende spunto da un fatto di
cronaca. Il cinema dell'autore è un coraggioso tentativo di divulgazione popolare di alcuni nodi politici della
società italiana, che utilizza il cinema come strumento privilegiato della cultura di massa.

- Lizzani → analogo impegno ideologico e politico, sorretto da uno stile più stringato, conciso e
cronachistico; sviluppa un modello di cinema impegnato. Nella carriera del regista, segnata da un certo
ecclettismo, si possono riscontrare due filoni principali: quello delle attente ricostruzioni storiche di alcuni
momenti e fatti importanti della storia recente del paese; quello delle opere con tono più cronachistico,
legati al presente, che in forme relativamente dirette e immediate, quasi alla film dossier, si concentrano su
eventi criminali, spesso con evidenti implicazioni sociali e politiche.

Accanto a questo cinema, negli anni '50 e nei decenni successivi si sviluppò in Italia in particolare un genere
di grande successo legato alla dimensione comica, che passando attraverso il neorealismo rosa transita
nella "commedia all'italiana", che nei risultati migliori (es. Germi e Zampa) disegna un ritratto graffiante
delle contraddizioni degli italiani e della società in cui essi vivevano. Tra i registi meglio rappresentativi di
questo cinema: Comencini, Risi, Monicelli, Pietrangeli... La commedia all'italiana fu anche un cinema
d'attori: Sordi, Gassman, Tognazzi; Manfredi...

- Comencini → gira Pane, amore e fantasia (1953) e il seguito Pane, amore e gelosia (1954) → neorealismo
rosa; risposta qualunquistica alla richiesta che si faceva da più parti al cinema italiano di trascurare i "panni
sporchi", le miserie del dopoguerra, i gravi problemi della vita quotidiana, per trattare lati meno tristi
dell'esistenza, senza tuttavia rinnegare il realismo della rappresentazione che ormai era diventato una sorta
di cifra stilistica della cinematografia italiana del tempo → Comencini diete a questo disimpegno ideologico
e politico una veste accattivante, grazie alla sua fine e sensibile osservazione dei casi umani e delle
psicologie semplici. I sui film riprendevano una certa tradizione della commedia dell'arte, nel loro
bozzettismo nel ricorrere a tipi prestabiliti; contribuì al rilancio del divismo.

- Risi → realizzò negli anni '50 alcune commedie di successo popolare, come Poveri ma belli (1956), in cui la
realtà umana e sociale, come in Comencini, era filtrata attraverso il bozzettismo. Nei primi anni Sessanta
realizzò alcune opere che, nell'ambito della commedia di costume e all'italiana, di cui divennero grandi
classici, seppero incidere con sottile ironia nel tessuto sociale contemporaneo. Il sorpasso (1962) fu
considerato capolavoro del regista e manifesto dell'Italia cialtrona, sbruffona e votata all'autodistruzione.

- Monicelli → realizzò una lunga serie di commedie all'italiana, non prive di un acre gusto della satira o della
semplice parodia. Fra i suoi primi film importanti sono quelli con Totò, che per molti anni fu uno degli attori
più significativi di un cinema autenticamente popolare, es. Totò cerca casa (1949). La commedia all'italiana
fu anche un cinema di sceneggiatori, es. I soliti ignoti (1958); sceneggiato da Age e Sacarpelli, rivela la
capacità del regista di far attraversare le sue commedie da un'evidente propensione per la dimensione
tragica.
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- Pietrangeli → solo in parte riconducibile all'ambito della commedia; ebbe una maggiore autonomia
creativa, fuori degli schemi del cinema di consumo; si distinse dai colleghi per una notevole e originale
capacità di rappresentare vari aspetti, spesso complessi e contradditori, della psicologia femminile. I suoi
ritratti di donne o ragazze, che campeggiano nella maggior parte dei suoi film, sono finemente tratteggiati
e, anche se rimangono talvolta fuori da una precisa collocazione storica, gettano una luce rivelatrice sul
mondo femminile, sottolineandone desideri, frustrazioni, disperazione...

- Matarazzo → legato al melodramma; negli anni del dopoguerra si distinse dai colleghi perché non ricalcò
pedestremente gli schemi del cinema neorealistico, ma intraprese la strada del dramma a forti tinte, del
romanzo d'appendice. Nei suoi film affronta temi ricorrenti della letteratura popolare, in particolare il
conflitto fra passione e convenzioni sociali, calati in una rappresentazione della realtà che teneva conto dei
fatti e dei problemi della quotidianità, che acquistavano particolare valore culturale.

La stagione del neorealismo si protrasse per parecchi anni, ma ebbe il suo momento di maggior fioritura
nell'immediato dopoguerra. Durante e dopo questa stagione altre tendenze si svilupparono,
recuperandone alcune istanze, ma a volte svuotandolo dei suoi contenuti più genuini. In questa varietà di
posizioni il cinema italiano si sviluppò, conquistando a poco a poco i mercati internazionali e quello interno,
un tempo dominato quasi totalmente dalla produzione americana; avvenne in particolare negli anni '50 e
'60.

13. TRADIZIONE E NOVITA' IN AMERICA E IN EUROPA

Hollywood dopo la Seconda guerra mondiale

I profondi e radicali mutamenti dell’Europa e del resto del mondo dopo la Seconda guerra mondiale
sconvolsero il vecchio equilibrio; essi si sono riflessi anche nella produzione cinematografica. Il cinema
hollywoodiano degli anni ‘40 e ‘50 fu nettamente segnato dal clima della guerra fredda e dal maccartismo
che portarono alla stesura di vere e proprie liste nere di sceneggiatori e registi e attori sospettati di
simpatie comuniste. Il Congresso degli Stati Uniti cominciò a indagare sulle infiltrazioni ad Hollywood già nel
1947 e continuò a farlo nel corso del decennio successivo, creando un clima di repressione e delazione.
Alcuni cineasti per poter continuare a lavorare dovettero emigrare o usare uno pseudonimo → sorta di
caccia alle streghe. In questi anni l’industria cinematografica hollywoodiana continuò a essere dominata dal
sistema degli studi, ovvero dalle “cinque grandi” e dalle “tre piccole”, per quanto le leggi antitrust avessero
costretto queste case a rinunciare alle loro catene di sale e le produzioni indipendenti si fossero fatte più
agguerrite. La minaccia peggiore ad Hollywood fu quella rappresentata dal vistoso e progressivo calo di
pubblico che segnò tutti gli anni ’50, dovuto anche all’avvento della televisione, che alla fine degli anni ‘50
era già presente nel 90% delle abitazioni americane. Tuttavia, la televisione non fu in tutto per tutto nemica
dell’industria cinematografica, infatti il cinema vendeva ad essa i diritti dei propri film, affittava i suoi studi
alle produzioni televisive e produceva serie destinate al piccolo schermo. Per frenare l’emorragia delle sale,
Hollywood reagì cercando di far del cinema davvero il più grande spettacolo del mondo e dal momento che
le immagini televisive erano piccole e in bianco e nero rese le sue a colori e più grandi. Sebbene il colore si
fosse già affacciato in precedenza nella storia del cinema, fu negli anni 50 che Hollywood si convertì
pressoché totalmente adesso → sistemi del Technicolor e dell’Eastman color. Parallelamente si passò dal
formato standard cioè dell’immagine quadrata (1,35:1) ad altri più ampi e rettangolari (1,85:1 e 2,35:1),
ossia il cosiddetto formato panoramico, il più noto dei quali era il Cinemascope. Anche il suono, passato
dalla registrazione ottica a quella magnetica, contribuiva a rendere più spettacolare l’esperienza della
visione cinematografica. Si tentò inoltre di introdurre film stereoscopici o in 3D, ma il tentativo fu presto
accantonato (es. Il delitto perfetto; Hitchcock; 1954).

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Un’altra delle conseguenze dell’avvento della televisione fu che il cinema smise di essere innanzitutto uno
spettacolo per famiglie, andando alla ricerca di un pubblico differenziato, in particolare di quello giovanile.
Si diffondono in questo modo film pensati per i giovani, sia con giovani come protagonisti, sia appartenenti
a generi che puntavano a soddisfare i loro gusti: film di fantascienza, orrore, musica rock, exploitation…
Proprio anche a causa di questa rincorsa a un nuovo pubblico giovanile il cinema valicò spesso i limiti posti
da una censura che dal canto suo si ritrovò costretta ad ammorbidirsi; questo fatto consentì tra l’altro il
rilancio del cinema a soggetto criminale, nelle vesti del cosiddetto film noir.

Dal punto di vista strettamente stilistico, il cinema americano continua, pur con qualche novità (diffondersi
della profondità di campo, dal piano sequenza, del flash back) a percorrere la strada tracciata dai modelli
classici degli anni 30, anche se l’avvento del cinemascope pose una serie di nuovi problemi concernenti
innanzitutto la composizione dell’immagine. Allo stesso modo la politica dei generi, insieme a quella di un
nuovo star system, continua ad essere il criterio dominante la produzione hollywoodiana.

Ebbero molto successo i film di fantascienza e dell’orrore (Psycho, 1960; Gli uccelli, 1963; Hitchcock); in
modi e forme diverse traducevano in termini spettacolari l’inquietudine dell’epoca, la paura dell’atomica e
quella per l’”altro” (l’invasione aliena spesso era una metafora di quella dei sovietici comunisti). Fra i generi
che maggiormente beneficiarono della idea dello spettacolo più grande del mondo ci furono il musical, il
cinema epico e il western. Il western tuttavia si sviluppò anche in un’altra direzione, quella che lo portò alla
sua maturità, assumendo un tono crepuscolare e avvalendosi di caratteri più complessi, quando non
apertamente ambigui e contraddittori. Un altro genere che seppe sfruttare efficacemente in termini
espressivi le novità del periodo, in particolare l’uso del colore, fu il melodramma: esso usò cromatismi
accesi per tradurre visivamente l’esplosione delle passioni dei suoi personaggi.

In aperta controtendenza rispetto alla spettacolarità perseguita da molto cinema hollywoodiano, ma in


perfetta sintonia con quella dimensione di incertezza, ambiguità e pessimismo che trapelava in altri film
dell’epoca, vi fu il film noir; tale espressione fu coniata dalla critica francese. Indica un genere o una
tendenza e erede in certa misura del gangster film degli anni ‘30; prende le mosse secondo gran parte degli
storici da Il mistero del falco (1946; Huston). Il cinema nero nasce da uno stretto rapporto con la letteratura
di genere e i romanzi hard boiled, e dà vita ad un mondo criminale segnato da incertezza, inganno, e
disperazione, che spesso appare come un vero e proprio incubo, in cui si muovono uomini disillusi e donne
fatali → mette in scena la parte nascosta e le tensioni sotterranee della società americana dell’epoca; lo
stile visivo è molto particolare, si fondava su un’illuminazione basata sui contrasti tra luce e ombra, di
derivazione espressionista, con insoliti angoli di ripresa, interni opprimenti, ed esterni, spesso reali, dal
carattere minaccioso. Si tratta di un genere notturno e metropolitano; il film noir ha dato vita ad alcuni dei
più originali esperimenti linguistici del cinema americano dell’epoca (ad esempio vi sono film tutti in
soggettiva oppure interamente privi di dialoghi; in Nodo alla gola di Hitchcock, 1958, abbiamo un film
realizzato da una successione di otto piani sequenza).

Fra i cineasti che meglio rappresentarono lo spirito del film noir ci fu Robert Siodmak, uno dei tanti registi di
origine tedesca costretti a lasciare il suo paese a causa del nazismo. I suoi film si muovono fra
espressionismo e realismo, sono caratterizzati da una solida struttura drammatica che dà rilievo alle
psicologie dei personaggi, alla cui soggettività sono piegate le diverse componenti espressive, e dove un
ruolo fondamentale e assunto dall’illuminazione che, attraverso i suoi contrasti, rende con grande intensità
la dimensione da incubo cui sono costretti i diversi protagonisti di questi film.

Il cinema americano degli anni ’50, inoltre, vide affermarsi una tendenza segnata dall’esperienza del
realismo, anche sulla scia del successo internazionale che incontrarono le opere del primo cinema italiano;
nello stesso cinema di genere, elementi legati alla quotidianità ebbero talvolta sopravvento su quelli di pura
invenzione. Il cinema americano del dopoguerra fu in una certa misura più attento ai problemi sociali e al
111
dramma dell’uomo in determinati contesti sociopolitici, rispetto al cinema prebellico → si riscontrano
diversi elementi di rottura, innovatori, anticonformisti.

Fra i cineasti più rappresentativi di questa realtà ci fu il produttore e regista Stanley Kramer, che incoraggiò
altri registi come ad esempio Robson, Zinnemann, Benedek ecc. verso un cinema “civile”, che doveva
portare lo spettatore nel vivo dei problemi della società contemporanea → verità della rappresentazione,
uso di esterni reali…

I due registi che meglio rappresentarono, per il valore delle loro opere, il nuovo clima del cinema americano
postbellico furono Huston e Kazan.

- Huston → esordì nella regia in piena guerra. Il suo esordio costituì non soltanto la rivelazione di un regista
che seppe infondere ai personaggi, alla storia e all’ambiente una dimensione claustrofobica, ambigua e
misteriosa, ma anche l’inizio di un profondo rinnovamento contenutistico e formale del cinema poliziesco
nelle forme del film noir. Tra i diversi temi della poetica hustoniana: scacco dell’eroe, violenza dei rapporti
umani, affannosa ricerca di una ragione per vivere, fatalismo, spirito di avventura, sottile umorismo… Egli
operò un’analisi del comportamento dell’uomo; analizzò la paura come elemento caratteristico del
comportamento umano, minando la retorica dell’eroismo; si addentrò nella poetica del fallimento, ma
anche dell’azione individuale, del coraggio, di una certa solidarietà umana

- Kazan → a differenza di Huston si formò a teatro come attore e regista prima presso il Group Theater,
fondato sul metodo di recitazione naturalistica di Stanislavskij, poi, a partire dal 1947, in quello dell’Actors
Studio (che formò ad esempio Marlon Brando e James Dean). I suoi primi film bene riflettevano quella
centralità dell’attore e della messinscena propria della sua formazione teatrale, ma più ancora erano il
frutto di quell’impegno politico comune a molti giovani registi e sceneggiatori di quegli anni. Affrontò i temi
della giustizia, dell’antisemitismo, del razzismo, della vita quotidiana vista nei suoi piccoli drammi; i suoi
film rientrano in quel tentativo di rinnovare il cinema hollywoodiano dall’interno, nelle forme e nei
contenuti, che caratterizzò i primi anni del dopoguerra in America. Anche Kazan venne coinvolto nei
processi per le attività antiamericane. Nel 1951 fu chiamato a rispondere della sua passata militanza
politica; denunciò alcuni dei suoi compagni. Questo tradimento per Kazan costituì uno stimolo all’analisi
approfondita di un disagio morale e intellettuale, che non era solo suo ma comune alla società americana
del tempo e che si tradusse in un cinema profondamente segnato dai temi del dubbio, dell’ambiguità e
della sofferenza. Kazan girò una serie di film di vario genere ma legati l’uno all’altro da quell’impegno
analitico e da quel continuo approfondimento psicologico dei personaggi che sono i caratteri salienti del
suo stile; utilizzò per gli attori il metodo di recitazione fondato sull’identificazione, l’improvvisazione e
l’enfasi del gesto proprio dell’Actors Studio. Tutto il cinema di Kazan è segnato da una vena autobiografica,
in cui i personaggi spesso riflettono le ansie e le contraddizioni del loro creatore. Fece un lungo discorso
sulle contraddizioni, le ambiguità, i successi e gli insuccessi della vita; diede corpo a un’opera unitaria tra le
più rigorose e profonde del cinema americano del dopoguerra. La sua ambiguità di fondo si concretizza in
uno stile composito, di forte evidenza spettacolare, raramente formalistico, che getta una luce livida e
drammatica su fatti e personaggi che costituiscono il risvolto critico dell’ufficialità dell’industria americana
dello spettacolo.

Fra i grandi protagonisti della commedia del cinema americano del secondo dopoguerra ci fu Billy Wilder
(nato a Vienna); le sue origini mitteleuropee gli consentirono di gettare uno sguardo disincantato sui
costumi della società americana, attraverso un cinema spesso definito come cinico → commedia maliziosa,
cupo melodramma. I temi dell’inganno, della maschera e dello sdoppiamento d’identità attraverseranno
per intero la sua variegata e multiforme opera. I primi importanti film di Wilder sono di carattere
drammatico: opere violente, aggressive, inconsuete nel panorama del cinema hollywoodiano, che
riuscirono a imporlo all’attenzione del pubblico e della critica. Operò una rappresentazione corrosiva e
demistificatrice di Hollywood e dei suoi miti; compose una spietata accusa di certo scandalismo disumano,
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proprio del giornalismo americano. A fianco dei film drammatici, ci sono poi le sue corrosive commedie (si
rifà Lubitsch) in cui sviluppò un discorso satirico sulla società e sull’uomo. Il suo è un cinema in cui
tradizione e novità si fondono in un’unità espressiva che permette, tra le pieghe di un racconto
apparentemente evasivo e semplicemente umoristico, un’interpretazione critica e articolata della società
contemporanea.

Tra gli importanti registi che si affermarono nel secondo dopoguerra e che sono stati un punto di
riferimento imprescindibile della critica e del pubblico vi sono Fuller e Ray.
- Fuller → il suo fu un modello di cinema primitivo e istintuale, antitetico ai modelli dominanti; esordì con il
western; si distingue per l’originalità dei suoi film; i generi in cui meglio si dispiegano la forza espressiva la
veemenza e il vitalismo dell’autore sono i film di guerra e i noir
- Ray → fu assistente di Kazan; la sua irrequietudine, la sua angoscia esistenziale, il suo lirismo, così come
uno stile fatto di forti contrasti, hanno trovato espressione in una serie di film diseguali ma sempre sorretti
da un impegno morale e sociale non equivoco. Nel 1955 gira Gioventù bruciata, il suo primo e unico grande
successo; si tratta di un ritratto fortemente caratterizzato e dai toni esistenziali della gioventù americana;
l’autore fa un uso espressionistico del colore, opera un’attenta composizione delle immagini panoramiche,
utilizza angolazioni oblique. Il protagonista del film è James Dean, che fu allora e in seguito il simbolo della
contestazione giovanile, individualista anarcoide

In questi anni il western diventa “maggiorenne”. Con Boetticher il western evolve; nei suoi film il tema
dell’uomo solo che combatte non soltanto contro le avversità dell’ambiente, ma anche e soprattutto contro
le varie forme di ingiustizia, è approfondito e sviluppato. Nei suoi racconti i punti di forza non sono l’azione,
il dinamismo, ritmo incalzante dei fatti, ma piuttosto la contemplazione, il lento scorrere del tempo su una
situazione sostanzialmente statica. L’autore è inavvertibile; la sua osservazione è distaccata, lo sguardo
indagatore si concentra sul personaggio e sul suo comportamento, il mito del West si cala nella realtà
quotidiana, la vicenda sempre uguale dell’uomo giusto e coraggioso supera la schematicità della tradizione
per dare un nuovo spazio alla profondità dei personaggi. Mann è invece un autore che si caratterizza per
uno stile più ridondante e corposo, evidente nel ritmo narrativo, così come nella regia e nella messinscena.
Dietro a questa cura formale si trova un forte impegno contenutistico, un evidente attenzione ai problemi
dell’esistenza e ai contrasti sociali. Egli realizzò una serie di western che determinarono un’importante
trasformazione del genere in chiave esistenziale, psicologica e psicanalitica, in cui ricorrono i temi
dell’errore scisso fra civiltà e barbarie, dell’ineluttabilità della violenza e della vendetta.

Il rinnovamento dei generi nel cinema americano degli anni ‘50 è testimoniato anche dai melodrammi di
Sirk, e dai musical di Minelli, Donen e Kelly.
- Sirk → lavorò nella Germania degli anni 30; si trasferì poi negli Stati Uniti dove si impose come miglior
rappresentante del melodramma cinematografico. Attraverso le storie convenzionali del genere egli dà vita
a personaggi ambigui e contraddittori, spesso prigionieri di un’illusione (tema costante della sua opera).
Attraverso il ricorso a colori tanto falsi quanto accesi, costruisce espressionisticamente un paesaggio visivo
che più che al mondo delle cose sembra guardare a quello dell’anima. Anche la recitazione nei suoi film è a
volte violenta mentre altre statica; dà corpo una dimensione straniante che rimanda al palcoscenico. Sarà
stimato da Almodovar.

Per quanto riguarda il nuovo musical, esso è erede diretto del grande musical degli anni ‘30; tuttavia,
questo tende più di quello precedente ad ancorarsi alla realtà quotidiana, a trasformare la vita d’ogni
giorno in materia di spettacolo, con canzoni e danze per le strade, personaggi anonimi, storie realistiche. Il

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nuovo musical si caratterizza anche per il ricorso a storie e personaggi più complessi e per una maggiore
consapevolezza della propria dimensione di spettacolo. Donen e Kelly furono autori di Cantando sotto la
pioggia (1952) che è considerato dalla maggior parte della critica uno dei capolavori del genere; esso
ripercorre con acutezza e ironia la storia del passaggio dal cinema muto a quello sonoro.

L’autore più importante del musical del dopoguerra fu Minelli, i cui film seppero muoversi con intelligenza
fra tradizione e novità; egli diede un certo realismo al genere. Fu un regista sempre attento alle relazioni tra
realtà, da una parte, e artificio finzione e spettacolo dall’altra (rapporto tra sogno e realtà, maschera e
verità). Egli operò attraverso i suoi film riflessioni sul cinema; non fu solo regista di musical ma autore
anche di intensi melodrammi.

Fra tradizione e novità, il cinema americano del secondo dopoguerra si mosse in diverse direzioni;
nonostante mantenne in sostanza il carattere evasivo che gli era proprio, favorì non poche iniziative che
modificarono anche radicalmente i modi di produzione e di fruizione dei film. Nuovi contenuti, nuove
forme, coraggiosi tentativi di rinnovamento, esperimenti intelligenti e rischiosi, in parte derivati dal cinema
europeo e contemporaneo, posero le basi per una cinematografia che rifletteva sempre più la complessità
della società americana. Da qui nacque anche quella progressiva dissoluzione del mito di Hollywood che,
contemporaneamente alla sempre più estesa diffusione della televisione, porterà alla chiusura di diverse
case cinematografiche, alla loro trasformazione, a un nuovo orientamento produttivo, che
caratterizzeranno il cinema americano della fine degli anni ‘60 e dei primi anni ’70. Tale mutamento si
avverte anche nel nuovo divismo che si sviluppa in quel periodo; un divismo che chiude, in forme e
contenuti sostanzialmente diversi da quelli tradizionali, un capitolo fondamentale della storia del cinema,
non soltanto americano ma mondiale. Fu Marlon Brando con altri suoi colleghi formatisi alla scuola
dell’Actors Studio a costituire il modello dei nuovi eroi dello schermo, più legati alla realtà contemporanea
e soprattutto ai problemi della gioventù rispetto ai divi precedenti. I personaggi da lui interpretati bene
riflettono le ansie, le speranze, le delusioni e più ancora l’irrequietezza e l’insicurezza dell’America degli
anni di Eisenhower e McCarthy. L’attore che anche a causa della sua morte prematura fu assunto a simbolo
di un’intera generazione è sicuramente James Dean che recitò in Gioventù bruciata; egli tratteggiò un tipo
di giovane ribelle che divenne l’emblema di una ribellione più o meno sotterranea (underground) che
sfocerà nella nuova società promessa da Kennedy.

Negli stessi anni il divismo cinematografico femminile ritrovava in Marylin Monroe la rappresentante più
qualificata in direzione di quel cinema nuovo. La morte tragica e improvvisa dell’attrice non fece che
consolidare il suo mito. Balzava in primo piano la femminilità, non più nei modi della vamp di un tempo, ma
nei rapporti più complessi della donna indipendente, solo apparentemente arrendevole, in realtà volitiva e
autoritaria, ma contemporaneamente dolce desiderabile, con la società maschile; i rapporti maschio-
femmina, uomo-donna, costituirono il filo conduttore delle avventure di un personaggio che, non solo
grazie al suo fascino e al sottile erotismo, ebbe un successo di pubblico straordinario, proprio per la sua
aderenza allo spirito del tempo → nei film della maturità la diva acquistò uno spessore umano e al tempo
stesso un valore simbolico, da poter essere identificata con le speranze le illusioni di milioni di uomini
immersi nell’incertezza del presente e nella paura del domani.

L’aspetto meno evidente ma forse più rivelatore di questa rivolta contro gli schemi formali e i metodi
produttivi di Hollywood si riscontra in alcune opere indipendenti, realizzate lontano da Hollywood, da
quegli autori che fecero parte della cosiddetta Scuola documentaristica di New York o che ad essa furono
vicini → il documentarismo narrativo porrà le basi per quel cinema verità che anche negli Stati Uniti avrà
una stagione fruttuosa.

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Il cinema barocco di Orson Welles

Welles può essere definito barocco in senso antistoricistico (quindi che non fa riferimento al periodo
storico) per gli elementi stravaganti ed abnormi, fantasiosi contorti, deformati e sbalorditivi, che si
riscontrano nei suoi film pieni di immagini che aggrediscono lo spettatore invece di lasciarlo indisturbato a
godersi la storia come accadeva nel cinema classico. L’uomo è la società si riflettono nell’opera del regista
non direttamente, ma attraverso rigoroso filtro formale, che ha la precisa funzione di deformare i dati
immediati della conoscenza sensibile per metterne in maggior luce gli elementi rivelatori. Il suo discorso
non può quindi essere diretto, chiaramente esplicito, ma deve svolgersi all’interno di una struttura
drammatica che continuamente rimanda allo spettacolo come momento privilegiato dell’indagine critica →
cinema della metafora.

In questo senso ogni film di Welles è un tentativo di metaforizzare la realtà, di arricchirla di molteplici
elementi antinaturalistici, di prospettarla in termini di contrasto delle idee e dei significati, tali da superare
l’immediatezza della visione, allo stadio di pura descrizione dei fenomeni e comportamenti, per prospettare
dei problemi di fondo che coinvolgono la natura stessa dell’uomo, la sua posizione nella società, le sue idee,
l’eterno problema del bene e del male, della responsabilità individuale e collettiva, in un contesto che
tuttavia non annulli il dramma delle passioni e il contrasto delle personalità, ma anzi da queste trovi origine
e sviluppo, e a queste ritorni nel corso del dibattito. Quello di Welles è un cinema drammatico, a volte
melodrammatico; rompe con l’illusione di realtà e si pone contro il neorealismo e tutti i realismi. L’autore
esordisce come attore professionista negli anni ‘30; si afferma poi come regista per il suo stile irruente, il
coraggio intellettuale, l’anticonformismo, l’impegno politico. Egli raggiunse una certa popolarità quando
l’emittente radiofonica CBS gli offrì una serie di adattamenti in diretta di classici della letteratura che
sarebbero andati in onda nella fascia serale di massimo ascolto; nel 1938 l’autore adatta la Guerra dei
mondi costruendo un radiodramma come una serie di breaking news che, interrompendo un fantomatico
programma musicale, annunciavano una vera invasione aliena. Centinaia di migliaia di ascoltatori
scambiarono la finzione per realtà e furono gettati nel panico. Egli divenne dunque uno degli uomini più
famosi del paese e mise in luce tutto il potere dei nuovi media. Dopo pochi mesi, ottenne un contratto che
gli permetteva un’assoluta libertà d’azione. Welles porta quindi sugli schermi Quarto potere (1941) che,
dopo una violenta campagna scandalistica e intimidatoria, viene accolto dalla critica come un capolavoro.
Ciò che colpì e provocò polemiche fu il contenuto drammatico dell’opera, un ritratto a tutto tondo,
conturbante profondamente tragico, di un magnate del giornalismo e dell’industria editoriale americana la
cui mancanza di scrupoli, le cui iniziative avventurose, spregiudicate, ciniche, contribuirono a rafforzare il
potere economico e politico, a farne il simbolo per eccellenza del capitalismo aggressivo. Welles cerca, già
in questo suo primo film, di dilatare il più possibile i termini storici e cronologici di una vicenda personale e
di un protagonista della vita sociale, in modo da coinvolgere nel giudizio su un uomo il giudizio su una
società. Sconvolge le regole codificate del cinema hollywoodiano, attingendo a piene mani
all’espressionismo e al grande realismo dei classici del muto. Si tratta di una prima opera che ha già la
caratteristica della summa registica. La storia procede in modo frammentario, come un puzzle, attraverso il
racconto della vita del protagonista attraverso un cinegiornale e poi attraverso dei flash back di cinque
personaggi che gli sono stati vicino. Emerge un quadro contraddittorio che fa del personaggio un uomo
dalle molteplici personalità; in cui si scontrano il gigantismo del suo potere pubblico e la fragilità della sua
esistenza privata. A questa complessa e labirintica struttura narrativa si associano una serie di soluzioni
visive e tecniche che tendono a restituire alla realtà tutta la sua complessità; gli obiettivi grandangolari
abbracciano una grande porzione di spazio deformano la prospettiva, la profondità di campo tiene a fuoco
sia ciò che c’è in primo piano sia ciò che c’è nello sfondo; i piani sequenza prolungano nel tempo le
inquadrature invitando lo spettatore ad una osservazione più attenta, i punti di vista innaturali e le
angolazioni dal basso accentuano il gigantismo del protagonista ma allo stesso tempo, inquadrando i
soffitti, gli creano intorno uno spazio opprimente, quasi una gabbia esistenziale. I vertiginosi movimenti di

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macchina passano da piani generali ad altri particolari, i mirabolanti effetti di montaggio ricordano
l’estetica dell’attrazioni del cinema muto, le scenografie sono complesse, la luce scandisce gotici chiaroscuri
di provenienza espressionista, la profondità di campo sonora gioca sull’accavallamento di diverse voci. Il
ritratto di un uomo colto in tutta la sua contraddittorietà, lo stile barocco, il ricorso ad una stilistica
multiforme e sfaccettata che è un tutt’uno con l’ambiente della realtà rappresentata, rimarranno elementi
costanti dell’opera di Welles.

Il film successivo fu un insuccesso commerciale; quello ancora dopo fu manipolato dalla RKO; nasce così il
mito di Welles, regista maledetto, invadente, in dittatore, autore assoluto delle sue opere, in perenne
conflitto con i produttori, insensibile alle ragioni dell’industria e del commercio, e per questo ben presto
perseguitato, costretto progressivamente al silenzio. Nei film successivi affronta ancora il tema del potere e
della corruzione della società capitalistica e dell’ambiguità delle relazioni umane; indaga la dialettica fra
vero e falso, realtà e apparenza. Nel 1947 realizza il suo primo film shakespeariano, Macbeth, che sviluppa il
discorso sulla corruzione del potere e risolve in termini prospettici la tragedia individuale che diventa
tragedia collettiva. Welles si rilegge Shakespeare facendo del suo testo una metafora degli istinti primitivi
che governano il comportamento umano. Girerà poi Otello nel 1950.
In tali opere il personaggio è davvero l’elemento catalizzatore dell’intera costruzione drammatica e
attraverso di lui la rappresentazione delle contraddizioni della società acquista, attraverso la metafora, una
prospettiva critica inconsueta. Squilibrati e affascinati, pieni di invenzioni sceniche, sempre sorretti da un
gusto preciso dello spettacolo coinvolgente, ma anche sottesi da una tensione drammatica fortissima,
questi film costituiscono tappe fondamentali del cammino dell’artista. Con i film successivi, il discorso di
Welles, che ha lasciato l’America maccartista, si fa più critico e amaro, diventa sempre più chiaro e
culturalmente fecondo: affonda le radici nella natura del male che ci circonda, dà vita attraverso i suoi
personaggi complessi e diabolici alla personificazione non del male eterno ma del male hic et nunc, ossia di
quegli uomini e di quelle strutture politiche sociali che impediscono all’uomo di essere libero. La sua visione
del mondo è sempre più pessimistica desolata. Secondo lui “l’arte è una menzogna che fa comprendere la
realtà”.

Quarto potere (1941; Welles)

- l’artista è produttore, sceneggiatore, regista e attore del film


- la recitazione è esacerbata, la messa in scena è barocca, la narrazione mutua dal giallo il procedimento
della progressiva rivelazione della vita

Alfred Hitchcock: il fascino della suspense, le avventure dello sguardo

Hitchcock si trasferì negli Stati Uniti nel 1939; qui egli riuscì a portare a compiuta maturazione i motivi
ricorrenti della sua poetica. Hitchcock e riuscì a inserirsi perfettamente nel sistema di Hollywood,
introducendovi una sua personale visione del mondo, venata di cattolicesimo, una forte dose di
scetticismo, di understatement tipicamente britannico, che si esprime in una poetica che ruota attorno al
concetto di suspense. Il termine suspense è in larga misura sinonimo di “attesa”, con i risvolti della paura,
del sospetto, dell’attenzione spasmodica che questo termine può inglobare. Hitchcock non utilizza la
sorpresa, ossia qualcosa che accade all’improvviso senza che lo spettatore ne sia avvertito; egli utilizza
appunto la suspense, facendo in modo che lo spettatore sia messo al corrente di quanto di terribile sta per
accadere, costringendolo così a vivere con trepidante partecipazione lo svolgersi degli eventi. I protagonisti
dei film di Hitchcock sono raramente dei professionisti del crimine, poliziotti in servizio o malviventi, bensì
uomini e donne comuni, coi quali lo spettatore può facilmente identificarsi. Per un errore commesso o per i
capricci del caso, questi personaggi si trovano coinvolti in una terribile vertiginosa avventura. Il ricorrente
universo tematico del regista si basa sulla sottile linea di confine che separa colpa e innocenza,
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sull’ambiguità morale, sulle ossessioni mentali del dubbio, del peccato e della paura di essere puniti, sui
conflitti di coscienza, sulla diffusa presenza di doppi e falsi colpevoli; porta alle estreme conseguenze un
cinema soggettivo dove ogni dettaglio è ambiguamente significante e tutto passa attraverso il filtro della
psiche. Hitchcock ricorre ad uno stile che solo in apparenza è mutuato da quello classico, ma che nella
realtà dei fatti lo forza portandolo ben oltre i limiti stabiliti, con l’invenzione di soluzioni visive di grande
impatto e forza espressiva. Domina infatti l’uso delle inquadrature in soggettiva che, alternate a quelle
oggettive sul volto del personaggio che guarda, ne traducono le ossessioni mentali e spingono lo spettatore
al massimo dell’identificazione possibile. Utilizza un linguaggio e una narrazione che spesso si fanno beffe
del concetto di verosimiglianza, relegando in secondo piano le preoccupazioni del realismo: Per Hitchcock e
il cinema non è un pezzo di vita ma una fetta di torta.

Il cinema espressionista, per quanto riguarda il carattere ossessivamente onirico della sua opera, lo
influenzò molto. Il motivo della suspense è alla base di racconti che, pur attingendo alla tradizione di certa
narrativa gialla britannica, introducono da un lato un sottile umorismo, dall’altro una ricerca formale
estremamente elaborata; molti dei suoi film sono eccellenti saggi di cinema puro. Tra i migliori lavori del
periodo inglese c’è Il pensionante (1927). Una volta trasferitosi a Hollywood, ottiene un notevole successo
con Rebecca la prima moglie (1940). Nei suoi film gioca con il classico doppio intreccio hollywoodiano, che
riguarda una storia d’azione e una storia d’amore (es. in Notorious); alcuni suoi film sono dei veri tour de
force espressivi, come ad esempio Prigionieri dell’oceano (1943), pressoché interamente girato su una
scialuppa di salvataggio, e Nodo alla gola (1948), che si affida a otto piani sequenza rendendo invisibili gli
stacchi che li separano, dando l’impressione che il film sia girato in un unico piano sequenza. Negli anni ‘50
gira alcuni film considerati in assoluto capolavori dell’intera storia del cinema; tra questi La finestra sul
cortile (1954), un vero e proprio trattato sull’uso della soggettiva, l’atto del guardare il rapporto tra il film e
il suo spettatore. Gira anche La donna che visse due volte (1958), in cui affronta il tema della doppia
identità, e utilizza soluzioni iconografiche interessanti (es. inquadratura in cui il protagonista guarda le scale
di un campanile, e dove sono mescolati un carrello all’indietro a uno zoom in avanti); affronta anche il tema
della vertigine che è centrale in tutto il cinema del regista, così come quello dello scambio di colpa, del
doppio, della persecuzione minacciosa.

Negli anni ‘60, ormai affermato, Hitchcock rallenta la sua produzione. Gira Psycho (1960), storia di un pazzo
con implicazioni freudiane, affetto da sdoppiamento della personalità, complesso di Edipo e voyeurismo; la
scena dell’omicidio della doccia con il suo frammentatissimo montaggio è una delle più celebri dell’intera
storia del cinema per la sua efferata e stilizzata violenza. La storia, tradotta in termini di suspense, è la
storia della nostra insicurezza, della paura dell’uomo contemporaneo in una società sempre più violenta.
Con Gli uccelli (1963) anticipa di 10 anni i cosiddetti film catastrofici; questo film assume il significato
metaforico non soltanto di una possibile catastrofe ma anche e soprattutto di quell’angoscioso disagio
esistenziale che è l’attesa di qualcosa di irreparabile.

La finestra sul cortile (1954; Hitchcock)

- costruito su tre elementi fondamentali: uomo immobile che guarda continuamente fuori dalla finestra,
oggetto del suo sguardo, reazioni dell’uomo
- si tratta di una profonda riflessione sul cinema e sul voyeurismo; la pellicola è modello di disvelamento del
voyeurismo dello spettatore e dello spettacolo cinematografico stesso, nonché una riflessione sulla visione
generale
- vi sono effetti di quadro nel quadro; tante finestre si aprono sulle vite dei vicini che Jeff osserva a sua volta
dalla propria finestra
- la condizione di immobilità del protagonista è metafora di quella dello spettatore cinematografico
- dalla finestra si vede un campionario di varia umanità

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- oltre all’assassinio che crede si sia consumato di fronte ai suoi occhi, il protagonista dalla finestra vede
materializzarsi, di volta in volta, i suoi timori e le sue aspettative personali, riflessi nelle vite degli altri;
coppie in crisi, effusioni dei due sposini, solitudine → osserva le varie fasi della vita di coppia; ogni finestra
si apre su una sfumatura differente del rapporto o mancato rapporto di coppia. Attraverso la finestra
l’uomo guarda dunque gli altri e vede anche sé stesso, così come lo spettatore, il cui sguardo coincide con il
punto di vista del protagonista
- il protagonista osserva la rappresentazione cinematografica della vita nei tanti piccoli set delimitati dalla
cornice delle finestre dei singoli appartamenti
- il film segue dunque tre direttrici: narrativa gialla, motivo meta cinematografico, trattazione del rapporto
di coppia
- nella scena in cui la sua fidanzata si intrufola nella casa dell’assassino, Jeff riscopre il doppio ruolo di
personaggio e spettatore → dato dal coinvolgimento emotivo derivante dall’immedesimazione tipica del
rapporto spettatoriale cinematografico, cioè dall’atto di guardare la donna nel mezzo di una scena ad alto
potenziale di rischio
- la fidanzata supererà la finestra, diventando quindi oggetto di visione; si trasforma da aiutante del
protagonista, soggetto in azione dello schermo visivo, a oggetto concreto dello sguardo del protagonista e
della sua voracità voyeuristica; Lisa deve necessariamente diventare un soggetto attivo per sopperire
all’impossibilità motoria di Jeff, scompaginando alcune regole del cinema classico hollywoodiano per cui la
donna è solo oggetto passivo di sguardo e simbolo di bellezza mentre l’uomo rappresenta la forza e
l’intraprendenza. D’altra parte, la donna sottomette il suo corpo al piacere voyeuristico del protagonista.

La Francia della Quarta Repubblica

Anche in Francia la ripresa delle attività industriali e commerciali dopo la liberazione del paese
dall’occupazione tedesca e dal governo collaborazionista fu lenta e difficile; l’industria cinematografica si
andò ricomponendo sulla base dei principi estetici e produttivi che avevano consentito il grande sviluppo
artistico degli anni ’30. Cinema di autori e di produttori al tempo stesso, attento alle ragioni dell’arte e a
quelle dell’industria, rimase uguale al pre-guerra. Dopo la guerra non si seppe cogliere, se non in pochi casi
isolati, la profonda trasformazione che subirono istituzioni culturali e politiche, il gusto e il costume sociale,
l’ideologia e la morale. In Francia la tradizione ebbe il sopravvento. I moduli estetici rimasero quelli di uno
spettacolo mediato dallo stile registico che venne definito “cinema di qualità”.

Accanto agli autori del periodo precedente (i principali degli anni ‘30) furono prodotte allora le prime opere
di nuovi autori che per parecchi anni furono i migliori rappresentanti della tradizione cinematografica
francese, aggiornata in parte sui temi e le forme che la drammatica realtà del dopoguerra suggeriva. Opere
che, però, rientravano negli schemi del cinema di qualità; tuttavia, denunciavano qua e là la presenza di
artisti non trascurabili, che avevano sviluppato una poetica personale e che cercavano di esprimerla
attraverso un linguaggio attento ai fermenti culturali del momento. Contro la maggior parte di questi autori
e di questi film si scagliarono violentemente i giovani della Nouvelle Vague; anche se questi autori si
collocano in un contesto culturale che bene riflette, anche nei suoi limiti, la situazione francese di quegli
anni. Si tratta ad esempio di: Autant-Lara, Clément, Clouzot, Le Chanois, Cayatte… → Maggiori
rappresentanti del cinema francese dalla fine della Seconda guerra mondiale all’avvento della Nouvelle
Vague, cioè nel passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica.

Il regista che fu allora considerato il più significativo rappresentante del nuovo cinema francese,
profondamente rinnovato nei contenuti e nelle forme, anche se in realtà non era così, fu Clément; il suo
primo lungometraggio fu accolto dalla critica come il corrispettivo di Roma, città aperta (1945), cioè come
l’iniziatore di un cinema neorealistico francese, realizzato al di fuori dei teatri di posa, profondamente
radicato nella realtà contemporanea, in parte documentaristico, in cui l’affabulazione era ridotta agli

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ingredienti necessari per farne un film narrativo. In realtà, nonostante lo spirito resistenziale del film,
risentiva di un sottile nazionalismo e di quella retorica patriottica che larga misura ha sotteso la cultura e
l’arte francese; lo stile, oltretutto, non si era ancora liberato dagli schemi spettacolari del cinema di
consumo.

Nella polemica che i critici raccolti attorno ai “Cahiers du Cinéma” (alcuni dei quali divennero i registi più
noti della Nouvelle Vague) svilupparono contro il cosiddetto cinema di qualità, rimasero fuori Becker e
Melville, in quanto i due autori proposero una visione nuova e originale della realtà fenomenica, di cui
misero in rilievo le contraddizioni dietro l’apparenza dell’ordine e della convenzione. In entrambi è
rinvenibile un fondo esistenzialistico; il fallimento dell’esistenza individuale come specchio di una
concezione pessimistica dei rapporti sociali è il filo conduttore attorno al quale si muovono fatti e
personaggi immersi in una realtà autenticamente tragica; ambedue ebbero uno sguardo distaccato e critico
sulla realtà contemporanea, che riesce a dare della società francese della Quarta Repubblica un ritratto
complesso e fortemente rivelatore.
Nei film di Becker lo spettacolo, che pure c’è e sorregge magistralmente racconto cinematografico, si
svuota dei suoi elementi puramente ludici per caricarsi di una interpretazione critica della realtà, che
affonda le sue radici in una visione personale degli schemi attraverso i quali il reale è visto e rappresentato.
Il carattere indipendente delle opere di Melville, insieme a una certa audacia stilistica e narrativa, saranno
invece apprezzati da quei giovani critici-registi della nascente Nouvelle Vague che combattevano il
classicismo, la qualità, il formalismo accademico. Negli anni ‘60 Melville continuerà a girare film polizieschi
e gangsteristici secondo la migliore lezione del cinema americano, rivisitata però con una certa ironia,
trattando da un lato il tema dell’amicizia virile, dall’altro quello del fallimento esistenziale, dello scacco,
come costante dell’esperienza umana e sociale contemporanea. Melville recupera la tragicità non tanto nel
quotidiano, quanto nei canoni del cinema di genere, introducendo nello schema del racconto alcuni
elementi inconsueti e dilatando oltre misura certe attese, in una sapiente alternanza dei momenti di
maggior tensione drammatica con quelli di assoluta distensione narrativa. Fa una rilettura critica e
personale del cinema hollywoodiano di genere gangsteristico e poliziesco; influenzerà non pochi autori
giovani della Nouvelle Vague, come ad esempio Godard.

