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PERIODIZZAZIONE

● precinema
● 1895 - 1915 circa: cinema delle origini
Per convenzione si fa iniziare la storia del cinema nel 1895 poiché è l’anno in cui i fratelli
Lumière organizzano la prima proiezione pubblica a pagamento di una serie di brevi
pellicole, dalla durata di 50 secondi circa.
● 1915 - fine anni ’30: cinema classico
Domina il cinema dal punto di vista del linguaggio, è la forma di cinema ancora oggi
presente e dominante, di riferimento
● 1920 - 1930: avanguardie storiche
In parallelo al cinema classico
● 1940 - metà 1970: cinema moderno
Segue quello classico e comprende correnti come il Neorealismo, …
● Metà 1970 - oggi: cinema postmoderno
Subentra a quello moderno, alcuni studiosi sostengono che non sia mai esistito

● Tra la seconda metà degli anni '20 e la metà degli anni '30 si verifica il
passaggio dal cinema muto al cinema sonoro.
● Tra la fine degli anni '90 e il 2015 circa si verifica il passaggio dal cinema
analogico al cinema digitale.

PASSAGGIO DAL CINEMA ANALOGICO AL CINEMA DIGITALE

Alcuni studiosi sostengono che in questo passaggio cambia la natura del cinema: si passa
dalla pellicola e la cinepresa al film registrato digitalmente con la videocamera, il montaggio
non viene più fatto alla moviola.
André Bazin negli anni '50 scrive una serie di saggi che escono nel '58 con il titolo "Che
cos'è il cinema?"; nel saggio "Natura ontologica dell'immagine fotografica" si interroga sulla
natura del cinema: fino a quando era analogica (la macchina da presa registra la scena
direttamente sulla pellicola) il procedimento era identico alla fotografia: il cinema è uno
sviluppo della fotografia, che ha una caratteristica che la differenzia dalle altre arti: essendo
meccanica, non può non riprodurre ciò che ha davanti, è una riproduzione della realtà,
questa è la natura del cinema. La pellicola è fatta di una serie di fotografie che, proiettate a
24 fotogrammi al secondo, danno l'impressione di movimento: fotografia e cinema sono la
stessa cosa. Tant'è che non importa la chiarezza del soggetto della fotografia, si tratta di un
calco della realtà, la sua natura rimane quella. Un quadro o una statua non danno lo stesso
tipo di garanzia. Bazin paragona la fotografia al Volto Santo, il calco del volto di gesù.
Il digitale ha totalmente cambiato questo: la copertina di National Geographic del 1982 è
simbolo del passaggio; ha modificato digitalmente una foto per creare un'immagine che nella
realtà non esiste. Si perde così la garanzia del calco della realtà dell'analogico, c'è
diffidenza e non più certezza. L'immagine cinematografica è fatta in post-produzione.
Bazin dice che possiamo accettare la natura del cinema o usare il cinema per contrastare la
sua stessa natura, tramite artefici che hanno a che fare con la luce, la scenografia...
IL CINEMA DELLE ORIGINI

Noel Burch in "Lucernario dell'infinito": lui ha un rapporto amore/odio con l'America, vuole
quindi ripensare il cinema in chiave antitereologica, smentendo un luogo comune del cinema
classico, ovvero che il suo sistema linguistico è la forma naturale del cinema. Afferma invece
che il cinema classico è un insieme di convenzioni, il fatto che si sia imposto nella storia
del cinema è estraneo alla sua natura e dipende da situazioni particolari, come il luogo e il
periodo della sua nascita. Noel definisce “modo di rappresentazione primitivo” il cinema delle
origini, e “modo di rappresentazione istituzionale” il cinema classico. Si tratta di un insieme
di regole, elementi di linguaggio, forme che costituiscono una modalità di rappresentazione
autonoma, diversa. Restituisce così al cinema delle origini una sua autonomia formale.
Burch non fa tutto da solo: intorno al 1978 in un convegno a Brighton (dove si concentrano
verso la fine degli anni ‘70 i pionieri del cinema, grazie al frequente bel tempo per disporre
della luce del sole) vengono proiettati tutti i film del cinema delle origini che si conoscevano
rimasti per consentire un ripensamento del cinema delle origini e per capire che si trattava di
qualcosa di diverso del cinema classico. Si dà il via alla new film history, che tiene conto di
elementi come l’economia, il pubblico, l’industria che insieme costituiscono la storia del
cinema. Questo ripensamento comporta di andare a rivedere i film del cinema delle origini:
- Sortie d’usine, dei fratelli Lumière (proiettato nella serata del 1895): gli operai della
fabbrica dei Lumière a Lione escono alla fine della giornata lavorativa. Diversamente
dal cinema a cui siamo abituati, non c’è la particolarità linguistica, il montaggio,
questo dà all'oggetto cinematografico un carattere scabro; non c’è regia e si continua
a riprendere fino a che la pellicola finisce. Questo film è costruito secondo
modalità e per soddisfare esigenze che non sono quelle che noi pensiamo quando
pensiamo al cinema: noi ci aspettiamo una linea narrativa, ma il cinema non nasce
con questa esigenza, nasce al contrario per mostrare delle cose, raccontare storie
in questo primo momento non era l’esigenza né di chi faceva né di chi vedeva questi
film.
- Aquarium, fratelli Lumière: mostra semplicemente dei pesci che nuotano in un
acquario. Stesso concetto.
Il cinema quindi non nasce come forma d’arte, anzi per molti anni il cinema viene proiettato
in posti malsani, pericolosi, come i baracconi delle fiere (quando una pellicola prendeva
fuoco c’erano spesso delle morti), per questo soprattutto un pubblico popolare andava al
cinema.
Tom Gunning, allievo di Noel, nel saggio “The cinema of attraction”, usa il concetto di
attrazione nel suo senso concreto, come ciò che attrae lo spettatore, ciò che induce una
persona a pagare un biglietto per vedere queste pellicole; la sua risposta è che nei primi
anni del cinema delle origini l’attrazione non è altro che il movimento. Il pubblico era ormai
abituato alle fotografie, il cinema è proprio fotografia + movimento (Bazin). Il fatto che tutto
ciò che c’era sullo schermo si muovesse era una novità.
- Arrivo del treno (1895): si dice che il pubblico sia scappato alla visione dell’arrivo del
treno. C’è sempre un punto di vista fisso, come era esperienza comune dello
spettatore dell’epoca che aveva come punto di riferimento dello spettacolo in
questione il teatro.
- Repas de bébé (1895): emerge meglio il concetto di attrazione; uno dei fratelli
Lumière, la moglie e il figlio fanno colazione nella loro villa a Lione. Lo spettatore
moderno si concentra sul bambino che si mette un biscotto in bocca e lo offre allo
zio, dietro alla cinepresa. Le cronache dell’epoca sottolineavano lo stupore degli
spettatori in sala per il fatto che le foglie sullo sfondo si muovevano: il movimento nel
senso dell’attrazione di Gunning, è questo ciò a cui lo spettatore dell’800 presta
attenzione.
Ciò che il cinema ha da offrire di più rispetto alle altre arti è il movimento ripreso dal vero.
Ovviamente questo tipo di attrazione sfuma con il tempo, il cinema diventa man mano
sempre più complesso. I Lumière abbandonano il cinema e tornano alla fotografia perché
non ne intuiscono il potenziale, pensavano che l’attrazione sarebbe scomparsa.
- Il giardiniere e il piccolo monello (1895, fratelli Lumière); all’epoca i film non venivano
noleggiati ma venduti, e le pellicole venivano proiettate fino a quando non erano da
buttare via. Per questo i film che avevano successo venivano girati anche due volte o
più volte; è il caso di questo film, che racconta una piccola storia. Il piccolo monello
fa uno scherzo al giardiniere (c’è piccola componente narrativa). Il cinema è formato
da una serie di illusioni, tra cui movimento e profondità del campo. Questa duplice
illusione è contenuta dentro un bordo che nel cinema delle origini era più o meno
quadrato (chiamato cinema academy), fino all’avvento del sonoro. All’interno del
quadro vediamo un certo spazio che chiamiamo campo = porzione di uno spazio
che presumiamo essere più grande di quello inquadrato (spazio filmico). La parte di
spazio filmico che non vediamo inquadrata è chiamata fuoricampo. Ad un certo
punto il giardiniere e il monello escono fuori dal campo, ma ancora non c’era questa
percezione perché la macchina da presa non si sposta per tenere in campo i
personaggi, non c’è opposizione in campo/fuoricampo. Questa mancanza si sente,
ma dobbiamo ragionarci in termini diversi: subito dopo il giardiniere per punire il
monello lo riporta al centro del campo, nel punto che garantisce allo spettatore la
migliore visuale possibile su ciò che succede; c’è una concezione teatrale dello
spazio e dello spettatore. In quest’ottica ha senso ciò che succede = il giardiniere
che, dopo aver fatto la fatica di inseguire e prendere il monello lo riporta al centro per
punirlo.
André Gaudreault insieme a Gunning riflettono sul concetto di attrazione cinematografica
per capire l’estetica fondamentale del cinema delle origini; riflette sulla necessità di usare
per il cinema delle origini un lessico diverso da quello che siamo abituati a usare per il
cinema successivo.
Burch sottolinea l’importanza di denaturalizzare il linguaggio del cinema, anche in chiave
politica: regole convenzionali sono diventate talmente diffuse in tutte le cinematografie del
mondo che noi le assorbiamo da bambini, fin da piccoli, e finiamo per considerarlo un
linguaggio naturale, quando è frutto di convenzioni. Dice che il cinema classico ha sfruttato
molto questa apparente naturalità di linguaggio per far passare dei racconti dietro ai quali
c’era un’ideologia ben precisa, come una sorta di propaganda.
- Voyage dans la lune (1902): film lungo per la sua epoca in cui c’è una specie di
montaggio, mostra un missile che viene lanciato sulla luna, gli astronauti vedono
creature aliene e tornano sulla terra. Questo cinema di Méliès è opposto a quello dei
Lumière, strettamente legato alla realtà, è un protomodello di cinema narrativo e
fantastico, più accattivante. Siamo di fronte a due tipi diversi di attrazione, che
sempre attrazione è: il treno che arriva in stazione e il missile che arriva sulla luna
per lo spettatore del tempo erano due spettacoli ugualmente straordinari, perché non
è la storia ciò d’importante, ma quel che si anima sullo schermo. Questi due tipi di
cinema non sono così contrapposti, in realtà la cinematografia che li separava
drasticamente non era corretta. In questo caso l’attrazione consiste sempre nel
movimento, un movimento incastonato in una situazione diversa, sono sempre quasi
inquadrature frontali con un punto di vista fisso (è la luna che si avvicina a noi fino a
incontrare il missile, non il contrario). Quello che cambia nel caso di Méliès è quel
che c’è alle sue spalle: mentre i Lumière facendo cinema riprendevano le loro
conoscenze riguardanti la fotografia, egli aveva un piccolo teatro in cui faceva
spettacoli di magia, facendo cinema ha ripreso gli spettacoli che faceva a teatro
adattandoli al cinema (sovraimpressione del volto sulla luna, un tipo di trucco che
non si poteva ottenere a teatro). Film girato con montaggio in macchina, fatto quando
l’operatore smetteva di girare la pellicola per tagliare da una scena all’altra. Oppure
viene registrata prima una parte di pellicola, poi un’altra della stessa per ottenere un
effetto di sovraimpressione.
Il periodo del cinema delle origini (1895 - 1915) è stato diviso in altri tre periodi:
1) periodo dei film monopuntuali, fatti da una sola inquadratura (come quelli dei
Lumière)
2) periodo dei film pluripuntuali, fatti da più vedute ma con una struttura narrativa
ancora debole. (come quello di Méliès)
- Grandma’s reading glass (1900): il nipotino inizia a giocare con la lente
d'ingrandimento della nonna ingrandendo una serie di cose che ha a portata di
mano; questa struttura narrativa è paratattica, non importa quale scena veda prima,
non cambia niente, è una struttura ripetitiva che gioca tutta su un’attrazione, ovvero
l’ingrandimento, che fino a quel momento non era mai stato visto sullo schermo,
tanto da suscitare reazioni inquiete.
Quando le pellicole venivano vendute, le vedute erano vendute separatamente e il
proiezionista doveva rimetterle in ordine, anche a questo serviva la struttura
paratattica. Per questo non si parla di montaggio ma assemblaggio.
3) linearizzazione (1907/1908), si ha l’ipotassi, la narrazione diventa sempre più
importante e strutturata, si passa da assemblaggio a una composizione delle vedute
dall’ordine necessario, da rispettare. E’ questo processo che porta al cinema
classico.

Griffith
Alle origini del cinema narrativo due generi andavano per la maggiore: le passioni, momenti
della vita di Cristo, e gli incontri di boxe, rimessi in scena dopo che l’incontro si era
consumato. I film si limitavano a mettere in scena alcuni momenti della passione e degli
incontri, non tutte le storie per intero, perché si dava per scontato che il pubblico di
riferimento conoscesse tutto ciò che non vedeva sullo schermo (le regole degli incontri di
boxe e il resto della vita di Cristo). Siccome non era ancora in grado di raccontare storie
complesse, inizialmente venivano raccontate storie i cui pezzi che non venivano
rappresentati si dava per scontato che lo spettatore li conosceva. Per raccontare storie
diverse e più complesse:
Il primo espediente che viene provato è di aggiungere informazioni che non entrano nel film
attraverso qualche cosa che è ancora esterno al film, l’imbonitore una persona che nella
sala spiegava al pubblico ciò che stava vedendo. Come nella “vita di un pompiere
americano” (S. Porter), noi vediamo il pompiere nel suo ufficio e la mamma e la bambina
nella loro camera, l'imbonitore in sala distribuiva un catalogo che spiegava il film, dicendo
che il pompiere ad esempio è il padre e la donna la madre della bambina e che sta facendo
un sogno premonitore che la mamma e la figlia bruciano nella casa, si sveglia e chiama i
pompieri risolvendo la situazione. Qui la componente attrazionale sono i pompieri, che
all’epoca piacevano tantissimo, tanto che Porter chiama pompieri da diverse stazioni per
moltiplicarne il numero e aumentare l’attrazione. La scena non finisce fino a quando i carri
non passano tutti, per la prima volta la cinepresa si sposta per inquadrare ciò che era
fuoricampo, ossia la casa in fiamme. Vediamo la scena del salvataggio due volte, da due
punti di vista diversi: questa sovrapposizione temporale è una forma di racconto tipica del
cinema delle origini che per noi complica la visione della pellicola; ad oggi la scena verrebbe
rappresentata con il montaggio alternato, una forma di montaggio che racconta in modo
alternato due avvenimenti che avvengono in due posti diversi nello stesso momento → quando negli
anni ‘10 si rivedevano i film del passato, l’operatore li rimontava in questo modo.
Il montaggio alternato: The Lonely Villa - Griffith (1908). Griffith si presenta come l’inventore
di diversi espedienti del cinema classico, in realtà non è così, ha portato alle estreme
conseguenze alcune tecniche che giravano al suo tempo e hanno portato al passaggio al
cinema classico. Lavora per una casa di produzione che gli permette di realizzare intorno a
500 film di uno o due rulli ciascuno (durata tra i 10 e i 20 minuti). La storia della pellicola
risale a qualche anno prima, “Il medico nel castello”, ed era stata messa in scena in un
teatro di Parigi: rappresenta una rapina in una villa da cui il padre era stato allontanato dai
ladri con un pretesto, lontano da casa chiama la moglie durante la rapina e sente la famiglia
che viene distrutta al telefono. Viene usato il montaggio alternato nel mostrare la chiamata
tra il medico e la moglie: la moglie chiama il marito proprio mentre i ladri sono in casa e
cercano di raggiungere lei e il figlio. Viene usato proprio il telefono perché mette in
comunicazione luoghi lontani e mostra scene che accadono nello stesso momento, aiutava
lo spettatore a capire meglio quello che stava succedendo. Griffith ci fa vedere la stanza
misteriosa tra l’ingresso della villa e la stanza dove i personaggi erano riuniti, che nella prima
versione non era mostrata, dando maggiore chiarezza sulla geografia della casa, un
elemento tipico del cinema classico. Già c’è una struttura che accenna al montaggio
alternato in maniera più sistematica della versione francese: seguiamo
contemporaneamente il viaggio del padre e i ladri che cercano di entrare in casa, mentre in
quella francese seguivamo il viaggio del padre e non sapevamo cosa stava succedendo in
casa. La dimensione sonora è importante, dobbiamo continuamente immaginare suoni e
rumori. Al medico si rompe la macchina davanti a una locanda, usa il telefono della locanda
per chiamare casa durante la rapina ma i ladri, sentendo che stavano parlando al telefono,
tagliano il filo del telefono, interrompendo la telefonata. Anche per la parte successiva
Griffith usa il montaggio alternato, mostrando contemporaneamente la vicenda del padre e
quella della casa, dove ci sono due scene: quella riguardante la moglie e i figli e quella
riguardante i ladri. Griffith ha intuito le potenzialità del montaggio alternato per costruire un
racconto in forma più emotiva e coinvolgente per lo spettatore.
Un altro esempio è “A corner in wheat” (1909), è un esempio dell’uso del montaggio
alternato da parte di Griffith ma in maniera completamente diversa: ci sono tre storie, una
riguarda un contadino povero con la sua famiglia che viene mostrato mentre semina con il
nonno, un aiutante e due cavalli, una seconda riguarda un grosso capitalista, definito il ”re
del grano”, e una terza scena di una piccola bottega di paese. La didascalia è una novità
che serve a superare la difficoltà che il cinema ha di dare allo spettatore tutte le informazioni
necessarie alla comprensione della storia, va a sostituire l'imbonitore. Siamo nella borsa del
grano e il re del grano riesce a imporre un nuovo prezzo, questa vicenda ha delle ricadute
sulle altre due scene: il contadino povero dell’inizio si impoverisce ancora di più, si
impoveriscono anche gli abitanti del paese per via dell'aumento del prezzo del pane. i
contadini sono ancora più tristi. Nella bottega il pane finisce, non si può sfamare la
popolazione, si ha l’inizio di una sommossa. Il capitalista cade nel grano e muore soffocato,
il film è una critica al capitalismo contemporaneo. Nel montaggio alternato tradizionale le
diverse vicende viste in alternanza alla fine convergono, questo crea quel ritmo, la suspence
che coinvolge lo spettatore, qui questo non avviene, il montaggio alternato viene usato per
comparare le tre diverse vicende e mostrare le relazioni che le legano (il contadino alla
fine semina da solo per mostrare le conseguenze del suo impoverimento ne è un esempio),
per il resto non si incrociano mai.
“The painted lady” - Griffith (1912), racconta la storia di due ragazze, una ligia alle regole del
padre che non vuole che si trucchino, l’altra più trasgressiva che si trucca comunque. La
particolarità è la vicinanza delle inquadrature ai personaggi che comporta una maggiore
visibilità del volto e un mutamento molto forte nello stile della recitazione, che abbandona
progressivamente gli eccessi melodrammatici tipici del teatro per assumere tratti molto più
sobri, facendo trasparire le emozioni dei personaggi dalle espressioni del volto. Alla fine la
protagonista cede alla tentazione, si trucca e per questo morirà. Il moralismo di questi film è
uno degli espedienti che il cinema adotta per cercare di raggiungere un nuovo pubblico;
fin dalle origini il cinema era considerato uno spettacolo indegno di qualsiasi tipo di
considerazione, un mezzo di intrattenimento estremamente basso. Per cercare di elevare il
cinema a forma d’arte e coinvolgere un pubblico borghese, che ancora preferiva gli
spettacoli teatrali, viene adottato questo espediente, un messaggio morale molto forte e
evidente per far vedere che il cinema ha uno scopo anche educativo.
Anche grazie a Griffith si mettono insieme nuovi espedienti del linguaggio che portano a una
mutazione estetica del linguaggio intorno agli anni ‘10 che determina il passaggio ad un
nuovo modo di rappresentazione, il cinema classico.

IL CINEMA CLASSICO

Il cinema classico e il suo linguaggio diventano universali. Fatto da un linguaggio, da una


componente estetica e da un sistema industriale le cui caratteristiche puntano a configurare
una macchina produttiva sufficientemente efficiente da sottrarre questa nuova forma di
linguaggio alle piccole imprese facendola diventare una vera e propria industria. Questa
industria si basa sullo studio system: in California, ad Hollywood, si formano una serie di
grandi studi che esistono ancora (più o meno importanti, majors e minors) che permettono di
dividere il lavoro; ci sono una serie di mansioni e persone specializzate per quella particolare
mansione; il coordinamento è affidato al regista, mentre la figura più importante è il
produttore, che ci mette i soldi e si aspetta di vederli tornare indietro, per questo
supervisiona tutto il lavoro di realizzazione del film e funge quasi da regista (ancora oggi il
final cut, taglio finale, è un diritto del produttore). Un’altra novità dell’evoluzione del cinema
negli anni ‘10 è lo star system, vengono legati determinati attori che hanno successo a uno
studio particolare attraverso contratti solitamente quinquennali per far sì che il pubblico
associ quel particolare attore a quel particolare studio e, spesso, ad un particolare genere.
Tutto ciò che riguarda una star viene controllato dallo studio, come ad esempio le riviste il
cui scopo è quello di costruire un’immagine pubblica della star attraverso la sua vita sia
lavorativa che privata, in modo da far affezionare lo spettatore a quel determinato attore e, di
conseguenza, allo studio. Il genere permette di mettere in comunicazione l’industria che
produce il film, il mondo della critica cinematografica e il pubblicista. Il genere è un sistema
di convenzioni generali che permette di catalogare determinati tipi di film con elementi
ricorrenti in filoni particolari che facilita i rapporti tra i tre elementi istituzionali (autori, facilitati
nel replicare formule di successo con leggere variazioni, spettatori, formulano attese e
previsioni e si compiacciono nel vederle soddisfatte in buona parte di prodotto in prodotto, e
critici, inquadrano il singolo film sullo sfondo di una tradizione, rapportandolo ad altre opere).
Caratteristica del cinema classico è il codice Hays, il codice di autocensura che rimarrà in
vigore dal 1933 fino al 1966: un codice scritto con una serie di regole che indicano cosa si
può e non può fare (in termini di violenza, scabrosità erotica e offesa alle istituzioni politiche
e religiose) se si voleva che il proprio film venisse distribuito dalle grandi case di produzione
(non si possono mostrare crimini contro la legge, non si devono insegnare metodi
criminosi…). La concentrazione verticale: i grandi studi producevano il film e lo
distribuivano in sale di loro proprietà (produzione - distribuzione - esercizio), sistema
distrutto dopo una condanna nel ‘48. Quindi le case di produzione possiedono le principali
sale, soprattutto quelle eleganti: su questo si basa il codice Hays, che non è una legge, i
piccoli produttori che nei propri film infrangono le regole del codice non possono distribuirli,
devono affidarsi alle grandi case produttrici che modificano i film per adattarli al codice.
Quando nel ‘48 la sentenza Paramount decide che la concentrazione verticale è un sistema
illegale, quello che viene sottratto alle case di produzione è il possesso delle sale, che
diventano indipendenti: cominciano a moltiplicarsi i film che non rispettano il codice Hays.
Dal punto di vista estetico si parla di découpage classico: la sceneggiatura dà una serie di
indicazioni sulle inquadrature che il regista dovrà fare e sul montaggio. Tra queste regole:
- fissare delle inquadrature standard a cui il cinema classico spesso ricorre: la scala
dei campi e dei piani (anni ‘20), prevede una serie di possibilità che vanno dal
campo lunghissimo, un’ampissima inquadratura che si definisce priva di personaggi
e riguarda il paesaggio, al campo lungo, in cui il personaggio inizia ad essere visibile
ma sempre sottomesso al paesaggio, al campo medio, il personaggio diventa
riconoscibile, al campo totale che riguarda gli interni, campo semitotale, inquadra
solo parti dello spazio interno, e figura intera, inquadratura del personaggio nella sua
interezza, piano americano, dalle ginocchia, mezza figura, dalla vita, mezzo primo
piano, il busto, primo piano, inquadratura del volto e spalle, primissimo piano, solo
volto, particolare, un particolare del corpo, e infine il dettaglio.
- I tre tipi di montaggio su cui si fonda il cinema classico
1) montaggio alternato
2) montaggio analitico, prevede di accompagnare lo spettatore per mano a
analizzare un determinato ambiente e quello che vi succede. La prima
inquadratura è establishing shot , da allo spettatore le coordinate, è seguita
da inquadrature più ravvicinate che mettono in evidenza i dettagli che lo
spettatore deve cogliere per seguire attentamente la storia che viene
raccontata.
3) montaggio contiguo, mette in continuità le diverse inquadrature per
giustificare lo stacco di montaggio che porta da un’inquadratura a un’altra.
Il cinema classico trova il modo di essere il più chiaro e autonomo possibile
nel racconto delle storie. I raccordi sono le regole alla base del montaggio
contiguo:
- il raccordo sull’asse: non cambia l’asse della macchina da presa ma la
distanza tra la macchina da presa e l’oggetto ripreso.
- il raccordo sul movimento: se un personaggio esce da un lato
dell’inquadratura e nell’inquadratura successiva continua il movimento
iniziato deve seguire la direzione dell'inquadratura precedente.
- il raccordo sullo sguardo: se in una prima inquadratura il personaggio
guarda da una parte, la seconda inquadratura è chiamata soggettiva,
ci mostra esattamente ciò che il personaggio sta vedendo dalla stessa
distanza e dalla stessa prospettiva.
- Il campo controcampo prescrive che i personaggi che stanno
parlando debbano guardare fuori campo in direzioni opposte per dare
l’impressione che si stiano effettivamente parlando.
Le regole del cinema classico devono essere finalizzate:
1) alla chiarezza del racconto
2) al primato dell’azione, se in un’inquadratura non succede nulla, allora non serve.
3) l’invisibilità dell’enunciazione: intorno al 1908 viene imposto un taboo rigido sullo
sguardo in macchina, lo sguardo simmetrico rispetto all’inquadratura soggettiva, che
rompe la finzione cinematografica che è fondamentale nel cinema, perché il cinema
classico ha come obiettivo fondamentale “l’assorbimento ? dello spettatore” = lo
spettatore deve essere coinvolto totalmente nella vicenda che si racconta, non
accorgersi di come essa viene costruita. André Bazin ha definito l’insieme dei
montaggi del cinema classico come montaggio invisibile, un montaggio che
assorbiamo e ci appare naturale; se lo spettatore si concentra sui personaggi e sulle
vicende anziché sulla regia è più facile far passare dei messaggi in maniera non
esplicita.
Il cinema classico ha messo a punto un sistema industriale talmente efficace e una forma
estetica talmente aperta da essersi affermato nella storia del cinema, è stato in grado di
riassorbire, fare proprie tutte le novità che circolavano intorno al cinema classico stesso,
ovvero le avanguardie, in modo da aggiornarsi e mutarsi nel tempo.

IL CINEMA ITALIANO DEGLI ANNI ‘10

Nato con “La presa di Roma” di Alberini (1905), è una delle tre cinematografie più importanti
del mondo, insieme a quella francese e americana, totalmente indipendente, porta avanti
una ricerca estetica diversa da quella del cinema classico.
Una delle attrazioni che il cinema mette appunto abbastanza presto, già ai tempi di Méliès, è
il colore (inizialmente erano colorazioni fatte direttamente sulla pellicola, su ogni piccolo
fotogramma, il cui effetto cambiava da copia a copia perché fatte a mano da
operatori/operatrici). La colorazione che va per la maggiore consisteva nel prendere le
singole inquadrature e immergerle in un liquido colorante che le colorava di uno stesso
colore (blu per la notte, verde per gli esterni…). Spesso la colorazione era un veicolo di
senso, faceva arrivare allo spettatore informazioni che le didascalie non davano ad esempio
sulla collocazione delle scene nell’arco della giornata. Ancora negli anni ‘50 per fingere che
le riprese erano fatte di notte si usa il cosiddetto effetto notte: veniva applicato sulla lente
della macchina da presa una specie di filtro di gelatina blu che dava l’impressione di star
girando di notte.
Cabiria (1914): uno dei primissimi lungometraggi, a partire dal quale vengono proposte delle
musiche apposta per i film, sempre per un discorso di coinvolgimento di classi più alte. Il
regista Pastrone chiede aiuto a uno dei principali esponenti della cultura italiana del
momento, Gabriele D’Annunzio, che riscrive le didascalie con un linguaggio aulico, inventa
i nomi dei personaggi e lega il proprio nome al film, per raggiungere le classi più alte come
sempre. La storia è ambientata al tempo delle guerre puniche e racconta le vicende della
siciliana Cabiria, rapita dai pirati nella confusione causata da un’eruzione dell’Etna e poi
venduta al mercato degli schiavi di Cartilagine per essere sacrificata al dio Moloch, salvata
all’ultimo da Axilla e Maciste. Questo film si differenzia dal linguaggio del cinema classico lo
si vede già dalle prime due inquadrature, che puntano su una costruzione complessa
dell’inquadratura in profondità con uno spazio che è tridimensionale, di tipo architettonico
(non più pittorico o illusorio) e abitabile, le comparse e gli attori non fanno altro che
attraversare questo spazio per far vedere allo spettatore questa novità. L’immagine non è
più frontale ma diagonale, lo spazio da un’illusoria impressione di realtà e la macchina da
presa si muove come non si è mai mossa, con quello che viene chiamato carrello (la
macchina da presa viene messa su una specie di carrello che veniva fatto scorrere su delle
rotaie), che riesce a dare un movimento della macchina da presa stabile, elegante e
regolare, non traballante. Da qui in poi ci sono il carrello laterale, quello diagonale, quello
verticale, la panoramica (il movimento della macchina da presa sul proprio asse) e la
macchina a mano/a spalla (per dare un effetto di estrema realtà, da senso di instabilità che
imita molto quelli che erano i reportage di guerra degli anni ‘50/’60). L’unica invenzione più
avanti nel tempo, negli anni ‘70, è la steady camera, simile alla macchina a mano che
consente di ottenere un’immagine stabile come quella del carrello.
La concezione delle inquadrature è ancora molto legata alla stabilità del cinema classico o
delle origini?, sono inquadrature molto lunghe ispirate a modelli pittorici, sempre per elevare
il cinema a forma d’arte (= imitando l’arte). Il montaggio invece non c’entra niente con il
cinema classico, con stacchi che non seguono alcun raccordo, anzi infrangono le regole del
cinema classico, facendo quello che viene chiamato scavalcamento di campo. Già all’inizio
del film c’è una scena spettacolare, l’Etna che erutta, che solitamente verrebbe lasciata
come momento culmine del film, effetto ottenuto proiettando della luce molto forte con delle
lampade artificiali che consentono un’illuminazione sufficientemente potente da consentire
nuovi effetti d’illuminazione e da sciogliere la dipendenza negli studi dalla luce naturale. Nel
momento in cui Cabiria, rapita, si trova a Cartagine e sta per essere sacrificata viene salvata
da Maciste, invenzione di D’Annunzio.
Quello del cinema italiano è un modello alternativo al cinema classico: come dice Burch,
quello classico non è mai stato l’unico naturale modello del cinema.

LE AVANGUARDIE STORICHE

Il termine avanguardia indica in contesto artistico artisti e gruppi che operano in una
posizione avanzata rispetto alle pratiche dominanti (Les Demoiselles d’Avignon di Picasso);
il concetto presuppone la sperimentazione di nuovi linguaggi e tecniche espressive. Si
collocano tutte tra gli anni ‘20 - ‘30. La prima avanguardia che si affaccia sulla scena del
cinema è italiana, negli anni ‘10 (1916), la cinematografia futurista, che non viene mai
attuata ma solo pensata, nel manifesto ci sono una serie di ipotesi di film possibili
estremamente lontane da quel che il cinema stava facendo; Marinetti e compagnia
sostengono che tutto quello che ha fatto il cinema finora non è affatto arte ma sono molto
ottimisti sul suo futuro; immaginano ad esempio delle poesie illustrate in modo provocatorio,
un cinema di tipo onirico, privo di una logica razionale, visionario, cosa che avverrà negli
anni ‘20. Le tre principali avanguardie sono: l’impressionismo francese, l’espressionismo
tedesco e la scuola del montaggio sovietico, a cui più tardi - fine anni ‘20 - si accompagnano
il dadaismo e il surrealismo e altre esperienze più radicali che rinunciano completamente
alla componente narrativa. Gli studiosi distinguono avanguardie, nel senso stretto del
termine, danno l’idea di volontà polemica, di distruggere quello che è stato fatto, l’obiettivo
polemico principale è il cinema classico, che sta diventando il modello di cinema che si sta
affermando e diffondendo; i registi e gli artisti che lavorano a queste esperienze cercano
alternative estetiche ed espressive rispetto al linguaggio del cinema classico. E
avanguardismo, una forma più moderata, sono sempre film narrativi che spesso utilizzano
il linguaggio classico o un linguaggio ad esso vicino, ma in alcuni aspetti e in certi momenti
vi si allontanano e provano a inserire delle sperimentazioni che aprano strade diverse e
nuove. L’avanguardia vera e propria è qualcosa di molto più radicale, che rifiuta proprio
l’idea stessa della narrazione e cerca di costruire film che siano puri stimoli visivi o di
costruire storie talmente irrazionali che sembra non ci siano storie. Gli avanguardisti si
interessano al cinema perché per le sue specificità anti-artistiche: per il fatto che il processo
creativo è affidato a un collettivo che nega l’idea dell’autore individuale, perché si rivolge a
un destinatario di massa e per la dimensione meccanica alla base di esso.

Espressionismo tedesco

“Il gabinetto del dottor Caligari” di Wiene: ambientato in un contesto che sovrappone
magia e malattia mentale, il film racconta la vicenda di Caligari che presenta il suo
spettacolo di magia che consiste nel controllare la volontà di un giovane sonnambulo di cui
si serve per commettere alcuni omicidi; quando sarà scoperto, si viene a sapere che Caligari
è il direttore di un manicomio, ossessionato dalla vicenda del vero dr. Caligari di cui aveva
letto in un libro; ma il narratore della vicenda a sua volta si rivela essere un paziente
paranoico di Caligari. Il film si apre su un fondale dipinto - cosa che il cinema aveva
abbandonato - in modo strano, non una pittura mimetica e realistica che tenta di riprodurre la
profondità dello spazio con l’uso della prospettiva. Le luci sono estremamente violente e la
costruzione tenta di riprodurre i caratteri della pittura espressionista, i cui canoni non sono
realistici, non rispetta le proporzioni. C’è una dimensione dal punto di vista visivo e spaziale
molto straniante, così come la componente umana che la abita: la recitazione recupera
canoni di esasperazione di gestualità che vanno nella direzione opposta alla naturalità e
espressività che il cinema classico aveva iniziato a fare. L’attore è truccato in modo
eccessivo, con una patina di trucco tale da nascondere le minuzie delle espressioni del suo
volto, come se stesse portando una maschera - si recuperano alcuni aspetti che il cinema
stava abbandonando. Anche le didascalie sono fatte in modo strano, disegnate a mano, gli
effetti di luce e di ombra sono dipinti sulla scena oppure ottenuti con l’illuminazione artificiale
con una luce violenta, diretta, lanciata sul volto del personaggio che, nel cinema classico,
viene stemperata da una serie di luci messe tutto intorno per creare una dimensione
sfumata, qui no, stacca il personaggio dallo sfondo e crea ombre che vengono utilizzate in
maniera espressiva; sono ombre molto allungate. E’ stata vista come una riflessione
dell’angoscia dovuta alla fine della guerra (uomo comune costretto a uccidere dall’autorità).
Deformazione della scenografia rivela spesso significati allegorici: all’interno del comune un
burocrate è simbolicamente seduto su uno sgabello altissimo mentre Caligari su uno
sgabello basso, per dimostrare la discrepanza tra chi detiene il potere e chi vi si deve
subordinare. Nella scena del primo omicidio, l’assassino-sonnambulo viene visto solo
tramite l’ombra proiettata sulla parete, così come l’omicidio stesso. Questo espediente sarà
ripreso più avanti dal cinema classico. C’è uno stacco senza alcun raccordo sul dettaglio
delle mani, un’inquadratura che ci porta dal punto di vista di prima, poi più vicina al
personaggio, è una composizione strana che da una carica emotiva a questo momento. Le
inquadrature di questo film sono piuttosto statiche: lo spettatore deve avere il tempo di
vedere, contemplare tutte le novità portate da questo tipo di cinema e comprendere le
differenze che lo staccano dal cinema classico. L’espressionismo tedesco punta tutto sul
punto di vista visivo, per niente su quello del montaggio. C’è accordo tra recitazione - che
non ha nulla di naturale - e scenografie - non hanno nulla di naturale. Il lato fantastico è
privilegiato su quello realistico, la soggettività sull’oggettività, l’allegoria, il simbolo e la
metafora sul dato, l’oscurità alla chiarezza, la trasgressione della logica alla linearità, la
contraddizione sulla coerenza, il delirio angoscioso interiore sulla lucidità descrittiva della
ragione.
L’esperienza dell’espressionismo tedesco termina nel ‘27 con il film “Metropolis”, di Fritz
Lang, un fiasco commerciale che, insieme all’avvento del sonoro, porta al declino del cinema
tedesco.

Impressionismo francese

Coevo all’espressionismo tedesco, nasce intorno al ‘18 e termina nel ‘27, è una forma di
avanguardia: sono film narrativi che recuperano le storie che raccontano in un territorio più
banale, ovvero la letteratura dell’800. Queste storie si possono ricondurre al genere del
melodramma, sono conosciute e piuttosto semplici. Questi registi (L’Herbier, Delluc, Dulac)
inseriscono nei loro film una serie di sperimentazioni completamente diverse da quelle
dell’espressionismo tedesco; mentre quest’ultimo lavora su ciò che sta davanti alla
macchina da presa, l’impressionismo lavora soprattutto su tutto ciò che riguarda la
strumentazione tecnica messa in campo e la tecnologia utilizzata che hanno anche a che
fare con l’estetica (luci, tipo di obiettivo, tipo di pellicola…). Le sperimentazioni
dell’impressionismo sono localizzate, circoscritte, non ovunque come quelle
dell’espressionismo: ci sono lunghi frammenti tradizionali dal punto di vista registico e
formale, ma poi in alcuni elementi nel racconto lo stile si accende di qualche forma
sperimentale; sono film che arrivano anche alle quattro/cinque ore di proiezione, raccontano
storie molto diluite in cui inseriscono elementi di forte sperimentazione. Talvolta
organizzavano serate in cui proiettavano soltanto i frammenti con le sperimentazioni, serate
di pura avanguardia. E’ un cinema che non rinuncia al rapporto con lo spettatore, mantenuto
anche con l’industria. Una delle più grandi novità che segna il percorso del cinema è il fatto
che, per la prima volta, un intero movimento insiste nel promuovere il cinema come forma
d’arte ed è consapevole del ruolo autoriale del regista, per cui i registi si promuovono
come autori a tutti gli effetti, come artisti. Una nuova organizzazione, quella dei ciné-clubs,
conferma questa novità: circoli in cui i registi possono distribuire i loro film, organizzare
quelle serate e le retrospettive, ovvero proiezioni di film, anche del passato, fatte per
sostenere idee, rivedere la storia del cinema…
“El Dorado” - L’Herbier (1921): la storia è di Sibilla, una ballerina di flamenco che lavora in
un locale; ha un figlio piccolo e molto malato e non ha i soldi per curarlo, cerca quindi di
convincere il padre del bambino, Estiria, l’uomo più ricco del paese che l’aveva sedotta e
abbandonata, ad aiutarlo, ma egli rifiuta; Sibilla si vendica rovinando le nozze combinate per
la figlia facendo sì che si sappia del suo amore per un uomo diverso da quello scelto dal
padre, il pittore Hedwick. E’ composto da cinque macro-sequenze, corrispondenti agli atti di
un melodramma ideale dalla struttura circolare (1. esibizione presso El Dorado 2. visita
all’Alhambra 3. vendetta 4. il giorno dopo, le conseguenze 5. l’ultima esibizione presso l’El
Dorado). Ci troviamo in un ambiente realistico, salvo che ad un certo punto subentrano delle
piccole sperimentazioni che vanno in una direzione diversa rispetto a quella del cinema
classico: in un’inquadratura ci sono cinque ballerine che lavorano nel locale, di cui solo la
protagonista è fuori fuoco, e rimane fuori fuoco fino a quando la collega le dice che è il suo
turno di esibirsi; lei torna a fuoco, si alza, si esibisce e c’è poi un improvviso inserto del figlio
che si alza dal letto per chiamarla, non si capisce se si tratta di un’immagine mentale della
donna o un accenno di montaggio alternato. Appena l’esibizione finisce la protagonista torna
fuori fuoco; diventa facile per lo spettatore non abituato a un cinema sperimentale questa
sfumatura non realistica: è un modo per indicare che Sibilla è distratta e estranea a tutto ciò
che la circonda perché pensa al figlio malato, ritorna in se stessa solo quando si esibisce.
Un’altra inquadratura con un altro tipo di deformazione di un uomo che beve ci dice che il
personaggio che stiamo vedendo è ubriaco: era qualcosa che non si era mai visto, questa
inquadratura nel cinema classico si può trovare come soggettiva, ha un senso di resa
realistica nel momento in cui l’inquadratura è associata a un punto di vista; qui succede il
contrario, è un’inquadratura oggettiva, il personaggio è guardato. Il concetto in questione
viene definito dagli impressionisti fotogenia (photogénie), una caratteristica che non è di ciò
che viene ripreso ma di ciò che riprende, la macchina da presa, che consiste nella capacità
della stessa di mostrare, vedere e registrare cose che l’occhio umano non è in grado di
vedere. Alla base della convinzione che il cinema è una forma d’arte c’è la convinzione che
la macchina da presa sia un nuovo dispositivo ottico in grado di vedere e mostrare cose che
nessun dispositivo ottico era mai stato in grado di vedere e mostrare, può cogliere aspetti
della realtà che l’occhio umano non coglie ma che sono stati percepiti in altri modi. Questa
convinzione è definita specifico filmico, ovvero ciò che distingue il cinema dalle altre arti;
gli impressionisti sono convinti che lo specifico filmico sia la photogénie. Quella inquadratura
ci mostra lo stato interiore del personaggio, le sue impressioni: l’impressionismo fa diventare
oggettivi stati che in realtà sono dell’interiorità del personaggio (Sibilla che si estranea dal
locale e l'ebbrezza del personaggio). Un altro esempio di photogénie, giustificato
narrativamente in modo diverso: Estiria ha ricevuto la lettera in cui Sibilla gli chiede aiuto; c’è
lo stesso tipo di deformazione ma fatto per introdurre il flashback con cui il padre ricorda il
suo primo incontro con Sibilla. Un ultimo esempio: scena in cui Hedwick ha in mano delle
fotografie dell'Alhambra che egli intende dipingere, c’è una deformazione dell’Alhambra che
permette un richiamo alle avanguardie pittoriche. Il tutto è arricchito da fantasiose tendine e
sovrimpressioni dal significato spesso allusivo e simbolico, come nel caso della mano che
strappa i petali del fiore appuntato al petto di una ragazza su cui si sovraimprime la tastiera
del pianoforte suonato nel locale, ad indicare il clima di “eccessi”.
“La roue”- Gance (1923) è un melodramma che racconta la storia di Sisif, un ferroviere che
all’inizio del film è sulla scena di un incidente ferroviario da cui emerge una bambina,
sopravvissuta, che egli adotta, cresce e di cui si innamora, creando pesanti scompensi
emotivi e portandolo a perdere progressivamente i lumi della ragione. E’ significativo il modo
in cui Gance si presenta sullo schermo in primo piano nei titoli di testa per rivendicare la
paternità del film attraverso una serie di sovrimpressioni: i treni che attraversano in ogni
direzione l’inquadratura sembrano scaturire direttamente dalla sua mente e immaginazione;
a questa segue un autografo del regista stesso che dedica il film alla moglie, come se fosse
un film dentro al film, dimostra la consapevolezza del ruolo di autore/artista del regista. In
questo film c’è anche una sperimentazione del montaggio: Sisif ha ormai perso la ragione e
cerca di causare un nuovo incidente ferroviario e c’è un esempio di quello che gli
impressionisti chiamano montaggio accelerato, consiste nel rendere attraverso un
montaggio sempre più veloce la concitazione emotiva del momento narrativo che riguarda
sempre l’interiorità del personaggio. Si è visto studiando questi film che Gance è arrivato a
inserire delle inquadrature in un singolo fotogramma, nemmeno percepibili all’occhio dello
spettatore. C’è poi un continuo ritornare ad un primo piano di Sisif che rompe le regole del
cinema classico, sia perché il personaggio guarda in macchina sia perché non vengono
rispettati i raccordi, c’è una perdita di orientamento nello spazio. C’è poi l’uso di mascherini
per isolare determinati dettagli e creare particolari inquadrature. Nel momento in cui Sisif per
la prima volta si confida con qualcuno sui sentimenti che prova per la fanciulla che ha
cresciuto Gance gioca sull’alternanza tra inquadrature costruite in modo totalmente classico
(bilanciamento delle luci per creare una sorta di aureola attorno al personaggio) e
inquadrature con una luce estremamente violenta che ricorda l’espressionismo; quindi questi
autori sanno esattamente cos’è il cinema classico.
“Napoleon” - Gance (1927): con questo film il cinema muto raggiunge il suo apogeo; è un
film pieno di sperimentazioni di ogni tipo (visivo, montaggio, montaggio interno
all’inquadratura…); ci sono molteplici sovrimpressioni, vertiginosi movimenti di macchina,
posizioni inconsuete della cinepresa e un montaggio accelerato nel finale che porta al
culmine l’esaltazione del giovane condottiero, spesso posto al centro dell’inquadratura con
primi e primissimi piani, ulteriormente accentuati da mascherini. Se il percorso di Napoleone
raccontato dal film culmina nella Campagna d'Italia, così nel film l'apice viene raggiunto nel
finale, con la polyvision: si accendono altri due schermi accanto a quello centrale, che si
triplica. Si tratta di un sistema complesso e costoso, che necessita di tre macchine da presa,
tre proiettori e tre schermi in sala, può essere proiettato solo in certe sale. Alle volte usa
questi tre schermi affiancati per allargare le inquadrature, più spesso invece per creare un
montaggio interno alle inquadrature per creare un ritmo, un effetto estetico, degli
accostamenti specifici. Compaiono ad esempio l'aquila, gli elementi naturali di acqua, fuoco
e aria, e nelle ultime inquadrature lo schermo di sinistra si tinge di blu, quello di destra di
rosso a richiamare la bandiera francese.

