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invece piuttosto certi che i primi contatti siano avvenuti attraverso La
Diana,5 della quale il giovane Ungaretti fu lettore e collaboratore. A partire
dal maggio 1916, nel periodico apparvero numerosi tanka6 di Akiko Yosano
e Suikei Maeta7 (in più d'un caso editi a ridosso dei versi di Ungaretti) 8, in
una traduzione di discutibile qualità curata da Gherardo Marone e da
5 Edita tra il gennaio 1915 e il marzo 1917, La Diana di Napoli si proponeva di andar
“contro la falsità e la mancanza di fede, contro la retorica e l'uso ambiguo della
tradizione”; fu diretta dapprima da Fiorina Centi (talvolta celatasi dietro lo pseudonimo
di Paolo Argira) e, dal gennaio 1916, da un comitato di redazione non specificato, alla
cui testa si collocava l'intellettuale Gherardo Marone. La Diana è solitamente ricordata
per i suoi contributi letterari (ma non ne mancarono d'argomento politico, civile,
filosofico e artistico): recensioni, poesie, prose e interventi critici compaiono in ogni
fascicolo, spesso siglati da firme illustri, fra le quali spiccano quelle di Benedetto Croce,
Umberto Saba, Tristan Tzara, Clemente Rebora, Marino Moretti, Corrado Govoni,
Salvatore Di Giacomo, Massimo Bontempelli e Giuseppe Ungaretti. Per un profilo
storico della rivista e dei lavori realizzati dalla sua équipe, cfr. A. Dei (a cura di), La
Diana 1915-1917 — Saggio e antologia, Roma, Bolzoni, 1981.
6 I waka, detti anche uta o tanka, sono delle composizioni giapponesi di carattere lirico-
descrittivo composte da trentatré morae o onji, scandite in cinque versi, secondo uno
schema 5-7-5-7-7. Gli haikai (detti anche haiku) sono delle brevi poesie solitamente
incentrate sulla focalizzazione di un istante, spesso caratterizzate da un kigo (elemento
stagionale) e costituite da diciassette onji, ripartiti secondo lo schema 5-7-5. Gli onji si
collocano alla base del sistema fonologico giapponese; in occidente, vengono
generalmente assimilati alle sillabe.
7 Akiko Yosano (1878 - 1942) è ritenuta una delle maggiori esponenti della poesia erotica
giapponese del Novecento, ma le sue composizioni apparse nella Diana hanno
prevalentemente un carattere elegiaco e ben poco sensuale. Insieme al marito Tekkan
Yosano, la donna fece parte del gruppo di scrittori riunitosi intorno alla rivista Myōjō
(Stella del mattino, 1900-1908; e ancora: 1921-1927). Studiosa di letteratura giapponese
e dotata di una forte coscienza femminista, fondò la Bunka Gakuin (Accademia di
cultura), un istituto in cui le donne potevano assecondare i loro interessi. L'opera di
Akiko Yosano più conosciuta è Midaregami (Capelli arruffati, 1901), silloge di tanka
sensuali ed espliciti. Suikei Maeta (1880 - 1911), autore di tanka, morto precocemente a
causa della tubercolosi, oggi è ricordato soprattutto per aver collaborato a Myōjō.
8 Le poesie di Ungaretti apparse nella Diana sono: Fase (n. 5, 25 maggio 1916, p. 101),
Malinconia (n. 7, 31 luglio 1916, p. 132), Paesaggio (n. 8, 31 agosto 1916, p. 157),
Nostalgia (n. 9-10, settembre-ottobre 1916, p. 173), Bisbigli di singhiozzi e Poesia (n.
11-12, novembre-dicembre 1916, p. 205). I versi giapponesi comparvero nel n. 5, pp.
99-101; nel n. 6, pp. 121-122; nel n. 8, pp. 158-161; nei n. 11-12, pp. 197-198. I dati
sono ricavati dallo spoglio degli indici presenti in Dei, op. cit.
