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“IL LIUTO ED IL SILENZIO.

LA PARABOLA DISCENDENTE DI ANTONIO


DELLA PORTA”

Copyright © 2014 GIORGIO PANNUNZIO

Opera pubblicata e distribuita da: Lulu Press


3101 Hillsborough St, Raleigh
North Carolina (USA)

www.lulu.com

Tutti i diritti di riproduzione, traduzione e adattamento sono riservati.


Nessuna parte di questo libro può essere usata, riprodotta o diffusa senza
autorizzazione scritta da parte dell’autore o dell’editore.

Prima Edizione Gennaio 2014

ISBN 978-1-291-68933-4
2

GIORGIO PANNUNZIO

IL LIUTO ED IL SILENZIO. LA PARABOLA DISCENDENTE DI ANTONIO DELLA


PORTA
3

PREMESSA
Stranezze, negli studi letterari, se ne presentano poche o
molte, a seconda del punto di vista da cui ci si pone quando si
valutano gli apporti creativi del singolo scrittore. Magari una
manciata di versi, di quelli buoni, bastano a collocare un poeta sul
piedistallo, certamente addobbato con qualche petrarchesca corona
d’alloro che ne attesti il valore e la “vis” artistica. E questo,
ovviamente, vale anche per la diffusa congerie dei narratori. Tuttavia,
in qualche caso, si assiste a una singolare amnesia, un oblio che, in
tutta franchezza, ha qualcosa di arcano, di inspiegabile. Ed in effetti
appare sostanzialmente incomprensibile che un letterato qualsiasi,
degno d’apprezzamento e di qualche lode nell’epoca in cui visse,
finisca poi con l’essere inspiegabilmente misconosciuto anche dai suoi
stessi pretesi amici, quando i tempi cominciano a cambiare. Non ci si
vuole riferire qui ad analisi critiche più attempate (o vetuste, per dirla
col Croce): chi scrive in prossimità del delitto – ci si passi la sorridente
criminalizzazione del testo – ha forse conosciuto gli autori, se ne sente
conlimitaneo, quasi come se l’esercizio critico da porre in essere in
quelle occasioni fosse sentito ancora come impegnato e/o militante.
Nel nostro caso si vuol intendere che un poeta, un giornalista, uno
scrittore prolifico quale fu Antonio della Porta 1 avrebbe meritato
miglior sorte. Coevo alla migliore stagione del bizantinismo nostrano,
pur se da posizioni che lo apparentano al carduccianesimo assai più
che al D’Annunzio (altra strana occorrenza, ché Antonio era abruzzese
1
La grafia del nome di Antonio della Porta varia a seconda dei testi in cui egli
è citato. Orientativamente, gli amici più intimi e coloro di cui si considerava
discepolo scrivono il cognome in forma nobiliare, con la “d” minuscola. Si è
deciso di adottare questa forma perché in effetti il della Porta vantava origini
nobili (e a leggere le Canzoni non sembra avesse torto) e non si hanno
argomenti contrari a tale ascendenza. Comunque, nelle citazioni dai testi dove
la lettera minuscola non è riportata, si è deciso di lasciare il carattere scelto dal
critico o comunque dallo scrittore che eventualmente lo citasse. Si noti che il
Carducci, che della Porta considerava come proprio mentore, utilizza sempre
la maiuscola.
4

come il Vate e fu il curatore – per i tipi della Zanichelli – della prima


edizione delle Elegie Romane), della Porta ebbe una produzione assai
diversificata, che ne dimostra il costante impegno in quelle battaglie
letterarie che contraddistinsero il periodo cosiddetto “fin de siécle”. Il
della Porta, amico di De Bosis e, s’è detto, Carducci (che fu il suo
primo esegeta2), ma anche non respinto sodale del citato D’Annunzio
e di Pascoli, abbinò ad una vena creativa feconda e torrenziale di
poeta3 indubbie doti di giornalista impegnato, sia aderendo a proposte
editoriali importanti, periodici che segnarono l’epoca in cui egli visse
come Battaglia Bizantina, Nuova Rassegna, La Vita Italiana, per non
parlare di qualche sua sporadica apparizione sul Marzocco, su L’arca di
Noé, sul Resto del Carlino e infine sul Convito, del quale fu anche
segretario redattore (forse sono di sua mano, almeno in parte, le
“Cronache”?4); sia proponendosi come motore di riviste certo meno
2
Cfr. G. CARDUCCI, “Al signor Antonio Della Porta”, in Battaglia bizantina, 6
maggio 1888, ora in IBID., Ceneri e faville, serie III, Bologna, Zanichelli, 1942, vol
XXVIII, p. 203, elogiativo, pur nei forti modi che erano consueti del poeta di
Bolgheri.
3
Ricordiamo, nell’ordine, le opere di Antonio della Porta apparse in volume o
in singolo opuscolo: I Berretti: Conferenza detta al Club felsineo il 26 gennaio 1889,
Giorno dell’inaugurazione dei Berretti storici universitari, Bologna, Zamorani &
Albertazzi, 1889; Le sestine, Bologna, Zanichelli, 1890; La bella mano, Bologna,
Zanichelli, 1891; Ballata a la maniera di Guittone d’Arezzo, Bologna, Zamorani &
Albertazzi, 1891; Modi antichi, Bologna, Zanichelli, 1892; Numeri, Trani, Vecchi,
1894; A Gabriele d’Annunzio legislatore: Ode, Roma, Società Editrice Dante
Alighieri, 1897; Tre canzoni di Guidon Selvaggio, Roma, Società Editrice Dante
Alighieri, 1899; Canzoni, Roma, Societa Editrice Dante Alighieri, 1900. A
quattro mani compose: con A. Cervi, Minareti: versi e prose, Bologna,
Azzoguidi, 1888; con V. Tirabassi, San Silvestro: bozzetto comico in un atto; Trani,
Vecchi, 1888; con A. Albertazzi, Immacolata: commedia in tre atti, Bologna, N.
Zanichelli, 1894.
4
Nella parte finale di quasi ogni fascicolo del Convito, appaiono recensioni e
descrizioni di mostre e/o analisi di scuole pittoriche sicuramente ascrivibili,
come in qualche raro caso denota lafirma, ai vari collaboratori del convito.
Parecchie sono anonime e dunque non va escluso il contributo del della Porta
5

note (e si veda, soprattutto, La Libera Stampa, prima autonoma e poi


erede del più noto Gargantua)5 ma indubbiamente piene di
quell’entusiasmo di rinnovamento culturale che segnò – con indelebile
marchio – la fine del secolo diciannovesimo. E ciò a voler tacere d’un
suo tardivo inserimento nel sentiero che fu poi tracciato da giornali
d’epoca fascista, ove il della Porta ripiegò nel ruolo meno nobile, ma
forse più consono alla tempra d’avvocato ch’era venuta prevalendo in
lui negli anni, di cronista di nera 6. L’amore verso la scrittura, dunque,
non lo abbandonò mai, neppure negli ultimi anni della sua esistenza,
pur trascinandolo in basso, dai fasti dannunziani e carducciani alle
truci descrizioni delle gesta dei delinquenti romani. Sicché
ingiustificato appare l’oblio a cui questo intellettuale, organico
all’ambiente in cui scrisse e visse, è stato condannato dalla critica
recente. Tolto un liquidatorio approfondimento dovuto alla penna di
Ferdinando Neri7, negli ultimi cinquant’anni assoluto e totale appare
il silenzio degli esegeti, facendo eccezione i primi anni Sessanta con
un brevissimo intervento di Ferruccio Ulivi (più utile per una
datazione biografica che per il laconico e forse ingiusto giudizio di
merito)8, una citazione – in altri contesti – del “dannunziologo”

alla loro estensione, soprattutto per quel che concerne le recensioni di testi
letterari.
5
Per le riviste citate, e s’intende quelle di più breve respiro, vedi
principalmente O. MAJOLO MOLINARI, La stampa periodica romana dell’Ottocento,
2 voll., Roma, Istituto di Studi Romani, 1977, in part, vol. I, pp. 54 e 546 – 547;
e A. BRIGANTI – C. CATTARULA – F. D’INTINO, I periodici letterari dell’Ottocento.
Indice ragionato (collaboratori e testate), Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 33, 139,
213 – 214.
6
Cfr. Annuario della Stampa Italiana, Roma, Casa editrice del Libro Italiano,
1931, p. 122, dov’è ricordato come cronista giudiziario nei quotidiani romani.
7
Cfr. F. NERI, Poesia nel tempo, Torino, Silva, 1948, pp. 152 – 156.
8
Cfr. F. ULIVI, Poeti minori dell’Ottocento italiano, Milano, Vallardi, 1963, pp.
761 – 764. L’Ulivi, bontà sua, definisce “illeggibili” le canzoni e nella sua
raccolta privilegia le opere precedenti.
6

Parenti9, e, ultimamente, una breve nota di Maria Linda Ghelli


nell’edizione dell’epistolario Pascoli-De Bosis (nel quel si reperiscono
peraltro alcune missive scritte a quattro mani l’amico Adolfo) 10 e un
cenno dovuto alla penna di Carmine Chiodo in contesti relativi
all’ambiente marzocchino11. Ci si astenne dal parlare di lui perfino in
Abruzzo, regione di nascita e sempre compianta dal montazzolese
della Porta (dove la “damnatio memoriae” si spinge al punto che lo
scrittore è volutamente ignorato perfino nel suo paese di nascita),
preferendo puntare i fari della critica sul quasi omonimo poeta
dialettale Modesto. Potenza del localismo, si dirà, perché è necessario
tener conto che il della Porta abbandonò la terra dopo la prima
adolescenza, facendovi ritorno, sia pure non sporadicamente, solo
quando poteva e voleva (sebbene non abbia mai dimenticato le
proprie origini, giungendo a ispirare le sue leopardiane e/o pascoliane
Canzoni alle atmosfere idilliche e/o crepuscolari di cui s’era nutrito in
gioventù e che in parte, nei suoi soggiorni al paese, continuava ad
assaporare). In precedenza, invece, almeno fino al sommativo
intervento di Croce12 (tombale solo all’apparenza, ché il filosofo di
Rivisondoli aveva in simpatia le liriche dellaportiane), vi erano stati
interventi critici soprattutto coevi, recensioni ai vari testi, quasi tutte

9
Cfr. M. PARENTI, “Una commedia da rifare”, in Lo Smeraldo. Rivista letteraria e
di cultura, 1 (1962), pp. 23 – 27, in part, pp. 25 – 26.
10
Cfr. G. PASCOLI – A. DE BOSIS, Carteggio, cur. M.L. GHELLI, Firenze, La
Nuova Italia, 1998, passim. Una citazione, davvero “en passant”, in D. TROTTA,
La via della penna e dell’ago. Matilde Serao tra giornalismo e letteratura, Napoli,
Liguori, 2008, p. 45, n. 16, e soprattutto p. 98, n. 3, in riferimento al fatto che
della Porta fu per qualche tempo una “firma assidua” del supplemento al
quotidiano Il Mattino, (stampato nel biennio 1894/1895), inviando al periodico
“numerose sestine”.
11
Cfr. C. CHIODO, “In margine ai «marzocchini»: il caso di Romualdo Pàntini,
in Campi immaginabili, 2 (2000), pp. 70 – 96, in part. pp. 85 – 86
12
Cfr. B. CROCE, La letteratura della nuova Italia, Saggi critici (vol. VI), Bari,
Laterza, 1940, pp. 213 – 221. In precedenza, esso era apparso in La Critica, 1
(1936), pp. 81 – 87.
7

benevole13 (eccetto taluni rilievi, abbastanza in contrasto tra loro,


provenienti da oltralpe14 o da oltremanica15 e la beata ignoranza di
qualche famoso avanguardista16), che mostravano come il poeta si
fosse pienamente inserito nell’ “establishment” culturale della sua
epoca. Unico intervento importante fu quello di Luigi Capuana, che
però s’inserisce anch’esso in un ambito non complessivo 17. Sicché il
lavoro del critico, in tale occasione, appare arduo, pieno di

13
Cfr., ad esempio, L. SAVORINI, “Versi e poeti. Le Canzoni di Antonio della
Porta”, in Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti, a. XV, fasc. V (1900), pp.
212 – 217 (l’articolo è firmato Aloysius); L. D’AMBRA, Le opere e gli uomini.
Note, figure, medaglioni, saggi (1898 – 1903), Torino – Roma, Roux & Viarengo,
1904, pp. 128 – 133 (l’articolo è però datato 1896 e si colloca in un volume che
raccoglie recensioni da qualche rivista, con la citazione di una quindicina
d’autori francesi e solo due minori italiani, appunto il della Porta e il narratore
ciociaro, d’impronta bizantineggiante, Giustino L. Ferri, su cui si veda, ad
esempio, A. BRIGANTI, ” Un intellettuale fra utopia e professione: Giustino L.
Ferri”, in AA.VV., Letteratura italiana contemporanea, voll. 5, cur. G. MARIANI –
M. PETRUCCIANI, Roma, Lucarini, 1979 – 1982, in part. vol. I, pp. 1-39, con
bibliografia). Si noti che il D’Ambra, romanziere e drammaturgo di fine
Ottocento nonché sceneggiatore dei primi film muti (e cfr. G. RONDOLINO,
“Lucio D’Ambra”, in www.treccani.it/enciclopedia/renato-eduardo-
manganella_(DizionarioBiografico), ult. cons. 26 febbraio 2013, con
abbondante bibliografia, nella quale si segnala A. IERMANO , “Il giovane
D’Ambra tra mondanità e letteratura”, in Riscontri, 3-4 (1993), pp. 85 – 96, che
però non fa menzione del della Porta), cita il nostro autore anche nei suoi diari
come presente alla prima rappresentazione del Braccialetto di Giannino
Antona-Traversi, per una discussione letteraria con lo stesso D’Ambra in
relazione ai “nuovi bizantini” e per gli auguri di matrimonio (cfr. L. D’AMBRA,
Gli anni della feluca, cur. G. GRAZZINI, Roma, Lucarini, 1989, pp. 129, 143, 151, e
la seconda menzione verrà discussa in seguito). Spulciando gli archivi, si
segnala anche una recensione di Minareti pubblicata nel 1888, nei numeri 15 –
16 della rivista letteraria gelese Cronaca Siciliana, testo che però risulta a
tutt’oggi introvabile. Non si esclude che su alte riviste d’ambito locale
possano essere usciti altri interventi, vista l’abitudine dello scrittore
montazzolese di inviare l’elenco dei libri ricevuti presente nella Rassegna
8

contraddizioni e contrasti, trattandosi – nel caso di specie – di dover


porre in essere un certosino lavoro di cucitura di brandelli e lacerti tra
loro separati e non facilmente (e univocamente) riconducibili.

IL DATO BIOGRAFICO
1. Di nebbie e nuvole…

Pugliese di Scienze, Lettere e Arti dell’editore tranese Vecchi, sulla quale


apparve (e vedi infra) la commedia San Silvestro. Si aggiungano a questi dati
(che verranno peraltro discussi in seguito) anche: C. ANTONA-TRAVERSI, La
verità sul teatro italiano dell’Ottocento, Udine, Istituto delle Edizioni
Accademiche, 1940, p 146, dove il della Porta è definito “poeta e prosatore
chiarissimo”. Una citazione del montazzolese anche in C. REYNAUDI, La poesia
della famiglia in Italia, Roma, Roux & Frassati, 1895, con la riproduzione della
lirica “A mio fratello”, e – al di là delle Alpi, nel testo di A. GODOY, Quatre
nocturnes, Emile-Paul Freres Editeurs, Paris, 1929. L’opuscolo del Godoy, che
ci è stato impossibile consultare direttamente, contiene quattro liriche di
quattro autori diversi scelti con un criterio abbastanza opinabile se si tien
conto del fatto che sono quasi tutti minori (rispettivamente E.A. Poe, il poeta
rivoluzionario cubano José Martì, il decadente colombiano José A. Silva e
appunto il nostro della Porta): essi appartengono infatti a correnti letterarie
diverse e soprattutto a continenti dove gli “ismi” europei (per dirla con
Capuana) vennero recepiti e posti in essere in maniera che appare molto
diversificata, pur affrontando tutti, in modo abbastanza simile, la medesima
tematica, e cioè quella della notte. La poesia dellaportiana contenuta nel
libricino curato dal Godoy è “Una notte, ed avrò di quella notte” (e cfr.
Canzoni, pp. 69 – 71).
14
Cfr. J. DORNIS, La Poésie Italienne Contemporaine, Paris, Ollendorff, 19002, pp.
82 e 232. Secondo l’autrice, “les poètes du groupe bolonais sont des érudits; la
culture savante nourrit leur poésie, lui apporte un fond, qui la renouvelle e la
soutient. Les jeunes gens se passionnent à faire renaître les formes métriques,
tombées en désuétude, de l’ancienne poésie italienne. Ils ont réussi pour la
Ballata, pur la Ballatine, pur les Bordatines. Malgré les efforts de M. Antonio
della Porta, qui a consacré un ingénieux volume a remeitre en honneur la
Sextine, qu’affectionait Pétrarque, il semble que cette forme, trop subtile, trop
9

Definire la biografia di Antonio della Porta, e definirla con


quel minimo di precisione che possa inquadrare il poeta anche da un
punto di vista storico e culturale, non è facile. Ostano, in primo luogo,
l’assoluta difficoltà di reperire notizie utili, sia dal punto di vista
personale, sia in senso più genericamente cronachistico. E ciò, per un
letterato ottocentesco, ha qualcosa di sorprendente. Se qualche
riflessione ulteriore può essere fatta, bisogna riconoscere che la tacita
cancellazione che ha colpito la memoria del poeta nel corso degli anni

complexe, ne saurait renaître. Ce sont là des jeux de lettrés, dignes des poètes
élégants de la Renaissance, dont ceux-ci sont les enfants” (vedi ivi, p. 82).
Altrove, l’autrice transalpina parla del nostro come di un “ardent disciple de
d’Annunzio”, ricordando anche, oltre alle già citate sestine, anche la nota
“Ode a Gabriele D’Annunzio legislatore” che della Porta pubblicò prima sulla
rivista. Quanto a Jean Dornis, originariamente nata a Firenze come Elena
Goldschmidt-Franchetti (1870 – 1948), va detto che fu amica, nonché allieva, di
Leconte de Lisle, conobbe Proust ed ebbe qualche fama, nel periodo “fin de
siecle”, come autrice di romanzi e di opere di critica letteraria. Va rilevato che
il Carducci, pur nel suo sostanziale rifiuto del parnassianesimo, aveva
espresso un giudizio positivo del Leconte de Lisle, sostenendo che soltanto
con il poeta di Saint-Paul e con Victor Hugo egli si ritrovava “in piena e
concorde rispondenza sublime” (cfr., su questo, G.P. SOZZI, Il Parnasse e i suoi
riflessi in Italia, Urbino, Argalia, 1968, p. 133, n 35. Si noti che nello spoglio
bibliografico di Sozzi, alle pp. 233 – 433, non si fa menzione di nessun
intervento dellaportiano relativo al parnassianesimo sulle riviste dell’epoca, e
che tra i poeti carducciani che risentirebbero di qualche influsso del
“Parnasse” sono citati i soli Ferrari e Marradi). Sempre in ambiente francese,
si segnala il breve accenno di A. REGGIO, L’Italie intellectuelle et littéraire au
debut du XX siècle, Paris, Perrin, 1907, p. 127, dove il della Porta viene indicato,
non si capisce su quali basi, come il vero soggetto dell’imitazione altrimenti
dannunzianeggiante di Angiolo Orvieto (“M. Orvieto a vibré à même le
clavier sentimental, mais sous une forme plutôt tributaire delà manière de M.
d’Annunzio, laquelle paraît, d’autre part, avoir pétri le style, le cœur et l’esprit
d’un tempérament plus vassal et comme écrasé, celui d’Antonio della Porta,
jeune auteur de Sestines, ayant à son actif une Ode à G. d’Annunzio,
législateur […]”).
10

ha – di fatto – oscurato anche le tracce più corpose che rimontassero


alle sue vicende intime, familiari, personali. Sicché non resterebbe, per
orientarsi sul terreno della vita dellaportiana, che censire le sue
vicende esistenziali nel periodo in cui era studente a Bologna, o critico
militante di talune riviste dell’epoca bizantina, non disdegnando,
appunto, di accostarsi alla poesia culta e – sia pure abbastanza di
sfuggita – al teatro. Ma è davvero così? O non è possibile, attraverso

