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Lezione 13 21.04.

2021

Seminario Cinema e Città


Per grandi linee andiamo a tracciare quello che è il possibile rapporto tra la storia dell’architettura della
città e il cinema. Proviamo a definire in tre grandi ambiti come questo rapporto tra cinema e architettura si
può articolare:

 il primo è il film come documento, cioè prendere la cinematografia di fiction o documentari come
un documento rispetto al quale poter
guardare lo stato della città in un certo
momento storico. Un esempio è Sophia
Loren in Matrimonio all’italiana a piazza
Bellini, in uno stato molto diverso rispetto
a quello attuale 60 anni fa). Va specificato
che il cinema da questo punto di vista, è
molto utile ma presenta comunque dei
rischi o delle ambiguità: è utile perché è
l’unico strumento capace di restituire lo
scenario urbano, non solo l’immagine ma anche l’uso, la vita che si svolge all’interno della città o di
realtà extraurbane. Questo però potrebbe essere un uso che non corrisponde al reale, cioè la
ricostruzione di luoghi con usi fittizi che a volte stravolgono anche l’identità dei luoghi stessi non è
rara, infatti spesso assistiamo a delle ricostruzioni in studio o in scala degli ambienti reali.
 Un secondo ambito è quello del film come strumento di analisi, soprattutto in momenti tra gli anni
50 e 60 gli storici dell’arte o artisti o comunque figure con personalità tecniche hanno usato il film
per studiare la realtà esterna, e quindi hanno prodotto film, lungometraggi o cortometraggi che
analizzavano la realtà.
 Infine, c’è il film come mezzo espressivo e progettuale, cioè architetti che hanno usato il film per
esprimere una propria poetica: non si tratta di indagare la realtà esistente attraverso lo strumento
cinematografico ma introdurne uno che corrisponde ad una visione dell’architettura o della città
personale.

I tre ambiti esauriscono le possibili varianti questo racconto.

Per film come mezzo espressivo, un caso noto da citare è


quello di Aldo Rossi che nel 1973 produsse Ornamento e
delitto, derivato dal titolo del saggio di Adolf Loos, ha
lavorato tra l’intersezione dei media, quindi il passo verso
la cinematografia è stato breve.

Per lo strumento storico, un esempio che può essere citato


è quello dei critofilm di Ragghianti con Roberto Pane, il più
famoso su Lucca del 1955; banalmente potremmo dire che
si tratta di un documentario, ma in realtà attraverso
inquadrature particolari e tagli prospettici innovativi, c’è lo
studio di come il cinema può sottolineare certi aspetti dell’architettura che normalmente non sono così
evidenti. Quindi questo non è un cinema di fiction, dove c’è una storia che viene narrata, eppure c’è questa
consapevolezza da parte degli storici che questi mezzi espressivi possono fornire strumento di indagine
sulla realtà.

Infine, tornando al primo punto, dove però il film può essere sia di architettura che non, abbiamo due
esempi: quello di Louis Kahn del 1972 a cui seguirà quello famosissimo girato dal figlio, o anche quello di
Frank O. Gehry. Questi sono documentari che hanno come specifico oggetto l’architettura. Anche il
documentario che non parla strettamente di architettura può essere ugualmente utile.

Ambientazioni

I film che invece raccontano una storia li definiamo fiction; pongono degli interrogativi e delle necessarie
puntualizzazioni. Già la scelta di creare un luogo immaginario o esistente è una scelta stilistica (vedi
neorealismo italiano che cerca di lavorare su luoghi reali, con attori presi dalla strada o immaginari di cui
Fellini è maestro). Qui il secondo punto è proprio se girato in esterni o in studio, e questo ovviamente
cambia tutto. Nei film di Fellini, lasciando da parte pellicole come Roma o altri in cui c’è un omaggio alla
città di adozione, molte delle scene più famose sono girate in studio, anche quella del piroscafo. Anche se
non è un effettivo documento per analizzare la città, è interessante esaminare l’immaginario e la
ricostruzione in studio che ci restituiscono un’idea di città altrettanto utile anche nel momento storico in cui
si colloca.

Quando la location viene utilizzata per significare qualcos’altro andiamo nel campo del verosimile, per
esempio quando bisogna rappresentare scene di città medioevali fiorentine, in realtà le scene vengono
girate a Lucca: da un punto di vista dello storico dell’architettura è scorretto perché si conoscono certi
ambienti; dal punto di vista della credibilità della storia sul piano registico e sulle scelte dell’immagine
bisogna accettarli. Qualche esempio che può far capire ciò possono essere le diverse rappresentazioni di
piazza del Gesù a Napoli, che ha registrato cambiamenti importanti nella struttura urbana stessa. Nel 1950
quando viene girato Napoli milionaria, l’edificio è ancor in piedi e lo si vede; nel 1964, 14 anni dopo, in
Matrimonio all’italiana di De Sica si vede che già l’edificio non c’è più, manca da abbattere solo l’ultimo
pezzo e la piazza sta già assumendo la conformazione attuale. In questo caso si tratta di documento vero e
proprio.