Robert Bresson: spiritualismo, razionalità ed economia formale

Regista aristocratico, Bresson si colloca nel panorama del cinema francese postbellico in una posizione del
tutto particolare e autonoma; la sua arte risiede proprio nella distanza totale dall’attualità, nel continuo
diaframma che il regista pone fra la realtà rappresentata e la sua sostanza metafisica, nel cercare al di là
degli oggetti, dei fatti, dei personaggi (tutti posti ad un medesimo livello espressivo, estremamente
concreto, realistico) non tanto una alterità, quanto una ragione logica, una razionalità che li giustifichi. Si
tratta di un cinema astratto nella forma e concreto nei contenuti, che ha orientato la critica in due direzioni
interpretative sostanzialmente opposte e a modo loro complementari:
- interpretazione religiosa, spiritualistica, per l’elemento mistico che soprattutto i primi film contenevano e
per lo spirito autenticamente religioso e cristiano che in larga misura sottende tutta la sua opera
- interpretazione razionalistica, illuministica, per il materialismo rintracciabile nella definizione delle storie e
dei personaggi, e per il pessimismo laico che investe la sua rappresentazione della realtà, in particolare nei
film della maturità

Il cinema di Bresson è spoglio ed essenziale, un esempio radicale di economia formale e pudore estetico,
rifiuta le regole codificate dello spettacolo cinematografico per andare al di là della superficie delle cose e
rivelarne l’essenza affidandosi alla semplicità di un gesto o di uno sguardo.
Gira film razionali, quasi matematici, che sviluppano un teorema sull’amore e sull’egoismo; in tal modo la
fruizione del film avviene un livello più razionale che emotivo.

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Nel 1951 gira Il diario di un curato di campagna, che segue alquanto fedelmente il romanzo da cui è tratto;
si sente lo sforzo dell’autore di creare una specie di corrispettivo filmico alla pagina scritta. Per Bresson
costituì il definitivo superamento di quelle regole spettacolari che in precedenza aveva già iniziato a
rifiutare. L’uso di attori non professionisti, di una fotografia calibratissima nei bianchi e nei neri, di un
dialogo ridotto all’essenziale, di una fissità espressiva nella caratterizzazione dei personaggi, di un ritmo
disteso in sequenze lente, più contemplative che narrative, sono gli elementi fondamentali di questo nuovo
stile, che troverà nelle opere successive largo campo di applicazione. Nei film successivi si ritroverà infatti
questa essenzialità di tratto, espressa attraverso una cinecamera che pare frugare nell’anima segreta dei
personaggi, nel loro volto, nelle mani, nei movimenti, negli sguardi e persino negli oggetti… Sviluppa
un’operazione stilistica che carica le immagini di significati ulteriori, di una visione critica della realtà; il
protagonista è catalizzatore di una serie di atteggiamenti che possono scardinare i ben costrutti schemi
sociali, le strutture stesse di una società disumana. Questo aspetto eversivo del cinema di Bresson, passivo,
obiettivo, ma pervaso da un’inquietudine morale che crea una situazione di incertezza, di attesa
spasmodica, che si contrappone alla tranquilla rappresentazione dei fatti, trova un evidente esempio in
Pickpocket (1959), storia di un giovane borsaiolo in rivolta contro la società, le sue leggi e il suo
conformismo.

Un altro tema tipico dei suoi film è il “silenzio di Dio”. Nei suoi film troviamo personaggi travagliati nelle
loro lotte spirituali ma opachi, privi di una propria psicologia, semplicemente osservati dall’esterno e spesso
scomposti in una serie di piani che ne frammentano il corpo in immagini di mani, gambe, spalle e nutre. Allo
stesso modo anche l’ambiente appare quasi mai in piani d’insieme bensì come semplice somma di
immagini parziali, grazie a un uso insistito del dettaglio. L’attesa diventa sempre più una figura chiave del
suo cinema; spesso si tratta di un’attesa della “grazia divina”. Anche il racconto è sempre più prosciugato e
affidato all’uso di ampie ellissi, concentrandosi solo su ciò che l’autore ritiene fondamentale. Particolari del
cinema di Bresson è poi lo stile di recitazione che impone ai suoi attori, spesso non professionisti, che
devono essere apatici e inespressivi, spinti al limite dell’afasia. Anche la colonna sonora dei suoi film evita
del tutto l’uso di musiche extradiegetiche. Tutto concorre alla costruzione di una composizione astratta che
rende ogni cosa segno e simbolo di un discorso logicamente critico; il film diventa un vero e proprio trattato
di morale, e anche di estetica, senza tuttavia perdere quella genuina tragicità → duplicità stilistica.
Il cinema di Bresson si fa sempre più estraneo a ogni volontà spettacolare e drammatica; gli ultimi due film
di Bresson costituiscono una sorta di dittico-testamento in cui il pessimismo del regista si incarna in un
durissimo atto d’accusa contro la società di massa e dei consumi, la sua indifferenza e il potere distruttore
del denaro.

Pickpocket (1959; Bresson)

- considerata fra le pellicole precorritrici della Nouvelle Vague; in linea con il cinema bressoniano, sobrio,
asciutto, riflessivo, fatto di personaggi e situazioni minimali, il film ha uno stile sintetico e laconico, è privo
di spettacolarità e presenta qualcosa di ascetico e misterioso, essenziale e freddo, concludendosi con un
finale che si apre all’interpretazione dello spettatore
- le scene dei furti sono girate con rara maestria, alternando piani medi e primi piani, il montaggio a un
rigore scientifico
- vi è una sequenza balletto dei furti in cui l’alternarsi di piani medi e primi piani, i movimenti di macchina, il
ritmo del montaggio trasmettono l’esaltazione e l’eleganza dell’attività, che crea così un paradosso morale;
il furto diventa arte, coordinazione millimetrica di movimenti e gesti, virtuosismo di montaggio, mentre il
rischio di essere scoperti innerva le sequenze del piacere angosciante del pericolo; il protagonista, giovane
intellettuale che ruba per sfida alla vita, prova una soddisfazione perversa rubare
- il protagonista è caratterizzato da un senso di superiorità che gli fa tenere in spregio la legge; attorno a
questa figura di superuomo vi sono personaggi sfuggenti; il protagonista è isolato
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- diverse ellissi tagliano la storia e le scene accrescendo il senso di attesa; la frammentazione del racconto e
del linguaggio accentuano il sensibile allontanamento dalle componenti drammatiche del film e dalla
convenzionalità delle tecniche cinematografiche
- il film ruota anche attorno al rapporto fra libertà di grazia, uno dei temi prediletti da Bresson; egli scorge
proprio nella grazia, elargita a imperscrutabile volontà di Dio, la possibilità della salvezza per l’uomo
compromesso irrimediabilmente dal peccato originale; qui la grazia è rappresentata da una ragazza che
malgrado tutto ama il protagonista
- si intravede il grande tema dell’attrazione del male, la sua dimensione ambigua
- Bresson utilizza il procedimento di prolungare l’inquadratura del personaggio soffermandosi sullo sfondo
prima o dopo il suo ingresso in campo; questa dilatazione produce un certo appiattimento
- il personaggio è isolato in un ambiente insignificante per cogliere i riflessi dei suoi gesti e comportamenti; i
laceranti e spogli interni sono scenario perfetto per dare luogo ai dubbi e alle ansie di Michel
- sul piano narrativo la tensione emotiva è fortissima
- il film è anche un viaggio nell’interiorità lacerata del personaggio; Bresson fa leggere alla voce di Michel
alcuni passi del suo diario facilitando l’identificazione tra lo spettatore e il suo protagonista; allo stesso
tempo il comportamento sdegnoso freddo di Michel, sempre più schiavo del proprio vizio, rende
impossibile l’empatia con lui

Jacques Tati e l’arte del comico

Jacques Tati rappresenta uno dei punti espressivamente più alti del cinema comico per l’originalità e la
ponderatezza delle sue soluzioni stilistiche. Si forma come mimo e attore di cabaret negli anni ’30. Egli si
richiama ai classici del cinema comico, in particolare a Buster Keaton, di cui ha saputo riprendere e
aggiornare il discorso demistificatorio. Uno dei caratteri del suo stile è infatti la facoltà di determinare la
natura del personaggio dagli oggetti che lo circondano, con i quali viene a contatto, tanto che la sua
goffaggine, accentuata ed emblematica, nasce dall’incapacità di stabilire con le cose, e con gli ambienti in
cui si trova, un rapporto normale. Il personaggio di Tati, sempre da lui interpretato, appare come una sorta
di alieno precipitato in un mondo di cui non conosce né ha letto le istruzioni per l’uso. Il contrasto tra questi
e la società che lo circonda, finisce con il rivelare comicamente di quest’ultima tutte le sue contraddizioni,
che sono poi quelle di un mondo ridicolmente proiettato verso una modernità priva di sostanza e tutta
apparenza. Tati ci offre una rappresentazione del reale che vuole comicamente metterne in luce l’illogicità,
l’assurdo e il grottesco.

Nel 1953 gira Le vacanze del signor Hulot; con questo film lo stile di Tati si fa maturo e la sua poetica si
esplica in una struttura drammatica che consente una più articolata collocazione dei gags e anche una
migliore individuazione umana e sociale dei fatti e dei personaggi. Il signor Hulot è emblematico della
mentalità piccolo borghese; rivelatore delle meschinità e delle contraddizioni di quella mentalità. Lo
sguardo del regista spesso si stacca dal protagonista per soffermarsi sull’ambiente, esso si fa più acuto e
indagatore. Al personaggio di Hulot, Tati è rimasto fedele, inserendolo di volta in volta in differenti contesti
sociali, in una serie di film nei quali troverà migliore collocazione sociale. In uno dei film successivi sembra
che alla logica delle persone che inseguono la modernità a tutti costi si possano sottrarre solo Hulot e il
nipotino, quindi il poeta e il bambino, che sono gli unici che possono sul salvare l’umanità da un ridicolo
destino. Tati realizzerà un progetto più ambizioso dei precedenti ma commercialmente fallimentare; Play
Time (1967). Girato in 70mm, come un kolossal epico, narra le vicissitudini di un gruppo di turisti americani
in visita ad un’esposizione commerciale parigina le cui varie traversie si incrociano a quelle di Hulot. In
questo film l’autore porta alle estreme conseguenze la critica ai falsi miti della società contemporanea, del
modernismo e del consumismo. È influenzato anche dall’esperienza surrealista e dadaista; arriva qui ai
risultati di maggiore intensità e originalità con inquadrature ampie, un preciso contesto ambientale,
un’efficace dialettica di campo e fuori campo che attraverso variazioni del punto di vista crea esilaranti
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soluzioni comiche; utilizza elaborati effetti sonori, il rumore è utilizzato in modo espressivo. Verso la fine
della sua carriera sarà ai margini della produzione cinematografica francese.

Play Time (1967; Tati)

- il piano sonoro è privilegiato nella pellicola; attraverso il sonoro infatti il regista riesce a far riflettere sui
possibili effetti disturbanti del progresso tecnologico
- l’umanità è colta nei luoghi e nei momenti di attesa di trasferimento e di svago; è irrequieta attonita e
confusa
- Hulot appare un elemento alieno che fa risaltare ancor di più tutti gli aspetti disfunzionali del mondo in cui
si è insinuato quasi per sbaglio
- il regista mostra la radicale incompatibilità fra l’uomo e l’ambiente, e mostra quanto sia diventato difficile
trovare posto per i rapporti umani e gli incontri affettuosi
- la struttura prevalente è la ripetizione (tutti compiono meccanicamente gli stessi gesti) o la sospensione
(in molti casi ci si aspetta che accadano cose che poi non accadono)
- ogni equivoco funziona da generatore di altri equivoci, diventa parte di una struttura a catena dalla logica
stringente e inesorabile
- l’ampio utilizzo di campi lunghissimi accresce la sensazione di trovarsi di fronte a un teatro comico
dell’assurdo
- lo spettatore è reso partecipe mediante quell’arte della variazione che è lo stesso principio informatore
dell’opera; il film gioca su sketch visivi effetti sonori
- se all’inizio le cose sembrano prevalere sull’uomo, alla fine si assiste alla riscossa e alla vittoria dell’uomo
sulle cose (per esempio nella scena di distruzione progressiva del ristorante; la catastrofe è inevitabile e
inesorabile perché è nelle premesse)

L’Europa occidentale

A parte il caso dell’Italia e della Francia, gli altri Paesi europei rimasero in una situazione sostanzialmente
mediocre. L’Europa, uscita dalla guerra, dilacerata nello spirito e nel corpo, con profonde ferite nel suo
tessuto sociale, offre un panorama cinematografico che ne rispecchiava il momento storico; soprattutto per
l’assenza di forti personalità d’artisti, per la mancanza di originalità, per l’accettazione passiva delle
convenzioni, per il faticoso ristabilimento di un equilibrio industriale e commerciale che doveva contrastare
la concorrenza del cinema hollywoodiano, la ripresa cinematografica limitata si avviò presto sulla strada del
corretto mestiere e delle opere di consumo.

In Gran Bretagna la ripresa della produzione cinematografica significò essenzialmente una variazione dei
temi e dei soggetti che erano stati trattati nei film degli anni precedenti → si trattava di uno spettacolo di
evasione, di un prodotto commerciale. Korda, Reed, Lean, Olivier ecc. furono gli artisti che ripresero le fila
del discorso cinematografico interrotto.
L’autore inglese che in quegli anni godette di maggior prestigio, tanto che si parlò per alcuni suoi film di un
superamento radicale di certe convenzioni spettacolari, è Laurence Olivier, che girò diversi film
shakespeariani come Enrico V (1945), Amleto (1948), Riccardo III (1956) → l’autore fu attore teatrale e nei
suoi film è rinvenibile una fusione fra teatro e cinema.

In Germania, profondamente distrutta, suddivisa in zone di controllo politico e amministrativo, la situazione


cinematografica fu la più disastrosa tra quelle europee. A Berlino Est, sotto il controllo sovietico, fu ripresa
una regolare produzione; nel resto del paese, sotto il controllo franco anglo americano, si stentò a

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organizzare un cinema nazionale.

Nell’Europa settentrionale la situazione cinematografica non molto differiva da quella prebellica: pochi film,
un mercato quasi esclusivamente interno, qualche rara opera che varcava i confini nazionali e si imponeva
per eccellenza della regia o la novità del tema affrontato. Diverso è il caso della Svezia, che a metà degli
anni ‘50 si affermò internazionalmente con i film di Ingmar Bergman, ben presto considerato uno dei più
significativi e validi registi del cinema contemporaneo.

La produzione cinematografica spagnola, dopo la guerra civile e l’affermazione del franchismo, si adagiò per
parecchi anni sul facile e disimpegnato terreno dello spettacolo melodrammatico, popolare; agli inizi degli
anni ‘50 parve un poco rinnovarsi nei contenuti e nelle forme, grazie anche agli influssi diretti e indiretti del
neorealismo italiano.

In Portogallo la dittatura di Salazar impedì la nascita e lo sviluppo di una cinematografia autenticamente


nazionale, attenta ai problemi del paese.

Manuel de Oliveira: artificio e tradizione culturale

Il solo regista portoghese che tentò un discorso realistico fu Oliveira. Egli sviluppò un “piccolo realismo”
venato di poesia che sarà una delle sue cifre stilistiche. Oliveira intensificò la sua attività cinematografica a
partire dagli anni ’70; si fece conoscere come uno degli autori più interessanti del cinema contemporaneo.
Si caratterizza per un ritmo lento dell’azione, per la durata dei piani, per la gestualità stilizzata, per
rivolgersi dei personaggi alla macchina da presa coinvolgendo così direttamente lo spettatore su un piano
razionale. Oliveira prestò particolare attenzione ai rapporti fra cinema e teatro, ma anche musica e
letteratura, e ai meccanismi di finzione che li governano, e che il regista mette esplicitamente in scena
come metafora degli artifici stessi che governano la realtà. Fece un lavoro di recupero e di scoperta e di
riscoperta delle varie possibilità espressive del cinema, inteso come rappresentazione della realtà, più o
meno affabulatoria e ricostruita, ma anche come rivelazione. Opera un discorso sull’uomo e sulla società
che non si ferma alla constatazione dei fatti e delle situazioni, ma piuttosto alla loro contemplazione. Il suo
è un gioco della ragione che si confronta continuamente col sentimento; una poesia razionale che non
disdegna la passione e il cuore.

I Paesi socialisti

una trasformazione più profonda e, in certi casi, una vera e propria nascita o rinascita, dopo i disastri della
guerra, caratterizzarono le cinematografie dei paesi dell’Europa orientale, in cui vi fu l’avvento del
comunismo al potere per via delle truppe sovietiche. Le cinematografie si orientarono verso il realismo
socialista che già si era affermato nell’unione sovietica fin dagli anni 30. Un cinema nazionalpopolare, con
forti venature ideologiche, chiari intenti critici, un profondo spirito pacifista e internazionalista, si andò
affermando anche se i temi trattati riguardavano più il recente passato, la guerra, l’occupazione tedesca, la
resistenza, che non i problemi della ricostruzione, le questioni politiche e sociali interne. In ogni caso il
cinema si sviluppò in ogni nazione in relazione alla cultura autoctona, alla precedente tradizione
cinematografica, alla situazione generale della cultura del popolo, alle esigenze di politica interna; ogni
cinematografia seguì una propria storia con risultati non sempre equiparabili. Opere e autori, tuttavia,
erano riconducibili a un’estetica di base sostanzialmente omogenea. L’analisi critica della realtà era
subordinata alla propaganda o all’indottrinamento o alla diffusione a largo raggio delle idee ufficialmente
accettate. Solo verso la fine degli anni ‘50, in seguito al disgelo, il cinema dei paesi socialisti affrontò a poco
123
a poco temi e soggetti maggiormente radicati nella realtà contemporanea in modi e forme che ne
mettevano in luce le contraddizioni, i problemi fondamentali, la crisi di valori.

Il nuovo cinema d’animazione

Anche nel campo del cinema d’animazione, la fine della Seconda guerra mondiale segnò una svolta molto
significativa. Si fa strada un cinema d’animazione nazionale nei principali paesi europei, in particolare in
quelli socialisti, e persino negli Stati Uniti il dominio disneyano pare meno forte a livello formale. Qui, la
cosiddetta rivolta dell’UPA (United Productions of America) del 1941 contro Walt Disney, diede come
risultato non soltanto la nascita di una nuova casa di produzione che per alcuni anni contrastò la
produzione disneyana e delle altre grandi case di Hollywood, ma anche e soprattutto la creazione di un
nuovo stile, che in larga misura influenzerà il disegno animato degli anni ‘50 e ‘60. Si darà vita a un
personaggio che fu emblema dell’americano medio alle prese con i risvolti disumani dell’american way of
life, Mister Magoo, eroe di una lunga serie di avventure grottesche, satiriche, graffianti sull’uomo e la civiltà
dei consumi. Anche da un punto di vista stilistico i film dell’UPA differivano da quelli disneyani, essendo il
disegno più vivace, angoloso. Anche altre case hollywoodiane, come la MGM, la Universal ecc.
Intensificarono una produzione di disegni animati che, almeno per la violenza dei contenuti, si ponevano su
un piano differente, meno infantile e ingenuo; si tratta per esempio degli iracondi Tom & Jerry, di Hanna e
Barbera, di Willy il Coyote, Bugs Bunny… → Personaggi che potevano essere interpretati in chiave
simbolica, di denuncia della società aggressiva e individualista, contrassegnati tutti da un ritmo sincopato,
colori accesi, violenti, e una successione rapidissima di gags. All’origine di questa esplosione di dinamismo
corrosivo c’era il cinema di Tex Avery, considerato il maestro del nuovo cinema d’animazione statunitense
degli anni ‘50.

Accanto alla produzione di consumo c’era quella indipendente. In ogni caso negli Stati Uniti il disegno
animato continuava a svilupparsi perlopiù lungo la strada maestra del cinema di consumo; in Europa si
crearono invece scuole nazionali.

Nei paesi socialisti lo Stato promosse e appoggiò con varie iniziative una produzione di film d’animazione:
da un lato si trova il trasferimento nel disegno animato o nei film di pupazzi di quei temi e di quelle forme
espressive della letteratura infantile o popolare; dall’altro si nota lo stretto rapporto con l’illustrazione
satirica e umoristica. Essi influenzeranno grandemente il cinema d’animazione soprattutto europeo degli
anni ‘50 e ’60. La più grande e importante cinematografia d’animazione socialista, almeno nei primi anni del
dopoguerra, fu quella cecoslovacca, specializzata nei film di pupazzi.

Mancando di scuole nazionali e di una cinematografia di Stato o sovvenzionata dallo Stato, il quadro della
produzione dell’Europa occidentale è invece ben più complesso, difforme, con risultati estremamente
disparati, dal prodotto di largo consumo o pubblicitario all’opera sperimentale e difficile. Vi fu comunque
esperienza di un eccellente livello raggiunto da alcuni artisti e di una sostanziale originalità di un cinema
d’animazione che, affrancatosi dall’ipoteca disneyana, si è andato muovendo sul terreno della ricerca
espressiva e del discorso critico sui temi più vivi e attuali della società contemporanea.

In Inghilterra si era creata un’industria dello spettacolo attenta anche agli aspetti didattici, educativi,
dell’animazione; vi furono però anche artisti impegnati ricerche formali più originali che si impegnarono
maggiormente sul piano della satira di costume.

In Italia bisogna attendere gli anni ‘60 per assistere a una ripresa del cinema d’animazione sino allora
circoscritto nell’ambito della pubblicità. I due artisti più originali sono tuttavia Bozzetto e Luzzati.

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Nel corso degli anni ‘80 e ‘90 il cinema d’animazione europeo si è sviluppato in diverse direzioni,
riconquistando a poco a poco il pubblico, non solo infantile, e contrastando efficacemente quella
concorrenza del disegno animato americano, ed anche giapponese.

A questa sensibilità e a questo artigianato europeo e orientale si contrappone, con effetti spettacolari
eccellenti, la nuova animazione in computer graphics americana, come i film della Pixar, prima da sola e poi
con la Disney (es. WALL-E; 2008).

14. IL CINEMA IN ORIENTE E IN AMERICA LATINA

La scoperta del cinema giapponese

Nel 1951, alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il pubblico le critiche occidentali
scoprirono il cinema giapponese. Il Leone d’oro fu attribuito, in quell’occasione, al film Rashomon (1950) di
Kurosawa; questo evento segnò l’inizio della diffusione in Europa e negli Stati Uniti di una cinematografia
che fino ad allora era stata esclusa dal mercato cinematografico internazionale e quindi sostanzialmente
sconosciuta in Occidente → si tratta di registi, come Ozu, Mizoguchi, Kurosawa, Oshima, Kitano ecc. che
avevano raggiunto risultati pari a quelli delle più grandi cinematografie occidentali.

Il cinema nacque in Giappone nel 1898, anche se, a parte i documentari di attualità e di informazione alla
maniera dei Lumière, solo più tardi si diede inizio a una regolare produzione di film spettacolari, che si
ispiravano al Teatro Nazionale, in modi e forme alquanto tradizionali e statiche, tanto da essere definiti
Teatro Kabuki registrato su pellicola. Nel 1912 nasce la maggiore casa di produzione nipponica (Nikkatsu). A
partire dai primi anni ‘20, il cinema giapponese si organizzò industrialmente e commercialmente attorno a
poche case di produzione che avevano propri teatri di posa e una propria rete di distribuzione dei film, sulla
base di una struttura verticale analoga a quella del cinema americano. Il cinema giapponese rimase
sostanzialmente fedele a un’arte e una cultura nazionali. Sin dalle sue origini, la produzione giapponese fu
rigidamente divisa nell’ambito dell’organizzazione produttiva in jidaigeki, film in costume ambientati nel
passato, e gendaigeki, ambientati invece nella contemporaneità. Ognuna di queste due grandi tendenze si
suddividevano poi in sottogeneri particolari. Tuttavia, furono prodotti anche film che non rientravano
rigidamente nei due generi, nella misura in cui la forte caratterizzazione stilistica della materia drammatica
o l’originalità poetica del regista ne superavano radicalmente gli schemi formali. Quattro furono i cineasti
più significativi: Ozu, Mizoguchi, Kurosawa, Oshima.

I maestri del cinema giapponese: Mizoguchi, Ozu, Kurosawa e Oshima

Mizoguchi fu un autore con particolari peculiarità stilistiche: si affida frequentemente a piani sequenza e a
long take, a immagini distanziate, elaborati movimenti di macchina, inquadrature in profondità di campo
dove interagiscono diversi elementi iconici. Soluzioni che costituiscono un’alternativa alle forme
consolidate del découpage classico, così come si era configurato in Occidente; questi elementi privilegiano i
modi del montaggio interno, invitano lo spettatore ad una lettura più attenta e ad uno sguardo più critico
ed attivo di ciò che succede sullo schermo. Questi aspetti dello stile di Mizoguchi ne hanno fatto un punto
di riferimento di certo cinema della modernità, in particolare dei registi della Nouvelle Vague. L’universo
poetico del regista si concentra soprattutto sulla condizione femminile.
Se, da una parte, Mizoguchi denuncia apertamente la realtà di sfruttamento ed emarginazione di cui la
donna è stata oggetto, in una società prettamente patriarcale, dall’altra, egli è affascinato da una
concezione trascendentale della donna, e finisce col mitizzarla, rappresentandola, come un oggetto, per
quanto meritevole di culto ed ammirazione esso sia. L’attenzione del regista alla tradizione letteraria del
proprio paese è riscontrabile nella realizzazione di diversi adattamenti dei grandi classici della letteratura
giapponese.
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L’opera di Ozu, è più eclettica e variegata pur nell’ambito di una forte coerenza autoriale sul piano dello
stile e su quello della politica. Egli è fedele ad un unico genere, il gendaigeki, in particolare pone
l’attenzione alle piccole cose della gente comune e si sofferma sul tema della vita famigliare, sui rapporti fra
marito e moglie, e soprattutto, su quelli tra genitori e figli. I protagonisti dei suoi film e i loro rapporti
interpersonali sono profondamente radicati nei diversi contesti sociali che hanno segnato la storia del
Giappone dagli anni ‘20 agli anni ‘50; tuttavia, sono calati in una dimensione universale in grado di parlare a
tutti. Il suo cinema verte sul mono no aware, ovvero quella consapevolezza dell’incessante mutare di ogni
cosa, in particolare dei sentimenti e dei rapporti umani; punto d’approdo delle storie di Ozu è una sorta di
dolente matura accettazione ineluttabilità del cambiamento. Nel corso degli anni ‘30 e ‘40 lo stile di Ozu
approda alla originale maturità, con una progressiva riduzione del lessico filmico a poche ed essenziali
figure che escludono i movimenti di macchina, i primissimi piani e le dissolvenze. Il regista usa
frequentemente la posizione bassa della macchina da presa. Il montaggio è per armonici e dominati, ossia
l’elemento principale di un’inquadratura diventa secondario in quella seguente; i campi e contro i campi
nelle scene di dialogo con la macchina da presa posta in posizione frontale rispetto ai personaggi sembrano
così rivolgersi direttamente allo spettatore; utilizza le inquadrature di transizione, ossia quei campi vuoti
che legano le scene di un film sospendendo il corso degli eventi e prolungando nel tempo i sentimenti e le
emozioni suscitati nello spettatore da quanto è appena accaduto; fa uso di una recitazione a volte
volutamente inespressiva e anti psicologica. Queste sono alcune delle peculiarità visive del cinema di Ozu.
Nel 1953 gira Viaggio a Tokio, storia di un’anziana coppia di coniugi si reca dalla campagna alla capitale per
far visita ai figli e alle rispettive famiglie.

Se Mizoguchi e Ozu sono emblematici di una certa estetica giapponese fondata sull’allusione e la
contemplazione e su una ricercata lentezza, invece Kurosawa è un autore che si caratterizza per uno stile
dinamico, per certi aspetti influenzato anche dal cinema americano, e per i personaggi, spesso maschili, di
natura fortemente drammatica, segnati da un evidente vitalismo. Non si tratta, tuttavia, di figure
unidimensionali, bensì di uomini spesso in lotta contro i mali della società, ma anche complessi e a volte
contraddittori. La profondità di questi personaggi è espressa da un linguaggio che punta più volte a una
rappresentazione spettacolare della realtà, con scene d’azione, di lotta e di tensione e uno stile
particolarmente vivido, a tratti barocco ed espressionista, che gioca sui conflitti grafici, vividi effetti di luce,
sul contrasto fra stasi e movimento, su montaggio ruvido e diseguale, su bruschi passaggi da primi piani a
campi lunghi, sui raccordi a 180°, su alterazioni della normale velocità di scorrimento della pellicola. Da una
parte il regista riprende il dinamismo tipico del cinema americano; dall’altra vi introduce scarti, differenze e
anomalie che rendono i suoi film contrassegnati da uno stile particolare che prosegue la grande tradizione
estetica del cinema giapponese. Infatti, vi si ritrovano frequenti riferimenti al teatro classico: stilizzazione,
recitazione ieratica e narrazione ellittica. Si trovano anche la dimensione picaresca, gli effetti comico
burleschi, improvvise attrazioni, e la natura grottesca del Kabuki. Vi è poi una eterogeneità di fonti e
influenze, rinvenibile anche sul piano degli autori adattati: ad esempio Shakespeare. Si tratta degli aspetti
che più caratterizzano il cinema del regista e che danno ad esso una forte connotazione anche
internazionale. Il barocchismo del cinema di Kurosawa, che sta nel suo sovraccaricare le immagini di ritmi
interni convulsi e sfrangiare la narrazione in blocchi a contrasto si trova in Rashomon, che fu premiato a
Venezia proprio per la sua forma inconsueta e la suggestiva tensione drammatica. Gli audaci movimenti di
macchina, l’insistita profondità di campo, l’uso violento ma anche geometrico del montaggio, aspetti
salienti dello stile del regista, sono al servizio di un racconto sull’impossibilità di stabilire la verità delle cose
e sulla labilità del confine fra il vero e il falso e più in generale fra il bene e il male. La fama internazionale di
Kurosawa fu indubbiamente legata ai jidaigeki. I suoi film danno vita a un’opera complessiva sulla
solitudine, sulla miseria morale e materiale, sulle storture della società, in cui i problemi del singolo e quelli
della collettività vengono a integrarsi in una rappresentazione prospettica, che punta più sull’introspezione
dei caratteri e la descrizione dell’ambiente. La saggezza e l’umanità del regista si ritrovano anche nei suoi
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ultimi film, che paiono una sorta di revisione e approfondimento dei temi a lui cari: la storia e la cultura del
Giappone, la tragedia dell’esistenza, il sentimento del dovere.

All’inizio degli anni ‘60 il cinema giapponese conosce una nuova generazione di cineasti che si affermerà in
aperta polemica con quelle precedenti. La figura più importante di questa nuova ondata è Oshima, che
diede vita a partire dal 1960 a quella che è stata definita la Nouvelle Vague giapponese, in cui si trovano
simili istanze di rinnovamento, se non il capovolgimento dei modelli classici della rappresentazione
cinematografica. Egli apre dunque la nuova stagione del cinema giapponese, sia sul piano dei contenuti, sia
su quello delle forme. È soprattutto con Notte e nebbia del Giappone che Oshima davvero sconvolge i
modelli dominanti, narrando, attraverso un’intricata serie di flashback, la storia dei rapporti fra movimento
studentesco e partito comunista giapponese negli anni ‘50, in un vero e proprio attacco agli errori della
sinistra al fine di esprimere una critica rivoluzionaria al movimento rivoluzionario. Adotta uno stile che si
avvale esclusivamente di lunghi piani sequenza e di frequenti movimenti di macchina. Successivamente gira
film in cui si consolidano gli aspetti essenziali della sua poetica, segnata da forti e critici intenti politici ed
umani: pone l’attenzione al crimine e alla sessualità, sia come espressione di rottura rispetto ai valori
dominanti, sia come conseguenza dei propri impulsi naturali; sulla funzione dell’immaginazione nel definire
spazi antitetici alle logiche dominanti, e sulla frammentazione identitaria come conseguenza di un legame
alienante con la società. La sua rappresentazione rifiuta ogni empatia fra spettatore personaggi; Oshima
rivela una notevole ecletticità. La crisi del cinema giapponese degli anni ‘70 coinvolge anche Oshima che,
tuttavia, riesce grazie a coproduzioni franco giapponesi e anglo giapponesi a lavorare. Negli ultimi film
Oshima ha abbandonato il carattere trasgressivo dello stile che caratterizzava il suo cinema degli anni ‘60,
approdando a una scrittura più classica.

Dopo un periodo di crisi che ha segnato gli anni ‘70 e ‘80, il cinema giapponese ha ritrovato la sua perduta
vitalità con l’affermarsi di una nuova generazione di cineasti; fra questi l’autore che più ha saputo cogliere
le contraddizioni e la crisi di valore del Giappone contemporaneo è Kitano; la pulsione di morte sarà una
delle sue costanti. Sarà una serie di noir a rendere celebre l’autore: in questi film si ritrovano il pessimismo
esistenziale del regista, sempre venato da un evidente ironia, dal senso dell’immanenza della morte, quasi
che i suoi esistenziali antieroi richiamino l’etica samurai, e il riaffermarsi dell’infanzia e del gusto per il
gioco. Tutto questo è espresso da ossimorici e bruschi passaggi fra momenti di crudele violenza e altri intrisi
di sentimento, così come quelli fra episodi drammatici ed altri, invece, comici, dallo stile asciutto e rigoroso,
dall’enfasi attribuita al silenzio e alla fissità, dall’ellitticità della narrazione.

Viaggio a Tokio (1953; Ozu)

- temi del film: instabilità della famiglia giapponese dopo la guerra, incomunicabilità tra generazioni,
influenza negativa della vita urbana sui rapporti umani
- la storia è raccontata in modo lineare; si tratta di un’opera dallo stile sorvegliato, costruita con
elaborazione minuziosa di ogni inquadratura; la grammatica di Ozu appare essenziale, ma egli dimostra una
grande padronanza della sintassi filmica
- la macchina da presa è spesso quasi immobile; le inquadrature risultano decisamente statiche, ma lo stile
è conforme alla comunicazione di sentimenti e dolori che sono controllati, il pathos è inesploso
- il linguaggio è semplice, fa ampio uso di piani sequenza; la macchina da presa è piazzata in posizione fissa
e centrale, a metà altezza, quindi molto bassa: la regia testimonia lo scorrere del tempo più che le azioni,
dilatando le psicologie, le passioni e le emozioni dei suoi personaggi, le amicizie, i rancori, lasciando
semplicemente scorrere il flusso della vita
- anche la dimensione del sonoro stabilisce spesso fra le inquadrature un rapporto di continuità; viene così

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introdotto sul piano sonoro quello stesso tema del fluire di tutte le cose, del carattere effimero
dell’esperienza terrena e, infine, della morte (elementi chiave del cinema di Ozu)
- la natura del viaggio della coppia di coniugi non sta negli eventi che succedono ma piuttosto da ciò che si
vede qualitativamente
- le posizioni frontali degli attori sono vere e proprie interpretazioni rivolte allo spettatore
- gli ambienti sono spesso spoglie e vi regna il vuoto
- la filmografia di Ozu e lo stile che utilizza vanno collocati sul più ampio sfondo della cultura orientale; si
individuano infatti tracce del sacro, l’epifania dell’assoluto; per la tradizione zen, l’individualità e più un
mezzo che un fine e il singolo è inglobato nei ranghi di una realtà cosmica che tutto abbraccia, compresa la
società e la famiglia, dimensioni semantiche imprescindibili in Ozu, messa in pericolo da una modernità che
provoca fratture
- al regista non sembra interessare la psicologia dei suoi personaggi, sempre inseriti in un contesto più
ampio dove ciò che conta è semmai la psicologia di gruppo, dove la scelta del singolo non vale per sé ma
per quel che modifica nelle relazioni all’interno di un insieme
- Ozu stigmatizza l’anomia metropolitana, la sua schizofrenia; fa emergere il disappunto nei confronti dei
figli infastiditi dalla presenza dei vecchi genitori ma non li colpevolizza; insieme ai suoi personaggi anziani
prende piuttosto amaramente atto dello stato delle cose, del fluire del tempo
- nel film di Ozu lo spettatore ritrova un’organizzazione narrativa, uno stile di rappresentazione, dei modelli
comportamentali che affondano le radici nella cultura e nella società giapponesi; allo stesso tempo egli
riconosce facilmente temi di portata universale: la famiglia, l’ineluttabile trascorrere del tempo, il senso
dello scacco esistenziale, il modo di rapportarsi all’effimero…
- Questa pellicola di Ozu è un viaggio in una cultura lontana e affascinante ma anche nella realtà di tutti gli
esseri umani

Rashomon (1950; Kurosawa)

- profonda e spettacolare riflessione sull’impossibilità di approdare a un’unica verità nelle questioni umani
e sociali, parabola sulla relatività del vero
- sorta di dimostrazione che non esistono fatti, ma solo interpretazioni affermate sulla base dell’interesse,
della volontà di potenza, della volontà di vita dei vari soggetti (Nietzsche); tematica che è un filo rosso di
tutto il novecento
- l’intreccio è basato sui punti di vista dei protagonisti; fa assumere al film un andamento a spirale privo di
conclusione. La trama infatti rimane apparentemente tronca poiché non arriva a risolvere il dilemma che
essa stessa ha posto: chi abbia realmente ucciso un samurai
- sul piano formale la struttura è rigorosa: si concretizza nel ricorrere di metafore geometriche (ricorre il
numero tre; tre sono i luoghi, tre sono gli indagati, tre sono gli alberi, tre sono i giorni in cui avvengono i
fatti). Tale scelta ripropone la periodicità del caos nella storia dell’uomo, il ritorno ciclico del male, concetto
appartenente alla cultura giapponese. Il film si apre inoltre con la morte del samurai e finisce con il
salvataggio di una nuova vita: inizio e fine, nascita e morte, si alternano rispondendo alla stessa legge
circolare
- nel film sono rarissime le soggettive e pochi i raccordi di sguardo; le diverse versioni della storia
raccontate dai testimoni sono mostrate come fossero oggettive: ogni singola narrazione deve essere
percepita come fosse la realtà obiettiva (le versioni sono mostrate non in soggettiva, ma in oggettiva, con il
personaggio che racconta in scena); è solo la successione delle versioni a mostrarci come queste realtà non
sia affatto tale, bensì solo un punto di vista → paradosso; in questo modo Kurosawa afferma che il cinema
non racconta le cose come stanno, è un mezzo opaco, non è trasparente. Attraverso la “soggettiva che non
c’è”, il film si ripropone quindi come una riflessione sulla capacità illusionistica del cinema
- certi elementi appaiono dotati di una notevole forza visiva anche perché rapportati a scenografie scarne,

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all’estrema semplicità della messinscena, che è una cifra stilistica del film
- l’opera è quindi un film investigativo, da una parte, e un esempio di meta cinema, che problematizzare lo
sguardo, la narrazione, il cinema stesso

Il cinema in India

Negli stessi anni in cui il cinema giapponese faceva la sua apparizione trionfale in Occidente, anche il
cinema indiano, si presentava in campo internazionale. Tra gli autori che emersero in quegli anni, vi fu Roy,
premiato a Cannes. Il suo stile dimesso, quasi documentaristico, il suo interesse per le questioni sociali, i
problemi della vita quotidiana, i personaggi antieroici, subì l’influsso del neorealismo italiano. Egli indicò la
strada per un cinema realistico e critico piuttosto diverso dalla norma della produzione cinematografica
indiana.

Autore più significativo di un cinema autenticamente indiano, in particolare bengalese, le cui radici
affondano in pari misura nella tradizione culturale del suo paese e in una visione critica e poetica della
realtà umana, è Ray. Nel 1955 uscì Il lamento sul sentiero. Lo stile dell’autore è lento e piano, rifugge dalle
suggestioni di un cinema magniloquente e spettacolare; la cinecamera scorre su luoghi, ambienti, volti,
atteggiamenti cogliendone gli elementi rivelatori. L’autore fu influenzato dal neorealismo italiano.
Attraverso il ritratto di una vicenda individuale ritrae un quadro complesso e articolato di una civiltà. Nei
suoi film successivi sviluppa la sua poetica e il suo sguardo critico sulla realtà del paese facendo attenzione
ai problemi delle differenze di casta, degli scontri sociali, della corruzione politica, della condizione della
donna, del pregiudizio, del conflitto fra tradizione ed emancipazione.

Tuttavia, più che per questo cinema d’autore, il cinema indiano, il più prolifico al mondo con punte di 900
film all’anno, ha costruito il suo successo nel mercato interno grazie ad un cinema commerciale che, in
stretto accordo con l’industria cinematografica, si avvale di un ampio numero di sequenze cantate e
danzate, indipendentemente dal genere in cui ogni singolo film può appartenere. Si tratta di una
caratteristica avviatasi sin dall’avvento del sonoro, che ancora nel 2000 rappresenta l’asse portante
dell’industria cinematografica indiana: tale cinema è internazionalmente indicato come Bollywood e si
fonda su un culto popolare del divismo ben più esasperato di quello conosciuto in altri paesi (es. Shah Rukh
Khan).

Il lamento sul sentiero (1955; Ray)

- primo grande successo internazionale del cinema indiano


- il costante punto di vista del film coincide con quello dei bambini protagonisti; la storia è osservata ad
altezza di bambino; il film è un poema sull’infanzia perduta e sul ricordo che se ne conserva
- viene fatto un uso efficace della scenografia, il montaggio interno all’inquadratura disegna le relazioni fra i
personaggi
- la musica extradiegetica è utilizzata per sottolineare l’interiorità dei personaggi; vi è una narrazione
soggettiva del sonoro; il montaggio audiovisivo svolge una funzione altamente drammatica
- l’autore costruisce, con una povertà di mezzi assoluta e uno stile che riprende a tratti la lezione
neorealista, un’opera nella quale sono già presenti i germi di tutte le componenti della sua poetica: amore
per l’uomo, lentezza delle riprese come espressione di un’intensa capacità di ascolto delle emozioni e
pensosa osservazione di silenzi e gesti

La Repubblica Popolare Cinese


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Il cinema in Cina fa la sua apparizione alla fine del secolo scorso sotto forma di documentari, sia francesi sia
americani; ma è molto più tardi, nei primi anni ‘20, che si ha una produzione abbastanza regolare e copiosa,
quando nascono numerose case cinematografiche e si realizzano parecchi film commerciali. Con l’avvento
del sonoro nasce, grazie anche al Partito comunista cinese e alla Lega degli scrittori di sinistra, un cinema
d’intenti politici e sociali, radicati nella realtà contemporanea, coi suoi problemi e drammi quotidiani.

Chuseng → autore che realizza alcuni film di genere realistico che affrontano più direttamente i problemi
della condizione umana, dei conflitti sociali in uno stile disadorno, antiretorico; nel 1935 partecipa al
Festival cinematografico di Mosca, facendo conoscere il cinema cinese fuori dai confini del suo paese. Sarà
una delle figure più notevoli e rappresentative del cinema della Repubblica Popolare Cinese.

Dopo il 1937, durante la guerra contro il Giappone e la rivoluzione comunista, le sorti della cinematografia
cinese subivano le alterne vicende politiche e militari. Il governo nazionalista accentuò la censura e la
propaganda anticomunista e antigiapponese, mentre il governo rivoluzionario iniziò una regolare
produzione di documentari militanti nelle zone liberate. Con la nazionalizzazione dell’industria
cinematografica e le nuove direttive culturali del governo popolare, il cinema cinese si avviò, a partire dal
1950, sulla strada maestra del realismo socialista, pur mantenendo un proprio carattere autoctono e
recuperando, via via, una sempre più ricca tradizione artistica e culturale. I primi film della nuova
cinematografia si affermarono per una loro freschezza e baldanza, che bene riflettevano lo spirito della
rivoluzione, i fermenti della gioventù comunista, l’ottimismo legato alla costruzione di una nuova società,
senza trascurare la lotta armata, i sacrifici del popolo durante la guerra, la vittoriosa liberazione dal
fascismo e dall’occupazione straniera; temi, tuttavia, che erano di fatto quelli imposti dal regime. Il cinema
cinese recupera anche una certa tradizione di tipo teatrale, il teatro d’opera, e di tipo letterario. Periodi di
relativa libertà si alternano ad altri di rigida censura. Con l’avvento della rivoluzione culturale, 1966, si
interruppe per un decennio la produzione cinematografica, salvo per alcune opere modello, danzate e
cantate, in cui si inneggiava alla vittoriosa rivoluzione e al suo grande timoniere Mao Tse-Tung. Furono anni
di violente persecuzioni.

È solo a partire dagli anni ‘80, in sintonia con la progressiva trasformazione del paese da una economia
socialista ad una maggiormente orientata verso la logica capitalista, pur sotto il controllo del Partito
comunista, che il cinema cinese acquista una dimensione internazionale, venendosi a configurare come una
delle realtà più importanti del cinema contemporaneo. Protagonisti di questa nuova situazione sono i
cineasti della cosiddetta Quinta Generazione (Yimou, Kaige…) che rompono radicalmente con la logica di
propaganda, con gli intenti didascalici e il culto dell’eroe tipici dei film maoisti. Le loro prime opere si
collocano in un tempo passato, talvolta astorico, hanno tutte un’ambientazione rurale, prestano molta
attenzione al paesaggio, così come alla forza della natura e delle tradizioni, anche di quelle religiose, si
caratterizzano per una particolare composizione del quadro dettata dal senso estetico, nel rapporto fra
figure umane e paesaggio, e nell’uso del colore. Diversi film sono incentrati su personaggi femminili che si
scontrano contro sistemi di potere rigidi e oppressivi.
L’eredità polemica della Quinta generazione è stata poi accolta dai cineasti della Sesta in forme più radicali
e accentuate, con una maggiore attenzione al presente rispetto al passato, alla città invece che alla
campagna, e con un esplicito rifiuto di quell’estetismo e di quel romanticismo diffusi nei lavori dei cineasti
che avevano esordito negli anni ‘80. Nascono così film che sono veri e propri documenti antropologici sulle
trasformazioni vissute dal popolo cinese nel passaggio da un’economia socialista a una di mercato →
capacità di rappresentare le drammatiche contraddizioni della Cina contemporanea.