Scuola di montaggio sovietico

E’ una scuola nel senso che era una sorta di movimento ma anche nel senso concreto del
termine, nasce da una scuola di cinema e regia e da chi vi lavora. Lo specifico filmico viene
identificato nel montaggio. Siamo in un contesto politico particolare, all’interno di un regime
totalitario: i film sono film di propaganda (“La corazzata Potëmkin” è un esempio, pubblicato
nel 1925 per celebrare la rivoluzione mancata del 1905). Kuleshov era un insegnante di
questa scuola e conduce degli esperimenti nella sua classe per spiegare come funziona il
montaggio e perché è l’aspetto più importante del cinema. Ci sono diverse versioni di questi
esperimenti, che consistevano in piccoli montaggi di materiali di repertorio (fatti in altri
contesti da altre persone); le testimonianze in merito ad essi sono spesso contraddittorie fra
di loro. Uno di questi esperimenti, descritto nei manuali come effetto Kuleshov, consiste nel
prendere un primo piano di uno degli attori più importanti del tempo che lo descriva privo di
espressione, neutro, che poi veniva accostato a tre elementi: un piatto di minestra, un morto,
poi, a seconda dei ricordi, una bambina che gioca o una donna svestita; quello che Kuleshov
voleva dimostrare era che lo spettatore è portato ad attribuire a quel primo piano neutro un
significato diverso a seconda dell’immagine ad esso associata (piatto di minestra = lo
spettatore attribuisce un desiderio di fame; bara = qualche forma di dolore; bambina/donna =
forma di attrazione, gioia, felicità). Non è che la singola inquadratura non abbia significato,
ma esso può essere modificato, potenziato o rideterminato da quello che precede o segue,
ovvero dal montaggio. Non è un principio d’avanguardia ma un principio generale, che si
applica anche al cinema hollywoodiano. Altri riferimenti che Kuleshov fa sono legati al modo
in cui lo spettatore cerca istintivamente di dare coerenza alla cose che vede: lo spettatore
tende a creare delle associazioni indipendentemente dal fatto che le stesse siano
empiricamente giustificate (se vedo in un film una serie di dettagli del corpo, che magari
sono di corpi diversi, lo spettatore tende a pensare che siano dello stesso corpo). Erano
forme primordiali per capire come funzionava la psicologia dello spettatore di fronte al
montaggio. I primi film riconducibili a questa scuola sono del ‘24/’25, si sviluppa più tardi
rispetto alle altre due forme di avanguardismo e dura fino al passaggio al sonoro. Le forme
di montaggio in alcuni casi arrivano ad essere molto complicate e disorientanti per lo
spettatore abituato al linguaggio del cinema classico. L’idea che il gesto dell’interprete debba
produrre degli effetti pianificabili sul pubblico influenza profondamente le prime riflessioni sul
montaggio di Ėjzenštejn, allargate al piano della composizione dell’opera e sfociate nella
teoria del montaggio delle attrazioni; per Ėjzenštejn la nozione di attrazione definisce un
“momento aggressivo che esercita sullo spettatore un effetto sensoriale o psicologico”. Nel
cinema la creazione di un’attrazione dipende dal montaggio.
“La corazzata Potëmkin” - Ėjzenštejn (1925): racconta la storia dell’ammutinamento dei
marinai di questa corazzata che da luogo a un primo tentativo di rivoluzione che termina nel
sangue con la repressione dei soldati dello zar. Nel momento dell’inizio di questa rivolta ai
marinai era stata data in pasto della carne avariata, il modo in cui vengono trattati sulla nave
li porta ad ammutinare; la frase scritta su un piatto, “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, fa
scattare la reazione del marinaio che, simbolicamente, rompe il piatto: per mostrare questa
scena il regista fa rivedere la stessa azione più volte ripresa da punti di vista diversi,
andando a riprendere il montaggio alternato delle origini. Anche quando il medico di bordo
viene scagliato in mare il regista usa una ripetizione temporale. Nella lunga sequenza della
scalinata la sperimentazione di Ėjzenštejn consiste nel rifiutare completamente il montaggio
contiguo, ottenendo un effetto spiazzante per lo spettatore abituato al linguaggio classico,
per lo spettatore è difficile orientarsi sia dal punto di vista spaziale che temporale. Ci
sono due inquadrature che hanno la funzione di establishing shot, danno l’idea dello spazio
nel quale si svolgerà la sequenza successiva; nella folla sulla scalinata vengono isolate delle
figure senza nome come volti riconoscibili, che avranno un piccolo ruolo nelle sequenze
successive, il regista da così dei punti di riferimento allo spettatore. Ci sono il popolo e
l’esercito zarista che si scontrano: nel caso del popolo ci sono delle figure distinte che
assumono un ruolo, mentre la collettività dei soldati zaristi non è trattata nello stesso modo,
è un muro di soldati armati dai quali nessuno è isolato, non sono quasi rappresentati come
umani ma come macchine da guerra che avanzano in blocco uccidendo; la violenza gratuita
della sequenza è resa dal regista attraverso il disordine apparente creato attraverso una
costruzione del montaggio che non ha nulla di classico (tutte le volte che un personaggio
guarda fuoricampo non segue mai il raccordo sullo spazio; quando compare il personaggio
senza gambe non si capisce in che punto della scalinata si trovi, e con lo stacco non
abbiamo modo di capire dove sia). Si continua a saltare da un punto all’altro della scalinata
senza modo di sapere dove siamo. Inquadratura di ginocchia che si piegano seguita da una
sorta di soggettiva con un altro personaggio che cade davanti, quando in realtà è dietro:
ogni volta che crediamo di avere punti di riferimento ci perdiamo nuovamente. Stessa cosa
dal punto di vista temporale, l’impressione è che la scalinata non finisca mai, che ci sia una
dilatazione infinita del tempo. Quando una mamma e il bambino cade la mamma lo guarda
sconvolta come se il tempo si fosse bloccato senza correre ad assisterlo. Ci sono continui
salti temporali, riavvolgimenti e sovrapposizioni; quando la mamma finalmente arriva al
bambino arriva da sopra, spiazzando lo spettatore. Sono esempi di sperimentazioni
concentrate in sette minuti di sequenza che creano qualcosa che non si era mai visto nel
cinema, ricordano il cinema delle origini e sono il frutto di una creazione studiata e voluta a
tavolino da Ėjzenštejn, che conclude in modo simbolico: i marinai si vendicano dalla
corazzata sparando al teatro della città, c’è l’intervento di tre statue simboliche del leone,
uno dorme, l’altro si è svegliato e uno che si alza in piedi, rappresentano la coscienza del
popolo che si sveglia (sono un accenno di montaggio simbolico, altro tipo di montaggio che il
regista utilizza nei suoi film)
“Sciopero!” - Ėjzenštejn (1925): lo sciopero viene represso nel sangue, nel momento in cui i
generali decidono che l’esercito deve intervenire massacrando gli scioperanti (rappresentato
in modo simbolico dall’inchiostro che sembra sangue e scorre sulla mappa della città); la
strage viene mostrata tramite un montaggio che sembra alternato ma non lo è, è un esempio
di montaggio parallelo: due azioni vengono messe in rapporto ma non sono
contemporanee, o perché sono ambientate in tempi diversi oppure, come in queste caso, si
collocano in piani di realtà diversi: la soppressione degli scioperanti appartiene allo spazio e
al tempo di finzione ricostruito, diegetico, le scene di un macellaio che squarta un bue sono
extra-diegetiche, il macellaio non è un personaggio del film, sono immagini inserite nel film
per creare un rapporto simbolico = gli scioperanti indifesi sono torturati e uccisi come un
macellaio dagli zaristi cattivi armati (passiamo da piano diegetico a piano extradiegetico
continuamente). Il regista ha definito questo tipo di montaggio montaggio intellettuale
(perché costringe lo spettatore a fare uno sforzo sul piano intellettuale, lo spettatore deve
trovare un senso a questa sequenza), in particolare questo montaggio che mette in parallelo
piano diegetico/non diegetico viene chiamato montaggio delle attrazioni. Tutto ha uno
scopo di propaganda: il regista stesso nei suoi scritti parla di cinepugno; la sua idea è,
attraverso questi espedienti così complessi e contraddittori rispetto al cinema tradizionale, di
immaginare e costruire un tipo di spettatore completamente diverso da quello che pensa il
cinema classico (ovvero lo spettatore assopito nella sala buia che non si deve chiedere
come sia messa in scena la storia), qui è il contrario, lo spettatore è costretto ad interrogarsi
sulle immagini che vede e intervenire attivamente per spiegare queste immagini e poi
ricavare la morale della storia. Questo dovrebbe servire nelle intenzioni di questa scuola a
rendere più efficace il messaggio ideologico che viene veicolato, coniugando avanguardia e
propaganda. Per Ėjzenštejn l’essenza del montaggio consiste nel conflitto, ossia nella
possibilità di mettere a diretto contatto immagini in attrito; inoltre il regista non deve limitarsi
mai a esporre un fatto, ma deve sempre darne un’interpretazione personale e originale,
facendo emergere la natura conflittuale del reale. Un esempio della complessità del cinema
di Ėjzenštejn è fornito da “Ottobre” (1928), un film che rappresenta la rivoluzione del 1917
nelle sue diverse fasi con lo scopo di celebrarla in occasione del suo decimo anniversario; è
un film che apre la via a un cinema “intellettuale”, il cui montaggio opera attraverso le
attrazioni e manipolazioni del tempo.
Contrapposta a questa visione c’è la concezione di montaggio di Vertov, che parla di
cineocchi: il montaggio è al servizio di un cinema rigorosamente documentaristico, capace
di insegnare i valori del nuovo Stato socialista e di essere appreso da tutti coloro che
vogliono intraprendere l’attività di cineoperatori.

Avanguardie

Sono esperienze diverse che rinunciano proprio alla componente narrativa o per
inseguire un lavoro estetico sull’immagine e sul montaggio, ad esempio a livello ritmico.
“Ballet Mécanique" - (1924): costruito sulla base di elementi che non hanno niente di
narrativo, sono immagini astratte che vengono presentate per creare effetti ritmici differenti,
anche se sono riprese dal vero non hanno alcuna pretesa di raccontare una storia.
Sperimentazione estetica che si propone di testare la resistenza dello spettatore alla
ripetizione, alla frammentazione, all’ingrandimento.
Quando una componente narrativa torna in gioco viene usata per costruire qualcosa che
non ha senso: in Braque ???c’è una lunga componente narrativa che riprende un funerale
ma diventa sempre più assurda, a metà tra dadaismo e surrealismo, serve a sorprendere lo
spettatore. Si gioca sul grottesco, drammatico, ridicolo, riprendendo alcuni elementi del
cinema delle origini. Tutto si conclude con un piccolo numero di magia, alla fine il carro si
ribalta e perde la bara, che finisce in un prato, dalla quale esce un mago che uno a uno fa
sparire tutti i personaggi.
“Un chien andalou” - (1929): esempio di cinema surrealista, in un mondo ormai abituato al
cinema sonoro abbiamo un film muto accompagnato da musiche completamente casuali. Il
regista appare mentre affila un rasoio che usa per tagliare l’occhio ad una fanciulla, partendo
da una situazione realistica crea situazioni assurde come nel linguaggio onirico, sono
associazioni simboliche guidate da connessioni non logiche, complesse e psicologiche,
spiazzando la maggior parte degli spettatori. Salvador Dalì, formiche che escono dalla mano
rappresentano desiderio.

PASSAGGIO DAL CINEMA MUTO AL CINEMA SONORO

Il cinema classico e le avanguardie che si sviluppano negli anni ‘20 portano il cinema muto a
un livello di straordinaria complessità, nel giro di trent’anni il cinema cambia completamente.
Da un lato il sogno da cui erano partite le avanguardie (si trova nel manifesto futurista) si è
realizzato, dall’altro la complessità raggiunta dal cinema muto porta a guardare male
l’avvento del sonoro verso la fine degli anni ‘20, sono molte di più le perplessità che non
l’entusiasmo legato a questa nuova tecnologia. Tra il ‘27 e il ‘29 si va a definire uno
standard industrialmente sfruttabile sul cinema sonoro, la scelta cade su un sistema
sviluppato dalla Western Electric che prevede la colonna sonora stampata direttamente su
pellicola.
“The jazz singer” - Crosland (1927): convenzionalmente segna la nascita del cinema sonoro.
girato con un sistema Vitaphone messo a punto dalla casa di produzione Warner Bros. Si
tratta di un film muto che in alcuni momenti diventa sonoro (la maggior parte della vicenda è
accompagnata solo da musica e intercalata da didascalie, solo in quattro sequenze il
protagonista canta e suona, pronunciando qualche parola di dialogo); l’avvento del sonoro
non comprende subito film totalmente sonorizzati. Il film racconta la vicenda di questo
giovane cantante di jazz, figlio di un rabbino che vorrebbe che cantasse in sinagoga e arriva
a cacciarlo di casa. Lui rimane legato alla madre a cui va ad annunciare il momento in cui
sta per avere successo, mentre il padre è fuori casa; la sequenza inizialmente è muta che
diventa sonora in alcuni momenti, e dal punto di vista visivo e formale è un film
essenzialmente statico, con poche e lunghe inquadrature, fisse e frontali, e un montaggio
ridotto al minimo (sempre perfettamente classico) sembra un film degli anni ‘10, è ancora
formalmente legato all’estetica del cinema muto; compensa queste mancanze con
frammenti sonori e giochi/battute sul muto (“non hai parole per tuo figlio?”). Il passaggio dal
muto al sonoro è evidenziato non soltanto dal termine della musica extradiegetica che
permette al personaggio di parlare/cantare, ma anche dal cambiamento del passo di
proiezione, che si va a fissare a 24 frammenti al secondo, mentre i frammenti muti hanno
un passo leggermente ridotto, quindi più veloce alla vista. Dato che il passaggio al sonoro si
colloca negli anni della grande crisi economica successiva al crollo di Wall Street del ‘29, la
mancanza di liquidità impedisce a molti cinema di investire per acquistare gli impianti
necessari per adattarsi al sonoro, quindi in questa prima fase numerosi film vengono
distribuiti nella doppia versione muta e sonora. C’è ancora un sistema che fa utilizzo di
dischi esterni alla pellicola per registrare il sonoro, che non è ancora registrato direttamente
sulla pellicola, ancora non c’è nella pellicola quella che verrà chiamata colonna sonora, per
questo dal punto di vista formale il film rimane arretrato. I timori riguardano proprio l’arresto
dello sviluppo del cinema e la perdita d’identità, si teme che il cinema diventi
semplicemente un teatro filmato, che la parola prenda il sopravvento sull’immagine. I
microfoni non erano direzionali, registravano tutto quello che succedeva: quando si
registrava una scena in cui ci voleva una musica extradiegetica occorreva che l’orchestra si
trovasse sulla scena a suonare durante la ripresa, e la macchina da presa doveva essere
messa in una specie di scatola insonorizzante per evitare che ne venissero registrati i
rumori. Il cinema sonoro nasce con questi limiti oggettivi. Gli attori erano costretti a scandire
molto le loro parole e a parlare con una certa artificiosità, il che andava ad aggravare il
senso di staticità propria dei primi film sonori. In essi viene meno la musica extradiegetica,
questo va a creare un effetto strano, sembra che manchi qualcosa di essenziale (ci sono
momenti di silenzio che aggravano staticità). Inoltre c’erano una serie di problemi riguardanti
la circolazione internazionale dei film: mentre il film muto non necessita di alcun intervento (o
di minimi interventi) per poter essere distribuito in giro per il mondo, quando arriva il cinema
sonoro è un bel problema; i sottotitoli andavano a costituire un elemento di distrazione, il
doppiaggio era praticamente impossibile da realizzare. All’inizio si cerca un espediente
strano effettivamente poco praticabile: girare diverse versioni del film per i mercati
internazionali con attori diversi ovviamente, ma è un sistema molto dispendioso che ha una
durata limitata, le due strade che vengono portate avanti sono quella del doppiaggio e
sottotitoli.
Per questo le reazioni alla nuova tecnologia da parte di teorici e registi sono spesso state
negative (Charlie Chaplin rifiuta di ricorrere ai dialoghi nei suoi film per più di dieci anni,
finché prende la parola in “The Great Dictator”). Bazin invece sostiene che l’introduzione del
sonoro è un apporto positivo perché aggiunge realismo al cinema e lo avvicina a ciò che
esprimiamo quotidianamente.
Pochi mesi dopo esce il primo film completamente parlato: “Le luci di New York”.
C’è anche chi trova subito il modo di sfruttare il sonoro in forme più creative, complesse e
innovative, come un elemento linguistico aggiuntivo che mette a disposizione del regista una
serie di strumenti nuovi e originali.
“Blackmail” - Hitchcock (1929): l’aveva girato muto, ma prima di terminarne la produzione
c’era stato l’avvento del sonoro; egli non si limita ad aggiungere delle sonorizzazioni sul film
già girato, ma rigira delle parti che vengono completamente ripensate non più secondo le
modalità di espressione del muto ma di quelle tecniche e visive del sonoro. Hitchcock ama
molto il cinema di avanguardia e imita le sue sperimentazioni nei suoi lavori. La ragazza che
sta entrando ha ucciso un uomo che la voleva violentare con un coltello identico a quello che
usano per tagliare il pane e spalmare il burro per la colazione, si è molto spaventata per
questo omicidio involontario ed è fuggita lasciando il cadavere nell’atelier dell’uomo, la
mattina seguente è molto agitata e non sa che c’è qualcuno che sa di quello che è
successo. Nella versione muta si gioca sull’umorismo nero richiamando alla mente della
protagonista l’omicidio della sera precedente giocando sul coltello della colazione: una vicina
inizia a parlare di delitti e di come il coltello sia un’arma pessima per uccidere qualcuno; la
protagonista sta ascoltando e il padre chiede alla figlia di tagliare il pane. Il suo sguardo fuori
campo viene seguito da una panoramica sul coltello, poi vediamo l’ombra della mano
(ripresa del cinema espressionista) e torniamo su un’inquadratura strana e un raccordo sullo
sguardo strano perché siamo di lato, c’è applicazione particolare della grammatica classica.
Nella versione sonora fa la stessa sequenza sostituendo la rimembranza espressionista
dell’ombra che va ad esprimere la tensione del personaggio con l’equivalente sonoro, una
soggettiva sonora, per cui originariamente sentiamo tutto ciò che la vicina petulante dice,
quando ci concentriamo sulla inquadratura frontale della protagonista sentiamo quello che
sente lei, ovvero la ripetizione ossessiva della parola “coltello”. Nel contesto industriale di un
cinema narrativo senza alcuna ambizione di avanguardia Hitchcock riesce ad inserire delle
piccole sperimentazioni.
E’ la stessa cosa che Fritz Lang in “M - Il mostro di Düsseldorf”, il suo primo film sonoro che
riguarda un pedofilo che uccide le bambine: troviamo un acuto utilizzo del sonoro, pur con
tutte le limitazioni tecniche del momento. Per i primi minuti del film non c’è musica
extradiegetica, Lang trova un modo intelligente per sfruttare questo vuoto: gioca sia sul
visivo sia sul sonoro per compensare questa mancanza (all’inizio veniamo a sapere
dell’assassino attraverso la filastrocca cantata da una bambina, l’assassino viene mostrato
come ombra…). Lang gioca sull’assenza di rumori riempiendo il silenzio causato
dall’assenza della bambina con i rumori domestici. Vengono introdotti due elementi simbolici
visivi che ricompaiono alla fine quando è morta: la palla con cui gioca e il palloncino che le
compra l’assassino. Compare un motivetto fischiettato dall’assassino, che spesso tornerà in
scena anticipando la sua entrata in scena. Il culmine dello sfruttamento sia del sonoro, che
del visivo, che del silenzio: la mamma che fissa le scale vuote e chiama la figlia, la sua voce
rimbomba in una serie di ambienti che sono vuoti.
In Europa sono state la cinematografia tedesca e quella sovietica a svolgere un ruolo
importante nella transizione al cinema sonoro: nel primo periodo anche il cinema tedesco,
come quello americano, punta sulla messa in scena di numeri musicali e cantati, che però
attingono alle atmosfere cupe e morbose che hanno caratterizzato la produzione
espressionista (è il caso di “L’angelo azzurro”). Dal punto di vista espressivo la produzione
europea concentra meno i suoi sforzi sull’esibizione del sincronismo, cercando da subito
modi alternativi per evitare che il cinema sonoro si riduca a teatro filmato. Questa esigenza
viene teorizzata in Unione Sovietica da “Il manifesto dell’asincronismo” di Ejzenstejn e
Pudovkin: affermano che la musica, il suono e le parole devono esprimere qualcosa di
diverso dalle immagini, in modo che dal sovrapporsi dei diversi stimoli si compia nella mente
dello spettatore una sintesi che porti all’elaborazione di nuovi concetti (vediamo qualcosa ma
sentiamo qualcosa che non c’entra nulla, è un esempio di sperimentazioni di questi anni).
Sperimentazioni che si vedono nel “Disertore” di Pudovkin.

LA MODERNITÀ

Investe il periodo che va dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti. Quattro dei fenomeni
della modernità hanno radici diverse: il primo è legato a una persona singola, quella di
Welles con “Citizen Kane” nel 1941; il neorealismo italiano viene collocato nella seconda
metà degli anni ‘40, anche se una serie di opere che lo anticipano risalgono al ‘40/’41. La
nouvelle vague arriva alla fine degli anni ‘50, anch’essa preparata da una serie di
anticipazioni della fine anni ‘40. Infine intorno alla seconda metà degli anni ‘60 c’è la Nuova
Hollywood, anch’essa ha radici che risalgono a molto prima. La modernità cinematografica è
un fenomeno molto diluito nel tempo e geograficamente sparpagliato il cui momento di
passaggio è durante la Seconda Guerra Mondiale e nell’immediato dopoguerra. Si parla di
cinema moderno perché queste varie realtà si collocano tutte con uno sguardo critico nei
confronti del cinema classico, sono tutti tentativi di ammodernare il linguaggio del cinema
con la consapevolezza che il cinema classico non è l’unica possibilità espressiva e per
questo non deve essere vincolante.

Citizen Kane - Welles (1941)


Aveva lavorato in radio e a teatro, si era fatto un nome molto stimato e apprezzato. Si
diverte molto a provocare (“la guerra dei mondi” alla radio e una rappresentazione ad Haiti di
Shakespeare a teatro), e quindi si approccia al cinema per fare qualcosa di analogo; ottiene
un contratto straordinario con una delle piccole e nuove case di produzione di Hollywood, il
RKO, che gli concede una libertà d’intervento inedita per i registi che operano a Hollywood,
controlla anche il montaggio finale. Fa un film eccezionale che ha segnato la storia del
cinema, propone novità a livello tecnico e linguistico che avranno moltissimo seguito. Sono
novità talmente forti che Bazin dedica a Welles un libro. Il film racconta la vicenda del
protagonista omonimo, Kane, uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti perché ha ereditato
una miniera d’oro, strappato ai genitori da piccolo viene cresciuto da un tutore, cresce da
viziato e da adulto colleziona ogni genere di oggetti e decide di comprare un giornale
scandalistico su cui investe molti soldi (“Quarto potere” in italiano, riguarda la stampa) e tutto
ruota intorno alla sua esperienza di direttore di questo giornale scandalistico. Dietro a Kane
c’è una figura reale presa di mira da Welles. La prima novità è a livello strutturale: il
protagonista muore all’inizio, nella prima scena, tutto il film è raccontato a ritroso,
attraverso una serie di flashback, ciascuno dei quali affidato a un personaggio differente,
quindi veicola una prospettiva diversa sulle vicende di Kane. Ai flashback è associato un
punto di vista soggettivo, potenzialmente ingannevole, non mancano alcune
contraddizioni tra le varie testimonianze. Inoltre Kane nella prima scena pronuncia una
parola, “rosebud” e nessuno sa cosa vuol dire o chi voglia indicare, un giornalista attraverso
queste interviste vuole ricostruire la sua storia. L’ambiguità viene usata per creare il
protagonista, un personaggio molto complesso costruito con meticolosa attenzione, e di
questo personaggio ci vengono presentati aspetti spesso non così semplici da interpretare in
termini morali, che non si risolvono nell’arco del racconto, rimaniamo con una serie di
impressioni su Kane che non sappiamo ben valutare alla fine, è un personaggio ambiguo,
ambivalente. L’ambiguità e la complessità sono due dei caratteri principali del cinema
moderno, tant’è che il giornalista arriva alla fine del film senza sapere cosa vuol dire la
parola “rosebud”, noi lo sappiamo perché ce lo dice il narratore. La prima inquadratura è già
provocatoria verso lo spettatore: un cartello con su scritto “non oltrepassare”, che è proprio
ciò che la macchina da presa fa, all’insegna della trasgressione. Attraversiamo poi il grande
parco che separa il cancello dal castello dove abita Kane, e in particolare la finestra della
sua stanza, con una serie di dissolvenze incrociate in cui il paesaggio continua a cambiare,
nonostante la geografia rimanga sempre uguale (castello e finestra): ci sono degli elementi
contraddittori fra di loro (palme, orso, gondole veneziane…) che creano un effetto
spiazzante, la costruzione dello spazio è assurda, non svolge la funzione di establishing
shot. Arriviamo alla finestra quando la luce si spegne. La neve dentro la palla di cristallo si
trova anche al di fuori della palla e viene meno alla morte del personaggio: capiamo che si
tratta di una sua proiezione mentale. Non c’è nessuno nella stanza nel momento in cui
pronuncia la parola “rosebud”, tutto il film si basa su una cosa assurda. L’infermiera che
entra viene mostrata in maniera deformata attraverso uno dei frammenti della palla di neve.
La breve sequenza iniziale è molto complessa e densa di informazioni, è anomala al
cinema classico, queste cose le potremmo spiegare soltanto alla fine del film, non abbiamo
all’inizio gli elementi che ci servirebbero per capirle. E’ un cinema pensato in maniera
opposta a quello classico, non si vuole accompagnare lo spettatore per mano, le
informazioni vengono accumulate con inquadrature spesso sorprendenti. La seconda
sequenza del film è un cinegiornale che racconta la vita di Kane così com’è conosciuta da
tutti; è così che parte l’inchiesta del giornalista, dall’insoddisfazione da questo cinegiornale
che racconta ciò che sanno tutti.
→ La differenza tra sequenza e inquadratura: l’inquadratura è un concetto specificamente
cinematografico, la sequenza no; è un concetto che troviamo in qualsiasi forma di racconto, in
qualsiasi arte narrativa, è una parte di racconto che ha una sua coerenza interna, un inizio e una fine, è
una suddivisione in segmenti narrativamente autonome. L’inquadratura invece è l’unità minima in
ambito cinematografico, è un pezzo di pellicola impressionato tra due tagli di montaggio, fra due
stacchi di montaggio per chi vede il film. Può esserci un caso, dato proprio da Welles, in cui una
sequenza consiste in un’unica inquadratura (piano sequenza). Metz classifica le diverse sequenze
del cinema. ←
Il primo flashback: non incontriamo un personaggio che racconta un pezzo di passato di
Welles ma abbiamo i suoi diari, perché è morto anche lui. Il giornalista legge le pagine che
riguardano il momento cruciale della vita di Kane, il momento in cui la sua infanzia finisce. E’
una costruzione che ha due caratteristiche fondamentali: la profondità di campo, quando
un’inquadratura è costruita su piani differenti, poco usata dopo gli anni ‘10, non era
propriamente una novità, quello che non si era mai vista prima era l’associazione fra
profondità di campo e profondità di fuoco: tutti i piani sono a fuoco. Prima la macchina
da presa vedeva fino a dove vedeva l’occhio, mettendo a fuoco un solo campo. Questo è il
primo film in cui abbiamo sia profondità di campo che quella di fuoco: si ottiene
sovrapponendo più inquadrature attraverso un macchinario allora innovativo (stampatrice
ottica) che permetteva di sovrapporre porzioni di riprese diverse. A partire dal film
successivo questa cosa verrà risolta da delle lenti che sono in grado di mettere a fuoco i vari
campi contemporaneamente. L’altra caratteristica: rinuncia evidente al montaggio, c’è un
lungo momento di dialogo in cui non c’è nessun intervento di montaggio ma una lunghissima
inquadratura che parte dalla finestra con il bambino che gioca, si sposta sul carrello e si
sposta nuovamente, intanto il bambino fuori dalla finestra continua a giocare con la neve; il
risultato è che lo spettatore è messo di fronte a un tipo di inquadratura complesso da
leggere, ci vuole uno spettatore più attento del normale che deve cogliere tutte le
informazioni mentre segue il dialogo e deve collegarle (è importante cogliere la tensione che
c’è fra la madre e il padre, la madre vuole cedere il figlio al tutore mentre il padre è contrario,
poi scopriremo che la madre fa questo sforzo per sottrarre il figlio al padre che è violento).
Questo tipo di costruzione viene chiamata da Bazin piano sequenza: per sottolineare la
novità straordinaria dal punto di vista estetico e concettuale conia il piano sequenza, che
Bazin intende in maniera diversa da Metz, ovvero una lunga sequenza che rifiuta il
montaggio ma in cui c’è comunque qualche stacco (oggi la chiameremo long take). Siamo
di fronte per Bazin a una costruzione perfetta per assecondare la natura del cinema =
l’essere legato alla realtà, restituire un’impronta della realtà. Bazin vede in questo film
l’esempio massimo del realismo, non inteso come una semplice ripresa della realtà ma
come un cinema che riproduce esattamente la nostra esperienza della realtà, basata,
secondo Bazin, su due elementi fondamentali: la complessità (noi ci muoviamo nel mondo
senza un narratore esterno che ci aiuti a comprenderlo) e la continuità di tempo e di
spazio; il piano sequenza così com’è inteso da Bazin va in questa direzione proprio perché
rinuncia al montaggio, a cui preferisce una ripresa in continuità. Il fatto che non ci siano
ellissi temporali fa sì che l’esperienza complessiva della visione di questa sequenza nella
sua complessità e continuità ci avvicini alla nostra esperienza e che Bazin possa parlare di
découpage nuovo. Nella sequenza in cui la seconda moglie di Kane tenta il suicidio abbiamo
la profondità di spazio e di fuoco, sempre con un’inquadratura fissa e praticamente senza
montaggio; Welles dispone i tre elementi di interesse su tre piani differenti: in primo piano la
boccetta di veleno e il bicchiere vuoto, in secondo piano la donna distesa a letto che rantola,
sullo sfondo la porta chiusa che Kane abbatte per soccorrere la donna. In questo modo
Welles evita di separare i tre elementi essenziali dell’azione come avrebbe fatto il
découpage classico ricorrendo al montaggio analitico (isolare in un’inquadratura la boccetta
di veleno per poi alternare la moglie sul letto e Kane fuori dalla porta che cerca di entrare).
Con questo film siamo di fronte a qualcosa di completamente nuovo in polemica con il
cinema classico o comunque in negazione di esso. E’ lunedì e piove.

Il neorealismo

E’ una creazione critica, non c’è manifesto né convergenza dal punto di vista estetico, ogni
autore porta avanti la sua idea di neorealismo. Nell’insieme di queste singole esperienze
separate c’è un’esperienza di rottura rispetto cinema al corrente, che nel contesto italiano è
il cinema classico e il cinema di regime che si faceva durante il Fascismo (commedia di
ambientazione alto-borghese), un tipo di cinema che si rifà molto al cinema classico. Già nei
primi anni ‘40 si inizia a riflettere su un modello alternativo al cinema classico/fascista
volutamente slegato dalla realtà, un po’ per censura, un po’ perché i generi in cui il cinema
convergeva andavano in un’altra direzione (recupero della memoria del passato e
ambientazioni che non riflettono l’esperienza dello spettatore medio). Questa riflessione
accomuna sia la critica di sinistra che quella fascista, anche se poi l’esperienza che porta al
neorealismo non è quella legata al Fascismo ma alla sinistra, al partito comunista. Si inizia a
scrivere di questa esperienza in una rivista chiamata “Cinema” gestita da uno dei figli di
Mussolini, era di fatto una sorta di raggruppamento di antifascisti (comunisti, partigiani).
Luchino Visconti era una delle figure più emergenti all’interno di questo gruppo: era
ricchissimo e di una generazione un po’ più vecchia. Sono questi giovani (fra cui registi
importanti) che con Visconti iniziano a cercare un soggetto che possa dare vita a questa loro
visione. Visconti era stato aiuto regista di Jean Renoir, aveva imparato il mestiere, inoltre era
ricco quindi poteva mettere i soldi in questo progetto. La ricerca del soggetto di questo film è
molto complessa, e un progetto in particolare viene presentato in censura (per essere
approvato c’era una doppia censura: una sul soggetto e una sul prodotto finale): un soggetto
tratto da “L’amante di Gramigna” di Verga ma la censura lo affossa; il soggetto che passa è
un romanzo di Cain, “Il postino suona sempre due volte”, da cui deriva “Ossessione”; il film
esce e viene distribuito nel ‘43, è il primo esempio di neorealismo o comunque quello che
anticipa l’esperienza realista che caratterizza l’immediato dopoguerra. C’è ancora un
dibattito su cosa sia il cinema neorealista, ci sono due scuole di pensiero: una ritiene il
neorealismo un’esperienza breve (nasce e si esaurisce nella seconda metà degli anni ‘40)
ma ampia dal punto di vista della produzione, tutto ciò che viene prodotto in quegli anni in
Italia è neorealista; un’altra dice che i film che appartengono al neorealismo sono pochi, in
compenso il neorealismo è considerato un movimento che arriva fino ai primi anni ‘60,
esteso nel tempo (anche “Rocco e i suoi Fratelli” e “La Ricotta” di Pasolini, che sarebbe il
film conclusivo del neorealismo). Vi sono fratture interne al neorealismo, non essendo un
movimento che parte da un manifesto chiaro e preciso, con i suoi principali rappresentanti
(Luchino Visconti, Rossellini e De Sica) ci troviamo di fronte a tre tipi di cinema e
neorealismo molto diversi fra loro, che hanno tuttavia qualche elemento in comune;
Rossellini improvvisa molto sul set mentre Luchino Visconti programma e studia tutto a
tavolino, studia attentamente le inquadrature, la composizione, l’effetto estetico che vuole
ottenere. Complessivamente per neorealismo si intende un tipo di realismo
ideologicamente connotato, anche perché nasce in polemica con il cinema di regime e
con il regime stesso. Il neorealismo viene per questo identificato in una cultura di sinistra, in
particolare comunista, e legato alla retorica esistenziale antifascista. A questa si oppone
un’esperienza di neorealismo cattolico, di centro-destra, con Rossellini. Ci sono altri
esperimenti per portare il realismo su un terreno diverso. Il neorealismo si esaurisce in
quanto, nascendo in polemica del regime, è legato alla realtà storica dell’Italia del
dopoguerra (racconta storie di vite vissute dell’Italia popolare, con la pretesa di raccontare
tutta la verità); ma quando la gente andava al cinema preferiva il cinema di regime, il cinema
neorealista non ha mai avuto successo dal punto di vista commerciale (“La terra trema” di
Luchino Visconti - versione cinematografica dei Malavoglia - è finanziato dai fondi del partito
comunista, quando i soldi finiscono i soldi rimanenti li mette il Vaticano che cerca di
appropriarsi del cinema neorealista; questo doppio finanziamento contraddittorio dimostra
questa questione). L’altro fattore che determina la fine del neorealismo: si cerca di cambiarlo
sia perché i democristiani tentano di affossarlo, è un tipo di cinema a loro sgradito, quindi
finanziano quello che viene chiamato il neorealismo rosa, che punta su storie più
melodrammatiche e riconoscibili per lo spettatore popolare in cui l’erotismo aveva un ruolo
prepotente; è una versione commercialmente forte ma politicamente debole che ha più
successo (è una delle cause che porta dei critici a restringere temporalmente il fenomeno
neorealista).
“Ossessione” - Luchino Visconti (1943): siamo durante la guerra, è il primo esempio
concreto che si riesce a realizzare di quel realismo di cui si parlava nella redazione di
“Cinema”, è un buon esempio del carattere dirompente che il neorealismo voleva avere
verso il cinema di regime: è girato in esterni, ripreso dal vero, non girato in uno studio
come gli altri film, ed è un film studiato meticolosamente in ogni dettaglio. E’ la storia di un
adulterio: un vagabondo, Gino, arriva in una piccola trattoria e si innamora di Giovanna,
moglie del proprietario di questo posto, immediatamente ricambiato, e arrivano a progettare
insieme di uccidere il marito. Già i titoli di testa sono messi su una ripresa dal vero, dal
finestrino del camion, è un modo per annunciare la novità estetica più evidente = le riprese
sono fatte nei luoghi reali in cui è ambientata la vicenda. Punta su elementi che la cultura
fascista non permetteva di trattare: l’adulterio (non è opportuno per chi non è al fronte dare
un’immagine di questo tipo dell’Italia), l’omicidio, un altro vagabondo (portatore dell’ideologia
comunista - si chiama lo “Spagnolo”, soprannome che rimanda alla guerra civile spagnola e
alla sua partecipazione alla stessa contro Franco), degli elementi di carattere
omosessuale… non c’è però nulla di improvvisato, c’è una retorica molto studiata. In una
prima inquadratura il proprietario della piccola osteria/punto di rifornimento è introdotto come
voce fuoricampo (personaggio presente in scena ma non inquadrato; mentre la voce over è
la voce del narratore esterno/extradiegetico e non corrisponde alla voce di un personaggio).
Il secondo protagonista del triangolo amoroso viene inizialmente mostrato facendo
attenzione a non mostrarne il volto, in modo da ritardare la rivelazione dello stesso (il
cappello gli copre il viso, lo seguiamo mentre di spalle va verso la locanda, ne vediamo solo
i piedi); Giovanna, terzo protagonista del film, viene anche lei introdotta come voce
fuoricampo, e tramite un’inquadratura studiata viene presentata come sola voce e gambe
perché coperta da Gino (è una donna attraente, inoltre l’interprete di Giovanna era
considerata una delle dive più belle degli anni ‘30, era una dei vertici dell’elemento erotico
connesso al divismo); Visconti fa qualcosa di inedito presentandoci Giovanna
completamente al naturale, senza trucco, con i capelli scompigliati e in disordine,
rappresentata esattamente come doveva essere nel film: una donna bella ma sfiorita,
costretta dal marito a fare la casalinga. Per chi andava al cinema a vedere il film attirato dal
nome di Clara Calamai si trovava qualcosa che non si aspettava. Giovanna alza gli occhi su
Gino distrattamente, li abbassa e rialza subito, capiamo che è rimasta fulminata. Finalmente
ci viene rivelato il volto di Gino, anche lui esposto in tutta la sua bellezza (all’epoca amante
di Visconti), inquadrato allo stesso modo, con lo stesso taglio di inquadratura e lo stesso tipo
di illuminazione, aggiungendo un carrello che trasforma la soggettiva di Giovanna in qualche
cosa di diverso, come se simboleggiasse il trasporto di Giovanna verso Gino, per farci capire
non solo cosa vede ma anche cosa sente per Gino. Anche Gino è rappresentato senza
alcun tipo di ripulizione, sempre per dare impressione di realismo autentico. Giovanna,
mentre parla con il marito, prende i soldi che ha lasciato Gino e li nasconde per poi
lamentarsi con il marito che Gino non lo ha pagato: il marito insegue Gino e lo costringe a
lavorare, è qualcosa di escogitato da Giovanna che viene compreso subito da Gino. Nulla è
lasciato al caso, in tutto quello che fa è pensato in polemica al cinema fascista: c’è una
grande libertà nella messa in scena. E’ un film che si sviluppa in opposizione al cinema di
regime: la famiglia è rappresentata come una vera e propria prigione, lo scenario è torbido e
lascia intravedere la possibilità di un delitto, che diventa fulcro narrativo attorno al quale
ruotano i destini tragici dei personaggi; la storia tra Gino e Giovanna rispecchia i tempi
torbidi e contraddittori che l’Italia sta vivendo: Gino uccide il marito di Giovanna su richiesta
della donna, che a sua volta muore nel tentativo dei due amanti di sfuggire dalla polizia.