Napoli nel cinema

Napoli è una città molto cinematografica, con una grande diversità di ambienti e situazioni. La città diventa
essa stessa soggetto. Già nel 1915 un film muto mostra una Napoli del panorama, con Posillipo, Nisida.

Ovviamente Napoli diventa anche altre cose, come per esempio Gomorra che ha creato un intero filone
(film, serie tv) -anche se esisteva già prima questo filone.

Un alto film importantissimo è quello sulle quattro giornate di Napoli di Nanni Loy -qui siamo quasi nella
scia neorealista che però nel 62 è giunge quasi al termine. La famosa scena dei tedeschi che dopo la rivolta
uccidono, sulle scale della Federico II, mostra una città in cui la memoria della guerra era ancora vivida, con
testimonianze reali di quello che era successo.

Totalmente diverso è invece lo sguardo che Viaggio in Italia di Rossellini che offre di Napoli: è la storia di
una coppia in crisi che ne affronta i termini in questo viaggio. Quindi i luoghi diventano l’incarnazione dei
sentimenti personali: Pompei diventa angoscia, il museo nazionale diventa stupore. I luoghi urbani, la città
e il sentimento del protagonista diventano un tutt’uno. Anche qui c’è un discorso di simile e verosimile.

Molti dei film ispirati alle commedie di Eduardo De Filippo sono girati in studio e creano degli ambienti
urbani verosimili. Come anche il carosello napoletano del 1954 girato in studio, con interni che ricreano il
vicolo, la scala, il rapporto tra strada e architettura. È quindi un altro filone interessante, sarebbero da
capire quali sono stati i modelli scelti, i modelli reali che ispirano, se l’esigenza di una verità di scena
richiede particolari conformazioni spaziali ecc.

Infine, altre possibili nuove modalità espressive come quello del cartoon. Nel 2013 è uscito L’arte della
felicità di Alessandro Rak che racconta una storia tutta disegnata. Essendo un film disegnato, già si tratta di
un elemento interpretativo della realtà che si vuole rappresentare: si rappresenta una Napoli sempre scura,
grigia e piovosa, lontanissima dallo stereotipo del paese del sole, del lungomare e delle forti luci
mediterranee. Anche in questo caso la rappresentazione delle atmosfere corrisponde all’umore dei
personaggi, quindi c’è corrispondenza tra immagine e sentimento. C’è da domandarsi se la necessità di
alcuni registi di allontanarsi dallo stereotipo non crei uno stereotipo opposto.

Arriviamo al neorealismo vero e proprio con Zampa e Rosi (il primo Rosi) che sono stati maestri insieme a
Rossellini, Visconti, De Sica ecc. Il processo alla città è ambientato a Napoli ed è forse il primo vero film
sulla malavita napoletana. Il primo film dopo il fascismo (dopo questo periodo ceri temi non potevano
essere trattati poiché la realtà doveva essere edulcorata), dopo la guerra si cominciano a trattare anche
questi argomenti e questo fu proprio uno dei primi film in questa direzione. È il primo film italiano di vera
denuncia sul malaffare. Il famosissimo Le mani sulla città di Francesco Rosi denuncia la speculazione edilizia
e non si parla solo di Napoli, ma dell’Italia intera, come fenomeno nazionale e drammatico.

Infine, una visione distopica della città ma non meno realista (non è un film di fantascienza) è L’amore
molesto di Mario Martone del 1995, uno dei suoi prima grandi successi. Siamo al Vomero in via Scarlatti -
un quartiere borghese per nulla toccato da certi temi- eppure è una Napoli piovosa e angosciante, con
suoni molesti con il clacson delle auto, il traffico, lo smog. È quindi una visione distopica nel senso
dell’accentuazione dei caratteri negativi della città.