15
Cfr. W. SHARP, Studies and Appreciations, New York, Duffield & Company,
1912, pp. 347 – 348. Lo Sharp cita il poeta di Montazzoli all’interno di una
riflessione sul desolante panorama che caratterizzerebbe (a suo dire) la
letteratura post-carducciana: “The subsequent period would be a blank but
for the modest appearance of three young writers of promise, the Sicilian
Cesareo, the Roman Diego Angeli, the Lombard Antonio della Porta. It must
be admitted that the outlook to-day is not more encouraging than it was a
decade ago; perhaps less so since Carducci is now all but silent, and the
mature writers of the younger group – with the exception of Giovanni Pascoli
– reveal no advance upon what they had achieved before 1890 [...]”, con la
presa d’atto che le cose migliori, in quel periodo, erano prodotte da
D’Annunzio e dai poeti dannunzianeggianti. William Sharp (1855 – 1905),
critico e poeta scozzese, scrisse, a partire da 1893, anche sotto lo pseudonimo
di Fiona MacLeod, tenuto quasi segreto durante la sua vita. Fu, inoltre,
editore di poesie di Ossian, Walter Scott, Matthew Arnold, Algernon
Swinburne e Eugene Lee-Hamilton. Lasciata la Scozia verso la fine del secolo,
dopo un lungo peregrinare si stabilì in Sicilia, nella Ducea di Bronte, dove
morì qualche anno dopo. Si noti, a margine, il curioso refuso dello Sharp, che
scambia l’abruzzese della Porta per un lombardo, forse confondendosi con
l’omonimo scultore quattrocentesco. Il contrasto tra l’opinione critica dello
Sharp e quella della Dornis può essere spiegato con il fatto che entrambi
sembrano non essere del tutto informati sul panorama letterario italiano del
tempo. Un’altra citazione, sia pure collaterale e divulgativa, nonché
certamente esagerata vista la sua collocazione accanto alla menzione di
Pascoli e Carducci, si trova in un volume pubblicato negli Stati Uniti da Carlo
Sforza, futuro ministro degli esteri di De Gasperi, già antifascista e docente di
“Italian Culture” a Berkeley (e cfr. ID., Italy and Italians, New York, Dutton,
1949, p. 62. Il testo venne tradotto in inglese da E. Mutton direttamente dagli
11

un processo di abduzione partente dagli indizi presenti nelle sue


opere (e per inciso, in talune indicazioni sparse rimontanti ai suoi
sodali e alla documentazione critica precedente), cercare di segnalare,
almeno genericamente, qualche dato aggiuntivo? La risposta non è
semplice, anche se questo approccio critico, utilizzato assai spesso per
gli autori antichi e medioevali, non sarebbe certo dispiaciuto ad un
autore che amava svisceratamente Dante e Petrarca. Ma se le vicende

appunti delle lezioni dello Sforza): “[…] Today too, this sentiment for nature
has inspired Carducci with his finest verses and has made of Pascoli a poet;
and with Pascoli, others whom fate has not allowed to become famous, the
Abruzzese Antonio della Porta and the Lunigianese, Ceccardo Roccatagliata
[…]”. In questa particolare occasione, in tutta evidenza, il politico lucchese
inserisce l’opera del della Porta in un filone bucolico ed agreste che a suo dire
trovava i propri natali nelle Georgiche virgiliane, nel Ninfale Fiesolano di
Boccaccio, in Poliziano ed Ariosto, e infine nel Pastor Fido di Guarini.
Notevole, ma non del tutto condivisibile, l’accostamento implicito tra il della
Porta e Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. In Ceccardi veicola, nella sua poesia,
un autobiografismo lirico d’estrazione paesistica, esaltando e glorificando i
ricordi (vere e proprie “memoires involontaires”), in un tessuto espressivo
dove la memoria s’intreccia in modo inestricabile a una seducente musicalità
(e su tutto ciò, cfr. R. MOSENA, Roccatagliata Ceccardi. Metamorfosi e ismi della
poesia, Roma, Ulisse, 2004). Quello che non convince, nell’approccio non certo
specializzato posto in essere dallo Sforza, è il suo silenzio sulle intonazioni
civili e patriottiche del poeta ligure, che, se lo avvicinano indubbiamente a
Carducci e D’Annunzio (e non a Pascoli, dunque, se non “apres le coup”),
indubbiamente lo pongono in contrasto con della Porta, non aduso a
esaltazioni nazionalistiche se non di sfuggita e per scopi del tutto secondari.
16
Si legga, ad esempio, questa significativa affermazione, relativa ad una
richiesta di notizie sui poeti italiani più in voga alla fine del secolo
diciannovesimo: “[…] quanto alla domanda del Muret? è un po’ difficile
rispondere e tu ne sai quanto me. Orvieto, Garoglio, Pàntini, Gaeta, Catapano,
Pastonchi, Cena, Ceccardi, Giorgeri-Contri, Della Porta, Angeli, Bertacchi,
Damiani, Lipparini ecc. Ecc. Son tanti ! E come fare a trovar notizie? Ne
chiederò a Garoglio appena lo vedrò […]”. Su ciò, cfr. G. PAPINI – G.
PREZZOLINI, Carteggio, cur. S. GENTILI – G. MANGHETTI, voll. II, Roma, Edizioni
12

esistenziali di della Porta, almeno per quel che concerne la sua prima
giovinezza, sono avvolte da una nebbia abbastanza fitta, non
facilmente squarciabile dall’occhio interessato del biografo, ciò accade
perché, in primo luogo, a tuttora manca qualsivoglia edizione degli
epistolari dellaportiani, ove nessuna apparente traccia sembra esser
rimasta di lettere indirizzate alla famiglia e/o ad amici del paese
nativo. In seconda battuta, anche le missive indirizzate a suoi sodali
letterari e culturali (prime fra tutte quelle reperibili negli archivi di
Casa Carducci) sono assolutamente parche di notizie utili a rischiarare
il panorama affettivo e storico in cui il poeta trascorse la sua infanzia e
l’adolescenza, sicché allo studioso non resta appunto che l’inferenza,
l’abduzione, basandosi il tutto sui dati scarni che è possibile ricavare
dal materiale a tutt’oggi affiorato, nonché su quanto emerge dalle
stesse opere e in particolare dalle autobiografiche Canzoni. Svelare le
nebbie e le nubi che ostacolano la vista dell’esegeta sarà dunque un
tentativo non inutile, un “experimentum vitae” a cui – come s’è
accennato – nemmeno della Porta si sarebbe sottratto. Ma cerchiamo
di andare con ordine.

2. La “rovina di casa della Porta”.


Antonio Felice Sante della Porta nacque nel 1868 a
Montazzoli, dal proprietario terriero Giovanni e da Marianna
Macchia18. I genitori erano tra loro coetanei (avevano infatti entrambi

di Storia e Letteratura, 2003 – 2008, in part. vol. I (1900 – 1907), p. 201 e n. 10. Il
francese Maurice Muret (1870 – 1954), letterato e scrittore di cose politiche, fu
redattore del Journal des Debats Politiques et Literaires (cfr. ivi, p. 168, n. 5).
17
Cfr. L. CAPUANA, “Le canzoni di Antonio della Porta”, in Rivista d’Italia, a.
II, vol. III, fasc XII, 16 dicembre 1899, pp. 714 – 726.
18
Cfr. Registro dello stato civile, Comune di Montazzoli, a. 1868, “ad vocem” (il
testo integrale è consultabile presso l’Archivio di Stato di Chieti. Testimoni
dell’atto furono due contadini che prestavano la loro opera nelle tenute dei
della Porta. Nell’atto medesimo è altresì trascritta la data della morte della
madre, avvenuta il 12 dicembre 1904. Un altro riferimento cronologico è in F.
ULIVI, Poeti minori cit., p. 761. Il testo dell’Ulivi rappresenta l’unica antologia
13

33 anni) e dovevano evidentemente appartenere allo stesso censo (la


donna è detta essere, nell’atto di nascita, “di condizione civile”, frase
con cui il Codice Civile del Regno d’Italia, promulgato nel 1865,
definiva lo stato della consorte rispetto al marito 19). Montazzoli è un
comune situato tra l’agro di Vasto e quello di Lanciano, in quello che
qualche anno prima, in epoca borbonica, si sarebbe chiamato Abruzzo
Citeriore. Ma ecco le parole con cui Antonio Cervi, illustrando il
carattere del suo sodale, descrive le circostanze e i luoghi d’origine di
Antonio della Porta:

Nato a Montazzoli, ameno paese de l’Abruzzo, fra una delizia di cielo


purissimo e di montagne gigantesche, possiede, in grado
eminentemente elevato, la fibra robusta, lo slancio, la passione
d’artista propria de la forte sua terra. E per questa sua natura
eccezionale intuisce profondamente ciò che deve rappresentare o de-
scrivere. Tutto fa vivo, vero; ogni atteggiamento de la vita egli coglie
sicuro, e ferma ne ‘1 verso; in ogni sua frase pone una parte di se
stesso, de la sua natura artistica, co’ suoi slanci, le sue febbri, le sue
freddezze, i suoi dolori.

La natura “rocciosa” del carattere dellaportiano, rimontante di


certo a uno stereotipo che poi sarà codificato dal D’Annunzio
nell’epiteto di “abruzzese forte e gentile” (e così richiamato, poco più
di dieci anni dopo, dal Capuana20) viene colta dall’amico Cervi come
un dato che caratterizza perfettamente il della Porta; in lui si rileva
un’ascendenza quasi ctonia che, legandolo a quel piccolo centro dove

di poeti ottocenteschi che contenga qualche lirica del della Porta e che fornisca
le date di nascita e di morte in modo corretto. Altre notizie in proposito non è
stato possibile ricavare.
19
Cfr. Codice Civile del regno d’Italia, art. 131 (“Il marito è capo della famiglia: la
moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome, ed è obbligata
ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare residenza”).
20
Cfr. CAPUANA, “Le canzoni ” cit, p. 717.
14

il poeta ebbe i suoi natali, ne determinerebbe e ne giustificherebbe –


secondo Cervi, ma si può pensare che l’opinione fosse ampiamente
condivisa – sia il suo verseggiare, sia l’inclinazione localistica delle sue
finali produzioni poetiche. Ma Montazzoli? Come definire, con parole
coeve, questo posto che ai più doveva sembrare arcano e favoloso? Ci
si consenta, per quanto riguarda il dato geografico e antropologico, di
citare le espressioni con cui Antonio De Nino descrive la collocazione
geografica del paese del poeta (senza dubbio degne più di un letterato
che di un geologo)21.

Là, dove la montagna di Lagonero si abbassa, fino a metri 812 sul livello del
mare, comincia una pianura, in direzione ovest e nord-ovest, per la
lunghezza di circa due chilometri, tra l’Asinelio o Sinello e 1’Altova. Seguita
poi uno sprofondamento di circa 600 metri; e, giù giù, spalanca le sue fauci la
così detta Valle dell’Inferno. Il bel paese di Montazzoli siede appunto in una
estremità di quella breve pianura […].

Il comune di Montazzoli contava, all’epoca, una popolazione


di circa 3000 anime22, non essendosi ancora sviluppato in grandi
dimensioni quel movimento migratorio di massa che svuotò i borghi
montani d’Abruzzo verso la fine del secolo XIX e l’inizio di quello
successivo23. Ma qual era la dimensione socio-economica in cui il
21
Cfr. A DE NINO, Briciole letterarie, 2 voll., Lanciano, Carabba, 1884 – 1885, in
part. vol 1, p. 63. Si noti che della Porta ebbe recensire il testo del De Nino sul
periodico La Libera Stampa (n. 6, 21 giugno 1885, pp. 3 – 4) e certamente lesse
ed apprezzò, visto anche il tenore positivo della recensione, l’accenno fatto al
suo paese nativo da parte dello studioso sulmonese.
22
Cfr. Sommario di statistiche storiche italiane, 1861 – 1955, Roma, Istat, 1958, p.
103 (la cifra precisa e 2990). Si tenga conto che la cifra sopra indicata si
riferisce al censimento generale del 1871.
23
Per una panoramica generale su tali questioni, cfr. AA.VV., Storia
dell’emigrazione italiana, cur. P. BEVILACQUA – A. DE CLEMENTI – E. FRANZINA ,
Roma, Donzelli, 2009. Sulle problematiche più specificamente abruzzesi, vedi
soprattutto AA.VV., Studi monografici sulla popolazione abruzzese, CRESA,
15

giovane della Porta mosse i suoi primi passi? Detto dell’impossibilità


di diradare – se non prestando assoluta fede ai suoi versi – le nebbie
che ricoprono abbastanza fittamente gli anni della giovinezza, c’è da
chiedersi si possa definire almeno una cornice storica e, lo si ribadisce,
socio-economica, in cui talune delle vicende che caratterizzarono
l’adolescenza dello scrittore possono essere collocate.
L’economia abruzzese, come quella del resto del paese,
all’indomani dell’unità si presentava con i connotati tipici del
sottosviluppo24: la gran parte della popolazione attiva era occupata nel
settore agricolo; il livello di reddito era molto basso; la popolazione
era in fase di crescita, essendo caratterizzata da un elevato saldo
naturale positivo che provocava un forte aumento della popolazione.
Le principali fonti di reddito, in particolare, venivano ad esser
costituite dalla pastorizia e dall’agricoltura. Quest’ultima accrebbe
addirittura la sua importanza nei decenni successivi. Il reddito pro
capite – come s’è detto – era più basso della media nazionale, ma
anche della media del Mezzogiorno e ciò segnala una situazione
economica molto grave. Le ragioni di questa povertà sono da ricercare
nello scollamento tra risorse e popolazione che si viene a determinare

L’Aquila, 2001, passim.


24
Per le questioni che seguono, cfr. AA.VV., Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità
ad oggi. L’Abruzzo, cur. M. COSTANTINI – C. FELICE, Torino, Einaudi, 2000;
AA.VV., Storia dell’Abruzzo, cur. C. FELICE – A. PEPE – L. PONZIANI, Roma-Bari,
Laterza, 1999. P. VITTE, Le campagne dell’alto appennino. Evoluzione di una società
montana, Milano, Unicopli, 1995; G. SABATINI, “L’agricoltura abruzzese tra
Ottocento e Novecento: trasformazioni e continuità”, in AA.VV., L’Abruzzo
nell’Ottocento, Istituto Nazionale di Studi Crociani, Chieti, Ediars, 1996, pp. 61
– 72; C. FELICE, Il disagio di vivere. Il cibo, la casa, le malattie in Abruzzo e Molise
dall’Unità al secondo dopoguerra, Milano, Franco Angeli, 1989; G. CORONA,
“Terre e tecniche tra Otto e Novecento”, in Trimestre, 3/4 (1990), p. 265; R.
COLAPIETRA, “Problemi politici e sociali dell’Abruzzo a fine Ottocento”, in
Nuovi Quaderni del Meridione, 5 (1967), pp. 45 – 80; A. GRUMELLI, Aspetti
sociologici dell’evoluzione demografica in Abruzzo, Roma, Editoriale di cultura e
documentazione, 1960.
16

in questo periodo. S’è accennato al fatto che la popolazione si trovava


in una fase caratterizzata da intensa crescita: a ciò bisogna aggiungere,
in controcanto, che le risorse tendevano a rarefarsi. Tale riduzione si
può spiegare con due fenomeni concomitanti, che andavano a incidere
negativamente su ambedue le principali fonti del reddito: stiamo
parlando del declino sia della pastorizia che dell’agricoltura. Quanto
alla prima, va rilevato come le asperità della morfologia del territorio
regionale abbiano spinto, fin da tempi remoti, generazioni di abitanti
delle zone montuose a riversarsi sull’allevamento degli ovini.
Quest’ultimo necessitava, all’epoca, di pascoli estesi, i quali dovevano
essere cercati nelle zone pianeggianti delle regioni limitrofe, ossia la
Puglia e il Lazio. Per secoli, perciò, i pastori abruzzesi hanno
periodicamente spostato le loro greggi verso queste località, dando
vita alla cosiddetta “transumanza”. Ma nei primi anni del secolo
diciannovesimo si assiste a un processo di progressiva trasformazione
in senso intensivo delle coltivazioni dei terreni una volta popolati
dalle greggi abruzzesi e ciò, un po’ alla volta, rende sempre meno
conveniente che il contadino abruzzese si dedichi al mestiere del
pastore. Sicché, dopo l’Unità d’Italia, proprio grazie a leggi che
destinavano le ricche piane pugliesi ad uso agricolo, la pastorizia
entrò in una fase di crisi irreversibile. Per quel che concerne
l’agricoltura, il passaggio dalle strutture socio-economiche feudali a
quelle capitalistiche venne avviato attraverso l’eliminazione del
carattere demaniale delle terre. Esse vennero infatti assegnate ai
contadini, nella speranza che, così facendo, si innescasse un processo
che avrebbe dovuto condurre all’introduzione di tecniche di
produzione agricola di tipo capitalistico. Il processo di quotizzazione
delle terre, però, fu realizzato in Abruzzo in modo poco razionale.
Esso venne attuato diffondendo la piccola e la media proprietà terriera
anche tra chi non aveva i mezzi finanziari e il capitale umano
necessari per far aumentare la produttività del lavoro. Dotati di terra
ma privi di strumenti di produzione adeguati e di moderne
conoscenze agrarie, i piccoli proprietari terrieri erano destinati a
17

diventare sempre più poveri, tanto da non riuscire, in alcuni casi,


neppure ad acquistare le sementi necessarie per la produzione. Se,
dunque, lo spezzettamento della proprietà e l’assenza di aiuti
economici per poter acquistare i mezzi di produzione furono
all’origine del progressivo impoverimento dei piccoli e medi
proprietari terrieri, è anche vero, però, che alcuni proprietari di
appezzamenti di terreno più grandi cercarono di trasformare in senso
capitalistico l’agricoltura. Tuttavia, un tentativo del genere non ebbe
buon esito, anche per l’arrivo massiccio di prodotti americani a prezzi
bassissimi. Tutta questa situazione, unendosi all’elevato prelievo
fiscale (che depauperava un reddito già basso) e agli alti tassi di
interesse praticati dagli istituti di credito e dai privati prestatori
(anche per il fortissimo costo del denaro) generò alla lunga al
fallimento e alla rovina della classe dei proprietari piccoli e medi. Essi
furono certamente i più colpiti, perché non riuscirono ad onorare i
debiti contratti per affrancare i terreni demaniali ed impiantare nuove
coltivazioni, ma va detto che anche i grandi proprietari subirono una
brusca diminuzione delle loro rendite. Ne derivò l’aumento del
numero degli espropri fiscali che, tra il 1885 e il 1895, e considerato il
numero di abitanti, furono inferiori solamente a quelli che si
registrarono in Sardegna, Calabria e Sicilia. Interessanti, a tal
proposito, sono le considerazioni che sorgono esaminando la lirica
dellaportiana “Ode a Gabriele D’Annunzio, legislatore”25. L’ode, poi
inclusa proprio nelle Canzoni, si inserisce nelle polemiche che
precedettero e seguirono la candidatura (e poi l’elezione) di Gabriele
D’Annunzio alla Camera dei Deputati nel 189726. Gìà nel decennio
precedente D’Annunzio aveva pubblicato su vari quotidiani e