La nouvelle vague

Guarda molto all’esperienza del neorealismo, con il quale ha in comune il fatto di essere
preparata a lungo da un’attività critica e teorica (dura 10 anni circa). Anche nel caso della
nouvelle vague ci sono posizioni molto diverse, oggi va per la maggiore la lettura che ne ha
dato Michel Marie ne “La nouvelle vague”: la considera a tutti gli effetti una scuola; per poter
essere definita tale presuppone:
1) un corpo dottrinale, come testimoniato da un intervento di Astruc chiamato “La nascita
di una nuova avanguardia” nel ‘48, dice che è giunto il tempo di far diventare il cinema
un'arte, per far sì che questo accada deve applicare due principi: caméra-stylo, il regista
deve usare la macchina da presa come se fosse una penna proprio perché ad oggi è
possibile, per fare quello che vuole senza vincoli né condizionamenti, il cinema è
abbastanza maturo, soprattutto tecnologicamente, per consentire la massima libertà
espressiva al regista, identificato come punto di riferimento principale come autore del film. Il
secondo principio riguarda la precondizione per arrivare a questo, che il regista scriva anche
la sceneggiatura per raggiungere la massima libertà espressiva. Si tratta della “politique
des auteurs”, la politica degli autori così come viene definita da Truffaut in un articolo; egli
è esponente di un cinema aggressivo che lancia degli assiomi molto provocatori e spesso
quasi paradossali: secondo lui la “politique des auteurs” consiste:
- il regista è l’unico autore del film
- non tutti i registi sono autori, c’è una divisione netta fra autori e metteurs en scène,
che si limitano a illustrare la sceneggiatura, mentre l’autore ha un controllo creativo
su quello che fa, e c’è una continuità di aspetti tematici e formali che attraversa il suo
cinema.
- non esistono opere ma esistono solo autori = quando si deve giudicare un film più
del film stesso conta il nome che lo ha firmato, per cui l’opera peggiore di un autore è
comunque migliore dell’opera migliore di un metteur en scène.Tutto questo è in
contrasto con il cinema francese della cosiddetta “tradizione di qualità”, una serie di
film ambiziosi che vede il primato dello sceneggiatore, riprese realizzate all’interno di
studi attrezzati e il ricorso ad attori professionisti, esperti e popolari.
2) un supporto editoriale: la rivista “Cahiers du cinéma” ha portato avanti una versione
autoralista del cinema; è stata fondata da Bazin, che ospita questa nuova generazione di
critici/nuovi registi e gli consente di fare ciò che vogliono benché non condividesse le loro
convinzioni, era autorialista ma contrario alla politique des auteurs (ad esempio non
condivide il terzo punto che trova assurdo).
3) l’esistenza di un vero e proprio manifesto della nouvelle vague, scritto da Truffaut, è
l’articolo più aggressivo dell’autore, che attacca in particolare gli sceneggiatori accusandoli
di non essere uomini di cinema ma scrittori prestati al cinema, che non sono quindi
consapevoli delle potenzialità del cinema; quando scrivono le loro sceneggiature lo fanno
pensando alla letteratura, non al cinema (realizzano scene che per loro sono equivalenti ma
in realtà non lo sono).
4) un programma estetico condiviso, che parla di registi-sceneggiatori, consente di fare
film a basso budget in modo da non avere il produttore che voglia mettere voce in quello che
si fa, e di autoproduzione.
5) un insieme di opere rispondenti: i primi film di Chabrol che sono anticipazioni della
nouvelle, e tre film propri dell’esperienza (“I quattrocento colpi”, “Hiroshima” e “ A’ bout de
souffle”)
6) un leader, Bazin (che non c'entra nulla con la nouvelle, muore prima).
7) dei nemici; oltre ai registi che andavano per la maggiore in Francia c’è una rivista,
“Positif”, antiautorialista, porta avanti una critica contro “Cahiers du cinéma” anche dal punto
di vista ideologico, è una rivista di sinistra mentre Cahiers tende verso destra.
Il concetto di autore (compare già negli anni ‘20 con l’impressionismo francese, per questo
chiamato “première vague”): negli anni ‘50 la convinzione che l’autore non vada
identificato soltanto nell’artista canonico, ma in tutti i registi che lavorano all’interno del
più grande sistema industriale finora concepito, ovvero Hollywood, crea molto scalpore e
polemica. Le generazioni precedenti deridono questo atteggiamento (i critici della rivista
“Positif” lo considerano assurdo), mentre le generazioni più giovani si trovano a dover
prendere una posizione (Andrews Sarris negli Stati Uniti e Morando Morandini in Italia si
schierano a favore); secondo questi registi una serie di registi potevano essere in grado di
manifestare caratteristiche proprie, personali, costanti, dal punto di vista del linguaggio e dei
contenuti, che potevano essere ritrovate di film in film, e potevano quindi essere considerati
autori. La promozione di Hitchcock ad esempio comincia negli anni ‘50 ma la politique des
auteurs inizia ad essere digerita negli anni ‘60, ci vogliono dieci anni perché sia accettata.
“A’ bout de souffle” - Godard (1960): è un film che rompe la grammatica del cinema classico
volutamente, sistematicamente, dedicato a una piccola casa di produzione americana, la
Monogram Pictures, c’è una polemica nei confronti dell’eredità del cinema classico da tutti
considerata il modo giusto di fare cinema. Il film è caratterizzato da uno spiccato realismo,
siamo in esterni reali, il mondo è registrato così come è. Il protagonista è costruito sul
modello del gangster americano incarnato da Humphrey Bogart, di cui imita alcuni gesti
specifici; il suo abbigliamento e la sua gestualità sono eccessivamente espliciti, troppo
sottolineati, sopra le righe. Michel, il protagonista, piccolo criminale, ruba una macchina a
Marsiglia, e da Marsiglia deve raggiungere Parigi. La prima sequenza è spaesante dal punto
di vista della costruzione spaziale perché è basata su un’unica idea: negare il raccordo
sullo sguardo. La seconda sequenza, che mostra la fuga di Michel verso Parigi, è ripresa
con un montaggio molto disordinato e caotico, frammentato, contravviene rispetto a tutto
quello che il cinema classico avrebbe fatto; la macchina da presa viene collocata ora sul
sedile di fianco ora su quello posteriore dell’auto, dalla parte opposta del guidatore. La
ripresa è effettuata con una macchina a mano e le inquadrature sono realizzate con la luce
naturale; il risultato è un’immagine intenzionalmente sporca: le frammentazioni
rappresentano una ripresa di un espediente di montaggio che era stato messo a punto dai
russi negli anni ‘20, il jump cut, un taglio di montaggio che crea un salto, inserito fra due
inquadrature separa due inquadrature che mostrano la stessa cosa; è un taglio di montaggio
che prettamente non ha nessuna ragione di essere. C’è Michel che sta guidando, abbiamo
una soggettiva del punto di vista di Michel e una serie di tagli che ci riportano sul suo punto
di vista: il film è pieno di tempi morti. I salti vengono resi più divertenti e assurdi da Godard
perché creano una discontinuità temporale accompagnata da una continuità sonora che
risulta assurda. Gerard ci costringe ad assistere a un monologo del protagonista per
sottolineare alcuni caratteri del personaggio (modesto orizzonte intellettuale e culturale,
misoginia, arroganza, vivacità ed energia). Michel guarda poi in macchina e si rivolge allo
spettatore tramite un’interpellazione in modo provocatorio (in completa polemica con il
cinema classico). L’incontro con le due autostoppiste è totalmente insignificante ma è
ripreso in dettaglio, mentre l’unico evento importante - l’omicidio del poliziotto, che avrà delle
conseguenze nella storia - è raccontato in modo frammentario, quasi incomprensibile,
brevissimo e confuso; non vediamo il momento esatto dello sparo, sembra lo sparo
immaginario verso il sole che aveva fatto prima, vediamo solo il poliziotto che cade nell’erba
a fianco della strada e Michel che scappa. E’ un esempio di frammentazione del
montaggio, ma molto spesso Godard ricorre al piano sequenza: sequenze lunghe girate in
una sola inquadratura; anch’esso è concepito in polemica con il cinema classico.
“Mépris” - Godard (1964): è il film che va a concludere la nouvelle vague, perché
contraddice alcune delle premesse della stessa; è un film ad alto budget con attori molto
noti, è impossibile per Godard di assicurarsi il controllo del risultato finale. Il produttore era
italiano - Ponti -, che, insoddisfatto dal risultato di Godard, vuole mettere mano su tutto il
film e ne distribuisce una versione italiana totalmente diversa rispetto alle iniziali intenzioni di
Godard. Già i titoli di testa pensati da Godard sono molto originali, i titoli di testa sono letti da
lui stesso mentre vediamo una piccola troupe cinematografica su un carrello si avvicina
lentamente allo spettatore inquadrandolo, inserisce poi una citazione di Bazin; nella copia
italiana non c’è nulla di tutto questo, vediamo il nome di Ponti che rivendica l’autorialità del
film. Godard richiama Fritz Lang, considerato autore per tutti i film che aveva fatto, anche a
Hollywood, e gli affida il ruolo dell’autore circondandolo di tutte le figure che entrano in
contraddizione con l’autore (produttore, sceneggiatore, una grande attrice, figure che nel film
si scontrano); il film finisce con l’attrice che scappa con il produttore, ma hanno un incidente
e muoiono entrambi, ma il film continua con le sue riprese = l’unica figura fondamentale per
fare un film è l’autore. Ovviamente il montaggio viene cambiato da Ponti, che conclude il film
con la morte del produttore e esporta completamente la seconda sequenza (dai toni erotici
troppo espliciti) saltando direttamente alla terza, riscrivendo completamente la
sceneggiatura: nella versione originale ognuno parla la propria lingua, c’è una ragazza che
fa da interprete (dato che è ambientato a cinecittà); nella versione di Ponti tutti parlano in
italiano, la ragazza si limita a commentare ciò che succede, riscrive i dialoghi e cambia
persino le musiche.
La nouvelle vague è stata un movimento fondamentale perché ha portato una serie
imitazioni nel mondo, per cui nella storia del cinema si parla dell’emergere dei “giovani
cinema”: cinematografie fatti da registi giovani che si ispirano ai modelli della nouvelle
vague, sia nei suoi principi teorici che nelle sue applicazioni pratiche, in contesti spesso
anche molto difficili, nell’est Europa, in Brasile… Hollywood deve fare i conti con tutto questo
in un momento particolare, tra la fine della guerra e gli anni della modernità, cerca un modo
per conciliare gli opposti, cinema classico e cinema moderno.

La nuova Hollywood
A Hollywood mentre la modernità si sviluppa altrove: c’è la sentenza Paramount che ha
conseguenze significative a lungo termine che riguardano il codice Hays; viene a meno la
possibilità di imporre il codice Hays. Il processo di messa al bando del codice Hays dura
circa vent’anni (1966), durante i quali esso viene prima modificato poi progressivamente
smantellato e sostituito dal sistema di classificazione che ancora oggi domina (ci si limita a
indicare se un film è adatto a essere visto da tutti oppure sono imposti limiti di età). Già alla
fine degli anni ‘40 ci sono una serie di tentativi da parte di alcuni registi che provano a fare
delle cose che prima non si sarebbero potute fare, piccole trasgressioni che diventano poi
più grandi per vedere come reagiscono industria e pubblico: entrambi reagiscono bene, il
pubblico era stanco di vedere da vent’anni sempre le stesse cose e di essere trattato come
una sorta di infante, le trasgressioni hanno successo anche sul piano commerciale e
vengono piano piano assunte. Questo non sarebbe avvenuto se contemporaneamente non
ci fosse stato l’avvento della modernità (il Neorealismo è molto apprezzato in America) e una
situazione che mette in crisi l’industria hollywoodiana e predispone un cambiamento:
siamo nell’immediato dopoguerra, che negli Stati Uniti è un momento di ripresa economica a
si accompagna un significativo cambiamento della società che, soprattutto nei contesti
urbani, comporta la diffusione di prodotti come l’automobile: i cittadini hanno a disposizione
una serie di modi diversi per occupare il tempo libero (andare al cinema non è più qualcosa
di così inaccessibile; il fenomeno dei cinema drive-in si diffonde proprio a partire da questo).
Anche l’avvento della televisione è importante: è l’occasione di competizione più grossa alla
quale bisogna trovare una risposta. Per fare fronte a questi problemi l’industria
hollywoodiana inventa o comunque riprende una serie di novità soprattutto tecnologiche (ad
esempio lo schermo panoramico): il Cinerama è il primo formato panoramico che viene
messo in cantiere a livello industriale, alternativo al formato academy quadrato; era
sostanzialmente una ripresa della polivisione di Gance. Si punta molto sullo schermo
panoramico perché lo schermo televisivo all’epoca era piccolo, in bianco e nero, con
un’audio mediocre e un’immagine spesso poco chiara e definita, e siccome la televisione
inizia subito a trasmettere film per riempire i suoi palinsesti occorre che il cinema offra
un’attrazione che non sia comparabile a quella della televisione: si punta quindi sul colore -
in questi anni la maggior parte dei film inizia ad essere prodotta a colori -, sul miglioramento
del suono e sull’adattamento dello schermo, lo schermo panoramico che è diverso per
dimensioni e formato da quello che la televisione può offrire (lo schermo della televisione
tagliava i ⅔ dell’immagine originale oppure la rimpiccioliva). Questa divergenza viene creata
appositamente per la ricerca di attrazioni che fossero in grado di fare esattamente quello di
cui Gunning parlava sul concetto di attrazione (per attrarre il pubblico che adesso ha tanti tipi
di attrazione e far sì che il cinema sia la migliore di tutte). Per uscire dalla crisi causata dalla
sentenza Paramount la “vecchia Hollywood” impiegherà circa vent’anni, attraverso modifiche
e cambiamenti sia contenutistici che tecnologici. Altri esperimenti hanno meno fortuna, come
il lancio dei primi formati tridimensionali. Mentre Hollywood affronta questi problemi ne arriva
un altro, quello della modernità, che è una questione sia di forma che di contenuto, c’è per
Hollywood il rischio di rimanere indietro rispetto a altre esperienze prevalentemente europee
ma non solo, quindi impara da queste esperienze alternative, dal cinema d’autore che punta
molto sulla libertà espressiva concessa ad alcuni registi in particolare che è un modo di
concepire il cinema opposto rispetto a quello classico: il risultato viene chiamato Nuova
Hollywood, una sorta di revisione generale del cinema classico che inizia a imporsi verso la
metà degli anni ‘60. Tra il ‘45 e il ‘65 succede che la maggior parte delle case di produzione
produce sempre meno: si attenua la morsa del codice Hays lasciando più libertà ai piccoli
produttori indipendenti, mentre Hollywood osserva quello che essi fanno, fiuta le nuove
tendenze e acquista e distribuisce ciò che è più promettente; se la distribuzione va a buon
fine punta su quel talento emerso in modo indipendente e cerca di reintegrarlo nel suo
sistema: così nascono quei grandi registi che danno origine alla Nuova Hollywood (Francis
Ford Coppola, Martin Scorsese…) e a cui garantiscono una serie di libertà. La Nuova
Hollywood è quindi il risultato della fusione tra il cinema classico tradizionale e il cinema
d’autore moderno, espresso soprattutto tramite esperienze europee. Vi sono studiosi che
riferiscono il termine Nuova Hollywood alla produzione statunitense successiva al 1975,
anno a partire dal quale le major hollywoodiane hanno iniziato a investire nella realizzazione
dei blockbuster, spettacolari “film evento” ad alto budget pensati per generare grandi
profitti. Vi è poi chi propone un concetto più allargato di Nuova Hollywood, identificato con
tutta la produzione nordamericana successiva alla fine dell’era dello studio system; vi sono
due fasi: la prima è la Hollywood Renaissance, il decennio durante il quale una serie di
registi ha determinato la ripresa dell’industria cinematografica statunitense realizzando film
di rottura con il passato, la seconda inizia con l’uscita nelle sale di “Jaws” (1975, Steven
Spielberg) e “Star Wars” (1977, George Lucas) per arrivare fino ai giorni nostri; si tratta
dell’”era del blockbuster”, caratterizzata dalla tendenza a spendere alte somme di denaro
per promuovere con un’unica martellante campagna pubblicitaria un ristretto numero di film.
Sono film che puntano sul sensazionalismo per poter competere con la televisione, devono
proporre un tipo di attrazione che il piccolo schermo non sia in grado di offrire. Presentano
poi un “formato a picchi”, i momenti spettacolari sono più frequenti e punteggiano tutto il
racconto, frammentandolo. Si sceglie inoltre di realizzare prevalentemente film d’azione, in
cui viene spesso inserita anche una vicenda d’amore per attrarre il pubblico femminile. I
blockbuster vengono pensati per diventare dei franchise, marchi soggetti a diritto d’autore
da sfruttarsi anche in altri settori, al fine di ottenere ulteriori guadagni: attraverso il
merchandising, mettendo in commercio la colonna sonora o il DVD di un film, cedendo i
diritti di sfruttamento alle emittenti televisive. Talvolta si espande il racconto del film tramite
sequel o prequel, ma anche fumetti, videogiochi, serie televisive... Cambia il modo di
distribuire i film: mentre prima era in vigore il metodo del roadshowing (una pellicola viene
inizialmente proiettata in un numero limitato di sale più prestigiose e veniva poi distribuita
progressivamente nei cinema di categoria inferiore quando in queste sale diminuiva la
domanda per quel dato titolo), con l’era dei blockbuster entra in vigore il saturation
booking, per cui si distribuisce da subito una pellicola nel maggior numero possibile di sale
cinematografiche anticipandone l’uscita con un’intensa campagna promozionale.
L’Hollywood Renaissance può essere intesa come un fase transitoria, di preparazione all’era
dei blockbuster: il successo dei film appartenenti alla Renaissance ha permesso alle grandi
case di produzione di capire come fosse necessario estendere il proprio target di riferimento
includendo anche i giovani e rinnovare la propria offerta, puntando su rivisitazioni di generi
come l’horror, la fantascienza e il disaster movie. La rinascita di Hollywood viene
determinata da una serie di pellicole a basso budget uscite a partire dal ‘67: sono in
particolare Arthur Penn, Mike Nichols e Dennis Hopper che hanno diretto quelli che oggi
vengono considerati i tre film manifesto della Hollywood Renaissance (“Bonnie and Clyde”,
“The Graduate”, “Easy Rider”).
“Bonnie and Clyde” - Arthur Penn (1967): uno dei film che ha fondato la Nuova Hollywood; il
regista si prende una serie di libertà che prima non sarebbero state possibili. Il film si apre
con il particolare di due labbra rosse seguito da una serie di primi, primissimi piani e piani
americani della protagonista senza che venga mostrata un’iniziale inquadratura di
ambientazione, tradendo la regola del establishing shot. Nel finale del film ci troviamo di
fronte a una regia che non è classica, ci sono alcune cose disorientanti: non c’è nessun tipo
di intervento extradiegetico dal punto di vista musicale, ci sono solo poche voci e molti
rumori; il montaggio è molto rapido (sembra Gance nel secondo incidente del treno de “La
Rue”) e frammentato e prepara agli spari; tutto è affidato alla dimensione visiva e al suono
degli spari, che producono questa scena violentissima che il codice Hays non avrebbe mai
consentito; il tutto è seguito da una lunga coda muta con stacchi di montaggio non sempre
facili da spiegare. Non solo ci viene mostrato il loro assassinio in tutta la sua brutalità, ma si
insiste su di esso dilatandone la durata attraverso l’uso del ralenti. Siamo di fronte a un
modo assolutamente libero di esprimersi che si deve al gusto del regista e dalla sua volontà
di fare qualcosa di diverso da quello che il cinema aveva fatto, sulla base del cinema
classico e delle avanguardie. Per la prima volta si studia sistematicamente la storia del
cinema, la prima cosa che i nuovi registi pensano di fare è giocare con quel che conoscono
(prima c’erano cinefili che vivevano di cinema tramite una visione disordinata).
“Easy Rider” - Dennis Hopper (1969): in questa lunga sequenza siamo di fronte ad un
esempio di una messa in scena personale e soggettiva e assolutamente anomala e
trasgressiva; si diffonde anche negli Stati Uniti la concezione del regista-autore che induce
la nuova generazione di cineasti a discostarsi dalla “norma” e perseguire visioni personali.
Infrangendo i tabù da lungo tempo in vigore a Hollywood vengono rappresentate scene
esplicite di sesso e violenza, in una sorta di “poetica della violenza”. C’è in questo caso
anche una giustificazione diegetica per queste anomalie: i protagonisti assumono droghe,
quindi è un montaggio frammentato che alterna ripetutamente immagini che non hanno una
razionalità ma emergono dall’inconscio dei personaggi. Orgia che avviene in un cimitero,
cosa che il cinema classico non avrebbe mai rappresentato, siamo di fronte a una messa in
scena anomala che ricorda alcuni insegnamenti delle avanguardie (lunga ripresa fissa del
momento di assunzione delle droghe, montaggio con riprese in controluce, causali, senza
raccordo quando le droghe iniziano a fare effetto). Ci sono molte riprese sgranate fatte con
un formato minore (17mm stampato su 35mm ottenendo quindi sgranamento voluto e
ricercato). Si alternano flashback e soggettive che a volte non si capisce a quale
personaggio vadano riferite, sembra che sia la macchina da presa ad aver assunto droghe.
Molte inquadrature in grandangolo con una serie di deformazioni, si susseguono primi,
primissimi piani e dettagli spesso distorti o volutamente girati in controluce per rendere
indistinguibili i soggetti. E’ un montaggio che porta lo spettatore a perdersi in questa visione
che cerca di esprimere lo stato dei protagonisti. Va verso l’insegnamento del nuovo cinema
moderno, quello francese ad esempio.
Il fatto che questa generazione venga dai banchi dell’università e conosca bene la storia del
cinema fa sì che voglia spesso ragionare e mettere in discussione il linguaggio del cinema
(Burch tiene i suoi corsi in cui fa i ragionamenti che verranno messi in nero su bianco in
lucernario e infinito); si comincia a riflettere sul carattere ideologico del quadro
cinematografico, sul fatto che non esiste un linguaggio oggettivo (sono anche gli anni della
guerra del Vietnam, occasione di grande propaganda che usa per la prima volta uno
strumento che sembra diretto e immediato ma non lo è); le nuove generazioni riflettono sul
linguaggio per spingere il pubblico a ragionare su queste questioni e capire che il cinema è
sempre controllato da qualcuno per qualche ragione.
“Le due sorelle” - Brian de Palma (1972): è un rifacimento di “Psycho” di Hitchcock. Questo
signore è stato trascinato a casa da una fanciulla e le è andato a prendere una torta perché
è il suo compleanno. La fanciulla psicotica uccide l’uomo, c’è un momento particolarmente
importante che richiama l’attenzione dello spettatore attraverso lo split screen che divide lo
schermo in due mostrando contemporaneamente campo e controcampo: da una parte una
semisoggettiva di Philip, dall’altra l’esterno della finestra che non è esattamente il suo
controcampo perché siamo vicini, c’è poi lo zoom che ci porta esattamente al controcampo e
ci presenta un nuovo personaggio di cui vediamo la semisoggettiva che ci mostra cosa lei
vede: dice che c’è stato un omicidio. Quando arriva la polizia con cui lei si scontra perchè è
una giornalista aggressiva che ha contestato la polizia che quindi non la crede, lei aggiunge
sempre più elementi per farsi credere (dice di aver visto l’assassina e addirittura cosa è
successo la notte prima, cosa impossibile). Progressivamente la sua testimonianza che è
inizialmente oggettiva (perché fondata su ciò che viene mostrato dal narratore onnisciente).
De Palma qui ci dice che il cinema mente, che il linguaggio del cinema è pensato per
mentire, e qui lo spettatore è portato a interrogarsi non solo su quello che viene mostrato ma
su chi racconta come e perchè. De Palma dice che il cinema è menzogna 24 volte al
secondo. Mette in discussione il linguaggio in generale delle immagini visive: l’idea di usare
lo split screen gli è venuta dalla visione di un filmato che mostra l’assassinio di Kennedy,
dicendo che ciò che manca a quel filmato è il controcampo (l’assassino di Kennedy); quella
insoddisfazione ha determinato il suo uso del split screen per colmare la lacuna pur non
arrivando alla verità, perché il cinema manipola le immagini che ci mostra.

IL CINEMA MONOGRAFICO

Il concetto di intertestualità risale al testo di Julia Kristeva, studiosa che ha lavorato molto
sulla semiotica e sul portare avanti un tentativo di ripensamento in chiave più rigorosa e
scientifica della letteratura e tutti i sistemi di comunicazione in generale; nel ‘67 in un saggio
- ripreso nel ‘69 in “Semeiotiké” - Kristeva lancia il concetto di intertestualità. Riprende il
concetto di ideologismo di Bachtin, che si accompagna alla sua idea di polifonia, Bachtin
sostiene che ogni testo presenta una molteplicità di voci al suo interno che entrano in
dialogo fra di loro e con voci all’esterno del testo; questa intuizione viene ripresa da Kristeva.
La Kristeva rappresenta una linea di pensiero sull’intertestualità, poi ne è affiorata un’altra
completamente opposta. Per intertestualità la Kristeva intende, come affermato da Barthes
nel suo saggio “La morte dell’autore”: l’autore del testo è un’entità assolutamente priva di
significato, quello che conta nel testo è la struttura, che non è altro che una serie di enunciati
linguistici in collegamento fra di loro, che istituiscono dei rapporti fra di loro sia interni che
esterni al testo; la lingua è quindi qualche cosa che mette in comunicazione una serie di
testi. Il lavoro del critico e del lettore è di ricostruire questi rapporti (lettore inteso in termini
semiotici, come qualcosa di astratto, una funzione). Barthes scrive che tutti i testi sono un
intertesto, ogni testo ha un collegamento con altri testi; l’intertestualità a cui pensa Barthes e
prima Kristeva è una intertestualità non tanto come imitazione volontaria ma come
disseminazione, qualche cosa che il testo non può che assorbire, ne sia più o meno
consapevole chi l’ha scritto. Questo modo di concepire l’intertestualità permette di rimettere
in gioco in forma astratta l’aspetto del contesto, tutto ciò che sta intorno al testo e all’autore
che ha un’influenza che si manifesta soprattutto attraverso il linguaggio. L’altra linea invece
si può riassumere con una citazione di Riffaterre: “Se ci sono dei riferimenti esterni a
qualcosa al di fuori del testo, questo qualcosa di sicuro non è la realtà. Non c’è un
riferimento esterno che sia possibile se non a un altro testo”; esclude completamente il
contesto, si limita a mettere in rapporto dei testi che entrano in collegamento per un rapporto
volontario (si perde la dimensione inconscia). Questa linea trova in “Palimpsestes” di
Genette il suo punto di riferimento: si interessa a un testo che prende di mira volutamente
un altro testo, rientra quindi in gioco l’autore e un suo gesto volontario di mettere in rapporto
due testi. In questa proposta, che a sua volta ha la pretesa di essere rigorosa (cerca di
catalogare tutte le possibilità che si hanno nel rapporto tra i due testi), lo fa a spese della
dimensione contestuale che veniva valorizzata da Kristeva. Ci sono altre proposte, come
quella di Cesare Segre, che cerca di trovare una posizione intermedia tra i due estremi:
distingue tra intertestualità e interdiscorsività, la prima intesa come Genette, la seconda è il
recupero della dimensione sociale e contestuale della linea proposta da Kristeva; dice che in
un testo ci possono essere entrambe. Questa discussione intorno al concetto di
intertestualità ci porta ad indagare le tre coppie di film con una proposta simile a quella di
Genette, sono testi in rapporto tra loro non per dinamiche inconsapevoli e inconsce, ma ci
sono tre autori che realizzano tre film a partire da un film precedente, talmente consapevoli
di questo che di sicuro non lo nascondono (fare un film chiamato “Walter e i suoi cugini” nel
‘60 significa esibire l’intenzione di mettersi in rapporto con “Rocco e i suoi fratelli”; stessa
cosa si può dire di “Homicidal” rispetto a “Psycho”, anche se in chiave più seria - a differenza
di quella comico-satirica di Girolami - e per “I vizi morbosi di una giovane infermiera” in cui
c’è un rimando esplicito al film di Kubrick). Allo stesso tempo la dimensione del contesto è
fondamentale per capire questi tre esempi e indagare un’idea di storia del cinema che è
complessa. Lo sforzo era quello di superare le storie del cinema precedenti che fino agli anni
‘70 avevano un’impostazione critica, erano fondate su un’idea più o meno consapevole del
concetto di autore e non fanno altro che mettere in ordine una serie di film, registi e autori
con qualche riferimento all’industria per provare a costruire un canone, individuare gli autori
e i film più importanti e isolarli dagli altri, che interessano solo per ricostruire la storia degli
sviluppi industriali e costruzione dei generi. Dagli anni ‘70 in poi, soprattutto negli anni ‘80,
c’è stato un tentativo di rivoluzione nella storia del cinema che tenta di recuperare aspetti
che prima erano stati ignorati, per via della tendenza della semiologia e della psicoanalisi
che avevano messo il testo al centro di tutto al costo di eliminare tutto ciò che stava intorno
al testo; per reazione a questa moda semiotica altre correnti hanno cercato di riaprire il testo
e i suoi rapporti con il contesto, di rimettere i film in rapporto con una serie di altri aspetti e
dimensioni del cinema (dai rapporti con le istituzioni, il contesto storico, la politica,
l’ideologia, che nella prospettiva autorialista erano tutte questioni secondarie viste in
un’ottica negativa); tutto questo viene rimesso in campo perché ci restituisce un quadro più
raffinato e ricco di quella che è stata la storia del cinema. Ad oggi abbiamo due linee che si
oppongono nella storia del cinema: quella autorialista, particolarmente sviluppata in
ambito critico, e quella di coloro che cercano di recuperare la storia del cinema in quei
termini di prima; è una storia del cinema stratificata in cui entrano in comunicazione tante
realtà diverse: una è sicuramente l’autore, d’altro canto abbiamo tre testi di registi meno
significativi che fanno questi tre film con lo scopo preciso di comunicare con un film
precedente e il suo autore; c’è un contesto attorno che nelle prime due coppie di film è lo
stesso, nel terzo caso è completamente diverso. Questo è qualche cosa di implicito nel
tentativo di stabilire un rapporto intertestuale esplicito: quello che fa lo spettatore è sempre
una pratica intertestuale, la pratica critica si basa sempre su un confronto, su un repertorio
che sarà diverso per ciascuno. Qualsiasi rapporto tra un testo e l’altro che sia esplicito è
anche una forma di interpretazione, di attività critica (Girolami propone una sua versione
alternativa su alcuni questioni che Visconti aveva affrontato in “Rocco e i suoi fratelli”, c’è
quindi anche una riflessione critica). L’ipotesto è il testo di partenza, ipertesto è il testo che
lavora sull’ipotesto per Genette. Il rapporto intertestuale è sempre bidirezionale: il testo
derivato è sempre una forma di interpretazione del testo precedente, questo dice qualcosa
sul testo precedente, è un invito a ripensare l’ipotesto con una nuova chiave di lettura che
può far emergere qualcosa di significativo, inserendolo soprattutto nel contesto storico-
culturale che ha prodotto entrambi i film. Se sfrutto opportunamente il rapporto fra i due film
è possibile capire qualcosa su entrambi i film e sul contesto che li ha prodotti.
La proposta di Genette è quella più strutturata, ci da un’idea della complessità delle varianti
che entrano in gioco nel rapporto tra due testi. Ci sono due premesse: la prima è che lo
schema che lui ha pensato è per la letteratura. Il testo “Palinsesti” di Genette parte
inventando una nuova parola: transtestualità (è praticamente l’intertestualità); possono poi
esserci i paratesti, tutte quelle cose che ruotano intorno al film (riviste cinematografica,
trailer, interviste al regista…), l’intertestualità, che Genette limita alla categoria del plagio o
della citazione, i metatesti, che sono i commenti critici, gli architesti, quei rapporti che si
creano fra testi che si assomigliano per qualche ragione (per esempio nel caso dei generi
cinematografici/letterari), e gli ipertesti, dei rapporti che mettono in comunicazione due testi
nel senso ipotesto/ipertesto. Questo tipo di rapporto si può realizzare in due modi:
l’imitazione, si ha quando un testo è scritto alla maniera di qualcun altro per tre scopi,
giocarci (scopo ludico), per farne una satira/caricatura, per prenderlo seriamente (forgerie,
quel tipo di operazione che parte da un testo per completarlo in qualche modo); e la
trasformazione, consiste nel raccontare la stessa storia in una forma diversa, con le stesse
tre intenzioni di prima: ludico-giocosa, satirica o seria (trasposizione, a sua volta da luogo
alla casistica più complessa, può essere formale - vi sono cambiamenti che hanno a che
fare con la forma del testo - o tematica - interviene su alcuni snodi del testo o sullo spazio e
il tempo del racconto). C’è quindi una grande quantità di interventi che si possono fare su un
testo quando si decide di lavorarci sopra, che va presa con una precauzione individuata da
Genette: tutte queste cose sono allo stesso tempo da considerare come delle classi e come
delle funzioni, come gruppi che riuniscono testi che per qualche ragione si assomigliano e
come caratteristiche che possono essere assunte da testi che appartengono a classi diverse
(possiamo avere un testo serio che ha anche una funzione parodistica).
New cinema history: tentativo che avviene negli anni ‘80 di debarcare la storia del cinema
precedente, e cerca ora di tenere insieme tante dimensioni differenti.
Tutte e tre le coppie di film mettono a confronto film di alto livello, d’autore, e film che
appartengono alla produzione popolare, di genere, che non ha alcuna ambizione (nel caso
di Gerolami no, il secondo tenta di gareggiare con l’originale). Occorre prendere sul serio
anche la prospettiva dal basso, mettere a confronto le due prospettive che i film mettono in
gioco prendendo entrambe sul serio. Bisogna mettere in campo la prospettiva degli studi
culturali: nata in Gran Bretagna e diffusa nei paesi anglofoni e poi altrove, sostiene che
bisogna prendere le prospettive popolari sul serio e che si possano applicare certi strumenti
di analisi critica anche ai film popolari, per capire perché quella persona ha quel determinato
rapporto con quel determinato film.