Gli altri Paesi asiatici

130
Sul piano quantitativo e su quello qualitativo, le cinematografie del Giappone, dell’India, della Cina sono
state certamente le più importanti dell’intero continente viatico; tuttavia, il cinema si sviluppò anche in altri
paesi.

Ad esempio, Hong Kong, allora colonia britannica (1898-1997), si trovava in una situazione politica e sociale
profondamente diversa da quella della Repubblica cinese per cui approdò a intenti e risultati anch’essi
differenti. Il cinema di Hong Kong si afferma internazionalmente attraverso un rinnovato cinema di arti
marziali in cui si riscontra un maggiore dinamismo e una esplicita rappresentazione della violenza. Questi
lavori rievocano l’immagine mitica e sontuosa di una Cina passata, ben lontana dalla sua drammatica realtà
contemporanea. Molti di essi si avvalevano di un esplicito sentimento nazionalista, in cui uno o più eroi
cinesi si battevano in difesa dei loro compatrioti, vittime dell’oppressione straniera. Il cinema di Hong Kong
di arti marziali divenne un fenomeno di culto anche in Occidente, soprattutto nella sua versione di kung fu,
come si vede dal successo dell’attore Bruce Lee e dei suoi pochi film interpretati prima della prematura
scomparsa.

A fianco di questo cinema commerciale si sviluppa a Hong Kong anche una vera e propria new wave che
muove i suoi primi passi negli anni ‘70 e che si caratterizza per una particolare attenzione alla
contraddittoria realtà sociale propria della colonia. A differenza dei cineasti della precedente generazione,
ancora segnata da una profonda nostalgia verso la madrepatria cinese, questi fanno di Hong Kong, delle sue
contraddizioni, della sua miseria, dei suoi crimini, della sua gente, delle sue strade, l’indubbia protagonista
dei loro film. Essi stravolgono le classiche modalità delle confezioni da studio del precedente cinema di
Hong Kong; attraverso la loro formazione televisiva introdurranno nuovi metodi di realizzazione, attraverso
l’utilizzo di attrezzature leggere, piccole troupe, riprese on location, una certa improvvisazione… Tale
corrente si consumerà nel volgere di pochi anni lasciando presto spazio a una seconda new wave che
riprenderà dalla prima all’attenzione alla città di Hong Kong come grande set cinematografico, insistendo
però maggiormente sull’identità di una realtà in sospeso fra due mondi (quello orientale e quello
occidentale), ormai in procinto di chiudere un capitolo della sua storia, la dipendenza dalla Gran Bretagna,
per aprirne un altro: il ritorno alla grande madrepatria cinese.

Tra i registi che più hanno segnato il cinema di Hong Kong degli ultimi decenni del secolo scorso e che in
modo maggiore hanno colpito il pubblico e la critica occidentale vi è John Woo. Egli fu autore di noir
melodrammatici e iperrealistici, pieni di violenza e sentimento, esistenziali, che celebrano temi come quelli
dell’amicizia virile, dell’eroismo votato al sacrificio, della fedeltà a un codice… Tali film sono stati anche una
vera e propria lezione di stile, in particolare per quel che riguarda la coreografia delle sparatorie, per molto
cinema d’azione americano a venire. Egli emigrerà a Hollywood nel 1993, dove continuerà a realizzare film
d’azione.
Un altro cineasta di rilievo nel cinema di Hong Kong fu Kar-wai; egli fu legato alla cultura popolare, e ciò è
rinvenibile anche nel peso che assumono nei suoi lavori le canzoni pop, i soggetti sentimentali, l’altro tasso
d’emozionalità che ne consegue… Nel suo cinema vi è una certa componente letteraria e psicologica; temi
pregnanti sono quello del ricordo, spesso di un amore infelice, e dello scorrere del tempo, che danno corpo
a narrazioni spezzate e frammentarie, in cui possono compenetrarsi passato, presente e realtà virtuali. Gli
intrecci sono costruiti su frequenti paralleli e incroci di personaggi situazioni.

A Taiwan il cinema era nato nei primi anni ‘20, ma è solo nel corso degli anni ‘80 che, su iniziativa dello
stesso governo locale, alla ricerca di un riconoscimento culturale nel mondo occidentale, nasce un cinema
lontano anni luce dalla dominante produzione commerciale; di natura intellettuale, attento al mondo
alienato della borghesia metropolitana e vicino a un certo modernismo occidentale, questo cinema si fa più
contemplativo, interessato maggiormente alla dimensione rurale e alla storia del proprio paese. Vengono

131
indagati il trascorrere del tempo, il rapporto fra memoria individuale e memoria collettiva, ossia quello fra
uomo e storia.

In Corea del Sud la produzione cinematografica cominciò ad affermarsi soltanto nel corso degli anni ‘60,
dopo la grave crisi politica, economica e sociale che la guerra civile, iniziata nel 1950, provocò; una recente
ondata ha reso il cinema sudcoreano una delle realtà più vivaci sulla scena mondiale degli anni ‘90 e 2000.

Esiste poi una cinematografia filippina che nel corso degli anni ‘70 e ‘80 si è affermata anche all’estero, con
prodotti che si discostano abbastanza sensibilmente dal cinema asiatico perché caratterizzati da una loro
individualità precisa e una forte cultura autoctona.

Il Messico e l’America Latina

Durante e subito dopo la Seconda guerra mondiale, il Messico si è affacciato al panorama internazionale
con un gruppo di film realizzati da regista Fernandez, entusiasmando il pubblico e la critica europei. Alla
ricerca di novità, di un cinema diverso da quello tradizionale, la produzione messicana, attrasse l’Europa,
poiché i suoi temi e soggetti erano in parte nuovi e soprattutto i modi e le forme erano inconsueti,
abbastanza esotici. Il cinema messicano, dal 1945, ebbe una larga diffusione internazionale, fu apprezzato
ed ottenne numerosi premi nei festival cinematografici di tutto il mondo.

Già negli anni ‘30 alcuni registi stranieri posero in Messico le basi per la rinascita di un cinema
autenticamente nazionale, che si svilupperà una decina d’anni dopo, sul piano del documentario. Si tratta
di un cinema al servizio di un’analisi critica della realtà umana e sociale, in cui gli elementi spettacolari
rimandano continuamente a una situazione storica determinata e forniscono gli spunti per un discorso
ulteriore; Ejzenstejn e Strand furono gli autori che affrontarono alcuni dei problemi fondamentali della
società messicana in prospettiva storica, con una visione lucida e critica della realtà e uno stile personale e
suggestivo. Questa influenza dei due autori sul cinema messicano successivo sarà per molti aspetti
determinante, soprattutto sul piano formale: sarà altrettanto determinante, sebbene in direzione e con
risultati opposti, verso un realismo popolare di larga udienza, l’influenza dello spagnolo Bunuel che
realizzerà in Messico un cospicuo numero di film. Le opere di Fernandez, che seppe dare un’identità
nazionale al proprio cinema, con un linguaggio suggestivo e una visione acuta e personale della realtà del
proprio paese, anche se con uno stile ridondante e barocco, furono considerate cinema messicano tout
court.

Per quanto riguarda le cinematografie sudamericane, come per esempio quella brasiliana e quella
argentina, esse rinacquero nel corso degli anni ‘50 e ‘60, in concomitanza con i nuovi fermenti politici,
ideologici, culturali che hanno profondamente scosso le strutture sociali di vari paesi dell’America Latina.
Una rinascita che si è espressa, in campo cinematografico, con iniziative, proposte alternative, impegno
politico.

Durante gli anni del sonoro il cinema argentino, prima di quello messicano, ebbe uno sviluppo
considerevole sul piano commerciale, espandendosi nei vari paesi di lingua spagnola. I caratteri argentini,
dalla musica popolare al costume nazionale, costituirono il tema fondamentale attorno al quale furono
realizzati moltissimi film di successo; accanto alle opere popolari, si ebbero anche esempi di un cinema più
impegnato culturalmente e ideologicamente, che tentava di rappresentare le condizioni di vita, i problemi
dell’esistenza, i conflitti sociali di un paese in piena espansione economica, con tutte le contraddizioni e le
crisi del caso. Un esempio di tale cinema può essere ritrovato in Torre Nilsson, che costruì il suo discorso su
una originale e approfondita analisi delle contraddizioni di un sistema sociale, soprattutto quello dell’alta
borghesia argentina e di personaggi intellettuali e tormentati. La sua rivolta antiborghese si esprime in una
132
certa aggressività formale, in un sottile anticlericalismo, in uno stile inconsueto rispetto al livello medio
della produzione argentina, di cui rifiuta la vocazione al melodramma e al film musicale; ebbe grande
influenza sulle nuove generazioni e fu considerato all’estero come il segno di una rinascita del cinema
argentino.

In Brasile il cinema, diffusosi lentamente nei primi anni del secolo, si andò sempre più affermando con la
produzione di film nazionali, ispirati alla letteratura popolare e al folclore, durante gli anni ‘20. Il cinema
brasiliano rimase per parecchi anni circoscritto in un ambito consumistico di scarsa rilevanza culturale. Vero
e proprio punto di svolta nella storia del cinema brasiliano si ebbe agli inizi degli anni ‘60 con il Cinema novo
(Rocha, Guerra, Saraceni…). Tale corrente riprenderà le fila di un cinema autenticamente nazionale,
aggiornato sui temi e i problemi della nuova realtà politica e sociale contemporanea. Si tratta di un cinema
che si differenzia nettamente dalla tradizione spettacolare e rientra in quei nuovi modelli contenutistici e
formali che caratterizzeranno sia la produzione dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo, sia certo recente
cinema occidentale. Il passaggio al Cinema novo è segnato dall’opera di alcuni registi che seppero cogliere
con sufficiente chiarezza i nuovi fermenti politici e sociali, senza peraltro giungere a una profonda
rivoluzione di contenuti e di forme. Tra questi vi è Pereira dos Santos, che ha portato avanti con coerenza
lungo tutta la sua carriera il tentativo di dar vita a un cinema che fosse autenticamente espressione delle
tradizioni, della cultura della società brasiliane.

15. LA NOUVELLE VAGUE

Teoria e prassi della Nouvelle Vague

Il termine è nato dall’”Express”, che lo adoperò nel 1957 in occasione di una inchiesta giornalistica sulla
gioventù francese degli anni ‘50; fu reso famoso al Festival di Cannes del 1959.

La Nouvelle Vague del cinema francese si impose all’attenzione della critica e del pubblico internazionali,
determinando in larga misura i temi e le forme di gran parte della produzione cinematografica del decennio
successivo. Sebbene molto diversa dal neorealismo italiano, la Nouvelle Vague fu certamente un modo
nuovo di usare il cinema come strumento di rivelazione del reale, al di fuori delle regole codificate dello
spettacolo tradizionale, in termini più diretti, personali: è con la Nouvelle Vague che nasce il cosiddetto
cinema della modernità, un cinema che in primo luogo vive della consapevolezza di essere
rappresentazione. Il cinema andava perdendo il suo carattere di spettacolo, per assumere quello di
scrittura, di linguaggio autonomo da impiegare in nuove strutture estetiche. Il regista diventa il vero autore
del film, che doveva essere espressione di una personalità d’artista che teneva conto in primo luogo della
propria poetica, dei fatti e dei problemi di una personale visione del mondo, attraverso la quale poter
filtrare i fatti e i problemi dell’attualità. In precedenza, il più delle volte i compromessi con l’industria e il
commercio erano più numerosi dei frutti di un’autentica libertà espressiva. Proprio contro questo cinema di
produttori si sono battuti i giovani della Nouvelle Vague; fu proprio il bisogno di opporsi contro la
produzione corrente a determinare l’atteggiamento critico e le proposte programmatiche della teoria del
nuovo cinema della Nouvelle Vague.

Già nel 1948, in un articolo, Astruc proponeva l’utilizzazione della cinecamera come fosse una penna
stilografica (caméra-stylo); la regia era concepita come una vera e propria scrittura. Proprio attorno al
concetto di scrittura, cioè di autonomo linguaggio espressivo personale, si andava sviluppando una teoria
critica che si appunterà sulla definizione di autore, dando origine a quella politique des auteurs che
caratterizzerà in particolare il gruppo di critici che si raccolse attorno alla rivista “Cahiers du Cinéma”,
fondata nel ’51, che vide come suo principale animatore Bazin.

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Saranno Bazin, Astruc, Truffaut, Godard a formare il nucleo più compatto e valido della prima Nouvelle
Vague, sviluppando sulle pagine di giornali e riviste di quegli anni un discorso sul cinema d’autore
estremamente stimolante, provocatorio, anticonformistico, e proponendo nuovi canoni interpretativi.

Primo tratto in comune fra questi registi della Nouvelle Vague fu la formazione cinefila, avvenuta nelle sale
della Cinémathèque di Parigi; il loro primo bersaglio polemico fu il contemporaneo cinema francese, un
cinema caratterizzato da una forte aderenza agli standard dell’anteguerra: le sue caratteristiche principali
erano la predominanza della sceneggiatura, le riprese negli studi, il ricorso ai divi del cinema nazionale.
Proprio contro questa tendenza si scagliarono i registi della Nouvelle Vague, e in particolare Truffaut, che la
accusò di essere un cinema di semplice confezione, troppo letterario, privo di quella forza e di quella
sincerità che invece si poteva trovare nell’opera di autori amati dai “Cahiers”, ossia Renoir, Rossellini,
Bresson, Tati… Parallelamente i registi della Nouvelle Vague si mossero in difesa di un certo cinema
americano come per esempio quello di Ford, di Hitchcock, di Lang…
Il regista era visto come l’unico vero responsabile del film da questi diretto, non un semplice “metteur en
scène”; vi fu quindi un cambio di paradigma in cui il regista era autore nel senso pieno della parola, in grado
di esprimere in ogni sua opera una visione del mondo insieme a una visione del cinema.

Dopo la critica militante dagli autori passarono alla regia, ponendo così le basi pratiche alla nascita della
Nouvelle Vague; l’affermarsi di questo nuovo movimento fu determinato, però, non solo dalla
intraprendenza dei suoi autori, bensì anche da un particolare contesto produttivo, sociale e tecnologico. Il
cinema francese degli anni ‘50 viveva infatti un momento di grave difficoltà, attaccato da un lato
dall’invadenza di quello americano e dalla sempre più spietata concorrenza della nascente televisione. Le
affluenze in sala erano in calo e molti costosi film si rivelarono un fallimento sul piano commerciale. Alcuni
produttori tentarono così nuove vie, privilegiando produzioni a costi più contenuti, i film della Nouvelle
Vague, e favorendo così l’esordio di giovani cineasti. La giovinezza di questi esordienti fu un fattore
importante, in quanto consentì loro di saper meglio parlare a un nuovo pubblico, quello dei giovani,
cresciuto nel dopoguerra e che aveva goduto dei vantaggi della crescita economica; si trattava di un nuovo
soggetto sociale, più incline al consumo, legato a nuovi valori.

Oltre al contesto produttivo e sociale, un terzo fattore favorì lo sviluppo del cinema della Nouvelle Vague:
fu il diffondersi di una nuova tecnologia che consentiva un approccio più facile, economico ed immediato
alle riprese, ideale per i film a basso costo. Si tratta delle macchine da presa leggera, dei mirini fotografici,
delle pellicole più sensibili e delle lampade più semplici e più potenti, adatte per le riprese in esterni e
interni reali, della possibilità di registrare in diretta al suono: il film acquista così sullo schermo una
maggiore verità. Le possibilità offerte dalle nuove tecniche aiutano la nascita di un nuovo cinema che esce
dagli studi ed entra nelle strade.

I film della Nouvelle Vague, narrativo e di finzione, producono a tutti gli effetti un nuovo modo di
raccontare cinematograficamente una storia. Ciò che si stravolge è innanzitutto la solita concatenazione di
causa ed effetto su cui era costruito il racconto classico. Le storie sono costruite anche attraverso casualità,
deviazioni, digressioni e tempi morti, sono molto più vicine alla realtà di tutti i giorni che non al cinema del
passato. Deleuze, filosofo, dirà che il passaggio dal cinema classico a quello moderno è il passaggio
dall’immagine azione all’immagine tempo. Non è raro che questi tempi morti siano associati all’uso di voci
narranti, di un narratore esterno, o all’interiorità dello stesso protagonista. Le sceneggiature di ferro, dove
tutto è previsto nei minimi termini, scompaiono, per dare vita a dei work in progress, in cui la storia,
almeno in parte, si costruisce durante le riprese, lasciando un certo margine all’improvvisazione e ai giochi
del caso. I protagonisti si presentano come personaggi ordinari e banali, più incerti e contraddittori degli
eroi del cinema classico. Sono degli antieroi. Anche i finali dei film della Nouvelle Vague e rifiutano
frequentemente la logica delle happy end, ma anche quella del finale chiuso, rimanendo a volte aperti,
problematici, deviati o onirici. La rivoluzione narrativa è sostenuta da una evidente rivoluzione sul piano del

134
linguaggio; vi è il rifiuto di un linguaggio cinematografico codificato una volta per sempre. L’importante era
consentire a ciascuno di esprimersi col cinema in assoluta libertà, fuori dai condizionamenti dell’industria.
Fine primario dei registi della Nouvelle Vague era quello di estendere le possibilità espressive del cinema, di
non limitarle a quell’insieme di norme codificate dal cinema classico. Ciò si vede bene nell’uso del
montaggio, talvolta quasi negato e ridotto ai minimi termini, altre volte esaltato ai massimi livelli. I registi
della Nouvelle Vague rinunciano in diverse occasioni alla classica rappresentazione di una scena di
conversazione col campo e controcampo, per sperimentare diverse soluzioni. Praticano con consapevolezza
quella che si potrebbe chiamare politica dell’errore, attraverso il frequente ricorso ai jump cut (raccordo fra
due inquadrature senza rispettare le convenzioni del cinema classico sul piano dello spazio del tempo al
punto da scardinarne la continuità). I film della Nouvelle Vague praticano tutta una serie di altre evidenti
infrazioni agli standard del cinema classico: per esempio l’uso del frame stop (fermo fotogramma), dei
movimenti di macchina spalla o dove la cinepresa è montata su un occasionale supporto mobile come un
carrello della spesa, di anomale uscite di campo, di ostentati sguardi dei personaggi verso la macchina da
presa, e quindi lo spettatore. Radicalmente innovativo è anche l’uso del sonoro non solo per la ripresa
diretta o per la presenza di voci narranti che possono arrivare a dialogare con gli stessi personaggi, ma
anche per un uso della musica che tende a farsi più autonoma rispetto all’immagine e ad una maggiore
libertà nel rapporto che si instaura fra le singole componenti sonore.

I critici osservano che i film realizzati dai giovani registi della Nouvelle Vague alla fine degli anni ‘50 e nei
primi anni ‘60 hanno perlopiù ignorato o trascurato le questioni più importanti della società francese del
tempo, ad esempio la guerra d’Algeria e la profonda crisi istituzionale coincidente con l’avvento al potere di
de Gaulle. Il valore politico e culturale del cinema della Nouvelle Vague risiede, tuttavia, su un altro piano:
quello dell’incrociarsi di due istanze, del nuovo realismo con una dimensione autoreferenziale e
metalinguistica. Il nuovo realismo è conseguenza di quelle scelte estetiche sia sul piano dell’organizzazione
del racconto sia su quello linguistico, che producono film il cui andamento narrativo è molto più vicino alla
realtà di quanto non lo sia quello del racconto del cinema classico; qui lo sguardo della macchina da presa
non è più alla ricerca del miglior punto di vista possibile, ma espressione di uno sguardo comune che
conferisce una sorta di immediatezza è la rappresentazione. Di qui anche una certa mescolanza di fiction e
documentario, che punta a rivelare il dato fenomenico e a fare del cinema più che un oggetto di spettacolo,
uno strumento di comunicazione conoscenza. Al nuovo realismo, il cinema della Nouvelle Vague, che
esplicita le caratteristiche principali che saranno del cinema della modernità, intreccia un’esplicita
dimensione meta cinematografica, che fa sì che le immagini non si sostituiscano alla realtà, ma
semplicemente ci parlino di essa, rivelando la propria natura di immagini cinematografiche. Si tratta di un
nuovo rapporto con lo spettatore, chiamato a partecipare direttamente ai modi e alle forme della realtà
filmica. Il cinema non è più nascosto, come avveniva nei modelli classici, ma mostrato in tutti i suoi limiti e
le sue possibilità: qui nasce l’elemento moderno, che fa propria tutta la problematicità dell’atto
riproduttivo, si interroga sulla realtà, mentre si interroga su sé stesso. Ogni grande film, secondo Godard, è
tale se oltre a un’idea della realtà è in grado di proporre anche un’idea di cinema. Il cinema classico era un
cinema della certezza fondato su un senso precostituito, già deciso nelle sue sceneggiature, mentre il
cinema moderno della Nouvelle Vague è un cinema del dubbio che affida in buona parte allo spettatore il
compito di costruire il senso del film.

Il cinema della modernità si realizza non solo nella Nouvelle Vague francese, ma in una serie di altre di new
wave internazionali, che comprendono il free cinema inglese, il Cinema Novo brasiliano, la scuola di New
York (new american cinema), la corrente giapponese, quella cecoslovacca, quella ungherese…

I registi-autori del nuovo cinema francese: fra memoria e attualità

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Il nuovo modo di guardare alla realtà dei cineasti della Nouvelle Vague e del gruppo dei Cahiers pone
l’accento sull’importanza di uno sguardo soggettivo sul mondo, fondato anche sulla propria esperienza
personale; in una certa misura si tratta di un cinema autobiografico, nel senso che l’autore era
direttamente coinvolto nella realtà rappresentata, impiegava materiali narrativi tratti dalla propria
esperienza personale, dal proprio passato, dai ricordi come dai fatti quotidiani. Ne deriva un cinema che
segue strade apparentemente divergenti: quella della memoria, e quella dell’attualità. L’autore che meglio
ha espresso questa tendenza generale ad un cinema memoriale è Resnais, ma anche Chabrol e Truffaut.

Anche se il parlare in prima persona è una caratteristica in gran parte comune ai registi del giovane cinema
francese, bisogna tener conto che non soltanto non si può parlare per la Nouvelle Vague di scuola o di
movimento unitario, ma non è neppure possibile rinvenire, se non all’interno di piccoli gruppi, un indirizzo
di ricerca unitario, una ideologia comunemente accettata. Anzi è profondo il divario che separa una poetica
dall’altra, e il diverso atteggiamento da ciascuno di essi assunto nei confronti della società.

Gli autori che hanno segnato il nuovo cinema francese sono perlopiù appartenenti al gruppo ristretto
formatosi sulle pagine dei Cahier (Godard, Truffaut, Chabrol, Rivette…) e quelli della “rive gauche” (Marker,
Resnais, Varda)…

Resnais si colloca rispetto al cinema nuovo francese in una posizione sufficientemente autonoma, sia per il
suo isolamento rispetto ai gruppi dei cinefili della Cinémathèque francese e dei Cajiers, sia per la sua
personale e originale ricerca linguistica, che fu frutto di un’attenta e autonoma riconsiderazione dei mezzi
espressivi del cinema: il suo fu un nuovo discorso col cinema e sul cinema. Nel 1959 gira Hiroshima, mon
amour che scosse violentemente la critica e il pubblico; vi si ritrovano elementi ricorrenti della sua poetica
come ad esempio l’integrazione di passato e presente. Lo stile è inconsueto, originalissimo, debitore di
esperienze letterarie ma nuovo nel campo del cinema; vi è lo sconvolgimento dei luoghi e dei tempi della
rappresentazione, l’ambiguità della colonna sonora, l’accostamento di materiali di finzione ed altri
documentari, la dimensione apertamente soggettiva. Il film portava a maturazione quegli elementi del
linguaggio dell’autore; il suo cinema della memoria affondava le radici in un’analisi spregiudicata e
fortemente critica della realtà contemporanea. Recuperando la lezione del miglior cinema muto e la cultura
del surrealismo, l’autore riaprì il discorso sulla guerra e sulla violenza con nuovi argomenti. In Hiroshima
fissa così alcuni aspetti essenziali della sua opera: il lavoro sul tempo che fonde in un’unica realtà il passato
e il presente, attraverso il ricordo e la memoria che minacciano il presente. Vi è un gioco continuo e
labirintico di evocazioni tra passato e presente, una forte dimensione soggettiva, il rifiuto della linearità e
della consequenzialità dei meccanismi classici. Esemplare di quest’approccio intellettuale al cinema è
L’anno scorso a Marienbad (1961), film che può apparire un labirinto figurativo e narrativo, che si pone
contro la chiarezza semantica del cinema classico e introduce l’idea di un senso ambiguo che è un tutt’uno
con l’ambiguità della realtà di cui noi stessi, con la nostra soggettività, siamo parte. Girò film che con il loro
successo spinsero alcuni produttori ad aprire le porte ad una nuova generazione di registi; essi
contenevano alcuni elementi di novità (musica jazz, vagabondaggio notturno, esplicitazione del piacere
erotico femminile) che preludevano all’imminente Nouvelle Vague. Riprese irriverenti soluzioni di
linguaggio dal cinema muto; girò validi esempi di rapporto fra letteratura e cinema.

Varna (donna) impiegò il linguaggio cinematografico in maniera più diretta, quasi documentaristica; anche i
suoi film tuttavia risentono a volte di quella letterarietà e di quell’aspetto intellettuale, sofisticato. Si
affermò internazionalmente con un film che indagava certi problemi della condizione femminile (il film è
esemplare di quel definalizzato andare a zonzo che il filosofo Deleuze individua come uno degli elementi
peculiari del cinema della modernità). Con l’avvento del nuovo secolo, la regista torna a opere di ricerca,
abbracciando le tecnologie del digitale che ne hanno accentuato una certa vocazione intima, autobiografica

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e sperimentale.

Del gruppo dei Cahiers, coloro che passarono dalla critica militante alla regia cinematografica proseguendo
loro discorso su un cinema autenticamente nuovo furono Chabrol, Truffaut, Rivette, Rohmer, Godard.

Chabrol → ha contribuito ad aprire la strada agli altri registi della Nouvelle Vague; dimostrò concretamente
la possibilità di produrre film di valore a basso costo, la cui artisticità poteva anche costituire un valido
elemento di successo commerciale. Alcuni aspetti della poetica del regista furono la capacità di indagare la
psiche di caratteri segnati da una forte ambiguità, sulla lezione di Hitchcock, cui il regista guarderà nel corso
di tutta la sua carriera. Rispetto ad altri autori della Nouvelle Vague, Chabrol ha realizzato film più vicini a
certe modalità classiche di narrazione, privilegiando il racconto giallo e ritraendo con sarcasmo e ironia il
mondo della borghesia francese mostrato nelle sue contraddizioni, in particolare in seno all’universo
famigliare. Chabrol realizzerà una copiosa serie di opere di valore diseguale, attente ai dettami
dell’industria ma che, tuttavia, lasciano trapelare uno sguardo sempre vigile e critico nei confronti della
società e delle sue contraddizioni, soprattutto sul piano della morale individuale.

Dopo un’infanzia e un’adolescenza assai difficili, da cui fu salvato anche grazie al critico Bazin, che lo adottò
e ne coltivò la vorace e assoluta passione per il cinema, facendolo entrare nella redazione dei Cahiers,
Truffaut realizzò nel 1959 il suo primo lungometraggio, I 400 colpi. Il film fu premiato al festival di Cannes, e
aprì di fatto, insieme ai precedenti Le beau Serge (1958) e I cugini (1959) di Chabrol, la stagione della
Nouvelle Vague. I 400 colpi esibisce la dimensione autobiografica, intima, sincera e personale di tutto il
cinema del regista, i cui disarmati protagonisti, spesso poco conformi alle regole del vivere sociale, sono
quasi sempre dei suoi alter ego, che rappresentano un certo porsi del loro autore in rapporto al mondo, alla
vita e ai sentimenti. Il film è il primo atto di un originale serie composta da diversi altri film che seguono la
vita dello stesso personaggio, Antoine Doinel, sempre interpretato dallo stesso attore, in un vero e proprio
lungo romanzo di formazione che lo accompagna sino all’età adulta. Affiorano in questi film del ciclo i temi
cari al regista: amore, donna, infanzia, letteratura, cinema. L’infanzia è protagonista anche del film L’enfant
sauvage (1970), tratto dal memoriale settecentesco del Dottor Jean Itard, che narra del difficile tentativo di
educazione alla civiltà di un ragazzo ritrovato allo stato primitivo in una foresta. L’amore per la letteratura e
la scrittura è anch’esso presente in tutta l’opera del regista, sia nella forma dei suoi numerosi personali
adattamenti letterari, sia nella personale rilettura dei generi classici, in particolare del noir. Egli fa continui
ed espliciti riferimenti al cinema stesso, meditando sul rapporto fra finzione e realtà.

Rohmer → principale erede e continuatore sia come critico sia come regista dell’opera di Bazin.
Caratteristica del regista sono un’organizzazione narrativa che gioca sull’accumulo di frammenti, situazioni
e personaggi comuni, e un evidente gusto per l’improvvisazione. Tra gli anni ‘60 e ‘70 le opere del regista
sono organizzate in una prima serie denominata “Six contes moraux”; in questi film la dimensione
sentimentale è padrona, ma ne esce una sorta di “comédie humaine” relativa alle ambizioni, ai progetti, alle
strategie, spesso destinati al fallimento, in una parola al desiderio dell’uomo. L’autore guarda con tenerezza
all’ingenuità, alle debolezze dei suoi antieroi, conferendo alle sue opere un tono decisamente ironico. Più
che le azioni a contare sono gli sguardi, i pensieri, le speranze, le idee e le attese. Più che il detto,
nonostante la centralità che nei suoi film hanno i dialoghi, è importante il non detto, più che il fatto, il non
fatto; domina l’implicito. Tocca allo spettatore, in perfetta sintonia con l’ipotesi teoriche di Bazin, cogliere
ciò che si nasconde dietro la superficie del visibile e dell’udibile.
Negli anni ‘80 realizza un altro ciclo nominato “Comédies et proverbes”, in cui evidenzia, in piena sintonia
con la politica degli autori, l’idea di un cinema che gioca su persistenze tematiche, all’interno delle quali
sviluppare una serie di variazioni che consentano di guardare alle cose della vita da diversi punti di vista. Il
tono di questi film si fa più leggero. Nel corso degli anni ’90 realizza una terza e ultima serie, ossia i “Contes

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des quatre saisons”. Negli anni 2000 non viene meno la sua originaria volontà sperimentatrice, infatti
adotta le nuove tecnologie digitali.

Rivette → è il regista che tra quelli dei Cahiers ha portato avanti con più coerenza nel corso della sua
carriera una propria personale idea di cinema, fondata sull’appartenenza del cinema a un contesto
culturale ed artistico più ampio, quello del linguaggio della rappresentazione, soprattutto per ciò che
riguarda i suoi legami col teatro, dove un ruolo centrale è affidato al rapporto fra arte e vita, finzione e
realtà, mistero e quotidiano. È attratto in pari misura dal cinema hollywoodiano classico, in particolare
dall’opera di Hawks, e dal neorealismo di Rossellini. Inizia nel 1958 un ampio affresco sull’assurdità della
società contemporanea, girando un ritratto della complessità delle relazioni umane e un discorso sul
cinema e sulle sue possibilità di interpretazione del reale. La scena spesso è concepita teatralmente,
continuamente si frantuma e si ricostruisce; pare frutto di una improvvisazione incessante. I personaggi
sono sé stessi e il riflesso dell’autore, la realtà è anche la sua rappresentazione cinematografica; vi è una
sottile analisi dei suoi caratteri fenomenici e di quelli della sua riproduzione schemica. Successivamente il
discorso sulla realtà fenomenica e sul cinema, che deve darne una rappresentazione spettacolare, si fa più
chiaro e rigoroso. Gira un film ambientato nel Settecento e tratto da un romanzo di Diderot, duro atto
d’accusa contro i moralismi della società, che fu vittima della censura. Da un lato vi è la fedeltà al testo di
partenza e la cura nell’ambientazione storica, dall’altro la modernità dell’assunto e la lucida individuazione
dei conflitti morali e ideologici presenti nella storia e attualizzabili; opera un’analisi in profondità
trasformando una semplice trasposizione cinematografica di un testo letterario in una vera e propria
riconsiderazione critica dell’ideologia contemporanea. Vi è presente anche un grande amore per il teatro
come luogo privilegiato della recitazione (rivelatrice della complessità della natura umana), sia uno sguardo
ironico sulla realtà che si richiama alla lezione del surrealismo come continua introspezione del reale
attraverso lo strumento eccezionale della fantasia e del sogno.

L’anno scorso a Marienbad (1961; Resnais)

- movimenti di macchina lenti fluidi


- passato, futuro e presente si confondono
- nel corso del film non viene rivelato chi dice la verità; non risultano chiarificatori neanche i numerosi flash
back dei protagonisti i quali pronunciano poche battute, mantenendosi sempre statici sulla scena
- flashback e flashforward si danno come compresenza del passato nel presente e viceversa; c’è un gioco
d’incastri reciproci e di compresenza dei tempi tale da far perdere ogni coordinata; non si distingue più
ricordo dei due protagonisti dall’andamento reale delle cose, né il ricordo vero da quello falso, non si
capisce se le immagini che vediamo appartengano alla memoria di uno o dell’altro personaggio
- dialoghi, voce off, immagini si ripetono ossessivamente
- vi sono lunghi movimenti di macchina, compostezza figurativa e un raffinato bianco e nero
- vi è un gioco di rimandi e specchi; gli spazi sono labirintici, costruiti su linee geometriche e rigide
- oltre che un esercizio di stile, il film è una ricerca sul tempo e la memoria per cui il ricordo risulta
necessario alla comprensione critica del presente; il passato e il presente s’intrecciano in un unico flusso di
immagini e di suoni, realizzando una contemporaneità di fatti che mette in crisi i consueti strumenti di
indagine realistica; il film è anche un esperimento sull’intercambiabilità dei discorsi e delle situazioni
- il flusso di immagini e continuo, e richiama precedenti della letteratura del novecento (Proust, Joyce…)
- Il film è anche una ricerca sul linguaggio cinematografico (in linea con le istanze della nouvelle vague a cui
il regista è vicino, seppur personalità piuttosto isolata) e sulla possibilità di trasporre su pellicola le tecniche
del nouveau roman, una narrativa obiettiva che tende a una descrizione fenomenologica della realtà
- per il regista il cinema è quindi strumento di rivelazione di una realtà nascosta che si mostra ed è
percepita attraverso determinate immagini, sequenze, scelte di montaggio
- il film è giocato a più livelli sul tema del conflitto: memoria di lui e di lei, voce fuori campo e immagini,
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ricordi dell’uomo e della donna
- particolare rilievo ha l’attesa; la dilatazione provocata dall’attesa aumenta il carattere intensivo dell’opera
al punto che l’oggetto del desiderio dell’uomo protratto nel tempo aumenta di valore (la donna fa
aspettare l’uomo per la fuga)
- man mano che la pellicola scorre, la stessa storia si arricchisce di elementi diversi, e le stesse frasi, le
stesse situazioni (riproposte più volte) assumono dei significati sempre più densi

I 400 colpi (1959; Truffaut)

- opera tra le più significative della nouvelle vague


- in questo film si cela parte dell’adolescenza difficile dell’autore
- è tra i film dell’autore più teneri e lucidi sull’infanzia incompresa, primo capitolo di una serie di pellicole
che seguono la crescita e la formazione del personaggio
- la regia è semi documentaristica, sospesa fra realismo e rielaborazione astratta
- in questo film sono già presenti molti elementi di quella che sarà la poetica del regista; adolescenti esclusi
e bisognosi di affetto, rapporto con la figura femminile, incombenza della morte, amore per il cinema e la
letteratura, scrittura come affermazione della propria esistenza nel mondo; per il ragazzo la letteratura e la
scrittura rappresentano un mondo in cui potersi salvare → natura sacrale e salvifica dell’esperienza
letteraria
- l’opposizione tra il protagonista e il mondo adulto è affiancata anche dal conflitto che caratterizza l’intera
messinscena: il contrasto fra gli interni, filmati prevalentemente in piani ravvicinati e statici, e gli esterni,
nei quali dominano campi lunghi e movimenti di macchina; la messinscena è il corrispettivo visivo dello
stato psicologico dei personaggi e del loro rapporto
- vi è una sequenza che rimanda al film Zero in condotta di Vigo; si tratta della scena in cui il professore di
ginnastica progressivamente viene abbandonato dall’intera scolaresca e l’inquadratura è dall’alto; in questo
caso, come nell’intera filmografia di Truffaut, la citazione non è un riferimento dotto ma una necessità; è
cinema che si nutre di cinema e in esso la realtà passa anche per frammenti di altri film
- ulteriore contrapposizione è quella fra il ritmo dilatato delle sequenze ambientate in interni e il ritmo
ellittico dettato dai campi lunghi e dai movimenti di macchina delle sequenze ambientate in esterni
- ripreso in spazi interni angusti e prevalentemente con inquadrature ravvicinate, il protagonista è
prigioniero, limitato nella sua libertà di movimento e di espressione; riformatorio, casa, scuola
- il protagonista fugge da riformatorio e raggiunge la spiaggia; il mare rappresenta lo spazio utopico della
libertà, ma anche l’oggetto di un desiderio indefinito e sconosciuto

La consapevolezza del cinema: Jean-Luc Godard

Il regista che più di altri ha rappresentato gli intenti di rottura e di complessità del cinema della nouvelle
vague, divenendo punto di riferimento dei cineasti più radicali delle future generazioni, è Godard; nei suoi
film ha riproposto in termini problematici il significato ultimo dell’opera cinematografica mettendo
continuamente in discussione la funzione stessa del cinema e i modi della sua fruizione. Egli fu legato al
gruppo dei Cahiers; ha esordito nel 1960 con Fino all’ultimo respiro; pur ancora legato a una costruzione
narrativa, il film manifesta una notevole indifferenza agli standard del linguaggio e del racconto
cinematografico dominanti, introducendo divagazioni, tempi morti e facendo ricorso a un montaggio
sincopato e volutamente sgrammaticato → uso di jump cut, taglio di fotogrammi all’interno di
un’inquadratura provocando così dei bruschi salti nello scorrimento delle immagini; evidenti interpellazioni
spettatoriali. Questo fu il primo di una serie di film in cui la sperimentazione diventa l’unico modo per
affrontare i problemi della società contemporanea in maniera nuova, spregiudicata. Godard gira negli anni
139
‘60 un gran numero di film, offrendo un acuto spaccato della società francese di quegli anni e delle sue
contraddizioni; fu un attento lavoro di ricerca sulle possibilità espressive del cinema. Dà corpo a una forma
di narrazione che più che alle azioni è attenta a ciò che sta fra esse (attese, silenzi, sguardi, conversazioni);
ricorre spesso alla dimensione frammentaria del collage, giustapponendo immagini di finzione, materiale
pubblicitario, fotografie, copertine di libri, fumetti, citazioni… Mescola il cinema popolare e di genere a
riferimenti filosofici e a digressioni estetiche; denuncia la dimensione cinematografica dei suoi film
attraverso alcuni espedienti (sguardi in macchina, ciak, citazioni di altri film). Ricorre a un linguaggio
apertamente trasgressivo e anticlassico, facendo voluti errori di montaggio, lunghi piani sequenza,
movimenti di macchina a mano o su supporti occasionali; recupera alcune forme del cinema muto
(didascalia…) e soluzioni sonore che negano alla radice ogni volontà di verosimiglianza filmica.
Indaga, attraverso la forma del saggio sociologico, la condizione della donna nella società borghese e
consumistica, attraverso la vita di una donna borghese, quella di una prostituta… Nei suoi film riprende la
dimensione brechtiana dello straniamento; la vicenda individuale è collocata in un contesto sociale ben
preciso, al fine di far slittare il film da una semplice dimensione narrativa ad una più esplicitamente
saggistica e sociologica. In questi anni (’60) Godard è attento anche agli echi della guerra d’Algeria.
Costante di tutto il suo cinema sono il cinema nel cinema, il gioco delle citazioni, la riflessione sulle
possibilità espressive del mezzo. Il rapporto di amore e odio con il cinema classico si esplica nella personale
e politica rivisitazione di alcuni generi, come per esempio quello della fantascienza e del film noir.
Indaga inoltre la violenza della società capitalistica e dei consumi. Vi sarà una stagione più esplicitamente
politica, ideologica e militante nel cinema di Godard, senza che, però, la possibilità del mezzo
cinematografico di rivelare la verità delle cose venga trascurata.
Con il 1968, nel vivo della lotta politica, il suo sguardo si fa più lucido: i problemi contenutistici e formali si
affiancano a una più consapevole necessità di porsi al servizio della rivoluzione. Il cinema di Godard si fa
militante, l’autore tende ad annullarsi nella collettività dei collaboratori, il singolo film diventa un preciso
atto d’accusa, fuori di ogni intento artistico o personale. Nasce la collaborazione col gruppo “Dziga Vertov”,
che si avvia con il film Vento dell’est (1969); il film alterna immagini di manifestazioni a interviste e
all’assemblea della troupe che lo sta realizzando; tale collaborazione si protrae per un paio di anni, in cui
verranno prodotte una serie di opere dal collettivo di lavoro. Tali opere si presentano esplicitamente come
opere anonime, frutto appunto di una elaborazione contenutistica e formale comune, opere che rientrano
in un preciso disegno strategico di lotta politica.

Negli anni ‘70, confermando la sua volontà di sperimentatore tramite l’apertura alle nuove tecnologie,
legate all’elettronica, gira film meno direttamente politici.
I drammatici eventi degli anni ‘90 spingono Godard a realizzare una serie di film che hanno come tema
quello della riflessione sulla storia e del suo rapporto con il presente; storia, politica e cinema ritornano a
essere protagoniste. Opera inoltre una riflessione sui rapporti fra musica e cinema.
Godard è il regista più interessante e innovatori del cinema antinarrativo e antispettacolare.

Fino all’ultimo respiro (1960; Godard)

- da molti considerato manifesto della nouvelle vague


- girato interamente con mezzi di fortuna e pellicola fotografica, più sensibile di quella cinematografica, per
compensare un’illuminazione essenziale e spesso inesistente
- girato in quattro settimane, in interni ed esterni reali, senza suono (fu poi post-sincronizzato)
- l’intento è quello di sfuggire alle convenzioni e di andare contro le regole e la grammatica cinematografica
- per nessun film dell’autore si potrà propriamente parlare di sceneggiatura; piuttosto si parla di tendenza
all’improvvisazione, a lasciarsi guidare dalle circostanze occasionali
- la trama del film è esile; si tratta di un discorso ampio, pessimista, fatto da regista sulla vita, sulla sua
generazione; tutto si regge grazie soprattutto ai piccoli dettagli
140
- con questa pellicola l’autore distrugge le regole della composizione classica per le quali il racconto filmico
doveva essere fluido, senza sbalzi; privilegia invece un montaggio sincopato nelle sequenze d’azione come
nei momenti dialogati; i raccordi tra una scena e un’altra sembrano scorretti, ci sono molti e voluti errori
tecnici; utilizza piani sequenza
- l’autore rifiuta ogni intervento discorsivo forte sulla realtà rappresentata; per esempio nella scena in cui i
due personaggi dialogano non mette in rilievo né le parole dell’uno né le reazioni dell’altro; il contenuto del
dialogo non è così gerarchizzato da nessuna forma di montaggio, tocca quindi allo spettatore decidere
quasi in piena libertà il proprio découpage
- prima della rivoluzione della nouvelle vague i movimenti di macchina dovevano essere impercettibili,
quasi nascosti alla vista, e la macchina da presa non doveva rivelare la sua presenza; ora invece accade
tutto il contrario; non si rintracciano rimandi alle convenzioni narrative consolidate
- il film abbonda di citazioni esplicite o nascoste, allusioni, riferimenti cari al regista; essi sono usati come
pratica di sovvertimento dei codici; non sono autocompiacimenti culturali ma mezzi attraverso cui superare
la narratività tradizionale per cui ogni elemento doveva essere funzionale al racconto; il film presenta
numerosi tempi morti, sequenze che non potrebbero esistere nel cinema classico
- il protagonista rispecchia il linguaggio frammentario e discontinuo del film attraverso il suo
comportamento
- il film segna dunque l’inizio di un modo di concepire il film come saggio, come esplorazione politica di
possibilità formali della rappresentazione; Godard si serve della sperimentazione per mettere in discussione
nel suo film i principi sui quali si regge la morale borghese e la società capitalistica, ma anche i modi e le
forme con cui quella società era stata fino ad allora osservata e descritta attraverso il cinema

Il cinéma-vérité e il nuovo documentario

Il cinéma-vérité, noto anche come cinema diretto, si è divulgato agli inizi degli anni ‘60 sia in Francia che in
altri paesi, come Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada… Esso è stato un tentativo di utilizzare il cinema come
rivelatore della realtà nel suo farsi. Il termine è diventato onnicomprensivo delle varie tendenze del
documentarismo contemporaneo, e si richiama alla Kinopravda di Vertov (=cinema-verità); di fatto
riprende, aggiornandolo con le nuove tecniche della cinecamera leggera e del registratore portatile, il
concetto informatore di tutta la scuola documentaristica mondiale, da Flaherty a Grierson. Si tratta di usare
il cinema per documentare una determinata realtà senza inutili compiacimenti formali, con il preciso scopo
di darne una rappresentazione fedele e oggettiva, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di
un’obiettività assoluta. Il cinéma-vérité va inteso come una predisposizione all’indagine, all’analisi della
realtà contemporanea; la verità non è lo scopo da raggiungere perché è irraggiungibile, ma può essere
invece la strada da percorrere per giungere a un nuovo rapporto con la realtà, e quindi a maggiori
possibilità di coglierne le componenti più autentiche; questo cinema, nelle sue diverse forme e nei suoi
differenti indirizzi, sia metodologici sia pratici, si pone soprattutto come un modo di pensare, un’ideologia.
Tra i vari modi di praticare il cinéma-vérité c’è anche quello di usare la cinecamera come agente
provocatore, come stimolatore di reazioni e comportamenti, i quali si realizzano proprio sotto la sua azione.
In questo caso, la realtà e la sua verità nascono dal cinema, sono frutto del suo intervento diretto.