25
Cfr. La Vita Italiana, 7 settembre 1897. L’ode venne poi inclusa nelle Canzoni
(e cfr. Cfr. A. DELLA PORTA, Canzoni, Roma, Società Editrice Dante Alighieri,
1900, pp. 57 – 63, ma mutila dell’ultima strofa, forse considerata dal poeta
montazzolese eccessivamente politicizzata e retorica).
26
Sulla questione, cfr. M. RIZZO, “L’Idea Liberale dal 1896 al 1900”, in Rassegna
Storica del Risorgimento, 1978, pp. 306 – 340.
18

periodici degli articoli che, agli occhi dei liberali più ortodossi, lo
dipingevano come antidemocratico, nazionalista e militarista. Durante
la campagna elettorale, invero, il Vate aveva tenuto il famoso Discorso
della Siepe, rivolto guarda caso a quella classe di piccoli proprietari
terrieri da cui, come s’è visto, il della Porta proveniva, e che allora
erano assai preoccupati per il sorgere del socialismo e per l’eccessiva
pressione fiscale cui erano sottoposti27. Ma si leggano queste
osservazioni di Mariella Rizzo, relative alla discesa in campo del
D’Annunzio nelle elezioni del 1897, discesa che venne salutata con la
sua entusiastica “Ode” proprio dal della Porta28:

27
Su tutte queste questioni, cfr. M. BIONDI, “D’Annunzio politico”, in Il Ponte,
1 (1989), pp. 127 – 138. Si tenga conto, come osserva il Moroni, che con il suo
discorso D’Annunzio “veicolava anche una retorica legata alla nozione di
proprietà agraria di cui la siepe rappresentava il confine difensivo, carico di
suggestioni poetiche […]” (e cfr. M. MORONI, “Estetismo/modernismo in
Italia. Soggetto panico, soggetto dietro la siepe, soggetto pubblico:
D’Annunzio, Pascoli, Palazzeschi”, in Quaderni di Italianistica, 1 – 2 (1994), pp.
70 – 71, n. 3).
28
Cfr. RIZZO, “L’Idea” cit. p. 104, n. 330, dove si cita G. BORELLI, “A Gabriele
D’Annunzio legislatore”, in L’Idea liberale, a. VI, n. 44, 31 ottobre 1897, pp. 523
– 525. Qualche tempo dopo, il Borelli, sulle medesime pagine dell’Idea Liberale,
definirà D’Annunzio “superuomo nietzschiano; bestemmiatore e fedifrago,
iconoclasta e predone, sanguinario ed ebbro di macabra egomania” (vedi
RIZZO, ivi, per la citazione). Il modenese Giovanni Borelli (1867 – 1932),
giornalista, critico letterario e poeta d’ispirazione carducciana, a partire dal
1900 entrò nella vita politica, fondando il Movimento dei giovani liberali con
un programma monarchico, irredentista, colonialista, e ripromettendosi di
scuotere l’opinione pubblica attraverso i giornali da lui diretti (L’Alba e
appunto L’Idea Liberale), nel mito di un risorgimento dell’idea latino-
mediterranea ma facendo a meno delle pericolose idee colonialistiche e
sciovinistiche che caratterizzarono il periodo crispino. Fu poi interventista e
fascista, collaborando al Popolo d’Italia di Mussolini. Su di lui cfr. ad esempio,
B. VIGEZZI, Da Giolitti a Salandra, Firenze, Vallecchi, 1969, pp. 32 ss.gg., 287
ss.gg, 318 ss.gg.
19

G. Borelli si era scagliato con parole violente contro il D’Annunzio e la sua


candidatura alle elezioni politiche del ‘97, pur riconoscendogli in fondo il
contributo singolarissimo dato alla letteratura italiana. A proposito del suo
programma politico, notando come egli fosse un acceso individualista seguace
di una “concezione imperiale e oligarchica”, così aveva affermato: “Guai a
noi... se Gabriele D’Annunzio improntasse delle sue idee e della sua maniera
l’ufficio educativo dello Stato” […]. Più dure saranno le invettive e gli
appellativi lanciati da Borelli nel 1900, allorché in Montecitorio con l’aria di
fare un gran gesto, il poeta passava dall’estrema destra all’estrema sinistra
[…].

Il Borelli aveva preso abbrivio per fare queste sue


affermazioni proprio dai versi dellaportiani (l’articolo in cui esse sono
contenute è infatti corredato da una nota in cui lo scrittore modenese
dichiara di essersi ispirato all’ode citata29), e non è da escludere che,
quando egli menziona “una legione di pifferai dell’alfabeto”30, abbia
in mente proprio il della Porta. Ad ogni modo, leggendo oltre, tale
probabilità appare quantomeno fondata31:

I pifferai sono andati giù per i clivi benedetti di Ortona a magnificare


l’ingegno del d’Annunzio, a svelarne il prodigio. E sia ingegno e sia pur
anche il prodigio. Ma quale relazione ha mai codesto ingegno e codesto
prodigio col tempo suo, con le ansie che si respirano nell’aria, con le tragedie
che si maturano nei recessi dell’umana coscienza? […] I turiferari dentro
tutte le carte d’annunziane, oltre i plagi e il virtuosismo vocale dilettantesco,
non hanno potuto divellere che alcuni atteggiamenti di retorica vergiliana e
alcune penombre di psicologia decadente per farci persuasi dell’attitudine del
poeta a cogliere anche i turbini dell’anima moderna.

29
Si tenga conto, a scopo di chiarezza, che il testo borelliano non è
tecnicamente strutturato come una recensione, ma come una sorta di articolo
di fondo.
30
Cfr. BORELLI, “A Gabriele D’Annunzio”, p. 523
31
Vedi ivi, p. 524.
20

Queste riflessioni sono tutte giocate secondo i cascami


dell’antidannunzianesimo di matrice carducciana (e ascendenze
riferibili al Carducci ebbe infatti Giovanni Borelli), ma in una
deviazione sostanzialmente contraddittoria rispetto a colui al quale si
allude parlando di “pifferai” e “turiferari”, cioè il della Porta, che
allievo di Carducci fu e si sentì per tutta la vita. Ma si legga la
conclusione dell’intervento del Borelli32:

Tanto ho voluto premettere, perché nulla del mio pensiero rimanga nascosto o
dubbio, prima di entrare nel concetto opposto di Antonio della Porta il quale
fraternamente ha dettato a Gabriele D’Annunzio l’ode che mi ha mosso a
scrivere e che è senza dubbio singolarissima testimonianza dell’ingegno e
della maestria di codesto eccelso fra tutti i rievocatori dei modi e delle forme
della metrica classica italiana.

Le parole borelliane sembrano sottintendere una nascosta


ironia, soprattutto quando egli fa quel riferimento al D’Annunzio che
“fraternamente” avrebbe “dettato” al della Porta l’ode. E tuttavia, se
pure Borelli espresse l’intenzione di “entrare nel concetto opposto di
Antonio della Porta”, quest’ultimo proponimento rimase lettera
morta, dato che non risultano, né sull’Idea Liberale né in altre riviste
dell’epoca, articoli che analizzassero o eventualmente demolissero la
lirica dellaportiana in questione. L’elogio fatto dal della Porta,
ovviamente, non ha nulla a che vedere con tali affermazioni
sostanzialmente propagandistiche ed elettoralistiche (pur essendo
anch’esso una sorta di panegirico), riprendendo, in realtà, una visione
conservatrice, derivata da un ruralismo di stampo populista. Nel testo
dellaportiano il D’Annunzio è visto come una specie di Robin Hood
che raddrizzerà i torti commessi nei confronti dei poveri cafoni
abruzzesi; tale operazione viene compiuta citando pesantemente i testi
del pescarese (da “O Giovinezza” del Poema Paradisiaco al medesimo
32
Cfr. ivi, p. 525.
21

Discorso della Siepe), con richiami che implicano anche l’irredentismo e


un’improbabile rivalsa per i vicini disastri d’Abissinia33.
La famiglia del poeta, dunque, può essere utilmente collocata
proprio nel novero di quella classe di possidenti piccoli e medi che
furono le prime vittime dei processi economici menzionati in
precedenza34; non si spiegherebbero altrimenti i frequenti accenni,
soprattutto nelle Canzoni, alla necessità di dover vendere la casa avita:

33
Si tenga conto che il discorso dannunziano aveva stimolato anche la penna
del Pascoli, il quale, sulla Tribuna del 31 agosto 1897 (D’Annunzio aveva
parlato il 22 dello stesso mese), pubblicò una risposta al discorso medesimo
intitolata appunto “La siepe”. Citando Garboli, il D’Annunzio aveva condito
la sua orazione con “individualismo, arte, bellezza, latinità, energia
imprenditoriale: tutti gli eterni luoghi comuni della destra italiana erano
chiamati a raccolta da d’Annunzio e figurati col simbolo, l’immagine, l’icona
della siepe […]. Il Pascoli condivide, applaude, ma corregge il tiro. Sotto il
profilo politico, […] l’ambiguo intervento pascoliano [va] diviso tra elogio
della proprietà privata (il campetto) e odio antimprenditoriale (l’affarismo),
all’ideologia nazional-socialista, mistica e guerriera”, richiamando concetti che
sarebbero stati poi meglio espressi nella celebre allocuzione del 1912 La grande
proletaria si è mossa, dove il Pascoli giustificava e applaudiva l’intervento
italiano in Libia. Su tutta la questione, cfr. inizialmente C. GARBOLI,
“Introduzione”, in G. PASCOLI, Poesie e prose scelte, 2 voll., cur. ID. – G.
LEONELLI – A. OLDCORN – F.M. PONTANI, Milano, Mondadori, 2002, in part.
vol I, pp. 1417 - 1419, con bibliografia specifica.
34
Si tenga presente che, stante Capuana (e vedi CAPUANA, Canzoni di Antonio
della Porta, p. 717), la famiglia della Porta era proprietaria del “vasto
possedimento della Lupara, circondato da boschi di faggio e di abeti, con
denso verde vago/anfiteatro un lago (c.vo nostro)”, con una citazione da DELLA
PORTA, Canzoni, p. 22. Non essendovi, negli immediati dintorni di Montazzoli,
nessuna località che sia denominata con il toponimo Lupara, si può solo
ipotizzare che la tenuta dei della Porta sorgesse alle falde del monte
omonimo, su cui si trovano le sorgenti del Sinello. Proprio all’inizio, tale
fiume percorre un parte dell’agro montazzolese (e su ciò, menzionando il
Sinello ma senza ricordarne le sorgenti, cfr. L. CUOMO, Montazzoli: guida al
centro antico e al territorio, Napoli, Arte Tipografica, 2006, pp. 3 – 5).
22

ridotti probabilmente in rovina perché incapaci di far fronte alle


esigenze finanziarie pressanti che i nuovi tempi facevano incombere –
come spada di Damocle – sul capo degli agricoltori più agiati, i della
Porta, anche a motivo della morte del padre del poeta, sono costretti a
liquidare il restante patrimonio montazzolese per trasferirsi altrove,
mantenendo soltanto (in ipotesi) qualche piccola rendita tale da
consentire al giovane Antonio di poter frequentare l’università a
Bologna. Ecco dunque la ragione per cui della Porta, a differenza di
D’Annunzio e di altri, condurrà a termine gli studi: date le particolari
condizioni in cui versava la sua famiglia d’origine, Antonio non
poteva in alcun modo affidarsi agli assai incerti proventi d’un’attività
letteraria assolutamente difficoltosa e, per certi versi, collaterale.
Scrive il Padovani, marginalmente e in riferimento alle prime prove
poetiche del montazzolese35:

Sino ad allora i propositi erano forti e gagliardi e la materia raccolta e lo


stesso disegno già abbozzato, quando improvvise e dolorose vicende
costrinsero il Della Porta a rompere i dolci incanti della poesia, e dedicarsi,
egli affatto ignaro delle amarezze e delle miserie della vita, alla lotta
quotidiana per tre esistenze.

Le “tre esistenze” menzionate dal Padovani si riferiscono,


ovviamente, ai tre componenti della casata rimasti in vita (lo stesso
della Porta, la madre Maria e la sorella Evangelina, poi deceduta in
tenera età, e si tenga conto che a Montazzoli c’erano certamente altri
parenti tra cui i genitori d’un nipote che Antonio avrà poi modo di
beneficare) ed è dunque ipotizzabile che anche il prematuro decesso
del padre avesse in qualche modo contribuito a ridurre sul lastrico la
famiglia, costringendo della Porta ad intraprendere una carriera
forense a cui forse, inizialmente, non era destinato. A testimonianza di
ciò, e riferendosi alla madre, il della Porta menziona “cagioni ignote/
35
Cfr. G. PADOVANI, A vespro, Memorie di università e di giornalismo, Bologna,
Zanichelli, 1901, pp. 278 – 280, in part., per la citazione, p. 279.
23

che tutte ebber le tue speranze rotte […]”36, da cui si inferirebbe che,
almeno in gioventù, egli non fosse al corrente di quali potessero essere
state le cause contingenti dell’improvviso tracollo familiare, e che
invece, come s’è visto, andrebbero ricercate nelle motivazioni di tipo
storico-economico di cui s’è discusso in precedenza. Una richiesta di
prestito, fatta a qualche altro maggiorente del paese onde tamponare
falle finanziarie improvvisamente apertesi nella gestione dei terreni,
debito poi non onorato con conseguente vendita del patrimonio
ancestrale? Allo stato non è possibile saperlo, ma la cosa pare assai
verosimile. L’esempio più significativo della condizione
d’appartenenza dei della Porta è reperibile in una delle Canzoni più
struggenti, quella in cui il giovane Antonio ricorda i tempi felici
dell’ormai trascorsa giovinezza37:

L’ultima volta: “Perchè non ristai?”/ Chiesero i contadini, anime buone,/


“Non sei tu, qui, padrone?/ Passi e dilegui: il tuo cavallo ha l’ali!” […]
Rividi allora una remota scena/ Inabissata nella puerizia/ Felice, onde
s’inizia/ Il trionfo del mio leggere e scrivere./ Ne avea chiamati, a corte di

36
Cfr. DELLA PORTA, Canzoni, p. 13.
37
Cfr. ivi, pp. 50 – 52. Ma si leggano queste pregnanti osservazioni di
Capuana: “[…] C’è, specie nelle canzoni, un rimpianto del passato della sua
casa, della sua famiglia […] nella signorile casa paterna, le prime impressioni
sono di stacco della sua classe da quella dei cafoni. Il lusso, per quanto
provinciale, che lo circonda, educa e raffina la sua intelligenza con la vista di
cose belle, con gli usi e le abitudini di una vita dissimile da quella che menano
attorno a lui, tenuti in distanza, borghesi, operai, contadini […]”, ma in
seguito sopravvengono “l’inatteso disastro che colpisce la sua famiglia, prima
ch’egli esca dalla fanciullezza; e l’esilio dai possedimenti paterni, e la
dispersione di quasi tutti quegli oggetti di bellezza e di arte che avevano
educato i suoi sensi; e le dure necessità della vita, e la lotta, e il rancore contro
la immeritata disgrazia, rancore che lo preserva dal disformarsi da quel che le
prime aristocratiche impressioni lo avevano foggiato […]”, dando la stura a
quella malinconia di fondo che caratterizza molte delle liriche dellaportiane
(cfr. CAPUANA, “Le canzoni”, p. 717).
24

giustizia,/ Mio padre a udir, che, tra grano e avena,/ Tanto a misura piena,
affittava una terra e a sottoscrivere/ Chiedea la carta a quei che sopravvivere/
Potesse, figlio, al proprietario erede,/ L’infantil firma a piede/ Dell’atto. O
nonna, che in man mi ponesti/ La penna e mi dicesti:/ – Scrivi, al nome di
Dio –, tu fosti scorta/ Al segnar cauto “antonio della porta”// L’affittuario,
cui ventinove anni/ Legavano in contratto, ebbesi offerta/ Sulla pagina
aperta/ Da me la penna: mi guardò, sorrise:/ Poi, di un suo gesto, dichiarò
inesperta/ La mano usa alla stiva, usa agli affanni/ Del sarchio: e
turcomanni/ Chiese due letterati, alle intercise/ Da lui due sbarre in croce: e
aveale incise/ Egli sicuramente a pié del foglio/ Segnato dell’orgoglio/ Mio
primo, a voto! E, più tardi, il contratto/ Fé, del canone in patto,/ Vano, e
acquistò la tua terra, o poeta,/ Marcata di sua croce analfabeta.// Forse che tu
ne avresti fatta, o buona/ Madre, la dote per Evangelina/ Se stata ella vicina/
Ti fosse più nella deserta casa./ Anzi che donna, ma non più bambina,/
Vanìo, sorella, l’esile persona/ Pria che la sua corona/ Ti avesse al mondo
Amore persuasa.