ROCCO E I SUOI FRATELLI - LUCHINO VISCONTI (1960) e WALTER E I SUOI CUGINI -


MARINO GIROLAMI (1961)

Luchino Visconti comincia a lavorare a un progetto cinematografico con un gruppo di futuri


registi, attori e uomini politici uniti nella redazione della rivista “Cinema”; l’origine di Visconti
si può legare alla sperimentazione neorealista. Per un po’ Visconti sembra interessato a
portare avanti l’esperimento neorealista, nel ‘42-’43 registra e distribuisce “Ossessione”
(riesce a passare entrambe le censure anche se non indenne, viene censurato in maniera
diversa a seconda delle città in cui esce) che viene accolto negativamente dalla critica.
Viene arrestato e riesce a farsi rilasciare. Nel dopoguerra per qualche anno si dedica al
teatro, è stato uno di coloro che ha portato in Italia il teatro di regia, è stata una figura
importantissima per il teatro di prosa approfittando del venire a meno della censura. Nel
1947 torna a fare cinema ancora nell’ambito del Neorealismo: “La terra trema” - versione
cinematografica de “I Malavoglia” non ottiene molto successo popolare perché parlato in
stretto dialetto catanese, girato ad Aci Trezza senza sottotitoli né commenti; rimane infatti
sospeso a lungo dopo la presentazione a Venezia e dovette scendere a compromesso,
viene distribuito con un voice over che spiega cosa succede e dei sottotitoli; la versione così
come Visconti la voleva viene messa in circolazione soltanto nel 1960, quando “Rocco e i
suoi fratelli” è nelle sale. Gli attori non sono professionisti e sono presi sul posto, sono veri
pescatori di Aci Trezza, chiamati a recitare nel loro dialetto un testo scritto che è un po’ più
aulico del vero, hanno dovuto dirigere con attenzione questi attori. E’ ad esempio evidente
che il protagonista sta mettendo in scena la sua idea di recitazione, è stato trattenuto da
Visconti che lo ha limitato in quello che voleva fare. E’ sempre un esempio di Neorealismo
ma molto personale. Nel 1951 Visconti torna al cinema con un film che si intitola “Bellissima”
con Anna Magnani, un’attrice che adora moltissimo, un film un po’ strano e particolare:
siamo di fronte a una vicenda ambientata nella contemporaneità e nel mondo del cinema, la
protagonista è una madre che cerca in qualsiasi modo di far fare alla figlia piccola un provino
per un film di Cinecittà; è un film che guarda criticamente le ambizioni della madre e critica
diversi aspetti di Cinecittà. Nel 1954 arriva il grosso problema: “Senso” è qualcosa di
diverso rispetto al Neorealismo; è un film in costume, ambientato nel Risorgimento, la cui
fonte letteraria è molto discutibile (non ha premessa di verismo alle spalle ma una novella
della Scapigliatura) e la sequenza stessa parte dalla quintessenza del contrario della realtà,
cioè il melodramma; siamo a teatro, Visconti crea continuità tra palcoscenico e platea, tra ciò
che succede nella messinscena teatrale e la “realtà”, quel che succede nel mondo diegetico.
Il melodramma non è solo nel palcoscenico ma anche nella “realtà”: il film riguarda la storia
d’amore tra una nobildonna, il cugino e un ufficiale austriaco (è un gran codardo che
cercherà di sfruttarla per ottenere i soldi necessari per disertare) del quale la contessa
Sampieri si innamora. E’ praticamente la stessa storia di “Ossessione” ambientata prima e il
rapporto amoroso non è ricambiato: lei diventa sempre più trascurata per assecondare le
tendenze morali del generale. Quello che ci interessa è che rispetto alla novella a cui è
ispirata Visconti fa alcune correzioni, la principale consiste nell’aggiungere al racconto tutta
la dimensione politica, assente nella novella. Visconti aggiunge la questione politica per
assecondare una precisa tesi politica, ovvero l’interpretazione che Gramsci aveva dato del
Risorgimento come una rivoluzione dal basso fallita. Il ministero dell’esercito tassa una
vicenda inserita da Visconti in cui si vedeva il generale che andava a parlare con un altro
generale dell’esercito e la sua richiesta di aiuto viene rifiutata; questa e un’altra sequenza
viene tolta dalla censura (quella che ci è rimasta è l’unica scena di guerra del film); si vede
l’esercito che va al fronte per scontrarsi con gli austriaci. Visconti mostra il popolo che porta
avanti i suoi lavori, fa quello che farebbe normalmente, anche al passaggio dell’esercito;
mostra come in guerra vada solo l’esercito. E’ pure la battaglia di Custoza in cui gli italiani
sono sconfitti. Questo film sembra non centrare nulla con i precedenti ma vi inserisce una
lettura della storia in chiave prettamente comunista, chiave che la critica “amica” poteva
riconoscere come valida e sfruttare in termini quasi di propaganda = non è un film
neorealista ma comunista. L’operazione però non riesce molto bene, la critica di sinistra si
trova perplessa di fronte a questa scelta di Visconti; era già successo con il teatro quando
qualche anno prima Visconti aveva messo in scena “Come vi piace” (di Shakespeare)
chiamando a fare le scenografie dello spettacolo Salvador Dalì, andando nella direzione
opposta rispetto al Neorealismo; la critica era talmente negativa che Palmiro Togliatti
intervenne facendo presente a tutta la critica dei giornali come non fosse opportuno
prendersela con un regista come Visconti che rappresentava in modo nobile il partito e i suoi
ideali. Quell’esperienza non si poteva ripetere, quindi nel ‘54 il partito comunista si trova in
una posizione complicata: il tentativo di risolvere la questione e attutire il colpo di questa
rottura lo fece Guido Aristarco, critico cinematografico di sinistra legato al partito comunista,
direttore di una rivista chiamata “Cinema nuovo”, viscontiano dei primissimi tempi (uno dei
pochi che scrisse una critica positiva di “Ossessione”); di fronte a “Senso” Aristarco dice che
il film rappresenta una svolta dal Neorealismo al Realismo, dalla cronaca alla storia, è
sempre una forma di Realismo. Lucach (critico ungherese) aveva scritto una serie di saggi
sul Realismo che cercava le sue radici nella letteratura dell’800, per Lucach Thomas Mann è
realista, per cui anche “Senso” lo è, ma solo nella misura in cui si esaltano certe cose che
non sono centrali e se ne ignorano altre; ciò che Aristarco sottovaluta è la centralità
dell’importanza del melodramma, dice che riguarda solo le primissime inquadrature ed è
solo un elemento di contesto storico. Fa finta di non vedere neanche le prime accuse di
Decadentismo. Il problema è che dopo “Senso” vi ha una cosa ancora più problematica,
ovvero “Le notti bianche”, ispirate all’omonima novella ottocentesca di Dostoevskij che
Visconti ambienta a Livorno, ma è una Livorno interamente ricostruita in studio, gira il film
come se stesse mettendo in scena un’opera teatrale, lavora come se lavorasse a teatro:
siamo di fronte a qualcosa che di nuovo trasgredisce tutti i dettami del Neorealismo, che
impone di girare scene reali. Non fa nulla per nascondere di essere finto. La novella di
Dostoevskij racconta la vicenda di un personaggio che è definito un sognatore, ha passato
tutta la vita a leggere romanzi, vive in un mondo letterario e ha avuto pochi contatti con la
realtà: ha un contatto con una ragazza di cui si innamora immediatamente che però passa le
notti bianche ad aspettare un ragazzo di cui si era innamorata e che si era allontanato;
quando l’amato torna la fanciulla che aveva promesso amore eterno al protagonista se ne va
con lui lasciando il protagonista al suo mondo di sogni. Siamo di nuovo di fronte a una storia
d’amore, di sfruttabile in termini ideologici sembra non esserci più niente, la sinistra è ancora
in crisi, cerca una spiegazione a questa nuova frattura. Sembra esserci uno sforzo di
avvicinamento alla realtà (ambientato in Italia in epoca contemporanea) ma guardando la
messinscena capiamo che non è così. Visconti parla di Neoromanticismo: tutti riprendono
questa formula, qualcuno per criticarla, molti la rilanciano, soprattutto da sinistra, nel
tentativo di avere qualche cosa di sfruttabile in termini ideologici; ha talmente tanto successo
che Visconti la respinge, dicendo che il Neorealismo ha esaurito le sue ambizioni con “La
terra trema” e che è necessario entrare in una fase di superamento e ricerca di nuove
strade, qualcosa di poco chiaro, dichiara che la vicenda sarebbe stata mezza vera e mezza
fantastica. Siamo di fronte a un’altra frattura netta, qualcosa di diverso dal Neorealismo e
anche da “Senso”: la critica di sinistra lascia trapelare qualche perplessità ma ha la cura di
accompagnare anche una serie di elogi, rimane qualcosa comunque di mai citato dalla
critica di sinistra. Invece “Rocco e i suoi fratelli” viene accolto con entusiasmo, come un
ritorno al Neorealismo, per questo spesso il Neorealismo viene allungato fino agli anni ‘60.
Anche qui ovviamente a costo di vedere certe cose, non vederne altre e gonfiare certe cose
in funzione di propaganda: quando arriva in sala siamo a ridosso di elezioni amministrative
cruciali, è un momento di tensione straordinaria. Giori non condivide nulla di quello che ha
detto fino ad adesso.
I materiali preparatori: nell’agosto del 1958 per la Vides viene steso un primo trattamento,
già intitolato “Rocco e i suoi fratelli”, firmato da Visconti, d’Amico e Pratolini. All’inizio
dell’autunno viene annunciato l’avvio delle riprese per il febbraio 1959, ma poco dopo
Visconti interrompe i rapporti con la Vides a causa degli eccessivi temporeggiamenti di
Cristaldi. Si rimette mano al progetto per stendere un secondo trattamento soltanto con
l’adozione di un nuovo produttore, Goffredo Lombardo - amministratore della Titanus.
L’approdo al secondo trattamento risale al 2 settembre ‘59; una lettera di d’Amico, datata 29
maggio, contiene informazioni relative all’intreccio elaborato ed è probabilmente preceduta
da numerosi appunti e scalette dedicati a elaborare le parti dell’intreccio legate al
personaggio di Nadia. Il personaggio di Nadia viene messo a fuoco partendo dalle ipotesi
avanzate da un incontro tra il regista e i suoi collaboratori (d’Amico e Pratolini), la
Conversazione, che rappresenta quindi il momento della ripresa dei lavori; uno dei
riferimenti alla cronaca nera, all’”affare Adanella” (l’omicidio della giovane, sgozzata nel
gennaio ‘59 nel suo appartamento romano), permette di fissare una datazione più o meno
precisa: del caso, rimasto irrisolto, si parla per circa tre mesi, scavando nel passato
movimentato della vittima. Questi riferimenti permettono di confinare la nuova fase del lavoro
nel ‘59, tra la fine di gennaio e la fine di agosto. La prima parte del lavoro riguarda
essenzialmente la prostituta divisa fra Simone e Rocco, i documenti relativi alla quale
possono essere ordinati in: cause e conseguenze del duplice rapporto tra Nadia,
Simone e Rocco, spostando sulla prostituta un’idea che nel primo trattamento riguardava
Ginetta; dapprima si ipotizza che Nadia si rimetta con Simone spontaneamente e poi che sia
Rocco a chiederle di tornare da Simone, senza però che vi sia alcuno scontro fra i due. I
segnali della caduta di Simone, in occasione della relazione con la proprietaria del bar del
suo primo impiego, passato a Rocco. Inizialmente, questi lascia il lavoro vergognandosi del
fratello quando ne scopre la relazione con la proprietaria e viene aggiunta l’idea che Simone,
dopo aver scoperto Nadia con Rocco, massacri quest’ultimo; in diversi fogli viene aggiunto il
furto di alcuni gioielli da parte di Simone. Uno Schema personaggio di Nadia, un vero e
proprio soggetto completo steso dalla sceneggiatrice per fornire alcune indicazioni prima di
allontanarsi temporaneamente dal progetto; viene ampliato in una seconda versione in cui
viene inserito lo stupro. Lo Schema viene usato come traccia per stendere la nuova versione
del trattamento: viene abbandonato il personaggio di Imma (fidanzata lucana di Simone di
cui Rocco si innamora), sicchè l’erede di Lorani (nome da decidere indicato come XX o XY,
diventerà Lomazzo nel nuovo trattamento) ne assume la funzione di mettere nei guai
Simone. Tutte queste elaborazioni sfociano nel secondo trattamento, a cui seguono una
serie di ripensamenti (reintegrazione della vicenda di Imma, introduzione del personaggio di
un impiegato all’anagrafe, idea che Rocco perda la ragione e che a morire sia invece Nadia).
Imma e l’impiegato vengono messi da parte già al passo successivo, quando vengono
riformulate alcune idee (Nadia incontra Simone dopo il suo primo combattimento, facendo sì
che dimentichi l’invito di Morini; il bar della vedova è sostituito da una tintoria; è Rocco a fare
organizzare un ultimo incontro per il fratello, che però non si presenta). Viene aggiunto
l’acquisto di un furgoncino da parte di Ciro, che vorrebbe impiantare un’impresa di
importazioni dalla Lucania. Segue la stesura di una scaletta preparatoria che precede la
prima sceneggiatura, contiene correzioni dovute a una revisione successiva alla stesura del
copione. Nessuna delle sei versioni della sceneggiatura viene scritta prima della fine
dell’estate del ‘59. Tutte sono state redatte tra il settembre ‘59 e il gennaio ‘60, data
scritta a mano sull’ultima versione del copione. La prima sceneggiatura è divisa in fascicoli
separati, ciascuno intitolato a un personaggio, di cui mancano il primo, che doveva giungere
fino alla notte che precedeva la nevicata a Milano, e l’ultimo, incentrato su Luca. Gli autori si
sarebbero così distribuiti il lavoro: Franciosa ha steso la parte di Vincenzo, Campanile quella
di Rocco, Medioli quella di Ciro, d’Amico quella di Simone e Visconti “la parte culminante”. Il
soggetto viene ulteriormente ritoccato: sostituzione della scena del parto di Ginetta con
quella del matrimonio con Vincenzo, l’aggiunta del furto della camicia nella tintoria da parte
di Simone, l’ambientazione a Bellagio della vacanza con Nadia, l’aggiunta del servizio
militare di Rocco e il recupero dell’attività di contrabbando di Simone. La seconda versione
della sceneggiatura è la prima integrale: vede l’inserimento della scena del Duomo, del
meccanismo dello sfratto per avere l’alloggio, di un primo allenatore di boxe anonimo cui
Morini sottrae Simone per portarlo da Cerri, la scomparsa del secondo lavoro nel bar
notturno di Rocco, la versione finale del rapporto tra Vincenzo e Ginetta (sostituendo il
matrimonio con il battesimo), la partecipazione di Ciro a uno sciopero e l’idea che è solo
Luca a tornare al paese. La terza sceneggiatura è incompleta, si sviluppa fino alla prima
vittoria di Rocco, all’inizio della parte di Ciro; viene modificato il finale (Rocco non perde più
la ragione e torna in Lucania), l’aggiunta della festa di capodanno che coinvolge Ciro, il
primo confronto diretto fra Nadia e Rosaria e la definitiva rinuncia all’idea dell’orgia in favore
della bisca clandestina. E’ nella quarta versione - di cui rimangono due blocchi incompleti -
che il finale trova la sua versione quasi definitiva, con lo scontro fra Simone e Ciro (che
minaccia di denunciare il fratello), Rocco che si rassegna a vedere perduto Simone e il
monologo di Ciro, che ha luogo però durante uno sciopero. Integrali sono la quinta
versione, dove si rinuncia all’idea dello sciopero, e la sesta, che presenta pochi ritocchi
rispetto alla precedente: è il 24 gennaio, poco meno di un mese dopo inizieranno le riprese a
Milano.
“Rocco e i suoi fratelli” verrà interpretato come un ritorno al Neorealismo di sinistra: si
inserisce in un contesto politico molto esacerbato, la lettura viscontiana di questo film si è
affermata come la sua lettura ufficiale. Contesto in cui si colloca “Rocco e i suoi fratelli”: da
un lato il contesto politico, dall’altro quello cinematografico; sono entrambi complessi, è un
momento estremamente critico e di passaggio sia dal punto di vista storico che
cinematografico in Italia, entrambi determinano un film che è unico. Il contesto politico:
Segni, Tambroni, Fanfani sono i tre presidenti del consiglio che si alternano nel 1960,
quando “Rocco e i suoi fratelli” esce in sala, sono tre governi democristiani. La repubblica
italiana fino alla metà degli anni ‘50 vede la democrazia cristiana nella condizione di
governare praticamente da sola, questo partito riesce ad attirare molti voti che in teoria
sarebbero appartenuti piuttosto all’estrema destra, ma che preferiscono orientarsi su un
partito più moderato; sono gli anni del centrismo. Intorno alla metà degli anni ‘50 il centrismo
entra in crisi, la democrazia cristiana non può governare da sola, deve trovare alleanze e ha
due opzioni: sinistra moderata o estrema destra; all'interno della democrazia cristiana ci
sono correnti che sostengono una o l’altra opzione. Quella della sinistra è vista come
l’opzione più problematica, per il rischio di coinvolgere i comunisti, ci sono spinte molto forti
soprattutto dal Vaticano che portano all’apertura all’estrema destra e al governo
Tambroni, che si mette in piedi grazie all’appoggio del Movimento Sociale Italiano, ovvero
dei neofascisti. Il Movimento Sociale Italiano si sente talmente forte che organizza il proprio
congresso a Genova, città antifascista; segue una serie di manifestazioni, Tambroni
permette alla polizia di sparare sulla folla, e a luglio il risultato sono alcuni morti lasciati sulle
strade di Genova: la democrazia cristiana fa cadere il governo, lo sostituisce con Fanfani e
cerca di sostenersi aprendosi al centro sinistra (l’estrema destra ha fallito). In alcune
province e comuni locali già ci sono realtà di centro sinistra: questo crea un grande
nervosismo in occasione delle elezioni amministrative che si tengono il 6 e 7 novembre del
1960 (“Rocco e i suoi fratelli” esce nelle sale il 14 ottobre, in un momento di estrema
tensione). Il film viene presentato prima a Venezia quando il disastro di Tambroni è appena
successo, quindi in un momento complicato e teso. Per quel che riguarda il contesto
cinematografico si tratta di un momento in cui il cinema è qualcosa di totalmente diverso
rispetto ad oggi, aveva ancora una posizione forte su qualsiasi altra forma di media; il
cinema italiano era particolarmente solido, tutti andavano al cinema. Il cinema è vissuto
ancora come un importante strumento di propaganda, si discute continuamente in
parlamento e in senato, è una questione nevralgica non solo dal punto di vista politico ma
anche economico. Nel 1960 Fanfani apre una sala cinematografica a palazzo Chigi perché
considera il cinema l’equivalente della realtà, un mezzo d’informazione, qualcosa che i
politici devono conoscere per informarsi su cos’è la realtà. Siamo poi nel boom economico,
la fine della crisi del dopoguerra, ovviamente la democrazia cristiana lo sfrutta moltissimo
facendolo passare come sua conquista, mentre la sinistra sgonfia questa idea affermando
che solo nelle grandi città si sente il boom economico. “Rocco e i suoi fratelli”, che non mette
in buona luce la Milano degli anni ‘60 in pieno boom economico, è perfetto dal punto di vista
ideologico perché sfruttabile dalla sinistra. Il cinema è una fonte di preoccupazione molto
forte per la democrazia cristiana perché aveva impostato la sua politica anche su una
restaurazione morale che aveva intenzione di riportare la situazione del rapporto di genere,
di famiglia, ecc. a quella prima della guerra, secondo la popolazione però la questione
morale è qualcosa di cui la politica non dovrebbe occuparsi; si basa sul tentativo reciproco di
far passare l’avversario (democrazia cristiana - comunisti) come una fonte possibile di
disordine morale. Questo sforzo riesce bene dal punto di vista cinematografico, il cinema
viene affidato al politico Andreotti, che inizia la sua carriera politica come sottosegretario con
delega allo spettacolo e allo sport; la legge Andreotti ripristina la censura cinematografica
fra le altre cose, e Andreotti riesce a mantenere in piedi la doppia censura fascista che era
anticostituzionale e a fare una legge per cui la censura può o accettare il film, o rifiutarlo
(quindi modificarlo o vietarne la distribuzione) o vietarlo ai minori (di 16 anni). La costituzione
prevede che si possa censurare qualche cosa sulla base di un unico argomento: ciò che è
osceno = si può richiedere un taglio/intervento solo in caso di rappresentazione del sesso,
ma Andreotti riesce a intervenire (con il pretesto che la sua legge sia provvisoria) e tenere in
piedi le regole della legge del ‘23, che prevedeva interventi per un’ampia serie di altre
questioni; riesce anche a tenere in piedi la censura preventiva, quella sui soggetti e sulle
sceneggiatura (non la chiama censura ma “revisione” e non la rende proprio obbligatoria, ma
è obbligatoria per chi vuole un finanziamento dallo Stato, aggira così la costituzione
andando a formare un istituto censorio in continuità con il fascismo); censura che, con il
pretesto economico, mantiene la doppia censura fascista. Non sempre i produttori si
muovono con anticipo sufficiente e talvolta i revisori si esprimono a film già avviato: è il caso
di “Rocco”, la cui revisione giunge quando le riprese sono già iniziate da un mese. Dalla
relazione del direttore generale dello spettacolo De Pirro si apprende che la sceneggiatura
non desta alcuna preoccupazione di ordine politico, sorprende che lo stupro e l’assassinio di
Nadia passino inosservati sul piano della potenziale oscenità (benché crudamenti tratteggiati
nella sceneggiatura), l’unico appunto che viene fatto riguarda il mondo della boxe. Grazie
agli interventi di Andreotti ma non solo - nel ‘54 viene sostituito da Scalfaro nella censura
perché ritenuto troppo generoso -, negli anni del centrismo la censura riesce, in particolare
nelle questioni che hanno a che fare con la sessualità, a tenere sotto controllo l’industria;
qualcosa sfugge, ma fino al ‘57/’58 è tutto sotto controllo. Con la fine del centrismo la
censura non sta più dietro all’industria che ne approfitta, si butta sulla sessualità che
diviene il centro della rappresentazione cinematografica. Si cerca un tentativo di
negoziazione con l’industria, questo rende possibile a Fellini “La dolce vita”, che esce nel
febbraio del 1960 provocando grande scandalo, passa la censura senza alcun taglio; ne
avevano parlato bene i gesuiti del centro San Fedele di Milano - punta progressita dei
cattolici -, il Vaticano scende in campo bastonandoli e creando grande spaccatura: Montini
(cardinale e futuro papa) scomunica il film e chi guarda il film, dichiarando di non averlo
comunque visto - i preti non potevano guardare i film, soltanto quelli approvati dal centro
cattolico cinematografico. La rivista “Famiglia cristiana” pubblica un articolo dicendo alle
casalinghe di non andare al cinema, se non una volta al mese dopo aver sistemato la cucina
e tutto ciò che compete loro = il cinema era considerato occasione prossima di peccato,
ossia tutto ciò che mette il fedele nella condizione inevitabile di peccare. Questa è la
situazione quando “Rocco e i suoi fratelli” esce in sala. Si tratta di un film che, essendo di
Visconti e arrivando sulla scia dello scandalo de “La dolce vita” (qualcuno parla di
neoerotismo nel cinema italiano), incontra una serie di ostacoli piuttosto consistenti: il primo
dei quali si ha quando sono in corso le riprese, riguarda l’omicidio di Nadia ambientato
all’Idroscalo, all’epoca luogo semi abbandonato dove andavano soprattutto prostitute, poco
tempo prima le riprese di “Rocco” era stata uccisa una prostituta; la provincia di Milano
vieta a Visconti l’autorizzazione di girare quella scena all’idroscalo con il pretesto di voler
rilanciarlo temendo un danno molto forte. Ne nasce uno scontro molto forte tra provincia e
potere centrale, il ministero, perché l’anno prima era stato aperto un ministero apposito per
lo spettacolo e lo sport. La produzione mette in campo il fatto che ha già presentato la
sceneggiatura al ministero e ha ottenuto la sua approvazione, ma la provincia si impunta e il
ministero fa un passo indietro: Visconti non può girare la scena all’idroscalo (la gira sul lago
di Fogliano) e, per vendetta, chiama a raccolta tutta la stampa che documenta il tutto. Il
secondo scontro avviene alla mostra di Venezia; a marzo il direttore della mostra
Ammannati viene improvvisamente sostituito con Emilio Lonero, nomina che avviene
quando il governo Segni stava cadendo; Lonero era uno dei pezzi forti del centro cattolico
cinematografico, tutti gridano al complotto cattolico. Di fronte allo scandalo diversi
personaggi e paesi si ritirano. Quando “Rocco” va alla mostra si teme il peggio, ci si aspetta
che Lonero faccia di tutto per impedire a Visconti di vincere, ma c’è talmente poca
concorrenza alla mostra che si crede che “Rocco” vincerà il leone d’oro, anche perché era la
quarta volta che si presentava. Ma per la quarta volta gli tolgono il leone d’oro (ottiene
solo un premio di consolazione, il Premio speciale della giuria) e premiano il film di un
regista francese che non suscita grandi perplessità nei contenuti: tutti gridano allo scandalo
e al complotto contro Visconti, che esce da questo secondo scontro ammaccato ma non
troppo, perché tutti ormai parlano del suo film e quindi ha grande pubblicità. Passaggio
successivo: la censura vera e propria del 14 settembre 1960, è la censura di primo grado
che stabilisce che il film è vietato ai minori di 16 anni e suggerisce due ritocchi sulla scena
dello stupro di Nadia e quella del suo assassinio, devono entrambe essere accorciate e
tagliate alcune inquadrature. Inoltre si esprimono dubbi circa il dettaglio in cui Simone lancia
sul volto di Rocco le mutandine tolte alla ragazza. Un mese dopo, il 14 ottobre 1960, c’è la
prima del film a Milano; nel frattempo il produttore Lombardo comincia a fare pubblicità al
film: prepara un trailer particolare in cui mette insieme alcune scene limitandosi a usare il
suono della colonna sonora, introdotte da un breve testo che scorre in sovrimpressione in
cui Lombardo canta vittoria dopo lo scontro di Venezia, col fatto che la censura non ha fatto
praticamente nulla. La prima di Milano viene organizzata da Lombardo al cinema Capitol,
sala estremamente elegante, la organizza a inviti invitando l’alta borghesia milanese (è un
film che mette in cattiva luce la borghesia: tratta solamente delle periferie della città e del
sottoproletariato, inoltre gli unici personaggi ricchi sono corrotti o moralmente depravati); il
pubblico reagisce ovviamente male. Sono quattro le sequenze che vengono fischiate a
causa di un accentuato realismo: la scena dello stupro, il pugilato tra Rocco e Simone,
l’incontro di Simone con Morini e l’uccisione di Nadia. Nel ‘60 viene per la prima volta
organizzata una tribuna politica: un rappresentante di un partito differente poteva
presentare il suo programma elettorale, proprio la sera in cui viene proiettato “Rocco e i suoi
fratelli” parla Palmiro Togliatti; parla di regime cattolico e di necessità di recuperare la
democrazia, accusa democrazia cristiana di non essere democratica, di essere un partito
corrotto che monopolizza l’informazione e ha rischiato di portare il paese al fascismo, sono
parole durissime. Mezz’ora dopo al cinema Capitol succede quel che succede, il pubblico è
in rivolta contro Visconti, la situazione è talmente tesa che nei giorni seguenti al comizio il
quotidiano della DC contrattacca ripetutamente le affermazioni di Togliatti, ma per quasi una
settimana evita di dare notizia di quanto sta accadendo contro “Rocco”. Interviene quindi un
magistrato di Milano, Spagnuolo, che dopo aver saputo della reazione del pubblico sfrutta
quello che è successo il 14 lanciando un ultimatum: la magistratura scende in campo contro
il film per la prima volta diventando prassi costante per i prossimi venti anni. Gli italiani
scoprono che basta che chiunque denunci il regista/produttore per far sì che la magistratura
intervenga. La particolarità di questo caso è che Spagnuolo non sequestra un film, ma lancia
un ultimatum, da tre giorni di tempo a Lombardo per decidere se tagliare quattro sequenze
che lo avevano infastidito (Simone a casa di Nadia, lo stupro e l’uccisione della ragazza, la
colluttazione fra Rocco e Simone) o sequestrare il film: il 18 scade l’ultimatum. Se il
magistrato non interviene con il sequestro ma minacciando il sequestro è come se facesse
da censore; certo è che la legge non è stata applicata: se c’è stato un reato, si dovrebbe
procedere al sequestro, ma nei tre giorni di attesa della decisione di Lombardo il film
continua a circolare inalterato. Le scene che disturbano Spagnuolo coincidono solo
parzialmente con quelle che hanno suscitato offesa nel pubblico della prima milanese: non si
fa più menzione della seduzione di Simone da parte del suo manager, mentre il magistrato
include la prima notte passata da Simone a casa di Nadia; il sollevamento del pubblico
rappresenta dunque un pretesto per lanciarsi contro il film. Il 17 Lombardo si precipita a
Roma per parlare con esponenti del Ministero e dichiara che, essendo il produttore e non
l’autore del film, non può accettare o rifiutare l’ultimatum, deve prima confrontarsi con il
regista, gli sceneggiatori e i compositori (considerati dalla legge italiana gli autori del film). A
Roma si confronta con Visconti che rifiuta l’ultimatum, Lombardo torna a Milano e chiede più
tempo a Spagnuolo, che glielo concede. Si discute talmente tanto sulla questione e i suoi
aspetti illegali (intanto il film stava circolando nella sua versione integrale, potenzialmente
oscena) tanto che il superiore di Spagnuolo, Trombi, scende in campo anche lui: intende
applicare degli oscuramenti, ritirare tutte le copie del film e oscurare chimicamente le scene
oscene; ma questo non è possibile, chiede quindi ai proiezionisti di oscurare a mano le
scene oscene durante la proiezione del film, quindi c’erano versioni diverse in base al
singolo proiezionista. E’ comunque una forma di censura parziale, dal momento che non
intacca il sonoro. Anch’egli pone un ultimatum: entro una settimana (dal 26) in tutti gli
spettacoli dovranno essere oscurate le quattro sequenze oggetto di contesa. Tecnicamente
viene rispettato il divieto di legge di apportare modifiche al montaggio approvato dalla
censura. Lombardo accetta e Visconti si infuria, sostenendo di non essere stato consultato e
di aver appreso l’evoluzione degli eventi dai giornali, e dà mandato ai suoi avvocati di
denunciare il produttore e chiedere il sequestro delle copie eventualmente manomesse.
Sembra che dopo le prime consultazioni, ricevuto un parere negativo, Lombardo abbia agito
di propria iniziativa per salvaguardare la circolazione del film. Il 29 ottobre Lombardo
organizza una conferenza stampa e annuncia che il film è stato richiamato in censura, il 2
novembre arriva la comunicazione della censura di secondo grado del film: le quattro scene
che Spagnuolo aveva identificato come oscene vengono modificate (nel frattempo però il
pubblico aveva già visto la versione originale che era in circolazione). Visconti denuncia i
magistrati milanesi al Consiglio superiore della magistratura. Questa è la vicenda come la si
può ricostruire dalla cronaca, ma i documenti ne raccontano un’altra.
Come la sinistra sfrutta “Rocco e i suoi fratelli”: lo sfrutta come se fosse stato concepito
come un film di aperta propaganda (anche se così non è, Visconti inizia a pensare il film
all’inizio del ‘58 pensando di fare un film su una famiglia di cinque componenti del sud e
sulla box). Facendo finta di non vedere le cose che non andavano bene e sfruttando quelle
che andavano bene si poteva usare come propaganda: il Realismo era uno di quegli
elementi da sfruttare per la sinistra, veder tornare Visconti ad avvicinarsi a qualcosa che
sembrava Neorealismo era una chiamata alle armi; nelle recensioni tutti scrivono che
Visconti è tornato al progetto de “La terra trema” e che Verga non può che aver
rappresentato una delle fonti per il film; Visconti non nega niente, lascia che la sinistra
ingrandisca questi elementi, aveva interesse che il partito sfruttasse il suo film come
propaganda (avere tutta la sinistra alle spalle era per lui importante). Visconti fa degli studi
antropologici sulle sceneggiature e gli ambienti degli immigrati a Milano sia in Lucania, da
dove i Parondi vengono (il film iniziava con la morte del padre, dopo la quale la madre
decide di spostarsi a Milano, l’unico figlio che già abitava a Milano, Vincenzo, doveva fare da
medium a questo trasferimento, cosa che fa con malavoglia; per motivi economici questo
prologo in Lucania salta). Tutte le recensioni mettono in campo Verga e “I Malavoglia”,
Thomas Mann e l’”Idiota” di Dostoevskij; in realtà l’unica fonte che viene indicata nei titoli di
testa è Giovanni Testori, alcuni episodi del film sono ispirati al suo libro “Il ponte della
ghisolfa”. La critica cerca di nascondere il più possibile Testori, con l’accordo di Visconti e
Testori stesso. La seconda questione che consente di sfruttare il film in senso di propaganda
è il tema centrale del film, ovvero l’immigrazione interna dal sud verso il nord, dalle
campagne alle città; la prima idea del film viene a Visconti da “Uno sguardo dal ponte”,
opera teatrale di Miller che racconta la storia di un immigrato a New York. In Italia il tema
dell’immigrazione era ancora caldo ed era uno dei temi portanti della politica della sinistra,
che aveva una lunga tradizione di intellettuali che si erano occupati di questa questione, a
partire da Levi, Rocco Scotellaro, Ernesto de Martino (antropologo che ha speso tutti gli anni
‘50 a occuparsi della Lucania, i suoi studi convergono nel libro “Sud e magia” del ‘59, dove
mostra come in Lucania la magia sussista combinandosi al cattolicesimo). Un articolo del 29
ottobre ‘60 dal titolo “Chi spedisce a Milano Rocco e i suoi fratelli?” de “L’Unità” sfrutta il film
di Visconti per fare un’inchiesta sull’immigrazione interna, così come altri giornali vicini alla
linea del partito. La terza questione è Ciro, il fratello operaio, che insieme a Vincenzo riesce
a trarre da Milano il massimo nell’ottica lavorativa: ma mentre Vincenzo si imborghesisce,
quindi esce dalla prospettiva sociale che interessa alla sinistra perché ha come unica finalità
quella di mettere su la sua famiglia e dimenticarsi di quella precedente, l’eroe che rimane è
Ciro, che nel film vediamo inizialmente fare un lavoro che non si capisce, poi sappiamo che
fa una scuola serale per diventare operaio specializzato e poi lo troviamo in fabbrica, è
quindi un personaggio perfetto, salvo che c’è una breve inquadratura di una fabbrica
modello, l’Alfa Romeo, che rappresenta una fabbrica dal punto di vista di chi in una fabbrica
non c’è mai stato (l’Alfa Romeo era poi centro di scontri sindacali, scioperi e manifestazioni).
Ciro torna poi alla fine, dicendo che Simone e Rocco sono uguali, sono entrambi dei
disgraziati, la malvagità e cattiveria di Simone ha fatto tanti danni quanto la bontà di Rocco,
ed enuncia la morale della storia, una morale ispirata a Gramsci: dice a Luca che un
giorno forse lui potrà tornare al sud e trovare un sud cambiato, che si ammoderna e si mette
al passo con il nord; Gramsci diceva che questo si sarebbe potuto ottenere soltanto
attraverso un’alleanza fra contadini e operai, superando quelle politiche di assistenzialismo.
E’ importante che il nemico contro cui devono combattere sia lo stesso: il capitalismo. La
serietà con cui affronta lo sfondo sociale: il viaggio in Lucania, l’accurata ricerca delle
location milanesi, con indagini sul campo e interviste agli immigrati (Lombardo commissiona
al giornalista Madeo un’inchiesta sugli immigrati meridionali a Milano). Quarta e ultima
questione: lo scontro con la censura, la magistratura, la mostra di Venezia, con tutte
queste realtà politiche, scontro che non si è mai visto prima e dimostra l’intenzione di colpire
questo specifico film e Luchino Visconti; da quando scende in campo Spagnuolo tutti i giorni
per quasi due mesi su “L’Unità” si parla di Visconti. Visconti stesso scrive un intervento
pubblicato prima in forma parziale su “L’Unità” poi in forma integrale su ? che si intitola ? a
Gramsci”; dichiara poi che voterà partito comunista. Dopo l’uscita di “Rocco” c’è un nuovo
scontro con la censura per uno spettacolo teatrale di Testori, che suscita uno scandalo
enorme e viene sequestrato da Spagnuolo. Anche questo viene sfruttato da “L’Unità”,
Visconti è al centro delle polemiche per due/tre mesi. “Arialda” racconta la storia della
signora Arialda: si era sposata ma il marito era morto subito, prima di consumare, le è
rimasto talmente tanto questo desiderio che decide di sposare il primo uomo che passa.
Arialda ha poi un fratello, Eros, innamorato di un ragazzetto, Lino, disposto a concedersi a
Eros in cambio di una motoretta. Eros decide che il suo amore è tale da non voler
consumare e compra ugualmente la motoretta a Lino, che si schianta contro un muro e
muore. “Arialda” viene ripresa dalla censura che fa scomparire Lino. Tutti questi scontri che
riguardano Visconti sono perfetti per portare avanti la campagna di propaganda. La visione
messa a punto dalla sinistra diventa La visione, viene adottata dalla letteratura viscontiana.
Guardando a “Walter e i suoi cugini” avendo in mente tutto quello che abbiamo visto
finora non si capisce niente: è una commedia centrata su Walter Chiari e altri tre personaggi,
suoi cugini, tutti interpretati da lui, talmente simili che si confondono. Walter è l’equivalente di
Vincenzo, va a Milano dal sud per cercare fortuna e viene seguito dai cugini, che si
distribuiscono le parti dei fratelli. La storia si sviluppa secondo due linee che riguardano
“Rocco e i suoi fratelli”, ciascuna delle quali la troviamo in tre brevi sequenze: la prima
riguarda il mondo della boxe, richiama la sequenza di “Rocco” in cui incontriamo Morini;
Walter come Vincenzo fa il sacco, e Rosario (Rosaria è la mamma di Rocco e i suoi fratelli)
dei due cugini è quello dal carattere più rozzo e incontrollabile, Rosario pensa che abbiano
picchiato il cugino e vuole vendicarsi quando trova il fratello che dorme. In una seconda
sequenza Sisini incontra Walter, anche se è convinto di incontrare il cugino, che aveva visto
sul ring, Rosario, lo invita a casa sua e abbiamo la terza sequenza che si ispira a “Rocco”
ma si presenta il terzo cugino, Nicola, che gioca con una pistola e crede di aver ucciso
Sisini. Accanto a queste tre sequenze che hanno a che fare con la questione della boxe e
del manager Morini ce ne sono altre due che riguardano la produzione di un film: abbiamo
una parodia di Borghi, personaggio molto interessato allo sport e foraggiatore di molti atleti;
Walter è impiegato nella sua fabbrica, ma lui si lascia convincere a investire capitali in un
nuovo film del regista Anselmoni (rimanda a Visconti, così come lo sceneggiatore Tavolini è
un richiamo a Pasolini, che da anni era noto all’interno del mondo del cinema e nelle
polemiche della stampa per i suoi romanzi, che i critici accusavano di essere volgari, pieni di
parolacce ed essere scritti in un gergo romanaccio fasullo). In una sola sequenza, parlando
del mondo del cinema, si mettono insieme Antonioni, Visconti e Pasolini. L’altra sequenza
c’è la ripresa della questione della volgarità degli scritti di Tavolini, Nicola non si ritrova nel
ritratto e nelle convinzioni di Tavolini, in particolare quella che il popolo è volgare e si
esprime in maniera tale. C’è una terza sequenza che coinvolge una prostituta, equivalente di
Nadia, senza le complicazioni del triangolo di “Rocco”: si innamora di Nicola reciprocamente.
La prostituta smentisce quello che si aspettano da lei. Questi intellettuali hanno un’idea del
popolo di cui intendono parlare che non corrisponde per niente alla realtà = critica ai registi
realisti che pretendono di conoscere la realtà. Girolami non sfrutta nessuna delle
occasioni che sarebbero state più ovvie per fare una parodia su Visconti: Walter lavora in
una fabbrica ma non viene :.... il personaggio di Ciro; non viene preso nemmeno di mira il
triangolo amoroso e le questioni che gli altri critici, quelli cattolici e di destra, consideravano il
cuore del film. Menarini in “La parodia nel cinema italiano” spiega questa questione che
potrebbe sembrare strana scrivendo che in questo caso la parodia è una sorta di omaggio al
testo di partenza e che si tratta di un commento sul contrasto tra il cinema d’autore e il
cinema popolare, l’obiettivo polemico di Girolami non sarebbe tanto Visconti quanto il
cinema d’autore in generale. Secondo Giori nessuna di queste due letture sta in piedi: siamo
di fronte a una parodia il cui obiettivo polemico non è il cinema d’autore in senso lato ma
la cultura comunista, perché si tratta di una parodia politica di destra. “Walter e i suoi
cugini” ci pone un problema: è un film che prende di mira Luchino Visconti, ma le sequenze
che riguardano direttamente “Rocco e i suoi fratelli” non prendono in giro Rocco, Ciro, il
modo in cui si affronta il problema della fabbrica, la scalata sociale della famiglia Parondi, il
neorealismo in sé… le questioni più ovvie in generale vengono ignorate da Girolami, che si
concentra su una sola questione, che appare banale, ovvero il personaggio di Morini. La
non ovvietà della sua scelta può essere spiegata: o si tratta un’intenzione autoriale,
personale di Girolami o con il fatto che a “Rocco e i suoi fratelli” e al percorso complessivo di
Visconti manchi qualcosa che può essere collegato al discorso che fa Girolami, che è un
sintomo di qualcosa che c’era ma è poi scomparso e ci può dire qualcosa di più su “Rocco e
i suoi fratelli” e Visconti in generale. E’ questo il caso, dobbiamo vedere da dove deriva
questa lacuna, cercare fonti diverse da quelle che sono state utilizzate: le carte di Visconti,
disponibili nella fondazione Gramsci a Roma dal 1987 a seguito di una selezione fatta dalla
sorella, le carte della censura che erano state finalmente messe a disposizione e ancora
oggi sotto studio (per ogni film si apre un fascicolo, questi fascicoli sono pieni di documenti
che permettono di ricostruire l’iter burocratico della censura del film), ci sono poi altri
fascicoli per ogni film legati alla legge Andreotti e i documenti della biennale di Venezia
che permettono di ricostruire le vicende della mostra di Venezia (copia del film presentata a
Venezia e depositata nell’archivio, precede il passaggio alla censura) e tutta la stampa che
fino ad ora è stata ignorata, quella di estrema destra nata nel ‘45.
Dai documenti della censura: il primo è un telegramma del 17 di ottobre che Helfer
(sottosegretario che si occupava del cinema e dirigeva la censura) scrive a Lombardo per
chiedere di riconsegnare subito “Rocco e i suoi fratelli” alla censura perché deve passare
nuovamente alla censura; Lombardo disse nella conferenza del 29 ottobre che la censura gli
aveva chiesto di riconsegnare il film, questo indica che la censura non si era mossa a fine
ottobre, come aveva fatto credere Lombardo, ma subito, perché si produce uno scontro di
potere, tra quello centrale amministrato da un ministero specifico e un altro potere dello
stato, un magistrato che crea una serie di problemi burocratici. La censura si muove subito
ma rimane però per un mese dietro alle quinte. Il secondo documento è una lettera del 27
di ottobre della censura a Lombardo in cui vengono comunicate le decisioni del secondo
grado = quando Lombardo convoca quella conferenza stampa dicendo di aver difeso il film
sapeva già com’era andata a finire, quali tagli erano stati fatti, mentre dichiara di non sapere
ancora niente, la decisione viene resa pubblica il 2 novembre. Quando il 17 scende a Roma
non solo va da Visconti ma passa anche in censura a depositare la copia senza dirlo a
nessuno, nemmeno a Visconti. Il risultato dei contatti di Lombardo con il Ministero a Roma è
la messa in opera della macchina burocratica della censura di secondo grado: il verdetto
finale giunge il 2 novembre dalla commissione di secondo grado presieduta da Folchi, che
approva i nuovi tagli amputando le quattro sequenze incriminate da Spagnuolo (la notte tra
Nadia e Simone, la colluttazione fra Rocco e Simone, lo stupro e l’uccisione di Nadia).
Nell'archivio delle pratiche della legge Andreotti c’è il contratto che firma Visconti come
autore di “Rocco” e contraddice la retorica dell’autore così com’è stata costruita attorno a
Visconti: concede a Lombardo, quindi alla produzione, non solo il diritto di intervenire come
vuole sul montaggio finale del film ma anche il diritto di far sì che si possa intervenire
sulla copia a discrezione del produttore, previa consultazione del regista, anche
laddove fosse richiesto dal singolo esercente di intervenire sulla copia stessa = è illegale, la
legge prevede che una volta che la censura ha dato la sua approvazione a una copia il
montaggio non deve più essere toccato, se si tocca bisogna chiedere di nuovo il permesso
alla censura. Visconti in queste settimane va dichiarando di voler denunciare Lombardo
(perché lui non vuole tagliare), sapendo benissimo che Lombardo poteva fare quello che
voleva. Non a caso questa minaccia non approda ad alcuna conseguenza: Lombardo non
ha violato i termini del contratto. Quella ricostruzione era falsata da Lombardo e dallo stesso
Visconti. Lombardo porta avanti la questione con una certa abilità (riesce ad ottenere da
Spagnuolo un allungamento dell’ultimatum e a contrattare la situazione con Trombi per fare
pubblicità al film). E’ interessante la dichiarazione rilasciata da Lombardo nel 1979:
ricostruisce una storia inventandosi tutto; il film non è mai stato sequestrato e le quattro
sequenze che Spagnuolo indica come oscene e su cui chiede un intervento sono lo stupro e
l’omicidio di Nadia, la scena in cui Rocco e Simone si prendono a pugni dopo lo stupro e la
tenera scena fra Simone e Nadia a casa di lei dopo il primo incontro di boxe di Simone.
Della sequenza di Morini Spagnuolo non dice nulla, infatti la censura di secondo grado non
interviene su quella scena su cui non era intervenuta nemmeno la censura di primo grado.
Non si è opposto perché è subito andato a Roma a portare la copia. La dichiarazione di
Lombardo ci induce a chiederci perché? Lombardo ritiene plausibile vendere una
ricostruzione di questo tipo tutta legata alla sequenza di Morini, va a pescare la questione su
cui aveva puntato Girolami (qualcosa sotto c’è). Lombardo aveva fornito una copia in cui
quella sequenza mancava, ma nessuno lo aveva autorizzato a toglierla, Spagnuolo non
l’aveva nemmeno nominata = è stato lui a toglierla.
A Venezia il film non viene premiato, nonostante tutti fossero convinti del contrario, anche
Visconti: Giangiacomi relaziona al direttore a proposito della presentanzione del film alla
mostra, dice che il film fu ripetutamente fischiato per la durezza dell’eccessivo realismo di tre
scene (stupro, scazzottata fra i due fratelli e pugnalate), quella di Morini non c’entra nulla. Ci
fu effettivamente un complotto per sabotare la premiazione di “Rocco e i suoi fratelli”, ma
manca un documento essenziale, quello dei verbali della discussione della giuria, che
vengono sempre depositati ma quell’anno no. Lonero - direttore della mostra - dieci anni
dopo scrive un memoriale in cui ricostruisce tutte le vicende facendosi passare come colui
che ha creato “Rocco”, che l’ha voluto alla mostra, che l’ha difeso quando i democristiani (la
sua stessa parte politica) l’avevano minacciato che se avesse vinto l’avrebbero silurato.
Spiegazione del passaggio Ammannati - Lonero: Ammannati da un po’ di tempo non
soddisfava la cultura cattolica perché aveva fatto arrivare al festival una serie di opere che
erano risultate sgradite; Lonero, sulla rivista del “Cinematografo”, invoca una reazione contro
questo cinema neoerotico. Ammannati stava pensando di invitare Alberto Moravia, Giulio
Carlo Argan e Sandro de Feo, tutti uomini di sinistra. Ammannati stava cercando di fare
nell’ambito circoscritto della mostra di Venezia, che è un ambito politico, quello che si stava
profilando a livello nazionale: sostituire Ammannati con Lonero era un tentativo di chiudere
l’esperimento di centro-sinistra di Ammannati e si prova ad aprire a destra con Lonero,
espressione della destra cattolica, ma non a caso la sua nomina e le sue scelte nell’arco del
periodo in cui è direttore della mostra raccolgono grande sostegno, stima e offerta di
collaborazione dall’estrema destra fascista, di cui lui dice di stupirsi ma che non sono
ovviamente casuali. Inoltre quando si tratta di mettere insieme la giuria, Lonero impone due
scelte inedite: decide di allargare la giuria aggiungendo quattro membri (da 8 passa a 12,
grossa giuria), scelti tutti dall’estero (se avesse voluto favorire “Rocco” li avrebbe scelti
dall’Italia) tra cui uno dagli Stati Uniti e uno dalla Francia, ma tra gli 8 precedenti c’erano già
un francese e un americano: va a raddoppiare la rappresentanza statunitense e quella
francese per manovrare la selezione, sapeva che o "L'appartamento Billy Wilder” o un film
francese di Cayatte potevano vincere al posto di “Rocco e i suoi fratelli”; quello francese
viene eliminato perché non ancora finito dal regista. De Pirro, braccio destro di Andreotti, lo
costringe a prendere due giurati dall’Oriente, perché nel frattempo il regista indiano Raj si
era dimesso e De Pirro lo vuole sostituire con un altro asiatico: vengono presi un polacco e
un russo. Serviva una giuria che ci capisse il meno possibile, soprattutto per quel che
riguarda chi avrebbe dovuto potenzialmente difendere “Rocco”: prende come giurati italiani
tre uomini che di cinema non ci capivano niente, ovvero Mario Praz, Arturo Tofanelli e
Antonino Pagliaro (neofascista), tutti e tre ovviamente non votano per Luchino Visconti
perché potevano portare la discussione soltanto su questioni di contenuto anziché di ordine
estetico (sessualità e violenza rappresentate da “Rocco e i suoi fratelli”). Lonero fa quindi di
tutto per orientare la giuria in modo tale da sfavorire “Rocco e i suoi fratelli”. L’unica
testimonianza che abbiamo - un critico di una rivista inglese - conferma che effettivamente le
cose che si sono discusse sono proprio queste, cioè gli eccessi del cinema nel tema di
sessualità e violenza. Il caso ha poi aiutato: miglior sorte sarebbe toccata a “Rocco” se John