L’esperienza del cinéma-vérité vede come autore che ne ha meglio rappresentato le caratteristiche il
francese Rouch, etnologo e antropologo. Egli ha utilizzato, soprattutto nel corso degli anni ‘50, il cinema
come sussidio dell’etnologia tradizionale in numerosi documentari sull’Africa e i suoi abitanti. Lontanissimo
dal concetto della vita colta all’improvviso, alieno dalla teoria zavattiniana del pedinamento, egli adopera la
cinepresa come strumento terapeutico; provoca i protagonisti dei suoi film, che diventano personaggi nel
momento stesso in cui dà loro la possibilità di realizzarsi come uomini fuori degli impedimenti psicologici e
morali della loro vita sociale, comunitaria. Di qui la necessità dell’improvvisazione, della cinecamera
personaggio, dell’abolizione del montaggio tradizionale; la trascuratezza formale, il linguaggio disadorno, la
141
preminenza dei contenuti. Di qui anche e soprattutto la documentazione autentica e originale di un modo
di vivere e di pensare, la rivelazione di una condizione di vita, di una civiltà. La verità dunque scaturisce
direttamente dalla finzione, nella misura in cui l’autenticità della storia improvvisata nel corso della
realizzazione e la sincerità dei personaggi sono lo specchio di un modo di essere. Egli ritrae l’Africa di alcuni
neri così come essi la vivono interpretando storie da loro stessi inventate; in questo caso la finzione,
l’affabulazione, l’improvvisazione diventano la verità. Il cinema africano di Rouch, il suo modo di lavorare
con cineprese leggere e piccole troupe, la sua libertà formale, è un momento essenziale della nascita della
nouvelle vague.

Un altro autore, solo in parte riconducibile all’esperienza del cinéma-vérité, è Marker; egli ha realizzato
numerosi diari e film di viaggio incentrati su realtà complesse e sempre fortemente segnate sul piano
politico e ideologico (come Cina, Unione Sovietica, Cile, Cuba, Vietnam, Giappone…). Le immagini dei suoi
film sono spesso accompagnate da una voce fuori campo, che tenta di instaurare con queste un rapporto
critico e dialettico, attraverso cui l’autore si interroga sulle possibilità del cinema di cogliere davvero la
realtà delle cose.

Il Free cinema

Tra documentarismo e sperimentalismo, anche il cosiddetto free cinema inglese, sviluppatosi nei medesimi
anni in cui si ponevano le basi per la nouvelle vague francese e il cinéma-vérité dei diversi paesi, ha tentato
di superare gli schemi della tradizione. Il bisogno di autenticità è avvertibile già nel primo gruppo dei nuovi
registi britannici, tra cui spiccano Anderson e Reisz → la ribellione contro il cinema tradizionale si poteva e
doveva estendere anche al campo della finzione, dello spettacolo; diversi autori girarono opere brevi che
dovevano costituire alcuni esempi di un possibile cinema alternativo, realmente libero, adatto a
rappresentare con partecipazione la nuova realtà britannica, quella dei giovani che si andavano affermando
in una opposizione radicale, sui diversi piani dell’ideologia, della politica, della morale, alla società degli
anziani. Nel corso degli anni ‘50, la civiltà britannica è in crisi per diversi avvenimenti:
- crollo del colonialismo e graduale emarginazione politica della Gran Bretagna (l’Egitto vuole nazionalizzare
il canale di Suez)
- crisi nell’ambito della sinistra del paese, che causò la nascita della new left
- diversi movimenti di protesta; polemiche riguardanti pena di morte, depenalizzazione dell’omosessualità,
conflitti razziali…
- anni dell’esplosione della cultura giovanile e del rock’n’roll, e, nel campo della letteratura e del teatro,
nascita di una nuova generazione di scrittori e drammaturghi, i cosiddetti angry young man (Osborne…),
che volevano abbattere criticamente i vecchi miti, proporre un nuovo rapporto con la contemporaneità; si
tratta degli autori che crearono le premesse per una più generale rivoluzione intellettuale e morale

Questo è il terreno culturale a cui attinge il nuovo cinema inglese.


Più legato della nouvelle vague alla narrativa e al teatro, nella scelta dei temi e a volte nelle forme
spettacolari, meno rivoluzionario sul piano formale, il free cinema ha segnato, non solo per quanto riguarda
la storia del cinema britannico, un capitolo di estrema importanza; la sua principale novità è stata
l’attenzione a personaggi e ambienti proletari, lontani dalla dimensione piccolo borghese della nouvelle
vague, con una conseguente e maggiore attenzione alla dinamica delle classi sociali, e un certo rifiuto della
forma. Ebbe notevoli influssi sul cinema britannico posteriore.

Più noto autore del primo free cinema è Richardson, legato al movimento degli angry young man. Egli
realizzò nel 1959 I giovani arrabbiati, adattamento di uno spettacolo teatrale di Osborne. Il film era un
violento atto d’accusa contro il conformismo della società britannica ed esprimeva le frustrazioni di una
generazione cresciuta nelle illusioni di una democrazia che la politica aveva promesso ma non mantenuto.
L’interesse dell’opera nasce anche dall’uso di ambienti reali e del desolato paesaggio industriale che fa da
142
sfondo alla vicenda. Apporto più notevole di questi film, in direzione di quella riscoperta dell’autenticità alla
base del free cinema, furono: realtà minuta, rapporti interpersonali, risvolti amari di una certa condizione
esistenziale, accenni a questioni sociali precise, sguardo disincantato e puro, realismo spoglio e crudo.

Anderson fu un autore del free cinema che si pose chiaramente il problema delle funzioni di un cinema
alternativo, che sapesse essere nello stesso tempo realista e poetico, e prestare particolare attenzione ai
luoghi e alla gente comune. I suoi primi lavori sviluppano e approfondiscono la lezione di Grierson e del
migliore documentarismo britannico prebellico, tentando un superamento della tradizionale
documentazione verso un più diretto intervento nella realtà fenomenica. Egli voleva il passaggio da un
cinema di pura osservazione a un cinema di progressivo coinvolgimento dello spettatore, sempre sul piano
tuttavia di una rigorosa documentazione non affabulatore. Nelle sue opere realizza uno studio di carattere
ed ambiente minuzioso, che evita gli accessi del dramma o della lirica ma non per questo si priva di
momenti di forte tensione emotiva; questo è condotto con molto rigore formale, in particolare per ciò che
riguarda l’uso dei flashback.

Il regista che più ha portato avanti nel tempo la poetica del free cinema, soprattutto nei suoi aspetti politici,
di denuncia sociale, di attacco alle istituzioni e di conflitti di classe, è Loach. Negli anni ‘60 egli realizza
diversi prodotti televisivi, perlopiù dei docu-drama, che mescolano fiction e documentario, e spingono la tv
a uscire dagli studi, a girare in ambienti reali e ad affrontare temi scottanti sul piano sociale. Con i suoi
lavori si guadagna presto la patente di regista scomodo.

16. IL CINEMA ITALIANO DEGLI ANNI SESSANTA E SETTANTA

Dopo il Neorealismo

All’inizio degli anni ‘60, il contesto politico e sociale italiano vide il fiorire del paese da un punto di vista
economico, con la trasformazione della società da agricola a potenza industriale, ma anche una serie di
inquietudini che porteranno agli anni della contestazione e della strategia della tensione e del terrorismo. Il
cinema italiano è in questo periodo attivo centro di produzione di tutta l’Europa: proprio a partire dal 1960
si può parlare di un vero e proprio rinascimento del cinema nazionale, anche grazie a tre capolavori, che
segnano l’inizio del decennio, come L’avventura di Antonioni, La dolce vita di Fellini, Rocco e i suoi fratelli di
Visconti.

Nel panorama del cinema d’autore italiano anni ‘60 e ‘70 si possono individuare tre tendenze:
- affermarsi di un cinema d’autore che privilegia soprattutto un discorso sull’uomo e sulla sua dimensione
esistenziale, attraverso modalità di rappresentazione che contribuiscono a determinare e, allo stesso
tempo, che si rifanno alle logiche del cinema della modernità (Antonioni, Fellini)
- esordio di giovani registi in cui il carattere dei film è esistenziale e si mescola più chiaramente a distanze
politiche espresse soprattutto nelle forme di una rivolta individuale, con uno stile che si richiama più
esplicitamente a quello della nouvelle vague francese (Bertolucci, Bellocchio)
- gruppo che esalta la componente politica e sociale a scapito di quelle esistenziale in una serie di film sotto
forma di inchiesta che denunciano le storture della società (Rosi, Petri)

Tutte queste tendenze sono accomunate da un lavoro di ricerca espressiva, quindi lontani dalle forme del
cinema classico; assumono le forme proprie del cinema della modernità.

A fianco dell’ambito autoriale vi è quello del cinema di genere, dominato dalla commedia all’italiana,
capace di offrire uno sguardo caustico, grottesco e deformante dell’Italia del boom e delle caratteristiche
dell’italiano medio (Risi, Monicelli, Comencini, Scola). Oltre alla commedia vi è poi il western all’italiana e il
cinema thriller, rappresentati da Sergio Leone e Dario Argento.

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- Bertolucci → giovane autore del cinema italiano, vicino ai modi di intendere il cinema propri della
nouvelle vague; egli si caratterizza per i costanti riferimenti cinefili, la vocazione sperimentale,
un’evidente adesione ai modelli del racconto autobiografico e in prima persona; ha un certo gusto
per l’ambiguo, l’enigmatico e l’attenzione ai meandri della psiche. Diventerà un regista capace di
realizzare grandi produzioni internazionali, di mediazione fra le istanze di un cinema d’autore e
quelle del grande spettacolo. Esordisce nel 1962 con La commare secca, tratto da un soggetto di
Pasolini. Si tratta di una rappresentazione personale fatta attraverso un linguaggio filmico originale,
che si caratterizza per l’uso di un tempo non cronologico, per flashback che si interrompono l’un
l’altro, per l’assunzione di diversi punti di vista. Nei suoi film affronta diversi temi, tra cui la crisi di
una generazione disillusa, la condanna della società borghese, il tema dell’identità e della sua crisi,
il tema del doppio, il tema della contestazione e della crisi della contestazione, del cinema e della
demistificazione del cinema come spettacolo. Affronta la realtà politica e sociale con toni che
talvolta diventano fortemente psicanalitici. Il tema della ricerca d’identità è al centro di Ultimo
tango a Parigi (1972), uno dei più grandi successi cinematografici internazionali e film scandalo per
eccellenza degli anni ‘70; esso è simbolo dell’impossibilità di esistere fuori degli schemi e delle
convenzioni della storia, del fallimento di ogni tentativo di uscire dalla propria condizione. Nel 1987
gira L’ultimo imperatore, kolossal vincitore di ben nove Oscar dai toni biografici e intimistici, che
utilizza un approccio psicanalitico accanto a grandi e spettacolari scene di massa. Gli ultimi film di
Bertolucci sono di natura intimista, ad esempio nel 2012 gira Io e te, dal romanzo omonimo di
Ammaniti. Aspetti essenziali dell’opera di Bertolucci sono: il cinema, il sesso, la psicanalisi, la
gioventù e la politica.

- Bellocchio → insieme a Bertolucci è l’autore che meglio rappresenta le istanze di radicale


rinnovamento del nuovo e giovane cinema italiano degli anni ‘60; nella sua poetica troviamo la
rivolta anarcoide, l’intento provocatorio, la critica violenta e beffarda, un’attenzione per la
psicoanalisi e per le ambiguità del comportamento umano… La sua opera d’esordio, I pugni in tasca
(1965) fu un vero e proprio manifesto; si tratta di un film su una famiglia della media borghesia
italiana, provinciale e meschina, che utilizza toni accesi, violenti, grotteschi e volutamente
sgradevoli; lo stile del film è immediato, volutamente sciatto, con la macchina da presa sempre a
ridosso dei personaggi, quasi fosse un’opera amatoriale. Nelle opere successive allarga i suoi temi a
carrierismo politico, corruzione familiare, squallore della vita di provincia, critica sia al presunto
riformismo sia al velleitarismo estremista di certa sinistra. Con il 1968 e la rivolta giovanile, gli
intenti politici si fanno più chiari; Bellocchio tenta la strada di un cinema alternativo e realizza
alcuni documentari militanti, impegnati nella lotta politica e ideologica. Nel 1972 ritorna al cinema
di finzione con Nel nome del padre, in cui, autobiograficamente, rivive la propria educazione
religiosa. Si tratta di una metafora della società italiana dei primi anni ‘70, e si pone come modello
di cinema politico metaforico, in contrapposizione a quello spettacolare e a quello militante.
L’impegno politico e militante porteranno l’autore a porre attenzione al disagio mentale, attraverso
un documentario, realizzato all’interno di un manicomio di Parma, che faceva proprie le battaglie
per il reinserimento dei malati di mente nella società.
Nella sua opera attacca tutte le istituzioni: la famiglia, la politica, l’educazione religiosa, il mondo
della stampa, gli istituti psichiatrici, l’istituzione militare… Successivamente, chiuso il periodo più
esplicitamente politico e militante della sua carriera, si muoverà in una direzione più intimista, dove
le componenti psicanalitiche verranno messe in primo piano. Con gli anni 2000 realizza alcuni dei
suoi film più convincenti, con un rinnovato sguardo critico nei confronti di certe contraddizioni della
società, di ordine politico ma anche e soprattutto morale.

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- Fratelli Taviani → il loro cinema si muove su istanze politiche ed esistenziali, ma, in molti dei loro
film, lo sguardo sul presente, in particolare quello sulle contraddizioni della lotta rivoluzionaria, è
mediato da un uso metaforico del passato e dalla proposta di un cinema dalle esplicite valenze
intellettuali che brechtianamente vuole parlare alla mente prima che al cuore dello spettatore;
particolare è l’attenzione al rapporto fra realtà e messinscena. Affrontano i temi del fallimento
dell’azione rivoluzionaria e dell’utopia, della crisi dell’intellettuale impegnato, della denuncia
dell’avidità e della corruzione generata dalla sete di potere. Il loro cinema è attento all’uomo, alla
storia e alla società, capace nello stesso tempo di ricorrere a modalità di rappresentazione mai
appiattite ai modelli del cinema dominante (insistito ricorso a canzoni e danze → liberano i loro
film dai modi del verosimile). Essi si confrontano negli anni ‘90 con alcuni grandi classici della
letteratura, come per esempio Pirandello, Tolstoj, Goethe. L’impegno civile dei due registi, insieme
alla loro volontà di riflettere sui rapporti fra la realtà e la sua messinscena, è testimoniato anche dal
loro ultimo lavoro, Cesare deve morire (2012), che segue, mescolando fiction e documentario, le
prove teatrali di un gruppo di carcerati alle prese col Giulio Cesare di Shakespeare.

- Ferreri → la sua opera è caratterizzata da modi provocatoriamente anticonformistici e di esplicita


rivolta contro il sistema, spesso in forme grottesche se non apertamente surreali; la sua visione
grottesca, cinica e satirica della società, dominata da un umorismo nero, ricorda quella del cinema
di Buñuel. I suoi film realizzati in Italia in più di un caso suscitarono violente reazioni da parte del
mondo cattolico e della censura. Attraverso i suoi film, l’autore offre in chiave grottesca e surreale
una satira pungente dell’assurdità della vita dell’uomo, delle contraddizioni della società borghese
e della morale cattolica, attaccando frontalmente l’istituzione matrimoniale, e rappresentando i
rapporti fra i sessi come dominati da sfruttamento, emarginazione, crudeltà e mostruosità. Modi e
forme, temi e soggetti dei suoi film, dopo la crisi politica e ideologica del ‘68, rientrano in un
diverso rapporto fra cinema e realtà, spettacolo e pubblico, ed abbandonano certi toni un po’ alla
commedia all’italiana. La sua nuova poetica interpreta la condizione dell’uomo in una società che
l’ha svuotato di tutti i suoi più genuini valori e delle sue funzioni originali; l’osservazione si fa
distaccata, vi è la distruzione dello spettacolo, del racconto, che diventa quasi interamente fatto di
tempi morti. Pare che l’autore voglia dire che, se la realtà contemporanea non offre, nella sua
banalità e alienante ripetitività, soluzioni di ricambio, possibilità di mutazioni radicali, le uniche
soluzioni possibili sono l’atto gratuito, la fuga dalla storia, la negazione totale, la distruzione di ogni
struttura che falsamente rende tollerabile la convivenza umana. Egli denuncia il consumismo, il
disfacimento della carne, il ritorno al nulla; le sue opere evidenziano una poetica contestataria e
provocatoria, che assume aspetti dell’apologo. Egli indaga il tema della coppia come luogo
d’incontro, e soprattutto di scontro, fra l’elemento maschile e quello femminile.

- Olmi → egli fu autore soprattutto negli anni ‘60 e ‘70 di film sommessi e pacati, influenzati dal
neorealismo, capaci nel loro minimalismo di definire con altrettanta intensità psicologie individuali
insieme al contesto sociale di cui queste sono espressione. Ebbe esperienza nel documentario
industriale, che ebbe un peso fondamentale nei suoi primi film di finzione; egli gira film in ambienti
reali e con attori non professionisti; essi hanno toni realistici ed etico esistenziali, sono attenti alla
psicologia dei personaggi come alla definizione degli ambienti. L’autore conquistò fama
internazionale con il corale L’albero degli zoccoli (1977), Palma d’oro a Cannes, affresco storico del
mondo contadino bergamasco di fine Ottocento, dai risvolti fiabeschi (nonostante l’uso del dialetto
e di interpreti popolari). I film dell’autore sono costruiti su personaggi di scarso rilievo,
apparentemente insignificanti, ma che gradatamente vengono a costituire un punto di confluenza

145
di una più generale situazione sociale. I singoli fatti sono presentati in relazione alla psicologia dei
protagonisti, e testimoniano delle difficoltà di esistere all’interno di una organizzazione pianificata
della società, disumana e disumanizzante. Nell’ambito di un cinema intimista i film dell’autore
hanno una loro funzione anche di rottura nei confronti di un certo cinema contemporaneo e
provocatorio. In altri film si rintraccia una componente religiosa e spirituale.

Una delle tendenze principali del cinema italiano degli anni ‘60 e ‘70 è rappresentata da un cinema politico
di forte denuncia sociale che ha, in alcune circostanze, assunto i modi del film d’inchiesta senza, per questo,
vanir meno alla sua dimensione di finzione.

- Rosi → i lavori dell’autore sono esempi importanti del cinema politico di forte denuncia sociale; egli
può essere considerato il regista più coerente ed efficace assertore di un cinema civile, il cui intento
principale doveva essere una critica sociale e politica in modi e forme di forte incidenza
spettacolare, sempre sorretti, tuttavia, da un vigile senso del reale; il suo cinema vuole coniugare
un forte senso drammatico ai metodi dell’inchiesta e della denuncia, la finzione alla ricostruzione.
Tratta storie di mafia, camorra, speculazione edilizia, corruzione politica e complicità religiosa,
degrado, antimilitarismo. Del suo cinema d’inchiesta è esempio Il caso Mattei (1972), Palma d’oro a
Cannes. Il film tenta attraverso una struttura frammentata, l’accostamento di diversi materiali,
dalle testimonianze alle ricostruzioni documentarie, e i modi del reportage, di fare luce sulla
misteriosa morte del presidente dell’Eni. L’autore ha poi abbandonato i modi del film d’inchiesta,
continuando però a realizzare opere importanti, spesso partire da importanti testi letterari.

- Petri → altro protagonista del cinema politico italiano degli anni ’70; i suoi film più importanti si
caratterizzano per un racconto che procede per episodi giustapposti e a volte apparentemente
autonomi, piuttosto che per la progressione drammatica; egli opera un’accentuata simbolizzazione
del reale, che si traduce in una certa violenza metaforica, in toni a volte espressionistici, in uno
spiccato gusto per il surreale e il grottesco. La sua ampia filmografia comprende diversi generi, dal
dramma alla commedia, dal giallo alla fantascienza; tra questi spiccano i suoi film più propriamente
politici, in particolare sulla corruzione della società italiana contemporanea nei suoi vari aspetti
politici, economici, sociali. Egli utilizza toni espressionistici, di umorismo nero, e un certo metodo
brechtiano nel raccontare le sue storie.

- Scola → egli occupa un posto di rilievo per quanto riguarda la commedia italiana; la sua opera è in
realtà multiforme, solo in parte riconducibile a tale genere, di cui, tuttavia, egli fu uno dei più
autorevoli rappresentanti. Il cinema dell’autore si distingue per la sua capacità di collocare
personaggi di indubbio spessore psicologico in strutture narrative complesse, in grado di raccontare
con efficacia determinati contesti storici e sociali; egli si dedicò in prevalenza alla commedia di
costume, con forti venature critiche e satiriche, e una propensione verso il trattamento grottesco di
situazioni anche drammatiche. Nei suoi film ci sono accenti grotteschi, che si ritrovano per esempio
anche in Brutti, sporchi e cattivi (1976), premio per la miglior regia al Festival di Cannes. Tra i film
che in parte possono essere ricondotti alla commedia all’italiana c’è anche C’eravamo tanto amati
(1974), che ricostruisce con un abile gioco di flash back trent’anni di storia italiana, attraverso il
racconto dell’amicizia di tre ex partigiani che ricordano il loro passato di speranze e ideali venuti
meno o traditi. Il corpus di film da lui realizzati è caratterizzato dalla presenza di numerosi
146
personaggi attraverso cui tenta di rappresentare il senso di un’epoca colta nel suo sviluppo e nella
sua complessità. Tra gli aspetti centrali del suo cinema vi è l’incidere degli eventi della grande storia
nella quotidianità di quegli uomini e di quelle donne che, costretti a viverli, ne sono poi inevitabili
vittime.

Per quanto riguarda il western all’italiana e il cinema dell’orrore spiccano Sergio Leone e Dario Argento, i
cui primi film risalgono agli anni ‘60 e ai primi anni ‘70.

- Leone → si affermò nel 1964 con Per un pugno di dollari, un film western essenziale e rigoroso che
diede il via alla breve ma copiosissima stagione del western all’italiana. Il clamoroso successo del
film ne fece il primo atto della cosiddetta “trilogia del dollaro”, proseguita dall’autore con Per
qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto e il cattivo (1966). I caratteri del cinema di Leone, il
suo lavoro nel contempo di celebrazione e decostruzione dei modelli del western hollywoodiano,
l’incrociare di un violento realismo di superficie a istanze di natura mitica, conferiscono alle sue
storie un andamento cerimoniale, un umorismo ironico e nero, il gusto per una narrazione ellittica,
uno stile che si affidava a geometrie formali, a elaborati movimenti di macchina, ai intensi giochi di
sguardo, a stridenti effetti di montaggio senza soluzione di continuità; l’uso del tempo dilatato
esalta il momento dell’attesa insieme a quello dei grandi spazi enfatizzati. Tali elementi
raggiungono il loro punto più alto in C’era una volta il West (1968), grande metafora della fine dello
spirito di frontiera e dei suoi mitici eroi, girato nella Monument Valley di John Ford, intessuto di
citazioni di classici americani del genere, interpretato da divi hollywoodiani; si caratterizza da tempi
dilatati, dall’uso fortemente espressivo del montaggio, dall’efficace integrazione delle immagini alle
musiche. Nel 1984 gira C’era una volta in America, di produzione statunitense, a conferma del
carattere internazionale del suo cinema. Il film abbandona la tradizione del western per guardare al
genere gangsteristico. In questo film il lavoro sul tempo, centrale in tutto il cinema di Leone, si
mescola a quello del rapporto tra realtà, ricordo e immaginazione, attraverso una labirintica
struttura che utilizza continui flashback e flashforward. Leone ha influenzato notevolmente molto
del cinema successivo alla sua opera, per quanto riguarda il lavoro sul tempo narrativo, il gusto per
le citazioni, la capacità di mescolare cultura e cinema popolare, la propensione per le attrazioni e i
fuochi d’artificio audiovisivi che costellano i suoi film; è stato considerato uno degli anticipatori del
cinema postmoderno.

- Argento → anche nella sua opera troviamo il rapporto col cinema di genere, il successo e la fama
internazionale, il gusto per l’effetto audiovisivo concepito come attrazione tesa a sorprendere lo
spettatore. Egli, nella sua lunga e copiosa carriera, gira numerosi film gialli, thriller ed horror.
Rappresenta le tradizionali strutture del giallo, costruite intorno a un impianto logico razionale e
all’identificazione di un assassino, in modo antirealistico, privilegiando il colpo di scena e l’effetto
spettacolare alla verosimiglianza della ricostruzione. Nel 1975 gira Profondo rosso, in cui l’autore
apre ad una componente fantastica che dominerà la fase successiva della sua carriera, orientando il
suo cinema sul versante dell’horror. Il film è tutto giocato sul succedersi di emozioni visive, colpi di
scena, montaggio ad effetto ed un’ipnotica colonna sonora.

Michelangelo Antonioni e il cinema dell’alienazione

147
Antonioni fu esponente di un cinema antispettacolare che ebbe grande sviluppo negli anni seguenti i primi
anni ‘60. Nel 1960 gira L’avventura, che riscosse presso la critica e il pubblico, in particolare estero, grande
successo. Egli si opponeva a certi canoni del neorealismo; indaga la crisi dei sentimenti, l’incomprensione
fra gli esseri di una società che va progressivamente smarrendo il senso dell’uomo; fa un discorso generale
sulla condizione umana. Aspetto centrale della sua poetica è l’indagine di una realtà che sembra sempre
volersi sottrarre allo sguardo e alla comprensione umana. Altro tema fondamentale è per lui la condizione
dell’individuo in una società massificata. Con il 1957 e il film Il grido, vi è un drastico mutamento di indirizzo
formale nel lavoro del regista; è l’inizio di un’attività di ricerca espressiva in cui si fanno più evidenti alcune
caratteristiche essenziali del cinema dell’artista, come il rifiuto di una narrazione classica che gioca sui
meccanismi di causa ed effetto, al posto della quale si trova una successione di eventi che sembra affidarsi
alla logica del caso e dei tempi morti, dove i fatti contano più per quel che producono in chi li vive che per
quel che sono in sé e per sé; il montaggio perde la sua centralità, per lasciare spazio a lunghe riprese in
continuità e piani sequenza, votati a pedinare i personaggi nei loro vagabondaggi, tanto esteriori quanto
interiori; l’ambiente diventa un tutt’uno con l’angoscia esistenziale di coloro che lo percorrono. In
L’avventura il tema dell’alienazione nella società contemporanea è centrale, in particolare per ciò che
riguarda la donna e la coppia; l’alienazione è intesa come estraneità e indifferenza al mondo, assenza di
desideri ed emozioni, incomunicabilità e solitudine. Nei suoi film il linguaggio si fa eminentemente
figurativo, drammaticamente scarno, cadenzato su indugianti ritmi narrativi. Antonioni frantuma il racconto
in lunghe pause contemplative, ne distrugge le regole tradizionali, utilizzando finali aperti e puntando
l’attenzione su momenti statici, ma carichi di significato. Personaggi e ambienti perdono progressivamente
il loro carattere spettacolare per assumere una funzione in larga misura emblematica, metaforica;
diventano elementi essenziali di una rappresentazione quasi astratta del reale. Il discorso esistenziale si fa
più rigoroso, giungendo a volte alla stasi drammatica, alla noia, come condizione esistenziale per cogliere
dall’interno le contraddizioni dell’esistenza. L’avventura descrive un caso banale, attraverso un suo modo
giallo (genere che ricorre nella filmografia dell’autore), mettendo lo spettatore nella necessità di
partecipare intellettualmente più che sentimentalmente alla vicenda; egli opera una spietata analisi del
comportamento individuale, che sottende un giudizio negativo sulla vita di relazione e una critica alle
istituzioni della morale corrente. Antonioni elabora in modo definitivo un discorso sullo sguardo (che nei
film successivi diventerà esplicitamente un discorso sullo sguardo tecnologico, ossia quello della fotografia
e del cinema) sulle sue possibilità e i suoi limiti nel cogliere attraverso il visibile ciò che è visibile non è: il
mondo interiore degli individui, il mistero del loro essere e del loro relazionarsi con chi e ciò che li circonda.
Fa propria una poetica del dubbio e dell’incertezza. A metà degli anni ‘60, grazie al successo raggiunto,
firma con la MGM un contratto per cui girerà Blow-up (1967), storia di un fotografo che, ingrandendo una
fotografia, scopre una realtà sconosciuta. Il film può essere considerato un piccolo trattato di
fenomenologia dell’immagine e delle sue difficoltà a cogliere davvero un reale che si dà in forme ambigue e
imperscrutabili. La storia del fotografo è, al contempo, la storia di ogni uomo, il suo fallimento, lo stesso
fallimento dell’esistenza umana in un mondo incomprensibile. Antonioni chiude la sua “trilogia inglese” con
Professione reporter (1974); film che sviluppa contemporaneamente il tema dell’incapacità dell’uomo di
stabilire con la realtà un rapporto autentico, e quello dei limiti e delle possibilità del cinema come
strumento di rivelazione e rappresentazione della realtà stessa. Quello di Antonioni è un cinema che si
pone, esso stesso, come emblema di una civiltà altamente tecnologica, i cui strumenti non sono più in
grado di controllare la realtà, ma, anzi, impediscono quel rapporto autentico fra l’uomo e gli oggetti che è
alla base di ogni vita responsabile.

L’avventura (1960; Antonioni)

- trama scarna, in cui sembra non succeda quasi niente


- il regista voleva che il film si sviluppasse secondo necessità e non secondo un ordine precostituito

148
dall’esterno; vuole sovvertire le regole del cinema; Antonioni tenta di uscire dai modelli sociologici e
narrativi del neorealismo per imporre la nozione di un cinema sperimentale, analitico, attento al malessere
dei sentimenti, all’incerto e talvolta melodrammatico procedere delle esperienze individuali
- si tratta di un giallo singolare, psicologico, che ignora le regole del genere non soltanto per la scomparsa di
un personaggio che presto non interessa più, ma anche per i meccanismi narrativi, la lentezza, i lunghi e
dilatati piani sequenza, la comunicazione rarefatta, i tempi morti, il finale aperto
- i personaggi del film sono indolenti, indecisi e mediocri; la loro psicologia rarefatta; sono rappresentativi
del momento che il paese alle soglie dell’espansione economica sta attraversando
- tema centrale è l’instabilità dei sentimenti, la difficoltà della comunicazione e la vanità dell’esistenza
altoborghese; morte dell’amore, scomparsa dei sentimenti, sesso vuoto, incapacità di amare: sono aspetti
che si materializzano nelle coppie del film; nessuna coppia sembra salvarsi; uomo e donna vivono insanabili
e infelici inferni relazionali, si sopportano, si odiano, si tradiscono fino a sparire; dualismo uomo-donna
- il sesso è un tema ricorrente, sembra essere fatto per noia e appare malato perché nasce da un impulso
avulso dai sentimenti, come surrogato della comunicazione; è vuoto e sterile
- le donne sembrano essere le uniche a salvarsi dall’aridità del sentire maschile, a sollevarsi sopra la
mediocrità; si pongono domande, si logorano in tormenti inesplicabili; la protagonista che scompare, forse
suicida, sembra incapace di adattarsi alla società e alle convenzioni dell’epoca; scompare quindi come fosse
non collocabile nel suo tempo nel suo spazio
- attraverso i ritratti femminili il film, primo episodio sulla condizione della coppia e della donna nella
società, affronta le problematiche dell’incomunicabilità e della provvisorietà dei sentimenti; i sentimenti
sono scomparsi e così la capacità di comunicare e di comprendere; per esprimere questi elementi il regista
usa un linguaggio figurativo scarno, cadenzato, il racconto viene frantumato in lunghe pause contemplative,
in momenti statici privi di forte rilievo drammatico, distrugge le regole tradizionali; opera una
rappresentazione quasi astratta del reale
- i piani a strapiombo sul mare sembrano suggerire l’idea che l’inquieta protagonista sparita si data alla
morte
- questo film è il primo esempio del cosiddetto cinema dell’alienazione; la pellicola tende a dilatare gli
avvenimenti oltre i limiti consueti dello spettacolo in modo da contemplare la realtà umana e naturale,
mettendo lo spettatore nella necessità di partecipare intellettualmente più che sentimentalmente alle
vicende

Federico Fellini: la fantasia al potere

Fellini, anch’egli proveniente dal neorealismo ed affermatosi in Italia nei primi anni ‘50, è simbolo, a
differenza di Antonioni, di un cinema barocco, esplicitamente affabulato, perfettamente cosciente della
finzione dello spettacolo, che sa coinvolgere a livello emozionale più che razionale lo spettatore.

Antonioni e Fellini, per l’influenza che hanno avuto negli anni ‘60 e per il successo internazionale, indicano i
due aspetti contraddittori e divergenti del cinema moderno.

Fellini giunge al cinema attraverso il giornalismo satirico e umoristico e il fumetto; si forma nell’ambito del
neorealismo radicale di Rossellini, per cui scrive alcune sceneggiature. Lo spirito ironico e l’umorismo
sottendono tutta l’opera felliniana. Egli si pone presto in posizione critica verso il neorealismo, pur
accettandone in parte certe premesse contenutistiche e formali; inizia quel discorso autobiografico, un
continuo scavare nei ricordi del proprio passato, che mescola a realismo e magia. Nei primi film opera una
rappresentazione sfaccettata, sorretta da un gusto preciso per il particolare illuminante, che coglie i
caratteri peculiari di una esperienza di vita apparentemente superficiale ed evasiva, ma invece ben radicata
nella realtà sociale. Affronta diversi temi, tra cui quello del fallimento morale e del suo possibile riscatto sul
piano di una umanità autentica, in una sorta di misticismo laico. Il mondo dei ricordi d’infanzia ed

149
adolescenza rimbalza continuamente nei suoi racconti. Lo stile si fa sempre più personale e abbandona
progressivamente i canoni del primo neorealismo, introducendo elementi poetici espliciti; il simbolo è
introdotto per accentuare l’intento morale, la partecipazione sentimentale dello spettatore, e si
accompagna ad altre costanti dell’opera del regista come ad esempio il ricorso a tipi di personaggi, di
luoghi, di situazioni. Nelle opere della maturità Fellini si è imposto internazionalmente come uno dei
maestri del cinema contemporaneo. La sua poetica si è fatta più distaccata rispetto alla realtà, anche se
filtrata da un atteggiamento personalissimo, fantastico e irrazionale, di fronte ai singoli problemi
dell’esistenza. Si accentua l’autobiografismo di partenza, in una sorta di pubblica confessione. Traspare il
bisogno di parlare al pubblico delle proprie ansie e angosce, dei problemi ideologici e morali, ma anche dei
propri desideri e speranze; l’autore inizia un nuovo dialogo con lo spettatore, al di fuori delle regole
tradizionali dello spettacolo cinematografico, affidandosi ancor più che in passato, alla fantasia, all’estro,
all’improvvisazione. Questo suo nuovo atteggiamento si trova in La dolce vita (1960), Palma d’oro a Cannes,
in cui descrive una situazione esistenziale, chiaramente autobiografica ma sufficientemente emblematica
da superare i confini del diario intimo. Il film è una descrizione amara e angosciante della putrefazione
umana e sociale, che coinvolge la religione, il cinema, l’aristocrazia, gli intellettuali e i mass media. Lo
sfaldamento del racconto tradizionale è il riflesso formale della crisi di valori. Il film successivo è Otto e
mezzo (1963), da alcuni considerato la sua opera più matura e valida, attenta riflessione sul ruolo
dell’artista e la sua solitudine; esso riprende il discorso interrotto nel film precedente, ma questa volta gli
ambienti e i personaggi sono più chiaramente i simboli di una crisi esistenziale privata. Si tratta della storia
di un regista che non riesce a terminare il film cui sta lavorando, e la descrizione di questa crisi è minuziosa,
operata in toni e modi non realistici, con improvvise illuminazioni fantastiche e continue invenzioni formali;
Fellini dà dell’artista e dell’uomo un ritratto sfaccettato, problematico, inconsueto. Tratta il tema del
fallimento esistenziale. Con Fellini-Satyricon (1969) si richiama esplicitamente a Petronio e al suo romanzo,
giuntoci incompleto; il film è fatto di brandelli staccati, di episodi indipendenti; è un viaggio in mezzo a
un’umanità alla deriva; un affresco caotico, confuso, grottesco. Con l’inizio degli anni ‘70 Fellini introduce
nello spettacolo il discorso politico e sociale accanto ai motivi autobiografici, sempre nell’ambito dello
spettacolo affascinante e pirotecnico. Nel 1973 gira Amarcord, film and emblematico di altri aspetti
importanti del cinema del regista: memoria autobiografica che cede spesso il passo alla fantasia; coralità,
che si associa alla soppressione della figura del protagonista, o perlomeno a una sua riduzione al ruolo di
semplice osservatore; capacità di definire gli aspetti complessivi di certi momenti storici e di certe tendenze
sociali. Il film è l’ultimo grande successo di Fellini.

La dolce vita (1960; Fellini)

- film innovativo per la rottura narrativo strutturale rispetto al cinema del passato
- rappresentazione epica di dissolutezza e frenesie del mondo da rotocalco che ruota attorno a Cinecittà
(Roma), attraverso lo sguardo del protagonista, alter ego del regista
- struttura a episodi; pur nella propria unicità ogni episodio sembra costruito su una medesima struttura tre
tempi: adescamento, compromissione, disfacimento
- nella prima fase il protagonista si trova davanti allo splendore della vita mondana continuamente
celebrata dai rotocalchi; in seguito egli entra a farne parte in prima persona, per poi scoprirne dall’interno
lo squallore la desolazione; la pellicola è un’opera demistificatoria; la diva, l’aristocrazia, i miracoli, i salotti
intellettuali, sono smitizzati dallo sguardo corrosivo del regista
- il protagonista è un personaggio complesso, caratterizzato da una certa passività che ne determina i
fallimenti sul piano personale come su quello professionale
- neanche i tradizionali punti di riferimento, ragione e religione, sono più sicuri appigli per il personaggio
come per i regista; la religione non è più credibile; in conclusione resta una grande insoddisfazione, un
senso di impotenza

150
- il mondo fatuo della dolce vita rende il protagonista prigioniero, lo ingabbia, lo schiaccia e lo racchiude nei
suoi spazi; questo elemento è dato formalmente dal fatto che viene spesso inquadrato davanti a una sorta
di gabbia oppure incorniciato da effetti di quadro nel quadro che ne riducono lo spazio d’azione
- ogni figura femminile del film rappresenta un aspetto della donna; ognuna si contrappone alle altre ed è
fortemente stilizzata; vi è l’angelo puro e sublimato, la diva, l’oppressione materna… Lo sfaccettarsi della
figura femminile è un tema che sottende tutto il film e che sarà sempre caro a Fellini
- gli altri personaggi vagheggiano una figura di donna completa, che rappresenti una sintesi di tutti gli
aspetti della femminilità; la donna, però, non è più unitarietà e completezza, ma frantumazione di caratteri;
non è più punto di riferimento certo; nella dolce vita mondana perde le sue prerogative di madre e moglie e
diventa così una creatura destabilizzante, specchio di una mutata situazione sociale

Pier Paolo Pasolini, l’arte e lo scandalo

Nel panorama del cinema italiano degli anni ‘60 e ‘70, Pasolini si colloca come una figura isolata; è stato
autore di film che spesso hanno suscitato scandalo per la violenza degli assunti, per la sacralizzazione di un
mondo sottoproletario rozzo e volgare, per l’eterogeneità a volte stridente dei materiali usati (che
mescolano il sacro al profano, la carne e lo spirito…), per l’originale recupero del mito e della tradizione
pittorica italiana come strumenti atti a comprendere la realtà contemporanea e tutto ciò che vi è di
primitivo, per un’esplicita rappresentazione della sessualità vista sia come vita, sia come morte. Egli fu
poeta, scrittore intellettuale; esordì come regista nel 1961 con Accattone, in cui temi e forme dei suoi
precedenti romanzi trovano un originale corrispettivo filmico. Affronta temi come il sottoproletariato, i
ragazzi di vita, la periferia romana, una condizione subumana dell’esistenza… Supera criticamente il
neorealismo, trasponendo i dati immediati dell’esperienza attraverso uno stile colto, mediato dalla cultura
e dall’arte; nei suoi film descrive un variopinto mondo sottoproletario, fatto di magnaccia, delinquenti
prostitute, interpretati da attori non professionisti, rappresentato attraverso uno stile alieno ai modelli
classici, fatto di riprese per strada e voluti errori di montaggio, ma anche di immagini che si rifanno alla
pittura del trecento toscano, del quattrocento ecc.; nel film Accattone il protagonista appare di là da tutte
le sue nefandezze, a volte come un angelo, altri come un martire. Il tono sacrale del film è accentuato dalla
musica di Bach, utilizzata come colonna sonora. La religiosità dell’ateo Pasolini la si trova soprattutto nel Il
Vangelo secondo Matteo (1964). Il film è dedicato a Papa Giovanni XIII, è girato in Calabria e Basilicata, con
un abbondante uso della macchina a mano e di bruschi zoom alla maniera di un cinegiornale; il Vangelo
propone l’immagine di un Cristo predicatore, combattivo, impaziente e nello stesso tempo ascetico; si rifà
alla pittura del Quattrocento ma anche al cinema di Ejzenstejn, usa ancora la musica di Bach, affiancandola
a degli spiritual. Il film è brutale e realistico, lo stile eclettico, contaminato dalla cultura cinematografica,
letteraria, pittorica, musicale… È un impasto espressivo che già poneva le basi per quel cinema di poesia
che in quegli anni l’autore andava elaborando attraverso dei trattati teorici. Nel 1996 gira Uccellacci e
uccellini, viaggio ininterrotto, nel tempo e nello spazio, di un padre, di un figlio e di un corvo che parla come
un intellettuale marxista, sino al momento in cui i due uomini, stanchi delle parole dell’animale, finiscono
col mangiarselo; si tratta di un apologo sul ruolo dell’intellettuale e sull’incapacità dell’ideologia comunista
di far fronte ai reali bisogni del proletariato.
Gira successivamente film più legati al presente e al clima del ‘68; film estremamente violenti e
volutamente irritanti sulla crisi dei valori della società borghese. Con gli anni ‘70 pare che gli obiettivi del
regista siano nuovamente mutati; egli si dedica a uno studio della carnalità, dell’eros, come elemento
tragico che accomuna tutti gli uomini; indaga il sesso come costante dell’esperienza umana, attraverso film
che sono anche un’attenta meditazione del rapporto tra arte e vita; opera un grande affresco sulla
carnalità, osservata e descritta in tutte le sue manifestazioni e da tutti gli angoli possibili.
L’ultimo film di Pasolini, quello che più ha suscitato scandalo per una crudeltà che va al di là dei limiti del
sopportabile, è Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975); fa del sesso violenza e sopraffazione, in un viaggio,

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anche politico, nei recessi più oscuri dell’animo umano. Il film verte su quattro eminenti fascisti che
segregano in una villa un gruppo di giovani e li sottopongono a inenarrabili sevizie per soddisfare il loro
piacere, facendo così una metafora del potere come male e prevaricazione; vero e proprio testamento
artistico e morale, si rifà a de Sade, e agli ultimi giorni della Repubblica di Salò; compone un’opera in cui le
immagini spesso si mostrano nella loro intollerabilità. La loro violenza esplicita e il loro intrinseco potere
accusatore, passa anche attraverso uno stile che si fa volutamente piano, privo di ornamenti e retorica, che
denuncia tanto la morale quanto la politica.