Da questi versi, tutti intrisi di accorato rimpianto e di dolente


nostalgia per un passato che non può più ritornare, emergono alcuni
fatti fondamentali:

1) Il crollo economico dei della Porta avvenne a causa di qualche


incauta clausola inserita nel contratto d’affitto dei terreni aviti,
clausola che forse permise all’affittuario di rivendicare poi il
possesso dei terreni medesimi o di acquistarli a un prezzo
irrisorio;
2) Non si comprende se la frase “Forse che tu ne avresti fatta, o
buona/ Madre, la dote per Evangelina” si riferita al canone
d’affitto summenzionato o appunto al ricavato della vendita
del terreno, che dovette servire anche a coprire parte delle
spese di mantenimento di Antonio presso l’ateneo di Bologna,
25

presso cui si era iscritto nell’anno accademico 1888 – 1889 38;


probabilmente sono vere entrambe le cose, almeno
considerando un qualche tipo di successione cronologica
affitto/vendita.

Del resto, leggendo le Canzoni senza il sospetto che


l’esaltazione della vita paesana sia dovuta più a motivi letterari che di
sostrato, si evidenziano numerosi cenni biografici. Uno di questi, ad
esempio, può esser rappresentato dall’origine aristocratica della
famiglia della Porta. Nel primo componimento, infatti, della Porta cita
“[…] i muri bianchi ostili/ Nereggiano qua e là di qualche tela/ Antica
nostra; l’avo si scolora/ Ogni dì più tra i cromi ardui sottili/ Di gravi
pergamene e non disvela,/ Per lume di candela/ Che vigili costante
sulle dotte/ Veglie del lontan nipote […]” 39. Da questi versi appare
possibile validare l’ipotesi d’un origine nobiliare dei della Porta (e in
effetti, il fatto che il cognome del poeta sia talvolta scritto con la lettera
minuscola lascerebbe pensare proprio questo): la “qualche tela antica
nostra”, in effetti, è riferimento esplicito a dipinti che erano in
possesso della famiglia sin dal periodo precedente alla sua rovina
economica, denotando una produzione certo estranea agli “homines
novi” che avevano acquisito rinomanza dopo gli eventi rivoluzionari
succedutisi in Europa, e dunque anche in Italia e in Abruzzo, dopo la
Rivoluzione del 1789 (come lascerebbe intuire l’aggettivo “antica”) e
probabilmente derivante da un passato in cui gli avi di Antonio
godevano di una qualche considerazione tra la cosiddetta “nobiltà di
toga” della loro zona d’appartenenza. Una teoria del genere è resa

38
Cfr. “archiviostorico.unibo.it/template/listStudenti.asp?IDFolder=143&
start=true&LN=I T&nEPP=200&offset=17000&filtro=no”, ult. cons. 6 febbraio
2013. Si noti che la stessa fonte riporta, quale iscritto alla Facoltà di farmacia
nel medesimo anno in cui Antonio cominciava i suoi studi legali, un non
meglio identificato Felice della Porta di Montazzoli. Se tra i due ci fosse una
qualche parentela, non è stato possibile appurarlo.
39
Cfr. DELLA PORTA, Canzoni, p. 13.
26

ancor più plausibile da altri due fattori: altrove, il della Porta cita una
“casa ricca di tutte abbondanze”40, altro indizio che porterebbe a
intuire come, nell’epoca della primissima fanciullezza, egli vivesse in
condizioni agiate. Il fatto poi che ci si trovasse di fronte a una magione
antica e aristocratica è comprovato dall’accenno, nella medesima
lirica, ad una pietra (“insigne monumento”41) che sarebbe l’unica
traccia sopravvissuta della passata grandezza. È probabile che qui
della Porta voglia proprio riferirsi all’architrave di un camino, dotata –
nelle dimore nobiliari – d’uno stemma gentilizio posto al centro
dell’architrave medesima. Peraltro della Porta definisce, sul finale, la
vicenda esistenziale della sua famiglia “di tanto centenaria”, parlando
di “gradi e segni nobili e nativi/ Che ritornata al prisco officio,
splenda/ Lare fedele, e a sé chiami e restringa/ quelli del nostro
sangue ultimi vivi […]”42. Il termine “gradi” rimonta genericamente
all’araldica e all’aspilogia e indica il livello di nobiltà raggiunto da una
certa casata.
Tornando alle problematiche economiche, e leggendo quel che
ne scrive il già ricordato Padovani, non si è lontani dalla verità se si
afferma che l’attività giornalistica del della Porta potrebbe esser
servita per integrare quella piccola rendita che gli consentiva di
frequentare, sia pure con successo, la facoltà giuridica felsinea;
un’ipotesi non del tutto escludibile se solo si pensa che, dopo la
laurea, il poeta preferì dedicarsi all’avvocatura piuttosto che
continuare ad esercitare la professione di pubblicista nella quale pure
aveva avuto – come vedremo – non pochi meriti.

40
Vedi ivi, p. 14.
41
Ivi, p. 15.
42
Ivi, pp. 15 – 16. Ma si veda, in proposito, questa pregnante osservazione del
Croce: “i1 focolare è ritratto tutt’insieme nella sua precisa forrila materiale, nel
contenuto etico che esso assume nella vita della famiglia, e nel suo significato
di legame tradizionale e secolare, che risale ai primi nuclei della società
umana” (e cfr. CROCE, La letteratura cit., p. 86).
27

3. La “fuga” dall’Abruzzo natio


Non si conosce la data in cui Antonio della Porta dovette
lasciare Montazzoli, ma si può ragionevolmente ipotizzare che nel
1884 egli fosse ad Ancona, dove lo colloca il Cervi come ideatore e
direttore del periodico Stamura43. Dopo aver collaborato con alcune
riviste romane (il che lascerebbe pensare ad un suo ingresso nella
capitale proprio verso la fine del 1884), a partire dal 1888, divenuto
ormai un uomo fatto e imponente44, il della Porta si reca nella città di
Bologna, dove sin dal Medioevo era presente uno studio giuridico di
altissimo livello45. Qui, accanto alla proficua frequenza delle lezioni di
giurisprudenza46, egli diviene subito un assiduo frequentatore dei

43
Cfr. A DELLA PORTA – A. CERVI, Minareti, Bologna, Società Tipografica
Azzoguidi, 1888, p. 8 (“[…] l’audace fondazione del giornale Stamura ad
Ancona, nel ‘84, quando il poeta non avea che sedici anni […]”).
44
Stando all’Albertazzi (Carducci in professione cit.. p. 144), “la persona sua
[era] alta due metri circa”.
45
Sulla facoltà giuridica bolognese, cfr. A.C. JEMOLO, “La Facoltà di
Giurisprudenza”, in AA.VV., Bologna e la cultura dopo l’Unità d’Italia, Bologna,
Zanichelli, 1960, in part. pp. 212 – 225, con un nutrito elenco di giuristi famosi
che colà insegnarono alla fine del secolo (pur se non tutti riconducibili al
periodo in cui della Porta frequentò quell’ateneo).
46
Nel 1888 il della Porta fu addirittura invitato a tenere un discorso, poi
debitamente pubblicato, in occasione di un evento collaterale
all’ottocentesimo anniversario della fondazione dell’ateneo felsineo (e cfr. A.
DELLA PORTA, I berretti. Conferenza detta al club felsineo il XXVI gennaio
MDCCCLXXXIX giorno dell’innaugurazione dei berretti storici universitari,
Bologna, Stabilimento Tipografico zamorani – Albertazzi, 1889). Nel discorso,
dedicato al compagno di corso, il conte veneziano Ottavio Orti Manara (su cui
vedi il sito “archiviostorico.unibo.it/template/listStudenti.asp?
IDFolder=143&start=true& LN=I&nEPP=200&offset=36600&filtro=no”, ult.
cons 22 febbraio 2013), il Della Porta si rivelava un entusiasta fautore della
scelta di un copricapo adottato come accessorio distintivo degli studenti (“Noi
oggi abbiamo preso cappello [...] non ha le due punte del cappello che fu di
moda sotto Luigi XV; non ha le tre punte del tricorno clericale; non ha le
quattro punte del cappello che ebbero i soldati di Luigi XVI per ordine del
28

circoli letterari e giornalistici, nonché un valido anche se saltuario


collaboratore della casa editrice Zanichelli47, immergendosi – sia pure
lontano dai fasti romani di cui il movimento aveva goduto sin dalla
metà del decennio precedente – in quell’atmosfera culturale bizantina
che aveva avuto nel conterraneo D’Annunzio il suo principale
interprete ed artefice. Si può dire che la “carriera” letteraria dello
scrittore di Montazzoli si è consumata in un arco di tempo che va

ministro Saint German […]”) e le sue parole esprimevano la volontà di


autonomia degli studenti e l’intento di affermare la propria identità.
47
Riguardo ai rapporti che il della Porta intrattenne con la Zanichelli, va
subito rilevato come gran parte delle sue opere siano state edite dall’editore
felsineo e come, stando alle pur scarne notizie ricavabili dall’archivio storico
Zanichelli, il poeta di Montazzoli avesse avuto una certa influenza anche nella
scelta e nella curatela di qualche edizione famosa, come ad esempio le già
citate Elegie Romane di D’Annunzio: “Egregio Signore, Il mio amico Antonio
della Porta mi scrisse, qualche mese fa, ch’Ella avrebbe volentieri pubblicato le
mie Elegie romane. Molte cure mi distrassero allora, e non mi fu possibile
occuparmi di questa pubblicazione. Ma La prego ora di farmi sapere se Ella è
ancora disposta a trattare con me in proposito. – Le Elegie romane sono una
ventina, e comporrebbero un volume simile nella mole di quello delle prime
Odi barbare. Credo che la lunghezza dell’esametro richiederebbe un formato
più ampio. […] Attendo dalla sua cortesia una risposta sollecita. Mi creda,
Egregio Signore, Suo dev.mo. Gabriele D’Annunzio” (Gabriele D’Annunzio a
Cesare Zanichelli, Francavilla al Mare, 25 agosto 1891); ma si veda anche
questo secondo accenno: “[…] Oggi Le spedisco il manoscritto delle Elegie
romane; e mando contemporaneamente notizie intorno alla disposizione
tipografica dei versi al mio amico della Porta […]” (Gabriele D’Annunzio a
Cesare Zanichelli, 10 marzo 1892). Tuttavia, ca notato, a latere, come della
porta avesse avuto a che fare con Zanichelli sin dalll’agosto del 1883. A questa
data, infatti, riosale una lettera che l’ancora quindicenne Antonio scrive
all’editore bolognese, sia per ringraziarlo dell’invio d’un catalogo di libri, sia
per chiedergli la possibilità di pubblicare in volume le sue prime poesie
giovanili: “Ill.mo Sig. Zanichelli. Bologna. Ho ricevuto il suo catalogo e fra
giorni le spedirò una pordinazione di libri. Ardisco ora tediarla, perché mi
favorisca in un suo pregevole riscontro le seguenti notizie. Quanto farebbe
29

posto tra la data della sua iscrizione all’università (appunto, il 1888) e


il 1901, anno in cui vengono editate le Canzoni e in cui termina la sua
ultima collaborazione nella veste di giornalista letterario,
segnatamente al Convito dell’amico De Bosis. La carriera del della
Porta ebbe però anche in Roma un luogo d’elezione, come mostrano
sia la collaborazione alle riviste della capitale come La Nuova Rassegna,
La Vita Italiana e Il Convito, sia il fatto che Antonio passava almeno il
periodo estivo a Roma, come ci testimonia indirettamente Ugo Ojetti,
sin dai primi anni dell’ultimo decennio del secolo decimonono 48. E
Roma fu, infine, il luogo dove egli si trasferì definitivamente alla fine
del secolo, con ogni probabilità per ragioni lavorative. Qui, dopo aver
abbandonato per sempre l’impervio e non del tutto soddisfacente
sentiero della poesia, sarà mentore e mecenate del nipote Eitel
Monaco (poi famoso imprenditore cinematografico) 49 e – come s’è già
accennato – si dedicherà a un più proficuo lavoro di avvocato e di
giornalista di cronaca nera per i quotidiani romani, anche se queste
pagare lei la stampa in elzeviri come quella delle Opere di Carducci di un mio
volume grande come le Odi Barbare? Io ho in animo di stampare alcune mie
odi, e perciò mi rivolgo a lei: la prego quindi di dirmi se potrebbe Stampare il
mio libro ed a quali prezzi nella stampa suindicata, oppure in quella in
elzeviri economica. Se vuol mandarmi le Nuove Odi Barbare di Carducci e gli
Esperimenti metrici di Chiarini e Mazzoni, gliene sarò grato, e le ne spedirò
tosto il costo. La riverisco. 2/8/83. Suo Antonio Della Porta. Atessa per
Montazzoli (Chieti)” (tutte le sottolineature sono dell’autore). Da tale missiva
emerge che il della Porta (ed è questo l’unico documento autografo in cui il la
prima parte del cognome è scritta con l’iniziale grande) scriveva liriche sin
dalla prima giovinezza montazzolese (e non soltanto,. dunque, dal periodo
immediatamente successivo alla sua “fuga”) e che la sua infatuazione per il
Carducci è in certo qual modo antecedente al periodo universitario bolognese.
48
Cfr. infra, la n. 103.
49
Eitel Monaco fu direttore della Federazione nazionale fascista degli
industriali dello spettacolo (FNFIS), presidente dell’ANICA e noto
amministratore di varie società di produzione. Su di lui, cfr. B. CORSI, “Eitel
Monaco”, in www.treccani.it/enciclopedia/eitel-monaco_(Dizionario-
Biografico), ult. cons. 16 marzo 2013, con bibliografia.
30

due labili tracce sono le ultime prima della sua morte, avvenuta nel
193850.

LE POESIE DI ANTONIO DELLA PORTA TRA


MILITANZA, TRADIZIONE E “DAMNATIO
MEMORIAE”

1. L’intervento di Lucio D’Ambra sulle Sestine


Esaminando esegeticamente il rapporto intercorso tra della
Porta e la critica, non si può non sottolineare come gli interventi più
numerosi consistano, in realtà, in recensioni ai suoi testi, a partire dal
primissimo (dello scrittore gelese Maugeri Zangara, sostanzialmente
introvabile e riguardante Minareti)51 per terminare con quello di Lucio
D’Ambra, su cui si tornerà tra poco e che – pur apparso in un periodo
non coevo la pubblicazione di una qualsiasi delle opere e tenendo
conto anche della particolare predisposizione del suo estensore – trae
sicuramente spunto da qualche articolo scritto in concomitanza con la
pubblicazione di qualche testo dellaportiano. Sicché, a voler fare
astrazione dalle poche e abbastanza opinabili parole di Ferruccio
Ulivi, soltanto due sono i testi che se ne occupano con una visione
critica più decantata, meno coinvolta dalla passione del momento, e
cioè quello del Croce e quello di Ferdinando Neri. Appare dunque, “a
parte objecti”, l’emergere d’una logica suddivisione tra le due strade
critiche, quella militante, messa in atto da letterati che certamente
avevano qualche motivo di collusione con il poeta; e quella successiva,
più fredda e certamente capace di correggere il tiro rispetto agli
contributi vergati immediatamente “après le coup”. Questi ultimi

50
Cfr. supra, la n. 9.
51
Cfr. Cronaca siciliana di lettere ed arti, nn. 15 – 16, 1888, irreperibile. Vincenzo
Maugeri Zangara (1866 – 1948), narratore, giornalista e autore di numerosi
saggi, collaborò con alcuni dei maggiori periodici dell’epoca, come il Fanfulla
della Domenica, la Tribuna e la Gazzetta letteraria. Su di lui, cfr. C. GALLO, Il
verismo minore in Sicilia, Acireale-Roma, Bonanno, 1999, pp. 375 – 376 e passim.
31

(anche quelli più benevoli) risultano in gran parte eccessivamente


venati dalle polemiche letterarie del tempo, e – con un atteggiamento
monocorde dettato forse dalla volontà di compiacere l’imperante
dannunzianesimo – non appaiono certamente tenere con il poeta di
Montazzoli52. Con ciò, tuttavia, non si vuole sminuire il gruppo di
recensioni scritte nell’immediato; molte di esse non assolvono il nostro
scrittore dai suoi difetti e, nel caso specifico, hanno probabilmente
determinato la scomparsa del della Porta dal panorama della poesia
italiana del Novecento, collocandolo nell’angusto angolo in cui si
trovano molti poeti del suo tempo. Si vuol soltanto dire che i due
percorsi sono paralleli e vanno affrontati distintamente, perché
diseguali erano le condizioni in cui tali scritti vennero dati alle
stampe. Non c’è dubbio che, tra le opere dellaportiane, quelle che
maggiormente vanno reputate degne di nota sono le Sestine e le
Canzoni, le prime perché sono il cardine metrico su cui si basa la
conoscenza del della Porta negli ambienti critico-letterari nostrani, le
seconde perché sono considerate, quasi unanimemente da parte degli
stessi critici, l’opera migliore del montazzolese 53. All’inizio,
innanzitutto, va rilevato il giudizio positivo che Carducci volle
esprimere proprio sulle Sestine (“[…] le sestine sono condotte con
felice scioltezza. Ma non oserei dire che tal metro ammetta certa
famigliarità sentimentale odierna, certo non vuole nelle rime che
parole di due sillabe; onde no, no, madrigale […]”) 54, in cui pure il
maestro metteva in evidenza come il metro scelto dal della Porta fosse
52
Una citazione del della Porta, assai fugace e generico, ma con citazione delle
sue opere maggiori, in T. ROVITO, Dizionario bio-bibliografico dei letterati e
giornalisti italiani contemporanei, Napoli, Melfi & Joele, 1907, p. 82, dove egli è
definito “poeta abruzzese raffinato ed elegante, seguì con molto profitto i corsi
letterarii (sic!) di Carducci, all’Università di Rologna […]. Collabora alle
principali riviste letterarie; è redattore del Giornale d’Italia”. Riguardo a
quest’ultima notizia, va rilevato che – salvo errore – non sono conosciuti suoi
articoli scritti per quel quotidiano.
53
Su sette interventi critici di spessore a noi noti, ben tre riguardano le
Canzoni, uno a testa Minareti e Sestine, mentre due sono di tenore complessivo.
32

costrittivo, in pratica preferendogli il madrigale. In seguito venne la


puntualizzazione, soprattutto estetica, d’un giovanissimo Lucio
D’Ambra, che nel 1896 affrontò le Sestine dell’amico della Porta con il
consueto acume del “bon vivant” che gli era consueto 55. Va subito
detto, in premessa, che il problema metrico della sestina lirica, sia
nella poesia nostrana che in quella d’oltralpe, ha prodotto una
bibliografia più che consistente, che ha preso in esame, sia pure in
modo assai superficiale e di sfuggita, anche le creazioni del della Porta
e su cui appare difficile inserire qualche dato inedito o qualche nuova
“trouvaille”56, soprattutto in un contesto altro e non specialistico come