Francis Lane, da sempre sostenitore di Visconti, fosse stato in giuria; egli deve rinunciare
perché impegnato a Roma per quelle famose Olimpiadi, viene sostituito da Baker
(oppositore di qualsiasi sensazionalismo, particolarmente nella rappresentazione di
sessualità e violenza) = svantaggio per Visconti. Baker giustifica la sconfitta finale di
“Rocco” con “l’eccesso di brutalità di molte scene”. Gli appoggi ottenuti da Cayatte (che
risultava sconfitto in tutte le votazioni, tranne la prima) e la migrazione di tutti i voti nomadi
su “Le passage du Rhin” appaiono sospetti, soprattutto considerando che il film viene
inserito nel programma all’ultimo momento, la copia preparata apposta in fretta e il regista
corteggiato con sospetta insistenza perché garantisse la sua partecipazione. Sospetti
confermati dall’analogia con quanto successo nel ‘54, quando un complotto dall’alto aveva
privato “Senso” del Leone d’oro.
A riprese terminate un tale Rocco Pafundi aveva chiesto l’eliminazione del “suo” nome dal
film ormai già interamente girato, ottenendo che la produzione lo rimuovesse da tutte le
inquadrature in cui compariva (come si vede dalle locandine che tappezzano giornali e
spogliatoi e dai giornali che Luca accarezza alla fine su cui compare il nome Parondi).
La sequenza di introduzione di Morini ci fa capire che si tratta di un personaggio importante:
tutte le scene che hanno a che fare con la boxe sono sempre prive di accompagnamento
musicale; anche nel finale (montaggio alternato tra Rocco che vince e Nadia che muore)
ogni volta che si ritorna sul ring la componente sonora è limitata a voci e rumori di
sottofondo. Siamo in un contesto molto realistico e c’è un intervento stilistico ben pensato
che ci induce a prestare attenzione a ciò che succede: un carrello ci porta da Simone a
Rocco, che si sta allenando davanti allo specchio, c’è poi uno zoom piuttosto violento che ci
porta sul riflesso nello specchio di Rocco che vediamo poi di spalle, in una semisoggettiva di
Rocco che guarda nello specchio e vede Morini che sta entrando alle sue spalle. Morini
arriva accompagnato da due prostitute che paga per salvare la faccia: fissa la sua
attenzione su Simone, lo studia bene per capire quali sono le sue potenzialità
(apparentemente solo dal punto di vista professionale); Simone si lascia distrarre dalla
prostituta, questo fa capire che la sua carriera non avrà successo. Il dialogo tra Simone,
Rocco e Morini - pensato inizialmente sul ring - viene spostato nelle docce, rendendolo
ancora più allusivo: Morini guarda, si avvicina sempre di più mentre le inquadrature, che
rispettano gli spostamenti di Morini, si fanno sempre più vicine fino ad arrivare a dei
primissimi piani (quando parla di lavorare Simone si stupisce perché non concepisce la boxe
come un lavoro). In un’altra sequenza Simone non si presenta ad un incontro, manda il
piccolo Luca a chiamare Morini e rinuncia alla sua carriera, cercando altri modi per fare soldi
= si prostituisce a Morini. Nella sequenza a casa di Morini si rinuncia completamente al
Realismo fin dalle prime inquadrature: Visconti ricorre al controluce, Simone e Morini sono
ridotti a delle ombre, c’è un tema drammatico di sottofondo che accompagna tutte le scene
più tragiche del film, indica che sta succedendo qualcosa di grosso. Sentiamo un tema che
Rota aveva associato all’amore (prima associato a Vincenzo e Ginetta, poi a Nadia e
Rocco), ma è un tema deformato dall’utilizzo di uno strumento esotico - che Rota aveva
usato quando Simone aveva rubato la camicia, primo atto della sua decadenza -. L’ambiente
ci parla della ricchezza di Morini, è l’esempio di un ex pugile che ha fatto carriera, è
diventato manager e si è arricchito. Morini accende poi la televisione, senza nessuna
ragione apparente, vediamo e sentiamo qualche cosa di strano nella televisione: è un
intervallo (quando la Rai era in anticipo sul programma del palinsesto mandava in onda
questo intervallo, negli anni ‘50 erano soprattutto immagini di pecore) che non è mai esistito
ma ha messo insieme Visconti rappresentando opere del Rinascimento che dovrebbero
avere dei significati allusivi - non sono mai stati chiariti; quello che vediamo è qualche cosa
che Visconti sovraimpone al riquadro bianco della televisione (ogni volta che la macchina da
presa si sposta si sposta anche l’immagine nella televisione). Ci sono poi dei suoni che non
hanno alcun riferimento con nessuno di quei motif usati prima, si tratta di impulsi sonori:
sono note che fanno riferimento a un’altra tipologia di suono di stampo avanguardistico
senza alcuna base tonale, questa sonorità comincia nel momento in cui Morini accende la
televisione e finisce quando la spegne; è come se i suoni fossero degli impulsi subliminali
provenienti dalla televisione sull’esasperazione di questi due personaggi. Intanto Morini
rievoca il loro primo incontro, la parola omosessualità non si può ancora usare nel cinema,
per cui usa una perifrasi dicendo che “solo un uomo come me può ancora provare interesse
per un rottame come te”; c’è una chiusura sui primissimi piani di Simone e Morini, che
sorride leggermente in modo allusivo. E’ una sequenza estremamente forte e sovraccarica
sia dal punto di vista visivo che dal punto di vista sonoro. Spagnuolo sequestra “Arialda”,
che ha questo personaggio omosessuale, Eros, e scrive che la rappresentazione della
passione amorosa di Eros verso Lino lo ha portato a sequestrare il film, è l’unico
personaggio su cui Spagnuolo si ferma nella lettura psico-patologica dei personaggi.
Descrive gli omosessuali come persone aggressive, gelose, incapaci d’amore che hanno
come sola finalità quella del sesso puro e semplice per spiegare la ragione per cui Eros lo
ha tanto infastidito, spiegando anche perché Morini invece non lo infastidisce: mentre
Eros è presentato come un personaggio innamorato, Morini non rispecchia il quadro psico-
patologico delineato da Spagnuolo. Quello che lo offende è che l’omosessualità può essere
qualcosa di diverso da quello che ci fa vedere “Rocco e i suoi fratelli”: sono gli elementi che
Visconti inserisce in quella sequenza che permettono al film di passare alla censura e al
giudizio di Spagnuolo, vengono interpretati come giudizi negativi sul personaggio di Morini.
Dal film di Visconti hanno origini molte manifestazioni organizzate dai gruppi di studenti
legati alla sinistra. Il 22 ottobre la prefettura di Venezia rende noto di aver sequestrato i
manifesti di alcune associazioni studentesche per diffamazione alla magistratura contenuta
in una frase del volantino (“azione intimidatrice esercitata dalla magistratura governativa”,
frase ritrattata per un errore di trascrizione in luogo delle parole “censura governativa”).
L’intervento della magistratura prepara il terreno per aggirare le limitazioni che entreranno in
vigore con la nuova legge del ‘62, poiché se la censura dovrà attenersi ai vincoli
costituzionali, la magistratura invece deve occuparsi anche del vilipendio: prima ancora che
la nuova legge sia una realtà si è già trovato il modo di aggirarla nella sostanza. Attriti e
polemiche si protraggono inoltre ben oltre le settimane dello scontro con la magistratura
milanese: ancora un anno dopo la destra sfrutta un comunicato del partito comunista
ungherese, relativo a delitti commessi da giovani che dicono di aver visto il film di Visconti,
per rilanciare le polemiche. Una di queste si prolunga fino al ‘66, pur risalendo alla prima del
14 ottobre: il procedimento contro “Rocco” viene celebrato a Catania, il pubblico ministero
ribadisce la contraddizione fra l’operato dei magistrati milanesi e il nulla osta della censura,
entra nel merito delle sequenze messe sotto accusa e per poi fare un’analisi a metà fra il
testuale e il sociologico; il potenziale osceno del film viene misurato rispetto all’offerta del
mercato cinematografico, ormai ricco di documentari esotico-erotici discesi da “Europa di
notte”. Si punta poi a negare valore intrinseco alla sequenza in sé - e quindi alla sua
eventuale oscenità - che deve essere valutata rispetto all’opera nel suo complesso, il tutto
analizzato alla luce della sceneggiatura. Riguardo alla notte incriminata fra Nadia e Simone
si cerca di dimostrare che, trattandosi Simone di un inesperto campagnolo, lo spettatore non
può essere indotto a immaginare prodezze dannunziane, e che le confessioni
autobiografiche di Nadia sono fatte per mettere a suo agio il compagno. Di conseguenza
non c’è nulla di laido nella sequenza incriminata. Quanto al rapporto con il film nella sua
totalità, si sostiene che la sequenza dello stupro si inserisce nella narrazione come logica
conseguenza del decadimento morale proprio di Simone. Il Pubblico ministero cerca infine di
dimostrare che il film è un’opera d’arte in virtù della sua indagine psicologica sugli immigrati
e la loro realtà. La sentenza finale del giudice dichiara che l’episodio brevissimo della
violenza carnale è osceno ma il film non è osceno e non si sviluppa in funzione di
quell’episodio = questo equivale a una sostanziale sconfessione dell’operato di Trombi.
Sconfitta del magistrato milanese (Spagnuolo o Trombi). Che il processo finisse in una bolla
di sapone era prevedibile: i magistrati si servono della minaccia del sequestro confidando
nel fatto che i tempi lunghi della giustizia costituiscano un deterrente sufficiente a
scoraggiare i produttori dal tentare qualsiasi resistenza. L’assoluzione di Visconti non
comporta alcuna conseguenza per il film: una ipotetica versione originale viene ripristinata
solo in occasione del restauro del 1992. Per oltre trent’anni e con la sola eccezione del
pubblico della mostra veneziana “Rocco e i suoi fratelli” viene visto solo in versioni tagliate e
manomesse. Quando il film viene ridistribuito del ‘69, in conseguenza della legge subentrata
nel frattempo, il divieto ai minori di 16 anni viene alzato ai minori di 18 e vengono tolte tre
inquadrature (i fratelli che negli spogliatoi parlano con il pugile, sequenza della bisca e la
prima vittoria di Rocco), in compenso ne vengono aggiunte cinque. Si tratta di interventi
giustificati dall’esigenza di scorciare il film per un più semplice sfruttamento commerciale.
Sette anni dopo Lombardo chiede una derubricazione in occasione della morte di Visconti (a
conferma del fatto che la versione del ‘69 non era quella originaria). Una versione del film
viene derubricata solo nel 1979 per lo sfruttamento televisivo: Lombardo concede alla Rai i
diritti di trasmissione e torna a mettere mano al montaggio. Nella nuova versione, vietata ai
minori di 14 anni, risultano aggiunte tra le altre la sequenza di Nadia e Simone a letto, la
scena di Rocco e Simone in campagna, la sequenza della violenza e dell’uccisione di Nadia.
Tuttavia ulteriori tagli intervengono sulle sequenze più censurate ed eliminano la scena
dell’indumento intimo lanciato sul viso di Rocco e la serie di coltellate durante l’assassinio di
Nadia. E’ questa la versione che la Rai sfrutta intensamente. L’ulteriore restauro del 2015
(dopo quello del ‘92) ha prodotto una nuova versione ancora. Per quel che riguarda le copie
approntate per l’estero la situazione si fa complicata: in Francia, ad esempio, circolano
contemporaneamente due versioni, una con pochi tagli di censura e una seconda scorciata
di mezz’ora.
Le carte di Visconti: ci permettono di chiarire una serie di questioni importanti, tra cui il
problema delle fonti letterarie sul film. Le carte di Visconti sono estremamente complesse
(solo la scrittura del film dura due anni, il ‘58-’59). Le prime idee del film vengono fuori
all’inizio del ‘58; Visconti intende elaborare un film sulla base di un’idea originale: se in
precedenza si era sempre affidato a fonti letterarie, il procedimento ora adottato consiste in
un sovrapporsi di fonti anzitutto letterarie, in una sorta di “bovarismo”: la ricerca del
dramma passa attraverso un'interpretazione della realtà fatta alla luce delle molte letture
accumulate. Talvolta nel film le fonti sono talmente dissimulate o trasfigurate da essere
irriconoscibili. L’idea da cui Visconti prende le mosse per il suo nuovo progetto riguarda la
famiglia da un lato e la boxe dall’altro, sport allora al culmine della sua popolarità guardato
con sospetto da certi ambienti ecclesiastici. Prima fonte letteraria: “Uno sguardo dal
ponte”, di Arthur Miller, sulla sanguigna vicenda di immigrati siciliani a New York, per il
culto per la famiglia, atteggiamenti nostalgici verso lo sradicamento dalla propria terra
d’origine e lo sguardo erotico che altera gli equilibri stabiliti dalla parentela. L’idea di Visconti
è stata inizialmente quella di ripensare il dramma di Miller per un film sospeso tra realismo e
psicologismo, sostituendo l’emigrazione all’estero con quella interna (dalle dimensioni
ragguardevoli in Italia). Tuttavia l’unico riferimento a Miller si trova nella Conversazione. La
fonte alla quale la critica di sinistra ha dato maggiore rilievo, nel tentativo di ricollegare il film
a “La terra trema” e nella speranza di vedere Visconti rinsavire dopo “Le notti bianche”, sono
“I Malavoglia" di Verga, per l’unione familiare - la metafora dei figli che sono come le
cinque dita di una mano, il cui significato viene ribaltato: ne “I Malavoglia” indica la gerarchia
da rispettare in una famiglia, Visconti la usa per indicare l’unità e l’interdipendenza dei
Parondi. E’ un segno che quel poco che viene dai Malavoglia non ci deve far pensare al fatto
che siano la principale fonte di ispirazione di Visconti - il prologo - che poi non è vero - e lo
sfondo delle scene nella prima casa di Milano. Mentre nel prologo Verga dice di dover
distanziarsi dalle vicende rappresentate, che devono essere trattate senza passione, cosa
che ovviamente Visconti non fa; addirittura dice di non essere più contento de “La terra
trema” che rispecchia meglio la politica verista di distacco rispetto a “Rocco e i suoi fratelli”,
che invece non ha paura dell’eccesso, quindi la politica che Visconti sta provando a
esprimere è completamente l’opposto rispetto a Verga: Visconti rifiuta il ruolo di semplice
osservatore esterno e fa della passione il nucleo fondamentale del proprio stile, chiamando
in causa sempre più spesso il modello del melodramma; sovraccarica così i toni fino alla
provocazione e allo scandalo. La terza fonte, più complessa, è Thomas Mann con
“Giuseppe e i suoi fratelli”, da cui deriva il titolo del film. Nella Conversazione il regista
dice che sta cercando di riportare la storia più vicina a quella di “Giuseppe e i suoi fratelli"; in
effetti tra la Conversazione e il secondo trattamento ci sono una serie di elementi inseriti
nella storia che richiamano il romanzo di Mann: la prima idea è che Rocco sia vittima dei
suoi fratelli (Ciro e Vincenzo vendono una serie di fotografie e informazioni su Rocco alla
stampa per fare soldi, sul ring lo costringono a continuare a combattere anche quando
Rocco è ferito), poi il rapporto privilegiato con il fratello minore e la figura di Nadia
seduttrice come Mut-em-enet, personaggio della Bibbia che si vendica di Giuseppe che
non è riuscita a sedurre facendolo incarcerare: questo permette di utilizzare la figura della
seduttrice in tutta la sua convenzionalità senza rinunciare a svelarne un volto umano e a
compiangerne la sorte. Nella Conversazione Visconti dice che il personaggio di Nadia è
troppo banale, è quello classico della prostituta, e anche nella vicenda di Simone vuole che
ci sia qualcosa che rappresenta bene lo spirito della Milano del 1960 con cui Simone si
scontra (= Morini). Ma tutte queste idee vengono ripensate a partire dal secondo
trattamento: Ciro e Vincenzo diventano personaggi positivi, il rapporto privilegiato viene
meno perché passa a Ciro e il personaggio di Nadia cambia, perché un nuovo prototipo
viene acquisito da Visconti: “L’idiota” di Dostoevskij. L’influenza di questo succede
cronologicamente a quella di Mann e la scalza (con il passaggio dai trattamenti alla
sceneggiatura). Innanzitutto per Rocco come imago christi (ingenuità e purezza si
intrecciano e trovano il culmine con il sacrificio di Rocco che si assume persino le colpe di
Simone). Rocco che per fare del bene non si accorge che fa del male; poi l’idea che Rocco
alla fine diventa idiota, perde la ragione e poi rinchiuso in un ospedale psichiatrico deriva
dall’idea di Dostoevskij di far soffrire di epilessia il principe Myskin, che soffre di queste crisi
ogni volta che si trova davanti al male: ugualmente Rocco soffre di crisi di svenimento
causate dall’impossibilità di sostenere il confronto con la verità che riguarda Simone; poi
questa idea scompare, rimane una scena che non viene però inserita nel montaggio finale.
Se Myskin appare come un alieno inserito in un contesto sociale in cui si muove con fatica,
allo stesso modo Rocco immigra dalla Lucania e la sua goffaggine suscita spesso ilarità;
entrambi esibiscono innocenza e infantilismo, soprattutto sul piano sentimentale. Da
Dostoevskij ricava l’idea dell’ambiguità morale di Rocco che lo porta a fare il male, la
morte di Nadia, copiata dal finale de “L’Idiota”, e l’abbraccio tra Simone e Rocco dopo
che il primo confessa l’omicio di Nadia. Queste tre idee rimangono nel film, Dostoevskij è il
modello più riconoscibile. L’unica fonte citata nei titoli di testa del film è “Il ponte della
Ghisolfa” di Giovanni Testori. Tutte le recensioni di sinistra scrivono che Testori non ha
fatto nulla, la sua influenza è insignificante, si tratta di uno scrittore di poco conto (Aristarco
si dilunga sulle influenze di Mann e Dostoevskij, mentre liquida in poche righe quella di
Testori); anche la destra lo fa, anche Visconti stesso da contro Testori e i suoi collaboratori,
e anche Testori stesso sembra supportare questa lettura riduttiva, minimizzando il proprio
ruolo. Testori scrive “Il ponte della Ghisolfa” nella tarda primavera del ‘58, un anno dopo
pubblica anche la seconda raccolta di racconti, “La Gilda del Mac Mahon”, Visconti prende
una serie di idee anche da questa. L’altro sceneggiatore che collabora con Visconti in
questo momento, Vasco Pratolini, conosceva Testori e lo prende come punto di riferimento
anche quando Visconti non lo conosce; le idee che Pratolini ha preso da “Il ponte della
Ghisolfa” appartengono al primo trattamento (Simone che si dà allo spaccio di sigarette, il
personaggio di Morini…). Visconti chiama Testori a collaborare, egli rimarrà sotto contratto,
collabora continuamente con Visconti e va spesso sul set, gli viene anche assegnata la
lettura di una delle sceneggiature chiedendogli di fare una revisione linguistica; egli si
lamenta con Visconti per il modo in cui sta costruendo Rocco. Sono due le operazioni messe
a segno da Visconti: ricalcare sulle vicende testoriane episodi e porzioni dell’intreccio
(la violenza subita da Nadia, la sequenza di Morini e quella della vedova derubata da
Simone, la bisca clandestina, l’idea di far sì che Ginetta si lasci mettere incinta e la crisi di
Rocco alla scoperta dell’odio necessario per combattere sul ring) e fondere insieme diversi
personaggi prelevati da vari racconti, come nel caso di Simone, Morini e Nadia. Questo è
reso possibile dalla struttura corale delle due raccolte con personaggi molto simili l’uno
all’altro, come se fosse lo stesso personaggio con diverse variazioni. Mann scompare,
rimangono solo alcune influenze di Dostoevskij tutte concentrate nel personaggio di Rocco,
l’unico che non deve nulla a Testori (che di Rocco non apprezza l’”angelismo”, il carattere
“gotico” e il suo essere troppo “gesù cristo”); solo il momento in cui Rocco scopre l'odio
connesso alla boxe è debitore di Testori: dopo la vittoria all’incontro, spiega a Ciro di essersi
spaventato perché ha immaginato di avere Simone davanti. ↳Testori è quindi consapevole
dell’influenza esercitata dal proprio lavoro, ma non sembra comprendere appieno il senso
dell’operazione intrapresa da Visconti, in sostanza simile a quella tentata nel film precedente
(“Le notti bianche”), anch’essa non compresa da nessuno; qui il regista aveva provato a
inserire Tennessee Williams in Dostoevskij, qui Dostoevskij in Testori. ↵ Quelli di Testori
sono poi tutti personaggi delle periferie milanesi che assomigliano un po’ a Simone: cercano
un modo di sfruttare i borghesi del centro per approfittare del boom economico e fare soldi
facilmente, per tutti il modo più facile per fare soldi è sfruttare il proprio corpo = prostituirsi,
con un limite però, ciascuno di essi ha una coscienza che li porta a porre un limite, che viene
da tutti espresso con la parola “schifo”; è una parola che ritorna più volte in “Rocco e suoi
fratelli” (come insulto rivolto a Simone prima da Rocco, dopo lo stupro, e poi da Morini, nella
scena a casa sua). Era un peccato per la sinistra sfruttare il film per propaganda
riconoscendo che la maggior parte delle sue idee viene da un giovane cattolico e, per di più,
omosessuale dichiarato, e quindi tutti a sparare contro Testori. Visconti asseconda questa
cosa, mentre dato che Testori è un giovane scrittore che ha avuto la fortuna di incrociare
Visconti (chiave fondamentale di accesso al mondo del teatro) asseconda questa sua messa
a immagine, anche perché ha bisogno di un sostegno dato che i cattolici gli davano contro
per ciò che scriveva nei suoi racconti.
L’incomprensione della sinistra e della letteratura accademica di Visconti nasce proprio
all’inizio: il comunista Ingrao ricorda che c’era una spinta ricorrente di Visconti ad analizzare
il mondo da cui veniva, alla proposta del progetto de “La signora delle camelie” non viene
da loro capito. Non compresero quel progetto né “Ossessione”, “Senso”, “Le notti bianche”,
“Rocco”... il progetto de “La signora delle camelie” sono poche pagine faticose da decifrare
che dovevano servire a vendere il progetto ai colleghi di cinema, ai compagni comunisti,
perché sapeva benissimo che non l’avrebbero capito. Quello che emerge: tentativo di
rassicurare i compagni che si tratta di un melodramma non nel senso tradizionale del
termine ma un ritorno al romanzo, quindi alle origini, che sarebbe poi stato spostato nel
tempo, ambientato alla fine dell’800 perché pensa di sfruttarlo per parlare del contesto
storico e sociale del tempo; è poi convinto di realizzare un film realistico attraverso uno
studio delle psicologie dei personaggi che faccia riferimento a concetti moderni (come la vita
sessuale) = psicoanalisi; per Visconti la realtà umana non è altro che la fusione della realtà
psichica e la vita sessuale dei personaggi. Gli altri non capiscono il senso e l’intenzione di
questo progetto, il perché Visconti si rivolga al melodramma quando può fare riferimento a
Verga e al Verismo. Questi principi di poetica sono gli stessi applicati a “Ossessione”,
“Senso”, “Notti bianche” e “Rocco e i suoi fratelli”, a questo punto Visconti aveva chiara
un’idea di poetica che non riesce a spiegare e ad essere compresa da nessuno che non
abbandonerà mai e sarà origine di tutti i futuri fraintendimenti. Il tipo secondo Lukacs
unisce organicamente il generico e l’individuale, il tipo diventa tipo per il fatto che in esso
confluiscono e si fondono tutti i momenti determinanti di un periodo storico. Sottolinea che il
Realismo non è qualche cosa di opposto al colorismo = al melodramma, e addita nel
conflitto erotico, con gli inerenti conflitti umani e sociali, il luogo ideale per questo tipo di
rappresentazione. E’ la stessa cosa che Visconti sta pensando di realizzare con “La signora
delle camelie”, stava cercando di trasformare la signora delle camelie in tipo. E’ la tendenza
a supervalutare il peso e l’importanza del realismo e degli aspetti socio-economici sulla
componente melodrammatica e sottovalutare la connessione tra la “questione sessuale” e
quegli stessi aspetti a mettere ai margini il ruolo di Testori. La rappresentazione della
sessualità diventa così uno strumento di analisi sociale, il fatto che i giudizi dell’epoca
tendano a ignorarlo spiega il tentativo di ridimensionare l’importanza dell’influenza di Testori
da parte della critica progressista. Quando Visconti pensa al melodramma non pensa a
qualcosa contro Realismo ma a una forma che mette insieme melodramma e Realismo,
questa forma non va contro l’ideologia e l’impegno politico, è semplicemente la forma
attraverso la quale esprimere quell’ideologia e l’impegno politico. Non si riusciva a capire
che le due cose non erano opposte ma intimamente unite. Elementi melodrammatici
presenti in “Rocco”: eccessi sensazionalistici della vicenda, toni sovraccarichi della
recitazione, il piacere della contaminazione fra fonti alte e basse, la funzione strutturale
assegnata al triangolo romantico, la retorica del sacrificio e della dialettica sofferenza-
redenzione, la tipizzazione dei personaggi, lo stile di ripresa che adotta spesso i piani
ravvicinati per sottolineare i momenti più drammatici o patetici, talvolta retoricamente posti in
contrasto con inquadrature più distanziate. Anche la scelta di connotare la città con i rigori
invernali: si ha l’impressione che il tempo non trascorra, al punto da rendere sorprendente il
breve squarcio di sole al cantiere. Il grigiore delle ambientazioni urbane asseconda un altro
topos melodrammatico, quello di attribuire alla città il ruolo di corruttrice della solare cultura
rurale. Nella Conversazione Visconti si dice alla ricerca di qualcosa che rifletta la specificità
dei costumi milanesi contemporanei e che sia allo stesso tempo sufficientemente scabroso
da risultare originale e sorprendente; è una ricerca che approda all “eteromania” testoriana,
che racconta vicende insolite di prostituzione maschile e di orge finalizzate alla produzione
di materiale pornografico, ma dà anche voce a desideri insoliti, contesta un’etica famigliare e
sentimentale che va stretta alla nuova generazione, evoca tensioni incestuose e sottopone a
una severa critica il tradizionale concetto di maschilinità. Dunque in Testori Visconti si
imbatte in una versione aggiornata della sua stessa poetica. La messa ai margini di Testori
rappresenta per la sinistra un comodo espediente per squalificare gli eccessi del film,
attribuendone la responsabilità ultima allo scrittore, alla sua inesperienza e mancanza di
gusto, anziché al regista. “Ossessione” Visconti la pensa esattamente nei termini del
progetto de “La signora delle camelie”: la sua idea di Realismo passa attraverso una vicenda
di fisicità erotica molto forte, persino al personaggio dello Spagnolo (l’eroe positivo su cui la
sinistra aveva puntato) Visconti aggiunge un’attrazione nei confronti del personaggio di
Gino. Siccome Visconti continua per la sua strada il film viene poi scomunicato dal partito,
sia da Ingrao (che dice che non si capisce se la figura dello Spagnolo fosse un antifascista o
un omosessuale, come se le due cose non potessero andare insieme, non capiscono che le
due cose insieme hanno lo stesso significato) che da Alicata. Il protagonista di “Senso” è un
attore americano, Farley Granger, Visconti aveva bisogno di tradurre la sceneggiatura in
inglese: per la traduzione chiama Tennessee Williams (il drammaturgo più di successo
dell’epoca) e nessuno capisce perché; Visconti lo conosce bene perché è stato lui a portare
in Italia le sue opere, si erano poi conosciuti sul set de “La terra trema”; avevano un’amica in
comune, Anna Magnani. Quando Visconti gli chiede di occuparsi (proprio riscrivere) dei
dialoghi in inglese non di tutta la storia, ma della parte tra Franz e Lidia (quindi della parte
melodrammatica della storia) declina la sua offerta perché non ha voglia, quindi gli
suggerisce di rivolgersi ad un amico, ??Soul Boutz??, a patto che se non fosse stato
contento del suo lavoro sarebbe intervenuto; ovviamente Visconti non è contento e Williams
ci mette mano. Pensa proprio a Williams perché nel suo teatro Visconti aveva trovato un
modello aggiornato del concetto di melodramma a cui stava pensando fin dal ‘43: questo gli
risparmia un sacco di lavoro, ha già dei testi perfetti a cui ispirarsi per i suoi progetti. Quando
lavora su Dostoevskij continua a pensare a Tennessee Williams; il critico Giovanni Calendoli
scrive che ne “La contessina Giulia” (di Strindberg, messa in scena da Visconti poco prima
di dedicarsi a “Le notti bianche”) Visconti ha fatto affiorare il sottofondo di questioni morbose
che anima il dramma e prevede che farà lo stesso ne “Le notti bianche”, è proprio quello che
farà inserendo nella novella di Dostoevskij quegli elementi che spiegano il contesto storico?.
Abbandona Williams solo quando conosce Testori, che è il Tennessee Williams italiano,
ancora più semplice e diretto, richiede ancora meno lavoro.
A Girolami non va a genio l’associazione fra Morini e lo sport; lo sport coinvolge tutta una
serie di altri aspetti culturali, all’epoca ci sono degli interventi a riguardo: uno è di Loi, pugile
più importante d’Italia, dopo aver visto “Rocco e i suoi fratelli” rilascia una dichiarazione che
viene presa seriamente dalla critica di destra, in particolare da una rivista - “Lo specchio” -
che per diversi anni prende come obiettivo polemico Luchino Visconti. Le posizioni di Loi
sono talmente estreme da risultare ridicole (tanto che un lettore della rivista scrive per
lamentarsi), ma la dichiarazione viene rilanciata comunque dalla rivista. Quello che offende
Loi è l’impianto realistico che si ritrova in “Rocco e i suoi fratelli”, anche nel mondo della
boxe, perché dovrebbe dare maggiore credito a ciò che racconta, anche in merito alla boxe.
Una seconda dichiarazione di Andreotti invece se la prende con gli intellettuali che
frequentavano gli ambienti della dolce vita romana, in via Veneto, fa un richiamo alle
Olimpiadi del 1960 svoltesi a Roma, in un certo senso in competizione al festival di Venezia
e al cinema in generale perché sono le prime ad essere trasmesse in televisione, a
diventare uno spettacolo mediatico. Andreotti è anche sottosegretario dello sport. Cinema e
sport sono due strumenti strategici perché sono in grado di arrivare ai giovani, quindi
importantissimi da controllare, tant’è che nel dopoguerra una serie di organizzazioni sportive
di diversi partiti cerca di attirare giovani. Inoltre lo sport è occasione di esibizione del corpo,
ha a che fare con la sessualità, al centro dello sport c’è il corpo che di solito è abbastanza
spogliato (nel 1960 i preti non potevano seguire gare sportive femminili e boxe). Le
Olimpiadi del ‘60 furono un evento straordinario, con orgoglio Andreotti contrappone ai
giovani di “Rocco e i suoi fratelli”, violenti e che si fanno traviare dalla boxe, gli atleti olimpici
così come venivano idealizzati. La boxe in tutto questo rappresenta una realtà sportiva molto
complessa e discussa: il centro di San Fedele organizza una rassegna di film sulla boxe che
vengono criticati dalle gerarchie ecclesiastiche perché discutono di qualche cosa che
sarebbe meglio fare finta che non esista, il problema più grande è che i boxeurs sono quasi
completamente spogliati. Il foro Mussolini, poi diventato foro italico o stadio dei marmi,
costruito durante il fascismo a Roma ha una serie di statue colossali donate dalle varie
province italiane che rappresentano maschi quasi completamente nudi, ciascuno incarna
uno sport diverso. L’arte fascista faceva ampio ricorso al nudo, poteva farlo perché rivestiva
in qualche modo queste statue con l’abito trasparente della sublimazione, attribuendo loro
significati diversi (forza, eroismo…). Quando il fascismo viene meno in un modo viene meno
anche questo abito trasparente: quello che rimane sono 66 uomini nudi in uno stadio
frequentato anche da ragazze, si viene a creare un problema molto sentito dai cattolici, già
alla fine degli anni ‘40 viene avanzata la richiesta di chiudere lo stadio. Quando nel ‘50 il
papa proclama l’anno santo vengono applicate delle foglie di fico di cemento, dietro a questa
operazione c’è proprio Andreotti. Di lì a poco il futuro presidente della repubblica Scalfaro
aveva schiaffeggiato una donna perché a detta sua indossava un abito troppo scollato;
insieme alla questione dello stadio dei marmi la questione venne discussa in parlamento. Il
tutto viene collegato a una forma di erotismo che mette insieme il corpo spogliato delle
bagnanti al mare - all’epoca molto discusso - e lo sport. La stampa di destra eredita questo
lutto della sublimazione una volta caduto il fascismo. In questo periodo (tra metà anni ‘50 e
metà anni ‘60) tornano ad avere successo i film del genere peplum, popolari negli anni ‘10 e
‘20, film ambientati nell’antichità dove i protagonisti erano dei culturisti che imitavano il
Maciste di Cabiria, interpretato da Bartolomeo Pagano, che era scaricatore di porto (aveva
fisico possente che si era fatto lavorando). Il fascismo si era riconosciuto in quel tipo di
rappresentazione, mentre il peplum del dopoguerra viene sconfessato dalla cultura
neofascista perché il bodybuilder era la degenerazione di quello stesso corpo identico che
negli anni del fascismo era associato a valori sublimanti come forza e coraggio, mentre ora
di questi atleti i giornali sottolineavano come la loro è una forza solo apparente, che la loro
muscolatura era soltanto una pura messa in scena; sono corpi spogliati solo per essere
mostrati ovviamente anche ad un pubblico di signori: il bodybuilding è associato in questi
anni all’omosessualità. Questo corpo negli anni ‘50 si sfoga in due filoni cinematografici:
quello del peplum, i cui principali protagonisti vengono dagli Stati Uniti, e quello della
commedia da spiaggia, la commedia balneare, che sfrutta l’ambiente della spiaggia -
all’epoca particolarmente scabroso - per associare alla commedia l’esibizione di questo tipo
di corpi, defini fusti o maggiorati. I primi due maggiorati che avevano avuto successo nel
cinema italiano erano Arena e Salvatori, che in “Rocco e i suoi fratelli” interpreta Simone:
nel film la boxe viene rappresentata così, come una realtà desublimata perché non ha
nulla di ideale, puro, non ha nulla di quella sportività che può essere presa a modello per i
giovani di cui parlava Andreotti con le Olimpiadi, ma è sempre rappresentata in connessione
a due elementi che non consentono alcun rivestimento purificatorio: Testori nei suoi racconti
presenta sempre lo sport come una realtà per niente ideale per due ragioni; ha a che fare
con investimenti economici, le motivazioni che stanno dietro all’organizzazione dello sport
non sono mai pure ma dettate da ragioni economiche, e con la corruzione. Il protagonista de
“Il dio di Roserio” (racconto di Testori) è un ciclista che è apparentemente l’esaltazione
agonistica del ciclismo, ma la gara che ha vinto è dovuta a una scorrettezza che è costata
quasi la vita a un altro ragazzo, che cadendo sbatte la testa e perde la ragione senza che
nessuno se ne accorga, la sua carriera inizia con questa scorrettezza. Anche nei racconti
sulla boxe de “Il ponte della Ghisolfa” e “La Gilda del Mac Mahon” lo sport è una questione
economica e corrotta. Morini ad esempio fa combattere a Simone degli incontri truccati,
corrotti. Il terzo elemento attraverso il quale viene desublimato lo sport è la sessualità.
Attraverso questi tre elementi ci da una rappresentazione dello sport che non ha nulla di
ideale ed è la stessa che rispecchia la Milano di quegli anni e che troviamo in “Rocco e i
suoi fratelli”; sentiamo parlare di boxe per la prima volta da Nadia, che racconta di un pugile
che ha conosciuto e ha fatto un sacco di soldi, in quel momento Rosaria, la madre, ascolta e
costringe i figli ad andare in palestra: i Parondi vanno in palestra per cercare di fare soldi,
Simone continua la sua breve carriera perché pensa che sia un’alternativa più riposante e
remunerativa al lavoro, Rocco fa carriera per aiutare il fratello. All’unico incontro che Simone
vince egli viene fischiato dal pubblico di lucani perché ha sconfitto un pugile lucano
(rappresenta la Lucania mentre lui la Lombardia) ma non capisce cosa succede perché non
capisce questi ulteriori significati che vengono aggiunti intorno allo sport. Il motivo per cui
Girolami se la prende con questa rappresentazione dello sport ha a che fare con questi
elementi; sicuramente c’era da parte sua una questione personale: Girolami negli anni ‘30
faceva la boxe, negli stessi anni Walter Chiari fece lo stesso percorso, la sua famiglia era
emigrata dalla Lucania, aveva fatto il boxeur prima di spostarsi nel mondo dello spettacolo
(teatro - cinema). I due pensano ancora alla boxe nei termini idealizzati di quegli anni e
hanno nostalgia del loro passato che hanno abbandonato. Walter Chiari si era poi offeso per
non essere stato chiamato a interpretare “Rocco e i suoi fratelli” perché la sua vicenda era
molto vicina alla storia del film. Alcune sequenze del film: Sisini ci viene presentato mentre
sta ad osservare Rosario fuori dal ring con uno sguardo legato al solo interesse per il corpo
che ha davanti; c’è uno scambio di battute tra Sisini e l'allenatore che ha come obiettivo
quello di mettere in campo un primo equivoco tra l’intellettuale e il popolo = Sisini,
persona colta che ha fatto molte letture, fa tutto un discorso che l’allenatore non comprende,
è il tentativo dell’intellettuale di rapportarsi con il popolo che ha la pretesa di capire ma con
cui non è in grado di comunicare; quando gli dice che “quello farà strada” l’allenatore è
convinto che il personaggio che ha davanti non sa nulla del mondo della boxe, Girolami
corregge l’ipotesto scollegando il personaggio di Sisini dal mondo della boxe, è un
personaggio che va in palestra per altri motivi, non per il mondo della boxe, l’allenatore da
per scontato che non conosca i campioni. Nella seconda sequenza, quella al bar, Walter si
fa accompagnare al bar da un amico, Carlo, aspetta che arrivi Sisini che gli ha detto che c’è
la possibilità di guadagnare molti soldi, ma ingenuo come Simone di “Rocco” non ha capito
di cosa si tratti; arriva Sisini accompagnato da due donne, come Morini, che non sono
prostitute ma una poetessa e un’aristocratica (due modi per rimandare a Visconti, modo per
insinuare che Sisini di fatto è una sorta di alter ego di Visconti). Carlo è presentato come
Carlo Marx, anche altro modo per rimandare alla cultura di sinistra. C’è il discorso di Sisini a
Walter che è ricco di spunti culturali che Walter non coglie (pensa faccia riferimento a Dorian
Grey l’attrice quando in realtà fa riferimento a Oscar Wilde). E’ un modo di esplicitare
chiaramente i tentativi di seduzione da parte di Sisini ai danni di Walter, che non capisce
cosa succede. A tutto questo si associa la questione della produzione cinematografica: non
siamo di fronte a una satira del cinema d’autore (Visconti, Antonioni, Pasolini); tutte le figure
a cui si rimanda appartengono o rimandano al partito comunista, il che spiega il riferimento a
Pasolini e non a Testori, che avrebbe portato fuori strada. L’obiettivo di Girolami quindi è
Visconti, ma generalizzando l’accusa a tutta l’intellighenzia comunista, si tratta di una
parodia di destra, anticomunista, il discorso di Girolami coincide a quelli dell’estrema destra
che circolavano sui quotidiani e giornali ed erano tutti anticomunisti. In questi anni, quando
il centrismo viene meno, sulla stampa di destra sistematicamente si insinuava che il cinema
fosse controllato dai comunisti e che i comunisti di Cinecittà fossero tutti omosessuali. Un
articolo dedicato a denunciare il controllo che gli omosessuali comunisti hanno su Cinecittà
utilizza una foto dalle prove della sequenza dell’Idroscalo (Visconti chiama la stampa per
ingrandire ulteriormente lo scandalo) che viene rivenduta dalla stampa di destra come lo
scatto rubato di un momento di intimità tra Visconti e Salvatori, interprete di Simone;
arrivano a montare scandali e Girolami in un certo senso fa la stessa cosa: generalizzando il
suo attacco dal solo Visconti a tutta l'intellighenzia comunista rivolge la sua accusa a tutta la
cultura comunista che ruota intorno al mondo del cinema, rimanda le due offese del mondo
dello sport al mittente, ovvero la questione economica (Borghi come finanziatore del film che
Antonioni/Visconti/qualsiasi regista comunista vuole mettere insieme è come se dicesse che
nel mondo dello sport così come in quello del cinema girano dei soldi con gli stessi risultati e
le stesse premesse, i produttori non sono certamente comunisti, se c’è una corruzione nel
mondo dello sport è la stessa che c’è in quello del cinema). La seconda accusa che rimanda
al mittente è quella che ha a che fare con la sessualità: dice che nel mondo della boxe
queste cose non esistono (infatti Sisini non ha a che fare con il mondo della boxe) ma nel
cinema sì, e soprattutto tra i comunisti. In una sequenza per un equivoco Nicola viene
scambiato per uno che vuole fare un’audizione per il film che stanno mettendo in piedi; il
regista viene mostrato fissare Nicola esattamente come Sisini fissava Rosario, dice che ci
vuole un tipo alla Belmondo = richiamo all’offesa di Visconti che preferisce un attore
francese a Walter Chiari. La parodia di Girolami viene lavorata e pensata come un preciso
attacco ideologico che non ha nulla dell’omaggio di cui si parlava, non ha alcun rispetto per
il testo originale, fa una cosa che all’epoca solo la destra faceva e che invece persino la
cultura accademica si rifiuta di fare, creando una divisione tra autore reale (la sua vita
quotidiana di chi scrive l’opera) e autore implicito (il riflesso dell’autore che si può dedurre
dall’opera) = mettere in rapporto l’autore reale (esistenza, vita e nozioni biografiche) e le
opere che fa è un tabù, considerato un errore critico e sinonimo di rozzezza. In quegli anni
nessuno faceva questo tipo di cose, lo fa la critica di estrema destra in queste forme volgari,
rozze e offensive andando a colpire la vita privata del personaggio (quando si parla di
omosessualità ad esempio si legge “Rocco e i suoi fratelli” alla luce di quello che si sapeva
su Visconti). Riuscivano così a cogliere qualcosa che la critica di sinistra non riesce o se
coglie si rifiuta di dire, ovvero che c’era un rapporto tra Visconti persona e le sue opere, per
via di quella concezione del melodramma fondamentale nella sua ispirazione poetica e
anche nel modo in cui veicola nel suo lavoro la propria ideologia, mai separata da un
discorso sul privato che ha a che fare innanzitutto con la sessualità, a partire da
“Ossessione”. “Walter e i suoi cugini” fa proprio questa cosa qui, sfonda quella parete di
carta e rimanda l’accusa a tutto l’ambiente di registi, intellettuali, scrittori che ruotavano
intorno al partito comunista e, secondo quelle cronache, controllavano Cinecittà. Se
prendiamo seriamente “Walter” ci dice qualcosa di significativo su Visconti, “Rocco e i suoi
fratelli” e la sua poetica in generale. Partendo da un prodotto basso, semplice, appartenente
alla sfera popolare e mai preso seriamente, prendendolo sul serio ci porta a scoprire una
serie di cose che per anni sono state sottovalutate o sono scomparse dall’orizzonte critico.
Sul piano della lingua, Visconti adotta un accento dialettale (sia per meridionali che per
milanesi) che permette ai personaggi di esprimersi in un italiano sufficientemente corretto da
poter essere inteso dallo spettatore comune. Inoltre, i dialoghi di tutti i personaggi di tutte le
redazioni delle sceneggiature sono in italiano standard. Dal punto di vista culturale la
questione è complessa: Foot giudica il film un “fallimento politico”, in quanto rinforza gli
stereotipi e il razzismo contro gli immigrati meridionali nel nord; in realtà, tra le opinioni del
pubblico dell’epoca, nessuno si lamenta del modo in cui sono rappresentati i meridionali, e
anche tra i pareri pubblicati dai giornali meno favorevoli a Visconti vi è chi vede in “Rocco”
un insegnamento di tolleranza o un ritratto realistico del Meridione. Al contrario tra le opinioni
raccolte poche settimane dopo fra gli spettatori dell’”Arialda” l’offesa razzista emerge con
evidenza ed è tra i motivi dei sollevamenti del pubblico a Roma e a Milano, laddove “Rocco”
viene contestato solo per lo stupro e l’uccisione di Nadia, la colluttazione tra i fratelli e la
sequenza a casa di Morini. La differenza tra “Rocco” e “L’Arialda” consiste nella diversa
varietà di voci messe in campo: Arialda è una donna del Nord il cui razzismo non conosce
alternative, mentre nel caso di “Rocco” le retoriche del melodramma assicurano una diversa
vicinanza rispetto ai personaggi, diversificati nei loro valori e punti di vista, da cui è più
semplice prendere eventualmente le distanze. Tuttavia concentrando i luoghi comuni su
Rosaria e Simone (i due personaggi più importanti della famiglia, insieme a Rocco), Visconti
corre il rischio di farli prevalere, ma il regista non sconfessa i suoi personaggi, dicendo ad
esempio di volere Rosaria proprio così, melodrammatica, nervosa, invadente, autoritaria: nel
film le sue uscite più sovraccariche si collocano nel confronto con Nadia, quando l’accusa di
aver rovinato Simone, e in quello con Ciro, quando minaccia di denunciare il fratello. Nel
caso di Simone si insiste sulla pigrizia: ha un’espressione delusa nel momento in cui crede
che Morini voglia proporgli un lavoro esterno alla boxe (modo per mettere in chiaro che
Simone non concepisce lo sport come un lavoro ma semplice occasione di facili guadagni);
persino quando Luca giunge al cantiere per annunciare a Vincenzo lo sfratto, Simone è
l’unico operaio colto in pausa, mentre si rinfresca alla canna dell’acqua, circondato da
colleghi operosi. Già il giorno della nevicata Simone è l’ultimo ad alzarsi. Tutto questo
presenta Simone come un personaggio propenso ad approfittare senza moderazione delle
occasioni che gli si offrono: più che corromperlo, la città esaspera i difetti che sono già nella
sua natura.
Ciro e Vincenzo non hanno un peso ragguardevole nel film, sebbene si assista a un certo
incremento della loro importanza (poi ridimensionata) nelle prime sceneggiature rispetto ai
trattamenti. Vincenzo è subito introdotto in negativo rispetto ai parenti: atteso alla stazione,
non si presenta, e Rosaria cerca di compensare la delusione mostrando al controllore del
tram la sua versione idealizzata di Vincenzo (due foto del giovane in divisa militare), da cui
Visconti stacca su un’immagine quasi solenne di Vincenzo con Ginetta alla loro festa di
fidanzamento. Vincenzo è dunque un’assenza, quindi una fotografia, poi una fotografia che
si anima, ancora una fotografia: non fa più parte della famiglia né della sua realtà, tanto che,
appena riunita al figlio, la madre nota subito che non porta il lutto del padre, insinua
l’impossibilità del suo matrimonio e mette a rischio i suoi rapporti con la fidanzata. Sul piano
professionale Vincenzo pensa solo a raggiungere un impiego fisso, su quello personale il
matrimonio. Anche nel “capitolo” a lui intestato Vincenzo rimane una figura accessoria e
assume rilievo solo quando è messo in relazione con Ginetta. Per il resto, il suo è un ruolo
strumentale: deve fare da ponte fra la Lucania e Milano per l’intera famiglia, la sua carriera
nella boxe serve solo per lanciare quella dei fratelli, la sua presenza a Lambrate è
strumentale all’introduzione di Nadia… Il ruolo di Ciro è altrettanto esile, pur essendo il
portavoce del punto di vista ideologico di Visconti. Occorre attendere tre quarti d’ora perché
lo si veda emergere dal coro, peraltro in una sequenza in cui la sua attività risulta
incomprensibile allo spettatore senza le sceneggiature alla mano; è un fatto rilevante,
trattandosi del personaggio il cui percorso professionale doveva essere quello politicamente
più significativo. Il breve confronto con Luca serve poi solo ad avviare il contrasto che
opporrà fino alla fine Ciro e Simone. Gli studi serali e una sola inquadratura diluita in una
breve sequenza a episodi (quando Rocco legge la lettera della madre) è tutto quello che
rimane della sua evoluzione professionale. Con il passaggio alla sceneggiatura Visconti
amplia l’importanza di Ciro e Vincenzo, mettendo da parte il modello manniano: i due
iniziano un servizio di autotrasporti da Milano alla Lucania, ma ripagando i debiti di Simone
mettono a rischio il loro progetto, abbandonato dopo che Rocco ha perso la ragione. In una
delle prime versioni della discussione fra Ciro e Vincenzo, questi trova il fratello nel mezzo di
uno sciopero: nella D, lo sciopero chiude il film e dà l’occasione a Ciro di esporre una prima
forma della morale della storia. Visconti però abbandona lo spunto della ditta di importazioni
e quello dello sciopero, scelta di cui forse si pente assistendo alla crescita delle agitazioni
sindacali nei mesi in cui gira il film, che culminano in due settimane di sciopero alle catene di
montaggio dell’Alfa Romeo. Inoltre nell’unica occasione in cui vediamo Ciro in fabbrica ci
viene mostrato il giovane sorridente alle prese con un motore, aiutato da un compagno di
lavoro in quella che ha tutta l’aria di essere una fabbrica modello, pulita e asettica. = Il tema
del lavoro, che era giunto a circoscrivere l’intera sceneggiatura, rientra progressivamente e
risulta infine drasticamente contratto. Per il resto, Ciro ha sempre e solo un ruolo di spalla: il
suo capitolo serve solo a ribadire la funzione accessoria del personaggio, rendendo evidenti
le ellissi narrative relative al suo percorso (scopriamo che ha una fidanzata, Franca, di cui
non si è mai parlato). L’ultima parte del capitolo a lui intitolato non lo riguarda nemmeno più:
è il lungo montaggio alternato fra l’incontro che incorona Rocco campione e l’uccisione di
Nadia. Ciro riprende importanza solo quando minaccia di denunciare Simone contro la
volontà di tutti gli altri (sebbene poi non faccia nulla), per giungere a essere protagonista
solamente nel finale.
In molti si interrogano sul perché le pugnalate che uccidono Marion in “Psycho” non
provochino le stesse reazioni di quelle che straziano Nadia: questo avviene perché la
censura si muove contro un film che “è sospetto di avere veleni ideologici, dei quali il buon
Hitchcock è notoriamente immune”.
PSYCHO - ALFRED HITCHCOCK (1960) e HOMICIDAL - WILLIAM CASTLE (1961)