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Harukichi Shimoi.9 La collocazione ravvicinata delle composizioni del
Nostro e di quelle giapponesi già all'epoca parve significativa, come notò
Lionello Fiumi,10 e foriera di un'implicita comparazione.
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del “disperato e smanioso desiderio di armonizzarsi con l'infinito”; 14 poco
tempo prima, Marone, in un articolo apparso nelle Cronache letterarie,
aveva accostato il Nostro ai lirici nipponici,15 ribadendo poi ciò nella Diana:
C'è un altro poeta nel mondo che bisogna cominciare a citare ed amare perché
forse è il più puro di tutti. Fino a oggi ce ne siamo accorti specialmente Papini e io
che più di ogni altro lo conosciamo e sentiamo. [...] Si chiama Giuseppe Ungaretti
[...] La poesia di Ungaretti è nuova in Italia perché è soltanto poesia: la sua
estensione caratteristica è la straordinaria brevità che la rende fortemente prossima
alla fantasiosa e grande poesia giapponese, dell'immenso Suikei Maeta
specialmente [...]16
14 Cfr. E. Jenco, “Giuseppe Ungaretti”, in Crociate Barbare, III, 15 aprile 1917, p. 21, cit.
in F. Bernardini Napoletano, “Giuseppe Ungaretti – Cartoline a «La Diana»”, in
Avanguardia: rivista di letteratura contemporanea, XIV, 2000, p. 27.
15 Cfr. recensione al Porto Sepolto, in Cronache letterarie, IV, 3-4, febbraio 1917, cit. in
G. Sica, “Come perle intorno ad un filo. Breve storia dell'haiku nella poesia italiana”, in
Esperienze letterarie, 1, 2005, p. 121.
16 Cfr. La Diana, III, 1-2, marzo 1917, cit. in G. Ungaretti, Lettere dal fronte a Gherardo
Marone (1916-1918), Milano, Mondadori, 1978, p. 66.
17 Cfr. recensione al Porto Sepolto, in Cronache letterarie, IV, 3-4, maggio 1917. Inoltre,
citando dalla cartolina ungarettiana del 25 maggio 1917: “[h]o letto con commozione la
tua pagina per me nelle «Cronache». Per ora non posso che portare chiuso nel cuore
l'affetto che meriti; ma tutte le prove che potrò, quando potrò, le avrai.”: cfr. , Lettere
dal fronte..., op. cit., p. 79.
18 Nel 1920, ancora una volta, Marone avvicinò Ungaretti a Suikei Maeta, confrontando
Dannazione con una lirica del secondo, apparsa nel num. 8 della Diana (“Quando avrò
restituite le ossa nude al Signore mio padre e la carne putrida alla terra madre, che ci
sarà mai che potrò chiamare mio?”), definendo le due composizioni “straordinariamente
prossim[e]”. Aggiunse inoltre: “[...] mi contento, leggendo Ungaretti, di pensare […]
più di tutti a quello straordinario Suikei Maeta”, e: “[I]l valore della poesia giapponese e
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È quindi possibile ipotizzare che — per lo meno in un primo tempo
— Ungaretti non fosse infastidito dai raffronti con la lirica nipponica, tanto
più che essi potevano costituire un mezzo in grado di accrescere la sua fama,
data la novità dei versi giapponesi in Italia e la loro risonanza nel panorama
letterario, non priva di polemiche.19 A quell'epoca, infatti, essi destarono in
Italia più di una curiosità, tanto che alcune composizioni di Akiko Yosano
nella traduzione di Marone e Shimoi furono messe in musica da Vincenzo
Davico (gli spartiti apparvero tra il 1920 e il 1921 nella rivista partenopea
“Sakura”), e nel 1922 persino Filippo Tommaso Marinetti spese parole di
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elogio per alcuni tanka in francese musicati da Franco Casavola.20
Per quanto riguarda i giudizi del poeta sulle liriche orientali, essi
sono collocabili in un'epoca di poco posteriore alla pubblicazione del Porto
Sepolto.