54
La lettera, che abbiamo già citato (e vedi supra, la n. 3), venne poi pubblicata
sulla Battaglia bizantina del 6 maggio 1888 (e cfr. CARDUCCI, Ceneri e faville, p.
303).
55
Per i dati bibliografici, cfr. infra, la n. 13. Non è stato possibile risalire
all’originale in alcuna rivista dell’epoca.
56
La sestina lirica del della Porta, in secondo piano rispetto alle creazioni
carducciane, dannunziane e perfino del De Bosis (che peraltro ne scrisse solo
una e privilegiò invece il verso libero d’ispirazione whitmaniana!) sono
affrontate in G. FRASCA, La furia della sintassi. La sestina in Italia, Napoli,
Bibliopolis, 1992, pp. 362 e 377, n. 15. Il Frasca, con qualche superficialità, nota
che quelle del della Porta sono “esperienze chiaramente minori, ove la forma
occorre a veicolare sentimentalità genericamente pascoliane e crepuscolari
(!)”, trovando maggiore originalità nella traduzione dellaportiana di una
sestina del Cervantes presente ne La bella mano (pp. 95 – 97). Si potrebbe
obiettare che, fatti salvi i numi Carducci e D’Annunzio (e stranamente il
Frasca non riconosce le ascendenze carducciane nei testi di della Porta), forse
il numero elevato di composizioni in sesta rima del della Porta avrebbe
dovuto porlo davanti, nella disamina critica, all’unica creazione debosisiana,
peraltro proveniente da un autore sostanzialmente verslibrista. Curiosamente,
con un salto cronologico che dal Cinquecento arriva ai gioni nostri, nessuna
menzione degli esperimenti metrici tardo ottocenteschi vien fatta in AA.VV.,
“La Sestina”, cur. F. M. BERTOLO – P. CANETTIERI – A. P. FUKSAS – C. PULSONI ,
in Anticomoderno, 1 (1996), pp. 9 – 130, dove dagli esempi medioevali e
rinascimentali si passa subito all’analisi dei tentativi di ipersestina posti in
essere dal Frasca medesimo. Una citazione collaterale, nell’ambito della
33

quello presente. L’unica sottolineatura, “a latere”, va fatta su una


discordanza di fonti che appare assai strana e riguardante il numero
delle sestine prodotte dal della Porta. Se infatti Giovannetti e la
Lavezzi attribuiscono a quest’ultimo un numero di ventitré sestine 57,
Frasca ne menziona ventiquattro e, per parte sua, il D’Ambra sostiene
che, in un volume successivo e mai uscito (con introduzione critica del
Carducci sulla sestina nella letteratura italiana), Antonio avrebbe
dovuto editare ben trentasei sestine. Da un conteggio relativo ai testi
editi sia in volume che solo su rivista (non comprendente, quindi,
sconosciute e irreperibili carte diverse), abbiamo contato trentacinque
sestine, di cui una consistente in una traduzione da Cervantes. Se si
tien conto che nel volume del D’Ambra la recensione alle Sestine
venne certamente rimaneggiata rispetto allo sconosciuto originale
(perché in essa, con un inciso evidentemente posticcio, si fa menzione
delle Canzoni, uscite nel 1900, quando invece in calce è posta la data
del novembre 189658), si può solo pensare che il testo discordante
consistesse in una lirica rimasta allo stato d’abbozzo o comunque non
ancora – né mai dopo – pubblicata (fatti ovviamente salvi eventuali
inediti presenti sparsamente su riviste che ci è stato impossibile
consultare). Tornando alle riflessioni del D’Ambra, bisogna
sottolineare che all’inizio egli opera un’artificiosa ma interessante
suddivisione delle varie correnti poetiche italiane dell’epoca in cui
uscirono le Sestine, consistenti, a suo dire, nei carducciani (forse
includendo tra questi anche il Pascoli), in una scuola rimontante allo
Stecchetti e nel nascente dannunzianesimo. Dopo una riassuntiva

ripresa della sestina da parte di Ezra Pound, in A. DI BENEDETTO, “Su Ezra


Pound e l’Italia: intorno al carteggio Pound/Pea”, in Giornale Storico della
Letteratura Italiana, 3 (2008), pp. 372 – 398, in part. pp. 396 – 398, con la
citazione del della Porta come compositore di “altre sestine” a p. 396.
57
Cfr. P. GIOVANNETTI – G. LAVEZZI, La metrica italiana contemporanea, Roma,
Carocci, 2010, p. 160.
58
Cfr. D’AMBRA, Le opere cit., p. 133. Tutte le altre citazioni sono prese dal
testo.
34

elencazione di quanti avevano utilizzato la sestina lirica prima del


della Porta dal Medioevo fino al Rinascimento, D’Ambra sostiene che
il poeta di Montazzoli non ha voluto copiare pedissequamente gli
esempi precedenti, ma ha saputo innervare il genere attraverso idee
proprie. Se le sestine di vecchio tipo erano “una cosa tenue, fine,
ondeggiante, tiste sempre”, il della Porta, “con grande acume […]
non [volle] far opera da certosino nel torturare il proprio pensiero e la
propria anima sino al voler pensare e sentire, come pensavano e
sentivano”, i grandi poeti del passato. Si noti il termine “certosino”: il
D’Ambra aveva così definito, proprio nel luglio del 1896, quelli che lui
chiamava “nuovi bizantini” e che probabilmente vanno identificati
proprio con i nuovi virgulti del dannunzianesimo e del pascolismo 59.
D’Ambra (e probabilmente, come si comprende dalla fonte, anche
della Porta era della stessa opinione) tuonava contro costoro,
esaltando a tutto spiano la classicità del passato tramite gli esempi del
Foscolo e di Orazio e con ciò sotterraneamente glorificando l’ormai
declinante e morente carduccianesimo. Antonio della Porta si
proporrebbe come “poeta squisitamente moderno (quantunque egli si
ostini a dichiarare d’essere un uomo antico)” e avrebbe fornito nuova
vita alla

lingua nostra modernissima, pallida e anemica, che per povertà di parole note
agli scrittori e per troppo monotona uniformità di periodare rende
spessissimo involuti e oscuri fino i concetti più nitidi e semplici, e che per
ignoranza degli scrittori non è talvolta nemmeno sufficiente a dar forma
sensibile e salda ai concetti che essi sentono embrionalmente fervere nel loro
intelletto […].

Erede rinnovato dell’antica poesia, per il D’Ambra sarebbe


dunque Antonio della Porta, che – pur nello spiacente rimpianto di
coloro che soli potevano apprezzare le sue liriche inedite – le renderà
infine “di dominio pubblico”, facendole apprezzare a un più vasto
59
Cfr. infra, la n. 13.
35

panorama di lettori. Quest’ultima affermazione, che fa il paio con certe


riflessioni capuaniane di cui si dirà in seguito, indica come anche
D’Ambra avesse compreso il carattere sostanzialmente elitario della
poesia del della Porta; egli lo colloca in una dimensione circoscritta ma
certamente non meno raffinata di quel che si può pensare se si
analizzano gli assunti che ne esaltano soprattutto la “novitas” nell’uso
linguistico (ché non di lingua nuova pare voglia parlare D’Ambra
quando accenna alla diversificazione d’impiego che, rispetto alla
sestina originaria, riuscirebbe a fare il suo amico abruzzese).

2. A partire dal Pantini…


Sul Marzocco esce, a firma di Romualdo Pantini 60, una
recensione al volume delle Canzoni che sembra ricalcare le tematiche e
le attitudini critiche emergenti in quella capuaniana menzionata in
precedenza (e di cui diremo più diffusamente in seguito). Pantini,
dopo aver sottolineato che il poeta è sincero nel dipingere a colori
nostalgici il natio Abruzzo, nota che forse “l’involucro ampio delle
strofi possa parervi dissimulare un tal sincero e profondo
sentimento”. Il della Porta, secondo lo scrittore vastese, “nota le cose
più ovvie, i ricordi più semplici che per una sola data, che per una
sola circostanza di amici invitati gli si destino nella mente”,
preconizzando forse il paesaggio lirico dellaportiano come sorgente
da una sorta di “memoire involontaire”, con quella tipica malinconia
d’accenti che emerge in quasi tutte le opere ottocentesche o primo
60
Giornalista, critico d’arte, traduttore e drammaturgo d’ambiente
dannunziano, il Pàntini (1877 – 1945) collaborò, oltre che con il Marzocco, con
vari giornali e periodici del suo tempo, tra cui il Corriere della Sera e la Nuova
Antologia. Su di lui, cfr. AA.VV., Romualdo Pàntini nella cultura italiana ed
europea tra otto e novecento: a cinquant’anni dalla morte, 1945-1995, cur. G. OLIVA,
Vasto, Il Torcoliere, 1997. Tutte le citazioni da R. PÀNTINI, “Per un
Canzoniere”, in Il Marzocco, 26 novembre 1899, p. 4. Come s’è già detto (e vedi
supra, la n. 11), un accenno al contributo Pàntiniano sul della Porta, ma
ovviamente senza giudizi specifici, si trova in CHIODO, “In margine ai
«marzocchini»” cit., pp. 85 – 86.
36

novecentesche riguardanti l’infanzia61. “I motivi domestici” sono, a


parere di Pantini, “una ragione d’arte indiscutibile”, ma l’uso di
“affettuose quisquilie” (termine utilizzato nella recensione per definire
quella poesia d’ascendenza pascoliana connotante il mistero delle
piccole cose) lascia intravedere il sarcasmo dell’epigono
dannunzianeggiante contro chi era visto come rappresentante ultimo
di quel carduccianesimo d’accatto che aveva prodotto, come scoria
finale, la fanciullaggine del poeta di Castelvecchio. Scrive il Pantini
che “le canzoni del della Porta stanno a dimostrare quanta maggior
luce, quanta miglior evocazione si possano in noi suscitare nel giro
maestoso delle stanze, obbedienti quasi per impulso proprio alla
incoercibile legge della concinità”, evocando una sproporzione tra “il
contenuto e la […] veste metrica” dei componimenti, ove l’unica nota
positiva – a fronte della “gran sinfonia d’organi” di carducciana
memoria – sarebbe “l’eloquenza semplice del cuore”. Appare
evidente, qui, un virulento anticarduccianesimo (l’odio edipico dei
figli che uccidono il padre), il quale domina queste affermazioni del
Pantini in ogni angolo, solo sfumato da una comunanza d’origini che
peraltro non impedisce al medesimo di reperire, anche nell’ode

61
Sulla presenza dell’infanzia nelle maggiori letterature europee ottocentesche
e primo novecentesche, cfr., orientativamente, J. HODGSON, The search for the
self: childhood and autobiography in fiction since 1940, Sheffield, Sheffield
Academic Press, 1993; P. COVENEY, The image of childhood: the individual and
society, a study of the theme in English literature, Harmondsworth, Penguin,
1967; M. BERNARDI, Infanzia e metafore letterarie: orfanezza e diversità nella
circolarità dell’immaginario, Bologna, Bononia university press, 2009; AA.VV., Il
tempo dei bambini: il mistero, lo stupore, la magia dell’infanzia, nel racconto di 26
grandi scrittori, cur, R. ZIMLER – R. SEKULOVIC, Milano, Oscar Mondadori, 2010;
AA.VV., Tracce d’infanzia nella letteratura italiana fra Ottocento e Novecento, cur.
W. DE NUNZIO-SCHILARDI – A. NEIGER – G. PAGLIANO, Napoli, Liguori, 2000;
G. TISON, Une mosaique d’enfants: l’enfant et l’adolescent dans le roman francais
(1876-1890), Artois, Artois Presses Universite, 1998; E. BADELLINO – F.
BENINCASA, Bulli di carta: la scuola della cattiveria in cento anni di storia, Torino,
SEI, 2010.
37

dedicata al D’Annunzio, una “freddezza classica che […] dispiace”,


essendo legata – e c’è da chiedersi su quali basi Pantini affermasse
questo – a tematiche “amoros[e]”, individuate in funzione del solo
fatto che tale lirica si trova inclusa nella seconda parte del testo, quella
in cui predominano i componimenti d’imitazione stilnovistica.
Tuttavia, anche il censore deve riconoscere che “la parte più viva,
moderna, personale sta unicamente in una squisitezza descrittiva, per
cui un gesto, un atto, una lagrima dell’amata acquistano nelle strofe
significazioni gentili e gentili immagini suggeriscono”, benché da
tutto ciò non si generino “movimenti lirici schietti, né accenti di
passione che pare sieno sdegnosi del terribile freno” rappresentato
dalle forme arcaicizzanti adoperate dal della Porta. Sicché i versi più
sentiti e più palpitanti uscirebbero dalla penna di poeta montazzolese
solo quando egli eleva canti alla propria madre “che ne riesce così
rivestita d’una glorificazione lirica assai degna”. Tutte queste pretese
limitazioni, per il Pantini, impedirebbero al lettore di vibrare
all’unisono con il poeta, anche quando egli mostra al suo uditorio i
suoi sentimenti più sinceri e più profondi, perché “la correttezza della
forma [e] qualche soverchia compiacenza in forme antiquate” e in
“immagini sfrenate” tengono i fruitori delle Canzoni di Antonio della
Porta “freddi e lontani da lui”.

3. Il parere localistico di Luigi Savorini


Sostanzialmente favorevole al della Porta, pur con alcune
distinzioni iniziali, si segnala la recensione che – sotto lo pseudonimo
di Aloysius – venne scritta dal giornalista e critico letterario teramano
Luigi Savorini62. In tale testo, le posizioni portate avanti dal Pantini,

62
Insegnante, giornalista e scrittore, teramano d’adozione, Luigi Savorini
(1875 – 1937) verso la fine del secolo fu redattore capo della Rivista Abruzzese
di Scienze, Lettere ed Arti. Gestore della Biblioteca provinciale di Teramo, e
curatore delle opere di melchiorre Delfico, con lo pseudonimo Aloysius firmò
la maggior parte dei suoi interventi di argomento artistico, letterario e
bibliografico. Su di lui, cfr., da ultimo, G. CASTELLUCCI, “Cesare Brandi, Luigi
38

pur ripercorse in modo quasi analogo ma completamente opposto,


vengono ribaltate in nome d’un esaltazione intellettualistica delle
liriche dellaportiane. Esse sarebbero veri e propri gioiellini degni di
pochi “connoisseurs”, secondo una visione elitaria della letteratura
che, pur non escludendo la presenza di una “gran massa [di] pubblico
colto e intelligente” che potrebbe “non sentirsi attratta verso un genere
tanto elaborato di poesia”, fa apprezzare gli aristocratici testi
dellaportiani a una “ristretta cerchia di quelle persone che ad una
coltura intellettuale raffinata congiungono un culto non volgarmente
inteso della Bellezza e adorano ancora le purezze del nostro idioma e
le leggiadrie delle nostre prime forme liriche”. Secondo Savorini, però,
i metri vetusti utilizzati dal della Porta non possono, di per sé, portar
luce alla sua vera ispirazione, perché egli ha finalmente “compreso
che l’opera scritta, per quanto fine ed elaborata essa sia, deve
conservare la febbrile evidenza del linguaggio parlato” affinché
l’autore venga a sentirla profondamente e intimamente sua. Tutto ciò
pone il mondo lirico dellaportiano in una dimensione confidenziale e
la stessa rarità dei suoi versi li atteggia a rivelazioni di segrete gioie, e
ancor più segreti dolori, che il poeta vuole offrire a quanti possiedono
la sua stessa sensibilità. Interessante è, nella recensione del Savorini,
non tanto l’accostamento delle tematiche domestiche del
montazzolese a quelle di Pascoli, già presente nelle riflessioni del
Pantini affrontate precedentemente, quanto il fatto che, se “in Myricae
la perenne nota del pianto deriva da una buona e cara immagine
paterna che mani assassine strapparono per sempre all’affetto dei figli,
qui, invece, il mesto leit-motiv che ritorna costantemente è dato dalla
figura mite di una madre nata a dolorar tutti i dolori”. E questo
discrimine è reso, a parer nostro, assai più importante dal fatto che la
perdita prematura del padre fu un evento verificatosi anche

Savorini e la città invisibile”, in Notizie dalla Delfico, 3 (2006), pp. 19 – 31, e


IBID., “Savorini, Luigi”, in AA.VV., Gente d’Abruzzo. Dizionario biografico,
Castelli, Andromeda, 2007, pp. 56 ss.gg. Tutte le citazioni in ALOYSIUS, “Versi
e poeti” cit. (e cfr. la n. 11).
39

nell’infanzia di Antonio della Porta, il quale probabilmente lo recepì –


vuoi perché non frutto di un azione violenta, vuoi perché il fanciullo si
sentiva maggiormente legato alla figura materna – con minori risvolti
psicologici rispetto a quel che accadde all’amico Pascoli. E se pure il
Pantini aveva notato che questo motivo era centrale nella poesia
dellaportiana, soltanto Savorini opera una contrapposizione di tal
genere, inducendo appunto il critico moderno a ipotizzare una sorta
di controcanto interiore all’interno dei versi in questione. Sicché anche
la parte delle poesie amorose, per Savorini tutta giocata attraverso la
vaporosità elegante della sestina, con cui il poeta evoca “gli antichi
suoi amori” in modo elegante ed elaborato, svanisce – per così dire –
di fronte al cantico di sofferta maternità che emerge nei testi relativi al
periodo dell’infanzia. E, sia pure osando e senza voler nulla togliere al
grande esempio pascoliano, lo studioso teramano individua una
differenza di tono tra Giovannino e Antonio, differenza che, almeno
nelle intenzioni, farebbe pendere almeno la bilancia della vita vissuta
in favore dell’abbruzzese:

nessuna molle cadenza […] nei suoi versi, nessun accento debole o fiacco,
nessun sospiro di perdute speranze, nessun lamento di vane e infeconde
recriminazioni. Egli atteggia la propria passione e il proprio dolore a una
fierezza nobile e dignitosa e la strofe metallica della sua canzone sembra
ripetere vigorosamente: non flectar, non flectar!

La ragione ultima del mondo poetico dellaportiano starebbe


dunque proprio in questo: un equilibrio tra forze, quella dell’animo
robusto, formato alla sofferenza e al dolore, e quella – di certo
santificatrice e in assoluto soave e leggiadra – d’un amore materno che
si colloca stabilmente nell’orbita dei più struggenti ricordi
dell’infanzia.