La riscrittura di Castle ha un risvolto comico che in “Psycho” non c’è, si presenta come uno
sforzo serio di misurarsi con il modello fissato da “Psycho”. Castle era un regista “di serie B”,
faceva film a budget ridotto appartenenti al genere del cinema dell’orrore, all’epoca molto
svalutato e considerato un cinema per giovani, per un pubblico giovanile. Castle faceva
questo tipo di cinema inserendosi in una tradizione artigianale; era poi notorio per quello che
in inglese si chiama gimmick, una sorta di trucco da baraccone = si dava un gran da fare
per pubblicizzare i suoi film in prima persona presentando il gimmick di turno, ciascun
gimmick era associato a un film e serviva ad esaltare lo spavento che i film dovevano
trasmettere. Quando “Psycho” esce nelle sale rappresenta una novità dirompente, sia nel
percorso di Hitchcock che nel contesto del genere in cui si inserisce, il cinema dell’orrore; è il
primo film dell’orrore a cui Hitchcock si dedica, non aveva mai preso in considerazione i
giovani come target, ma in questo momento c’era una spinta molto forte verso forme nuove,
quelle della modernità = in questo film si mette in gioco approfittando del fatto che se lo
produce da sé, mettendo insieme una produzione piuttosto economica, ritornando al
bianco e nero e lavorando con una troupe televisiva (quella dello show che Hitchcock
conduceva - “Alfred Hitchcock presenta” - e che lo ha reso un’icona popolare). La casa di
produzione con cui lavora si limiterà poi a distribuire il film (sarà la fortuna di Hitchcock,
“Psycho” sarà il suo più grande successo). La novità in questione lascia di stucco Castle,
che si vede surclassare da un Hitchcock al suo primo esperimento nel genere. La
trasformazione di Hitchcock è percepita come radicale: un articolo di “Life”, dedicato alla
sostanziale inutilità del codice Hays, fa riferimento a Hitchcock e alla sequenza che conclude
“Intrigo internazionale” = storia di spionaggio, il protagonista è un uomo che nel corso della
vicenda si allontanerà sempre di più dalla madre per avvicinarsi alla ragazza che ha
incontrato; nell’ultima sequenza la censura costrinse Hitchcock a far capire al pubblico che i
due si erano sposati, contro la sua volontà. Per vendicarsi egli inserisce un’ultima
inquadratura in cui il treno entra in una galleria, e lì il film si chiude (metafora di ciò che il
cinema pornografico rappresenta). E’ una soluzione sofisticata che passa alla censura e
viene da lui considerata la sua sequenza più osè. La maggior parte degli spettatori non la
prende sul serio e non la trova così scabrosa, Hitchcock viene preso come modello di
raffinatezza nel rapportarsi con la censura. Nello stesso articolo viene intervistato Billy
Wilder, altro regista che promette di fare qualche cosa di scandaloso con “L’appartamento”,
egli suggerisce ironicamente di pensare a una categoria per soli bambini anziché che per
soli adulti per questo genere di film. Quando “Psycho” esce nelle sale la stessa rivista
pubblica una fotografia che rappresenta Hitchcock non proprio come l’emblema di
raffinatezza che incarnava a febbraio (spunta dalla vegetazione, con il pugno chiuso stritola
un bocciolo di rosa, l’espressione del sadico appagato e le cavità vuote da cui fuoriesce
sangue al posto degli occhi). A dicembre lo stesso giornale pubblica un altro articolo
inserendo come emblema di dove siamo arrivati nel cinema di sensazione, di sesso e
sadismo, proprio Hitchcock. Nel giro di pochi mesi e con un solo film l’immagine di Hitchcock
presentata da “Life” è totalmente ribaltata = questo dà la misura della novità e del rischio che
Hitchcock si prende con questo film. “Homicidal” è la risposta a questa improvvisa discesa
di Hitchcock nel genere, Castle cerca di sfidare Hitchcock e il suo successo prendendolo sul
serio ma senza nessuna riverenza; pensa a come trovare un espediente commerciale più
efficace di quello che aveva usato Hitchcock, anche lui si mette in gioco in prima persona
per pubblicizzare il film. L’idea su cui Hitchcock punta è che il film va visto dall’inizio alla fine,
la pretesa di Hitchcock che gli spettatori non possono entrare a film già iniziato era una
novità talmente grossa che bisognava spiegare ai gestori di sala come fare; è anche per
questo che Hitchcock non vuole mandare il film a Venezia, perché se ne sarebbe parlato
troppo e si sarebbe perso il piacere di gustare la fine del film. L’espediente messo in piedi da
Hitchcock è dettato dalla novità del film: per la prima volta gira un film che non è basato
sulla suspence ma su quello che Hitchcock riteneva l’opposto della suspense, cioè la
sorpresa. Il regista rilasciava una quantità enorme di interviste in cui diceva sempre le
stesse cose, aveva un repertorio studiato e controllato di dichiarazioni, quando vi inserisce
qualcosa di nuovo vi da una forma che rimane quella fino alla fine; quando gli chiedevano
della suspense egli faceva l’esempio della bomba: c’è una bomba sotto a un tavolo attorno a
cui i personaggi chiacchierano, o racconta allo spettatore della bomba che c’è sotto il tavolo
- tramite montaggio analitico - producendo suspense (quando lo spettatore sa qualche cosa
in più rispetto ai personaggi), serve a coinvolgere emotivamente il pubblico ed è qualcosa
che si può dilatare nel tempo. La sorpresa invece si ha quando il pubblico non viene
avvisato del pericolo imminente, non gli viene detto della bomba, il pubblico è sorpreso
quanto i personaggi (ha impatto più forte ma si esaurisce in un attimo). Hitchcock preferiva
la suspense perché amava sperimentare con il linguaggio e la tecnica cinematografica e ha
sempre ben presente quella che è la risposta che lui vorrebbe ottenere dal pubblico (nelle
interviste dice che il pubblico deve essere suonato come un organo, deve essere costretto a
provare, pensare ed aspettarsi qualche cosa in particolare, il film era riuscito quanto
Hitchock riusciva a controllare il pubblico). “Psycho” è il primo film che gira basato sulla
sorpresa. Negli anni ‘50/’60 veniva definito “il re del melodramma” = per melodramma si
intende il melodramma concepito dal teatro popolare tra fine ‘800/inizio ‘900 che racconta
storie piene di risvolti imprevisti e vicende più grandi del normale; in un certo senso
“Psycho”
è un melodramma, ma dal punto di vista retorico le cose cambiano radicalmente; si fonda su
due grandi sorprese che il pubblico non ha nessun modo di prevedere: la morte di Marion, si
colloca a metà del film, e la rivelazione dell’identità dell’assassino, si colloca verso la fine del
film (non manca la suspense, si ha quando l’ispettore privato entra nella casa di Norman e
sale al primo piano e si aspetta di trovarsi una vecchietta innocua quando lo spettatore sa
che innocua non è lol). E’ una novità il fatto che ingaggi un’attrice e la faccia uccidere? rivedi
questa parte. Il primo problema che si pone Castle è di trovare un espediente che sia
all’altezza della scelta di Hitchcock di non entrare in sala dopo l’inizio del film e di raccontare
ad altri il film in modo da non rovinarne il finale. La sfida commerciale che Castle si inventa è
di distribuire davanti alle sale dei certificati che gli spettatori potevano sfruttare per
uscire dalla sala durante il fright break e chiedere sempre allo spettatore di non rivelare il
finale; fuori dalla sala metteva il cartoncino del “L’angolo del codardo”, dove le persone che
usavano il certificato si riunivano e che lui intervista - seleziona le interviste che lo
preferiscono a Hitchcock. Per compensare la perdita della sorpresa si inventa: nel 1960 ben
pochi fuori dagli USA e dai cahiers ? forma e contenuto ? far passare l’idea che il cinema di
Hitchcock non fosse soltanto un semplice cinema di intrattenimento ma presentasse anche
una visione del mondo, in particolare della società americana, ben precisa caratteristica di
Hitchcock. Robin Wood scrive come primo articolo un saggio su “Psycho” che manda alla
rivista “Sight and Sound” che apparteneva alla linea conservatrice della critica
cinematografica, che non ammetteva che Hitchcock potesse essere considerato un grande
autore; il saggio di Wood vuole dimostrare che “Psycho” era un film denso e carico di
commenti sul mondo e la società contemporanea, “Sight and Sound” rifiuta l’articolo che
Wood allora traduce in francese e manda ai “Cahiers du cinema”, che lo pubblica
immediatamente perché in linea con il suo pensiero. Il primo libro che Wood scrive è il primo
libro dedicato a Hitchcock, esce nel ‘65, in questo libro ritroviamo il saggio del ‘60 dal titolo
“Psicoanalisi di Psycho” = Wood se la prende con Hitchcock che andava sempre
dichiarando che “Psycho” non era un film serio - spaventato dal successo che stava avendo
- ma un meccanismo per intrattenere il pubblico, Wood arriva a paragonare “Psycho” per le
rivelazioni che ci fa sulla società contemporanea ai lager nazisti. Secondo lui “Psycho” è un
film da prendere molto sul serio perché ci dice qualcosa sulla natura dell’uomo
attraverso la psicoanalisi e sulla società contemporanea e i suoi lati più negativi e
inquietanti, esattamente come i lager nazisti ci hanno dimostrato il punto in cui l’uomo in
generale è arrivato. Il libro “Hitchcock’s films” si apre con una domanda retorica: “dobbiamo
prendere Hitchcock sul serio?”, la risposta è ovviamente positiva. I paragoni paradossali che
Wood utilizza ci dicono qualcosa sui freni che ancora c’erano, sente di avere ancora la
maggior parte della critica contro, gioca prendendo posizioni provocatorie verso la critica
rivendicando la necessità di prendere sul serio anche ciò che appartiene alla cultura
popolare. Fino a che punto dobbiamo prendere Hitchcock sul serio? Leggendo le
dichiarazioni di Hitchcock sembrerebbe che di serio non ci sia nulla, ma gli autori sono i
peggiori interpreti di sé stessi + l’enorme successo di “Psycho” (viene ripreso e riscritto
continuamente) ci dice che non era un semplice giocattolo. Quando pochi anni dopo il film
viene redistribuito vengono create delle locandine che indicano il momento esatto in cui
muore Marion, si dà per scontato che di lì a pochi anni ormai tutti sappiano tutto di “Psycho”.
La prima sequenza si apre con una versione sofisticata di un establishing shot, importante
perché serve a capire l’entità e il carattere scabroso della sequenza successiva; già la
didascalia è molto particolare, ci da il giorno e l’orario preciso e mette in gioco una prima
caratteristica importante: il voyeurismo (=vedere senza essere visti), entriamo dalla finestra
di nascosto in un momento di intimità tra i due personaggi che troviamo ancora svestiti in
una stanza di motel (forte valore connotativo) nel primo pomeriggio, tutto serve a creare
un’aura di scabrosità. E dal punto di vista della messa in scena Hitchcock fa tutto quello che
può per rendere scabrosa la sequenza: il codice Hays dice che quando c’è un solo letto
nella stanza solo uno dei personaggi vi può stare sopra, Hitchcock trasgredisce questa
regola. E’ una scena talmente scandalosa che la censura gli chiede di rigirarla, accetta
l’appuntamento per rigirarla davanti al censore, il censore non arriva e la sequenza rimane
come era stata pensata dal regista. A renderla più scabrosa è il dialogo molto insinuante,
tant’è che molti spettatori dell’epoca parlano di adulterio, in realtà abbiamo un personaggio,
Marion, neanche sposato, e un altro, Sam, che è divorziato: fatto è che non sono sposati tra
loro. Nel dialogo si inseriscono una serie di indicazioni che ci fanno capire che le cose sono
più complicate di quello che sembrano: Marion vuole sposarsi ma a Sam piacciono questi
incontri un po’ nascosti, Marion dice chiaramente a Sam di volersi sposare per una
questione puramente formale, è un personaggio che ha una moralità che non è quella che si
aspetterebbe nell’etica del 1960 che trovava disturbante questa sequenza = è un
personaggio più cinico di quanto ci possa sembrare, è un personaggio moderno. E’ uno
degli esempi che ci dicono come Hitchcock stia giocando con un piede nel cinema classico e
uno nel cinema moderno, come dimostrato dalla complessità e ambiguità dei due
protagonisti (Marion e Norman) = Marion dovrebbe essere un’eroina ma lo è fino a un certo
punto, è il personaggio con cui Hitchcock ci costringe a identificarci per tutta la prima parte
del film (così che la sorpresa della sua morte sia più grande) ma ci viene presentato con una
morale discutibile e anche come una ladra. Marion è un personaggio nevrotico -
condizione normale - mentre Norman è un personaggio psicotico - condizione patologica
che consiste nel perdere il contatto con la realtà di fronte a un trauma troppo grande per
essere affrontato, ossia il patricidio e matricidio di Norman, il personaggio ricostruisce una
realtà in cui non affronta questo trauma. Aspetta non ho sentito l’ultima frase.
La seconda sequenza è classica ma interessante: in questo scambio di battute emergono
questioni interessati espresse in forma allusiva, retorica di battuta, ma che hanno un ruolo
fondamentale nel film; c’è un concetto di famiglia che coinvolge tutti i personaggi, anche
quelli minori. Nella prima sequenza Sam parla del padre e dei debiti che ha da lui ereditato
(+ fallimento di un secondo matrimonio, alla cui moglie deve pagare gli alimenti), ogni
personaggio si presenta con i suoi problemi famigliari, anche la collega di Marion (tra l’altro
figlia di Hitchcock), che contro l’infelicità propone delle pillole tranquillanti da cui lei è
dipendente e che prende ogni giorno dal suo matrimonio, fattegli scoprire dalla madre;
Cassidy, milionario, dice che il suo sistema per risolvere l’infelicità sono i soldi, tanto che sua
figlia non ha mai conosciuto un giorno di infelicità; “non porto mai con me più contanti di
quanti possa permettermi di perderne” è un modo di suggerire a Marion di rubarli, di
comprarla con quei soldi (nel libro le allusioni sessuali sono molto più esplicite). Nulla nel
comportamento di Marion ci fa pensare che ruberà i soldi. Stefano e Hitchcock cambiano
sensibilmente il carattere di questi due personaggi, Cassidy e ? principale di Marion,
rendendoli sostanzialmente innocui, mentre nel romanzo Marion descrive il principale come
uno strozzino che per cinque cents avrebbe ucciso tranquillamente una delle sue impiegate,
quindi l’offesa che Marion gli faceva era tutto sommato comprensibile, nel film no. Nel taglio
di passaggio tra la seconda e terza sequenza Marion prende la decisione di rubare i soldi (è
un personaggio istintivo); è una sequenza costruita in modo più complesso: c’è un
movimento di macchina che è l’equivalente del raccordo sullo sguardo ma senza la
soggettiva del personaggio, vediamo prima Marion che guarda qualcosa poi la busta di soldi,
poi la macchina si sposta sulla valigia e ci fa capire che non si è dimenticata i soldi ma ha
deciso di rubarli. Marion ancora non è convintissima di questa decisione, mette in gioco una
serie di sguardi importanti legati al personaggio: a prendere Hitchcock sul serio furono
soprattutto le femministe degli anni ‘60, il testo fondamentale della critica femminista di
Lora? uscita sulla rivista “Screen”, in questo saggio sostiene una teoria per cui il cinema
classico è fondato su un duplice gioco di sguardi, per cui le donne non hanno mai il dominio
sullo sguardo e sono solo l'oggetto guardato, a dominare lo sguardo sono gli uomini (degli
attori, dei registi e dello spettatore ideale a cui si pensa quando si fanno i film a Hollywood).
Essa solleva un problema, perché “Psycho” nella gestione degli sguardi è un film poco
classico (nel cinema due sono gli sguardi importanti, la soggettiva e il suo opposto, lo
sguardo in macchina). La prima parte del film è piena di soggettive di Marion e sguardi in
macchina, spesso di Marion. Il film è una continua infrazione delle regole sullo sguardo del
cinema classico, in tutta la prima parte fino all’incontro con Norman è Marion ad avere la
gestione degli sguardi e ad essere sempre presente = è una focalizzazione interna fissa (il
rapporto che c’è tra il sapere del personaggio e il sapere del lettore/spettatore; se il sapere
coincide si parla di focalizzazione interna). La scelta di focalizzare su Marion la prima parte
del film serve a generare la sorpresa enorme che è la sua morte; nonostante ci presenti
questo personaggio complesso fa di tutto per spingere lo spettatore a identificarsi con lei. Le
tre soggettive sui soldi servono a sottolineare la loro importanza e l’incertezza di Marion.
Questa continua insistenza sui soldi che torneranno in scena fino alla morte di Marion ma
anche dopo è farina del sacco di Hitchcock, mentre nel romanzo vengono citati una sola
volta nel momento in cui Marion è in ufficio. In realtà i soldi sono una falsa pista, non sono il
motivo per cui le cose si muovono: tutto sembra ruotare intorno ai soldi, ma alla fine essi non
spiegheranno niente. Lo sguardo in macchina di Marion che rompe la quarta parete mentre
guida e chiama lo spettatore in causa si ha quando sente delle voci che non si sa se hanno
avuto una realtà oggettiva o sono ciò che Marion si immagina diranno l'in domattina in
ufficio. Passa poi Lowery con Cassidy, lo sguardo in macchina di Lowery è giustificato dalla
soggettiva di Marion, il cui sguardo è sempre quello dominante. Lowery capisce che c’è
qualcosa che non va perché Marion era tornata a casa perché non stava bene. Le luci si
intorpidiscono con il suo sguardo ed entra in scena un personaggio che è invenzione di
Hitchcock e Stefano, il poliziotto, che in un certo senso è un voyeurista pure lui (guarda nel
finestrino della macchina mentre Marion dorme). Sguardo in macchina del poliziotto sempre
mediato dalla soggettiva di Marion. Battuta del poliziotto piuttosto sadica: dice che è
pericoloso dormire sul ciglio della strada, avrebbe dovuto dormire in un motel. Simile alla
battuta di Cassidy sui soldi. Questi due personaggi maschili di potere spingono Marion verso
le sue decisioni, come se la dovessero punire per qualcosa che ha fatto prima?? Marion fa
poi qualcosa che non ha senso e ci dice del suo carattere impulsivo: si ferma a cambiare
l’auto con l’intenzione di far perdere le sue tracce, iniziando a spendere quei 40mila dollari e
assumendo un atteggiamento sospetto, il venditore dice che per la prima volta un acquirente
ha così tanta fretta. Nel frattempo arriva il poliziotto che si ferma ad osservarla, lei
comunque non cambia idea, continua a cambiare la macchina sotto lo sguardo del poliziotto.
Il poliziotto esce poi di scena senza fare niente, come se il suo ruolo fosse di assicurarsi che
Marion arrivi al motel senza cambiare idea.
Il suo sguardo viene reso insignificante dalla luce e dall’acqua, che sono gli stessi elementi
che le impediranno di capire chi la sta uccidendo. Ha sbagliato strada e arriva al motel,
continuo gioco di sguardi che ormai non vedono più nulla se non la scritta del motel che
indica salvezza. Hitchcock gioca a ingannare lo spettatore, cosa che a suo tempo era stata
rinfacciata allo scrittore del romanzo “Psycho”. Il romanzo di Bloch inizia dentro casa ?, con
Norman che parla con la madre, facendoci pensare che sia ancora viva: ogni capitolo del
romanzo era focalizzato su un personaggio differente, ogni sapere che viene messo in
campo è quello del personaggio, nel caso di Norman riguarda la sua convinzione che la
madre è ancora viva. Dal punto di vista di Hitchcock che ci fa vedere un personaggio
femminile che attraversa la finestra è una vera e propria presa in giro, appena Marion suona
il clacson esce Norman in abiti civili e ci fa pensare che i due personaggi siano differenti. C’è
un’altra di quelle sequenze che sembrano di raccordo ma in realtà succede qualcosa di
importante: Norman fa firmare il registro a Marion e le da la chiave della stanza, Norman ci
ha appena detto che la sua attività è fallimentare e abbiamo una soggettiva di Marion che ci
mostra lei che firma il registro, ma poco prima Norman abbassa gli occhi sul registro, guarda
anche lui quello che vediamo noi = il raccordo sullo sguardo riguarda lo sguardo di Norman,
ci fa capire che Norman osserva e capisce per via di quella piccola pausa che Marion (che
firma con un nome falso) non è chi dice di essere, nonostante sembri un ragazzino è molto
sagace. E’ la prima soggettiva di Marion che sposta l’attenzione su un altro personaggio.
Quando si gira abbiamo un’altra inquadratura che è equivalente di una soggettiva, ci fa
capire che prende ispirazione dal giornale per dire da dove viene. Norman non sta
guardando ma è come se lo facesse, si ferma un attimo (stava dando la chiave della stanza
3 ma poi le dà quella della 1, ha già deciso che la vuole spiare, il suo destino). Anche in
questo momento in cui non sembra succedere nulla in realtà Marion sta perdendo terreno e
Norman lo sta guadagnando, inizia lo scontro fra i due. Marion sorride perché si sente al
sicuro e anche superiore rispetto a questo ragazzo un po’ impacciato che non riesce
nemmeno a pronunciare la parola “bagno”. Sentiamo poi per la prima volta la voce della
madre attraverso una soggettiva sonora sempre di Marion; il dialogo è emblematico, la
madre insinua che Norman provi attrazione verso questa signorina equivoca, ragione per cui
Norman le porta direttamente il cibo invece di farla mangiare a casa come aveva deciso.
Abbiamo le ultime soggettive di Marion che riguardano alcuni uccelli impagliati che ci
possono dare l’idea del destino che l’attende ma che ora non possiamo comprendere. Il
lungo dialogo è diviso in tre frammenti che Hitchcock sottolinea con un cambio di
inquadrature: il primo è inquadrato con questo campo/controcampo e parlano di
sciocchezze; ad un certo punto Marion fa un commento sulla madre che altera Norman (se
ne esce con una battuta che è una dichiarazione incestuosa “la madre è il miglior amico di
un ragazzo”). Dice poi che tutti abbiamo delle trappole in cui rimaniamo incastrati e che lui
nella sua ci è nato (rimanda alla famiglia come trappola). Al commento di Marion sulla madre
la prospettiva su Marion è cambiata più vicina, anche su Norman (sembra che sia uno dei
rapaci sullo sfondo che dominano lo schermo). Alle spalle di Norman c’è un quadro molto
allusivo, ?, che lui sposterà per spiare Marion. Seconda battuta allusiva incestuosa ?. Il
secondo errore di Marion, che suggerisce di chiudere la madre in un manicomio, comporta
un cambiamento di inquadratura, siamo più vicini sia a Marion che a Norman, cambio
giustificato dalla tensione che si va a creare tra lei e Norman. Le sue parole ci fanno
intendere che Norman è già stato in un manicomio.
Marion si tradisce una prima volta, dice che deve tornare a Phoenix e non a Los Angeles, il
discorso che ha fatto con Norman l’ha portata a pentirsi e a voler tornare indietro. Si tradisce
una seconda volta dicendo il suo vero nome, che non è quello che ha scritto sul registro.
Mentre Marion torna in camera è la prima volta che rimaniamo senza di lei, se n’è andata e
rimaniamo con Norman. Poi lui sposta il quadro per spiarla, sentendosi quasi giustificato
perché sa che Marion nasconde qualcosa, prima ne aveva il sospetto ora ne ha la conferma.
Norman prende possesso della soggettiva attraverso un forellino nel muro, viene inquadrata
Marion dall’altra parte del buco mentre si spoglia e si prepara per fare la doccia. Quando nel
finale lo psichiatra spiega il caso di Norman in maniera semplice, con Norman che risponde
ad una sollecitazione erotica (Norman che vede Marion che si spoglia) entrando in crisi
psicotica, subentra poi la madre che uccide la fonte della sollecitazione. Rientrando in casa
sembra voler andare al primo piano ma invece si siede in cucina a riflettere. Marion nel
frattempo fa i conti perché ha deciso di restituire i soldi, butta il foglio nel water (per la prima
volta nel cinema viene mostrato un water in dettaglio!!).
La morte di Marion: si tratta di quello che Metz chiama sintagma non autonomo = un
pezzo di una sequenza molto più lunga, che comincia con l’arrivo di Marion al motel e non
ha più ellissi temporali fino all’operazione di ripulitura della stanza da parte di Norman. E’ il
momento in cui la trasparenza del cinema classico è qualche cosa che non viene presa in
considerazione: sono molti gli interventi dell’autore che raggiungono un livello complesso e
la messa in scena diventa quasi la protagonista. Durante questo momento Hitchcock
continua a giocare con soggettive e sguardi in macchina: mentre Marion appare in piena
luce, la sagoma della madre è giocata in controluce in modo da non vederla in volto
(giustifica la seconda sorpresa del film); le inquadrature sulla madre sono delle soggettive su
Marion. Gli elementi che interferiscono con la chiarezza dello sguardo sono gli stessi che
l’hanno portata al motel, ovvero acqua e luce che le arrivano direttamente negli occhi. C’è
una serie di inquadrature che dobbiamo invece intendere come delle soggettive della madre.
In questo momento il dominio degli sguardi passa definitivamente a Norman. Dopo
l’assassinio di Marion il ritmo rallenta significativamente, il movimento che collega il sangue
che scende nello scarico con l’occhio di Marion con un movimento molto sofisticato ed
elegante che mette in comunicazione la finta causa della sua morte - i soldi - e la vera causa
- Norman (il movimento fa scarico - occhio - soldi - casa). E’ la sequenza più forte del film:
si tratta di una sorpresa preparata da tutto quello che ha preceduto, non era poi mai
successo nel cinema che la protagonista morisse così presto, non c’era nulla che lo
lasciasse sospettare (il trailer è fatto per sviare lo spettatore), è la sequenza più violenta che
Hitchcock abbia mai girato - di solito gli omicidi avvengono sempre fuoriscena, se ne vedono
solo le premesse o le conseguenze - qui è rappresentato in connessione con un forte
erotismo; ci sono molte testimonianze di spettatori dell’epoca che si trovano a disagio
perché molto attraente dal punto di vista erotico. Hitchcock non lascia allo spettatore il
tempo per metabolizzare questa morte, la sequenza successiva, nonostante sembri servire
proprio a questo, va invece ad accentuarla ancora di più: si vede ripetutamente e in modo
insistente il sangue. In questa sequenza il testimone dello spettatore è passato a Norman,
che sembra un ragazzo qualunque che cerca di rimediare il danno fatto dalla madre per
proteggerla, ci troviamo spostati dalla sua parte e siamo spinti a partecipare alla tensione
che lui prova per il timore di essere scoperto. Da un certo punto di vista è una visione un po’
misogina da parte di Hitchcock, come se Marion nel morire sporcasse tutto, paragonata a
qualcosa che produce sporcizia (verrà gettata in una palude). Hitchcock insiste su tutti i
dettagli dell’operazione e sulla sofferenza/disgusto di Norman che prova per il cadavere e
per il sangue. Norman raccoglie tutto, pezzo per pezzo, e per ultimo il giornale, di cui si
ricorda solo alla fine; non fa caso al fatto che siano i soldi dentro, lo scopre solo alla fine del
film. Dopo una breve ellissi c’è un’ultima idea che ci fa simpatizzare con Norman: la
macchina sembra non affondare nella palude (Norman che fissa ansioso la macchina con i
suoi tic nervosi). Questi meccanismi di identificazione sono amorali e manipolati tramite il
linguaggio, non riguardano il valore morale del personaggio con cui Hitchcock ci fa
identificare.
Il finale è un finale triplice: il primo è quello in cui Lila scopre il cadavere della madre, la
seconda grande sorpresa del film, è un momento di tensione e suspense (Laila si è
intrufolata in casa con la convinzione di trovare una anziana signora con cui parlare, non sa
cosa la aspetta); questo finale contiene una duplice reazione di Laila nei confronti di ciò a
cui deve assistere: la prima è quella di fronte al cadavere della madre, è una reazione
prevedibile che gioca su elementi tipicamente gotici (Hitchcock si diverte a inserire elementi
gotici nel film, primo fra tutti la casa), si tratta della paura e l’urlo di spavento, ma anche qui
Lila non ha il tempo di elaborare lo spavento, perché si deve confrontare con un’altra
creatura spaventosa (Norman vestito dalla madre), il suo sguardo è diverso, non è più
spaventato ma sorpreso, è uno shock diverso, un orrore che non è più fisico ma cognitivo, è
la sorpresa di fronte a qualcosa che non capisce = una creatura che è un insieme di
contraddizioni, uomo e donna, madre e figlio, mostro e uomo, che nel film si fondono
insieme. L’ambiguità contamina elementi che sono propri del genere, “Psycho” è indicato
come uno dei film che aprono all’horror moderno e al new horror. Hitchcock studia bene la
scena per mostrare Norman che si spoglia, come se venisse partorito dalla madre. Il
secondo finale è quello che viene spiegato, si tratta di una pretesa razionalizzazione di un
finale che non è razionalizzabile (finale banale, Hitchcock aveva pensato di tagliarlo per
paura che il pubblico si annoiasse, rispetta le regole del cinema classico). L’unica chiave di
lettura utile che deriva da questa lunga sequenza (che ha la pretesa di spiegare tutto e in
realtà non spiega nulla) è che si è trattato di crimini di passione e non di profitto. Nel
romanzo c’è questa spiegazione, ma non viene data dallo psichiatra in prima persona, è
Sam che la riferisce a Laila e, di conseguenza al lettore, ma con due premesse: Sam
confessava a Laila che aveva capito poco di quel che gli aveva detto lo psichiatra, inoltre lo
psichiatra stesso aveva detto che molte cose erano rimaste oscure. Questa spiegazione si
basa poi sulle cose che ha raccontato Norman, che poi non è Norman ma la madre che ha
preso definitivamente il sopravvento. Bloch invita lo spettatore a mettere in discussione
questa spiegazione, si diverte a prendere in giro la psicoanalisi di cui a lui non importava
niente ma che in quegli anni si era molto diffusa negli Stati Uniti; l’uso della psicoanalisi gli
permette quindi di avere reazioni sicure nel lettore. La spiegazione finale del libro lascia
molto nel vago, mentre Stefano cerca di renderla più sicura e definitiva, senza margini di
ambiguità: quando si parla di travestitismo nel film viene messa una distinzione molto forte
tra Norman e i travestiti, che esclude quella lettura su cui Bloch gioca molto nel suo romanzo
(per suggerire al lettore che Norman possa anche essere un omosessuale). L’altro aspetto
su cui Stefano insiste molto è la spiegazione dei comportamenti di Norman: egli uccide
quando prova attrazione per le ragazze che incontrava, in quanto subentrava la mamma con
la sua gelosia; in realtà questa spiegazione semplicistica non rende conto della complessità
delle dinamiche e dei personaggi. Hitchcock si diverte a suggerire ma non spiegare mai
nulla nel film. Un personaggio come quello di Norman non si era mai visto nel cinema, si
basa sul primo caso che si era scoperto negli Stati Uniti e aveva fatto uno scalpore enorme
perché associato a elementi molto oscuri, legati alla famiglia e alla sessualità: si tratta del
caso di Gin?, contadino del Wisconsin, vicino di casa stimato e apprezzato da tutti, che però
aveva cadaveri in casa e lampade fatte di pelle umana. Questo caso viene spiegato dando
le colpe alla mamma di Ed, che è quello che fa lo psichiatra in “Psycho”. Noi però non
sappiamo niente sulla madre, le informazioni che abbiamo sono tutte indirette, derivate da
Norman e quindi totalmente inattendibili che lo psichiatra vende come attendibilissime,
oppure dalla coppia che da informazioni sbagliate, dice che è seppellita nel cimitero quando
ovviamente non è così. Alla fine il finale attira l’attenzione sulle lacune logiche del film, sulla
modernità del film (caratteristica del cinema classico è la logica ferrea che spiega ogni
elemento). ?Bellu? scrive un saggio su “Psycho”; nel romanzo di Bloch la doccia di Marion
viene venduta come una sorta di doccia purificatrice, Marion che si è pentita si ripulisce dalle
sue colpe. Bellur? dice invece che il significato della doccia è un altro: “è il momento in cui
Marion gode”; se il suo percorso è basato su una serie di frustrazioni (soprattutto erotiche) il
momento in cui gode è questo, prova una gioia incontenibile nella doccia, in questo modo si
inizia a spiegare perché muoia: dietro c’è la sessualità. Hitchcock ha sempre dichiarato di
non provare alcun interesse sulla psicoanalisi come forma di cura e terapia: la spiegazione
dello psichiatra quindi non c’entra. Negli anni successivi molte riscritture di “Psycho”
secondo Stefano avevano sconfessato il potere terapeutico della psicoanalisi, se la prende
molto perché sostiene che la psicoanalisi possa guarire casi come quello di Norman, non
capisce che “Psycho” stesso la sconfessa: nel momento in cui lo psichiatra dice che Norman
è scomparso ed è rimasta la madre, si tratta di un caso inguaribile. Il terzo finale ci presenta
proprio il Norman non più guaribile: si tratta del vero finale di Hitchcock, coerente con tutto
quello che abbiamo visto finora, un finale che lascia tutto aperto, in discussione, ci presenta
Norman così come l’ha visto Laila. E’ una scena inquietante e strana, intanto perché siamo
all’interno della prigione, ma poi in una stanza bianca vuota (sembra quella di un
manicomio), c’è solo Norman seduto sulla sedia, ci avviciniamo a lui con un lento movimento
di camera mentre vediamo Norman ma sentiamo la madre; ci sono una serie di elementi
contrastanti che non si possono separare. Norman guarda in macchina e fa un discorso
che è una pura contraddizione con tutto quello che abbiamo visto: si presenta come innocuo
e inoffensivo, non vuole nemmeno muoversi per scacciare la mosca, vengono ribadite e
rilanciate le contraddizioni che lo psichiatra prevedeva di spiegare. Lo sguardo di Norman
solo in alcune copie del film viene sovrapposto al teschio della madre. Il finale riapre tutto
laddove lo psichiatra aveva cercato di chiudere tutto, è la sconfessione della sequenza
precedente e del cinema classico. Il discorso sugli sguardi è significativo se confrontato con
il film successivo di Hitchcock, “Uccelli”, in cui c’è un solo sguardo in macchina, quando la
madre accusa la protagonista di essere la colpevole dello sconvolgimento della natura.
Il personaggio di Lila è concepito in modo singolare rispetto al romanzo di Bloch, sempre in
polemica con le convenzioni del cinema classico per introdurre una nuova trasgressione che
consiste nel fatto che il personaggio che nel romanzo di Bloch era concepito come una sorta
di alter ego del personaggio di Marion è qui concepito come il suo opposto: Bloch lo
introduce come un alter ego della sorella perché prepara fin dall’inizio una conclusione
positiva per il finale, così come prescritto dal cinema classico; questo prevede anche la
formazione, alla fine del racconto, di una coppia eterosessuale che prometta un futuro
sviluppo; se il racconto prevede un perturbamento dell’equilibrio iniziale che passa anche
attraverso la distruzione della coppia ci deve essere la formazione di una coppia che
compensa questa distruzione: è il caso di “Psycho”, la coppia Sam e Marion viene meno, si
introduce subito il personaggio della sorella pronta a prenderne il posto. Nella scena del
romanzo in cui Lila entra in gioco arriva alla ferramenta di Sam nella notte, che vede questa
ragazza simile a Marion e la inizia a baciare, lei non protesta. Il romanzo e il film si
concludono facendoci capire che si metteranno insieme; “Psycho 2” parte proprio da qui,
Norman, fuggito dall’ospedale psichiatrico, vuole trovare Sam e Lila che si sono sposati per
ucciderli. La prima sceneggiatura di “Psycho”, scritta da un altro sceneggiatore (Cavanagh),
era stata concepita sul modello del cinema classico: Hitchcock licenzia Cavanagh, perché
ha scritto una sceneggiatura troppo aderente al romanzo e ligia alle convenienze narrative
tipiche del cinema classico, e inizia a lavorare con Stefano con cui stabilisce che fra Sam e
Lila non ci sarà nulla, nulla verrà a compensare la sparizione di Marion nella logica e
nell’economia della struttura familiare (questo anche in coerenza con quello che egli aveva
sempre fatto, ovvero rappresentare le famiglie come una fonte di problemi). Qui gioca molto
sul fatto che non sia possibile restaurare nulla su quel piano, è uno degli aspetti che vuole
lasciare aperti: costruisce una Lila estremamente grigia e estranea al mondo della
sessualità, anzi aggiunge sarcasticamente la scena in cui Sam e Lila fingono di essere
sposati per avere la stanza nel motel, e poi inserisce anche, durante la perlustrazione della
casa Bates dove prima vede la stanza della madre e poi quella di Norman - dove ci sono
ancora i suoi giocattoli insieme a oggetti che rimandando alla sua vita adulta - un album
misterioso che Lila apre e sfoglia, noi non vediamo il suo contenuto ma solo la faccia
infastidita di Lila - il romanzo spiega che si tratta di immagini pornografiche. Anche nel
discorso finale lo psichiatra le spiega che Norman si sarebbe dovuto eccitare davanti al
corpo nudo della sorella fa un’espressione molto perplessa, si capisce che lei con queste
cose qui non ha nulla a che fare. In questo film la famiglia rimane fino alla fine come una
fonte di problemi, e mai la soluzione.
Castle in tutta la sua esistenza non ha mai ammesso che il suo film fosse ricalcato su
“Psycho”; le parti che Castle riprende palesemente sono tutta la prima, che riguarda Marion,
e i finali. Se “Psycho” aveva tre finali, “Homicidal” ha due prologhi: nel primo William Castle
si presenta in prima persona facendo la parodia di “Alfred Hitchcock presenta” - lo si capisce
anche per le cose che dice, si presenta come un autore riconosciuto parlando dei suoi film
precedenti, e ci presenta i suoi personaggi come personaggi normali a cui capita di
diventare assassini, è esattamente il senso delle storie degli episodi di “Alfred Hitchcock
presenta” (del resto “Psycho” stesso era stato propagandato come un episodio lungo della
serie). Il secondo prologo si svolge 20 anni prima della storia, è un lungo flashback, tutto
quello che vediamo è una piccola scenetta domestica in cui un bambino ruba la bambola
alla sorella (il significato si capirà alla fine). Il tutto seguito da un establishing shot copiato da
“Psycho” e due eventi che avranno senso alla fine: lei che si ferma a comprare un anello da
matrimonio e arriva nel piccolo albergo recuperando la scena dell’arrivo di Marion al motel di
Norman; anche qui gioca sul dire il proprio nome e la data in cui lascerà l’albergo, sul
modello di Hitchcock; si fa poi aiutare dall’uomo bello e giovane che le presenta la stanza,
scena ricalcata da Norman che faceva la stessa cosa in “Psycho”. C’è un dialogo che verte
sulla questione del matrimonio e della famiglia perché lei chiede a lui di sposarlo, lui si
dichiara disposto a farlo (per la seconda volta lol). Anche lei ha dei soldi in contanti nella
borsa, lui eredita la parte di Sam e quella di Norman (parla di matrimonio e guarda il registro
dell’albergo). Di nuovo tutto ruota attorno a un matrimonio finto, che verrà annullato subito
dopo essere celebrato. Arriviamo alla casa del giudice e abbiamo la scena del matrimonio
che mette insieme quella della morte di Marion e quella in cui Sam e Lila andavano a fare
visita allo sceriffo: lo sceriffo e la moglie sono qui trasformati in personaggi particolarmente
sgradevoli, mentre la morte di Marion viene imitata con il montaggio frammentato e il metodo
dell’omicidio, con coltellate ancora più cruente di quelle di “Psycho” (c’è sangue in quantità).
Ci sono una serie di discordanze: riguardo a ciò che aveva detto Castle all’inizio, non è un
personaggio normale che casualmente diventa assassino ma c’è un’evidente pianificazione
dietro al delitto da parte di Miriam (nome falso), poi nel momento in cui uccide il giudice ha
uno sguardo talmente ossessionato e esasperato ci fa capire che c’è una qualche reazione
emotiva molto forte scatenata nel momento in cui il giudice si avvicina per baciare la sposa.
Castle cerca di fare qualcosa di nuovo usando il repertorio di materiali trovato in “Psycho”, il
tutto inizialmente sembra un po’ pasticciato. Miriam lascia Jim alle prese con il cadavere e
scappa, in una fuga ripresa da quella di Marion con tanto di poliziotto che sembra inseguirla.
Cambia l’auto come aveva fatto Marion e rientra a casa mentre ascolta le notizie alla radio,
come Marion sentiva le voci (Castle insiste sul matrimonio che la turba sempre, butta via
l’anello quando si accorge di averlo ancora al dito). Facciamo la conoscenza di Elga, un
personaggio paralitico che non può parlare e comunicare con il mondo se non con un
oggetto che sbatte sulla sedia a rotelle, di cui Miriam si occupa; ci sono delle cose che non
si spiegano, è evidente che Elga conosceva il giudice che è stato ucciso. Nel rapporto tra
Elga e la finta Miriam si riprendono gli elementi tipici di un thriller psicologico, quei thriller
popolari a Hollywood negli anni ‘50 e avevano a che fare con personaggi intrappolati in
contesti che ne mettevano a dura prova le condizioni psichiche. Capiamo poi da dove
Miriam ha preso il suo nome: Miriam Webster è il nome di questa signorina - sorellastra di
Warren -, Emily è il vero nome di chi accudisce Elga. Il farmacista è il fidanzato di Miriam.
Scopriamo che i bambini dell’inizio erano Warren e Miriam. Scena ricalcata su “Psycho”: è
l’unico momento in cui ci viene fatto credere che Emily e Warren siano in scena insieme, con
grande dispiacere Miriam scopre che Emily e Warren hanno una relazione nel momento in
cui lei torna in camera con lui (trucco già usato in “Psycho” con le due voci diverse = voce
acusmatica, la voce che sentiamo nel film ma di cui non vediamo la fonte). C’è una scena
molto curiosa: arriva l’arrotino e Emily porta ad affilare il coltello che ha usato per uccidere il
giudice; l’arrotino non riesce a riconoscere di che coltello si tratti, ci fa capire che è un
coltello un po’ particolare, tant’è che Emily vuole affilare solo quello. Con questo coltello
decapita Elga; è strano il fatto che abbia aspettato l’arrivo dell’arrotino per uccidere Elga,
quando avrebbe potuto farlo subito. Anche in questo caso c’è un duplice finale: anche
Castle lavora sulla sorpresa (avrebbe potuto lavorare sulla suspense in opposizione a
Hitchcock). Miriam viene accompagnata a casa da Warren, armato di pistola; se fossimo
entrati con Warren avremmo potuto subire un quantitativo di suspense facendoci credere
che lui è in pericolo, abbiamo capito che Emily (assume il ruolo di Norman e la madre) è
squilibrata. Invece rimaniamo fuori, Castle preferisce giocare con il gimmick di turno (il
minuto di sospensione che lascia allo spettatore per decidere se rimanere a vedere il finale o
scappare dalla sala). Perde l’occasione di spingerci a identificarci con Warren così come
Hitchcock ci aveva spinto a identificarci con Norman, era l’unica occasione che aveva per
rendere credibile il personaggio di Warren, invece rimaniamo fuori. Il finale è ricalcato su
quello di “Psycho”, quando Lila scende in cantina e vede il cadavere della madre; Miriam
esplora la casa di notte, così come Lila con quella di Norman, e scopre il cadavere di Elga,
così come Lila quello della madre; come Lila anche Miriam grida di terrore in una sequenza
che replica la morte dello sceriffo sulle scale. Anche qui c’è la seconda forma di orrore,
quella cognitiva, ricalcata sempre sulla reazione di Lila: abbiamo la grande sorpresa e
l’intervento simile a quello di Sam dopo che Warren ha espresso il suo piano. Nel secondo
finale siamo dallo sceriffo a cui è affidata la spiegazione finale: egli cerca di razionalizzare
tutto quello che abbiamo visto, sarebbe un piano molto razionale e tradizionale, finalizzato a
quello che era il finto scopo di “Psycho” = entrare in possesso di una grande somma di
denaro, in questo caso di un’eredità. Si fa riferimento ad un padre che voleva a tutti i costi un
figlio maschio a cui lasciare l’eredità, aveva avuto una figlia (Miriam) da un matrimonio
precedente, e un secondo figlio dal matrimonio successivo; per intascare l’eredità la
seconda moglie insieme all’ostetrica, Elga, decidono di fingere che è nato un maschio
invece che una femmina, per ottenere l’eredità nonostante fosse il figlio minore. Allevano
questa bambina come se fosse un bambino: quando nel prologo il bambino ruba la bambola
alla sorella non lo fa per dispetto ma per giocarci anche lei. Dobbiamo immaginare che ad
una certa Warren torna e si inventa questo doppio femminile, Emily, attraverso il quale
eliminare tutte le persone che sapevano che egli non era realmente un maschio, ossia il
giudice di pace (ucciso all’inizio), Elga e Miriam, in modo che egli avrebbe ereditato tutto. Ci
sono anche qui un po’ di cose che rimangono non spiegate e in sospeso. Qui, a differenza di
“Psycho”, viene presentata già pronta la coppia finale (Miriam e il farmacista, due persone
buone che adesso sono pure ricchi e possono formare quella famiglia che Hitchcock vuole
assolutamente negare). L’ultimo finale dovrebbe avere lo scopo di suggerire allo spettatore
sulle questioni rimaste in sospeso: la bambola che cade sulla frusta, emblema della storia
che è stata raccontata. La battuta chiave è quando dice che Elga porta Warren in Danimarca
e non si sa cosa sia successo, lo spettatore dell’epoca doveva capire cosa fosse successo e
che quindi la spiegazione dello sceriffo non spiega niente: Emily è ovviamente squilibrata,
non è tutto frutto di un piano razionale, è poi ossessionata dal matrimonio e nei suoi omicidi
usa un coltello chirurgico; la schizofrenia tra Warren e Emily nasconde un qualcosa di
psicologico più profondo, che verrà spiegato con ciò che è successo in Danimarca.
Se il meccanismo di “Psycho” non era soltanto un gioco superficiale come a Hitchcock
piaceva ripetere di questo “Homicidal” ci da una conferma: Castle è un regista intelligente
che ha cercato di capire il motivo del successo del film di Hitchcock, scomponendolo si
rende conto che non è una scatola vuota, nel costruire la sua di scatola ci deve mettere
qualcosa di equivalente = la questione della Danimarca. Nell’arco del racconto più volte si
fa riferimento a questo viaggio misterioso in Danimarca, sempre in termini vaghi ed allusivi:
Emily dice che Warren l’ha portata dalla Danimarca, scatenando la reazione spaventata di
Elga che non sembra essere comprensibile; il medico del paese dice che Warren è stato
fatto nascere in segreto da Elga e che questa l’ha portato in Danimarca, sono tornati da
circa un anno e Emily l’ha incontrato in Danimarca, completa l’informazione di prima; quando
Warren parla con Elga le chiede se le farebbe piacere tornare in Danimarca, dice poi che lui
ed Emily si sono sposati in Danimarca; si ritorna sulla questione quando il medico fa visita a
Elga. Le informazioni che ci ha dato Castle finora ci inducono a pensare che Emily e Warren
siano persone differenti (alla fine Castle ci presenta un attore finto, Jean Arless, nome
ambiguo, come interprete di Emily e Warren sempre per farci credere che si tratti di due
personaggi diversi). Il riferimento è a un caso di cronaca, il primo caso di un uomo, tra l’altro
militare, che si sottopone ad un’operazione per diventare donna: si discusse molto di questo
caso, il primo mediatico, tutti sapevano dei dettagli più minuti di questa operazione che era
stata fatta in Danimarca, in quanto fino al ‘57 questo tipo di operazione negli Stati Uniti non
si poteva fare. Ci sono testimonianze che ci dicono che negli anni ‘50 ai comici dell’epoca
bastava dire “Danimarca” perché gli spettatori si mettessero a ridere, la Danimarca veniva
immediatamente associata a questa operazione. Il pubblico del tempo aveva presente
questo riferimento, basta a Castle semplicemente nominarlo perché sia chiaro. In Italia le
cose sono diverse, non c’era questo tipo di associazione; esce in Italia una versione
romanzata del film nella quale la scrittrice è costretta a spiegare il riferimento alla Danimarca
inventandosi una sua versione secondo cui per crescere meglio Warren Elga l’ha portato in
Danimarca. Per il pubblico di riferimento di Castle però era sufficiente inserire la parola per
capire il riferimento: Castle ha capito perfettamente che “Psycho” aveva al suo interno una
serie di riferimenti interdiscorsivi, ai discorsi circolanti nel contesto culturale, che Castle deve
imitare; la cosa più affine e scabrosa che può trovare è la transessualità, va a pescare agli
stessi riferimenti di Hitchcock, ciò che cambia è il caso di cronaca. Questa intuizione può
essergli arrivata dalla finzione/exploitation = negli anni ‘50 questo tipo di vicende
interessavano molto i lettori e spettatori, numerosi romanzi e produzioni trattavano questo
argomento. L’altra fonte è quella dei discorsi più seri, rappresentano quel contesto
discorsivo nel quale si inseriva anche “Psycho”: studiosi che negli anni ‘50 sostenevano lo
scopo eisenhoweriano di conservazione, puntano molto sulla famiglia tradizionale? e la
creazione di persone normali?, che agiscono in accordo rispetto a quanto è accettato e ci si
aspetta dalla società (se un bambino ha un crollo nervoso può essere dovuto soltanto alla
guerra o alla mamma). Ci sono numerosissimi esempi di discorsi di questo tipo negli anni
‘50. In un altro saggio di uno psichiatra pone delle distinzioni (travestismo, omosessualità,
transessualità…) e dice che è possibile immunizare i bambini contro il travestitismo
assicurandosi che egli vesta soltanto abiti culturalmente appropriati, che si accordino al suo
sesso biologico, e avendo una relazione affettuosa e di accettazione con il genitore dello
stesso sesso (è quello che non succede in “Homicidal”). Quindi noi effettivamente non
sappiamo cosa sia successo in Danimarca, quindi se Warren - o meglio la bambina
dell’inizio - sia stata operata o meno, se così fosse significa che Warren è un personaggio
realmente esistente che incarna Emily per poter appropriarsi dell’eredità e usarla per
liberarsi di una serie di persone (c’è comunque interesse per gli uomini, omosessualità +
interesse al mondo femminile), se così non fosse Emily è autentica e incarna Warren per
appropriarsi dell’eredità fingendosi maschio, lo dovrà fare per tutta la vita. In ogni caso viene
spiegato il disturbo e turbamento di Emily, perché Emily ha accanimento nei confronti di
Miriam (bambina che è quello che lei non ha potuto mai essere, cresciuta sana e contenta) e
del matrimonio, e il perché Castle presenta i suoi personaggi come persone normali, e non
casi clinici, che uccidono persone.
“Psycho” è stato spesso interpretato come un’opera chiusa, che aveva un significato
univoco, chiaro e definitivo che è spesso stato legato a questi discorsi che abbiamo detto,
siccome la maggior parte di questi era conservatore anche “Psycho” è stato letto come un
film conservatore, anzi rappresenta l’apice di una tendenza conservatrice di quegli anni
perché è fortemente misogino, mostra ansia verso la questione della maschilità, affida la
soluzione del caso a due privati vigilantes e condanna palesemente il matriarcato
sostenendo il patriarcato. Una lettura di questo tipo è discutibile, il confronto con “Homicidal”
dimostra come rappresenti una forzatura, significa perdersi le caratteristiche più innovative
di Hitchcock che ne spiegano il successo enorme: “Peeping Tom” di Michael Powell
racconta la storia di un giovane che era diventato serial killer per via di problemi in famiglia e
turbamenti psichici, filmava sempre i suoi omicidi per riprendere il momento della morte,
questa è la suo ossessione, arma la macchina da presa con una specie di spada per
riprendere la morte da vicino: questa ossessione deriva dal padre, uno scienziato che usava
il figlio come cavia dei suoi esperimenti psicologici, torturandolo e registrandolo (per poterci
studiare sopra). Il caso clinico di Powell era talmente astruso e bizzarro che il pubblico non
poteva capirlo, a differenza dal caso clinico di “Psycho”. Inoltre Powell si mette in gioco in
prima persona interpretando il padre nel film e facendo interpretare il bambino al figlio = gli
attacchi nei suoi confronti sono tantissimi e violentissimi. “Psycho” gioca molto sulla
modernità cinematografica e sull’ambiguità, anche se capitalizza discorsi molto privi di
sfumature, che non lasciano aperture, è in grado di lasciare tutto aperto e ambiguo, alla fine
non spiega come il proprio figlio non diventi Norman Bates o Marion, manca in “Psycho”
una moralità sana da opporre al caso clinico di Norman. La grande novità del film è di
aver preso il cuore di tutti questi discorsi conservatori, cioè la famiglia, e di averla
trasformata nel luogo in cui si generano tutte le distorsioni dei personaggi e della
società. Al contrario di “Psycho” Castle chiude tutto, spiega tutto il suo caso, restaura quella
dimensione saltata in “Psycho” presentandoci con Miriam e Carl una famiglia felice, il come
non creare Warren e Emily, ha una chiusura morale che manca nel film di Hitchcock.
Leggere questo film come conservatore porta a perdere quelle aperture e ambivalenze che
sono indispensabili per spiegare il successo di “Psycho”. Ci sono ritorni a “Psycho” che lo
rileggono in una chiave progressista, altri in chiave conservatrice sforzandosi di chiudere
tutto quello che era rimasto aperto, e c’è chi gioca con quelle aperture confermandole e
rilanciandole. Tutte queste letture non sarebbero state possibili se il testo fosse stato chiuso
come “Homicidal”, che è quindi la conferma del fatto che in quelle aperture bisogna cercare
la chiave di lettura fondamentale della novità del film di Hitchcock. Questo ci porta a capire
un’altra cosa: in una dichiarazione di Hitchcock egli dice che del romanzo di Bloch gli era
piaciuta soltanto l’improvvisa morte di Marion, che nel romanzo non ha nulla della forza che
ha nel film, è risolto in sole tre righe + Marion non era la protagonista; è possibile
immaginare che questa dichiarazione sia estremamente riduttiva, Bloch era stato
espropriato del suo romanzo e del suo personaggio Norman Bates. Hitchcock nel romanzo
aveva visto di interessante il caso clinico di Norman, perché costruito sulla base di premesse
psicanalitiche facili da capire, lo affascinava poi il caso clinico del serial killer. Progetto
"Kaleidoscope", Bloch deve scrivere la sceneggiatura, progetto cancellato ma Hitchcock si
scrive la sua sceneggiatura tanto è convinto di sapere tutto su quel mondo che manda a
Truffaut per chiedergli un’opinione, Truffaut gli dice sì figo interessante ma troppo simile a
“Psycho”. Il caso clinico di Norman si allineava molto bene alla convinzione che lui si era
formato andando ai processi di serial killer in tribunale: che tutti sono casi clinici il cui
turbamento è legato alla sessualità. L’altra cosa che lo ha colpito è la figura della madre
messa al centro di tutto il racconto, il che è qualcosa che si sposava perfettamente con tutto
il suo cinema.