Tra l'aprile e il maggio 1917, dal fronte, il Nostro richiese a Marone
una copia dell'antologia Poesie giapponesi, allora fresca di stampa: 21 è lecito
supporre che, se egli non avesse nutrito un qualche interesse nei confronti di
essa, non ne avrebbe fatto richiesta per sé e — una volta ricevutala — non
avrebbe ringraziato con tanto calore l'intellettuale napoletano, 22 sollecitando,
per di più, la spedizione di un'ulteriore copia da destinare a un compagno. 23
Poco tempo dopo, però, scrisse in una cartolina a Papini:
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roba frivola da servizio da tè e mobilio laccato —24
Mio caro Gherardo, da un secolo, nella serie di scuole che si succedono nei nostri
paesi di occidente, la poesia si sta rinnovando, rinfrescando, purificando a contatto
di tutte le poesie; ignoro i giapponesi che hanno preceduto i tuoi, e non so di che
cosa e di quanto siamo loro debitori; ma mi pare che tu abbia voluto provare che
un occidentale d'una certa raffinatezza, indubbiamente potrebbe scrivere oggi
24 Cartolina del 24 luglio 1917: cfr. G. Ungaretti, Lettere a Giovanni Papini, Milano,
Mondadori, 1988, p. 130.
25 In lui [ossia Maeta] c'è un dolore così stridente che lascia in bocca un sapore di rame e
nei nervi un formicolìo come di corda spezzata di colpo su un violino sonante”: cfr.
Ungaretti, Lettere dal fronte.., op. cit., p. 92.
26 Cartolina del 15 settembre 1917: cfr. ivi, p. 103.
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insistenze della critica — talvolta ironiche27 — riguardo le supposte
relazioni col Sol Levante. Inoltre, il Nostro, sin dagli esordi dell'attività
poetica, fu ben conscio del suo valore e della sua originalità, 28 e percepì
sovente in maniera piuttosto forte la concorrenza con altri scrittori; dunque,
probabilmente, il confronto con i poeti del paese del Mikado alla lunga
dovette stancarlo e ferire il suo orgoglio.29
27 Questo il lapidario giudizio espresso da Ugo Zampieri: “Ungaretti. Molto affine alle
tanke giapponesi; ma andiamo piano, signori! Quando diventerò uno di Tokio con gli
occhi dolci come le mandorle, lo predicherò anch'io, con quelli di Firenze e di Napoli, il
quasidio. Per ora...”: cfr. U. Zampieri, “Lirici vademecum”, in Cronache letterarie,
maggio 1917, ricordato in Fiumi, op. cit., p. 488.
28 Un esempio per tutti, tratto da una lettera non datata destinata a Prezzolini: “Conosci un
altro che in Italia sappia fare meglio di così? [...] ma quanti poeti che senza ripetere
Baudelaire o Mallarmé, o Verlaine, o Laforgue, o il diavolo sappiano far poesia ci sono
in Italia? Ho questa certezza; tutte le piccole cantaridi italiane posso scansarle coi piedi,
senza pericolo che riescano a farmi male.”: cfr. P. Montefoschi e L. Piccioni, Album
Ungaretti, Milano, Mondadori, 1989, p. 86.
29 Pensiamo sia significativo ricordare che alcune delle prime recensioni riguardanti
l'opera di Ungaretti indugiarono sull'aspetto fisico del poeta, spesso non positivamente,
tanto da sfiorare il grottesco: il Nostro, da “uomo di pena”, rischiò infatti di trasformarsi
in una sorta di spettro di se stesso (“Ungaretti non è un uomo: [...] è la devastazione di
un uomo.”: cfr. A. Franci, “Ungaretti”, in Il servitore in piazza, Firenze Vallecchi, 1922,
p. 183). Sulla questione cfr. anche G. Mariani, “Per una storia della critica ungarettiana:
i primi giudizi sul poeta”, in Letteratura, V, 35-36, settembre-dicembre 1958 (numero
monografico dedicato ad Ungaretti per il suo settantesimo compleanno), pp. 246-263;
G.. Prezzolini, “Scrittori di guerra. Ungaretti”, in Il popolo d'Italia, 21 maggio 1918; A.