4. L’autorevolezza di Luigi Capuana


40

Sulla scia dell’intervento del Pantini, ma in un diverso contesto,


appare la recensione dovuta alla penna di Luigi Capuana 63. L’attività
del Capuana come critico letterario risente, come si sa, della decisiva
influenza del De Sanctis e del De Meis, che però non sarebbe stata
acquisita, secondo Croce, in tutta la sua valenza rivoluzionaria 64. Per
Capuana, l’alfa e l’omega attorno a cui deve ruotare l’analisi critica è
l’aspetto formale, che tuttavia lo porta a privilegiare il vaglio, più che
dei testi poetici, delle opere narrative, inducendolo a qualche difficoltà
nell’interpretazione della liricità dellaportiana; egli la giudica
servendosi del prisma deformante di un proprio pregiudizio
verslibrista, quello che lo aveva indotto a pubblicare i Semiritmi e che
non gli faceva vedere di buon occhio una versificazione troppo legata
a modelli arcaici o, a suo parere, sorpassati. Secondo Capuana,
l’insistenza del della Porta su una poesia che utilizzasse forme liriche
superate lo salva dall’accusa eventuale di prendere in giro il pubblico;
forse lo stesso scrittore di Mineo deve averlo pensato, almeno
all’inizio, perché a un certo punto dichiara che per comprendere
meglio della Porta egli ha dovuto rileggersi tutti i volumi di liriche da
costui pubblicati (“[…] ho sentito il dovere di rileggere quasi tutte le
cose del poeta abruzzese […]”). Ma una sotterranea accusa di
supponenza il Capuana la rivolge certamente al poeta di Montazzoli,
vagheggiando che – di fronte alle rimostranze immaginarie di chi non
apprezzasse i suoi scritti – il della Porta possa rispondere così:

Sissignori, sono fatto cosi; prendetemi come sono, se vi piace; se no, buona
notte; continuerò a cantare per conto mio, come ho già fatto sempre. I miei
versi li scrivo prima unicamente per me, perché la natura del mio ingegno e il
mio cuore mi costringono a scriverli; la vanità, l’amor proprio che me li

63
Cfr. L. CAPUANA, “Le canzoni” cit., da cui tutte le citazioni seguenti.
64
Sul Capuana critico letterario, cfr. ora e definitivamente L. MENEGHEL,
“Luigi Capuana critico letterario del Corriere della Sera”, in ACME. Annali
della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, 2 (2011), pp.
157 – 179, con bibliografia specifica.
41

fanno stampare, di quando in quando, in scarse proporzioni, vengono dopo;


non sono uomo per nulla. Ora, se supponete che nel momento dell’ispirazione
– perdonatemi questo modo di dire retorico – io faccia la burletta con me
stesso, vi prego di credere che siete molto lontani dal vero. E se mi concedete
che non posso fare a meno di essere sincero nella intimità della mia coscienza
d’artista, dovete anche concedermi che debbo esser tale nella forma con cui la
sincerità del mio sentimento si manifesta in quel punto. Sentire, pensare,
vuol dire esprimersi in un modo e non in un altro. Se, infine, il vostro
stupore, il vostro dubbio significano che mi esprimo male, è un altro paio di
maniche. Non voglio entrarci. Ho coscienza di aver detto quel che volevo dire
e nel preciso modo con cui lo dovevo dire; tant’è vero che non mi riesce di
dirlo diversamente.

Questo implicito processo alle intenzioni non depone bene


sull’oggettività di Capuana, il quale probabilmente non conosceva
della Porta, o almeno non al punto di poter credere che quest’ultimo
giudicasse il pubblico così sprovveduto da non pensare che le sue
opere – come aveva notato invece Savorini – fossero rivolte a una
cerchia ristretta, un gruppo raffinato ed elitario dove l’aspetto formale
e quello contenutistico si equilibrassero e si compensassero a vicenda.
Come vedremo in seguito, della Porta aveva in suprema uggia quelli
che il D’Ambra chiamava “certosini della poesia”, e che invece il
montazzolese usava definire “nuovi bizantini”. Costoro “son rimatori
abilissimi: e non per questo son grandi poeti. […] L’arte della poesia
non è già nel disegno ritmico, ma nel disegno lirico, principalmente se
non unicamente”65. Queste affermazioni contrastano totalmente con le
convinzioni di Capuana, il quale invece definisce il della Porta “un
artista”:

Un artista ha sempre una riposta ragione di operare in un suo certo


particolar modo. E un individuo foggiato dalla natura in maniera molto
65
Cfr. per tali questioni e citando lo stesso della Porta, D’AMBRA, Gli anni cit.,
p. 143.
42

diversa dall’ordinaria. I suoi sensi hanno minore o maggiore acuità di quelli


degli altri; la sua intelligenza interpreta il paesaggio, la società che lo
circondano, secondo la maggiore o minore acuità di quei sensi; e la sua opera
è la sintesi delle impressioni ricevute, modificate dal temperamento,
ripensate, cioè trasformate in guisa da ridurle cosa a parte, più raffinata, più
seria delle impressioni passate a traverso di sensi e intelligenze comuni,
incapaci di una elaborazione che possa assurgere a valore di opera d’arte.
Senza dubbio, Antonio Della Porta è un artista, giacché il suo particolar
modo di sentire trova un eletto particolar modo di esprimersi che si stacca da
quello di tant’altri, artisti come lui.

Affermazioni del genere sono, ad ogni modo, comprensibili;


ventitré anni prima, recensendo l’Assommoir di Zola, Capuana
scriveva che “l’eccellenza della forma che lo rende un’opera d’arte
elevata, lo riduce, nello stesso tempo, un lavoro destinato alla più
eletta aristocrazia intellettuale. L’arte, che che se ne voglia, è roba
assolutamente aristocratica”. Ciò che Meneghel chiama “disagio
profondo nei confronti dei lettori”66, appare invece, evidentemente, un
ondeggiamento critico tra la necessità di affrontare tematiche popolari
o popolareggianti e il vincolo di soluzioni stilistiche talvolta
incomprensibili alla grande massa di chi si confronta con la narrativa
o con la poesia. Secondo Capuana, per comprendere le liriche
dellaportiane bisognerebbe immergersi nelle atmosfere paesane che
egli evoca e che al lettore potrebbero apparire ignote se non fosse lui
stesso a disegnarle e descriverle nei propri versi. Sembra di poter dire
che, implicitamente, Capuana sia ancora immerso in quell’atmosfera
naturalista per cui – parafrasando Verga – l’opera d’arte deve parere
essersi fatta da sé, senza la mediazione dell’autore. Tuttavia, nel caso
dell’oggetto poetico, impulsi critici di tal fatta rischiano di voler
individuare a tutti costi una dimensione oggettiva dei dati contenuti
nel testo, la quale però, in senso assoluto, appare quantomeno
incongrua, dati gli scopi intrinseci della poesia. Capuana, lasciando
66
Cfr. MENEGHEL, Luigi Capuana cit., p. 163, anche per la citazione precedente.
43

stare le illusorie dimostrazioni di stima contenute nell’articolo, non


ama il lirismo elitario proprio del della Porta (cui pure rende, per così
dire, l’onore delle armi):

A prima vista, questo modo di esprimersi sembra qualcosa di accattato, di


voluto, di non spontaneo; e se cosi fosse, il poeta sarebbe dalla parte del torto.
C’è un forte argomento per convincersi che non è cosi o almeno che non é
interamente cosi; ed io lo trovo nei suoi difetti, nella persistenza di essi, nello
svolgersi di essi di pari passo coi suoi pregi: la qual cosa, secondo me,
dimostra che quella forma, ostica per molti, certamente non facile, ò in lui
spontanea, naturale; discutibile, se si vuole, ma rispettabile anche quando
non giunge a contentare fino il gusto dei pochi a cui soltanto egli vorrebbe
riuscire a piacere.

Per Capuana i metri “antichi” preferiti dal della Porta, in


tutta evidenza, sono contraddittori rispetto alle tematiche campestri e
localistiche di cui egli nutre le sue canzoni, generando un atmosfera
artificiosa cui si sottraggono soltanto i sentimenti del poeta,
certamente sinceri e profondi:

Infatti tutta la poesia di Antonio della Porta è rimpianto di quel passato e


rimpianto di un amore o di amori svaniti anch’essi. Ma da questi particolari
sentimenti – e qui consiste il pregio della sua opera – si sprigionano
sentimenti più alti, più generali. Mentre noi sorridiamo talvolta della
minuzia dei ricordi che il poeta ci enumera, qualcosa di uguale, per
suggestione, avviene dentro di noi. Evochiamo anche noi consimili ricordi, ci
sentiamo invadere da uguale commozione, e non sorridiamo più. Perché mai?
Perché questa poesia non è astrattezza, quintessenza distillata dal cervello,
ma ha salde radici nella realtà e da essa germoglia e fiorisce, e da esilia riceve
il sottile profumo.

Ma il poeta, pur nutritosi di tali atmosfere familiari calde e


condivisibili, commette lo sbaglio di utilizzare ancora forme liriche
44

vetuste come la “vecchia e quasi dimenticata sestina”, e per tale


ragione

avviene talora che la tecnica prenda la mano al poeta e lo ammalii e la illuda


fino a non fargli più scorgere il sopravvento e la pressione che essa esercita su
lui, almeno da principio, quando il concetto non si è abituato ad adagiarvisi
facilmente, a fondersi con essa in guisa da non far scorgere lo sforzo e lo
stento. Allora il concetto ora cede, ora si sminuisce, ora si maschera
volentieri.

La forma, “potentissima maliarda”, trova finalmente il suo


benedetto limite nei contenuti, laddove le sestine utilizzate nella
seconda parte del volume si abbeverano direttamente alla fonte di
sentimenti veraci e perfino tristi, ma certamente sinceri, come il
tradimento evocato nella “Sestina della rotta fede”, che nelle Canzoni
prende il titolo di “Siate felice!..” e che sembra lontanamente evocare
il “Commiato” dannunziano di S. Pantaleone67. Quando invece
l’aspetto formale invade troppo avidamente il campo dei contenuto,
accade che “la non compiuta fusione della forma col concetto” uccida i
presentimenti lirici, lasciando spazio – per il Capuana – a un
fastidioso e melodrammatico predominio della retorica a scapito della
genuinità:

Per mantenersi in tono, la parola, il giro del periodo, assumono una, dirò
cosi, teatralità che stride col resto. Si scorge una strana lotta; una specie di
scommessa di dire in modo non ordinario un concetto semplicissimo e che
dalla semplicità della forma prenderebbe maggiore efficacia. Rivincita della
tecnica, che riporta l’artificio là dove l’artificio dovrebbe essere evitato. Da ciò
più vengono qua e là quelle oscurità che irritano, e menomano l’impressione
quando sta per divenire più acuta; quel che di faticoso, di contorto che
ostruisce la piena irrompente del sentimento anche nelle canzoni di amore;
67
Cfr. G. D’ANNUNZIO, S. Pantaleone, Firenze, Barbera, 1886, pp. 152 – 161. Il
testo venne poi riutilizzato da D’Annunzio nel Piacere.
45

notevolissime perché dicono cose che al Petrarca e ai suoi seguaci non


sarebbero mai passate pel capo, e dove riappare amore nudo in Grecia e in
Eolia, come direbbe Ugo Foscolo, con grandissimo piacere di chi preferisce la
sincerità della sensazione alla ipocrisia della sentimentalità, che corrompe
peggio di quella perché mentisce.

E dunque la seduzione della tecnica indurrebbe talvolta il


della Porta a peccare per eccesso, soprattutto nelle canzoni a tematica
amorosa, con un’espressività che “si avvolge di sottigliezze, di ombre,
le quali, se lasciano scorgere il lavorio segreto, le ricerche che la forma
va facendo per raggiungere la sua piena attuazione, lasciano scorgere
nello stesso tempo che questa piena attuazione non è stata raggiunta”.
Concludendo, il Capuana si augurava che in lavori successivi lo
scrittore di Montazzoli, con la sua nota tenacia, avrebbe potuto limare
tali imperfezioni: egli non si rendeva conto che le sue parole –
all’orecchio di chi aveva già pubblicato numerosi volumi di poesia e
che quindi non si sentiva di raccogliere ulteriori critiche da siffatti
maestri – finivano con il rappresentare una sorta di pietra tombale,
impossibile da sollevare in futuro, anche per il sorgere conlimitaneo di
movimenti come quello crepuscolare che avrebbero forse dato
risposta ai dubbi stilistici capuaniani.

5. Il decisivo intervento del Croce


L’intervento del Croce appare in un periodo assai più tardo,
quando gli odi e gli entusiasmi “fin de siécle” si erano ormai
raffreddati68. E tuttavia le riflessioni crociane non si discostano
eccessivamente da quanto in parte rilevato dai recensori coevi. Croce
rileva (come peraltro aveva già in parte messo in evidenza il
D’Ambra) quanto la lirica dellaportiana debba ai grandi rimatori
medioevali e rinascimentali; ma questa affermazione è seguita da
un’ingiustificata inclusione del poeta nel gruppo dei dannunziani,
prendendo a pretesto varie citazioni passeggere e non definitive, forse
68
Cfr. CROCE, La letteratura cit., da cui tutte le citazioni che seguono.
46

per nascondere che tali riflessioni gli venivano dalla lettura quel
componimento sul D’Annunzio legislatore, il quale però appare una
specie di “unicum” in tutta la produzione del montazzolese. Croce
però riesce a capovolgere il problema rispetto alla solita ottica
deformante “passatismo vs. comprensione pubblica” che aveva
inficiato in parte i giudizi dei contemporanei. Secondo lui, la
“vaghezza letteraria” è scavalcata da una “sobrietà” di toni che
parrebbe assente perfino in Carducci. La “delicatezza e trepidanza
d’affetto che è negli accenti d’amore” del della Porta, e che Croce
farebbe risalire all’influenza su di lui delle liriche del Severino Ferrari
dei Nuovi Goliardi69, “si distacca e s’innalza sul D’Annunzio”, dal
momento che Antonio della Porta non canta “gli affetti di qualsiasi
qualità come mera dilettazione da estetizzante”, ma cerca di dare ad
essi una sorta di “originale schiettezza” per fornire una chiave
interpretativa realistica al complesso dei suoi versi. Croce, come altri
prima di lui, mette in evidenza come il montazzolese esaltasse la
figura materna; ciò avviene “con commozione”, scavalcando già da
principio i rari influssi dell’estetismo pur presenti nella sua
produzione più giovanile. Per il critico di Rivisondoli, nella poesia
dellaportiana sono presenti alcuni punti fermi:

[…] l’Abruzzo nativo, l’antica casa doviziosa, i genitori, la giovinetta


sorella, le costumanze paesane; e poi le morti, la rovina economica, la
dipartita dalla provincia per cercare nella città lavoro e mezzi di
sussistenza, superstite con lui la madre dai capelli bianchi e carica di

69
Sui contrasti di campo negli ambienti carducciani, cfr. il fondamentale
articolo di P. BONFIGLIOLI, “Conformismo e opposizione nella scuola
carducciana. Severino, Pascoli e i goliardi”, in Emilia, VII (1955), pp. 238 – 244,
a cui si aggiungano E. CHIORBOLI, “Il tramonto di Severino Ferrari e il ritorno
di Giovanni Pascoli a Bologna”, in Nuova Antologia, CDXXXVII (1946), pp. 3 –
14; IBID., “Il Ferrari, il D’Annunzio, il Pascoli, il Carducci”, ivi, CDL (1950), pp.
162 – 182; E. GERUNZI, “Per la scuola bolognese e Severino Ferrari”, in Rivista
d’Italia, IX, I (1906), pp. 306 – 319.
47

dolorose memorie, superstite l’immagine di quel che s’è perduto e di quel


che si è slontanato nel passato irrevocabile, e in quella spasimante
nostalgia si è ingigantito e ha acquistato proporzioni quasi epiche. Così
questa materia e già come preparata a comporsi nei modi delle antiche
canzoni, che si fanno a essa quasi naturali, compiendo con
l’incantamento letterario l’incantamento del passato.

Questo respiro epico, che è forse una suggestione assorbita


negli ambienti del Convito e leggendo anche le liriche del sodale e
compagno De Bosis, è però tutto nutrito di realismo, distaccandosi dai
consimili esempi pascoliani per il fatto di non possedere in se
alcunché di artificioso ma di rappresentare le immagini evocate in
modo serio grave, come si conviene a tematiche di tal genere. Certo,
anche secondo il Croce esistono evidenti criticità in talune delle liriche
dellaportiane: “qualche volta, per troppa condensazione di
particolare, la forma […] è tortuosa e faticosa; qualche volta, esce in
quelle rime meramente visive che il Pascoli mise in moda […]; qualche
altra volta incappa nelle delusorie formule dannunziane […]”. E
tuttavia la condiscendenza crociana si spinge al punto di affermare
che “queste sono piccinerie che noto unicamente perché non si creda
che io non le abbia notate, e non perché assegni loro troppa
importanza”. Si sarebbe tentati di pensare che l’interlocuzione del
Croce sia stata, a suo modo, un favore critico ad un corregionale, ma si
sbaglierebbe70. Croce, secondo noi, ha semplicemente saputo
70
È il parere, opinabilissimo, dell’Ulivi (Poeti minori cit. p. 761), dove il Croce è
accusato di giudicare “con alquanta benevolenza il suo conterraneo
abruzzese”. Ci sembra invece che si fa torto all’ingegno sommo del Croce se lo
si considera capace di tali piccinerie. L’Ulivi, per parte sua, parla d’un
linguaggio che “era rifatto sui modi ardui della più eletta tradizione, il
discorso faticoso e complicato”, risultando, a suo parere “fin quasi
paradossale”. Poi, per contro, egli nota che quello stesso linguaggio era indice
di “volontà di rinnovazione poetica”, cui si sottrarrebbe soltanto “un chiuso
ardore sensuale” piegato ai modi del D’Annunzio. La contraddizione in
termini appare assolutamente stridente, sicché verrebbe da chiedere all’Ulivi:
48

osservare da un’altra prospettiva il mondo poetico del della Porta,


chiamando pregi quelli che altri – in quel caso sì per mero pregiudizio
di parte – vedevano come difetti.

6. Un ultimo ragguaglio: Ferdinando Neri


Un ultimissimo ragguaglio sul della Porta venne fatto, nel suo
Poesia nel tempo, dal filologo piemontese Ferdinando Neri 71. Il Neri, a
tutta prima, sembra ripercorrere gli stessi sentieri che erano stati
calcati da chi aveva recensito il della Porta ad inizio secolo. Secondo
lui, il montazzolese era un “trovatore, lo si può ben dire, più che
poeta, a denotare quello che fu il suo concetto dell’arte e la ragione
onde si volse con fiducia, con entusiasmo, a rinnovare le forme ed i
ritmi dei nostri primitivi […]”, in un percorso compositivo che era
stato già tentato nell’Ottocento secondo un petrarchismo di maniera
che non aveva “una sua virtù acquisita, una forza vitale”. Ma non
petrarchista, bensì carducciano e dannunziano fu, per il Neri, Antonio
della Porta, il quale “trattò con predilezione la sestina, così artificiosa
nel suo intreccio di parole-rima, riprese di continuo, insistenti,
ostinate, e che aspirò alla corona suprema della canzone, quale dante
l’aveva celebrata”. Le Canzoni di della Porta, però, non avrebbbero
quasi mai il crisma dell’eccezionalità:

ma della Porta era innovatore o arcaizzante?