CLOCKWORK ORANGE - STANLEY KUBRICK (1971) e


I VIZI MORBOSI DI UNA GIOVANE INFERMIERA - DE LA IGLESIA (1973)

Il romanzo era stato pubblicato nel ‘62, il contesto in cui affonda il romanzo è lo stesso degli
altri film di cui ci siamo occupati. Burgess pubblica il suo primo romanzo, “Time for a tiger”,
nel momento in cui Kubrick approda ai suoi primi film che hanno riscontro commerciale e
critico significativo (film “Killer’s kiss” e “The killing”), i due esordiscono in contemporanea.
Quando Burgess pubblica il romanzo “Arancia meccanica” Kubrick sta lavorando
sull’adattamento di un altro romanzo, “Lolita” di Nabokov, sta diventando regista di primo
piano. Kubrick ha sempre avuto riscontri molto complicati, ha spesso diviso la critica anche
con quei film oggi considerati classici consolidati (anche “2001: Odissea nello spazio”). Per
“Arancia meccanica” i pareri negativi erano più di quelli positivi: è comprensibile, si tratta di
un film che svolta in maniera imprevedibile rispetto a quello precedente; se “2001” appare
come un film sofisticato, complesso, di grande eleganza e pretese, “Arancia meccanica”
sembra un film estremamente kitsch e di cattivo gusto. Questa situazione non è mai stata
superata davvero, diversi critici e studiosi di Kubrick prendono le distanze da “Arancia
meccanica”. James Neu?quellodipsycho già nella prefazione specifica che quando ci si
occupa di un autore non tutti i film sono sullo stesso livello, come esempio di film che non gli
è piaciuto prende “Arancia meccanica”. E’ un film che solleva grandi polemiche,
coinvolgendo anche il romanzo di Burgess; salvo una scesa in campo iniziale (quando un
giornalista lo accusa di essere un fascista egli risponde) Kubrick si chiude in casa ed è
Burgess a dover rispondere alle accuse rivolte al film e al suo romanzo. Burgess era uno
scrittore di notevole livello, secondo alcuni uno degli inglesi più importanti del ‘900; muore
alla fine degli anni ‘90 dopo aver scritto numerosi romanzi. Intelligente e dal grande senso
dell’umorismo, orgogliosamente alcolizzato, ha due inclinazioni parallele: una per le lingue e
una per la musica - era anche compositore e conosceva molte lingue, per “Arancia
meccanica” ne inventa una, un gergo giovanile. Ha sempre sofferto il successo di “Arancia
meccanica” e le polemiche che lo hanno circondato, lo hanno additato a scrittore
ossessionato da sesso e violenza; lui stesso non considera “Arancia meccanica” come
l’opera migliore della sua carriera. “Arancia meccanica”, il romanzo, viene scritto in un
momento in cui Burgess era abituato a inventare episodi della sua vita, tant’è che nessun
biografo è riuscito a dipanare l’intrico di realtà e finzione della sua autobiografia che Burgess
porta avanti; racconta episodi mai successi ogni volta in forma diversa (ad esempio la prima
idea di “Arancia meccanica” era legata a una violenza subita dalla moglie nel ‘42 da parte di
alcuni soldati americani che la portò alla morte; racconta questo episodio ogni volta in modo
diverso - è stata rapinata, violentata, aveva perso un bambino perché era incinta, ha avuto
un bambino dopo essere stata violentata…). Racconta anche che gli era stato diagnosticato
un tumore al cervello incurabile, i medici gli avevano detto che gli era rimasto un anno di vita
= ha deciso di scrivere il più possibile in quell’anno. Probabilmente inventato, usava questo
episodio per giustificare il fatto che intorno al ‘61 aveva scritto circa cinque romanzi, cosa
malvista dalla critica. Uno di questi romanzi è proprio “Arancia meccanica”. Il romanzo ha
un’altra radice ancora, un viaggio in Unione Sovietica che Burgess aveva fatto nel ‘61 per
studiare un contesto politicamente contrario alle sue convinzioni; si era messo a studiare il
russo (il linguaggio che inventa per Alex e i Drughi è basato sul russo). Qualcosa di
quell’esperienza rimane in “Arancia meccanica”. In particolare era rimasto molto colpito da
un incontro con una banda di teppisti giovanili a San Pietroburgo che volevano a tutti i
costi entrare in un ristorante alto borghese, sembrava fossero pronti a spaccare tutto,
quando Burgess e la moglie uscirono dal ristorante questi si spostarono per farli passare,
per poi riprendere a protestare; erano poi vestiti eleganti. Altra cosa che lo colpisce è
l’assenza di polizia. Di fronte alla manifestazione di violenza davanti al ristorante nessuno
pensò di chiamare la polizia. Sono tutti dettagli che troviamo all’interno del romanzo. Alle
spalle del romanzo ci sono altre due questioni che stimolano una reazione ideologica in
Burgess: la prima è l’ossessiva presentazione su giornali e quotidiani di notizie relative a
quelli che all’epoca si chiamavano teddy-boys, giovani delinquenti che intorno agli anni
‘50/’60 si riuniscono in bande organizzate e perpetuano violenze. In Gran Bretagna la
situazione è la stessa, tale che pensando a come questi casi di violenza giovanile erano stati
affrontati in precedenza il sociologo Cohen conia il concetto di panico morale pensando
proprio alle bande giovanili inglese (i Mods e i Rockers erano le due bande) = una
condizione, episodio, persona o gruppo di persone che emerge e minaccia i valori e gli
interessi della società. La cultura di destra, quella conservatrice, tenta di suscitare allarmi su
queste cose come se minacciassero l’intero statuto sociale, che è quello che succede con i
teddy-boys. Infatti nel romanzo Burgess commenta i giornali che vengono pubblicati sul
mondo di fantasia e di futuro (futuro vicino, già anni ‘70) in realtà commenta il presente
fingendo di parlare del futuro prossimo: Alex sfoglia il giornale pieno di discussioni sulle
bande giovanili e questioni che lo riguardano, paradossalmente dice che la proposta sensata
che viene fatta dai sociologi è di sottoporre i giovani a dosi crescenti di cose belle, l’arte in
particolare. La cosa è molto diffusa anche in Italia, tanto che anche da noi ne parla il cinema
(il film “Milano nera” del ‘63). La seconda questione alle spalle di “Arancia meccanica” è lo
sviluppo delle neuroscienze, anche se il concetto di neuroscienza risale al ‘62, che
affondano la loro origine nell’invenzione dell'elettroencefalogramma attraverso il quale era
possibile studiare le aree del cervello e il modo in cui vengono stimolate e inibite a seconda
degli stimoli. Negli anni ‘50 emergono gli psicofarmaci, qualche cosa di rivoluzionario anche
a livello culturale perché è un modo di sottrarre terreno e potere a quel sapere maggioritario
affermato nel dopoguerra che era la psicoanalisi, perché una serie di forme di nevrosi e
problemi mentali ora si cerca di curarle con sostanze chimiche piuttosto che con sedute
psicanalitiche. Psichiatria e psicoanalisi entrano in contrasto, l’emersione degli psicofarmaci
va a incrociare una serie di studi che ha a che fare con il comportamentismo, questa è la
questione che interessava a Burgess. La figura centrale di questo filone era Skinner,
famoso per i suoi studi che avevano presentato nel romanzo “Walden secondo” una
versione di finzione in una forma simile a quella del romanzo di Burgess, di distopia. Skinner
sostiene la prassi della condizione del comportamento: solo attraverso la scienza la
società può migliorare. Sostiene che il comportamento e il linguaggio sono frutto dei
condizionamenti del mondo esterno, che ci insegna cosa fare e cosa non fare, è qualcosa
che viene appreso in modo automatico. Burgess conosceva bene il saggio di Huxley, che
nel romanzo “Brave new world” immagina un futuro distopico in cui i cittadini sono divisi in
classi rigide e cresciuti secondo principi rigidi con forme di condizionamento medico del
comportamento. Nel 1958 nel saggio "Brave new world revisited" ricostruisce le basi
scientifiche che hanno dato origine al romanzo e diventano discorsi inglobati da Burgess nel
suo romanzo, Huxley fa riferimenti espliciti ai lavori di Skinner. Negli stessi anni si discute
molto dell’assunzione di sostanze chimiche, soprattutto quelle sintetiche che i
comportamentisti usavano per condizionare il comportamento, da parte dei giovani nella
loro sottocultura (droghe, sostanze come LSD…). All’inizio Alex parla di tre droghe che
vengono vendute dal Korova Milk Bar, sostanze che venivano usate in questi esperimenti
scientifici e che la sottocultura a cui appartiene ha fatto proprie (anfetamina, mescalina, e
adrenocromo). Tutto questo si incrocia con un movimento basato sulla psichiatria che
sosteneva anche a livello politico la necessità di svuotare i manicomi, o almeno i casi meno
gravi e severi, in modo da medicalizzare e reinserire nella società. Questa tradizione viene
commentata da Burgess, che cerca di commentare anche le sottoculture giovanili che si
appropriano di queste sostanze per usarle come stimolanti e eccitanti per ingrandire la
portata delle proprie azioni (violenza e sessualità). Nel romanzo Burgess registra l’aumento
degli effetti delle droghe che porta ad un accrescimento delle violenze. In questo senso
la cura Ludovico interviene su questa forma di sottocultura giovanile, impedendo non ad
Alex di assumere le droghe (che nella terza parte del romanzo ancora assume) ma di
appropriarsene, di usarle come stimolante per le proprie imprese. Apomorfina e disuffiam
erano due sostanze che nel dopoguerra venivano utilizzate per disincentivare attraverso una
risposta fisiologica indotta dal farmaco (nausea, vomito, dolori…) determinati comportamenti
ritenuti asociali, malati e inopportuni che andavano dall’alcolismo alla violenza, all’uso di
droghe, l’omosessualità… Burgess proietta tutto in un futuro prossimo ma parla del
presente. L’obiezione che porta a queste tradizioni è fondata su una visione teologica che
rimanda al contrasto fra due individui: Sant Agostino e Pelagio, che avevano due visioni
teologiche diverse e incompatibili che, secondo Burgess, spiegavano bene tutto quello che
possiamo pensare dell’uomo e del mondo in cui vive. Questo contrasto è alla base di
“Arancia meccanica”, e consiste nella polemica intorno al peccato originale e il suo ruolo
nel spiegare il comportamento dell’uomo; secondo Agostino, versione che Burgess sposa, il
peccato originale ha prodotto una macchia ereditata da tutti e senza l'intervento divino non
possiamo salvarci (per questo se i bambini non vengono battezzati non possono andare in
paradiso) = l’uomo è portato a sbagliare e peccare a causa di Adamo e può salvarsi
solo con l'intervento di dio, da solo no. Pelagio sostiene che il peccato originale riguarda
solo Adamo, è un modello negativo e che l’uomo per sua natura è buono e può salvarsi
anche da solo, se non si salva e non segue la sua natura positiva è colpa sua, ha scelto
male, ha seguito l’esempio negativo di Adamo e non quello positivo di cristo. Burgess
riempie di contraddizioni anche il romanzo: nella sua visione, le tre parti del romanzo
dovrebbero fare riferimento alla polemica tra Pelagio e Sant'agostino: nella prima parte
dovremmo essere di fronte a una società ispirata alla visione di Pelagio, una società
liberale/sinistrosa in una versione negativa (la immagina sul modello dell’Unione Sovietica
dei suoi anni); in questa società i Drughi sono lasciati liberi di fare quello che vogliono, è una
società che non cerca di reprimere il male dell’uomo perché convinta che l’uomo in fondo è
buono e che alla fine l’uomo ci arriverà da solo alla bontà. E’ una società distrutta che cade
a pezzi, in cui tutto sembra essere decadente e non più funzionante, mentre quando Alex
torna a casa dalla cura tutto è stato messo a posto e funziona perfettamente perché nel
frattempo è cambiato il governo, si presuppone che sia salito un partito di destra. In questa
società nel romanzo viene rimarcata più volte la mancanza di polizia e la mancanza di
repressione (persino la prima vittima dei Drughi, un senzatetto, si lamenta della mancanza di
legge e ordine). Si insiste molto sull’idea di questa società di aiutare i carcerati a recuperare
la loro posizione sociale, anziché punirli, salvo che la società si dimostra incapace di farlo, ci
sono pochi commissari che devono seguire tantissimi teppisti. Questo quadro sociale
dovrebbe rappresentare una società che ha permutato l’idea di Pelagio. Agostino invece
era convinto che l’uomo fosse condannato a fare male e che ci dovesse essere un
intervento esterno ad aiutarlo, metaforizzato nella seconda parte del film dalla cura
Ludovico: la società fa qui riferimento ad Agostino ma in un modo deprecabile. La questione
fondamentale che rimette in campo Agostino è quella del libero arbitrio, che interessa
maggiormente a Burgess: il fatto che caratteristica fondamentale dell’uomo è la possibilità di
scegliere quello che è e che vuole fare, quindi se l’uomo è portato per natura a fare male
quando fa bene è perché ha fatto una scelta forte, che va contro la sua natura,
razionalmente ha scelto di fare del bene = ugualmente quando fa male vuol dire che
razionalmente ha scartato l’opzione contraria, ha comunque fatto una scelta seguendo la
sua natura. Il condizionamento dei comportamenti va ad annullare questa possibilità di
scelta. E’ meglio lasciare libera una persona di fare del male piuttosto che costringerla a fare
del bene senza che possa scegliere, perché significa privarla della sua umanità. La terza
parte del romanzo dovrebbe essere la dimostrazione di questa perdita di umanità da parte
di Alex, con una struttura piuttosto fiabesca perfettamente simmetrica alla prima parte. Nelle
intenzioni di Burgess il romanzo doveva essere un’allegoria per mettere in guardia sui
pericoli già esistenti nella società dei suoi anni, di far fallire la cura Ludovico e far rinsavire
Alex, anche se il finale pone un problema, ci sono due versioni del finale del romanzo:
l’edizione inglese ha un capitolo in meno rispetto all’edizione americana, è un capitolo che
Kubrick aveva detto di non conoscere quando in realtà non era vero, non ne tiene conto nel
film, che finisce quando Alex dice di essere davvero guarito e torna al punto di partenza
(continua a fare violenza ma senza l’angoscia della legge, entra nella polizia). Burgess
aveva invece immaginato questo capitolo finale, racconta che è un finale che gli ha imposto
il suo editore americano quando non è vero, era un finale da lui stesso pensato in cui mette
sue convinzioni molto forti. In questo capitolo finale ritroviamo Alex curato, tornato al punto
di partenza con una nuova compagnia di giovani teppisti (quella precedente è stata
reintegrata nella società) in un locale come il Korova Milk Bar, salvo che lo vediamo sempre
più disaffezionato nei confronti delle solite imprese, alla fine congeda i suoi compagni di
malefatte, si incammina verso casa, ha 18 anni ed è ormai maturato, non trova più
soddisfazione per quelle imprese; ragiona e riflette sul suo percorso giungendo alla
conclusione che da un lato sente il bisogno di mettere su famiglia, e quindi integrarsi nella
società, dall’altro si dice consapevole dell’impossibilità di estirpare il male che è caratteristica
dell’uomo, sa che suo figlio quando avrà 15 anni farà le stesse cose che lui aveva fatto
anche se fa di tutto per evitarlo: si fa portavoce lui stesso della visione agostiniana, secondo
la quale è inevitabile che l’uomo, specialmente i giovani, facciano il male. Questa è la
metafora finale che Kubrick rifiuta. Ci sono contraddizioni che emergono e che offuscano
queste tesi (quella agostiniana e quella per cui la società è più deprecabile di Alex perché
non lo lascia libero di scegliere): in quell’ultimo capitolo Alex sceglie il bene senza che
nessuno sia intervenuto nella sua scelta e non ha nessun pentimento nei confronti delle
cose che ha fatto, non compare mai nel romanzo la parola “peccato”, in quel momento
sembra abbracciare la tesi di Pelagio. Il cappellano della prigione e lo scrittore Alexander
sono alter ego di Burgess, personaggi ambigui; Alexander sta scrivendo un trattato dal titolo
“Arancia meccanica”, quando Alex fa irruzione nella sua abitazione trova il trattato e legge
una pagina sul libero arbitrio. Nella sceneggiatura che Burgess aveva trascritto del suo
romanzo aveva cambiato il cognome di Alexander in Alexander Burgess, creando
un'identificazione più specifica. Alex poi distrugge il manoscritto, e quando nella terza parte
torna nella casa trova il testo di “Arancia meccanica” stampato e contenente le stesse tesi.
L’idea di Alexander è di difendere il principio di libero arbitrio indipendentemente da
qualsiasi posizione politica e di partito (dichiarazione di Burgess), salvo che poi chiama il
Partito per cui lavora per fare esperimenti su Alex. Tutto ciò nonostante nel romanzo
Alexander non riconosca Alex e non pensi che sia stato lui a provocare la morte della
moglie.
In un’intervista del ‘72 Burgess illustra la sua visione dell’uomo: dice che è positivo il peccato
originale per due ragioni, una di carattere religioso = è la premessa per rendere grandiosa la
venuta di gesù cristo, una dal punto di vista secolare = è la premessa del libero arbitrio, della
possibilità dell’uomo di scegliere. Se l’uomo è capace di scegliere e impostare la sua vita
può sbagliare, una gloriosa conseguenza di questi suoi errori è l’arte. L’arte è la
conseguenza della possibilità di fare scelte anche sbagliate. Alex ha tre caratteristiche
che definiscono l'uomo: gli piace la violenza, gli piace la musica (ha una vocazione
artistica) e gli piace il linguaggio, sono le tre caratteristiche che definiscono l’essere umano
e sono conseguenze del libero arbitrio. Continua a citare libro e film insieme, per lui la
visione del libro e quella del film sono la stessa, in questo periodo ogni volta che difende il
libro difende anche il film e viceversa.
Quando il film esce nel ‘71 Burgess viene sempre coinvolto per difendere sia il libro che il
film. Fra ‘71 e ‘72 Kubrick scende in campo una sola volta, quando viene accusato di essere
fascista e di aver fatto un film fascista e quando gruppi di giovani iniziano a giustificare le
loro violenze dicendo di aver visto “Arancia meccanica”. Kubrick dice di aver ricevuto
minacce di morte a seguito delle quali costringe la Warner a ritirare la versione inglese del
film: il film non è più stato proiettato in pubblico fino alla morte del regista. Burgess invece
continua a essere convocato a parlare di “Arancia meccanica” e ogni volta prende le
distanze sempre di più dal romanzo, che considera difettoso rispetto a altre cose più
importanti che ha scritto. Già nel ‘72 dichiara che quello che gli piacerebbe davvero è che si
facesse un film da uno dei suoi altri romanzi, tutti sorprendentemente privi di violenza, ma
che questo non è possibile perché sarà sempre identificato come l’origine di un grande film e
chiamato a difendere sé stesso e Kubrick. Riconosce al film di Kubrick di essere una rilettura
molto personale del suo romanzo, d’altro canto dice che dal punto di vista filosofico e
teologico Kubrick deve tutto al suo romanzo: non si accorge che in realtà il punto di vista di
Kubrick è molto differente, percepisce una sintonia che in realtà non c’è. C’è poi qualche
cosa che incrina questo rapporto. Nel corso degli anni ‘60 scrive anche un ciclo di romanzi
basato sulla figura di Enderby in una sorta di autobiografia in forma romanzata. Nel ‘72 a
incrinare i rapporti fra Burgess e Kubrick è il permesso che Kubrick da a pubblicare la
scenografia del film con delle immagini del film: il fatto che Kubrick pubblichi un libro sulla
stessa storia lo offende; ritiene che questa operazione voglia rivendicare in formato libro la
paternità dell’opera di “Arancia meccanica”: come se questo fosse il libro ispirato e tratto dal
film, come se non ci fosse già la storia in formato libro di dieci anni prima. Burgess reagisce
con ironia scrivendo una recensione, fingendo di far recensire questo libro da Alex in cui
dice che questo libro farà dimenticare il libro originale scritto da Alexander Burgess, il
problema è che è un libro illustrato e c’è un film, perchè uno dovrebbe leggere il romanzo
quando può guardare le immagini o guardare il film? Nel terzo libro dei quattro che
compongono il ciclo di Enderby si trova un’altra risposta a questo romanzo: in quel periodo
Burgess era stato invitato in America ad insegnare in un’università, manda anche il suo
Enderby in America e ne approfitta per mettere assieme una satira pungente che ha come
obiettivi il film di “Arancia meccanica” e gli Stati Uniti in genere. Dice di aver lasciato la
Gran Bretagna perché ormai c’era una società compiuta, che ha risolto gran parte dei suoi
problemi, e quindi non c’è niente da raccontare, per cui è venuto in America perché ci sono
tanti di quei problemi che ha l’imbarazzo della scelta su quale scrivere. Questa visione
negativa emerge in questo romanzo; Enderby è una figura meno gradevole di Burgess, è un
suo alter ego deformato, una persona più aggressiva e sgradevole, avanti negli anni,
incapace di interagire con i suoi studenti. Ci inserisce una satira del cinema in generale e
Kubrick in particolare: il libro si apre con un ricordo di un incontro casuale in un bar con un
regista in cerca di un soggetto per un suo film, Enderby gli suggerisce di prendere
ispirazione da una poesia di Hopkins, intitolata “il naufragio del deutschland”, che racconta la
storia di un vaporetto che dalla Russia deve andare a New York e deve trasportare delle
suore espulse dalla Russia in conseguenza all’introduzione di nuove leggi anti cattoliche, ma
non ci arrivano perché il vaporetto fa naufragio. Enderby suggerisce questo soggetto.
Presenta questo regista come un regista americano apprezzato per la sua intelligenza e
altrettanto bravo come qualsiasi altro regista europeo (il riferimento è a Kubrick); il soggetto
a lui piace, chiede a Enderby di scrivere la sceneggiatura; egli lo fa chiedendo un compenso,
cosa che Burgess lamenta di non aver avuto da “Arancia meccanica” (non è vero, inoltre era
colpa sua). In più, mentre presenta la parte finale della poesia, l’ultima preghiera della suora
prima di morire, il regista lo interrompe e dice che sono troppe parole e che al cinema loro
non usano tante parole, il cinema è un medium visuale (polemica: il cinema è inferiore alla
letteratura perché le parole sono fondamentali per l’uomo). Si trova di fronte a un film
completamente diverso dall’idea di Enderby: è ambientato dopo la seconda guerra mondiale
+ hanno inserito flashback sulla vita passata della suore, aggiungono nazisti, scene di sesso
e violenza. Come se Kubrick avesse tratto dal suo romanzo una versione accentuata di
sesso e violenza. E’ anche vero che quando Burgess aveva scritto la sceneggiatura (quella
poi rifiutata da Kubrick) si immagina anche cose peggiori, inserisce ulteriori episodi di
violenza. Poi non solo Enderby riceve delle minacce di morte, anche come Kubrick, quando
Enderby viene intervistato a riguardo del film in un talk show si presenta ubriaco lol,
nonostante le minacce si presenta comunque a parlare e difendere del film perché gli
interessava fare arte e letteratura, dicendo che i libri non sono mai responsabili di nulla, se le
persone sono sceme sono sceme.
Nell’87 pubblica una versione teatrale di “Arancia meccanica” in forma musical + una
versione teatrale nel ‘90. Nella versione teatrale immagina un prologo ambientato in
paradiso, che in realtà era un sogno di Alex, in cui Alex si veste da Adamo e commette il
peccato originale. Questo ossessivo ritorno su “Arancia meccanica” ci dice del modo in cui
aveva vissuto e sofferto tutta questa vicenda. Kubrick si estranea da tutto ciò tranne che in
un intervento nel ‘72 per rispondere a quell’accusa, spiegando la sua visione e
interpretazione della vicenda: dal punto di vista filosofico la sua versione era diversa da
quella di Burgess, aveva riferimenti culturali totalmente differenti. Quando il film arriva in
Italia viene denunciato, sospeso nella sua distribuzione e valutato da un pubblico ministero
che sconsiglia di procedere: le immagini non sono oscene perché sono frenetizzate, è
evidente che lo scopo non è offendere o eccitare lo spettatore. Se un’opera è riconosciuta
come opera d’arte dovrebbe essere automaticamente esclusa dalla possibilità di essere
denunciata, anzi si riconosce l’intento moralizzatore: la colpa finale è della società. Il
ministero ha ben interpretato il senso dello scontro fra Alex e la società e che se Alex è un
personaggio discutibile tutti quelli intorno a lui lo sono. Il film da una serie di messaggi e
lascia lo spettatore libero di riflettere sul senso dell’opera. Questo per dire che non c’è
un’influenza diretta sullo spettatore. Il giudice accoglie l’opinione del pubblico ministero e
ci mette qualcosa di suo: siccome le scene di sesso sono legate alla violenza allora non
sono eccitanti. Anche nelle scene in cui non c’è violenza o avvengono fuoriscena o si
svolgono alla ridolini e a rallenty. Verso le scene di violenza dice che ricorrono solo nella
prima parte del film perché è necessario mostrarle per il resto del film. Attraverso due
interpretazioni convergenti il messaggio finale arriva, si può dire del film che il suo piano
allegorico è molto chiaro, se si entra nel dettaglio le cose si fanno più complicate, ambigue e
sfumate, c’è di mezzo la differenza del medium (le parole sono una cosa, quelle di Alex poi
sono ancora più ambigue perché distanti dal linguaggio dello spettatore, la versione
cinematografica è diversa: Kubrick deve ridurre questo linguaggio, seleziona alcune parole
che mantiene, altre le sostituisce con l’inglese corrente, inoltre deve visualizzare le imprese
di Alex ottenendo un effetto più forte, le immagini sono più dirette ed immediate). Le
polemiche riguardano proprio la prima parte del film e le imprese di Alex, particolarmente
seducente per lo spettatore che presenta come seducenti queste imprese in prima persona
(racconta tutto in flashback). Al cinema le cose sono più complicate: non c’è soltanto
qualcuno che racconta ma anche qualcuno che deve visualizzare quel racconto. Come
diceva Gaudreault, al cinema ci sono sempre due entità narranti: il narratore vero e proprio e
il mostratore, colui che si incarica di far vedere, visualizzare, impostare l’inquadratura, e
non è detto che le due cose vadano insieme. Già nella prima inquadratura c’è un voiceover
di Alex, che parla da un punto indefinito della storia, c’è fin da subito una frattura temporale,
ma chi è che ci mostra Alex stesso? Chi ha deciso che la sequenza deve iniziare in questo
modo, con lo sguardo di Alex diretto in macchina e uno zoom lento, presentandoci una
scena inventata da Kubrick senza alcuna descrizione dell’ambiente in cui si trova in linea
con l’istintività del personaggio di Alex, quindi il mostratore deve inventare tutto. Già questo
modo di presentare i Drughi e Alex stesso con questo movimento che ci allontana da loro
comunica moltissimo la situazione: questa prima sequenza e lo zoom sono stati letti in tutti i
modi possibili (chi dice che come modo di invitare lo spettatore a prendere le distanze da
Alex, chi dice che serve a sottolineare la centralità di Alex, che è l’unico a muoversi in
questa inquadratura). C’è un filtro tra il personaggio e lo spettatore che è fondamentale.
La questione che viene presa di mira è chi vede le cose che vediamo nel film? Alex è il
narratore, nel romanzo questo esaurisce il problema, ma al cinema le cose sono più
complicate: il narratore è ancora Alex, si presenta con un voiceover, e intanto lo vediamo: a
chi dobbiamo attribuire quest'elemento che si aggiunge, ad Alex o a qualcun altro? Le
polemiche si dividono: è chiaro a tutti che c’è un filtro estetizzante nel modo in cui vengono
presentate le imprese di Alex; ad esempio la sequenza dell’uccisione del clochard, dove
vengono riprese le tecniche dell’espressionismo tedesco, può essere letta come il modo in
cui Alex si vede e rende gradevoli le sue imprese al pubblico, mentre se è qualcun altro
che vede si può leggere come un modo di prendere le distanze dalle imprese di Alex, di
renderle astratte, che è la stessa funzione del linguaggio inventato. Sono due interpretazioni
ugualmente sostenibili e che non dialogano. Se il problema è quello di rendere piacevoli le
imprese di Alex e fare in modo che lo spettatore si immedesimi con lui allora la forma ideale
per realizzarlo sarebbe stata quella del cinema classico, che serve a coinvolgere lo
spettatore disinnescando qualsiasi distanza; la sequenza iniziale invece ci presenta un film
non classico, che segue un altro tipo di estetica: il film si apre con un violento sguardo in
macchina in una forma provocatoria. Questo al di là del fatto che la prima sequenza è
ambigua, ambivalente, strana, conferma la non classicità del film e la sua struttura
frammentaria ed episodica: Alex guarda e si rivolge allo spettatore, si presenta e presenta le
sue imprese in modo che poi non sarà vero, perché è l’ultima volta che i Drughi faranno
queste cose. E’ un’apertura singolare che sembra slegata dalla narrazione del resto del film,
non succede niente, riprende il cinema delle origini, Alex sembra quasi rivolgerci una sorta di
brindisi (come quello che rivolge poi alla cantante), ci coinvolge ancora di più. Per capire a
chi dobbiamo attribuire il filtro visivo dobbiamo chiederci quando Alex racconta e se sia
sempre lui a raccontare; sul quando esistono due interpretazioni: una di Giorgio Cremonini,
convinto che Alex racconta al presente, man mano che le cose succedono, commenta più
che racconta, ma questo si può smentire molto facilmente (introduce una piccola
anticipazione dicendo quale sarà il carattere della seconda parte, sa già cosa succederà,
oppure dopo il suo tentato suicidio dice che se fosse morto non avrebbe potuto raccontare
quello che sta raccontando). L’americano Falsetto sostiene che siccome Alex racconta le
sue imprese ultraviolente in tono molto pacato significa che racconta in un momento
incluso fra la cura Ludovico e il suicidio, ma si tratta di un’interpretazione di fantasia,
soggettiva. In ogni caso il racconto avviene a posteriori, quando Alex sa già come sono
andate le cose. Il secondo problema: nel film abbiamo frammenti che non possiamo
attribuire ad Alex, né nella visualizzazione né nel racconto: nel primo ingresso in casa di
Alexander abbiamo un'inquadratura fissa con un carrello molto regolare, contrario a quello
che succederà dopo quando i Drughi entrano e porta il caos non si può attribuire ad Alex,
così come, nel momento in cui Alex si appresta a fare violenza nei confronti della moglie di
Alexander, chi visualizza ci costringe a metterci nei panni di Alexander e non di Alex, tramite
una semi-soggettiva di Alexander, l’uso del grandangolo che deforma mostra i sentimenti di
Alexander, non di Alex. Nel momento in cui c’è un filtro estetizzante applicato da Alex (canta
la canzone di un musical) è sempre visto dal punto di vista di Alexander, passiamo infatti ad
una sua soggettiva in cui Alex ci invita ad assistere. In un universo narrativo emotivo come
quello di Alex in cui lui è al centro di tutto è impensabile che sia concessa una focalizzazione
di questo tipo su un altro personaggio, in questo caso di un personaggio vittima. La stessa
cosa succede quando Alex torna nella casa di Alexander. Quindi nel film ci sono una serie di