Savinio, “Giuseppe Ungaretti”, in La vraie Italie, I, 10-11-12, maggio 1920. Alla luce di
tutto questo, è dunque possibile che il poeta si seccò presto dei giudizi che esulavano
dal reale valore della sua lirica.
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so quali cineserie e giapponeserie” all'interno della raccolta. 30 Il criticò negò
gli influssi della poesia classica del Celeste Impero e di quella nipponica,
quest'ultima ― a suo dire ― caratterizzata da una «ragione plastica» assente
nelle composizioni del Nostro, o al massimo affiorante nella sua produzione
più acerba e d'ispirazione impressionista.
A noi pare che i primi, chiari segni di insofferenza di Ungaretti nei
confronti delle «giapponeserie» possano esser fatti risalire alla fine degli
anni Venti; ne è testimonianza una lettera indirizzata a Corrado Pavolini,
nella quale il poeta lucchese si difese da accuse apparentemente generiche di
Papini (ma in realtà ben mirate), rivolte contro coloro che utilizzavano le
forme più disparate — compresi i tanka — per «membrificare la vacuità
interna» dei loro versi.31 Il Nostro espose le sue idee a Pavolini con la
consueta energia, unita a una certa acredine, giungendo persino a ribaltare le
accuse e alcuni dati cronologici:
30 Cfr. E. Cecchi, “Il porto sepolto”, in La tribuna, 27 luglio 1923, ricordato in Mariani,
op. cit., p. 253. Aurelio E. Saffi, nella recensione dell'Allegria pubblicata nella Ronda
(cfr. I, 7, novembre 1919, pp. 112-114), aveva assimilato la poesia ungarettiana a quella
cinese.
31 Cfr. G. Papini, “Su questa letteratura”, in Pègaso, I, febbraio 1929, cit. in V. Cardarelli
e G. Ungaretti (a cura di F. Bernardini Napoletano e M. Mascia Galateria), Lettere a
Corrado Pavolini, Roma, Bulzoni editore, 1989, p. 177.
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traduzioni di Marone, fossero i miei d'allora. Da quel tempo non ci fu critico,
compilatore d'antologie, anche stranieri — che parlando di me, non citasse il
non c'è da essere meravigliati che Marone il quale ha, sin da quel tempo, un
profondo ed entusiastico sentimento per la mia poesia, avesse presente, nel
32 Cfr. ivi., pp. 177-178. La lettera di Ungaretti risale ai primi mesi del 1929 e l'allusione è
forse diretta anche verso l'opera di L. Fiumi e A. Henneuse, Anthologie de la poésie
italienne contemporaine, Paris, Les Ecrivains Réunis, 1928, in cui i due autori fanno
riferimento al possibile legame fra la lirica del Sol Levante e quella ungarettiana.
33 Come nota Luciano Rebay, Palmieri, anziché prendere in considerazione i versi
nipponici editi nella Diana, concentrò la sua attenzione sull'antologia delle Poesie
giapponesi, ritenendo erroneamente che fosse stata pubblicata nel 1912, anziché nel
1917: cfr. Rebay, op. cit., p. 62.
34 I due articoli di Ungaretti in questione sono “Storia dell'Historico” (7 maggio) e
“Haikaismo” (21 maggio).
35 Ungaretti affermò infatti, alterando la realtà più o meno volontariamente: “il Porto
Sepolto era già uscito quando Marone cominciò a fare e a pubblicare con l'aiuto di
Scimoi le sue traduzioni.”: cfr. Ungaretti, Lettere dal fronte..., op. cit., p. 104.