Contrapposizione tra The young pope e la serie Medici: escono entrambe nel 2016. Da un lato c’è
Sorrentino che non è un regista neorealista ma ha un’esigenza di verità e di fedeltà ai luoghi molto forte,
tanto che non potendo girare nella Cappella Sistina la fa ricostruire in scala 1:1 e questo gli permette anche
di fare riprese dall’alto, avendo così delle immagini molto suggestive; ma anche nel tempietto di S. Pietro in
Montorio (che si vede anche ne La grande bellezza) con un piano sequenza unico che dall’esterno entra
dentro mostra meglio il tempietto di qualsiasi libro di storia dell’architettura. Dall’altro lato abbiamo la serie
Medici che rientra proprio nella categoria dove la fedeltà ai luoghi non esiste, per esigenze di
rappresentazione hanno scelto Pienza per la residenza che in realtà sarebbe situata a Firenze. Abbiamo
quindi da un lato la totale mancanza di credibilità dei luoghi, mentre dall’altro si mostra l’avanzamento
storico della costruzione di Santa Maria del fiore realizzato in post-produzione.

Il rapporto tra città e cinema inizia ben più di un secolo fa, negli stessi anni in cui i fratelli Lumière sul finire
dell’800 raccolgono un’importante mole di materiale sulle varie città europee, nel tentativo di voler
mostrare la realtà in maniera oggettiva. Così gli ambienti architettonici reali o ricostruiti diventano
un’importante componente del racconto cinematografico. Attraverso la cinematografia lo spazio urbano
subisce un’importante innovazione, ovvero la traslazione da un sistema statico a uno dinamico. Nel 1948
Bruno Zevi afferma che il modo in cui l’architettura può essere resa più fedele alla realtà è proprio
attraverso il film. Da quando la cinematografia entra nella città gli spazi iniziano ad essere riletti: la rilettura
evidenzia i processi evolutivi ed è proprio la cinepresa che introduce aspetti che possono essere sfruttati
come potenzialità a favore dell’architetto o di colui che progetta. I primi piani amplificano lo spazio, le
riprese a rallentatore amplificano il movimento in modo da rendere non solo più chiaro, ma portando alla
luce conformazioni strutturali della materia totalmente nuove, reinventando il quotidiano. Il cinema svela
ciò che l’occhio umano non è in grado di vedere: la realtà quotidiana essendo troppo vista diventa invisibile.

Francesco Rosi è un regista molto noto, numerosi sono stati i premi alla carriera. Le mani sulla città è un
film che viene spesso ancora oggi proiettato. La sfida, prima de Le mani sulla città, è il primo
lungometraggio di Rosi. Era stato allievo e aiuto regista di Visconti da cui aveva preso la visione neorealista.
Le mani sulla città diventa un caso noto a livello nazionale, ma nel primo lungometraggio sono già presenti
certi elementi, e potrebbe essere definito come un precedente di Gomorra: un piccolo criminale di basso
livello che tenta di fare un’ascesa, arrivando ai più alti livelli di criminalità organizzata con tutti i problemi
che essa comporta (c’è anche una storia d’amore). Rosi ha sempre detto che non gli interessa solo la
creazione di una storia verosimile, ma anche un immaginario, quindi la un lato un’analisi quasi
antropologica e poi l’immaginazione, sembrano quasi due aspetti in contraddizione che coesistono. Lo
sguardo sulla città di Napoli: nel 1958 il salto edilizio non è ancora avvenuto. Vi è una contrapposizione tra
città popolare contro la città delle ville moderne di Posillipo e della buona borghesia. È implicito il concetto
che i boss sono quelli che vivono nelle ville razionaliste a Posillipo. Anche la contrapposizione tra città e
campagna è interessante. Rosi prima di girare fa un lungo lavoro di analisi e sopralluoghi, tutti documentati,
alla ricerca dei luoghi più adatti. La città è luogo del malaffare ed era quella che mangiava la campagna che
invece produce e viene oppressa da questo sistema. Viene vista come un luogo sano e genuino, legato alla
terra e le tradizioni. Nella scena della processione si mette in luce il rapporto tra criminalità e fede, vista
anche in Gomorra. La contrapposizione tra il moderno senza vita e il quartiere popolare è uno spunto. Nel
1958 si cominciano vedere i primi segni del cambiamento della città che però non è ancora definitivo. Rosi
ha sempre detto di non aver mai voluto tralasciare l’aspetto estetico sui fatti che lui descrive.

Luigi Moretti è stato un architetto romano, enfant prodige dell’fascismo. Crea Spazi, una rivista degli anni
50, dove all’interno c’è un laboratorio di espressione artistica. Collabora alla realizzazione di due film: del
1964 è Michelangelo che si aggiudica il premio special della giuria. L’operazione è quella di realizzare una
realtà visuale autonoma, andando ad inserire anche il fattore tempo e memoria, già molto importanti
all’interno della sua produzione architettonica. L’utilizzo del mezzo cinematografico che fa Moretti è diverso
da quello di molti altri architetti. Considera il progetto di architettura e filmico totalmente analoghi, sono
due progetti di regia della percezione.

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