Il Vangelo secondo Matteo (1964; Pasolini)

- trascrizione molto fedele del testo biblico; film è strutturato in episodi, scene chiuse in sé come sono i
capitoli del testo sacro, con i suoi salti temporali, le sue ellissi narrative, e uno stile molto asciutto nel
raccontare la realtà
- film costruito intorno alla figura umanissima di Cristo; nel Cristo pasoliniano viene messa in luce l’umanità
più che la divinità; è un Cristo medievale, severo e duro in certe espressioni, carico di tristezza e di
solitudine; tuttavia, è comunque dotato di molti tratti di dolcezza e mitezza; reagisce, però, con rabbia alla
falsità; con questa rappresentazione Pasolini restituisce Cristo agli uomini, dipingendo appunto un Cristo
pieno di contraddizioni, violento, iracondo
- Pasolini ateo è profondamente attratto dalla figura di Cristo e dal suo messaggio
- i primi piani di Gesù, ascetico e combattivo, vengono alternati a composizioni memori della pittura
quattrocentesca con tutta la sua brutalità realistica, evidente soprattutto negli indemoniati, nel lebbroso,
nella sequenza della crocefissione
- il regista opta per una scrittura filmica liberissima, utilizzando molto la macchina a mano, ricorrendo
spesso a campi lunghissimi o a primi piani molto ravvicinati; Pasolini riprende con primi piani
ravvicinatissimi l’umanità brutalmente imperfetta e autentica, gli attori sono non professionisti

17. IL CINEMA EUROPEO DEGLI ANNI SESSANTA E SETTANTA

Modernità e cinema d’autore in Europa

La nascita e l’affermarsi di un nuovo cinema della modernità, radicalmente differente dal cinema classico,
non è un fenomeno circoscritto alle realtà francese, italiana, inglese; il fenomeno contagia tutta l’Europa,
come ad esempio anche i paesi socialisti, la Germania, ma anche in Nord e sud America, il Giappone…
Negli anni ‘60 esplode poi il fenomeno del cinema d’autore i cui protagonisti (Antonioni, Fellini, Kurosawa,
Tati, Bresson, Godard, Truffaut, Bunuel, Bergman, Losey…) sono investiti di un prestigio culturale, di
un’aura artistica e di un’attenzione da parte dei media sino ad allora sconosciuta per un regista
cinematografico. Il lavoro dell’autore tende a estendersi a tutte le fasi della lavorazione del film, che egli
controlla in prima persona, con una particolare attenzione alla sceneggiatura. Il film d’autore tende a
liberarsi da scorie di tipo commerciale e presenta contenuti spesso complessi; pur non rinunciando alla
dimensione narrativa esplora nuove possibilità di espressione.
Questi cambiamenti impongono un nuovo tipo di spettatore, invitato a vivere l’esperienza filmica non solo
come ricreativa ma anche, e soprattutto, come occasione di accrescimento culturale. Lo spettatore non è
più un soggetto passivo, ma è invitato a partecipare attivamente alla decifrazione semantica e culturale del
film. Inoltre, il film d’autore è tale anche perché è parte di un’opera complessiva, composta dai film di uno
stesso autore, con cui dialoga riecheggiandone contenuti e forme e che testimonia una ben precisa visione
del mondo, così come una visione del cinema (discorso continuativo).

Ingmar Bergman, o “del silenzio di Dio”


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Il regista svedese inizia la sua attività nel primo dopoguerra; questa si sviluppa intensamente nel periodo
immediatamente successivo. È influenzato dall’opera di Sjostrom e dal realismo poetico francese, in
particolare da Carné. Già le prime opere anticipano diversi aspetti di quella che sarà la filmografia del
regista: uso dei primi piani, specie quelli femminili, come specchio e scavo interiore dell’animo umano;
lunghe e intense riprese che scrutano con insistenza ciò che si trova davanti alla macchina da presa;
attenzione al rapporto fra realtà e sua rappresentazione; consapevolezza metacinematografica; recupero
delle forme del cinema muto; espressionistico intrecciarsi del reale con il mondo dei sogni e degli incubi.
Nel suo stile realismo ed espressionismo paiono fondersi in una grande unità espressiva; la sua
rappresentazione lavora sul tempo estendendone e fissandone la durata. Affronta i temi della crisi dei
valori morali e dei sentimenti, con implicazioni spesso religiose legate all’assenza o al silenzio di Dio, del
dubbio esistenziale, delle difficoltà della vita di relazione, dei conflitti generazionali, della solitudine (spesso
femminile) e della finitezza dell’uomo, dell’immanenza della morte, delle pulsioni che si nascondono dietro
alla maschera della rispettabilità. Tra i suoi capolavori che ne condensano l’intera poetica vi è Il posto delle
fragole (1957). Al centro di questo film vi è il dramma dell’esistenza, nelle sue varie manifestazioni morali e
filosofiche, ideologiche e religiose; il film ripercorre la vita di un uomo alle soglie della morte attraverso la
successione di una serie di episodi, sogni e ricordi, che sono le tappe di una lunga e intensa meditazione
sulla fragilità della vita umana.
Negli anni ‘60 realizza una serie di film che depurano la struttura drammatica e la forma espressiva dei temi
affrontati; progressivamente i film del regista si fanno quasi astratti nel voler sintetizzare, in una situazione
esistenziale dilatata oltre i limiti delle convenzioni drammaturgiche, i gravi problemi della società
contemporanea, visti attraverso l’esperienza dell’individuo, centro focale della narrativa del regista. La
metafora, il simbolo, nascono da quel realismo minuzioso che rimane la caratteristica peculiare dello stile
del regista; egli indaga con la cinecamera i volti, gli sguardi, i silenzi, gli ambienti vuoti, il paesaggio
scarnificato, alla ricerca dell’essenza del reale. In questa essenzialità il discorso si fa più profondo e
angosciante, problematico, provocatorio. Lo stile del regista attribuisce una grande importanza all’uso della
luce, fatta spesso di intensi contrasti, e dei primi piani del volto umano. Fondamentale è per l’autore il
lavoro degli attori che egli considera il materiale più prezioso di cui dispone un regista. Egli invita i suoi
attori a rivolgersi direttamente verso la macchina da presa e allo spettatore. Tutte queste caratteristiche
fanno dell’opera di Bergman uno straordinario esempio di cinema da camera.
Il posto delle fragole offre una sintesi di tutte le tematiche a Bergman più care; crisi di coppia, ricerca del
divino, paura della morte, solitudine dell’uomo moderno: si tratta di tematiche che affronta anche nei molti
film dei decenni seguenti.

Il posto delle fragole (1957; Bergman)

- storia di un anziano professore che si deve recare all’università per essere insignito di un’onorificenza;
durante il viaggio ha modo di ripensare alla sua intera esistenza
- il film è una descrizione di un viaggio nel tempo, nel passato, nella fantasia; alle vicende del viaggio si
alternano sogni, incubi, flashback che danno corpo al dramma dell’esistenza nelle sue varie manifestazioni
morali e filosofiche, ideologiche e religiose; i singoli episodi di cui si compone il film sono quindi le tappe di
una lunga e intensa meditazione sulla fragilità della vita umana
- autobiografico, il film espone con impeccabile rigore ossessioni e problemi che, muovendo dal groviglio
della psiche, finiscono per riflettere le inquietudini della classe borghese e di un paese isolato dell’Europa
(Svezia)
- vi si ritrovano il tema della memoria proustiana, il tema dell’alienazione dell’individuo, l’analisi delle
pulsioni inconsce rivissuta attraverso l’esperienza del surrealismo, il realismo magico, il recupero
dell’irrazionalismo nietzschiano, l’irrimediabile lacerazione esistenziale provocata dall’unione e dallo
scontro dei sessi

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- il protagonista durante il viaggio affronterà anche il tema della fede
- il film è una sorta di singolare road movie e una riflessione sulla solitudine, che sul piano formale accoglie
gli stilemi dell’espressionismo onirico e il naturalismo quotidiano
- verso la fine della pellicola, il ritmo sincopato si distende così come l’angoscia del protagonista si scioglie;
il protagonista comincia a pensare di poter vivere ancora attraverso i suoi giovani compagni di strada e
l’affetto della nuora; sembra quindi che l’amore sia la risposta all’angoscia di vivere
- la sceneggiatura del film è una sorta di romanzo psicologico di grande spessore letterario; può essere letta
come una storia di conversione dall’egoismo al riconoscimento della necessità di affetti autentici

Il cinema iconoclasta di Louis Buñuel

I primi film che Buñuel realizzò furono quelli dell’ambito surrealista, in cui si esplicava una poetica e una
estetica, una concezione del mondo, che voleva sovvertire gli schemi tradizionali della vita morale e sociale
attraverso il recupero del sogno, della fantasia, senza per questo abbandonare l’impegno politico. La
matrice surrealista è rimasta inalterata in tutta l’opera dell’autore, accentuandosi semmai negli anni ‘60 e
‘70, nella piena maturità, in forme diverse, dal dramma popolare alla commedia raffinata, dal romanzo
d’avventure o di appendice all’apologo. Lo stile si è andato raffinando. L’aggressività formale è andata
accrescendosi con l’uso di una sottile ironia, elemento fondamentale della poetica dell’autore. Spesso le
sue opere appaiono come un’accozzaglia di elementi diversi e inconciliabili; dal sogno a realismo minuto,
dalla banalità alla raffinatezza… Tali squilibri, inverosimiglianze, costituiscono in realtà il fascino sottile e la
ricchezza tematica dell’opera. Il suo discorso è sotteso da un certo moralismo e da un impegno nel mettere
a nudo le ipocrisie, le falsità, i tabù e più ancora la violenza economica e ideologica della società borghese,
la sua aggressività.

Giunto a Parigi nella piena stagione dell’avanguardia egli si è affermato con Un chien andalou (1929) e L’age
d’or, realizzati in collaborazione con Dalì. Egli lavorò poi a New York e a Hollywood come doppiatore; in
Messico, nell’immediato dopoguerra, riprese un’intensa attività di regista confezionando una ventina di
film di vario genere in cui si ritrovano i grandi temi della sua poetica: l’amore la morte, gli atti mancati,
l’erotismo e l’attacco blasfemo alla religione ufficiale, la critica sociale e l’avventura onirica, la violenza e la
tenerezza… Diversi e complementari capitoli di un grande romanzo, popolare, sulla condizione umana,
sorretto da uno sguardo ironico e percorso dalla cultura dell’inconscio che si rifà a de Sade e Freud.
Torna poi in Europa dove realizza Viridiana (1961), Palma d’oro a Cannes, un film in cui ritornano i temi
della sconfitta del modello cristiano, del fallimento delle buone intenzioni quando costrette a confrontarsi
con la realtà delle cose; questo film apre l’ultimo periodo della carriera di Buñuel, quello del suo rientro nel
circuito internazionale. Il regista qui trova una maggior compostezza formale rispetto a una certa
trascuratezza che segnava la sua opera precedente; tuttavia, essa rimarrà comunque una caratteristica del
suo lavoro, in corrispondenza con quel rifiuto della bella forma propria del surrealismo. Motivi surrealistici
e più in generale i rapporti fra realtà e fantasia si fanno ancora evidenti; la dicotomia realismo-surrealismo
è risolta con uno stile che pone sul medesimo piano della rappresentazione i diversi livelli espressivi; i
momenti onirici e quelli reali sono messi in scena allo stesso modo creando un’unità narrativa e una
continuità spettacolare. Anche le sequenze più naturalistiche dei film dell’autore si caricano sempre di
significati ulteriori, rimandano continuamente a un’interpretazione poliedrica del reale. Ritroviamo nel
cinema europeo del regista i suoi temi e motivi più cari portati a maturità: lo spirito anarchico, il gusto
iconoclasta, la violenza antiborghese e anticlericale, l’attenzione all’inconscio e a temi di ordine
psicanalitico, come l’atto mancato, il desiderio, la sessualità in tutte le sue possibili manifestazioni
(feticismo, necrofilia…), la dialettica di Eros e Thanatos e un evidente umorismo nero. Frequente è il ricorso
a sequenze oniriche o di immaginazione; queste sono di natura ambigua e si rivelano come tali solo durante
il loro svolgersi o alla fine.

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Viridiana (1961; Buñuel)

- storia di una ragazza che prima di prendere i voti va a trovare lo zio che tenta di usarle violenza; lo zio si
suicida e la giovane decide di accogliere i poveri nella sua proprietà, ma i mendicanti aggrediscono chi li
ospita
- nel film sono ravvisabili tutte le tematiche dell’autore: religione, erotismo, feticismo, masochismo,
movimenti dell’inconscio
- vi è un insistito feticismo del piede
- la giovane somiglia tanto alla moglie defunta dello zio per cui questi le chiede di indossare l’abito da sposa
che era stato della moglie; di fronte a questa immagine lo zio cede alla tentazione di baciarla; Viridiana è
narcotizzata; la scena è sacrilega, la violenza viene effettuata sul simulacro di un cadavere oltre che su una
fanciulla votata a Dio
- l’irreligiosità dell’autore è evidentissima; vi sono dei sarcasmi sulla fede cristiana anche sul piano del
sonoro; vi è una musica sacra diegetica ed extradiegetica che ricorre continuamente; ricorrono inoltre
simboli fallici e cristiani
- la sconsacrazione dell’iconografia cattolica è evidente nella parodia dell’Ultima cena di Leonardo che è
ricomposta dai mendicanti dopo un’orgia; irriverenza
- il cristianesimo è per l’autore un momento decisivo e originale della degradazione della storia e
dell’asservimento dell’uomo a valori falsi e mortali
- vi sono diversi richiami ad opere pittoriche (Goya…)
- l’autore propone una dialettica di sguardi sulla realtà tra pittore e cineasta che funziona lungo la
prospettiva surrealista dello spaesamento, dello spostamento, della contestualizzazione, dell’umorismo o
anche dell’irrisione e del sarcasmo

Joseph Losey: fra ambiguità e decadenza

Losey arriverà al successo negli anni ‘60; egli porterà avanti una lunga battaglia contro l’industria dello
spettacolo, prima in America poi in Europa; con rigore denuncerà le contraddizioni della società
occidentale, e porterà avanti un’intensa ricerca stilistica. La ricerca di base del suo stile cinematografico è il
rapporto fra l’immagine e la parola, la necessità di trasferire in termini visivi la pregnanza semantica della
parola. Il suo cinema è un cinema di personaggi e di relazioni interpersonali, percorso da inquietanti
interrogativi sulle ragioni morali, psicologiche e di potere che li governano. Rappresenta i recessi e
l’ambiguità di fondo dell’identità umana e della sua dimensione esistenziale attraverso, soprattutto nei
primi anni della sua carriera, il genere noir. Tra i suoi temi indaga le pulsioni razziste della società
americana. Nei primi anni della sua carriera incontra sovente seri ostacoli con la produzione, e i suoi film
sono interrotti e ripresi, a volte terminati da altri. Il clima politico e culturale dell’America del tempo gli è
ostile. Egli sarà incriminato per attività antiamericane; l’autore decide quindi di trasferirsi in Gran Bretagna.
Il regista usa gli schemi del genere noir per portare avanti quello che è il tema di fondo della sua opera: la
difficoltà per l’uomo contemporaneo di vivere in una società disumana e quindi la sua solitudine, il suo
sconforto. Il suo cinema è segnato da personaggi ambigui e contraddittori; egli è interessato da aspetti
come quelli dell’ambivalenza, del doppio, della specularità di bene e male. Egli disegna un itinerario di
degradazione e disfacimento esistenziali; i suoi tre assoluti capolavori sono Il servo (1963), L’incidente
(1967), Messaggero d’amore (1971). In questi film rovescia la tradizionale dialettica di servo e padrone,
conferisce elementi torbidi e cinici all’inconciliabile odio di classe, attraverso modi narrativi da thriller e uno
stile barocco che esalta l’atmosfera di degrado e decadenza delle vicende narrate. Descrive poi il mondo
ipocrita universitario di Oxford. Successivamente si dedicherà a esistenziali ed eleganti adattamenti di Ibsen
e di Brecht.

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Il nuovo cinema in Unione Sovietica e nell’Europa orientale

Con il 20º Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, tenutosi nel 1956, il famoso rapporto
Krusciov diede l’avvio della destalinizzazione, il cosiddetto “disgelo”. Questo evento segnò l’inizio di un
periodo di speranze ed illusioni dopo la rigida politica di Stalin, morto nel 1953. Portò un profondo
rinnovamento a vari livelli della vita sociale, politica e culturale dell’Unione Sovietica ma anche dei paesi
socialisti dell’Europa orientale. Questo nuovo clima, tuttavia, fu anche segnato da sanguinose repressioni:
repressione della rivolta ungherese del 1956, Primavera di Praga del 1968, costruzione del muro di Berlino
del 1961… Questo periodo favorì la nascita di un nuovo cinema teso al superamento dei modelli e della
retorica del realismo socialista e più attento all’uomo concreto, inserito in una realtà sociale indagata per
quanto riguarda i risvolti drammatici e problematici della quotidianità. In diverse occasioni, in particolare
per quanto riguarda il cinema polacco e cecoslovacco, vi fu un rinnovamento estetico che fece proprie le
istanze provenienti dalle coeve esperienze di rinnovamento delle nouvelle vague occidentali. In Unione
sovietica, dove il controllo del potere centrale era più forte, l’insorgere di un nuovo cinema fu meno
spiccato che in altri paesi dell’Europa orientale; si risolse in una nuova attenzione all’elemento umano, al
privato e al sentimento… Fra i protagonisti della transizione dal vecchio al nuovo ci furono: Cuchraj,
Kalatozov, Romm, Skolimowski, Tarkovskij, Polanski…

Tra gli elementi di novità ci furono l’uso di tecniche nuove come la macchina a mano, oltre all’attenzione
verso il quotidiano e l’apertura alla dimensione soggettiva immaginaria. Si accentua l’interesse per i
problemi psicologici; si medita sul significato della vita, sui rapporti generazionali, sul valore dei sentimenti;
la cinecamera indaga sulla realtà quotidiana, sui fatti minuti, nelle psicologie dei personaggi. Vi è la
demolizione dell’eroe positivo staliniano.

Negli anni ‘60 il cinema polacco vede l’esordio di Roman Polanski. Fin dai primi cortometraggi si ravvisa il
suo gusto per assurdo, che lo segnalò alla critica internazionale. Tra i suoi temi, l’insofferenza dei giovani
nei confronti della società polacca del tempo. Il lavoro dell’autore è caratterizzato da simbolismo, unito a
una sottile e ambigua ironia, a un gusto del grottesco e del difforme. Questi aspetti si ritrovano
maggiormente accentuati e con valenze più problematiche e conturbanti nelle opere che realizzerà in
Europa e in America. Realizza vari film claustrofobici, con pochi ambienti, personaggi e dialoghi che sono al
tempo stesso una lucida analisi degli squilibri di una società massificata in cui l’individuo è annullato.
L’autore si rifà, con una certa frequenza nella sua opera, a talune correnti dell’horror film e in particolare a
Psyco di Hitchcock, accumulando effetti drammatici e di tensione spettacolare sino allo scioglimento finale
del dramma, non privo di risvolti ironici e grotteschi. Tra i diversi elementi della sua poetica vi è la
componente freudiana, quella surrealistica, il gusto del barocco e del grottesco, l’uso metaforico dello
spazio, il simbolismo, il realismo, il comico, il tragico; le sue storie sono spesso circoscritte in tempi e spazi
limitati. Polanski analizza senza pietà le contraddizioni della società occidentale e l’ipocrisia della vita di
relazione. Tali aspetti si trovano in Rosemary’s Baby (1968); il film ha cadenze da film dell’orrore, è
claustrofobico, sospeso tra realtà e allucinazione. Vi è un discorso sulla società contemporanea, sulle
contraddizioni e le angosce di un sistema di vita che ha smarrito i valori dell’uomo. Si tratta di un’orribile
avventura di una giovane americana, moglie di un attore alle prime armi, coinvolta in un complotto di
stregoneria ordito ai suoi danni da un gruppo di adoratori di Satana, consenziente il marito che spera in tal
modo di fare carriera. In seguito, Polanski parve per alcuni anni condizionato dalla tragedia che sconvolse la
sua vita privata, la barbara uccisione della moglie, ad opera di Manson e della sua setta nel 1969. Nel 1971
gira un film che è considerato al tempo stesso la trasposizione simbolica dell’efferato delitto e la sua
liberazione dall’incubo della morte: si tratta della trascrizione cinematografica del Macbeth
shakespeariano, tutta tenuta sui toni della violenza e del sangue, allucinata e feroce, pagana e barbarica,
dilatata in una dimensione di terrore che ne rivela i risvolti autobiografici. Egli torna ai temi della
persecuzione razziale con Il pianista (2002), Palma d’oro a Cannes e Oscar per la migliore regia; tratta le

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vicissitudini di un giovane pianista ebreo che sopravvive al ghetto di Varsavia (la famiglia dell’autore fu
vittima di deportazione).

Il “disgelo” in Cecoslovacchia dà vita alla Nova vlnà, ossia nuova ondata; i registi che formarono il gruppo di
questa tendenza, dopo il 1968, a causa della violenta repressione della Primavera di Praga e del
conseguente inasprirsi della censura governativa, furono costretti al silenzio o emigrarono in Occidente.
Anche qui il cinema si è allontanato dai modelli del realismo socialista, dalla sua vocazione pedagogica fatta
di schematiche certezze, privilegiando l’individuo, la sua singolarità e le sue contraddizioni. Tra gli autori di
questa corrente vi è Forman, attento ai risvolti psicologici dei personaggi e alla descrizione puntuale degli
ambienti ed acuto osservatore di comportamenti umani e sociali; è autore di una serie di commedie
generazionali. L’autore, dopo essere stato vittima della censura in patria, emigra negli Stati Uniti, dove
inizia di fatto una nuova carriera. Il film americano di maggior successo è Qualcuno volò sul nido del cuculo
(1975), storia di un criminale che per evitare l’arresto si finge pazzo; porta in questo film la critica del
carattere repressivo dei paesi socialisti al mondo occidentale e alla sua massificazione.

Insieme a Polonia e Cecoslovacchia, il terzo paese socialista che più marcò gli anni ‘60 del cinema europeo
fu l’Ungheria.

Il nuovo cinema in Germania

Nel 1962 alcuni giovani cineasti tedeschi firmano un manifesto in cui si scagliano contro la mediocre e
corriva produzione commerciale del cinema tedesco dell’epoca, proponendo invece un cinema nuovo nelle
idee e nel linguaggio, libero dalle condizioni dell’industria. Ha origine lo Junger Deutscher Film, movimento
che esalta l’importanza del cortometraggio come scuola e campo di sperimentazione del film a soggetto.
Nel 1964 viene istituito un organismo statale che erogava finanziamenti agli esordienti; grazie a tali fondi
furono realizzati nella seconda metà degli anni ‘60 i primi film di diversi nuovi registi della corrente, fra cui
Kluge e Reitz. Si affermano nuovi talenti tra cui Wenders e Fassbinder.

Il movimento prende poi il nome di Neuer Deutscher Film; si tratta di uno degli eventi di maggior rilievo
della storia del cinema degli anni ‘70 e ‘80. Vi è un evidente interesse sociale e politico verso la società
tedesca, verso il suo passato come il suo presente, un rigore espressivo talvolta sperimentale, un’iniziale
politica fatta di autoproduzioni e budget contenuti; il nuovo cinema tedesco si disperde in una miriade di
soluzioni poetiche e stilistiche che differenziano in grande misura i suoi autori. Tuttavia, grazie all’opera di
questi autori la Germania aveva di nuovo un proprio cinema che sapeva rifletterne contraddizioni, tensioni,
ambiguità. Viene ripresa la grande lezione brechtiana; essa è trasferita dal teatro al cinema in una nuova
riconsiderazione critica dei legami e delle interferenze fra i due generi di spettacolo.
Alcune poetiche si caratterizzano per il rifiuto radicale della spettacolarità e delle consuete forme narrative;
vi è un rifiuto dei modelli della finzione, una proposta di cinema allo stato puro fatto di semplici immagini in
movimento, attraverso lunghi piani fissi, assenza di narrazione, lettura integrale di testi, recitazione
straniata, contemplazione della natura, organizzazione in capitoli e presa diretta.

Kluge riprende la lezione brechtiana per realizzare film-collage tra finzione e documentario; è una figura
preminente del nuovo cinema tedesco, portabandiera di un rinnovamento contenutistico e formale che
tendeva a superare i 20 anni di stasi artistica e produttiva del dopoguerra e i precedenti 10 anni di
involuzione politica e culturale del periodo nazista. Egli offre uno spaccato della Germania del
neocapitalismo e dei suoi rapporti con il proprio drammatico passato, utilizzando diversi tipi di documenti
(interviste, fotografie, canzoni, cartelli) e uno stile tipicamente moderno fatto di macchina a mano, jump
cut e alterazioni della normale velocità di scorrimento dell’immagine; fa ricorso a foto storiche, cinegiornali,
opinioni comuni, spezzoni di altri film e opera una riflessione sulla condizione dell’intellettuale nella

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Germania dell’epoca; i suoi film sono un atto d’accusa verso una società avida di denaro che ben poco
spazio sembra lasciare alle utopie individuali; tra i suoi temi vi è l’attenzione ai personaggi femminili.

Herzog è una delle figure più originali ed estreme del nuovo cinema tedesco, ma anche di tutto il cinema
contemporaneo. La sua opera è divisa fra documentari e film di finzione; si tratta di una continua sfida alle
leggi che regolano la vita umana anche attraverso la presenza di personaggi impegnati in imprese
impossibili, spesso destinate al fallimento. Il suo è un cinema visionario, in aperta polemica con il cinema
diretto, incapace secondo il regista di andare al di là della superficie delle cose; egli punta a una verità
profonda e nascosta tramite il ricorso all’invenzione, all’immaginazione, alla stilizzazione. Egli è un
cercatore di storie ed esploratore dell’insolito; si è spinto nei più lontani, impervi e sconosciuti luoghi del
pianeta realizzando film difficili, la cui lavorazione è essa stessa una sfida. All’insegna della sfida è anche la
vita dei suoi protagonisti, nani, sordociechi, folli, vampiri, reclusi, selvaggi, mistici o semplicemente reietti
ed emarginati, ossessionati da un folle desiderio, o in lotta contro gli handicap cui sono costretti, o
prigionieri di un destino a loro imposto. Nel 1978 giri era un omaggio a Murnau, Nosferatu, principe della
notte; qui Dracula più che un mostro è quasi la quintessenza di quegli emarginati posseduti da una qualche
dannazione che ritornano spesso nei suoi film.

Fassbinder è un autore molto legato al teatro; il suo cinema fu una fucina di idee, di immagini, di parole e
soprattutto di riferimenti, rimandi, ricordi. Il tema centrale è il passato, il presente e il futuro della
Germania. Egli ha una certa vocazione al melodramma che cerca di congiungere a una forte tensione verso
la metafora sociale, attraverso la rappresentazione di relazioni sentimentali sempre segnate da una logica
di potere, dipendenza e sopraffazione, dove la dialettica di vittima e carnefice assume spesso coloriture di
classe o di razza. Un primo periodo formalmente più sperimentale e legato ai moduli del nuovo cinema
europeo fu seguito da un secondo più vicino ai modelli classici, pur all’insegna di una voluta ed esibita
teatralità molto attenta alla dimensione scenografica, e a una narrazione che mira, anche attraverso un
vero e proprio senso fisico della passione, a un forte coinvolgimento dello spettatore sul piano emotivo
(senza che però vi sia un annichilimento della capacità critica). Passa quindi dallo sperimentalismo al
coinvolgimento emotivo dello spettatore. Inoltre, quasi tutto il suo cinema mette spesso in gioco il
rapporto fra arte e vita; egli si scaglia contro il conformismo, lo sfruttamento e l’oppressione del diverso,
dei deboli e degli emarginati.

Wim Wenders: fra Europa e America

Tra gli autori tedeschi formatisi nell’ambito dello Junger Deutscher Film, vi è Wenders, aperto alle più varie
esperienze cinematografiche e culturali. È con la trilogia della strada che egli s’impone all’attenzione
mondiale come uno dei più interessanti registi della sua generazione; si tratta di storie di viaggi; tra questi
film vi è Nel corso del tempo (1975). In queste opere porta alle estreme conseguenze contenutistiche e
formali la sua idea di un cinema e di un racconto “aperto”, che segua a passo a passo l’evoluzione dei
personaggi attraverso gli impercettibili mutamenti interiori che scaturiscono dal fatto stesso di muoversi, di
spostarsi da un luogo all’altro, anche se talvolta questo movimento è falso e non produce alcun
cambiamento. Si tratta di una nuova visione e rappresentazione del reale, in cui i fatti quotidiani, le azioni
banali, i tempi morti acquistano un significato forte, intenso, che va al di là del simbolismo. Il regista segue i
suoi personaggi nelle loro peregrinazioni di luogo in luogo. Ne viene fuori una rappresentazione in cui
l’occhio meccanico della macchina da presa si identifica con quello del regista; viene evidenziata la
sostanziale fragilità e continua mutevolezza dei personaggi. A volte pare che il movimento dei personaggi
non sia altro che il lasciarsi trasportare dalle cose, dai fatti, dalle situazioni; la narrazione è costituita da
ritmi allentati, dove accade poco, e da una ricerca di essenzialità che si traduce anche nel ricorso al bianco e
nero. Elemento centrale di tutta l’opera del regista è la ricerca di un punto di incontro fra la tradizione del
cinema americano e quella del cinema europeo, che diventa un’attenta riflessione sui rapporti fra

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immagine e racconto, da una parte, e cinema e realtà dall’altra.

Nel corso del tempo (1975; Wenders)

- film costruito sul modello narrativo del viaggio, inteso come strumento di conoscenza esistenziale dei
personaggi e riflessione sulla stretta connessione, anche metaforica, che lega il cinema al movimento
- vi si ritrova la sensazione visiva ed emotiva del movimento che sta alla base del cinema dell’autore; la
macchina da presa è sempre attenta a seguire lo spostamento dei personaggi e dei mezzi sui quali
viaggiano, con veloci e lunghe carrellate dal e sul camion
- protagonista del film è il cinema stesso
- il viaggio trasforma il film stesso nel prototipo di un cinema esplorativo; si aggancia al documentario nella
sua vocazione all’osservazione, e la narrazione si sviluppa anche come sguardo esistenziale che affonda nel
vero
- vi sono molti rimandi al mondo del cinema muto, comico, al teatro delle ombre cinesi…
- protagonista è, metalinguisticamente, il cinema stesso, inteso come arte del tempo, come fascinazione,
come spettacolo di massa e opera d’autore, ma anche e soprattutto come industria e commercio, come
somma di lavori anche umili rivisitati con affetto (come quello del protagonista che gira la Germania e
ripara proiettori); il cinema coincide qui, quindi, con la pellicola, ma anche con il cinema europeo, fatto di
uomini, parole, filosofia e viaggio, che viene visto come un immaginario destinato a scomparire, schiacciato
dalla macchina industriale hollywoodiana; tale confronto diventerà uno dei motivi ricorrenti del cinema
dell’autore
- la sceneggiatura del film è scritta giorno per giorno sul set
- il film prende corpo tra le sale cinematografiche lungo un tratto della cortina di ferro che divideva e
opponeva all’epoca le due Germanie; alla costante tematica del viaggio risulta così legato direttamente il
motivo della frontiera, entità inevitabile con la quale i personaggi si trovano a fare i conti nel corso del loro
itinerario
- sotto il profilo narrativo il viaggio si caratterizza come un accumulo disordinato, immotivato, di azioni,
gesti, contrattempi legati alla naturale e imprevedibile banalità dell’esistenza; di qui la necessità di una
narrazione lenta, intenta a seguire il percorso dei personaggi per restituirne la continuità del
comportamento
- quello che conta è il fatto stesso di spostarsi, di percepire il mondo e sé stessi in movimento; il movimento
è inteso come intensificazione dell’esperienza
- il film è una testimonianza sulla fine di un certo cinema, quello dei padri, dei maestri dell’espressionismo,
di Lang, di Murnau… È un film tramite cui il regista prende commiato dai padri cinematografici
- la storia parla anche del difficile rapporto tra padri e figli e rappresenta pure la problematica chiusura dei
conti della prima generazione post nazista con l’epoca hitleriana
- Si tratta di un’opera polisemica, che fotografa le inquietudini generazionali di due trentenni alle prese con
i loro problemi esistenziali e le loro solitudini

18. CRISI E RINASCITA DEL CINEMA AMERICANO

Hollywood negli anni 60: la crisi

Negli anni ‘50 il sistema produttivo hollywoodiano è in crisi a causa dell’avvento della televisione e del
drastico calo di affluenza nelle sale cinematografiche. Per contrastare questi fenomeni si cercò di fare del
cinema il più grande spettacolo del mondo, anche attraverso il colore e il cinemascope. Ci si rivolse a un
nuovo pubblico, quello giovanile, attraverso nuovi divi, come James Dean, Marlon Brando, Elvis Presley.
In questo contesto le produzioni indipendenti incominciavano a farsi più attive, con la realizzazione di

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b-movie dai soggetti forti e oltraggiosi (sesso, violenza, musica, orrore, fantascienza) particolarmente adatti
ad un pubblico giovanile. Tale processo fu favorito anche dall’abbandono del Production Code, ispirato alle
regole del Codice Hays, che fu sostituito da un più blando sistema di valutazione che suddivideva i film in
diverse categorie: da quelli per tutte le età a quelli ristretti ad un pubblico maggiorenne.

Negli anni ‘60 questi fenomeni perdurano, e in alcuni casi si accentuano, accrescendo le difficoltà delle
major, più lente, rispetto agli indipendenti, nel tener conto di quella frantumazione del pubblico, e dei suoi
nuovi gusti, che faceva sì che i tradizionali film “buoni per tutta la famiglia” non fossero più una garanzia del
loro successo commerciale. Data significativa di questa crisi fu il 1963, anno di realizzazione di Cleopatra
(Mankievicz), pensato come un blockbuster, ovvero un film di grande produzione dal successo garantito,
che si rivelò invece un clamoroso fallimento portando alla rovina la 20th Century Fox. Altre mega
produzioni seguirono lo stesso destino. In questa situazione le major si vedono costrette ad aprirsi alle
produzioni indipendenti, a lungo osteggiate, e a distribuire i loro film. Molti studi persero la loro
indipendenza entrando a far parte di gruppi economici di dimensioni più ampie, fra questi la Paramount e
la MGM. Nel corso di questa situazione di crisi, ma anche di fermento, gli anni ‘60 del cinema
hollywoodiano vedono ancora all’opera diversi autori e registi di primo piano provenienti dal muto: Ford,
Hawks, Hitchcock ma non solo: anche Welles, Houston, Kazan, Fuller, Wilder, a cui si aggiungono Siegel,
Edwards, Lewis…

Siegel → attraversa molti e diversi i generi, predilige il poliziesco; gira L’invasione degli ultracorpi (1956)
Edwards → opera nell’ambito della commedia sofisticata; gira Colazione da Tiffany (1961)
Lewis → opera nell’ambito del genere comico

Nel corso degli anni ‘50, e soprattutto ‘60, il cinema hollywoodiano ha lasciato sempre più spazio alle
produzioni indipendenti e a basso costo, che a volte permettevano ai registi una maggiore libertà
espressiva di quella concessa dalle più conservatrici major. Il cineasta che meglio ha rappresentato questo
passaggio, sapendosi legare ai gusti delle nuove generazioni, è stato Corman; regista ma soprattutto
produttore, nei suoi film ci sono evidenti riferimenti alla cultura del romanticismo e del surrealismo,
all’estetica psichedelica, alla psicanalisi e a un certo contesto sociale segnato da insofferenza, anarchia,
ribellismo. Egli ha girato opere appartenenti a diversi generi, dall’horror alla fantascienza, dal western al
gangster film, dai teenagers movies al soft-core. Dopo la direzione di diversi film di vario genere si è
occupato quasi esclusivamente di produzione, favorendo l’esordio di alcuni giovani registi, come Coppola e
Scorsese, e attori, come Jack Nicholson e Robert De Niro.

Nascita della New Hollywood

Nel corso degli anni ‘60, la società americana vive grandi trasformazioni legate sia alle speranze connesse al
riformismo della presidenza Kennedy (eletto nel 1960; ucciso tre anni più tardi), sia alle ansie della guerra in
Vietnam (1965-1972). Si sviluppa così nel paese un ampio movimento di opinione e contestazione, di
giovani, di intellettuali e di minoranze, in diverse forme:
- opposizione al conflitto in Vietnam
- rifiuto di presentarsi alla leva
- ripudio dei modelli di vita proposti dal capitalismo e dal consumismo
- rivendicazioni di una maggiore libertà sessuale e omosessuale
- lotte per l’emancipazione dei neri guidate da Martin Luter King o, su posizioni più radicali, da Malcolm X
- contestazione nelle università e più generale fenomeno della controcultura; esso va dalla letteratura dei
poeti e romanzieri della beat generation (Ginsberg, Kerouac) alla nuova e più politicizzata musica country e
rock (Dylan…), sino alle proposte di vita comunitaria, di rifiuto della famiglia e di uso delle droghe leggere
del movimento hippy

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A questa serie di movimenti non poteva essere estraneo il cinema, che contribuì alla loro definizione, al
loro sviluppo e ne rifletté le istanze. Ciò avvenne soprattutto in due ambiti nettamente distinti, quello più
radicale, sperimentale e d’avanguardia del New American Cinema (o cinema underground) e quello della
cosiddetta New Hollywood, espressione con cui si indica il rinnovamento e la ridefinizione di molti aspetti
del cinema americano, da quelli produttivi a quelli di contenuto e di stile, verificatisi nel corso degli anni ‘60
e ‘70, durante i quali il cinema riprese la sua funzione di testimonianza del costume sociale e politico
contemporaneo, di provocazione intellettuale, di indagine critica, di contestazione ideologica al sistema.

I caratteri della new Hollywood sono stati in buona parte definiti da alcuni film che si affacciarono sugli
schermi americani in quegli anni (fra il 1967 e il 1969):
- Il laureato – Nichols (1967)
- Gangster Story – Penn (1967)
- Un uomo da marciapiede – Schlesinger (1969)
- Easy Rider – Hopper (1969)

Il laureato, una produzione indipendente cui successo di pubblico portò al premio Oscar, mette
efficacemente in scena il conflitto generazionale e la critica al perbenismo borghese. Il successo del film fu
determinato anche dalla colonna sonora di Simon & Garfunkel (che ha il merito di inaugurare quel binomio
cinema-canzoni che sarà un tratto costitutivo della New Hollywood) e da una certa audacia sessuale; è la
storia di un giovane sedotto da una più matura signora (Miss Robinson).

L’opera che più di altre può essere assunta a vero e proprio manifesto del nuovo cinema americano, in
alcuni dei suoi aspetti più radicali, è Easy Rider: libertà e paura; ancora una produzione indipendente. Il film
presenta delle importanti novità sul piano della narrazione e dello stile; innanzitutto si tratta di un film on
the road, elemento che determina il fatto che esso sia girato al di fuori degli studi e che abbia un
andamento narrativo episodico, che pone in secondo piano il classico meccanismo giocato sul rapporto di
causa ed effetto tipico del racconto hollywoodiano. Il film include numerose scene dedicate alla corsa delle
due motociclette che si costituiscono come pause narrative e dilatano i tempi del racconto; tali scene si
avvalgono spesso di un accompagnamento musicale costituito da canzoni rock strettamente legate alla
cultura giovanile e alternativa del periodo (Hendrix, Dylan…). Altri elementi di originalità espressiva del film
sono i flashforward che anticipano il drammatico finale, il montaggio discontinuo, l’uso accentuato di
teleobiettivi o, all’opposto, di grandangoli, gli insoliti movimenti di macchina.

Il successo di tali film, dei loro temi (sesso, violenza, prostituzione, droga) e dei loro giovani personaggi
(borghesi ribelli e in crisi esistenziale, fuorilegge, prostituti, hippies) fece capire a Hollywood quanto il
pubblico fosse cambiato e quanto di conseguenza la produzione dei grandi studi dovesse tenerne conto.
La New Hollywood può essere vista come una sorta di compromesso fra le istanze del tradizionale cinema
hollywoodiano e quelle delle nouvelles vagues e del cinema d’autore europeo.
Altro aspetto dell’influenza del cinema europeo su quello americano è la rivalutazione della figura
dell’autore, sostanzialmente estraneo alla logica dello studio system; oltre alle università un altro grande
ambito di formazione dei registi della Nuova Hollywood è la televisione. Si sviluppa quindi una concezione
dell’autore inteso come primo responsabile del film a discapito del suo produttore; a questo processo ha
contribuito anche lo sviluppo del cinema indipendente. Aspetto importante di questa nuova
consapevolezza autoriale è la nascita di un nuovo polo produttivo, New York, sede di lavoro di molti cineasti
del nuovo cinema americano e di registi come per esempio Scorsese e Allen.
Fra i temi principali della Nuova Hollywood vi sono la critica ai temi del sogno americano, che diventa un
incubo; il rifiuto dei principi di vita proposti dal capitalismo e dal consumismo; la raffigurazione di realtà
emarginate o di contestazione; la scelta di esperienze di vita alternative; l’attenzione al malessere e
all’alienazione esistenziale; una franca e diretta rappresentazione della violenza e del sesso.
Sul piano dell’articolazione narrativa delle scelte stilistiche il nuovo cinema americano non arriva alla

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radicalità di quello delle nouvelles vagues europee, anche se ne è influenzato.
I film della New Hollywood si caratterizzano per una narrazione più aperta, libera, aneddotica,
frammentata, relativamente lenta e fatta di tempi più rispetto al passato; i personaggi sono meno
determinati e più incerti di un tempo; vi è una maggiore vicinanza alla realtà e ai suoi luoghi piuttosto che al
mito. In sostanza il cinema diventa più di riflessione che d’azione (drammatica, avventurosa, o comica): più
sporco e meno patinato. Vi è l’irruzione di figure di linguaggio, dai raccordi sbagliati all’uso della macchina a
mano, dallo zoom al piano che indugia più a lungo del dovuto, estranee alle logiche del découpage classico.
Tuttavia, gli effetti di stile più evidenti della Nuova Hollywood sono i montaggi veloci e i ralenti nelle scene
d’azione, l’uso di canzoni che accompagnano immagini mute → aspetti che sembrano appartenere ad una
logica più propria del cinema spettacolare che a quello della modernità. Inoltre, molti dei film della New
Hollywood sono a loro modo dei film di genere, come accadeva nel cinema americano classico; si tratta
tuttavia di film che visitano i generi, ne usano gli stereotipi per demolirne i tradizionali miti, per esempio
quelli della conquista dell’ovest e dell’american way of life. In sostanza ne fanno dei nuovi generi o dei
generi d’autore. Tra i generi rivisitati un posto in primo piano è quello assunto dal western, in cui talvolta la
conquista dell’ovest è vista come un barbaro trionfo del capitalismo e viene inserita in un discorso fra
nostalgia e violenza, individualismo e analisi critica della realtà sociale (Peckinpah, Hellman, Altman…).
Alcuni western diventano dei discorsi metaforici sull’uomo e sulla società; gli autori utilizzano i temi e le
figure del western, ma li depurano dei loro orpelli spettacolari, in uno stile povero, disadorno, essenziale,
un tempo lento, dei personaggi enigmatici → anti-western. Le rivisitazioni di genere degli anni ‘70 offrono
efficaci ricostruzioni di certi aspetti della società americana, fortemente critiche verso i suoi miti.

Nuove storie e nuovi personaggi si accompagnano anche a nuovi divi → Robert De Niro, Jack Nicholson,
Dustin Hoffman, Al Pacino → radicalizzano quelle figure di antieroi che avevano già iniziato ad affermarsi
negli anni ‘50 con Marlon Brando e James Dean e di cui offrono una versione più dimessa, mite, debole ed
alienata.

Successivamente si afferma un secondo gruppo di registi che forse più dei precedenti ha contribuito non
solo alla rinascita del cinema americano ma anche a quella della stessa Hollywood, e di un cinema di grande
spettacolo che ripropone, in termini aggiornati, certi fasti del passato. Questi registi hanno segnato non
solo la storia del cinema degli anni ’70; essi continuano a farlo anche nei decenni successivi fino al nuovo
millennio: si tratta di Coppola, Scorsese, Spielberg, De Palma, Cimino, Malick, Allen…

Nella seconda metà degli anni ‘60 si è sviluppato, sull’onda della contestazione giovanile, della protesta
nera, della rivolta anarchica, della cerchia della nuova sinistra americana, un cinema militante,
politicamente impegnato, ideologicamente approfondito: si tratta dei collettivi della Newsreels che
nascono a New York e San Francisco agli inizi del 1968; essi si concentrano in una produzione
documentaristica, povera quanto aggressiva e immediata, che si configura come uno strumento ideologico
e politico (Kramer).