36 Cfr. Rebay, op. cit., pp. 62-63.
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tradurre, un certo mio uso dei vocaboli e del ritmo. È ciò, mi immagino, che
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alcuni elementi all'origine del “carattere poetico [d'Ungaretti] eccezionale
nella ritmica nel Novecento” (tra i quali figurano composizioni esotiche e
arabe risalenti al periodo egiziano, canzoni popolari e haiku, conosciuti
attraverso il tramite estero),40 per attribuire infine preminenza alla “radice
personale concresciuta nella matrice della scuola di Apollinaire”. Se
Luciano Anceschi accenna solo en passant ai sospetti di “classicismo di
hai-kai [...] di raffinatezza giapponese” manifestati da Marone su Ungaretti
nella Diana,41 Gaetano Mariani tratta più approfonditamente della diatriba
sull'influsso nipponico. Nel delineare la storia dei primi giudizi critici sul
poeta, dopo aver accennato alla posizione di Marone esposta nella Difesa di
Dulcinea,42 lo studioso si sofferma sulle considerazioni di Emilio Cecchi,
senza però esprimere una valutazione propria.43 Infine, Arnaldo Bocelli
formula un discorso più articolato e ampio sui rapporti del Nostro col Sol
Levante, comprendente anche l'esperienza egiziana e francese; nel tirare le
somme, ridimensiona decisamente la veste di “haikaista” attribuita da taluni
a Ungaretti.44
40 Più esattamente, Macrì parla di “[...] monosillabismo orientale trasposto nelle traduzioni
francesi e inglesi, come gli hai-kay [sic] giapponesi”: cfr. O. Macrì, “Aspetti esistenziali
e rettorici dell'Allegria”, ivi, p. 127.
41 Cfr. L. Anceschi, “Ungaretti e la critica”, ivi, p. 242.
42 Cfr. nota 18 questo lavoro.
43 Cfr. Mariani, in Letteratura, op. cit., p. 253.
44 “È, insomma, o vuol essere, la sua, poesia centripeta, quanto centrifuga riesce per lo più
quella degli impressionisti contemporanei. Così concentrata, talora, da arieggiare alle
forme dell'epigramma e, soprattutto, per quella sua sentenziosità tendente all'immagine,
dell'haikai giapponese. E può anche darsi che coteste forme abbiano esercitato il loro
influsso sul primo Ungaretti: non tanto per quel diretto commercio con la cultura
orientale ch'egli può aver avuto nel nativo Egitto; quanto per ciò che di essa è passato
nella letteratura francese dell'Ottocento [...] Del resto, in quegli anni, e più o meno per
lo stesso tramite, un certo «haikaismo» ebbe voga sulle nostre riviste d'avanguardia, fra
i nostri impressionisti. Ma, anche qui, a distinguere e tener lontana la poesia di
Ungaretti dalle cesellature alessandrine come dagli acquerelli degli «haikaisti» bastano
quel fervore di denudamento cui s'è accennato, e quel senso struggente di sospensione,
di cose non dette né dicibili che effettivamente si cela nelle pause dei versi brevissimi,
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Nel 1962 venne pubblicato il volume Le origini della poesia di
Giuseppe Ungaretti, a opera di Luciano Rebay, contenente una sezione
“Haikai”, che a noi risulta essere il primo studio di una certa organicità
dedicato alle relazioni intercorrenti tra l'Allegria e i lirici nipponici promossi
da Marone.45 Neppure qui mancano imprecisioni, a partire dall'intestazione,
in quanto nelle pagine della Diana e nell'antologia nipponica ad essa legata
Ungaretti lesse tanka, e non haikai; l'autore, inoltre, sottolinea l'importanza
dei titoli, ritenuti parte integrante delle liriche ungarettiane e giapponesi, ma
che, in verità, negli originali orientali sono assenti. 46 Malgrado queste
inesattezze, nel testo vengono forniti diversi elementi utili per dirimere la
contesa sull'influenza. Oltre ad operare un suggestivo confronto tra una
composizione di Akiko Yosano e una di Ungaretti, rintracciando “un'affinità
di ispirazione e di movenze”, Rebay riporta un estratto della nota esplicativa
pubblicata da Marone in concomitanza con la prima serie di tanka,47 in cui
vengono messi in luce i principali connotati del genere (brevità, associazioni
sintetiche fra immagini, concisione...), che richiamano inevitabilmente alla
mente la produzione ungarettiana di quel periodo.48
negli ‘spazi’ delle minuscole strofe. Basta quel ritmo [...] Basta, infine, quel tono di
interiore riepilogo o ‘referto’, arido e insieme vibrato [...]”: cfr. A. Bocelli,
“Dall'Allegria al Sentimento”, ivi, p. 139.