71
Per il dato specifico, cfr. supra, la n. 7, da cui tutte le citazioni seguenti.
Filologo e critico (1880 – 1954), Ferdinando Neri si laureò all’Università di
Torino, dove in seguito fu professore di letteratura francese (1923 – 1950).
Approfonditi gli studi alle università di Firenze, Grenoble e Parigi, fu
presidente dell’Accademia delle Scienze di Torino dal 1941 al 1944 e direttore
del Giornale storico della letteratura italiana e del periodico La Cultura. Di
notevole acume e finezza interpretativa, svolgendo opera di mediazione tra il
crocianesimo e la filologia, il Neri è autore di studî di letteratura francese,
italiana e comparata. Su questo cfr.
www.treccani.it/enciclopedia/tag/ferdinando-neri, ult. cons. 16 marzo 2013.
Nel testo relativo al della Porta, la mediazione tende a sfumare in una ripresa
di motivi già rilevati e ripetuti dai recensori di fine secolo.
49

[…] a tratti, un manipolo, un gruppo di versi emerge lucido, compatto, come


un frammento marmoreo; ma la canzone perfetta, com’egli dovette sognala
nelle sue ansie d’artefice, non ci è data di scorgerla mai; e questa delusione
iterata, in chi percorre un’opera così nobile e intensa, credendo ogni volta di
trovarsi alle soglie del capolavoro, si dissolve in un sentimento drammatico,
nella pena di uno scacco. Il poeta fu vinto nell’ardua prova per un suo
inganno, per un’audacia cui vennero meno le forze?

Secondo Neri, a siffatto quesito va data risposta accampando


una sorta di ebrezza compositiva che avrebbe colpito il della Porta,
sicché egli risulta più “felic[e]” nell’unico caso in cui deve tradurre
un’opera altrui – la già citata versione della Galatea di Cervantes –
piuttosto che nella composizione di liriche proprie. Anche il Neri
ricorda la vena familistica (che della Porta farebbe affiorare “con una
fierezza e una gentilezza accorata, con una semplicità più fresca”) e
quella erotica. Quest’ultima, esprimente “un sentimento d’amore
caldo, sensuale, ed in ogni sua espressione imperioso”, è, al parere del
Neri, una cornice tematica che si conviene molto “più strettamente
alla sua volontà di dire, al confuso presagio del canto”. E – sembra di
comprendere questo dalle parole di Ferdinando Neri – se il della Porta
fallì, non più pubblicando componimenti poetici in volume, ciò non si
verifico tanto perché gli venissero meno le forze, ma perché non seppe
contrapporre n nulla di nuovo prima al dannunzianesimo montante e
poi alla vasta congerie di poeti nuovi (evidentemente ci si riferisce ai
crepuscolari e all’appena incubato futurismo) che andavano sorgendo
nel panorama letterario italiano del primo Novecento. Certamente, le
osservazioni del Neri possono pur avere qualche fondamento, ma la
domanda sorge spontanea: come si fa a includere tra i “precedenti
immediati” della poesia dellaportiana il D’Annunzio, e poi sostenere
che lo “scacco matto” al della Porta arcaizzante lo diede, oltre che
l’ovvio verslibrismo, anche il medesimo D’Annunzio delle Laudi?
50

Anche in questo caso, come in quello rappresentato dall’Ulivi 72, la


contraddizione in termini appare del tutto evidente.

RAGGUAGLI SUL DELLA PORTA NARRATORE

1. L’esperimento prosimetrico di Minareti


Il volume Minareti, scritto a quattro mani con l’amico Antonio
Cervi (altrimenti noto per essere il padre del Maigret televisivo 73),
consiste sostanzialmente in un prosimetro, dove si alternano, ma in
modo non regolare, brevi novelle e componimenti poetici scritti dai
due autori. Nell’introduzione “Per gli amici”, dovuta alla penna di
entrambi gli autori e quindi esprimente un sentire comune 74, c’è un
sotterraneo attacco a quegli “scrittori, grandi e piccoli” che “sono presi
da tale apatia che preferiscono la politica all’arte”. Appare probabile
che il successivo accenno al fatto che sia “un male grandissimo, anzi
[…], una calamità grande” il pubblicare elzeviri si riferisca proprio a
chi cerca di tenere i piedi in due staffe, quella del politico di
professione e contemporaneamente quella dello scrittore. C’è da
chiedersi: a chi si riferiscono Cervi e della Porta? Si sarebbe tentati di
citare un personaggio che ebbe un certo rilievo nel suo tempo, anche
per quel che concerne le polemiche sorte agli albori del verismo, vale a
dire quel Ferdinando Martini che – giornalista e scrittore
d’ascendenza bizantina – fu poi eletto nel 1876, mantenendo l’incarico
per ben tredici legislature75. Ad ogni modo, tra coloro che pubblicano
elzeviri ci sarebbero anche i due autori, che “bizantineggia[no] tanto
sfacciatamente” da rendere tale abitudine una “disgrazia” che “non ha

72
Cfr. infra, la n. 70.
73
Per una biografia di A. Cervi, vedi il già citato l’articolo di Parenti (cfr.
supra, la n. 10), il quale, praticamente, ha valore di fonte.
74
Cfr. A. DELLA PORTA – A. CERVI, Minareti, Bologna, Azzoguidi, 1888, da cui
tutte le citazioni che seguono.
75
Cfr. ad esempio, sul Martini, E. SORMANI, Bizantini e decadenti nell’Italia
umbertina, Bari-Roma, Laterza, 1978, pp. 18 – 22.
51

rimedio”. Il volume risulta quindi, almeno all’apparenza, dedicato


alla lettura da parte dei soli amici (“il forte pubblico d’Italia sarà
risparmiato”), anche se desta un qualche interesse la frase “qualche
signorina sbadiglierà”, la quale potrebbe rendere ragione dell’ipotesi
fatta in precedenza secondo cui gli strali del della Porta e del Cervi
sugli scrittori che si buttano in politica fossero proprio rivolti al
Martini76. Quanto al testo, bisogna subito dire che le parti più
interessanti di esso sono soltanto quelle narrative, che – va detto –
risultano essere sommerse da liriche d’occasione tutte giocate secondo
le movenze e le suggestioni arcaizzanti poi tipiche ed esclusive della

76
Si tenga presente che Martini, sul Fanfulla della Domenica, pubblico nel
1873 un articolo-recensione dedicato alla Eva di Verga (e vedi SORMANI,
Bizantini cit., pp. 19 – 22, da cui la menzione che segue), in cui – inserendosi
con molto anticipo nella ben nota polemica sulla moralità dello stile e dei
contenuti delle opere realiste, si schierava con l’autore catanese e con quanto
quest’ultimo aveva scritto nella famosa prefazione all’opera medesima
riguardo alle eventuali rampogne dei moralisti sulle tematiche affrontate nel
romanzo (“Non accusate l’arte, che ha il solo torto di aver più cuore di voi, e
di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi
che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che
create, voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore, l’onore, là
dove non lasciate che la borsa, voi che fate scricchiolare allegramente i vostri
stivali inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono dolori
sconosciuti, che l’arte raccoglie e vi getta in faccia […]”). Il Martini, da parte
sua, rispondendo indirettamente a una lettera allarmata di un genitore di
Udine, sostiene di non voler “far da educatore alle ragazze di sedici anni,
ufficio arduo e, secondo l’opinione mia, non divertente. […] Del resto, se i
romanzieri dovessero, quando pigliano la penna, pensare che il loro libro può
cadere sott’occhio alle educande, de’ romanzi non se ne scriverebbero più. Mi
pare che le ragazze di sedici anni, le quali compongono tanti romanzi,
potrebbero fare a meno di leggere quegli degli altri […]”. E conclude con
l’affermazione secondo cui “tutte le volte che un romanziere o un
commediografo piglia a trattare un argomento un tantino scabroso, non si
sente che ripetere da ogni parte: Le ragazze! Le ragazze! Benedette figliole!
Non vedo l’ora che si maritino!”.
52

posteriore produzione poetica dellaportiana. Nel libro sono presenti


tre novelle dovute alla mano del della Porta: la prima (“Galeotto fu
l’album”), dai toni tardo romantici, mette in scena, con l’utilizzo di
una sorta di regressione analettica, il primo incontro e il successivo
innamoramento d’una baronessina appartenente alla “high society”
bolognese con il conte che in seguito la sposerà. Lo stile, tutto
intessuto sulle cadenze di un linguaggio sdolcinato che sembra
ricordare il primo Verga, ne fa una sorta di bozzetto, collocandolo tra i
sottoprodotti di quel giornalismo mondano che, nel solco di quanto
era già successo con il D’Annunzio romano della Tribuna e della
Cronaca bizantina, aveva preso piede anche nella città felsinea.
Il secondo racconto (“A core a core”), ispirato alle stesse
atmosfere “bohemiennes” che avrebbero poi nutrito la commedia San
Silvestro, ha il tenore d’un tenue bozzetto d’ambiente borghese,
condito con ardori giovanili e situazioni lacrimose cariche di
sentimentalismo (la vecchia nonna, in fin di vita, che riesce a far
svelare gli impulsi amorosi di due giovani, la povera nipote e uno
studente frivolo ma di buona famiglia che l’aveva corteggiata in
precedenza). Il quadro in cui si svolge l’azione è quello del
proletariato cittadino e/o della piccolissima borghesia urbana,
popolato da esangui sartine e padri scioperati che si guadagnano da
vivere con mille espedienti (non ultimo quello d’una tombola di
quartiere che pare ricordare analoghi episodi messi in scena in
Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini77). Il testo, dunque, si
muove sull’abbrivio di quanto avevano già scritto, in Francia, in
Murger, e in Italia dai vari narratori scapigliati. A riprova di ciò,
evidentemente, sta la dedica iniziale a Federico Ugo Maranzana,
narratore lombardo semisconosciuto che però si mosse appunto sul
crinale della narrativa scapigliata78.

77
Cfr. V. PRATOLINI, Cronache di poveri amanti, Milano, Mondadori, 1971, pp.
333 – 35.
78
Federico Ugo Maranzana (? – post 1897), in arte Fritz, fu autore di romanzi
d’ambiente “bohemienne” (Mimì, Milano, Quadrio, 1887; Minu, ivi, 1887), di
53

Il terzo racconto (“Di là dal mare”), che affronta la tematica –


per i tempi relativamente nuova – dell’emigrazione, è quello più
interessante: ambientato nel paese nativo dello scrittore (solo
apparentemente cambiato in Monte Azzo), non possiede per nulla i
crismi della narrativa verista d’estrazione verghiana. Esso infatti
sembra assai vicino ai tentativi bozzettistici messi in atto dal
conterraneo Domenico Ciampoli (le cui novelle si muovono sul
sentiero già tracciato dal Fucini e dal Sacchetti e al quale il racconto è
dedicato)79, piuttosto che alle prove narrative del Verga di Novelle

narrativa per l’infanzia (Il romanzo del maestro di scuola, Milano, Quadrio, 1886,
anticipante l’analoga opera del De Amicis; e I quattro moschettieri, ivi, 1888),
nonché di novelle d’imitazione verghiana e scapigliata (Tentativi, Torino,
Roux & Favale, 1884). Poeta (Il libro delle canzoni, Pistoia, Tipografia del Popolo
Pistoiese, 1889) e commediografo (Filosofia matrimoniale. Commedia in un atto,
Blogna Azzoguidi, 1889), tradusse le opere teatrali del poligrafo spagnolo
Eugenio Hartzenbusch (su cui cfr. il conclusivo F. M. MARIÑO, La estatua de
bronce. Lás fábulas en prosa de Lessing y la traducción de Hartzenbusch, Valladolid,
PUV, 2007, con bibliografia in lingua originale) e del poeta polacco
Aleksander Fredro (su cui vedi, in italiano, A. STEFANINI, Ottimismo e
pessimismo fredriano, Roma, Istituto per l’Europa Orientale, 1930). Il
Maranzana va ricordato anche come collaboratore dei due periodici bolognesi
Battaglia Bizantina (ove evidentemente conobbe il della Porta, e cfr. A.
BRIGANTI – C. GATTARULLA – F. D’INTINO, I Periodici Letterari dell’Ottocento,
Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 33 – 34) e Battaglie artistiche, nonché come
direttore, nel 1888, del periodico comasco L’Araldo, e per aver pubblicato un
articolo d’argomento goldoniano (cfr. “A proposito di Un Tipo fortunato”, in
Gazzetta letteraria, 24 ottobre 1885, p. 3) che potrebbe aver suscitato anche
l’interesse del della Porta (e si veda l’ode “La morte di Goldoni”, pubblicata
sulla Vita Italiana del 19 febbraio 1893, a. I, n. 5). Una fugacissima citazione del
Maranzana anche in R. CASAPULLO, “Maestri e maestre nella prosa letteraria
dell'Ottocento”, in AA.VV., La nazione tra i banchi, cur. V. FIORELLI, Genova,
Rubbettino, 2012., pp. 305 – 318, in part. p. 312.
79
Sul Ciampoli (1852 – 1929), che fu traduttore, narratore e slavista di una
certa fama, cfr. D. CIAMPOLI, Trecce nere, cur. D. REDAELLI, Chieti, Vecchio
Faggio, 1990, con ampia introduzione e corposa bibliografia. Si noti che il
54

Rusticane e di Vita dei campi. Certo, nel testo dellaportiano si trovano


ancora residui di manzonismo, come questo scherzoso riferimento ai
capponi di Renzo80:

Presa questa risoluzione rientrò in casa, e trovò Rosella accoccolata vicino al


camino, intenta ad accendere della legna. Egli senza parlare, staccò dal
chiodo cui era sospesa la chiave della stalla ed uscì di nuovo. Infilò un viottolo
e fatti dieci passi si fermò davanti ad una specie di pagliaio. Aperse
1’usciolino ed entrò. Dentro si suscitò uno starnazzio clamoroso: Cocciolone
inseguiva i polli per afferrare il cappone che aveva destinato al cancelliere. Il
quale, alla vista di sì grasso dono, si fece tutto zucchero per Felice. E gli diede
quanti schiarimenti volle. Però, gli dispiaceva dirlo, ma il consenso di Rosella
era proprio necessario. A lui del resto non mancavano le parole: cercasse di
persuadere Rosella e tutto sarebbe appianato. – Ma, signor don cancelliere, è
proprio ostinata; non vuole venirci qui, al Municipio. – E tu portacela per
forza, figlio caro – finì il segretario e corse nell’ altra camera, piantando lì
Cocciolone a riflettere sul feroce consiglio.

Tali inserti sono corroborati anche dall’uso di un linguaggio


toscaneggiante, assai limpido, ma va comunque rilevato che la trama è
senz’altro esile e certamente non ha nulla che possa neppure
lontanamente accostarla egli esempi dello scrittore milanese. Vi si
legge di un contadino di Montazzoli che, vedendo i suoi compagni
migravano verso il Brasile a causa della grande povertà e della

binomio verbale che da titolo alla raccolta di Ciampoli è citato, forse per un
“lapsus calami”, anche dal della Porta (“Le belle ragazze sfidavano il freddo
acuto portando il capo scoperto per fare ammirare le belle trecce nere e
bionde”, e vedi DELLA PORTA – CERVI, Minareti, p. 90).
80
Cfr. DELLA PORTA – CERVI, Minareti, pp. 89 – 90, dove il dottor
Azzeccagabugli è sostituito da un più umile cancelliere comunale; ma
all’inizio (p. 79) è citata anche una “Provvidenza” che, “un giorno o l’altro,
sarebbesi ricordata di Monte Azzo”.
55

carestia che attanagliava allora l’Abruzzo81, decide di tentare anch’egli


la fortuna, ingolosito dall’aver visto con i propri occhi le ricche
rimesse di quanti si erano già recati all’estero (chiamati ora “sterline”,
ora “marenghi”), ma si scontra con la moglie gelosa, il cui beneplacito
era allora legalmente vincolante perché venisse accordata la
partenza82:

Quel buon cristiano aveva il coraggio di parlare dell’America, e non erano


due mesi che s’erano sposati. E lei, quando facevano all’amore aveva bensì
previsto il caso, che lui avrebbe fatta l’alzata di capo di andarsene a passare
l’acqua. Oh! se l’aveva immaginato! Ma Felice era, naturalmente, troppo
felice in quei beati giorni e le aveva assicurato giurando e scongiurando che
all’America non ci avrebbe neanche pensato. Ma si, tutti gli uomini sono
uguali; ed il suo Cocciolone ora voleva fare quello che tutti gli altri di Monte
Azzo avrebbero fatto. Ed a Rosella questo rincresceva troppo: sicuro, le
rincresceva perché lei come tutte le figliuole andate a marito, voleva godersi
del suo Felice quanto gliene davano diritto la benedizione del parroco, e la
sciarpa da ufficiale dello Stato Civile del signor sindaco. O che direbbero le
persone del vicinato e i parenti, del suo Felice che la piantava, a primavera,
fra un paio di mesi, per andare lontano lontano ? E non si supporrebbe che
Cocciolone non fosse interamente contento di lei? E poi, chi sa, la Madonna
del Bambino poteva farle la grazia di una creaturina e il padre non ci aveva
da essere per vederla e baciarla... Due lagrimoni tondi e grossi fecero impeto
negli occhi nerissimi di Rosella, che fu impotente a trattenerli […] nei lunghi
discorsi di Cocciolone ella non aveva letto molto chiaro. Le era parso che i
sospetti della comare Coletta sulla possibile infedeltà di Felice avrebbero
potuto essere fondati, e come! Altrimenti, perché Cocciolone le parlava tanto
freddamente di star lontano tre o quattro anni? E la comare Coletta le aveva

81
Sull’emigrazione italiana in Brasile nell’Ottocento e nel primo Novecento,
cfr. R. PARIS, “L’Italia fuori d’Italia”, in AA.VV., Storia d’Italia, cur. R. ROMANO
– C. VIVANTI, voll. IX, Torino, Einaudi, 19909, in part vol 4, t. I, pp. 509 – 818 e
pp. 592 – 600 per l’emigrazione in Brasile.
82
DELLA PORTA – CERVI, Minareti, pp. 80 – 81.
56

consigliato bene, di non andare al Municipio a dare il consenso alla partenza.


Così Felice avrebbe gridato a perdifiato, ma non sarebbe partito. A quel no,
duro e secco, Cocciolone sentì poco cavallerescamente un pizzicore alle mani.
Si contenne negli atti, ma nelle parole fu un vero diluvio. Lui sarebbe partito,
sissignora, o le piacesse o le dispiacesse […].