Il New American Cinema

La vera rivolta contro Hollywood nasce lontano dagli studi cinematografici delle grandi case; essa nasce nei
piccoli circoli culturali a San Francisco e a New York, nelle università e fra gli artisti d’avanguardia. Si tratta
di un tipo di cinema realizzato con pochi mezzi, tra sperimentalismo e autoespressione, che fu definito
underground. Esso è sotterraneo in un duplice senso: sia perché non veniva alla luce del sole (era cioè
sconosciuto alla maggior parte del pubblico), sia perché trattava temi e problemi nuovi in modi e forme
inconsueti. Tale cinema sotterraneo si fece alla fine degli anni ‘60 manifesto, ottenendo in certi casi un
certo successo di pubblico (per esempio quello di Andy Warhol).
Il cinema underground non nasce, tuttavia, all’inizio degli anni ‘60; ha origini più antiche, che risalgono
162
all’avanguardia storica, al movimento dadaista e surrealista degli anni ‘20 su cui si è costituita tutta quanta
l’avanguardia cinematografica americana dagli anni ‘20 agli anni ‘40, alla quale direttamente o
indirettamente si chiamano parecchi di questi artisti. Un ruolo importante della formazione del cinema
underground fu anche quello del clima politico e culturale che segnò il paese negli anni ‘50 e ‘60 (rivolta
giovanile contro le guerre di Corea e del Vietnam, consumismo e benessere economico, movimento dei neri
americani, nascita della controcultura – letteraria, teatrale, artistica).

Nel 1959 viene realizzato a New York il film Pull My Daisy; alla realizzazione collaborarono lo scrittore
Kerouac, Ginsberg… Si tratta della fusione delle diverse esperienze artistiche, delle varie rivolte individuali
nei diversi campi del romanzo, della poesia, delle arti figurative → queste trovano proprio nel cinema un
terreno comune. Si tratta di un film punto-chiave nella storia del cinema underground.

Questo cinema riguarda un ambito di interessi molto più politicizzato di quello precedente; riprende la
migliore lezione della scuola di New York e dell’ultimo Flaherty.

C’è una sorta di convergenza, o meglio di reciproca interferenza, di elementi diversi della contestazione
americana nella formazione delle componenti ideologiche, politiche, culturali, artistiche del cinema
underground. Esso è dato da: tradizione europea della rivolta dadaista e surrealista + patrimonio della
cultura americana riformista e progressista degli anni ‘30.
Accanto all’anarchismo, alla rivolta gratuita o individualistica, al rifiuto delle convenzioni, all’impegno
politico, alla critica sociale, agli intenti rivoluzionari, si trova una visione sostanzialmente ottimistica
dell’uomo e della società, una speranza di cambiare le cose, di mutare i rapporti fra gli uomini.
Tuttavia, le speranze create dalle l’amministrazione Kennedy hanno davvero vita breve. Nel clima di guerra,
di paura del nucleare ecc. si accentua la disperazione, che era una delle componenti della rivolta
underground, che assume però un carattere nichilista: sii passa dal dipingere personaggi disperati che
provocano nello spettatore una rivolta morale, una presa di coscienza sociale e politica, a dipingere
disperati e basta, che denunciano anzi la totale disperazione dell’autore, ormai incapace di una rivolta
morale che si traduca in una rivolta politica.

I film realizzati nel corso degli anni ‘60 e dei primi anni ‘70 da questi autori indipendenti si collocano
all’interno di un cinema impegnato, che fa un discorso legato all’esperienza interiore dell’uomo, alla
liberazione della sua individualità dai legami costrittivi di una società repressiva. Si tratta in prevalenza di
film autobiografici, in cui l’urgenza di esprimere le proprie sensazioni vitali o di coinvolgere gli altri nella
sfera della propria intimità è preminente.
Il rifiuto della forma è per molti di questi autori il rifiuto dell’arte, come esperienza sostanzialmente
alienante al pari della morale borghese e dell’ideologia capitalistica e liberale. Per altri, invece, la continua
sperimentazione formale è il mezzo di rivelazione della propria esperienza di vita.
Si tratta di una produzione numericamente molto abbondante, contrassegnata da varietà e complessità; in
essa convergono diverse esperienze, come ad esempio forme radicali di documentarismo sociale, di cinema
diretto al rifiuto della componente narrativa, di istanze di liberazione della beat generation, di modelli
proposti da nuove correnti artistiche come la minimal e la pop art, di rifiuto della bella forma, di ricerca
espressiva di tipo strutturalista, di film lirici, soggettivi e idealistici, di una nuova più franca
rappresentazione della sessualità e dell’omosessualità…

L’artista che meglio ha rappresentato sul piano dello scandalo e della moda, anche per via dei contenuti
sadici e voyeuristici di alcuni suoi lavori, un certo modello di cinema underground è il pittore Andy Warhol,
uno dei più noti rappresentanti della pop art. Egli pose la firma a una serie di film a 16mm, non sempre o
per intero realizzati da lui in prima persona, in un evidente attacco alla tradizionale figura dell’artista come
creatore della propria opera. In alcuni dei suoi primi film la macchina da presa si limita a riprodurre ciò che
accade davanti; il tempo della rappresentazione coincide sempre con quello del tempo rappresentato, e
tutti i fatti sono ridotti a puri accadimenti fenomenici, in una specie di assoluta indifferenza etica ed
163
estetica, fondata sui principi della neutralità e dell’impassibilità, dell’improvvisazione e della casualità, che è
la chiave di lettura dell’opera iperrealista di Warhol e della sua concezione dell’artista come di una semplice
macchina. Alla fine degli anni ‘60 egli denuncia un maggior interesse, comunque molto relativo, nei
confronti della composizione narrativa e drammatica che coincide con l’introduzione del sonoro, prima da
lui non utilizzato.

Verso un cinema tecnologico

I rapporti con le arti figurative, le questioni concernenti una nuova visualità e i problemi tecnico-espressivi
che il cinema aveva sollevato nel clima delle varie avanguardie artistiche e letterarie, furono ripresi e
approfonditi in una lunga serie di sperimentazioni che porteranno gradualmente verso l’uso delle
tecnologie più avanzate, in direzione del computer cinema che fa parte integrante della computer art.
Il cinema tecnologico si richiama direttamente alla prima avanguardia (anni ‘20) e alle sperimentazioni
successive, come per esempio quelle dell’opera di Fischinger. Si tratta di un cinema il cui interesse è di
natura soprattutto tecnica, verso un’utilizzazione del nuovo mezzo nelle sue più varie e complesse
possibilità espressive.

Fischinger realizza inizialmente una serie di Studi (1929-1932) in cui forme geometriche si muovono su un
fondo nero al ritmo di brani musicali jazz o classici. Negli anni ‘30 indaga la natura stessa dell’arte dei suoni,
ed è in stretto contatto con musicisti e studiosi, tenta i primi esperimenti di musica concreta,
cinematografando lunghe strisce di carta su cui ha disegnato linee e forme che, una volta fotografate e
trasmesse attraverso la cellula fotoelettrica, producono suoni e rumori. Da un cinema bidimensionale
l’autore approda a quello tridimensionale, cioè all’animazione di oggetti nella profondità di campo,
introducendo inoltre nella composizione il colore.

Alcuni artisti d’avanguardia poi tentarono di approdare a un cinema concreto, cioè realizzato senza
cinecamera; inventore di questa nuova tecnica espressiva fu Lye. Egli realizzò nel 1935 Colour Box, un film
sperimentale, costruito fotogramma per fotogramma utilizzando direttamente la pellicola come supporto
per linee e colori; si tratta di una delicata fantasia cromatica e ritmica (cinema d’animazione).

Anche McLaren fece una serie di ricerche nel campo dell’animazione. Egli si dedicò a una sistematica
sperimentazione nei più diversi settori dell’animazione, dal disegno diretto su pellicola all’animazione di
elementi di carta ritagliata (découpage), di oggetti (stop motion), di esseri viventi (pixillation) e di quadri, a
tecniche più elaborate come quelle della slow motion animation, che consente particolari effetti di
sdoppiamento delle immagini. Egli sviluppò, sul piano di un artigianato di alta classe, un discorso artistico
che si contrappone a quello tecnologico del computer film; ma il suo rigore tecnologico-formale non poteva
che condurre a un cinema in cui la tecnica, ormai controllata elettronicamente, diventa essa stessa stile,
contenuto espressivo interpretazione della realtà.

“I ragazzacci del cinema” e il ritorno di Hollywood

Gli anni ‘70 vedono una grande ripresa del cinema hollywoodiano, sostenuta dall’incasso vertiginoso di
alcuni film che, pur non perdendo del tutto il loro legame con i toni critici e disincantati dei primi lavori
della New Hollywood, lo risolvono in termini di grande spettacolo, affidandosi a grandi produzioni e quindi
anche allo sviluppo della tecnica, grazie ai grandi effetti speciali. Questi fattori spingono nuovamente il
sistema hollywoodiano verso la politica dei blockbuster e, per ridurre al minimo i rischi del fallimento, nella
direzione di un controllo più rigido del lavoro degli autori. Alcuni di questi reagiscono divenendo essi stessi
produttori. Tra i lavori che in quegli anni hanno grande successo statunitense e internazionale, vi sono film
come: Il padrino (1972; Coppola), L’esorcista (1973; Friedkin), Lo squalo (1975; Spielberg); su tutti Guerre
Stellari (1977; Lucas) che fu il trionfo assoluto di un immaginario puro il cui legame con la realtà è poco.
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Molti dei registi di questi film sono i cosiddetti “movie brats”, i “ragazzacci del cinema” (Coppola, Spielberg,
Lucas, Scorsese, De Palma, Cimino…) che avevano perlopiù frequentato le università di cinema, fatto nuovo
nella storia di Hollywood, maturando una grande passione cinefila. I loro esordi erano stati parte integrante
di quel rinnovamento, anche in chiave autoriale, proposto dall’iniziale New Hollywood. Saranno proprio
loro a traghettare l’industria hollywoodiana, dopo un momento di crisi, verso un nuovo cinema di
spettacolo, di immaginario, di intrattenimento e di meraviglia in un progressivo passaggio alle forme del
postmoderno.

Coppola → Egli rappresenta bene le due facce della New Hollywood. Nel corso della sua carriera ha tentato
spesso il dialogo con le major, cercando un punto d’incontro tra la macchina industriale, da una parte, e la
propria dimensione autoriale (fatta anche di ricerca espressiva e di sperimentazione tecnologica), dall’altra.
Egli è stato anche il produttore di alcuni suoi film e di quelli di altri registi. Alla Paramount ebbe la
possibilità di girare un film a grande budget: Il padrino (1972), dal romanzo di successo di Puzo. La storia
gira intorno all’attività criminale mafiosa di una famiglia. Il padrino travalica decisamente gli ambiti del
gangster film per farsi una tragedia dai toni shakespeariani di iniziazione al crimine e spietata lotta per il
potere, che è anche una metafora dell’America capitalista e della sua storia recente. Il film è fatto di
immagini buie e inquadrature fisse; fu un grande successo e contribuì a lanciare l’epoca dei blockbuster.
Vinse tre premi Oscar. I suoi esiti commerciali spinsero alla Paramount a realizzare un nuovo capitolo,
secondo quella logica dei sequel che si affermerà sempre più nella Hollywood degli anni ‘70 fino ai giorni
nostri; Il padrino, parte seconda (1974), che accentua ulteriormente le dimensioni tragiche e di affresco
storico e metaforico del primo episodio, e dove l’America è rappresentata come una terra di corruzione,
tradimenti e violenze; la denuncia dei rapporti tra mafia e politica è più che esplicita. I due Godfather, con
Apocalypse Now, costituiscono il punto più alto di quella mediazione coppoliana fra cinema d’autore e
cinema di spettacolo. Il film più importante di Coppola è probabilmente Apocalypse Now (1979), un’epica
rappresentazione della guerra del Vietnam. Nei film successivi egli sperimenta le tecnologie offerte dal
video elettronico e dal computer, per creare nuove immagini e nuovi effetti di luce e di colore con esplicite
finalità espressive. Il suo film più discusso e apprezzato è Dracula di Bram Stoker (1992), una rilettura del
mito di Dracula come di un angelo caduto; il film è fitto di riferimenti al cinema; si impone soprattutto per
le sue straordinarie invenzioni visive che esprimono i sentimenti e la soggettività dei personaggi, non
attraverso le nuove tecnologie, bensì tramite il recupero di vecchie tecniche come le iridi, le dissolvenze, la
sovrimpressione e l’uso del colore.

Spielberg → Abbraccia presto un’idea di cinema di grande spettacolo, coinvolgente, facile alla commozione,
costoso, ricco di effetti speciali e adatto per un pubblico di tutti i paesi. Egli fa rinascere un cinema “per
tutta la famiglia”; tuttavia, ciò non significa che tutti i suoi lavori siano d’evasione, sia perché alcuni si
presentano come film a loro modo impegnati, sia perché anche quelli più leggeri non mancano mai di
riferimenti a certe contraddizioni della società. Dai suoi film ciò che emerge è innanzitutto un grande senso
dello spettacolo e la capacità di spingere lo spettatore a identificarsi con i protagonisti della storia, spesso
uomini hitchcockianamente comuni coinvolti in un’avventura straordinaria, e a vivere in prima persona i
sentimenti. Spielberg è il protagonista primo della rinascita del grande immaginario hollywoodiano, autore
di mega produzioni e spettacolari film di fantascienza e di avventura, che si trasformeranno quasi sempre in
redditizie macchine commerciali. Egli è stato anche produttore (istituzione della Dreamworks). Il grande
successo di pubblico lo trova con Lo squalo (1975); storia di caccia a uno squalo che fa strage di bagnanti. Il
film contiene anche uno spunto di polemica sociale, attraverso il personaggio del sindaco che non vuole
chiudere le spiagge per timore di perdere i turisti. Lo squalo è il primo di una serie di film di grande
spettacolo fondati su una sapiente e spesso efficace sintesi di elementi diversi: la fiaba, il fantastico, la
fantascienza, l’avventura, l’amore per il cinema del passato, per il fumetto, per il romanzo popolare e per la

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letteratura infantile. Nascono poi Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), sull’incontro fra umani e pacifici
alieni che vogliono comunicare con linguaggio universale della musica; ET l’extraterrestre (1982),
sull’incontro di un alieno sperduto e un gruppo di bambini; Jurassic Park (1993), dedicato alla rivolta di
alcuni dinosauri riportati in vita in un parco dei divertimenti attraverso la ricreazione del loro DNA; A.I.
Intelligenza artificiale (2001), su di un automa in tutto e per tutto uguale un bambino; La guerra dei mondi
(2005), che abbandona l’utopia degli alieni pacifici. A fianco dello Spielberg legato al grande immaginario
del cinema fantastico e di fantascienza, c’è anche quello più realista e impegnato, senza che però per
questo venga meno il suo senso dello spettacolo e dell’intrattenimento, di Schindler’s List (1993), una
sofferta e partecipe rappresentazione degli orrori del nazismo e della persecuzione degli ebrei; Salvate il
soldato Ryan (1998), dedicato al ricordo delle vittime della seguente Seconda guerra mondiale…

Lucas → La sua fama di autore di blockbuster e di creatore di un nuovo grande immaginario nasce con la
saga di Guerre Stellari, che egli concepisce in nove film e tre trilogie e a cui sostanzialmente dedicherà tutta
la sua carriera professionale; inizia nel 1977 con il quarto episodio; egli realizza uno dei film di maggior
successo dell’intera storia del cinema, anche grazie a un’attenta campagna promozionale e allo sviluppo di
un’abile strategia di merchandising, che farà scuola. Il film, mescola la fantascienza al fantasy, l’avventura
alla commedia, l’inconscio junghiano alle filosofie orientali, celebra il potere della misteriosa “forza” contro
quello della tecnologia, ricorre a diverse citazioni della storia del cinema e si avvale di sequenze altamente
spettacolari; è stato considerato da alcuni il punto di avvio del cinema postmoderno.

Se nel loro rivitalizzare il cinema americano Spielberg e Lucas si sono mossi soprattutto nell’ambito
dell’avventura e della fantascienza, sono invece il thriller e l’horror i generi di Brian De Palma e John
Carpenter.

De Palma → Ha segnato il cinema americano a partire dagli anni ’70, col carattere barocco del suo cinema,
contrassegnato da una grande libertà formale e da un vero e proprio virtuosismo nell’uso del linguaggio
cinematografico (accentuata profondità di campo, prolungate inquadrature soggettive, vertiginosi
movimenti di macchina, insistiti split screen, elaborati piani sequenza, frequenti richiami al cinema e ad
autori precedenti). Egli fu influenzato dal cinema di Hitchcock; ne ripropone alcuni dei grandi temi, come
quelli del doppio, del voyeurismo e dell’ossessione. L’estro del regista, le grandi qualità di narratore, il gusto
e il virtuosismo che lo caratterizzano, si trovano anche in altri film che egli ha girato al di fuori del thriller,
ad esempio Gli intoccabili (1989).

Altri autori: Malick → The tree of life (2011), Palma d’oro a Cannes.

Il regista e personaggio che meglio di altri ha assunto il ruolo di commentatore ironico della società
americana che va dagli anni ‘70 agli inizi del 21º secolo, cogliendone i segni di un disagio morale e sociale
osservato con gli occhi distaccati del fustigatore di costumi, del moralista aggressivo e divertito, è stato
Woody Allen. I personaggi dei suoi film, in particolare quelli da lui stesso interpretati, hanno dato corpo alle
ansie e alle frustrazioni dell’uomo contemporaneo, prima attraverso figure di giovani impacciati e
maldestri, poi di intellettuali insofferenti ed estranei alla moda, che sembrano non sentirsi mai a loro agio,
con nessuno e da nessuna parte. Pure all’insegna della comicità, i suoi film, soprattutto col progredire della
carriera, sono anche segnati da un senso di disagio, di alienazione e pessimismo riguardo all’uomo e al suo
vivere in società. Egli è il regista newyorkese per eccellenza; la città, con le sue ossessioni, mode e nevrosi,
è spesso al centro dei suoi film. Allen è un intellettuale colto, legato a una certa tradizione del cinema
americano, ma anche a evidenti suggestioni europee, sia letterarie (Cechov e Kafka), sia cinematografiche
166
(Bergman e Fellini). I suoi film sono progressivamente diventati delle vere e proprie commedie intellettuali
che rappresentano la vita come un girotondo fatto di dubbi e incertezze e che non vogliono rivolgersi a
tutti, ma un pubblico dalla cultura medio-alta che in qualche modo vi si sente rappresentato. I suoi film
sono contrassegnati da un evidente anarchismo formale, intessuti di citazioni del cinema classico.Una
svolta importante nel suo cinema, verso una comicità più sottile e raffinata e una messinscena più elegante
e curata, avviene con Io e Annie (1977), vincitore di quattro premi Oscar e storia delle vicissitudini
sentimentali di un gagman radiotelevisivo e di una intellettuale, segnate da quel rapporto nevrotico con se
stessi e gli altri che sarà una costante della commedie del regista. Caratteristiche poetiche del regista:
carattere introspettivo della sua opera, evidente originalità espressiva, amarezza di fondo e esplicita
dimensione intellettuale… Nel 1983 gira Zelig, ambientato negli anni ’20; racconta di un uomo che non può
fare a meno di identificarsi coi suoi interlocutori, al punto di assumerne le sembianze fisiche. Il film verte
evidentemente sul bisogno di miti, sul conformismo, sulla scissione d’identità dell’uomo di massa. Tra la
fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘90, vi sarà il periodo più ricco e intenso della carriera di Woody Allen,
che riprenderà il concetto bergmaniano del “silenzio di Dio” e dipingerà con lucidità, attraverso diversi film,
un mondo cinico ed egoista, privo di morale, dominato dal denaro e dal caso.

Ossessione e nichilismo nel cinema di Martin Scorsese

Fra i registi della New Hollywood che tentarono una mediazione fra cinema d’autore e spettacolo, influssi
europei e tradizione americana, modernismo e classicità, Scorsese fu uno di coloro che ottenne gli esiti
migliori, anche grazie a una formidabile costanza e coerenza. I suoi primi film riprendono la lezione
neorealista, adattandola alla tradizione e al contesto della società americana, in particolare della sua New
York, offrendo uno spaccato quasi antropologico di un mondo marginale e violento, spesso italo-americano,
fatto di gangster, outsider e deviati, prigionieri di una loro ossessione, che regista ci spinge a conoscere da
vicino, portandoci dentro la loro mente. L’amicizia, la famiglia, la dialettica di matrice cattolica fra peccato e
redenzione, le pulsioni autodistruttive sono alcuni dei temi centrali della sua opera, che via via si è fatta più
barocca. La componente barocca è evidente nell’uso di soggetti melodrammatici, personaggi complessi e
tormentati, e di certi virtuosismi tecnici, in particolare movimenti di macchina molto elaborati, inquieti e
angosciati che sollecitano lo spettatore a partecipare a ciò che accade sullo schermo. La sua opera è ricca di
riferimenti al passato; suoi punti di riferimento sono Rossellini, Visconti, Pasolini, Godard. L’attore Robert
De Niro diverrà il più rappresentativo del cinema di Scorsese. La vera svolta verso il successo di pubblico e
di critica nella carriera di Scorsese avviene con Taxi Driver (1976), in cui un taxista reduce dal Vietnam e
ossessionato dal decadimento morale del mondo che lo circonda decide di ripulire a suo modo la città (New
York). Scorsese ci guida nella progressiva follia del protagonista e nella sua caduta agli inferi, attraverso uno
stile debitore del modernismo europeo, un racconto fortemente soggettivo, ricco di jump cut e ralenti.
L’educazione cattolica del regista traspare nell’itinerario cristologico di molti dei suoi personaggi. Negli anni
‘90 il cinema di Scorsese ritorna alle forme del cinema criminale già presenti agli esordi della sua carriera,
ma, se negli anni ‘70 l’elemento del crimine era in qualche modo tangenziale ai suoi protagonisti, ora
costituisce invece il perno della loro esistenza; nel 1990 gira Quei bravi ragazzi, che narra trent’anni di
storia della mafia dalla parte dei più umili e della loro quotidiana banalità.

Taxi Driver (1976; Scorsese)

- film in cui le luci hanno una valenza simbolica; illuminano le strade e i marciapiedi di notte con tonalità
rossastre da inferno in terra; il protagonista vive New York come una città dall’atmosfera opprimente in cui
prostitute, sfruttatori, drogati, spacciatori e criminali di ogni tipo si muovono come animali notturni senza
una meta; la città è l’incarnazione del male; è il protagonista a filtrare la realtà in modo apocalittico
- il protagonista è un uomo disperato e totalmente solo; l’intera storia è deformata dal suo occhio

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- l’iniziale del film con il particolare degli occhi del protagonista illuminati dalle luci della strada sintetizza
l’ambiente e l’orizzonte psichico del film
- incapace di tornare a una vita normale come tanti reduci dal Vietnam, deluso, sofferente, psicotico e
affetto da insonnia (sintomo di un malessere interiore difficile da sopportare) il giovane protagonista cerca
di mutare una condanna nella possibilità lavorativa di diventare tassista di notte; è la solitudine il male che
il protagonista dovrebbe però debellare
- la solitudine è tema centrale del film; il taxi è una metafora che esprime al meglio tale sentimento
- nel modo di agire nel protagonista convivono due anime, una costruttiva e una distruttiva; al pari di molti
antieroi esistenzialisti egli incarna sia problematiche intrinseche alla società del suo tempo, sia questioni
universali; egli appare in cerca di una ragione per vivere, di una missione da compiere
- il film presenta alcune peculiarità: l’insistenza sul dettaglio (ad esempio quello dell’effervescenza
dell’aspirina, che è anche una citazione quotidiana), panoramiche apparentemente ingiustificate (ad
esempio quella della stazione dei taxi), carrelli laterali, brevi e convulsi piani dalle più estemporanee
angolature e successivi piani sequenza che mostrano lo stesso itinerario in senso inverso, in una scansione
lenta ed ieratica (ad esempio nella scena del massacro)
- la stabilità della percezione del protagonista comincia a cedere quando capisce che cosa deve fare e ciò
avviene nel luogo dove la sua solitudine si manifesta nella forma più angosciante, ossia nel suo piccolo e
disordinato appartamento; qui il tassista si allena per diventare, o tornare a essere come sotto le armi, una
macchina di morte
- vi è la presenza di specchi che ricreano, insieme all’effetto di quadro nel quadro di matrice wellesiana, la
dissociazione percettiva del protagonista
- la metafora della prigione è centrale nel film: la solitudine è vista come una gabbia dallo stesso
protagonista che percepisce la propria emarginazione rispetto al mondo circostante
- la regia ama le citazioni e i contrasti; la grammatica tradizionale è abbandonata; abbonda invece l’uso
delle dissolvenze incrociate, sonore e visive
- la musica più che esprimere la confusione psicologica del protagonista od offrire il presentimento di una
catastrofe imminente, disorienta lo spettatore
- il film mescola i generi dapprima proponendosi come reperto sociologico, poi come commedia, dramma
sociale, quindi tragedia, infine apologo sarcastico
- gli elementi eterogenei del film segnano un certo virtuosismo tecnico; vi è un carrello a piombo
- nell’epilogo, reale od onirico che sia, si torna al punto di partenza: il protagonista riprende servizio e
comincia ad osservare il mondo attraverso parabrezza e specchietto retrovisore del suo taxi; è la conferma
che nulla è cambiato; si tratta di un saggio di cinema sulla violenza e sulla vita notturna nelle metropoli,
iperrealista nello stile, malinconico e beffardo

Stanley Kubrick: l’ordine e il caos

Kubrick è tra i cineasti che meglio hanno saputo conciliare le logiche del cinema spettacolare con quelle del
cinema d’autore. Quasi tutti i film di Kubrick, di norma tratti da soggetti letterari preesistenti (come ad
esempio Lolita – 1961; tratto da Nabokov), ma in perfetta sintonia con la sua poetica, sono stati prodotti
dalle grandi major, potendo così contare su budget molto elevati. Grazie al buon esito commerciale dei suoi
film, Kubrick ha potuto esercitare un assoluto potere di controllo, dedicandogli tempi di progettazione e
lavorazione assai lunghi che hanno di fatto determinato una filmografia molto rarefatta (13 film in 46 anni
di carriera, dal 1953 al 1999). In linea con le tendenze della Nuova Hollywood, Kubrick ha instaurato uno
stretto rapporto con i generi classici (gangster, noir, fantascienza, horror, melodramma, film di guerra, in
costume, ma mai western), anche se con l’evidente fine di rovesciarne gli assunti. La sua opera, densa di
riferimenti letterari, pittorici e musicali alla cultura europea, si costituisce intorno ad un nucleo di temi ben
precisi: rapporto tra cultura e natura, violenza connaturata alla dimensione umana, doppio (tutto ha un suo

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rovescio), perdita della ragione ambigua e contraddittoria, mondo dominato dalla follia, dove ogni
relazione è determinata dall’interesse e dall’avidità dei singoli. I suoi film sono spesso giocati sulla presenza
di meccanismi perfetti che tuttavia d’improvviso si inceppano, smettono di funzionare e generano caos; di
qui la fascinazione per la figura del labirinto, come luogo dove la razionalità umana è destinata a perdersi.
Questi aspetti della sua poetica sono ripresi anche sul piano delle scelte di rappresentazione e messinscena,
attraverso cui Kubrick mostra i suoi personaggi con freddezza e con fare distaccato. Il racconto è talvolta
bipartito, con la seconda parte della storia che riprende, rovesciandola, la prima. Le immagini sono
costruite su evidenti principi di ordine e simmetria, ma solo per essere sconvolte dal caos dei movimenti di
macchina a spalla. La colonna sonora passa da seducenti e affascinanti musiche appartenenti al repertorio
classico a una dimensione sonora in cui queste si trasformano in inquietanti rumori. In generale il cinema di
Kubrick si caratterizza, sia nelle forme, sia nei contenuti, per una dialettica di opposti dove ogni cosa si
scontra col suo contrario, a rappresentare l’idea di dualismo della natura umana. Kubrick si è affermato a
metà degli anni ‘50 nell’ambito del cinema di guerra e di quello noir; nel 1961 gira Lolita, storia che verte su
un maturo professore che s’invaghisce di un’adolescente; storia di ossessione e autodistruzione,
perbenismo e ipocrisia, insiste sul tema dello sdoppiamento della personalità. Successivamente gira Il
dottor Stranamore (1963), che prosegue in modi grotteschi e satirici i suoi intenti civili e democratici; è
costruito su un paradossale attacco atomico scatenato da un generale anticomunista contro l’Unione
Sovietica; nel film si trova dunque un discorso contro la corsa agli armamenti, sul pericolo di una guerra
atomica, sull’insipienza dei governanti, sul conflitto USA-URSS; il tema si fa materia di una commedia di
costume, o meglio di una farsa, che non nasconde i suoi risvolti drammatici e apocalittici, attraverso
l’angosciosa rappresentazione di un futuro in bilico fra terrore e speranza, di una umanità alla ricerca delle
proprie origini sullo sfondo fantascientifico di una società immaginaria che rischia di annullare l’uomo. Nel
1968 gira 2001: Odissea nello spazio; con questo film Kubrick entrerà indelebilmente nella storia del
cinema. Il film, una vera e propria super produzione che narra di un viaggio stellare verso Giove, operato da
due astronauti e un computer di bordo, Hal 9000, che si sottrae ai suoi compiti, è la summa di una
concezione del cinema come veicolo di pensiero, che affronta alcuni nodi fondamentali della storia
dell’umanità, come la sua stessa origine (il prologo ambientato 4 milioni di anni fa), il rapporto con la
scienza e la tecnologia (la ribellione del computer), il suo futuro (lo star child, il feto astrale che vaga nello
spazio). Concepito dallo stesso Kubrick come una pura esperienza visiva, dove i dialoghi sono ridotti al
minimo, il film è fatto di immagini in cui accade poco o nulla, di danze di astronavi nello spazio, e di una
sequenza psichedelica, quella del viaggio oltre l’infinito, fatta di luci, colori e immagini astratte, che
richiama certe esperienze dell’avanguardia americana degli anni ‘60. Ancora d’ambito fantascientifico, ma
anti-utopico, è Arancia meccanica (1972); il film è costruito sul motivo del libero arbitrio; è l’ennesimo
ritratto di Kubrick di un mondo dominato dalla follia, dalla violenza e dalla frustrazione sessuale, veri e
propri let-motiv della sua opera; presenta una struttura narrativa speculare in cui, nella seconda parte, il
protagonista incontra gli stessi personaggi e attraversa gli stessi luoghi, non più nel ruolo del carnefice, ma
in quello della vittima. Violenta come nei contenuti è anche la forma del film, fatta di accelerazioni, ralenti,
grandangoli, movimenti di macchina a mano, immagini che si richiamano esplicitamente alla pop art. Da un
romanzo dell’orrore di Stephen King è poi tratto Shining (1980); Kubrick ritorna in questo film denso e
spettacolare ai suoi temi tradizionali, in particolare a quelli della violenza insita nella natura umana e del
doppio; vi introduce il motivo psicanalitico della gelosia paterna. Un ritorno al genere bellico delle origini è
invece Full Metal Jacket (1987); il film, diviso nettamente in due parti, narra, nella prima,
dell’addestramento di un gruppo di marines destinati al Vietnam, atto a farne delle vere e proprie macchine
per uccidere; nella seconda parte si susseguono invece le gesta dei sopravvissuti in Vietnam che, in un
evidente rovesciamento degli assunti del film di guerra, altro non sono che la manifestazione della loro
impotenza e del loro infantilismo. Egli denuncia la violenza insita in ogni collettività e fa dell’istituzione
militare una macchina in grado solo di produrre follia; il film stringe saldamente fra loro l’imperialismo
militare americano a quello culturale, attraverso i frequenti riferimenti al cinema western, alla musica rock,

169
ai personaggi di Walt Disney. Nel 1999 gira il suo ultimo film: Eyes Wide Shut. In esso ritroviamo una
struttura narrativa in cui la seconda parte ripete la prima e una narrazione fredda e distante che sembra
voler osservare ciò che accade con l’oggettività di uno scienziato; si tratta di una riflessione sul senso della
morale e sulle conseguenze delle nostre azioni.

2001: Odissea nello spazio (1968; Kubrick)

- rappresenta una rivoluzione dei canoni della fantascienza cinematografica con il suo viaggio al di là di ogni
limite interpretativo della realtà
- ideale sintesi della storia dell’umanità e della sua evoluzione; con il suo simbolico e misterioso monolito
nero il film rappresenta l’opera più filosofica e più astratta di Kubrick, ed evidenzia in maniera spettacolare
e drammatica l’impossibilità di ogni interpretazione univoca e assoluta dell’esistenza umana
- il film vuole essere un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto
emotivo direttamente nell’inconscio
- può essere interpretato come: apologo sull’intelligenza umana e sulla sua autodistruttiva ferocia; visione
di un aldilà impossibile da raggiungere; riflessione sulla disumanizzazione del cosmo e la speranza di
rinascita
- film sperimentale e contemporaneamente grossa produzione
- vi si trova un raccordo filmico sullo sviluppo della tecnica (ellissi di milioni di anni); si passa dall’osso
all’astronave
- il percorso proposto da Kubrick attraversa quattro momenti introdotti da altrettante didascalie: L’alba
dell’uomo, Il viaggio verso la stazione lunare, La missione verso Giove e Da Giove verso l’infinito; tale
percorso è solo apparentemente rettilineo; in realtà alla progressione temporale esterna si sovrappone il
tempo interiore che nel finale determinerà la quarta dimensione, una zona fuori dai limiti spazio-temporali,
nella quale passato e futuro coincideranno
- l’uomo e il suo rapporto con le tecnologie, il tempo, lo spazio, sono temi centrali dell’opera che Kubrick
cerca di tramutare in esperienze visive ricorrendo a soluzioni tecniche innovative; le scene del paesaggio
africano all’inizio del film, ad esempio, sono girate in teatri di posa vicino a Londra: si tratta di diapositive ad
alta risoluzione proiettate col sistema del front projection che permette una resa realistica; la scena della
hostess lentamente ruotata di 180° e che, capovolta, imbocca una porta, è ottenuta attraverso un trucco
che fa ruotare il set di 180° consensualmente alla rotazione della macchina da presa, mantenendo la stessa
velocità: l’effetto finale dà l’illusione che il set resti fermo e che al hostess cammini su per la parete; tale
scena non è solo un esercizio di stile, ma produce senso sottolineando il contrasto tra la sconcertante
normalità del mondo capovolto, dove l’uomo sembra avere il dominio sugli elementi, e la realtà di una
gabbia tecnologica che soffoca la creatività dell’essere umano e lo penalizza in movimenti simili a quelli di
un criceto nella sua gabbia dorata
- vi è un forte contrasto fra l’ambiente claustrofobico della navetta Discovery, capitanata dal computer di
ultima generazione Hal 9000, e lo spazio infinito che si intravede dall’oblò dell’astronave; la solitudine e la
noia regnano sovrane all’interno
- l’impronta metafisica e filosofica del film presuppone un coinvolgimento attivo dello spettatore, a cui è
richiesto uno sforzo elaborativo e una disposizione autocritica necessari per un viaggio allucinante e
allucinato di fronte ai misteri della vita; a interrogativi tanto densi Kubrick non dà facili risposte ed evita le
trappole della contaminazione sentimentale grazie alla fredda distanza della macchina da presa; uso di
campi lunghi e lunghissimi, rari primi piani, lentezza ipnotica ecc. sembrano studiati scientificamente per
creare una sensazione di smarrimento, di mancanza di gravità, di solitudine assoluta, di gelo cosmico,
mentre la discontinuità narrativa è ottenuta con stacchi e arditi cambi di scena (es. chiusura del prologo in
cui l’osso diventa un’astronave)
- nella colonna sonora Kubrick utilizza musiche come per esempio Così parlò Zarathustra di Strauss

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- viene associata la nascita del genere umano al momento in cui un primate si impadronisce di una tecnica
d’aggressione, ossia quella dell’osso per percuotere
- il monolito appare come un totem, l’immagine di qualcosa di incomprensibile, di divino, che tornerà a
collegare le dimensioni spazio-temporali entro cui si muove il film → conoscenza
- nella parte finale del film si attraversa a folle velocità un tunnel di immagini colorate in negativo, un
canale psichedelico che amplifica le porte della percezione e porta verso l’ineffabile e il non
rappresentabile; la morte del protagonista è così un velocissimo percorso che annulla le distanze spazio-
temporali; l’approdo è in una stanza bianca in stile rococò, illuminata dal pavimento
- nel suo letto di morte il protagonista protende la mano verso il monolito divino in un gesto che segna la
sua rinascita in una forma superiore, forse come puro spirito, pura essenza che diventa tutt’uno con
l’universo; nello sguardo finale del feto rivolto verso gli spettatori permane però l’enigma irrisolto della
vita-morte dell’uomo.

19. IL CINEMA DEI PAESI EMERGENTI

L’America latina

Il Cinema Novo (Brasile) è la più importante delle nouvelles vagues sudamericane.

Le trasformazioni politiche e sociali dell’America Latina, dalla riuscita rivoluzione cubana ai vari movimenti
rivoluzionari e di liberazione nazionale presenti in tutti i paesi a regime dittatoriale antidemocratico, dalla
guerriglia alla severa reazione delle forme conservatrici, dalla lotta capillare nelle campagne e nelle città
alla vittoria del fascismo in Cile, hanno creato una situazione molto incandescente, diversa da nazione a
nazione, da cultura a cultura, ma simile per l’impegno ideologico, l’organizzazione politica, gli intenti
democratici e socialisti, la strategia e la didattica militare, il profondo spirito d’indipendenza nazionale ed
opposizione all’infiltrazione politica ed economica degli Stati Uniti. In questo panorama storico anche il
cinema, come strumento di conoscenza e documentazione della realtà umana e sociale, distruzione e
didattica, di indagine critica, ha contribuito all’evoluzione culturale e politica di intere popolazioni, e come
tale è stato impegnato da parecchi cineasti in una più generale battaglia contro i fascismi e per la
liberazione da ignoranza, miseria, sfruttamento economico, repressione sociale…
Pur assumendo caratteristiche differenti secondo i diversi paesi e autori, nelle sue linee di fondo e più
generali, il cinema nuovo dell’America Latina degli anni ‘60, e in parte anche dei decenni successivi, si
caratterizza come un cinema politico, quando non militante, che denuncia le condizioni di sfruttamento e
miseria del suo popolo (estetica della fame) e il ruolo che in esse giocano le antiche credenze e
superstizioni. È un cinema che tende al visionario e al barocco, influenzato dal suo rapporto con la
letteratura del “realismo magico” (Garcia Marquez, Fuentes…), che scende per la strada, usa attori non
professionisti ma non disdegna per questo la dimensione simbolica, a volte fiabesca, attraverso il recupero
di diverse tradizioni culturali autoctone. Quella percorsa dai più combattivi registi del nuovo cinema
dell’America Latina è la strada di un “terzo cinema”, fondata sul superamento dei modelli del cinema
hollywoodiano e di quello d’autore europeo. Fortemente politico, militante e legato alle proprie peculiari
specificità e tradizioni culturali che lo spingono verso il realismo simbolico e fantastico, il nuovo cinema
dell’America Latina è anch’esso parte di quell’esperienza internazionale legata al cinema della modernità,
come testimoniano certe affinità col neorealismo, il cinema-vérité, e le nouvelles vagues.

In Brasile un gruppo di giovani registi (Rocha, Guerra, Saraceni…) danno origine al Cinema Novo, che porta
più avanti e approfondisce la lezione di realismo e di critica sociale di Pereira dos Santos (che gettò le basi
del movimento) e riprende la tradizione culturale e politica progressista di certi scrittori (Ramos, Amado,
Rosa) che avevano analizzato le condizioni del paese, nei suoi aspetti più miserevoli e disumani, tentando di

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integrare in un cinema artisticamente e politicamente militante, al tempo stesso documentaristico e
fantastico, la ricca tradizione della cultura locale e i caratteri del miglior cinema moderno. Tali registi
diedero del Brasile, della sua società, della sua cultura, da un lato un ritratto originale, acuto, problematico;
dall’altro proposero un nuovo modello di cinema, tra il politico e il metaforico, tra la storia e il mito, tra il
reale e surreale: un cinema di resistenza al dominio hollywoodiano che notevole influenza avrà anche fuori
dei confini brasiliani e dell’America Latina. Il Cinema Novo ha eletto come proprio luogo più
rappresentativo il Nordeste, l’aspra pianura del sertao, terre di terribile miseria, di tradizioni culturali e
religiose, di lotte popolari.

Di tale cinema il rappresentante più illustre è stato Rocha, che elaborò la necessità di un cinema che
ripensandosi come linguaggio sapesse assumere una connotazione esplicitamente politica, farsi arma
politica, schierarsi dalla parte degli oppressi, dichiarare la necessità della violenza come forma
rivoluzionaria contro ogni illusoria conciliazione, e legarsi alla cultura popolare e folklorica brasiliana,
emancipandosi dei modelli del cinema europeo e americano. Il suo fu un cinema visionario e mistico,
barocco ed esasperato, soggettivo e furente, che parlava di fame, miseria, disperazione lotta, rigettando il
naturalismo e abbracciando, invece, il mito, l’etica, l’estasi poetica, l’irrazionale, l’istintuale, il magico, il
tribale e il barbarico delle leggende popolari. Le sue narrazioni giocano su violenti e laceranti contrasti,
messi in evidenza da un montaggio convulso, dalla macchina a mano e da ostentate carrellate ottiche.

Fra realismo e simbolismo si mosse invece Guerra; fra i suoi film vi è I fucili (1964), uno fra i film più
rappresentativi del Cinema Novo. Esso è ambientato nel Nordeste; si costruisce intorno a un magazzino di
derrate alimentari che una guarnigione di soldati difende dai probabili assalti di una popolazione alla fame.
La morte di un camionista, provocata dai soldati, scatenerà una rivolta che sarà repressa in un bagno di
sangue. Il film mostra con lucidità anche il ruolo oppressivo delle superstizioni e dei rituali religiosi.

Dopo la fine della dittatura militare (1985) e il ritorno graduale alla democrazia, il cinema brasiliano ha
dovuto affrontare una grave crisi di affluenza nelle sale, anche in conseguenza al successo, nazionale e
internazionale, delle telenovelas, che determinò un drastico calo nella produzione di film. Solo nel nuovo
millennio, anche grazie alla cooperazione delle major americane, l’industria cinematografica del paese si
riprenderà.

In un cinema come quello argentino, a lungo segnato dai modelli dei generi hollywoodiani, registi come
Nilsson e Birri avevano introdotto, nel corso degli anni ‘50 e dei primi anni ‘60, un cinema d’autore in stile
europeo, capace di mediare tra le esperienze come quella neorealista e la complessità della realtà locale, e
capace di riflettere sulla realtà di un paese colonizzato politicamente e culturalmente dagli Stati Uniti e sulla
necessità di un suo riscatto. Il colpo di Stato militare del 1966, che soppresse il parlamento, i partiti e il
movimento dei lavoratori, tuttavia, aprì una fase assai buia che perdurò sino al 1973. Proprio nel 1966 fu
fondato il gruppo Cine Liberacion, che proponeva un uso guerrigliero del cinema, sostenendo anche qui
l’idea di un “terzo cinema”, e propugnandone la diffusione (in opposizione ai modelli hollywoodiani e a
quelli del cinema d’autore europeo), che non doveva essere solo uno strumento di documentazione sociale
ma anche, e soprattutto, un mezzo di lotta e di liberazione per differenti paesi, ossia quelli raggruppati
allora sotto l’etichetta di terzo mondo. Un cinema aperto alla discussione, agli interventi esterni, costruito
di giorno in giorno sul filo della realtà mutevole, in cui il metodo del cinéma-vérité è assunto, e
continuamente criticato dall’interno, per intervenire sui fatti, per sviscerarne la complessità indicandone le
varie componenti ideologiche e politiche. Il risultato più significativo di questa esperienza fu certamente il
film-documentario L’ora dei forni (1966-1968) di Solanas e Getino, trilogia sulla storia recente e sulla
società argentina di ampie proporzioni. Esso tenta di analizzare problematicamente i diversi conflitti sociali,
economici, politici che hanno portato a quello che fu definito il decennio della violenza. Gli autori
ripercorrono la storia nazionale e la realtà contemporanea in termini estremamente aggressivi e stimolanti,

172
soprattutto grazie al lavoro del montaggio e della rielaborazione dei materiali di repertorio, che richiedono
la discussione critica e la partecipazione diretta del pubblico. Il film ebbe nel paese una distribuzione
forzatamente clandestina e poté circolare liberamente solo dopo il ritorno al potere di Peron (1973), con
cui alcuni registi di Cine Liberacion collaborarono attivamente. Un nuovo colpo di Stato nel 1976, tuttavia,
diede vita a una nuova dittatura militare che perdurò sino al 1983, aprendo una delle fasi più tragiche della
storia argentina, durante la quale un enorme numero di cittadini, incarcerati, torturati e uccisi, sparirono
nel nulla; fenomeno dei desaparecidos. La caduta del regime militare e il ritorno della democrazia nel 1983
determinarono nel cinema un nuovo entusiasmo, insieme alla capacità di riflettere sulla tragedia appena
accaduta; la produzione di film durante la dittatura si era ridotta ai minimi termini per cui le sale erano
state invase dalle produzioni americane. La nuova tendenza fu testimoniata dal lavoro del collettivo Cine
Argentino en Libertad y Democracia, e dall’uscita di La storia ufficiale (1985) di Puenzo, uno dei maggiori
successi internazionali del cinema argentino, che rievoca con intensità il dramma dei desaparecidos. Alla
fine degli anni ‘70 una terribile inflazione segnò il paese e determinò una nuova crisi nella produzione di
film; ciò, però, non impedì il successivo affermarsi, a partire dalla seconda metà degli anni ‘90, di una nuova
generazione di registi che diede vita al cosiddetto Nuevo cine argentino, segnato da una certa propensione
al fantastico quotidiano e alla narrazione allegorica.