45 Cfr. Rebay, op. cit., pp. 57-63.
46 Per il valore dei titoli nella produzione ungarettiana, si cfr. P. Briganti, “Titolo e/o testo
nell'Allegria”, in Bo, op. cit., pp. 831-838.
47 Cfr. “Poesie giapponesi”, in La Diana, II, 5, 25 maggio 1916, pp. 100-101.
48 A sostegno di ciò, Rebay riporta uno stralcio da una lettera di Ungaretti del 16 aprile
1916 a Carrà: “...Sono tormentato da un problema, che giudico il problema dei
problemi, che credo che anche il tuo caso di passione. Quello che ho fatto non mi serve
che d'assaggio. Vorrei arrivare a realizzazioni assolute; a una unificazione dove fosse
dato risalto — (intendo come essenza, come una valutazione delle parole — (sillabe
immagini ritmo materia spirito forma) — ) alla gravità e insieme alle vibrazioni, fino
alle sfumature infinitesimali, di questa nostra vita moderna.”: cfr. Rebay, op. cit., p. 62.
Lo studioso nota, inoltre, che il procedimento di ‘distillazione’ all’interno delle liriche
ungarettiane si accentuò a partire dal maggio 1916, ossia in coincidenza con la
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La disponibilità al dialogo intertestuale di Rebay non venne
purtroppo ripresa da uno dei maggiori studiosi del Nostro, Leone Piccioni:
non soltanto nella biografia del poeta, edita nel 1970, 49 tace dei possibili
rapporti di Ungaretti con lirici giapponesi (tanto in area italiana quanto
francese), ma, nell'introduzione alle Lettere dal fronte a Gherardo Marone
(1978), liquida la questione in modo reciso:
Il linguaggio poetico ungarettiano era già maturo, senza alcun riflesso giapponese,
se era nato “M'illumino – d'immenso” e tante altre cose, non c'era certo bisogno
dei giapponesi per arrivare a “Si sta – come d'autunno – sugli alberi – le
foglie”...!50
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Negli ultimi trent’anni, la vexata quaestio sembra esser stata
affrontata con maggior interesse da parte della critica, che le tributa sempre
più spesso l'attenzione e il rispetto che merita: prova di ciò, è stato
l'intervento di Atsuko Suga al convegno urbinate del 1979 dedicato al poeta
lucchese.52 In questo saggio sono definiti con chiarezza i generi haiku e
tanka, non di rado confusi dagli studiosi italiani, e viene dimostrata la
discutibile fattura delle traduzioni apparse sulla Diana.53 La studiosa
evidenzia inoltre come lo stile poetico di Ungaretti sia più simile a quello
degli haiku, che l'autore non poteva aver conosciuto tramite la rivista
napoletana; mancherebbe dunque “il fondamento solido per affermare un
influsso delle poesie giapponesi”, per lo meno nell'ambito dianista.
Uno dei critici italiani contemporanei più attenti alla questione
dell'influenza nipponica è, senza dubbio, Ernesto Livorni. Nella sua opera
dedicata ad Ungaretti e Pound (1998),54 riserva una lunga sezione al
rapporto di entrambi con lo haiku; spingendosi oltre le affinità più evidenti
tra il genere giapponese e la lirica ungarettiana, egli giunge a toccare alcuni
dei nodi fondamentali della questione, primo fra tutti “la relazione
strutturale tra la poetica del frammento e le modalità della poesia
giapponese, sia essa haiku o tanka [...]”.55
Negli ultimi anni, il campo di indagine si è ampliato e l'attenzione è
stata rivolta anche verso l'ambito francese, soprattutto per merito di Paolo
52 Cfr. Suga, op. cit., pp. 1363-1367. Si allinea alla sua posizione anche F. Arzeni,
L'immagine e il segno, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 48.