elementi che ci distanziano da Alex, soprattutto dal punto di vista visivo. C’è poi una
sequenza costruita come la prima del film: un primo piano di Alexander seguito da un lento
zoom all’indietro, Alexander viene visto da qualcun’altro. Diventa insostenibile la convinzione
di molti polemisti dell’epoca secondo la quale il film spinge continuamente lo spettatore ad
identificarsi con Alex e emularne le imprese; in realtà fa anche qualcosa d’altro: così come
Alex ha un suo linguaggio così ha anche un modo di vedere le cose, le sue imprese, dunque
una parte del lavoro di estetizzazione va attribuito ad Alex, al suo essere narratore e in parte
visualizzatore, ma mai integralmente, spesso un narratore misterioso interviene, ci costringe
a prendere il punto di vista di altri personaggi e integra nel racconto cose che Alex non può
conoscere. A questo narratore si può attribuire un distanziamento ironico rispetto a quello
che Alex dice. Nella scena in cui Alex e i Drughi sono in macchina Alex commenta quello
che sta facendo e quello che sta vedendo, parla del buio di campagna come un vero buio di
campagna, che viene però realizzato con un sistema tecnicamente meno avanzato che c’era
a disposizione: trasparente o retroproiezione = riprende tutto in studio, alle spalle dei
Drughi c’è uno schermo cinematografico sul quale viene proiettata una ripresa che crea un
ambiente estremamente artificioso; qui si vuole sottolineare l’artificiosità della sequenza in
contrasto a quello che dice Alex, è un modo di smentirlo; ad Alex viene attribuito un
immaginario che ricalca il cinema hollywoodiano classico. Le lovely pictures di cui parla
fanno proprio riferimento a un immaginario hollywoodiano classico, così come quando in
carcere legge la bibbia si immagina come potrebbe visualizzarla secondo una visione
hollywoodiana tradizionale. Volutamente Kubrick gioca con il cattivo gusto, con il kitsch,
una forma estetica spinta agli estremi della volgarità in modo da attribuirla alla visione di
Alex: nel momento in cui vogliamo attribuire a lui l’estetizzazione delle sue imprese si tratta
di un modo strano di estetizzarle, il gusto estetico di Alex è presentato come discutibile.
Kubrick lavora sul ruolo dell’arte nella visione di Alex, del mondo e della cura Ludovico;
Alex è incapace di distinguere tra alto e basso, l’immaginario hollywoodiano più scontato si
incrocia con la musica classica più raffinata, tutto viene messo sullo stesso piano da Alex,
che utilizza entrambi come stimolante (è la musica che lo spinge a scontrarsi con i Drughi
per risolvere ciò che è rimasto in sospeso). Kubrick si diverte a giocare con le convenzioni
del momento e le attribuisce sempre ad Alex, il cui gusto è poco convenzionale, mischia
tutto. Il buon gusto, la capacità di percepire il bello, era una delle tre cose che definivano
l’uomo per Burgess, che nel romanzo aveva interpretato la musica come una cosa che
rivelava un aspetto umano potenzialmente riscattabile in Alex (la cura Ludovico non
coglie questo potenziale e lo distrugge). In un’intervista degli anni ‘80 Burgess dichiara che
si immagina che Alex un giorno diventerà un grande compositore: si inventa questa possibile
continuazione futura, l’Alex guarito dell’ultimo capitolo della versione americana - che non ha
più bisogno di musica, arte, violenza, sessualità… - può riscattarsi attraverso la sensibilità
estetica. Kubrick la interpreta in maniera diversa, come un aspetto discutibile della
personalità di Alex e del mondo che lo circonda, caratterizzato dal cattivo gusto con
riferimenti soprattutto alla Pop Art, qualcosa che appare ancora come qualche cosa di
discutibile, al confine fra l’arte e la sua riproducibilità tecnica. Quel poco di altro che
sappiamo del mondo di Alex ci rimanda al cattivo gusto (gli interni della casa e i vestiti dei
genitori). Il murale di ispirazione fascista/barbara rappresenta il regime capitalista che è
stato desublimato dalla generazione di Alex ed è un modo per mettere in luce ciò che quel
tipo di rappresentazione artistica è un mondo esteticamente discutibile riprendi che non ho
capito. Kubrick in queste dichiarazioni faceva spesso riferimento al cinema classico: se
“Arancia meccanica” dovrebbe indurre a ripetere le imprese di Alex ed esaltare la violenza
allora cosa dovremmo dire del ciclo di film di James Bond = quel tipo di cinema classico che
mette in scena la violenza come qualcosa di privo di conseguenze, quasi piacevole. Quello
che Kubrick vuole sostenere in questo film prende più le distanze da Burgess di quanto non
sembri e di quanto Burgess non avesse mai compreso: essendo i riferimenti culturali di
Kubrick diversi da quelli di Burgess il risultato finale inevitabilmente cambia; Kubrick
laicizza il finale cambiando completamente i riferimenti culturali, per cui alla polemica
teologica per Burgess fondamentale sostituisce riferimenti apparentemente coincidenti, che
in realtà portano a una strada diversa; il suo riferimento negativo era Rousseau, Kubrick
diceva di non condividere l’idea di Rousseau dell’uomo, nel suo stato di natura, come buon
selvaggio che viene poi corrotto dalla società, che era un po’ l’idea di Pelagio. I due
riferimenti positivi che aveva in mente sono da un lato Darwin, dall’altro Freud: per
Darwin c’è di mezzo lo scrittore e drammaturgo Robert Ardrey, diventato poi divulgatore
scientifico e promotore della teoria della “scimmia assassina”, con cui Kubrick è
d’accordo = la convinzione che l’uomo non è un angelo caduto ma una scimmia cresciuta,
da qui l’evoluzionismo di Darwin, e il passaggio decisivo dalla scimmia ai progenitori
dell’uomo è avvenuto nel momento in cui la scimmia ha capito che può usare altri oggetti,
come ossa, come armi: la violenza è alla base dell’uomo. Freud è l’elemento più
problematico, che non si incastra: il contrasto che Burgess voleva presentare nel suo
romanzo è pre freudiano, è un contrasto fra bene e male, fra un uomo che sceglie e un
uomo che non può scegliere. L’uomo freudiano è frammentato, fa spesso cose perché
pensa di volerle fare ma le fa sull’onda di pulsioni che non è in grado di controllare e di cui
non è consapevole. Questa visione freudiana dell’uomo è qualcosa che non è conciliabile
con la visione semplice di Burgess. Il punto di vista di Kubrick è contraddittorio rispetto
a quello di Burgess; con la messa in gioco di Freud la questione del libero arbitrio, centrale
nel romanzo, finisce per perdere di senso: apparentemente rimane al centro del racconto (la
cura Ludovico punta su di essa), ma Freud pensa a un uomo intrinsecamente scisso,
impossibilitato a controllare pienamente le sue scelte e decisioni, il concetto dell’inconscio
pregiudica la possibilità di parlare di libero arbitrio, confligge con la possibilità della
libera scelta di molte delle cose che facciamo, che sono frutto di pulsioni che non
controlliamo e prendono il sopravvento inconsapevolmente. In un’intervista Kubrick sostiene
che la lettura del film che gli interessa maggiormente si colloca su una sorta di piano onirico,
psicologico e simbolico: dice che l’esperienza del cinema è paragonabile all’esperienza del
sogno (che è poi la possibilità presentata dalla cura Ludovico). Questa lettura psicoanalitica
che Kubrick vuole dare nella vicenda di Burgess è circondata di perplessità: Kubrick spiega
che la prima parte del racconto, che ci presenta le imprese di Alex e dei Drughi, vede in Alex
l’uomo allo stato di natura oppure l’inconscio, a seconda delle interviste; il secondo
segmento Alex sarebbe l’uomo nella sua fase di incontro/scontro con il suo super io;
nella terza fase l’uomo che dopo l’incontro/scontro con il super io diventa adulto, viene
integrato dalla società. E’ uno schema esemplificativo che funziona fino a un certo punto,
in realtà la lettura di Alex come inconscio è un po’ debole, secondo Freud l’uomo non nasce
con l’inconscio ma esso deriva dall’incontro con la società, sarebbe quindi riconducibile alla
seconda parte, la lettura funziona nella misura in cui lo pensiamo come a una prima fase
dell’infante in cui tutto ciò che poi finirà nello scontro viene sfogato (le due pulsioni
fondamentali per Freud sono la libido e l’istinto di morte, che si prestano interpretare i due
moventi principali delle azioni di Alex e dei Drughi). Questa lettura freudiana confligge con il
piano di Burgess perché quello che Kubrick vuole esprimere è il contrario di quello che
dicevano Rousseau e Burgess = l’uomo nasce buono ed è la società che lo travia; Kubrick
sostiene il contrario, che quella di Rousseau è una falsa premessa, che l’uomo nasca con
una serie di limiti, limiti che si riversano nella costruzione sociale (sopraffattrice, violenza
ecc.). Il ribaltamento di prospettiva del giudizio dato sulla società compromette la lettura
ideologica che Burgess aveva voluto dare nel romanzo, che quasi non ritroviamo nel film, al
punto che “Arancia meccanica” il film non è più una distopia anche se viene presentata in
questi termini: se partiamo dal presupposto di Kubrick che qualunque costruzione sociale
sarà un disastro, allora la distinzione di Burgess tra i due tipi di società nelle parti del
romanzo (ugualmente estremisti e tendenti alla stessa forma di totalitarismo, uno di destra e
uno di sinistra) viene meno nel film. Si dice chiaramente nel romanzo che la cura Ludovico
non serve tanto a contenere limitare e risolvere il problema della violenza giovanile, ma a
svuotare le carceri che sono sempre sovraffollate (cosa che in Kubrick scompare) perché
molto presto dovranno essere riempite di prigionieri politici (questo è un presagio
dell’avvento dello stato totalitaristico sul modello di “1984”); alla fine del romanzo il ministro
che va a trovare Alex per convincerlo a collaborare con il governo gli dice chiaramente che
Alexander è stato arrestato per ragioni politiche (primo esempio di prigioniero politico). Nel
film di Kubrick il piano politico gli interessa di meno, così come la differenza nella società
tra la prima e la parte terza, gli interessa più un’allegoria psicologica sulla teoria dell’uomo in
generale rispetto alla quale il problema sociale passa in secondo piano; anche nel film la
società è peggio di Alex, lo è perché prende il peggio di Alex, ci aggiunge del suo e influenza
negativamente Alex. Se nel caso dello scrittore l’arte rappresenta una possibile ancora di
salvezza, qualcosa che può essere usato correttamente o scorrettamente, Kubrick è molto
più pessimista in questo senso, l’arte che incontriamo nel film riflette le due pulsioni principali
(quella violenta e quella erotica, che domina tutta l’arte presente nel film - così come la cura
Ludovico che consiste nella visione di filmati pornografici). Se il piano diventa meramente
filosofico diventa astorico, l'ambientazione nel futuro non ha senso, per questo si può non
parlare di film distopico: si spiega la sfiducia nell’uomo che era stata superficialmente
interpretata con una lettura fascista. Il film "Marat/sade" (1967) di Peter Brook ha ispirato
Kubrick nella scelta dell’attore Magee per Alexander; ambientato nel manicomio in cui il
protagonista è stato rinchiuso vengono messe in campo due visioni del mondo diverse:
quella cinica di Sade e quella politicamente? di Marat: la natura è indifferente nei confronti
delle sorti dell’uomo, la natura spinge l’uomo a inseguire la sua felicità, e se per fare questo
occorre uccidere allora l’assassinio è del tutto naturale. Sade dice che tutti abbiamo in
qualche momento della nostra vita cercato di prevaricare sugli altri e abbiamo fatto cose
terribili, ma se l’uomo si limita a uccidere meccanicamente non prova nessun piacere nel
farlo e agisce come una macchina (da qui “Arancia meccanica”), ma deve distruggere con
passione, è quello che farò l’Alex del romanzo di Burgess, che è una specie di corpo
pulsionale di bambino polimorfo perverso che agisce istintivamente ma a volte si ferma a
fare delle riflessioni: in una di queste Alex si interroga sul suo ruolo rispetto alla società,
dicendo che capisce il perché la società cerca di limitarlo ma lui continuerà ad essere com’è,
a fare violenza e uccidere, perché gli piace. L’esempio è quello di un attentatore alla vita di
Luigi XV che è stato messo a morte in maniera pubblica e terrificante che viene descritta nei
dettagli. Interessante come Brook ottenga da Magee una recitazione calma, espone con
freddezza e cinismo la sua teoria della naturalità della violenza, della violenza come
componente fondamentale della natura umana (si avvicina al pessimismo di Kubrick molto
lucido, lucidità che è stata colta come forma di indifferenza negli anni ‘70).
“I vizi morbosi di una giovane infermiera”: de la Iglesia ritorna involontariamente a Burgess,
nonostante il suo punto di riferimento fosse il film di Kubrick il piano politico ritorna a essere
fondamentale. De la Iglesia aveva esordito da giovane, aveva lavorato per la televisione e
poi per il cinema; tra le altre cose che ha fatto prima di una “Gota de sangre” ci sono tre film,
thriller piuttosto sovraccarichi che sono un modo per parlare del piano politico, di una
Spagna che è ancora sotto il regime fascista di Franco. De la Iglesia è iscritto al partito
comunista clandestino, la sua posizione politica è chiara, è di origini basche ed è
omosessuale, quindi il discorso sull’erotismo lo interessava particolarmente ed è una
componente che in “Arancia meccanica” lo aveva colpito. De La Iglesia ha un successo
commerciale enorme a suo tempo, era molto popolare e stimato dalla critica cinematografica
e dal pubblico. La differenza fondamentale con Almodovar è nel percorso diverso che li
porta a fare cinema: Almodovar si inserisce in un contesto di sottocultura, denominato
all’epoca movida, la prima sottocultura giovanile che aveva potuto svilupparsi nella Spagna
dopo la caduta del regime; Almodovar comincia lavorando sui sottoprodotti commerciali che
la cultura ufficiale disprezzava. Questo tipo di sottocultura non ha mai avuto presa su de la
Iglesia, che sdegnava ugualmente il cinema d’autore: quando si avvicina a Kubrick si
avvicina a un genere di cinema che disprezzava apertamente, quello che gli interessava era
portare un discorso politico al più grande pubblico possibile; sdegnava il cinema d’autore e il
concetto di autore in quanto dalla sua posizione rigida di comunista riteneva l'autore e l’arte
in senso alto come prodotti oppressivi, come un tentativo di educare il pubblico e
imporgli quello che gli doveva piacere. Lavorare nei generi cinematografici più in voga e più
popolari proprio come scelta politica: ci troviamo con una rilettura dal basso di un film che
sta in alto, ma è un caso diverso rispetto a quelli precedenti. Se la rilettura di Girolami
prendeva di mira apertamente un preciso film e quello di Castle apparteneva al genere
senza alcun tipo di lettura ideologica, qui siamo di fronte a una rilettura del film di Kubrick
che non nasce con questa intenzione, lo diventa stradafacendo per necessità, che offre una
rilettura politica perché questo era il tipo di lavoro sul genere cinematografico che faceva de
la Iglesia. Il genere cinematografico gli permette di fare questo durante la dittatura
franchista perché i suoi sono film che non vengono presi sul serio, sono meno abrasivi nei
confronti della politica, anche la censura fa meno caso a questo tipo di film rispetto a prodotti
di autori di spicco. Sono due le storie che nel film si incrociano, una ispirata a “Arancia
meccanica” che riguarda un gruppo di giovani teppisti e una che riguarda una giovane
infermiera che uccide una serie di persone; il tutto è ambientato in un futuro non
specificato e intrecciato a una serie di esperimenti che vengono condotti nell’ospedale in
cui l’infermiera lavora per condizionare dei criminali perché perdano la propensione per il
crimine e smettano di compiere atti violenti. Queste tre linee narrative erano già state
pensate da de la Iglesia prima dell’uscita di “Arancia meccanica” ma per essere ambientate
nella Spagna contemporanea, doveva essere un discorso politico più esplicito e a maggior
rischio di censura, anche perché è il primo caso in cui de la Iglesia ha a disposizione una
produzione un po’ più ambiziosa rispetto alle precedenti (infatti i due protagonisti sono attori
spagnoli abbastanza di punta). Mentre pensa e lavora a questo suo progetto dove
l’equivalente della cura Ludovico era molto più semplice, consisteva in un elettroshock a cui i
criminali venivano sottoposti per essere curati, ma mentre lavorava a questa sceneggiatura
si è recato a Londra dove ha visto “Arancia meccanica” e vi riconosce alcune sue idee,
sapendo che lo avrebbero accusato gioca d’anticipo e trasforma il suo film in una rilettura di
“Arancia meccanica”, citando esplicitamente Kubrick e trasformandolo in una sorta di
omaggio a Kubrick. Questo consentiva a de la Iglesia un altro filtro capace di separare gli
eventi rispetto alla contemporaneità in cui voleva ambientarlo all’inizio e ad affrontare meglio
la censura: nonostante ci siano rimandi espliciti alla dittatura di Franco siamo in un futuro
indeterminato. Approfittando di una relativa apertura che negli ultimi anni della dittatura di
Franco inizia a delinearsi e sfruttando questo filtro di fantascienza non previsto inizialmente
riesce a far passare facilmente questo film che è un’allegoria molto forte di una dittatura:
torna in primo piano la questione politica, tiene insieme le vicende della infermiera assassina
e dei Drughi, le incrocia (David che si incontra con l’infermiera e la ricatta perché ha
scoperto che è un’assassina, quando si scontra con i Drughi viene portato nell’ospedale
dove lei lavora per essere poi sottoposto all’equivalente della cura Ludovico e l’infermiera lo
uccide). Viene confermato il riferimento al piano artistico che cambia però significato: qui
tutto è spostato dal cinema alla televisione; il film si apre sulla televisione, è costellato di
pubblicità (blue movie = film pornografico, viene spiegato il titolo inglese; l’edizione inglese è
filologicamente corretta, il film viene girato un po’ in una lingua un po’ in un’altra, non esiste
una versione totalmente originale, entrambe sono in parte doppiate. De la Iglesia ha
sottolineato i limiti del film: la produzione troppo ambiziosa e i doppiatori spagnoli.
Viceversa la versione italiana rappresenta un tentativo di rileggere il film sempre sul piano
politico ritraducendo alcuni pezzi inventando dialoghi inesistenti e tagliando le pubblicità). Le
pubblicità sono fondamentali per rileggere il piano artistico trasformandolo in un
messaggio apertamente anticapitalista: uno dei lati negativi di questa società è la
televisione e la pubblicità opprimente. De la Iglesia apre il film con una pubblicità (di ?
colorato chimicamente di blu), seguita da un diverso tipo di prodotto televisivo = un
telegiornale in cui si da notizia dell’ennesima vittima dell’infermiera e si dice chiaramente che
siccome le vittime sono tutte molto giovani inevitabilmente l’assassino deve essere o uno
psicotico o un omosessuale (andando a criticare alcuni pregiudizi), ovviamente entrambe
queste piste sono sbagliate, rispondono a una serie di luoghi comuni associati alle
imposizioni culturali del regime che passano attraverso alla pubblicità. E’ interessante il fatto
che gli effetti dell’equivalente della cura Ludovico dentro il film siano visti da dietro lo
schermo, come se fossero a loro volta una trasmissione televisiva.
Il discorso che cerca di fare de la Iglesia ha al suo centro di nuovo la violenza e la
sessualità, mentre si va a perdere la riflessione estetica che diventa una critica a un mezzo
di comunicazione, la televisione, a cui non si riconosce alcuna dignità estetica. Si parla della
duplice violenza della televisione: da un lato è una violenza che distorce in modo
propagandistico la televisione, dall’altro è una televisione veicolo di messaggi commerciali il
cui scopo è di distrarre dal regime capitalista instaurato in questi anni, distrae perché vende
l’immagine di un mondo felice (sono pubblicità ottimiste e sarcastiche, come quella della
bibita blu che viene presentata come naturale e priva di additivi chimici quando di naturale
non ha nulla; anche l’infermiera apparentemente indifferente a quello che si parla in
televisione si vede che beve questa bibita per tutto il film, rimane vittima dell’influsso
subliminale esercitato da quest’associazione che mette insieme capitalismo e fascismo); la
televisione come mezzo privo di valore estetico, è un mezzo negativo che influisce sulla
società. C’è poi il piano della violenza “privata” = le imprese dei giovani criminali, e il piano
della violenza sociale, quella interpretata dal regime che si concretizza in un‘alleanza che si
instaura tra potere politico e potere medico. Tutte queste forme di violenza si incrociano
nella televisione: delle imprese di Anna si parla in televisione, tutta la cura di Domenico
finisce in televisione (i risultati della cura sperimentale si vedono poi dentro a uno schermo
televisivo, come se fosse una sorta di reality), nella loro prima impresa i Drughi spagnoli
distruggono la casa della famiglia felice e perfetta e i suoi arredi eleganti, distruggendo per
ultima cosa la televisione. Tutto questo in un regime di cui non sappiamo tanto, solo che è
totalitario e non viene nascosta un’esplicita allusione al regime franchista (c’è il simbolo
dell'aquila che ricorre diverse volte). Le imprese di Anna in tutto questo sembrano
un’impresa slegata: lo sono nella versione italiana, ma nella versione originale sono
perfettamente coerenti a questo discorso perché l’infermiera non sceglie le sue vittime a
caso ma le sceglie perché le ricordano i genitori, sempre per una questione
ideologica/politica (non psicologica come nella versione italiana) che Anna spiega in uno
degli incontri con Domenico, presentando i genitori come rivoluzionari Sa? che non hanno
saputo fare la rivoluzione, dopo aver ereditato dei soldi si sono chiusi in casa e lasciati
morire. Allora lei uccide tutti quelli in cui riconosce una replica di questa matrice, è una sorta
di risvolto positivo di Anna che de la Iglesia ci presenta: lei si incarica di uccidere persone
che sono già morte perché hanno rinunciato a cercare una completezza come persone e si
sono isolati dalla società, sembrano vittime ma in realtà non fanno nulla per rimediare al
fatto che sono complici del sistema, sono parte in causa del problema. La sua prima vittima
è un giovane invalido, condizione che lo fa soffrire, che racconta ad Anna di aver accettato
un lavoro in una grande industria nonostante non gli piaccia e non gli interessa soltanto
perché è una grande industria, si rende complice del sistema di capitalista nei confronti del
quale Anna si rivolta a differenza dei suoi genitori che si sono limitati a leggere libri,
appendere slogan sulle pareti per poi chiudersi in casa. La seconda vittima è un uomo che si
presta a lavorare nella pubblicità, a questo meccanismo capitalista mostrato fin dalla prima
sequenza, rivelando ad Anna di sentirsi molto insoddisfatto e insicuro = anche lui rinnega i
suoi problemi personali affidandosi al mercato commerciale. La terza vittima è un giovane
omosessuale che Anna, travestita da lesbica in abiti maschili in un locale per omosessuali,
seduce, porta a casa, anche lui si rivela un giovane disagiato sofferente perché non accetta
la propria sessualità, il senso di inferiorità che prova rispetto a un modello di maschilità che
la propaganda presenta; questo è qualcosa che nel romanzo di Burgess si trova. Le imprese
di Ana sono coerenti con il progetto ideologico di de la Iglesia, che ha degli aspetti complessi
e critici: il regista dichiarava esplicitamente che la sua idea era semplice = una società
violenta non può che indurre alla violenza, come nel caso di Ana, in una società non
violenta non avremmo il personaggio di Ana; ribalta completamente il discorso che aveva
fatto Kubrick. Scagiona Ana facendone una vittima sia dell’influenza della pubblicità sia
della società stessa, dall’altro lato giustificando i suoi delitti in quanto vanno a colpire
persone che anche inconsapevolmente si sono rese complici di questo sistema, cosa che lei
rifiuta di fare. E’ interessante che de la Iglesia si dichiari non pacifista, si rende disposto a
giustificare la violenza là dove la sua presenza sia necessaria, come nel caso del
rovesciamento di un regime: è una posizione per niente scontata in un momento in cui sia
Italia che Spagna erano arrivate a estremismi, soprattutto per una persona “marginale”
com’era lui nella società (i movimenti omosessuali che nascono in quegli anni sono tutti
pacifisti). In questo film dichiara esplicitamente la giustificazione teorica della violenza, in
un contesto come questo. Il suo progetto iniziale viene descritto come la storia di una
infermiera fascista che uccideva persone che riteneva inferiori rispetto all’ideale che il
fascismo propagandava, cioè il contrario di quello che fa nel film, anche se Ana è un
prodotto della società fascista in questione; aveva pensato di mettere in comunicazione
questo film con Kubrick perché, anche se si presenta come un piccolo e modesto omaggio è
in realtà una sorta di matrice opposta, sia nel discorso del rapporto fra l’uomo e la società
sia nel discorso politico, che viene messo al centro in questa distopia (che distopia non è,
sta denunciando una società che c’è già). Siamo lontani dalla versione conservatrice di
Burgess, questa è una prospettiva rivoluzionaria: alla fine della versione spagnola il
fallimento della cura Ludovico del film si traduce nel caos, nella rivolta violenta. I criminali
sottoposti alla cura vengono fatti mangiare insieme per dimostrare di essere pacifici e aver
acquisito il rispetto delle convenzioni sociali, salvo che alla fine - nessuno sembra
accorgersene perché tutti distratti dall’omicidio compiuto da Ana - viene mostrato il fallimento
della cura e del tentativo di reintegrare questi personaggi, che finiscono per uccidersi tutti a
vicenda. Rispetto a questa rilettura che ci offre de la Iglesia della vicenda di “Arancia
meccanica”, la versione italiana è nella sua follia interessante, è una follia apparente che
nasconde un chiaro piano razionale: la versione italiana era il risultato di interventi di
censura e interventi affidati a Vinicio Marinucci, critico cinematografico del quotidiano
“Momento sera” moderato. Egli fa due cose fondamentalmente: elimina quasi tutte le
pubblicità del film, così come elimina i risultati della cura Ludovico = buona parte della
critica alla televisione scompare, rimangono gli interventi del regime; modifica poi
sensibilmente alcuni dialoghi che coinvolgono l’infermiera e, per quanto sembrino sciocchi e
banali, cambiano completamente il significato del personaggio e delle sue azioni. Il primo
dialogo che lei ha con il medico viene completamente cambiato: da “tu hai tutte le qualità
ideali per essere un medico” a “tutte le qualità per essere una buona moglie”, l'elogio sulle
sue capacità da medico sono state sostituite da un discorso sessista che riguarda le due
qualità di essere una moglie ideale; nell’originale lei dice “è un lavoro completo, mentre
quello del psichiatra che fai tu è manchevole perché è freddo, le operazioni che fate sono
molto calcolate e studiate, mentre nel mio mestiere di infermiera io ci metto tutto, conforto,
aiuto e ascolto i pazienti”, è molto critica soprattutto nei confronti degli esperimenti che
vengono condotti in ospedale, nella versione italiana Ana confronta il suo essere infermiera
con il suo essere moglie, non più con l’essere medico di Victor; dice nella versione italiana di
non poter essere moglie per via delle brutali violenze subite. Questa modificazione è la
premessa di quel sabotaggio del personaggio di Ana che vuole farne una sorta di
psicotica che uccide le persone che incontra in virtù di un trauma infantile (le violenze subite
che non esistono nella versione originale). Gli unici che nel film vediamo interpretare
violenze sessuali sono i giovani teppisti, nella versione italiana si suggerisce quindi che lei
possa aver subito violenze da questi giovani che si muovono quindi contro la società, non
sono parte integrante di essa (come in quella originale). Tutte le colpe vengono fatte cadere
sui giovani e sul trauma infantile, andando a perdere tutto il discorso ideologico. Marinucci
aveva capito di avere davanti un film comunista, quindi lo trasforma in un film conservatore
stravolgendolo, trasformandolo in una vera e propria distopia. Il secondo dialogo
fondamentale che viene trasformato è sempre quello tra l’infermiera e il medico in cui si
parla della famiglia e del passato di lei: mentre la prima parte è tradotta fedelmente dalla
versione originale (i genitori sono presentati come ex sessantottini), è il ruolo della madre
che cambia, viene presentata come i ragazzi che protestavano nel ‘68 venivano
rappresentati dai giornali in Italia = piccoli borghesi che giocavano a fare la rivoluzione e
potevano permettersi di farlo perché avevano soldi e non dovevano lavorare, e sfruttavano
la politica per poter accedere a ciò che gli interessava davvero, le droghe e il sesso. Così la
madre di Ana viene presentata nella versione italiana: i traumi infantili di lei rimandano ai
genitori e ancora una volta ai giovani visti in un’ottica conservatrice, la cui colpa non è più
quella di aver tradito la rivoluzione come nel film di de la Iglesia ma tutto è trasferito sulla
madre, la cui rivoluzione consiste nell’essere andata a letto con tutti, suscitando la gelosia
del padre che la uccide e si suicida. Anche qui la lettura ideologica di de la Iglesia viene
eliminata dal film, sostituita con una lettura che apparentemente è quasi simile, ma in realtà
cambia completamente il senso e il giudizio che viene dato su quei giovani (negativo e
banalizzato, così come il discorso sulla femminilità che è tutto inventato da Marinucci). Viene
disinnescato il discorso palesemente comunista di de la Iglesia, trasformato in un film
moderato così com’era molto il cinema di genere italiano di quegli anni.
Pasolini nel 1974, appena dopo il film di de la Iglesia, (poco dopo verrà ucciso dopo alcune
dichiarazioni in televisione) in un documentario chiamato “Pasolini e la forma della città”
parlando di Sabaudia, città costruita dal regime fascista che in realtà non ha nulla di fascista,
se non alcuni caratteri esteriori: ci dice che il vero fascismo, quello pericoloso, non è stato
quello del regime ma il “neocapitalismo”, l’Italia distrutta che lui descrive è l’Italia del boom
economico di cui ci parlava “Rocco e i suoi fratelli”. Questo nuovo fascismo dalle parvenze
democratiche, come lo definisce Pasolini, è più pericoloso perché subdolo e passa sotto
l’alleanza con l’industria e il capitalismo, va a intaccare la natura degli italiani, che il fascismo
non era riuscito realmente ad attaccare. Quel discorso di de la Iglesia, di mettere insieme il
discorso sul capitale e la pubblicità con il regime franchista fascista era in realtà percepito
dalla cultura di sinistra come convergenti. L’idea di Pasolini del neocapitalismo come forma
più aggressiva e irreversibile di fascismo è lo stesso discorso che prova a fare de la Iglesia.

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