La storia del cinema cileno della seconda metà del Novecento è tragicamente segnata dal colpo di Stato del
1973 del generale Augusto Pinochet, che pose fine all’esperienza socialista di Salvador Allende e alla
coalizione popolare di Unidad Popolar. Negli anni precedenti al golpe era nato nel paese un cinema
dall’evidente carattere politico e di sinistra. Durante gli anni di Pinochet, che rimase al potere sino al 1988 e
cancellò ogni forma di finanziamento e incoraggiamento alla produzione, questo cinema fu cancellato, e i
suoi autori costretti all’esilio. Solo dopo la fine di Pinochet, il cinema cileno poté tornare a respirare un’aria
di libertà. Fra i cineasti che vissero sia l’esperienza di Allende, sia quella di Pinochet, prima di essere
costretti a fuggire all’estero, vi sono Littin, Ruiz, Larrain (in linea di massima cineasti militanti). Nel cinema
successivo a Pinochet si articolerà un discorso sul golpe da diversi punti di vista; si affronteranno i temi
dell’esilio e delle ferite lasciate sul popolo cileno, si indagheranno le responsabilità individuali dei
connazionali negli anni del regime.

A differenza dei paesi del Sud America (cinema prevalentemente militante), il Messico, anche per la sua
posizione geografica al confine dei vigili Stati Uniti, non ha conosciuto la tragedia dei colpi di Stato e delle
dittature militari che hanno segnato, nella seconda metà del Novecento, gli altri paesi. Perciò, il suo cinema
non ha manifestato quella radicalità linguistica, politica e militante, altrove verificatasi. Dagli anni ‘50 si
sono succeduti diversi governi che hanno avuto nei confronti del cinema una politica oscillante, talvolta di
sostegno, talvolta di indifferenza, e che hanno quindi contribuito a determinare gli alti e i bassi
dell’industria nazionale. Un’industria molto dipendente dal cinema americano. Si può iniziare a parlare di
un nuovo cinema d’autore dalla seconda metà degli anni ‘60, in particolare con i film di Ripstein e
Jodorowsky.

Ripstein → amico e collaboratore di Buñuel, è il più grande regista messicano degli ultimi decenni. Con la
sua opera ha rielaborato i codici del melodramma, uno dei generi prediletti dal suo paese, offrendo ritratti
inquieti e dolorosi, ma anche lucidi e crudeli, di personaggi sofferenti dalla forte umanità.
Jodorowsky → il suo cinema è di carattere surrealista, è connotato da dimensioni simboliche ed oniriche,
un certo gusto per la provocazione e un evidente polemica antiimperialista.

In anni più recenti, il cinema messicano ha vissuto una stagione di certa intensità con l’opera di registi come
Guillelmo del Toro ecc. Molti di questi registi, dopo gli esordi in patria, proseguiranno la loro carriera a
Hollywood o comunque in ambiti internazionali.

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Guillelmo del Toro ha lavorato a Hollywood, dove ha realizzato, con buoni risultati di critica e pubblico film
come ad esempio Hellboy. Egli ha una certa passione per il cinema fantastico e una certa vocazione
autoriale (ultimo film del 2017, La forma dell’acqua).

Un caso particolare è quello rappresentato da Cuba che, con l’ascesa al potere di Fidel Castro negli anni ‘60,
diede vita a una società socialista, allineatasi con il blocco che faceva capo all’Unione Sovietica, e
rapidamente divenuta un’imprescindibile punto di riferimento dei movimenti rivoluzionari sudamericani. Il
cinema cubano si sviluppò non solo nell’ambito dei documentari e dei cinegiornali ma anche in quello del
cinema di finzione.

Cinema africano

Con l’eccezione dell’Egitto, che aveva sviluppato una sua industria cinematografica con tanto di star system
in grado di diffondersi negli altri paesi di lingua araba, e in una certa misura nel Sudafrica, dove tuttavia la
produzione è stata profondamente influenzata dalla politica dell’apartheid, tanto da costituirsi come un
caso a parte nella realtà africana, la cinematografia di questo continente nasce a cavallo degli anni ‘50 e
‘60, in seguito alla fine del colonialismo europeo e alla conquista dell’indipendenza. Il cinema africano non
conosce così la fase delle origini e della transizione dal muto al sonoro. In tale contesto si passa subito al
confronto con il cinema classico e di genere e le istanze del neorealismo e delle nouvelles vagues. La
produzione continentale è stata molto composita e diversa da una regione a all’altra, da un paese all’altro.
Le nazioni che più di tutte sono state in grado di dar vita a un sistema produttivo caratterizzato da una certa
continuità sono state, oltre all’Egitto, il Senegal, la Tunisia, il Mali, il Camerun, mentre le altre, come
l’Algeria, l’Angola e la Nigeria, dopo un’avvio importante, si sono, per motivi politici di vario genere,
eclissate. Queste diverse cinematografie hanno anche dato origine a un gruppo di cineasti che hanno
raggiunto una certa notorietà internazionale: Sembène (Senegal), Mahmoud, Bouzin (Tunisia) ecc.
Questi diversi paesi si sono dovuti confrontare con una grave assenza di materiali e infrastrutture e con
l’ingerenza delle cinematografie europee e americana. Le influenze più evidenti che manifestarono i
maggiori cineasti africani furono quelle del neorealismo e del surrealismo, attraverso cui affrontavano temi
chiave della loro realtà, come il conflitto fra tradizione e modernità, il rapporto tra cultura indigena e
modelli occidentali, la critica nei confronti dei regimi coloniali, i limiti e le difficoltà del processo di
indipendenza, la ricerca delle origini della loro cultura.

Il senegalese Sembène si mosse nell’ambito di un recupero della cultura genuina del proprio popolo, in
direzione di un concetto di négritude che ha caratterizzato per parecchi anni la letteratura progressista
africana, ma con venature ironiche e un certo distacco critico che lo hanno collocato in una posizione più
attuale e problematica; il regista e scrittore francofono è considerato padre del cinema africano. Già
romanziere, si è fatto cineasta nella consapevolezza di poter così più facilmente avvicinare il suo popolo,
soprattutto quello analfabeta, e spingerlo a prendere coscienza delle ragioni delle sue condizioni di
disperazione, miseria e oppressione.

Il cinema italiano e nei paesi del Medio Oriente

Anche in Medio Oriente, come in America Latina e in Cina, la produzione cinematografica ha


profondamente risentito dei sommovimenti politici, dei regimi dittatoriali, dei conflitti internazionali e
dell’intervento della censura, a cui si sono aggiunte le questioni più specifiche dell’intransigenza religiosa.
Ciò non ha impedito, a partire soprattutto dagli anni ‘80, l’affermarsi di una cinematografia come quella
iraniana e di alcuni importanti autori come gli iraniani Kiarostami, Ceylan, l’israeliano Gitai, il palestinese

174
Suleiman.

- A lungo dominato dalle produzioni occidentali, il cinema iraniano ha sempre dovuto confrontarsi
con una certa opposizione della gerarchia religiosa e con l’arretratezza sociale del paese. Dopo un
periodo, relativamente florido (nel 1972 furono prodotti in Iran 90 film), il cinema entrò in una
drammatica crisi causata prima dall’inflazione e, poi, dall’infiammarsi della ribellione contro lo
Shah, che portò alla rivoluzione del 1979, e all’instaurarsi della Repubblica islamica guidata
dall’ayatollah Khomeyni, che limitò drasticamente le libertà artistiche tramite il rigido controllo
esercitato dagli organi di censura imposti dal nuovo regime. Nonostante le difficoltà, a partire dalla
fine degli anni ‘80, anche in seguito alla politica moderatamente riformatrice del nuovo presidente
Rafsanjani, eletto nel 1989, il cinema iraniano ha dato vita a una prolifica serie di opere e autori che
si è imposta a livello internazionale come uno dei momenti fra i più rilevanti di fine e inizio
millennio, per la sua capacità di coniugare un attento sguardo alle contraddizioni della società e
un’approfondita riflessione sulle possibilità del cinema di guardare davvero alla realtà.

Il regista più importante della cultura iraniana, ed uno dei protagonisti del cinema mondiale degli
anni ‘90, è stato Kiarostami. Il suo cinema, partito da istanze neorealiste (osservazione della realtà
quotidiana, taglio semi documentaristico, attori non professionisti, attenzione all’infanzia) si è sin
da subito caricato di elementi legati al cinema della modernità, sviluppando una riflessione sul
mezzo (dal carattere a volte esplicitamente meta-cinematografico; film nel film, troupe al lavoro,
personaggi di registi, attori improvvisati che interpretano se stessi) e sulle sue difficoltà di afferrare
il reale, sul senso morale delle immagini, sul gioco delle false piste, delle spiegazioni apparenti,
delle ipotesi possibili, dei pericoli dell’inganno e della menzogna. Utilizza un approccio lucido e
intellettuale che si accompagna a storie e situazioni spesso assai semplici e lineari, di fronte alle
quali lo spettatore è invitato a esprimere una valutazione o un giudizio, facendo affidamento alla
propria sensibilità e alla propria intelligenza. Tale cinema è fondato sulla purezza dello sguardo,
sulla maestria della composizione di immagini, sulla depurazione e il rigore formale, sul pudore
delle emozioni, sui momenti di grande intensità lirica e autentica poesia, sulla volontà di esprimersi
il più possibile con i mezzi più ridotti. È stato un maestro nell’uso del piano sequenza e del fuori
campo.

I fasti passati del cinema egiziano, l’Hollywood ed Arabia, si ridimensionarono notevolmente nel corso degli
anni ‘70.

- Il cinema israeliano nasce ufficialmente a seguito della formazione dello Stato di Israele, nel 1948.
L’assenza di una politica di sostegno governativa, che sarebbe perdurata sino agli anni ‘70, rese,
tuttavia, difficile la vita della nascente industria cinematografica. Tra gli anni ‘50 e ‘60 i temi
dominanti nel cinema israeliano sono l’Olocausto, la guerra, l’indipendenza, la costruzione di una
nuova nazione e le grandi figure del sionismo. Il cinema israeliano è soprattutto un cinema di
genere (film di guerra, commedie e melodrammi). Negli anni ‘70, anche grazie ad una correzione
della politica governativa, ora più attenta a sostenere il cinema nazionale, si affermò una nuova
generazione di cineasti, spesso impegnati nell’ambito del documentario, fra i quali il nome di
maggior rilievo è quello di Gitai, il cui lavoro è riuscito finalmente a dare una dimensione
internazionale al cinema israeliano. Sin dall’inizio della sua carriera come documentarista televisivo,
l’autore pagò la sua ostinata ricerca della verità e i suoi interrogativi posti sul conflitto tra israeliani
e palestinesi con un evidente ostracismo da parte delle autorità; diversi suoi reportage furono
censurati o non mandati in onda. Escluso dai fondi governativi, fu costretto a realizzare i suoi film
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attraverso varie coproduzioni internazionali, trovando all’estero i fondi necessari per la loro
realizzazione. I suoi lavori, sia quelli di finzione, sia quelli documentari, sono spesso centrati su
eventi che hanno segnato la storia di Israele e sul suo conflitto con i palestinesi. Il suo cinema
continua ancora oggi a svilupparsi su temi, situazioni, personaggi e ambienti della storia di Israele e
dei suoi problemi politici e sociali.

20. I NUOVI ORIZZONTI DEL CINEMA CONTEMPORANEO

Tra digitale e postmodernità

Il cinema a cavallo del nuovo millennio ha visto l’introduzione di nuovi elementi sia di ordine tecnologico,
sia di ordine estetico, che coinvolgono il piano della produzione dei film come quello della loro funzione.
L’aspetto più rilevante di questo periodo cruciale (dagli anni ‘80 ai giorni nostri) della storia del cinema è
stato l’avvento di quella che qualcuno ha chiamato la rivoluzione del digitale. Progressivamente, dagli anni
‘80 in poi, al sistema analogico della pellicola da impressionare, si è prima affiancato e poi sostituito quello
digitale, per cui le immagini sono memorizzate nell’hard disc di un computer.
La differenza fra i due sistemi è che nel primo caso, quello dell’analogico, l’immagine è un calco della realtà,
un processo chimico dove la luce impressiona direttamente un composto fotosensibile; nel secondo, quello
del digitale, l’immagine è prodotta da una serie di impulsi binari e, attraverso un processo algoritmico
effettuato da un computer, trasformata in un insieme di dati numerici.

Le nuove immagini digitali non hanno più un rapporto diretto con il reale e si presentano come pure
astrazioni matematiche; aprono inevitabilmente nuovi orizzonti al cinema, mettendo in discussione la sua
natura di riproduzione della realtà, tanto che in molti hanno cominciato a parlare di una nuova era, quella
del post-cinema. Le immagini digitali, anche quando riprendono la realtà, possono essere frutto di una serie
di processi di manipolazione ben più ampi di quel che accadeva per l’analogico. Anche se gli effetti speciali
al cinema sono sempre esistiti, mai come oggi le immagini che scorrono sullo schermo si prestano così
facilmente ad ogni possibile alterazione. Queste immagini possono assumere le caratteristiche di veri e
propri simulacri (Baudrillard), immagini virtuali che più niente hanno a che vedere con la riproduzione della
realtà. Quelle che scorrono davanti ai nostri occhi possono, infatti, essere immagini interamente elaborate
al computer (es. luoghi inesistenti).

Se per un periodo relativamente lungo il digitale ha affiancato l’analogico, per cui in un film
tradizionalmente girato con una pellicola da 35 mm erano integrate alcune immagini generate al computer,
come ad esempio era accaduto per Jurassic Park (1993; Spielberg), oggi, nel secondo decennio del 2000, la
pellicola è sostanzialmente uscita di scena, e nella loro maggioranza i film sono non solo girati, ma anche
distribuiti e proiettati in digitale. I metri di pellicola sono stati sostituiti da hard disk o da segnali inviati via
satellite; soluzioni che permettono anche di superare i problemi dei costi di stampa e movimentazione della
pellicola e del deterioramento delle copie.

Alla fine degli anni ‘70 e all’inizio degli anni ‘80, il digitale inizia a diffondersi nell’ambito del sonoro, con il
sistema DAT (Digital Audio Tape). Dalla seconda metà degli anni ‘80 sono introdotti, dalla Sony, i primi
sistemi di video registrazione digitali, inizialmente usati solo dalla televisione, poiché queste prime
immagini digitali standard, proiettate sul grande schermo, apparivano di qualità nettamente inferiore e più
sfocate di quelle girate con le tradizionali macchine da presa e la pellicola da 35 mm. Dalla metà degli anni
‘90, con l’introduzione delle videocamere ad alta definizione (HD) il divario è scomparso. Molto più
economico della tradizionale pellicola, il digitale è un fenomeno che ha riguardato tutto il cinema: dalle
produzioni indipendenti e sperimentali (che, grazie alle ridottissime dimensioni delle nuove videocamere
hanno potuto dare impulso a certo realismo minimalista, come accade nelle forme del film diario e di
quello epistolare, e a una prossimità alle cose e agli attori preclusa alle tradizionali macchine da presa) ai
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blockbuster hollywoodiani (che del digitale si sono serviti per creare straordinari effetti speciali). C’è stata,
poi, una vera e propria rivoluzione costituita dal cinema d’animazione 3D, operata soprattutto dalla Pixar a
partire da Toy Story - Il mondo dei giocattoli (1995), primo lungometraggio animato le cui immagini sono
realizzate, insieme al montaggio e agli effetti speciali, interamente al computer.
Oltre agli effetti speciali, il digitale ha influenzato maggiormente gli ambiti riguardanti le costruzioni degli
ambienti, l’uso delle luci e dei colori e il montaggio. Grazie all’uso di appositi software il set di un film può
oggi essere del tutto virtuale, interamente elaborato al computer, realistico o fantastico che sia. Più
frequentemente gli ambienti del cinema contemporaneo sono frutto di una commistione fra riprese dal
vero e interventi digitali. In diverse scene di un considerevole numero di film contemporanei gli attori
recitano davanti a degli sfondi neutri (blue o green screen) che saranno poi riempiti digitalmente in fase di
postproduzione per creare gli ambienti desiderati. Per quanto concerne luce e colori, sempre in fase di
postproduzione, attraverso il digitale, si possono creare particolari effetti illuministi e cromatici, alterando
anche pesantemente quella che era l’immagine originale. Il montaggio è stato una delle fasi di lavorazione
del film che più di altre ha beneficiato dell’avvento del digitale. Un tempo si lavorava alla moviola, tagliando
manualmente sul dispositivo originale le diverse inquadrature e poi giuntandole l’una all’altra secondo
l’ordine desiderato. A partire dalla metà degli anni ‘80, grazie all’introduzione di programmi sempre più
raffinati e alla sostituzione del positivo originale con un semplice file, il montaggio, insieme al mixaggio di
immagini e suoni, potrà essere effettuato in un modo molto più rapido e consentire la prova di un gran
numero di varianti. Inoltre, l’uso del digitale ha permesso anche di effettuare riprese molto prolungate nel
tempo, non più limitate dalla quantità di pellicola disponibile su un caricatore, e di concepire interi film
girati in piano sequenza senza intervento alcuno del montaggio, come ad esempio accade in Ana Arabia
(2013; Gitai).

Il periodo che va dagli anni ‘80 a oggi ha anche manifestato radicali trasformazioni sia nell’esercizio
cinematografico sia nella fruizione spettatoriale. Per quel che riguarda l’esercizio l’evento più importante è
stato la diffusione delle multisale (da tre a otto schermi, solitamente collocate nelle zone centrali delle
città), dei multiplex e dei megaplex (che possono anche superare i 16 schermi, e sono edificati in periferia o
al di fuori dei grandi centri urbani, a loro volta parte di grandi centri commerciali). L’idea è stata quella di
inserire la visione di uno spettacolo cinematografico dentro una serie di rituali propri del tardo-capitalismo
e della globalizzazione; le sale, poi, sono particolarmente confortevoli, dotate di poltrone e di sofisticate
tecnologie di proiezione e riproduzione del sonoro di tipo digitale. La diffusione dei multiplex ha
determinato una proliferazione degli schermi cinematografici, che tuttavia non ha, se non raramente,
promosso la diffusione di quei film solitamente penalizzati dal mercato, dato che tutti multiplex fanno a
gara per poter proiettare gli stessi blockbuster hollywoodiani.

Di maggior sostanza il mutamento delle forme della fruizione cinematografica che si è davvero
rivoluzionata lungo tre coordinate strettamente correlate fra loro: home video, digitale, Internet. Il
fenomeno dell’home video nasce alla fine degli anni ‘70 con l’introduzione nel mercato delle videocassette
VHS (Video Home System). Verso la fine degli anni ‘80, la gran parte delle famiglie dei paesi industrialmente
avanzati possedeva un videoregistratore con cui poter vedere film, noleggiati o acquistati. Alla tradizionale
visione in sala si affiancava così quella individuale, familiare o fra amici, tra le pareti domestiche e non più
determinata dalla programmazione dei palinsesti televisivi. Per la prima volta, era possibile non solo vedere
un film ma anche possederlo. L’home video determinò anche il ritorno sul mercato dei vecchi classici della
storia del cinema, insieme a quelli dei film delle stagioni immediatamente passate (sostituendo così il
circuito delle seconde visioni). Nel corso degli anni ‘80, il guadagno ottenuto dalla vendita e dal noleggio di
videocassette riuscì, prima di entrare in crisi, a superare quello della tradizionale distribuzione
cinematografica. A metà degli anni ‘90 entra in gioco il digitale, le videocassette scompaiono e sono
sostituite prima dai DVD (Digital Versatile Disc), introdotti nel 1997, e poi, nel 2006, dei Blue Ray, in grado

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di immagazzinare un numero di dati anche di 10 volte superiore a quello del precedente formato. DVD e Blu
Ray consentono una qualità tecnica della riproduzione di immagini e suoni di molto superiori a quella del
VHS, e si differenziano da questo per il fatto di poter offrire i film tanto in versione doppiata che in lingua
originale sottotitolata, e per la presenza di diversi possibili extra. Nel complesso il fenomeno dell’home
video, nonostante il dilagante fenomeno della pirateria, ha garantito nuovi introiti al mercato
cinematografico, che ha così ampiamente sopperito a un inevitabile calo del pubblico nelle sale. Il terzo
aspetto che ha profondamente modificato le possibilità di fruizione cinematografica è quello relativo a
Internet, che con lo sviluppo delle connessioni a banda larga ha consentito sia la visione di un film in
streaming, sia la possibilità di scaricare un intero film sul proprio hard disk. Grazie al digitale e a Internet
chiunque può avere a disposizione sui propri schermi domestici quasi l’intera storia del cinema, insieme a
quei film contemporanei che la distribuzione nelle sale penalizza.

Nel cinema contemporaneo esiste in qualche modo tutto il cinema del passato: film classici, film ispirati alla
modernità, cinema d’autore, cinema di genere, grandi produzioni, storie minimaliste, revival del cinema
muto… Tra le varie tendenze c’è anche il cinema postmoderno, che si è progressivamente affermato dagli
anni ‘80 ad oggi; esso costituisce una delle tante manifestazioni, probabilmente la più nuova, del cinema
contemporaneo. È declinabile in una linea più votata al mercato ed in un’altra più vicina ad una logica
d’autore; il cinema postmoderno non ha inventato nulla di nuovo ma ha fatto proprie certe caratteristiche
del cinema classico e di quello moderno, mutandone alcuni aspetti e mescolandoli poi fra loro in un’inedita
composizione.

Il cinema postmoderno prende dal cinema classico il gusto del racconto e il tentativo di coinvolgere lo
spettatore nella finzione; dal cinema della modernità prende invece una certa prassi di sperimentazione e
innovazione del linguaggio, insieme a un’evidente consapevolezza metafilmica. I film postmoderni
ritornano a raccontare delle storie e a soddisfare il bisogno di affabulazione del pubblico, ma sono storie
spesso molto più complesse e labirintiche di quanto non lo siano quelle del cinema classico, giocando a
confondere tra loro il presente, passato e il futuro, la dimensione oggettiva e quella soggettiva, la realtà e il
sogno, il tempo dei fatti e quello della memoria, i mondi reali e quelli virtuali, la vita e le sue immagini; vi è
un rifiuto della linearità e progressione narrativa. Un esempio di tali film è Inception (2010; Nolan). In questi
film il tempo del racconto è interrotto, spezzato, ramificato, a volte reso reticolare; tale complicazione del
racconto era già evidente in alcune tendenze del cinema della modernità, per esempio in L’anno scorso a
Marienbad (1961) di Resnais; la differenza sostanziale, tuttavia, costitutiva del cinema postmoderno, è che
nei film contemporanei la labirinticità narrativa non minaccia le possibilità di comprensione dello
spettatore, ma al contrario cerca di appassionarlo e di rendere più avvincente la stessa narrazione. Come
voleva il cinema classico, anche quello postmoderno punta al coinvolgimento emotivo del pubblico, ma
spinge questo progetto ai suoi estremi. Lo spettatore è immerso in un bagno di sensazioni, gli si deve offrire
un’esperienza audiovisiva: film concerto. A questa vertigine audiovisiva in cui lo spettatore è trascinato
contribuiscono non poco i mirabolanti effetti costruiti grazie al digitale; alcuni dei più spettacolari film
contemporanei offrono innanzitutto al loro pubblico come attrazione principale quella della loro stessa
tecnica (come accadeva nel cinema moderno). Vi è anche una evidente dimensione meta-cinematografica;
il cinema postmoderno si presenta al suo pubblico come un evidente costrutto semiotico, non cerca più
l’inganno della finzione ma esibisce la propria artificialità, secondo una prassi che potrebbe ricordare quella
del cinema della modernità. Di nuovo, però, c’è una differenza essenziale: mentre il cinema della modernità
si rivolgeva a un’élite intellettuale, il cinema postmoderno si rivolge al grande pubblico, producendo degli
oggetti che si presentano più in veste di giocattoli, attrazioni da decifrare, che di costrutti ermetici.
L’artificialità del film postmoderno è data anche da: complesse strutture narrative (manipolazioni spazio-
temporali); sistematico ricorso al gioco delle attrazioni (volontà di stupire il pubblico); carattere meta-
cinematografico che dà vita alla forma “pastiche”, per cui ogni film è intessuto di esplicite citazioni di altri
film. La diffusa intertestualità perde ogni dimensione elitaria per farsi oggetto di massa. La vocazione del

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cinema postmoderno, oltre che intertestuale, è anche intermediale; il cinema contemporaneo fa proprie
certe caratteristiche di linguaggio e comunicazione di altri media, in un fitto e costante dialogo con la
televisione, i fumetti, la pubblicità, la moda, i video musicali, i computer e Internet…

America oggi: blockbuster e produzione indipendente

Le innovazioni tecnologiche e la rivoluzione del digitale hanno per prime riguardato la realtà del cinema
americano. Esaurita la spinta innovativa della New Hollywood, gli studi principali (Warner Bros, Paramount,
20th Century Fox, Universal, MGM, Disney e Columbia) si sono mosse soprattutto nell’ambito della
distribuzione, collaborando con le produzioni indipendenti, entrando a far parte di vere e proprie
multinazionali operanti in diversi settori (ad esempio la Columbia è stata acquistata nel 1989 dalla Sony) e
creando un sistema complessivo di industria dell’intrattenimento comprendente il cinema, la televisione,
l’home video, la musica, l’editoria, il merchandising, i parchi tematici ecc.

Ancor più che in passato, le majors tornarono a puntare sulle megaproduzioni, affidate a registi di prestigio,
con la presenza di attori famosi e un gran dispiego di effetti speciali; si è inoltre cominciato a fare
affidamento ad accurate campagne di lancio pubblicitario tese a fare dell’uscita di un certo film un evento.
Per via di questi aspetti, le cifre dei budget di produzione sono incredibilmente lievitate rispetto al recente
passato. La gran parte dei blockbuster hollywoodiani tendono a dimenticare la realtà, a scegliere la favola
disimpegnata, a esaltare la parte infantile dello spettatore, puntando sulla politica dei sequel (ad esempio si
pensi agli Harry Potter, 2001-2009). Il cinema fantastico, quello che meglio può trar partito dagli effetti
speciali digitali, torna a far da padrone soprattutto nell’ambito del fantasy, della fantascienza, del cinema
d’azione e dell’horror; le majors puntano a una globalizzazione dei film e, anche grazie al potere delle
multinazionali di cui sono parte, a una sempre più risoluta conquista dei mercati esteri.
I film a medio budget, tuttavia, sono ancora una necessità per Hollywood. Essi, infatti, servono sia a
riempire una programmazione che non può vivere di sole megaproduzioni, sia a permettere la scoperta e il
lancio di nuovi cineasti. Ed è in quest’ambito che il rapporto con la produzione indipendente ha assunto
un’importanza particolare. Dagli anni ‘80 a oggi, il panorama del cinema indipendente si è fatto molto
articolato e, grazie al lavoro di compagnie come la Orion, la New Line Cinema e la Miramax, si ha una
produzione che va da film indistinguibili da quelli commerciali delle majors, ad altri interni al rigore e alla
logica del film d’autore (per la pregnanza tematica, per l’elaborazione di strategie visive e narrative aliene ai
modelli mainstream), e ad altri ancora che si caratterizzano per una dimensione più trasgressiva e
provocatoria.

Il cinema indipendente più originale, trasgressivo ed autore si è avvalso, per la sua diffusione, del circuito
dei festival internazionali. Importante a questo riguardo anche il ruolo dell’home video e di Internet, che
possono, in parte, colmare le lacune delle diverse distribuzioni nazionali.

Fra le figure più rappresentative del cinema americano contemporaneo vi sono autori che, più di altri,
sembrano avere mantenuto un certo legame con i modelli classici, pur avendo anche decisamente
contribuito a un loro aggiornamento: tra questi Clint Eastwood e Michael Mann.

Clint Eastwood ha avuto la duplice carriera di interprete e regista; egli è stato autore di film che, pur
muovendosi nell’ambito dei tradizionali generi e proponendo i classici temi della ricerca di giustizia e del
riscatto morale, si sono spesso costruiti su personaggi problematici, complessi e a volte addirittura ambigui.
Con l’avanzare degli anni, i lavori del regista sono anche diventati un’accurata meditazione sulla vecchiaia,
sia sui rimpianti che inesorabilmente la segnano, sia su ciò che essa può ancora offrire all’esistenza umana.
Egli esordisce come regista nel 1971. Nella sua produzione degli anni ‘70 ha avuto un ruolo fondamentale il
western; egli è stato evidentemente influenzato dal cinema di Leone, di cui è stato attore.

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Girerà Gli spietati (1992), premiato con l’Oscar, film cupo e notturno, che narra di un ex killer, di un uomo di
colore e di un ragazzino che si ergono a difensori di un gruppo di prostitute, in un mondo dove a contare
non è più l’eroismo ma sono l’avidità, la violenza gratuita, il cinismo e la disperazione.
Eastwood raggiunge probabilmente l’apice della sua carriera di autore negli anni 2000; nel 2004 gira Million
Dollar Baby; nel 2008 Gran Torino. Il primo, premio Oscar, affronta il difficile tema dell’eutanasia e della
responsabilità dei “padri”, attraverso il rapporto di un vecchio allenatore e una giovane pugile
professionista, paralizzata da un colpo ricevuto in un combattimento. Il secondo narra invece del rapporto
che si viene a creare fra un vecchio operaio in pensione, in rotta con i suoi figli, e una famiglia immigrata del
sud-est asiatico, sua vicina di casa. Dopo le difficoltà iniziali, l’uomo assumerà un ruolo paterno nei
confronti dei due più giovani, per i quali arriverà come un martire a sacrificare la propria vita, in cambio
della quale avrà però imparato quel rispetto per “l’altro” che non sempre ha segnato la storia del suo
Paese.

Michael Mann ha ripreso, aggiornandole, le tradizionali atmosfere del noir, del western, del gangster film e
del cinema d’impegno civile. Egli ha un certo gusto per l’azione, per l’approfondimento psicologico di
personaggi contraddistinti da una forte etica professionale, ma mai troppo eroici, sempre segnati da
ambiguità, contraddizioni, un certo nichilismo e prigionieri di un destino già scritto. Il regista si affida spesso
al topos dell’incontro-scontro fra due individui dalla forte personalità. Gira nel 1991 Il silenzio degli
innocenti, che è destinato a divenire celebre così come il personaggio Hannibal Lecter (da alcuni romanzi).
Del 1992 è invece L’ultimo dei Mohicani, western che alla tradizionale componente epica del genere
aggiunge una dimensione onirica.

Tra i registi e gli autori che nel complesso della loro opera, a volte molto variegata, hanno meglio saputo
seguire la strada dei blockbuster, realizzando alcuni dei più importanti film spettacolari hollywoodiani, vi
sono Ridley Scott, Zemeckis, Cameron, Bigelow.

Ridley Scott è autore discontinuo di diversi film e super produzioni, alcuni dei quali hanno lasciato un forte
segno nell’immaginario del cinema contemporaneo. Nel 1979 gira Alien, in cui un gruppo di astronauti,
guidato insolitamente da una donna, tenta di difendersi da un’enorme e orripilante creatura aliena. Film di
fantascienza che vira verso l’horror, il film è divenuto, per il carattere metafisico, per la tensione crescente
e per il senso d’angoscia diffuso, uno dei più importanti film della storia del genere, e ha dato origine a
diversi sequel, diretti da altri registi. L’opera che ha più determinato la fama di Scott è Blade Runner (1982);
in questo film la fantascienza è mescolata al noir, e narra la storia di un cacciatore di taglie alla ricerca di un
gruppo di androidi ribelli, che nessuno sarebbe mai in grado di distinguere da normali esseri umani; film
segnato da un evidente pessimismo esistenziale e sociale. Gira anche Thelma & Luise (1991), Il gladiatore
(2000).

Zemeckis è invece autore di: Ritorno al futuro (1985), strepitoso successo di pubblico, prodotto da
Spielberg, diede vita a due sequel; Forrest Gump (1994), premio Oscar e film più ambizioso del regista, in
cui si costruiscono trent’anni di storia americana, dalla contestazione in poi, attraverso l’incredibile vicenda
di un arguto idiota che riesce a coronare tutti i suoi sogni; Cast Away (2000), rilettura del mito di Robinson
Crusoe; A Christmas Carol (2009), film d’animazione digitale in 3D, realizzato con la tecnica del performance
capture, tramite cui i movimenti di attori reali vengono trasformati in quelli di creature animate.

Cameron è autore di alcune fra le più fortunate super produzioni del cinema hollywoodiano; è regista
soprattutto di favole fantascientifiche e tecnologiche, dalla forte energia narrativa, di spettacolare
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magniloquenza visiva, dove il massiccio uso di effetti speciali digitali non va a discapito
dell’approfondimento psicologico dei personaggi e dell’esame dei loro dilemmi morali. Gira: Terminator
(1984), seguirà un sequel; nel 1986 gira al secondo episodio della saga di Alien, Aliens - Scontro finale; nel
1997 gira Titanic, vincitore di 11 premi Oscar e campione assoluto d’incassi della storia del cinema. Il film
rievoca l’affondamento del famoso transatlantico, accompagnandovi una tormentata storia d’amore fra
una passeggera miliardaria e un viaggiatore di terza classe. Nel 2008 gira Avatar, in cui il digitale e il 3D
concorrono nel narrare la storia di un ex marine paraplegico che accetta, con l’aiuto di un avatar, di
esplorare un pianeta lontano ed entrare in contatto con i suoi abitanti; scopo della missione è quello di
espellere gli alieni dalle loro terre per entrare così in possesso del prezioso minerale che esse nascondono.
L’uomo, però, innamoratosi e ricambiato di una aliena, finirà con lo schierarsi dalla parte dei nativi.

Tra il miglior cinema spettacolare hollywoodiano c’è sicuramente Matrix (1999) di Andy e Larry/Lana
Wachowsky, che narra di un mondo futuro in cui gli uomini vivono in una realtà virtuale che fa credere loro
di essere liberi individui (avrà due sequel).

Il cinema indipendente è contrassegnato dalla pregnanza dei contenuti e da uno stile originale.
Tra i registi della cosiddetta new wave newyorkese, affermatasi a partire dalla fine degli anni ‘70,
richiamandosi in parte al cinema underground e alle sue correnti più narrative, vi sono Jim Jarmusch e Gus
Van Sant.

Gus Van Sant → Il suo cinema ha posto in primo piano figure che vivono ai margini della società, in
particolare adolescenti innocenti e disperati, sbandati e smarriti, belli e dannati. Attraverso uno stile in cui
soluzioni classiche si mescolano ad altre decisamente sperimentali, l’autore ha saputo più di altri dare
corpo al bisogno d’amore e al disagio di una gioventù e di una generazione senza padri, emblematiche della
società contemporanea e della sua mancanza di valori. Egli affronta con una certa frequenza il tema della
diversità sessuale, sia maschile, sia femminile. Nel 1991 gira Belli e dannati; al centro del film vi sono amore
omosessuale e prostituzione maschile. Un caso decisamente anomalo, che potrebbe ricordare l’arte
concettuale e le serigrafie di Andy Warhol, nella sua filmografia, è quello di Psycho (1999), che non è un
semplice remake del film di Hitchcock, ma una sua copia quasi identica (con piccole variazioni a partire
dall’uso del colore). Quotidianità, inquietudini e ansie adolescenziali, insieme a un uso soggettivo del tempo
che rifiuta la linearità cronologica, sono al centro anche di Paranoid Park (2007). Nel 2008 gira Milk, un
biopic dedicato ad Harvey Milk, leader del movimento omosessuale degli anni ‘70.

Altri autori importanti del periodo sono Cohen, Spike Lee, e Tim Burton, che si sono mossi in buona parte
nell’ambito del cinema indipendente. Tuttavia, i loro film, si caratterizzano per un maggiore e più evidente
senso dello spettacolo.

I fratelli Cohen sono autori di un corpo consistente di opere, via via sempre di maggior pregnanza letteraria,
soprattutto per l’approfondimento dei personaggi, dal carattere spesso visionario ed onirico. Essi hanno
offerto una visione anche cruda della società americana, con una particolare attenzione alla realtà della
provincia, in chiave spesso straniata, deformata e grottesca. La rappresentazione di un mondo caotico e
disadattato, con personaggi senza qualità, fuori ruolo e travolti dal corso degli eventi, hanno assunto a volte
una dimensione tragica, ma quasi sempre attraversata da un certo umorismo, da un certo gusto per la farsa
grottesca, da soluzioni fumettistiche, da effetti derivati dalla screwball comedy (commedia “svitata”,
irregolare, imprevedibile), da un uso ironico del grand guguignol (macabro e cruento spettacolo; termine
da un teatro parigino). L’opera dei Cohen si propone anche come un viaggio nella storia del cinema, non
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solo per la loro attenzione generi, ma anche per una scrittura che sa volutamente déja vu e per il continuo
gioco di omaggi e citazioni, a volte anche di natura letteraria. Lo stile è assai vivace, con impennate
improvvise, prospettive distorte, uso mercato del grandangolo, accentuate angolazioni e movimenti di
macchina impossibili. Si rifanno anche alla slapstick comedy, sottogenere del film comico nato dal muto e
articolato su gags. Nel 2007 realizzano uno dei capolavori del cinema americano contemporaneo, Non è un
paese per vecchi. Film che vince il premio Oscar, è una storia violenta nella quale scompaiono gags e toni da
commedia; viene rappresentato l’orrore di un mondo che ha smarrito del tutto il senso della morale.

Tra gli autori più originali, visionari e riconoscibili del cinema americano contemporaneo vi è Tim Burton.
Egli si è formato nella scuderia di Walt Disney e questo ha avuto un peso determinante nella sua carriera,
non solo per i film d’animazione prodotti e realizzati, ma anche per gli evidenti effetti cartoon, sia nell’uso
di corpi che sembrano pupazzi, sia nella costruzione delle inquadrature e della loro successione. Erede della
tradizione del gotico e dell’espressionismo, Burton è autore di favole cinematografiche che esaltano il lato
oscuro dell’infanzia e dove i tipici ingredienti del genere si mescolano a tonalità macabre e funeree,
contesti dark, atmosfere inquietanti e soluzioni horror. L’attenzione alla condizione esistenziale del diverso,
la subordinazione delle storie a una dimensione visiva allucinata, in cui scenografie, costumi e trucco la
fanno da padroni, e i frequenti riferimenti al mondo del cinema e al suo immaginario sono altre
caratteristiche essenziali dell’intera opera del regista. Dopo alcune piccole produzioni gira per la Warner
Batman (1989); poi Batman - Il ritorno (1992). Pur lavorando a due megaproduzioni, piene di star, costosi
effetti speciali e promosse da grandiose campagne pubblicitarie, Burton mantiene intatte le proprie
caratteristiche. I film che più ne hanno determinato la fama sono: Edward mani di forbici (1990), che narra
dell’irrompere in una linda e sonnolenta città americana, fatta di villette tutte uguali e tinte pastello, di una
creatura dall’animo gentile che al posto delle dita ha delle lame taglienti; inizialmente viene accolto bene
dalla comunità e dalla famiglia-tipo che lo ospita, ma Edward (interpretato da Johnny Depp, che diverrà poi
una presenza costante nel cinema di Burton) sarà però poi al primo equivoco vittima dell’odio del diverso.
Nel 1993 gira Nightmare before Christmas; nel 2001 un remake de Il pianeta delle scimmie; nel 2003 Big
Fish - Le storie di una vita incredibile, vero e proprio inno alla fantasia e alla sua forza salvifica, specie
quando si trasforma in racconto, attraverso una storia popolata di creature fantastiche e diverse; nel 2005
un remake de La fabbrica di cioccolato, tripudio di colori, scenografie e coreografie, e un ritorno
all’animazione di pupazzi in stop motion con La sposa cadavere; nel 2012 Dark Shadows, favola che
mescola horror e romanticismo.

Espressione della cultura afroamericana attraverso un’opera che ha in diverse occasioni privilegiato il punto
di vista corale di una collettività rispetto a quella di un singolo individuo, il cinema di Spike Lee fonde i
modelli del cinema classico hollywoodiano a una serie di istanze provenienti dalla stagione delle nouvelles
vagues e dalle forme del documentario militante. Egli mescola i generi e li accompagna ad effetti brechtiani
quali: personaggi che parlano rivolti alla macchina da presa e allo spettatore, che mettono in scena la realtà
multietnica americana, in particolare quella della comunità nera, e che affrontano esplicitamente
tematiche razziali e il loro irradiarsi all’interno dei diversi gruppi, senza tralasciare aspetti quali l’influenza
della moda nei comportamenti quotidiani e il fascino esercitato su molti neri dai modelli di vita del
consumismo bianco. Segnato da un evidente impulso didattico, il cinema di Lee ricorre a uno stile molto
variegato, in cui l’uso della musica, dei movimenti di macchina e del colore assumono, insieme alla città di
New York, un ruolo di primo piano. Il suo primo lungometraggio è Lola Darling (1986), vero e proprio
manifesto del cinema indipendente americano: piccolo budget, uso del bianco e nero, riprese semi
improvvisate, attori quasi esordienti e tutti afroamericani. La storia verte sui rapporti di una ragazza di
colore con i suoi diversi amanti, ognuno dei quali rappresenta un certo modo di essere della comunità nera
newyorkese; è una commedia segnata da evidenti elementi di innovazione rispetto ai modelli classici come

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testimoniano i monologhi rivolti allo spettatore, l’intermezzo musicale a colori e gli espliciti riferimenti
sessuali.

Tra i registi che hanno esordito negli anni 90 e che si sono imposti nel nuovo secolo: Paul Thomas Anderson,
Christopher Nolan, Todd Solondz.

Nolan si è imposto negli anni 2000 come uno dei cineasti che meglio ha interpretato le logiche del cinema
postmoderno e di quello digitale, alla luce di un’originale sintesi fra esigenze autoriali e necessità
spettacolari. Egli recupera le logiche dei generi, soprattutto noir e fantascienza, dando a esse una
particolare sostanza, una logica introspettiva che indaga, anche nei suoi blockbuster, le profondità della
mente umana e il suo rimosso, interrogandosi sul funzionamento della psiche, sulle colpe dell’inconscio, sul
rapporto fra fini e mezzi. Si affida spesso a soggetti concettuali e trame labirintiche, dà vita a sperimentali
forme temporali e reticolari, giocate su andirivieni fra presente e passato, su passaggi tra realtà oggettive,
mnemoniche e oniriche, e sull’intersecarsi di vicende parallele, attraverso cui riesce a esaltare la
dimensione spettacolare dei suoi film. Nel 2000 gira Memento; il protagonista della storia è un uomo che, a
causa di un incidente, ha perso la memoria a breve termine ed è costretto a scrivere su foglietti di carta o
sul proprio corpo quel che di importante gli è accaduto il giorno prima per ricordarselo in quello successivo.
Il film ha un’insolita struttura narrativa che parte dalla fine della storia, per risalire, sequenza per sequenza,
al suo inizio: narrazione a ritroso. Per la Warner, l’autore gira Batman Begins (2005), primo atto di una
trilogia che proseguirà con Il cavaliere oscuro (2008) e Il cavaliere oscuro - Il ritorno (2012). La sua Gotham
City è realizzata in un contesto moderno e a suo modo realistico; Nolan rivisita il celebre supereroe
spogliandolo della sua natura fumettistica, così come elimina le caratteristiche barocche e pop che avevano
contrassegnato in precedenza i film di Burton, per renderlo un personaggio più oscuro, cupo e inquieto. Del
2006 è invece The Prestige, ambientato nell’Inghilterra vittoriana e incentrato su un prestigiatore accusato
di aver assassinato un suo collega; del 2010 è invece Inception, straordinario punto di incontro fra le logiche
del blockbuster, del digitale e del postmoderno d’autore e di spettacolo, in cui un uomo e la sua fidata
squadra sono pagati per entrare nei sogni dell’erede di una potente multinazionale e spingerlo così a
smantellarla. Sospeso fra mondi onirici e mondi reali, affidato a un complesso uso del montaggio, il film si
affida ancora una volta ad una complessa struttura narrativa che tuttavia non va a detrimento dello
spettacolo e del coinvolgimento dello spettatore.

Anche dall’Australia, dalla Nuova Zelanda e dal Canada, sono giunti alcuni registi che hanno ottenuto una
notevole fama. Un regista australiano che si è affermato internazionalmente, tanto da proseguire poi la sua
carriera negli Stati Uniti è Peter Weir. Gli aspetti dominanti del suo cinema sono l’incontro e scontro fra
culture diverse, il carattere misterioso, insondabile e minaccioso della natura, il gusto per l’ignoto e il
mescolarsi di realismo e fantastico. Egli raggiunge un grande successo di pubblico con L’attimo fuggente
(1989), che, ambientato alla fine degli anni ‘50, narra di un insegnante di un collegio americano che
conquista i suoi allievi attraverso entusiasmanti lezioni, usando la poesia come strumento per liberare la
loro più autentica personalità. Altra opera chiave della sua carriera è The Truman Show (1998), storia di un
uomo che scopre, o forse è indotto a scoprire per motivi di audience, che il suo mondo è in realtà quello di
una soap-opera trasmessa dalla televisione 24 ore su 24, in cui tutti recitano salvo lui.