53 Marone e Shimoi — forse per rendere più suggestive le composizioni agli occhi del
pubblico italiano — tradussero i testi con una certa libertà, giungendo ad inserire
elementi estranei per sottolineare il patetismo dei versi: forse involontariamente, in
questo modo, tesero ad adattarsi al comune gusto esotizzante ed estetizzante dell’epoca.
54 Cfr. E. Livorni, Avanguardia e tradizione: Ezra Pound e Giuseppe Ungaretti, Firenze,
Le Lettere, 1998.
55 Cfr. ivi, p. 83.
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Lagazzi.56 Si è dunque ipotizzato che i contatti con la poesia giapponese
possano risalire anche ad un tempo precedente l'esperienza della Diana
(malgrado le parole del poeta), o non debbano necessariamente essere legati
al periodico.
Fra gli studiosi che, più di recente, si sono occupati — talvolta en
passant — delle “giapponeserie” ungarettiane, ricordiamo la yamatologa
Teresa Ciapparoni La Rocca,57 Giuseppe Langella,58 Luigi Paglia,59 Giorgio
Sica60 e Niva Lorenzini: a lei si deve quello che, probabilmente, è il primo
manuale di poesia italiana contemporanea in cui si riconosce un contributo
nipponico all'opera ungarettiana.61
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Menzioniamo infine le ricerche di Hideyuki Doi, che sarebbe
riuscito a reperire un eccezionale documento in cui l'autore del Porto
sepolto, nel 1959, si espresse positivamente riguardo i contatti coi
nipponici.62
I riferimenti di Carlo Ossola alle liriche nipponiche, presenti nel
nuovo Meridiano e citati all'inizio di questo lavoro, sono quindi sintomo di
un più vasto ripensamento critico della querelle sulle influenze, iniziata
oramai quasi un secolo fa. Malgrado vi siano ancora incertezze e lacune, i
termini fondamentali della questione sono stati finalmente definiti con
chiarezza nel corso degli anni e nell'avvicendarsi dei metodi interpretativi:
ci auguriamo che essi possano costituire una solida base per nuove e più
feconde indagini.
abbastanza noto come forma di poesia di guerra anche in Italia almeno dal 1906, a
seguito del conflitto tra Russia e Giappone.”: cfr. N. Lorenzini (a cura di), Poesia del
novecento italiano, Roma, Carocci editore, 2002, p. 131.
62 Lo studioso nipponico scrive che “[...] in una intervista realizzata durante il suo
soggiorno in Giappone nel 1959, Ungaretti, ormai vecchio, rivela la dimestichezza con
la poesia giapponese”; cfr. H. Doi, Poesia e non poesia: lo haiku in Italia, op. cit.. La
questione è in parte chiarita in un altro saggio di Doi: “Solo anni dopo, nel 1959 a
Tokyo, rispondendo a un italianista giapponese Okuno Takuya (alias Okuno Gin’emon),
allora docente dell’Università degli Studi Stranieri di Tokyo, [Ungaretti] ammette le
affinità con la poesia giapponese nei primi componimenti brevi sull’«infinità»: cfr. Id.,
Shimoi Harukichi e due riviste napoletane, consultabile all'indirizzo
http://www.tufs.ac.jp/common/pg/tr-pg-areastudies/doc/r0037.pdf. La testimonianza di
base cui si rifà Doi è contenuta in T. Okuno, La poesia contemporanea e Ungaretti, in
Italia bunka kenkyu, III, 1963, pp. 26-34. Ringraziamo Hideyuki Doi per la
disponibilità.
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