Regista di film horror dal carattere glaciale e torbido, in cui il male non è un nemico esterno ma proviene da
dentro l’uomo stesso, Cronenberg ha sviluppato nei suoi film una serie costante di temi, cari alla cultura
cyberpunk, come quelli del contagio, della sessualità, delle mutazioni della carne, della contaminazione tra
biologico e tecnologico, del ruolo dei media nella società. I suoi film hanno un carattere scioccante e di

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provocazione, teso sempre a rendere visibile anche ciò che è inimmaginabile. Nel 1983 gira Videodrome,
che verte sulle immagini di torture e omicidi messe in onda da un’emittente clandestina, colpevoli di
procurare in colui che le riguarda un tumore che ne farà un assassino. Gira poi La mosca (1986), rifacimento
di un classico della fantascienza di serie B del 1958. La storia verte su di uno scienziato il quale nel corso di
un esperimento di teletrasporto della materia, condotto su sé stesso, è contaminato da un insetto: l’uomo
sarà così vittima, in un crescendo di angoscia, di una mostruosa e irreversibile metamorfosi, che inciderà sul
suo corpo, sulla sua sessualità e sulla sua psiche.

Il mondo allucinato di David Lynch

Il cinema di David Lynch, allucinato e visionario, è intessuto di enigmi e misteri; sonda a fondo, insieme ai
meandri della psiche umana, le possibilità espressive del linguaggio filmico. La complessità dei racconti e
della loro struttura è una caratteristica del suo cinema. Egli tende a sovrapporre diversi livelli di realtà (da
quella fisica a quella mentale, da quella onirica a quella del desiderio); essa si costruisce in forme ambigue e
oscure, le quali spesso colgono lo straordinario nell’ordinario, rifiutano la narrazione lineare e le spiegazioni
razionali, creando un senso di profonda inquietudine e mistero, immergendo lo spettatore in un mondo
sordido e allucinato.

Nel 1980 gira The Elephant Men; ambientato nella Londra vittoriana, ripropone i temi del mostruoso e del
deforme; la storia, che procede in forme narrative lineari, racconta le vicissitudini dell’impossibilità di
condurre una vita normale da parte di un uomo affetto da una grave anomalia che ne deforma le ossa del
cranio, rendendole simili a quelle di un elefante. Girato in bianco e nero, il film assume come punto di vista
dominante quello della creatura, ponendo in primo piano i sentimenti di paura che questa prova in quanto
oggetto di scherno, raccapriccio, disgusto, odio e ipocrita compassione o curiosità scientifica. Avrà un
notevole successo di pubblico. La dimensione visionaria e allucinatoria di Lynch traspare nella serie
televisiva Twin Peaks (1990-1991). La natura autoriale ed eccentrica del suo cinema si basa anche sulla
messa in crisi della tradizionale figura del soggetto narrativo. Egli indaga motivi oscuri e misteriosi, temi
dello sdoppiamento, dell’alterazione di identità, del sovrapporsi di oggettività e soggettività. I suoi film
riflettono anche sul cinema. Un’evidente dimensione cinematografica vi è in Inland Empire (2006); girato in
digitale attraverso un'accentuata vicinanza della videocamera ai volti e ai corpi dei personaggi, racconta
della lavorazione di un film e della sua protagonista che finisce col confondere realtà e finzione e con
l’entrare in un mondo popolato da incubi terrificanti.

Inland Empire – L’impero della mente (2006; Lynch)

- l’attrice scelta per un remake di un film maledetto è vittima di una sorta di transfert per cui comincerà a
mescolare realtà e finzione
- il film, come di consueto per Lynch, è una specie di thriller fantastico e perverso, pieno di simboli e trovate
razionalmente incomprensibili, che sfocia ben presto in un viaggio all’interno dell’impero interiore dello
spettatore
- il regista utilizza in alcuni momenti una dilettantesca rozzezza da principianti e in altri una monumentale
capacità di messa in scena ipnotica
- il film si presenta come un’esperienza sensoriale totalizzante, un esempio di cinema sinestetico che
coinvolge tutto il complesso percettivo dello spettatore
- Lynch giunge all’astrazione pura, sfidando la coerenza stessa delle immagini in movimento e in
successione; alcune scene non si spiegano, e forse questo è il loro senso; dietro, infatti, c’è la
consapevolezza che il caos del mondo e della vita siano irrappresentabili se non sotto forma di delirio
- girato completamente in digitale, con un uso forsennato della luce, il film è un susseguirsi di penombre,
nebbie, luci posizionate fastidiosamente contro l’obiettivo; la narrazione è frammentata e discontinua, con
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dissolvenze; il flusso diegetico è in continua evoluzione verso nuovi piani dove i diversi livelli (sogno,
realtà…) si sovrappongono tra di loro lasciando interdetto lo spettatore
- il film rivela tutta la sua complessità e il caos di una narrazione destrutturata (serie di livelli diegetici che
interagiscono e dialogano reciprocamente senza soluzione di continuità); il suo principio compositivo è
orientato al gioco metalinguistico; tutto il cinema del regista, del resto, sembra perseguire l’obiettivo di
abbattere le barriere sfuggenti e invisibili tra realtà e dimensione onirica
- il film è un vero e proprio manifesto della ricerca e della sperimentazione sia nel campo tecnico sia in
quello della drammaturgia; sul piano tecnico, l’uso della cinepresa digitale permette a Lynch di muoversi in
ambienti meno illuminati, ma soprattutto gli garantisce la possibilità di rompere la razionalità geometrica
degli spazi, deformando gli ambienti e riducendo la distanza tradizionale tra obiettivo e le persone riprese
- alla componente meta cinematografica si affianca quella della fiaba; il film sembra fatto di mondi-storie
uno dentro l’altro; non vi è la pretesa di ricondurre a un ordine logico e cronologico
- il film è labirintico e vampiresco, sconnesso e sofisticato, è l’ideale conclusione della trilogia sull’inconscio
girata dal regista (Strade perdute – 1996; Mulholland Drive – 2001)

Il cinema postmoderno di Quentin Tarantino

Tarantino è autore di un’opera molto rappresentativa del cinema postmoderno. I suoi film sono costruiti su
invenzioni e attrazioni audiovisive; la colonna sonora, ad esempio, è una componente essenziale del suo
lavoro. La sua opera si basa sul rapporto ludico e ironico col cinema di genere e il grande immaginario della
cultura di massa, sul ludico gioco delle citazioni, sul trattamento ironico della violenza, su un umorismo
dissacrante, su un uso funambolico del linguaggio cinematografico fatto di accentuate angolazioni, dettagli
iperrealistici, elaborati movimenti di macchina e arditi effetti di montaggio. Le sue storie, criminali, noir,
belliche o western, lasciano grande spazio a conversazioni argute e paradossali, frantumano la linearità
narrativa, assumono un andamento labirintico, fatto di continui flashback, complessi incastri strutturali e
moltiplicazione dei punti di vista, che tuttavia non attentano alla possibilità di comprensione dello sviluppo
del racconto da parte dello spettatore, ma mirano a coinvolgerlo sempre di più in una narrazione
particolarmente tesa e avvincente, cui contribuisce anche l’efficace direzione degli attori. L’esordio alla
regia avviene nel 1992 con Le iene, film indipendente in cui già si trova una esplicita, ma anche caricaturale,
rappresentazione della violenza, un dominante tono ironico e sarcastico e una continua crescente tensione;
il film si avvale di una struttura narrativa a flashback, fondata su continui andirivieni temporali che
frantumano la tradizionale linearità diegetica. Caratteristiche che si ritrovano amplificate nel successivo
Pulp Fiction (1994), straordinario successo di critica e pubblico, ispirato ai racconti pulp, ossia quelli a base
di sesso e violenza, pubblicati su riviste da quattro soldi, che Tarantino rilegge con pungente ironia e
dissacratorio distacco. Egli ricicla diversi luoghi dell’immaginario popolare americano, intrecciando in un
sapiente incastro quattro diverse storie. Il carattere funambolico del cinema di Tarantino e il suo personale
e ironico rapporto con i generi e il cinema di serie B, il suo gusto per il pastiche e il riciclo dell’immaginario
popolare, anche quello a suo modo di nicchia, gli anomali percorsi temporali e ad incastro, si ritrovano in
Kill Bill - Volume 1 (2003) e Kill Bill - Volume 2 (2004), storia di una sposa che si vendica di coloro che hanno
perpetrato una strage nel giorno del suo matrimonio. Vi si trova del citazionismo postmoderno rivolto al
cinema di genere dell’estremo oriente e a quello samurai realizzato in Giappone. Nel 2009 gira Bastardi
senza gloria; nel 2013 Django Unchained.

21. IL CINEMA CONTEMPORANEO EUROPEO

Il cinema italiano: una nuova generazione di autori oltre la commedia

Dagli anni ‘80 ai giorni nostri, il cinema italiano è stato attraversato da un costante calo di pubblico, dovuto
anche alla crescita delle reti televisive private, prima, e satellitari, poi, e al diffondersi di nuove forme di
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intrattenimento, informazione e socializzazione. A tale situazione hanno in parte cercato di reagire il
diffondersi, come nel resto del mondo, delle multisale e dei multiplex, ed alcuni provvedimenti istituzionali
che hanno previsto dei finanziamenti statali per i film di interesse culturale nazionale e degli aiuti alle nuove
produzioni di opere prime. Ciò ha dato vita a un vero e proprio proliferare di esordi che, tuttavia, non
hanno trovato un adeguato sbocco sul piano della distribuzione e dell’esercizio. È però un dato di fatto che,
soprattutto negli anni ‘90 e 2000, si è registrato un importante ricambio generazionale, che ha portato
all’esordio nuovi cineasti di rilievo, alcuni dei quali si sono imposti anche sul piano internazionale. Nel
complesso il nuovo cinema italiano ha saputo instaurare un forte legame con la realtà sociale, politica e
antropologica del paese, facendo ricorso a forme espressive originali, che, con l’eccezione importante della
commedia e del comico, hanno reciso i legami col cinema di genere, e sono riusciti a disegnare una nuova
geografia del cinema nazionale, che si è sviluppato anche in forme regionali, in particolare al Sud con le
“scuole” napoletana e siciliana.

Nell’ambito di un cinema di consumo, che vedeva il più delle volte l’attore e il regista sotto la medesima
persona, il fenomeno di maggior rilievo che ha caratterizzato il cinema italiano degli anni ‘80 è stato quello
dei nuovi comici, tendenza con chiari riferimenti e rimandi alla commedia all’italiana, i cui principali
interpreti (Verdone, Troisi, Benigni, Nichetti, Nuti, Albanese, Aldo, Giovanni e Giacomo) hanno sviluppato
un proprio discorso sulla società, sugli usi e costumi di un popolo osservato con un occhio al tempo stesso
critico e partecipe ovvero ironico e divertito.

Benigni, che riprende a suo modo la tradizione dei giullari di corte, e si affida a una straordinaria mobilità
del viso del corpo, è riuscito a dare prestigio internazionale al cinema italiano, in particolare con La vita è
bella (1997), fiabesca ricostruzione in chiave tragicomica delle vicissitudini di un padre e un figlio in un
campo di sterminio nazista, che gli è valso l’Oscar per il miglior film straniero.

I vertici del box office italiano di gran parte degli ultimi trent’anni sono stati, tuttavia, raggiunti dai
cosiddetti cine panettoni, diretti da registi come Neri Parenti o Carlo Vanzina, che più che costituire una
satira dei vizi dell’italiano medio, ne sono una sorta di complice assoluzione, nonché un esempio di cinema
espressivamente assai sciatto e inerte.

Nanni Moretti, tra gli autori di maggior prestigio, anche internazionale, del cinema italiano odierno, si è
formato nell’ambito di un cinema per molti aspetti comico. Egli inizia la carriera con un prodotto amatoriale
in cui già si trova il suo personaggio e alter ego Michele Apicella, da lui stesso interpretato. In questa opera
sono già definite, attraverso le vicende di un gruppo di teatranti off, alcune caratteristiche del cinema del
regista: osservazione disincantata e a tratti cinica del mondo giovanile; disillusioni della politica, in
particolare della sinistra; nichilismo; ostentato narcisismo mediato da una altrettanto evidente autoironia;
gusto per situazioni e battute crudeli, a volte surreali; ironici riferimenti al mondo del cinema. Tali aspetti si
trovano ad esempio in Ecce Bombo (1978), ritratto frammentario di un disagio e un disorientamento
generazionale. In alcune delle sue opere si ritrovano anche elementi autobiografici. Lo stile del regista è
semplice e lineare, privo di fronzoli formalistici e di ricerca tecnicistica, depurato sul piano della narrazione
e della rappresentazione. Il cinema nel cinema, la satira politica e il ritratto di un paese alla deriva sono al
centro de Il caimano (2006), che narra le vicissitudini di un regista alle prese con un film su Berlusconi. Nel
2011 gira Habemus Papam, che verte su un pontefice appena eletto il quale scopre di non essere in grado
di reggere le responsabilità del mandato che gli è stato conferito.

Sempre nell’ambito della commedia, quella costruita più sul tema delle relazioni di gruppo che dell’amore
fra uomo e donna, si è formato Gabriele Salvatores. Aspetti essenziali del suo cinema sono: il ritratto
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generazionale, l’amicizia maschile, il viaggio come fuga, il rimpianto e la nostalgia per un passato che non è
più, la soffusa tristezza che si nasconde dietro i modi della commedia. L’opera più matura del cineasta si è
poi caratterizzata per il tentativo di mediare fra le esigenze di un cinema commerciale e una certa
vocazione allo sperimentalismo postmoderno e all’uso delle nuove tecnologie. Fa eccezione, nel panorama
dei suoi film di maggior successo della seconda parte della carriera, Io non ho paura (2003), tratto dal
romanzo di Niccolò Ammanniti, che in modo piano e lineare narra la storia di un ragazzino di 10 anni il
quale, nella Puglia degli anni ‘70, scopre, nascosto in una buca del cortile di casa, un suo coetaneo
incatenato, rendendosi progressivamente conto che questi è stato rapito dal padre e dalla sua banda di
criminali. In questo film evidenzia altri due elementi ricorrenti nel suo cinema: il ricorso a soggetti di origine
letteraria e gli intricati e complessi rapporti fra padri e figli. Aspetti che si ritrovano anche in Educazione
siberiana (2013), dal romanzo di Nicolai Lilin, vera e propria storia di iniziazione adolescenziale al mondo
del crimine.

Altro originale interprete della tradizione della commedia all’italiana, tramite cui ha offerto un ritratto
ironico e pungente, ma anche politico e senza facili indulgenze, di un’Italia proletaria e precaria, e di quella
delle dominanti classi medie, è Paolo Virzì, autore di film che si impongono per la capacità di mediare tra
una certa intensità di rappresentazione e la scioltezza narrativa, ma anche segnati da soluzioni di linguaggio
talvolta originali. Egli affronta temi come l’adolescenza, le divisioni politiche dell’Italia... Nel 2008 realizza
Tutta la vita davanti, una delle sue opere più apprezzate; il film è il ritratto corale di un paese, quello
berlusconiano, sottomesso ai miti del successo e della televisione attraverso la storia di una giovane
laureata in filosofia che non trova lavoro se non come operatrice di un call center. Il film contiene anche
alcune soluzioni di stile e organizzazione del racconto come il ricorso a inserti fantastici e surreali. Gira poi Il
capitale umano (2014), La pazza gioia (2016), Ella e John (2017).

Altro regista che ha segnato con forza cinema italiano dagli anni ‘70 ad oggi è Gianni Amelio: il suo è un
cinema politico e civile, attento al rapporto tra padri e figli, influenzato dal neorealismo.

Anche Pupi Avati ha attraversato senza interruzioni il cinema italiano dagli anni ‘70 fino ai giorni nostri; egli
ha sviluppato un proprio mondo poetico, segnato da un’evidente gusto per la malinconica
rappresentazione di sentimenti umani, in cui i fatti quotidiani, banali, si sono andati arricchendo di
prospettive a volta a volte curiose, grottesche, magiche, realistiche, in un suggestivo impasto stilistico, che
ha alternato i vari generi cinematografici, interpretati in chiave molto personale. Egli descrive il piccolo
mondo provinciale, le aspirazioni di personaggi semplici, mediocri e spesso perdenti, il ricordo a volte dolce,
altre amaro, dei tempi passati, l’amicizia, i sogni e le delusioni…

Negli anni ‘80 esordisce invece Giuseppe Tornatore, che ha dato respiro internazionale al cinema italiano
con Nuovo cinema Paradiso (1988), premio della giuria a Cannes e Oscar per il miglior film straniero. Nel
2013 ha girato La migliore offerta (2013).

Fra i cineasti dell’ultima generazione che hanno esordito tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio dei 2000, quelli
che si sono maggiormente imposti, anche a livello internazionale, sono Matteo Garrone e Paolo Sorrentino.

Il cinema di Garrone è un cinema fra neorealismo e cinema verità, minimalismo e attenzione al mondo dei
reietti, attori non professionisti e macchina spalla, piccoli budget, troupes ridotte al minimo… Nei suoi film
si trovano la dimensione del grottesco e dell’ossessivo che diverranno via via sempre più importanti. Con
Gomorra (2008), dal libro di Roberto Saviano e premio della giuria a Cannes, Garrone raggiunge quello che
è al momento il punto più alto della sua carriera. Ambientato a Scampia, allucinato e allucinante complesso
di edilizia popolare del napoletano, il film racconta della guerra fra cosche di Secondigliano, dell’economia

187
sommersa del casertano, della penetrazione della camorra nell’immaginario adolescenziale, attraverso
l’intrecciarsi di cinque diverse storie di malavita, il cui realismo di fondo è attraversato da lampi quasi
espressionistici.

Sorrentino nei suoi lavori collabora spesso con l’attore Toni Servillo; i suoi film costituiscono un amaro
spaccato dell’Italia contemporanea. Il suo stile è assai vivido; costante del cinema del regista sono le
inquadrature geometriche, gli ampi movimenti di macchina, i ricercati effetti di montaggio. Nel 2013 gira il
corale, ambizioso e felliniano La grande bellezza; sorta di Dolce vita del nuovo millennio, è il ritratto di una
Roma che cerca di nascondere nello sfarzo dei party e delle danze notturne il proprio disagio esistenziale;
Oscar come miglior film straniero.

Il cinema francese dopo la Nouvelle Vague

Dopo la grande stagione della Nouvelle Vague, il cinema francese, pur attenuando le punte sperimentali e
di ricerca degli anni ‘60, ha mantenuto una notevole vitalità, sia sul piano commerciale, sia su quello del
cinema d’autore. Il cinema francese è probabilmente quello che, grazie a un’industria relativamente solida,
alla diffusione di una cultura cinefila che non ha eguali, e all’orgoglioso nazionalismo che ha sempre
caratterizzato la cultura transalpina, ha saputo meglio resistere all’offensiva hollywoodiana.

Il cinema d’autore, in Francia, cresce grazie anche a una politica di coproduzione con gli stranieri. Essa ha
offerto importanti possibilità di lavoro a cineasti di primo piano. Anche nell’ambito di una produzione di
genere, come quella del noir, il cinema francese ha saputo dar vita a lavori che nell’intensità delle loro
atmosfere, nella profonda costruzione di personaggi spesso segnati da una certa ambiguità, e nella solidità
degli intrecci, hanno testimoniato un’evidente attitudine autoriale.

I principali cineasti che hanno segnato il cinema francese nel corso degli anni ‘70 e ‘80 sono, per esempio:
- Pialat, Tavernier → fregiati dal titolo di registi anti-nouvelle vague
- Eustache, Garre → continuatori di certe radicali istanze del movimento della nouvelle vague, soprattutto
in chiave post ’68, e caratterizzati dall’esplicita affermazione di una marginalità produttiva

- Pialat → Polemico con la Nouvelle Vague, rappresenta in modo sofferto le relazioni umane; ha la
capacità di parlarci senza mediazioni della vita e delle sue sofferenze, per l’intensità della sua
direzione d’attori, per quel misto di amore e rabbia che troviamo in ogni sua opera. Gira molti film
con l’attore Depardieu

- Tavernier → Si forma in ambito critico e teorico e poi passa a un cinema eclettico, anti-nouvelle
vague; gira film noir o comunque a sfondo criminale, affreschi storici e lavori dal carattere più
intimista che sono costretti a volte in spazi circoscritti nei quali si svolgono sofferenti rapporti
familiari

- Eustache → Filmografia dal carattere anarchico, in cui sono presenti le istanze più rigorose della
nouvelle vague; rifiuto dell’accostamento tra cinema e spettacolo, idea forte di autorialità,
insistenza sul quotidiano che prevale sulla dimensione del puro racconto, senso della morale,
insistito lavoro sul corpo degli attori e, soprattutto, forte e diretta componente autobiografica

- Garrel → Altro regista che ha in qualche modo continuato nel tempo a praticare alcuni degli aspetti
più radicali del cinema della nouvelle vague; nella sua opera ritroviamo l’intransigenza, la moralità,
l’autobiografismo, il lavoro sul proprio vissuto, il clima post ‘68 di Eustache, così come, ma con

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maggiore insistenza, la capacità di guardare in modo quasi scientifico, con inusitata intensità, senza
lirismo, né romanticismo, al sentimento d’amore, attraverso un discorso che è innanzitutto un
discorso sull’uomo e sulla sua difficoltà di rapportarsi agli altri. I film dell’autore si pongono come
autentici tranche de vie, al limite tra finzione e realtà, e sono film d’amore sofferti e dolorosi, che in
diverse occasioni si rifanno alla sua personale esperienza sentimentale, superandone tuttavia la
contingenza per approdare a una sorta di paradigma universale, che del sentimento d’amore mette
in scena il gioco delle verità e delle menzogne, l’indecifrabilità ed anche la tragica pesantezza. Sul
piano stilistico e dell’organizzazione del racconto, la sua è un’opera pudica, scarnificata e reticente,
che punta all’oggettività della rappresentazione, con frequenti ellissi e buchi narrativi, aliena da
ogni facile estetismo e costruita su lunghe inquadrature con la cinecamera fissa che riprende
dialoghi essenziali, concentrandosi sul corpo degli attori

A partire dagli anni ‘80 una nuova generazione di registi ha profondamente inciso nella realtà del cinema
francese. Si tratta di cineasti che hanno saputo reggere il confronto con il cinema americano, proponendo
una produzione assai variegata, decisamente più mossa di quella del cinema italiano, in grado di esprimersi
in ambiti molto diversi che vanno dalla produzione di veri e propri blockbuster a film espressivamente
innovativi dal carattere postmoderno, da opere attente alla realtà sociale a lavori che si caratterizzano
invece per la loro dimensione esistenziale e minimalista (in cui si ritrovano ancora echi della nouvelle
vague), sino ad esplicite riletture autoriali del cinema di genere e, in particolare, del noir → Guédiguian,
Cantet, Denis, Ozon, Jeunet ecc.

Al festival di Cannes del 2013, la Palma d’oro è stata attribuita al film La vita di Adele, che ha contribuito
alla definitiva affermazione di un altro giovane regista del cinema francese: Kechiche, cineasta sempre più
attento al disagio e all’emarginazione sociale, in particolare a quelli, vissuti in prima persona, degli
immigrati.

La rinascita del cinema britannico

Il cinema britannico conosce una ripresa produttiva considerevole, con film di largo successo commerciale e
di notorietà internazionale, negli anni ‘80 (ad esempio i film di James Bond). Produttori indipendenti, reti
televisive, e istituzioni pubbliche hanno favorito una produzione articolata, spesso rinnovata alle radici,
dando largo spazio a giovani registi. Ne è nato un cinema sfaccettato, calato nella realtà sociale e
contemporanea e al tempo stesso attento alle novità linguistiche e alla sperimentazione formale. Figura
eccezionale di quella che è stata chiamata la British Renaissance è Greenaway, il cui cinema, emblematico
di una certa idea del postmoderno d’autore, è fondato sul rifiuto dei tradizionali modelli di
rappresentazione, sull’ostinata e continua ricerca espressiva, sullo stile barocco e ridondante, sul gusto per
il violento contrasto tra una messinscena elegante e sofisticata e materiali narrativi pulp (situazioni kitsch,
erotismo morboso, corpi smembrati e decapitati, cannibalismo, incesto, infanticidio, putrefazione ecc.).
Poco incline allo sviluppo tradizionale del racconto, i suoi film procedono perlopiù come una successione di
quadri, che derivano dalla sua formazione di pittore, e si costituiscono come un pastiche, o collage, di
simboli, di allusioni e di citazioni che provengono dall’intero scibile umano, in una vocazione esplicitamente
enciclopedica. Ne nasce un corpus di lavori intellettuali, concettuali e astratti tanto da essere a volte
raggelanti e impedire ogni coinvolgimento emotivo. Convinto sperimentatore, il regista ha dato corpo a uno
stile segnato da una messinscena sovraccarica, immagini pittoriche, estremo formalismo, gusto per la
simmetria, attenzione all’uso dei colori, delle luci, delle scenografie e dei costumi, ricerca di attrazioni
audiovisive. Fra le numerose sue peculiari soluzioni di stile possono essere ricordate la tecnica del picture in
the picture (che, grazie all’uso del digitale, dà vita a successive sovrapposizioni di immagini, testi grafici e
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animazioni,) e gli interminabili carrelli laterali dalle valenze descrittive ed enumerative, e funzionali ad
evidenziare il ruolo di scenografie e coreografie.
Nato da una collaborazione tra il British Film Institute e Channel Four è I misteri del giardino di Compton
House (1982), primo lungometraggio di finzione dell’autore, distribuito nelle sale, che ha suscitato in modo
definitivo l’attenzione della critica e del pubblico per la sua opera; il film narra la storia di un giovane
paesaggista incaricato di illustrare in 12 disegni la dimora di campagna di un nobile inglese del Settecento.
L’uomo scoprirà, proprio grazie ai suoi disegni, l’esistenza di un misterioso omicidio; richiamandosi all’idea
centrale di Blow-Up (1967) di Antonioni, ma sostituendo all’immagine fotografica quella pittorica, il film
riflette sul rapporto fra arte e realtà (è attraverso la prima che la seconda si rivela) e su quello fra arte e
potere (l’artista pagherà con la vita le sue azioni). Fra gli altri suoi film principali degli anni ‘80 e ‘90 vi è
L’ultima tempesta (1991), una rilettura affascinante e barocca della Tempesta di Shakespeare, segmentata
dai 24 libri di Prospero e caratterizzata dall’uso della tecnica digitale del picture in the picture, in cui il
protagonista, un tempo duca di Milano e ora esiliato su un’isola popolata da spiriti, medita di vendicarsi dei
suoi nemici.

Due altri importanti registi della British Renaissance sono Stephen Frears e Neil Jordan.

Stephen Frears → Regista eclettico, si è affermato, soprattutto nei suoi primi film, per il suo ritratto realista
e dissacrante dell’era thatcheriana; ha una particolare attenzione verso la realtà proletaria, la società
multietnica, gli amori interrazziali e i legami omosessuali. Nel 1985 realizza uno dei film manifesto della
British Renaissance, My Beautiful Laundrette (1985), prodotto dalla BBC; con una certa freschezza e qualche
debito al free cinema, narra del legame sentimentale che viene a crearsi tra un pakistano, il quale ha
rilevato una malandata lavanderia a gettoni, e un bianco inglese, punk e razzista → rappresentazione delle
contraddizioni della società multietnica londinese.

Neil Jordan → Autore profondamente segnato dalla cultura del suo paese (Irlanda); nei suoi film, insieme a
una certa attenzione al sentimento cattolico, da una parte, e alla turbolenta storia politica, dall’altra,
emerge un gusto particolare per le dimensioni fantastiche, fiabesche, oniriche e allucinate, che si realizzano
in storie aventi per protagonisti personaggi sofferenti e tormentati, vicende adolescenziali di formazione, e
inquiete ricerche di identità.

Un caso a sé stante in questo è rappresentato dal lavoro di Terry Gilliam; collaboratore di riviste satiriche e
di fumetti, è autore di diverse sigle televisive animate. Egli entra presto in contatto col gruppo comico dei
Monty Python, per i quali collabora alle sceneggiature delle loro serie televisive, così come dei film da loro
interpretati.

L’ultima tempesta (1991; Greenaway)

- rilettura personale dell’opera di Shakespeare


- il film dell’autore rispetta nel complesso la tradizione della grande tragedia rinascimentale delle illusioni
perdute, prediligendo però i toni macabri e violenti, il sangue alla storia più lieve e rasserenata del perdono
- il regista ha girato un film sul meraviglioso, un tripudio ridondante di arte rinascimentale che, attraverso
scenografie barocche, approda a un delirante rococò; il regista ha fatto un’operazione di arte totale:
musica, teatro, danza, mimo, disegno, scultura, pittura, grafica, collage, circo, balletti, tableaux vivants
- recitazione anti naturalistica; dimensione meta cinematografica
- il film si presta al dispiegarsi della visionarietà dell’autore, non solo per quel tanto di enciclopedico che
l’idea stessa dei libri di Prospero implica, ma soprattutto per le possibilità di trucchi, mutazioni,

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rimescolamenti che l’alta definizione offre a regista, tanto che il valore fondamentale dell’opera sta proprio
nella sua natura sperimentale; l’autore costruisce il film attraverso un elaboratissimo lavoro di
postproduzione
- nel film sono numerosi gli inserimenti di stralci dell’opera di Shakespeare; la visualizzazione della scrittura
è infatti una delle costanti del cinema dell’autore
- l’intento del regista sembra essere quello di smascherare il meccanismo cinematografico inteso come
creatore di sogni e visioni fittizie; per far questo egli segue un procedimento che, invece di annullare
l’artificio per mostrare le nude strutture che lo sottendono, lo sfrutta per creare un sovraccarico percettivo
visivo che si autodenuncia durante il suo svolgimento
- l’autore utilizza una struttura prettamente teatrale che influenza lo svolgimento narrativo legandolo al
testo attraverso l’inserimento di stralci dell’opera
- l’autore opera un’esplicita provocazione intellettuale volta a costruire un nuovo linguaggio che principia
dalla sintesi di tutti gli altri linguaggi
- il film è uno spettacolo allegorico di corte, proliferante di immagini e figure evocate dalle parole
- questo film inizia la cosiddetta fase del cinema neobarocco del regista; qui la freddezza di un approccio
razionalistico si unisce infatti a una messa in scena barocca; lungo e colmo di citazioni e riferimenti, il film si
mantiene ostinatamente distante dalle emozioni dello spettatore; come succede spesso nell’autore, il
piacere che egli offre è quasi esclusivamente intellettuale
- il regista è da sempre affascinato dallo strutturalismo; si concentra sui processi di straniamento
- l’interesse del regista per la pittura, in particolare, si concretizza nel suo linguaggio cinematografico a
partire dalle singole inquadrature dei suoi film che sono realizzate come opere pittoriche
- l’estrema ricchezza di particolari delle scene è sottolineata dal particolare montaggio del film; la generale
staticità delle inquadrature, l’utilizzo dello zoom, di movimenti di camera lenti, di piani sequenza e di
carrellate, usati per lunghe sequenze temporali, servono a focalizzare l’attenzione dello spettatore sulla
complessità della costruzione scenica, sui dettagli e sul loro significato simbolico

Altri autori e tendenze del cinema europeo

Fra i rimanenti paesi dell’Europa occidentale, importanti segni di rinnovamento sono arrivati dalla Spagna e
dal Portogallo, affrancatisi dalle dittature di Franco e di Salazar, così come da autori di primo piano i quali si
sono affermati nell’ambito di cinematografie che, come quelle della Finlandia, della Danimarca, del Belgio e
dell’Austria, hanno giocato un ruolo complessivamente marginale nell’ambito della generale storia del
cinema.

Tra i registi che hanno segnato il cinema spagnolo degli anni ‘70 e ‘80, uno degli indiscussi protagonisti della
scena cinematografica internazionale è Pedro Almodovar. Egli è autore di film aggressivi, provocatori e
kitsch, giocati sul registro del grottesco, intrisi di spirito acre e dissacratorio, derivato anche da una certa
tradizione spagnola (soprattutto Bunuel). Almodovar ha espresso il clima della cosiddetta movida
madrilena, quel movimento culturale, segnato anche da voluti eccessi, che ha contrassegnato la Spagna del
dopo Franco. Il cinema del regista si è posto come un esplicito attacco al perbenismo borghese, attraverso i
suoi irriverenti contenuti e i suoi personaggi eccentrici, borderline, incapaci di resistere ai propri desideri e
alle proprie pulsioni sessuali, non raramente omosessuali. Nell’opera del cineasta si possono distinguere
una prima fase più grezza e immediata dove a dominare sono il gusto della provocazione fine a sé stessa, i
toni della farsa e un’organizzazione del racconto per sketch, e una seconda in cui invece prendono spazio,
anche se con una certa ironia, i modi del melodramma, personaggi più complessi e un racconto più solido e
coeso. Caratterizzano comunque tutta l’opera del regista l’istintiva e selvaggia passionalità dei suoi

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protagonisti, l’attenzione al rapporto tra finzione e realtà, che passa anche attraverso un fitto gioco di
citazioni cinematografiche e riferimenti al mondo della televisione e dello spettacolo, la propensione per le
scene madri, lo stile fiammeggiante, i colori accesi e il gusto per le attrazioni e i fuochi d’artificio audiovisivi.
La copiosa filmografia di Almodovar raggiunge alcuni dei suoi esiti di maggior rilievo nella seconda metà
degli anni ‘90 con, ad esempio, Tutto su mia madre (1999), premio per la regia a Cannes e vincitore
dell’Oscar per il miglior film straniero, opera tutta al femminile, in cui una madre, dopo aver perso il figlio, si
mette alla ricerca del padre di questi, che ha cambiato sesso, e diventa la collaboratrice di una famosa
attrice teatrale. I modelli del melodramma hollywoodiano, il film cita esplicitamente Eva contro Eva (1950;
Mankiewicz), il rapporto tra arte e vita, la diversità sessuale, l’uso postmoderno del colore, tutti caratteri
correnti del cinema del regista, si accompagnano a una narrazione particolarmente sentita e partecipe, in
grado di far avvertire fino in fondo allo spettatore i sentimenti, il dolore e le passioni vissute dei diversi
personaggi.

In Portogallo, oltre al maestro Manuel de Oliveira, un altro gruppo di cineasti si sono imposti alla critica
internazionale per il loro rigoroso lavoro, scevro da ogni tentazione spettacolare: Paulo Rocha, César
Monteiro, pedro Costa, Miguel Gomes.

Alcune delle più interessanti novità del cinema europeo contemporaneo sono arrivate dall’Europa del Nord,
come testimoniano, fra le altre, le opere del finlandese Kaurismaki, del danese Lars von Trier e dei fratelli
Luc e Jean-Pierre Dardenne, nati in Belgio.

Lars von Trier è uno fra gli autori del cinema contemporaneo che più ha diviso la critica con i suoi film,
spesso dal carattere sperimentale, provocatori e trasgressivi. Se i suoi primi lavori si contrassegnano per un
esasperato formalismo ed evidenti ricercatezze stilistiche, perlopiù di carattere espressionista, la sua opera
successiva ha invece privilegiato un linguaggio sporco, dalle apparenze amatoriali, fatto di traballanti
movimenti di macchina a mano ed evidenti sgrammaticature di montaggio. Attratto da situazioni limite,
assai esplicito sul piano della sessualità, spiritualista e antirazionalista, attento al rapporto tra verità e
finzione, sperimentale e innovatore nelle forme e talvolta ermetico e ambiguo nei contenuti, Von Trier è
uno degli indiscutibili protagonisti di ciò che di nuovo il cinema ha prodotto negli ultimi vent’anni della sua
storia. Nel 1995, insieme a Vinterberg, che diverrà poi uno dei più importanti cineasti del suo paese,
l’autore dà vita al manifesto e al movimento di Dogma 95, cui si ispireranno poi diversi registi. In polemica
con la cosmetizzazione del cinema contemporaneo, il manifesto propone una sorta di voto di castità,
secondo il quale i film del movimento dovranno optare per alcune ben precise scelte di messinscena, come
l’adozione di un tempo reale, il ricorso ad ambienti naturali, l’uso della macchina a mano, l’assenza di
musica d’accompagnamento non registrata insieme alle immagini stesse, l’esclusione di trucchi od effetti
speciali, il rifiuto degli schemi del cinema di genere. Decisamente legato a tali dogmi è Idioti (1998), girato
in digitale, in cui un gruppo di personaggi che vivono in una comunità si comportano volutamente come
deficienti, simulano malattie ed handicap, dando così vita ad un universo dove realtà e finzione si fanno
indistinguibili. Con Dogville, girato nel 2003, l’autore continua a dar sfogo alla sua volontà di
sperimentazione; si tratta di un attacco al perbenismo, al puritanesimo e all’ipocrisia americani; il film è
ambientato in una sorta di brechtiano e antirealista set teatrale non ancora terminato, dove parte delle
scenografie sono sostituite da linee bianche che delimitano le strade e le case. L’assenza di pareti crea per
lo spettatore un effetto di trasparenza e polisemanticità, dove più eventi possono essere mostrati in
contemporanea, anche grazie ad un originale sistema di luci, che creano molteplici e variabili centri
d’attenzione. Gli ultimi due film dell’autore hanno accentuato la sua dimensione metafisica,
trascendentale, insieme ad un certo ermetismo.

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Dal cinema austriaco proviene l’opera di un altro regista, Michael Haneke, fra quelli che più hanno segnato
questi ultimi vent’anni di storia del cinema. I film dell’autore sono assai rigorosi sul piano formale, segnati
da uno sguardo freddo e sinistro, e vertono spesso sul senso del male e sulla sua consustanzialità all’uomo;
mettono in scena l’angoscia del quotidiano, la paura, la violenza e il senso di colpa che sconvolgono le
certezze borghesi. Nel 2012 vince, con Amour, l’Oscar come miglior film straniero; si tratta di un’opera,
forse la più ottimista, sulla vecchiaia e la malattia, che verte sugli ultimi mesi di vita di una donna e
sull’uomo che la accompagna nel suo ultimo viaggio accudendola con tutto il suo amore.

I Paesi socialisti dopo la fine del comunismo

Nel 1964, dopo la destituzione di Krusciov, prese il potere Breznev. Il rinnovamento politico e sociale che si
era manifestato a partire dal 1956, anche se velocemente stroncato, con i suoi riflessi anche nel campo
dell’arte e della cultura, parve fossilizzarsi in schemi sempre più rigidi, sino ad essere soffocato da un
sistema burocratico onnipotente. Durante il periodo di Krusciov vi fu una breve parentesi di rigenerazione
presto stroncata. La repressione continua con Breznev. In questa situazione, il cinema sovietico tornò ad
essere, come nell’ultimo periodo della dittatura di Stalin, un cinema essenzialmente accademico, retorico,
con pochi squarci di libertà e di autentica invenzione; la maggior parte dei nuovi registi o furono messi a
tacere, o accettarono la nuova situazione burocratizzatosi anch’essi, o svolsero la loro attività ai margini
della produzione corrente, subendo censure e proibizioni, oppure scelsero l’esilio. Furono comunque essi e
i loro film a costituire quel filo rosso che, nonostante i divieti, unì i primi fermenti di novità della fine degli
anni ‘50 con il rinnovamento radicale che prese le mosse dei primi anni del breve governo di Gorbaciov,
salito al potere nel 1985.

Figura chiave della storia del cinema sovietico di quello internazionale d’autore, Tarkovkij, nei suoi film ha
tradotto visivamente i grandi temi della tradizione spirituale della sua terra. Attraverso uno stile maestoso
e lirico, fatto di solenni e intensi piani sequenza, il cui compito principale è quello di dar corpo al lento
scorrere del tempo e al passare della vita, l’autore realizza film evocativi che vertono sul rapporto fra
l’uomo e il trascendente, segnati da un enigmatico lirismo, da una simbologia ermetica, evidente
soprattutto negli ultimi suoi lavori, da frequenti passaggi nell’onirico e nel simbolico, che assumono spesso
una dimensione mistico-religiosa di natura filosofica. Il suo primo film, L’infanzia di Ivan (1962) è un lirico e
introspettivo atto d’accusa contro la guerra. Il film si ambienta negli anni della Seconda guerra mondiale;
narra di un ragazzino che, volendo vendicare la famiglia uccisa dai tedeschi, diventa informatore dei
partigiani russi, sino a quando, scoperto, verrà impiccato. Lontano dai modelli del realismo socialista, cui
tuttavia la storia narrata si rifà esplicitamente, il film ha una dimensione lirica e introspettiva, esistenziale, e
vuol essere un esplicito atto d’accusa contro la guerra, vista come un mostro irrazionale che uccide l’uomo
non solo fisicamente ma anche nella sua dimensione interiore. Agli inizi degli anni ‘80, lasciata l’unione
sovietica, Tarkovkij cerca altrove, prima in Italia poi in Svezia, i luoghi ideali per la continuazione di un’opera
sempre più segnata da una visione pessimistica e tragica dell’esistenza.

Anche se in un clima di rinnovamento bloccato, molti altri registi hanno avuto la possibilità di realizzare film
di notevole valore o comunque indicativi delle nuove tendenze delle nuove idee che andavano agitando la
realtà sovietica: Paradzanov, Ioselani, Panfilov, Koncalovskij, Suksin…

Suksin è uno dei film maker più anticonformisti del cinema sovietico, autore di un’opera popolare nel senso
più autentico della parola. Condotti con tono leggero e ritmo agile, a volte da commedia, con uno stile
dimesso ma che sa anche essere vigoroso, i suoi film sono particolarmente attenti alla dimensione del
quotidiano, alla cultura contadina (in opposizione a quella della città) e hanno per protagonisti personaggi
marginali, sradicati ed eccentrici.

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Panfilov è autore di film in cui si trovano le atmosfere delle grandi opere della letteratura russa; regista
mossosi al di fuori delle convenzioni del realismo socialista, attento alla caratterizzazione dei personaggi, in
special modo di quelli femminili, e alla banalità dell’esistenza in una società rappresentata come squallida e
mediocre. I suoi lavori, possono essere considerati un ottimo esempio di intimismo sociale; sono condotti
con uno stile semplice ed efficace.

Ioselani è autore di un cinema libero e bizzarro, giocoso e aggressivo, inconsueto e ricco di humour;
descrive in modi quasi musicali il comportamento dei suoi personaggi, i quali più che su basi psicologiche
sembrano muoversi e rapportarsi fra loro come elementi di una partitura sinfonica. A causa delle difficoltà
con la censura e il regime il regista cercò fortuna in Francia.

A questi e altri registi, si è aggiunta una nuova generazione di autori più giovani, che negli anni di
Gorbaciov, del nuovo corso, della perestrojka, della ricostruzione, e in seguito della fine del comunismo,
hanno ridisegnato il panorama del cinema russo, sia riprendendo temi e soggetti non più o non mai trattati
dalla cinematografia ufficiale, in particolare nell’ottica del cosiddetto recupero della generazione perduta,
sia richiamandosi a certe tendenze del cinema occidentale contemporaneo.

Tra i primi ad affermarsi, anche in campo internazionale, Bodrov; egli, nei film sovietici russi della prima
parte della sua carriera di regista, ha messo in scena in modi semidocumentaristici e spesso con attori non
professionisti, un mondo di dolore e degrado fatto di individui sofferenti ed emarginati. Nel 1989 gira La
libertà è un paradiso, che porta per la prima volta nella storia del cinema sovietico una troupe all’interno di
un gulag, e intreccia storie di carcerati, prostitute e derelitti, visti attraverso lo sguardo di un ragazzino
fuggito da un riformatorio alla ricerca del proprio padre. Successivamente egli cercherà fortuna sia negli
Stati Uniti, sia in diversi paesi dell’Europa occidentale.

Più sanguinosa e aggressiva, a volte barocca, e l’opera di Lungin, altro esponente chiave del cinema della
perestrojka. I suoi primi film, in particolare, sono un’efficace e livida rappresentazione, spesso grazie a
protagonisti emarginati e a loro modo estremi, della corruzione, dello sbando generale e della crisi di valori
che hanno segnato il difficile passaggio dal socialismo al capitalismo, sistemi verso i quali il regista non
sembra manifestare alcuna attrazione.

Più introspettivo e profondo, con una visione della realtà meno legata alla cronaca d’attualità, anche più
analitico nel trattare temi e argomenti di forte incidenza drammatica, è Kanevskij, la cui vita privata, il
padre morto in guerra, lui incarcerato per otto anni, è il tema di fondo, a volte sotterraneo, a volte esplicito,
della sua opera. Un’opera segnata da uno sguardo disincantato e un pessimismo quasi apocalittico. Egli
rappresenta in un suo film la drammatica condizione di vita di un campo di lavoro sovietico, dove vivono
schiacciati dall’odio e dalla violenza detenuti politici, prigionieri di guerra giapponesi e semplici famiglie.

Un posto a parte, per il carattere radicalmente sperimentale del suo cinema, è occupato da Sokurov, regista
censurato per anni, documentarista, poeta dell’immagine, inventore di atmosfere rarefatte, di luoghi
schermici inconsueti, narratore di casi ambigui e difficilmente decifrabili secondo le regole della narrazione
tradizionale. Solo nel 1987 fu finalmente ammesso nell’Unione dei cineasti sovietici.

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