La gelosia di Rosella aveva ben ragione d’essere, visti i


numerosissimi casi – anche documentati – di emigranti che, una volta
giunti oltreoceano, dopo qualche tempo provvedevano a rifarsi una
famiglia dimenticandosi di quella d’origine83. Tornando alla

83
È il caso delle cosiddette “vedove bianche”, donne lasciate in patria da un
marito che emigrava oltreoceano e che poi non si faceva più vivo. Alcuni di
questi uomini “pur essendo sposati o fidanzati, non rientrarono in Abruzzo,
radicandosi e naturalizzandosi nei paesi d’immigrazione: essi interruppero i
rapporti con la moglie ed il resto della famiglia, creando la piaga delle vedove
bianche. Il fenomeno si manifestò soprattutto nei primi decenni del
Novecento, quando questi, pur avendo contratto la promessa di matrimonio o
addirittura il matrimonio, si unirono all’estero con altre donne e diradarono la
corrispondenza con la compagna lasciata a casa, la quale, per la sua
condizione ambigua, veniva indicata come vedova, nonostante il coniuge
fosse vivo, come spesso veniva riferito dai compaesani emigrati che lo
incontravano nella stessa città o quartiere. Si trattava di una condizione assai
triste; il mancato ricongiungimento delle donne ai loro coniugi, a causa del
pregiudizio antifemminile, poneva queste in una condizione di umiliante
disagio sociale perché, non essendo vedove (quindi sciolte dal legame
matrimoniale ed eventualmente in grado di risposarsi), rappresentavano un
pericolo per l’ordine costituito e per la sessualità. Il fenomeno della
vedovanza fittizia era, dunque, fortemente avvertito nelle comunità paesane.
La rescissione dei legami con la famiglia rimasta in patria e con la terra natia
era favorita dalla difficoltà delle comunicazioni; tuttavia, essa poteva essere
determinata dalla delusione dell’esperienza migratoria e dall’imbarazzo a
rientrare in paese più poveri di come si era partiti […]”. (la citazione in E.
SPEDICATO – L. GIANCRISTOFARO, “L’emigrazione abruzzese e la donna.
Risvolti socio culturali. Le vedove bianche”, in
www.abruzzoemigrazione.it/e_view.asp?E=164, ult. cons. 9 aprile 2013. Ma
57

compagine narrativa, si può considerare degna di nota, perché assai


simile a certe suggestioni carducciane risalenti al mito della
locomotiva-mostro, questa descrizione del pauroso viaggio per mare
fatto da uno degli emigranti che erano tornati a casa84:

Una cosa spaventosa, figli cari, una cosa che mi mette orrore adesso che ci
ripenso. Figuratevi che il vapore fa sempre così e così – ed illustrava con gesti
delle lunghe braccia questo punto del discorso. – Poi quando fa tempesta
bisogna raccomandarsi l’anima a Dio perché da un momento all’altro il
bastimento sprofonda e buonanotte.

Nel finale del racconto, poi, un vago spunto verghiano,


rimontante alla Cavalleria rusticana, sembra rintracciabile nella scena
seguente85:

Verso le 11 le campane della chiesa madre suonarono la messa cantata.


Siccome era di Domenica, le donne di monte Azzo si erano tutte ripulite e
risciacquate, sicché un insolito odore di cosa pulita e di biancheria di bucato
era per l’aria. Le belle ragazze sfidavano il freddo acuto portando il capo
scoperto per fare ammirare le belle trecce nere e bionde, su cui la mamma
aveva sparso molto olio di oliva nell’ora della toletta. Cocciolone, uscendo dal
Municipio, andò in piazza Sant’Antonio. Là c’erano molti giovanotti
schierati al passaggio delle donne che andavano devotamente a messa.
Passarono in quel momento Filomena Mancinelli, Teresella Calvini, le
Coccione, un bel gruppetto di bionde, di nere e di castagne. In fondo alla
piazza Cocciolone vide venire avanti la sua Rosella, vestita con grazia
semplice e delicata. Aveva coperto la bella testa con un fazzoletto di seta a

sul problema, vedi soprattutto F. RAMELLA, “Reti sociali, famiglie e strategie


migratorie”, in AA.VV., Storia dell’emigrazione italiana, 2 voll., cur. P.
BEVILACQUA – A. DE CLEMENTI – E. FRANZINA , Roma, Donzelli, 20092, in part.
vol. 1, pp. 143 – 160.
84
Cfr. DELLA PORTA – CERVI, Minareti, p. 84.
85
Cfr. ivi, p. 90.
58

vari colori. Cocciolone vide anche i segni di ammirazione degli uomini che la
guardavano.

La novella si conclude con una scena, assai simile a certe


figurazioni dannunziane, in cui il contadino – afferrata la moglie alla
fine della messa domenicale – la solleva e la porta a forza in
municipio, costringendola a esprimere un estorto consenso e
generando l’ilarità delle persone presenti86:

E tu ci verrai a forza – gridò Cocciolone e si strinse di più alla moglie. I


curiosi si fecero attorno in gran numero. E tutti indovinarono di che si
trattava. Ed essendo uomini tutti quanti, davano ragione a Cocciolone. In-
tanto Felice cercava di indurre Rosella ad andare con lui per quel benedetto
consenso; e intanto Rosella, cocciuta cocciuta cocciuta, rifiutava e lamentava
che per colpa sua avrebbe perduto la messa. – Finiscila, Felice, la gente ti
guarda, via. A Cocciolone quel richiamo all’attenzione di chi stava a vedere
come sarebbe andata a finire la cosa, fece 1’effetto del panno rosso ai tori. In
un batter d’occhio afferrò con le robuste braccia Rosella, sotto le ascelle, si
piegò ad arco, e sollevandola di peso se la spinse sulle spalle, e si diede a
correre con gran furia in direzione del Municipio. Tutta la gente ebbe un solo
grido di ilarità e di stupefazione; poi gran folla si diede a correre dietro ai
coniugi aggruppati tanto stranamente. Cocciolone sudando, malgrado il gran
freddo, correva correva, insensibile alle alte grida della moglie che piangeva e
rideva insieme, non sapendo rilevar meglio la vergogna o la comicità della
propria situazione. Proprio dinanzi al Sindaco, Cocciolone si liberò del peso
di Rosella, e asciugandosi il sudore sul viso implorò: – Via, dillo che sei
contenta, dillo. – Sì, sì, sì; mamma mia che dolore alla schiena, matto che sei!
E lo strano gruppo, riuscì poco dopo dalla casa comunale, allegro e gioioso, ed
annunzio alla folla irrequieta che si era fatto tutto.

Come si vede, il pretesto realistico non è accompagnato da


valutazioni di qualsivoglia natura sulla giustezza o meno del
86
Vedi ivi, pp. 91 – 92.
59

fenomeno migratorio (forse per scimmiottare l’impersonalità


veristica), anche se nel testo viene espressa la speranza, quella per cui
finalmente anche a Montazzoli i raccolti potessero tornare abbondanti
come un tempo, e il finale diviene una sorta di inno alla superiorità
dell’uomo sulla donna, la quale non può far altro che accondiscendere
ai voleri del marito. Se si paragonano le atmosfere di cui si nutre il
racconto a quelle che emergono, ad esempio, in certi passi di Cristo si
è fermato a Eboli di Carlo Levi, è chiaro che – sgombrato il campo da
ogni possibile e improponibile parallelismo – vi sono talune
somiglianze strutturali, come ad esempio l’aspirazione di ritornare al
proprio paesello una volta accumulate le necessarie risorse,
aspirazione che sovente (nella realtà) o non veniva posta in essere o si
concludeva con un fatale ritorno alle condizioni di miseria da cui i
poveri contadini italiani avevano inteso sfuggire. Ma si leggano, per
un paragone solamente semasiologico, questi due escerti87:

DELLA PORTA LEVI

[…] quando parti? – ripigliò. – L’altro mondo è l’America.


Fra un mese, ai primi di Anche l’America ha, per i
Aprile. Siamo in venticinque: contadini, una doppia natura.
ci sono quelli dell’Agnonese, È una terra dove si va a
Angelo Tittanera, Filippo lavorare, dove si suda e si
Venanzio, Luigi di Cuollo, fatica, dove il poco denaro è
quelli di Mandrillo, Angelillo risparmiato con mille stenti e
Moccolone con la moglie. – Ah, privazioni, dove qualche volta
pure la moglie? – interruppe si muore, e nessuno più ci
Felice Cocciolone guardandosi ricorda; ma nello stesso tempo,
sempre attorno. – La moglie e e senza contraddizione, è il
le figlie. Scasano addirittura da paradiso, la terra promessa del
Monte Azzo. A dirti la verità Regno. Non Roma o Napoli, ma
87
Cfr. rispettivamente DELLA PORTA – CERVI, Minareti, pp. 83 – 84; e C. LEVI,
Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 19462, pp. 119 – 120.
60

una cosa simile io non la farei. New York sarebbe la vera


Perché vedi, Cocciolò, io mò capitale dei contadini di
son giovine e, se Dio m’aiuta, Lucania, se mai questi uomini
posso campare ancora un senza Stato potessero averne
pezzo: be’, io ti dico che se una. I contadini vanno in
posso arrivare a farmi una America, e rimangono quello
cosetta in quei luoghi io voglio che sono: molti vi si fermano, e
ritornarmene qua a rivedere i loro figli diventano americani:
mamma e tata, poveri ma gli altri, quelli che
vecchiarelli, e passare con loro ritornano, dopo vent’anni, sono
un poco di vita da cristiano. – identici a quando erano partiti.
Tu pensi bene – ammonì Felice In tre mesi le poche parole
preoccupato – E con questi d’inglese sono dimenticate, le
sentimenti farai fortuna […]. poche superficiali abitudini
abbandonate, il contadino è
quello di prima, come una
61

pietra su cui sia passata per


molto tempo l’acqua di un
fiume in piena, e che il primo
sole in pochi minuti riasciuga.
In America, essi vivono a parte,
fra di loro: non partecipano alla
vita americana, continuano per
62

anni a mangiare pan solo, come


a Gagliano, e risparmiano i
pochi dollari: sono vicini al
paradiso, ma non pensano
neppure ad entrarci. Poi,
tornano un giorno in Italia, col
proposito di restarci poco, di
63

riposarsi e salutare i compari e i


parenti: ma ecco, qualcuno offre
loro una piccola terra da
comperare, e trovano una
ragazza che conoscevano
bambina e la sposano, e cosi
passano tre mesi dopo i quali
64

scade il loro permesso di ritorno


laggiù, e devono rimanere in
patria. La terra comperata è
carissima, hanno dovuto
pagarla con tutti i risparmi di
tanti anni di lavoro americano,
e non è che argilla e sassi, e
65

bisogna pagare le tasse, e il


raccolto non vale le spese, e
nascono i figli, e la moglie è
malata, e in pochissimo tempo è
tornata la miseria, la stessa
eterna miseria di quando, tanti
anni prima, erano partiti. E con
66

la miseria torna la
rassegnazione, la pazienza, e
tutti i vecchi usi contadini: in
breve questi americani non si
distinguono più in nulla da
tutti gli altri contadini, se non
per una maggiore amarezza, il
67

rimpianto, che talvolta affiora,


d’un bene perduto.

L’idillico dialogo tra i due personaggi di della Porta è stato


sostituito, nel corso degli anni, da una metafisica e fatalistica
consapevolezza che nell’emigrazione non c’erano affatto quelle
“magnifiche sorti e progressive” esaltate da certi autori di fine
Ottocento e dell’inizio del Novecento; in essa, infatti, è presente
soltanto una dolorosa e inutile rincorsa a liberarsi dalle catene della
miseria, un’illusione perduta all’interno d’una recita in cui lo stato
rivestiva i panni colpevoli d’un persecutore occulto. Si tenga conto,
altresì, che gli accenni del della Porta all’emigrazione in Brasile fanno
pensare che il movimento migratorio cola pervenuto dall’Italia fosse
antecedente al 1888 (che è l’anno di pubblicazione di Minareti),
permettendo all’esegeta di segnalare un’imprecisione negli assunti di
chi afferma che la nostra immigrazione in territorio brasiliano fosse
successiva alla data del 188988.
Un’altra prova narrativa, non raccolta in volume, il della Porta
la pubblicò alcuni anni prima, sul periodico La Libera Stampa89. Si tratta
di un bozzetto intitolato “Il genio dell’amore”, probabilmente

88
Paris, (cfr. ivi, p. 593) sostiene infatti che il decreto del 13 maggio 1888 che
aboliva la schiavitù nei territori soggetti all’autorità dell’allora impero di
Pietro II, aveva contemporaneamente creato “una grave crisi di manodopera
agricola”. Per tale ragione, nell’anno successivo, ad opera della nuova
amministrazione repubblicana, vennero emanati i primi decreti che
regolavano il flusso dell’immigrazione. Il 2 agosto 1892, inoltre, il governo
brasiliano firmò un contratto con la società “La Metropolitana” di Rio de
Janeiro, per “introdurre nel paese un milione d’immigrati nel giro di dieci
anni a partire dal 1° gennaio 1893”, con una clausola speciale che prevede che
il 90% di costoro dovessero essere necessariamente agricoltori e con la
famiglia al completo. Si può pensare che, se Cocciolone avesse atteso altri
cinque anni, avrebbe potuto portare con se Rosella con pochissima spesa!
89
Cfr. A. DELLA PORTA, “Il genio dell’amore”, in La Libera Stampa, a. I, 16
agosto 1885, pp. 3 – 4. La citazione successiva è a p. 3.
68

autobiografico (“[…] quel giovanotto alto, bruno, era sempre là


dirimpetto […]”): esso è strutturato secondo il solito andamento
“bohemienne”, con lo studente Titino che seduce la bella Ilde, stavolta
invano difesa dalla vigile nonna Ghita, anche attraverso l’aiuto di un
amico e di una serva di casa, la quale consente i contatti tra i due
innamorati. La trama è fragilissima, quasi plautiana, e la narrazione
sembra ricalcare, con un parallelismo di struttura, quella poi utilizzata
nella novella “A core a core” di Minareti90.
Pare possibile, a questo punto, sottolineare che i tre racconti
dellaportiani (a non voler citare quello apparso sparsamente in rivista)
siano stati costruiti secondo un criterio para-sociologico, presentando
al lettore storie collocate in spaccati sociali molto diversi tra loro (il
primo è d’estrazione nobiliare, il secondo tratteggia la vita
“bohemienne” e – nel terzo – si cerca di dipingere il mondo contadino
con la descrizione dei luoghi di nascita dell’autore). Questi tentativi
iniziali non ebbero seguito, ma, a giudicare da come sono strutturati,
non si può certo dire che l’esegeta sia portato a sentire la mancanza di
un della Porta narratore, vista la gracilità delle trame e la sostanziale
imitazione da lui operata di altri e più illustri modelli. Tuttavia, la
presenza di questi tre brevi racconti nell’architettura prosimetrica di
Minareti lascia spazio all’ipotesi che il della Porta, almeno all’inizio,
fosse incerto sulla strada da perccorrere, se cioè proseguire anche sul
terreno della narrativa oppure – come invero fece – dedicarsi
esclusivamente alla poesia. Risulta palese che tale seconda opzione gli
venne implicitamente suggerita dalla sua ammirazione per il Carducci
e dall’amicizia di cui quest’ultimo lo insignì fino alla morte. Il
professore bolognese, infatti, non fu narratore, né il della Porta lo

90
Nell’ultimissima parte di questa novella è presente, come appunto anche
nel testo di Minareti, l’incipit d’un breve stornello amoroso, che (a parte la
tombola di quartiere, sostituita da una cerimonia religiosa, e a non voler citare
la palese somiglianza dei personaggi, nonna compresa) rende finale ragione
del parallelismo di cui si diceva.
69

considerò mai alla stregua di un novelliere come Verga o


D’Annunzio91.

GLI EPISTOLARI DELLAPORTIANI E L’AMBIENTE


CARDUCCIANO E PASCOLIANO

1. Carducci e della Porta


Antonio della Porta, com’era uso nel suo tempo, scrisse
numerose lettere e biglietti (talvolta anche a quattro mani) alle
numerose personalità che ebbe modo di conoscere e della cui amicizia
poté godere92. Non tutte queste missive sono recuperabili o

91
All’epoca, a dir la verità, ci fu qualcuno che considerò le autobiografiche
prose carducciane addirittura come una sorta di contraltare alle novelle di
Verga (“[…] in esse i giovani italiani potranno osservare quella che può dirsi,
sotto tutti gli aspetti, rappresentazione compiuta d’un fatto, d’una avventura,
d’ una realità qualsiasi. Si paragonino queste prose carducciane colle tante
altre di certi novellatori piccinini che vogliono russeggiare e portare non so
che rivoluzione nella novella nostra, e si ritenga pure che la novella,
specialmente la campagnola, perché possa dirsi artistica, deve essere
sanamente vigorosa e comprensiva, e, anzitutto, italiana […]”, e cfr. G.
CHECCHIA, Poeti, prosatori e filosofi nel secolo che muore: studi, ritratti e bozzetti,
Caserta, Marino, 1900, p. 32), ma non pare possibile che il della Porta avesse
mai condiviso siffatta eccentrica opinione.
92
Si vedano, per cominciare, le missive contenute in G. PASCOLI – A. DE BOSIS
– M. BIANCHI, Carteggio Pascoli – De Bosis. Carteggio Pascoli – Bianchi, cur. M.L.
GHELLI – C. CEVOLANI, Bologna, Patron, 2007, precedentemente, per quel che
riguarda l’epistolario debosisiano e testo da cui si cita, in G. PASCOLI – A. DE
BOSIS, Carteggio, Firenze, La Nuova Italia, 1998, a cura della stessa Ghelli (pp.
29 – 36; 42 – 43 e 63. Alla p. 25 si cita una lettera del della Porta, allegata al
carteggio in oggetto, in cui costui annunciava “la calorosa ed entusiastica
accoglienza” del poemetto Gog e Magog nella cerchia del Convito).
Nell’archivio di Castelvecchio di Barga si segnalano nove missive di della
Porta al Pascoli, più una recensione di Myricae (verranno citate via via). Per
quel che concerne l’epistolario con Carducci, cfr. Carteggio Carducci, XLI.21,
ora, in parte, in G. CARDUCCI, Ceneri e faville cit., vol. X, pp. 30 – 31, 286 e 303.
70

utilizzabili, consistendo spesso in reiterate manifestazioni di stima e di


affetto, con pochi elementi rilevanti da un punto di vista biografico e
letterario. Le lettere più importanti della Porta le scrisse al Carducci e,
appunto, al Pascoli, e va detto che quelle indirizzate al primo
superano, per interesse, la consistenza contenutistica delle seconde. Il
problema è sempre lo stesso: com’è possibile quantificare il valore di
un epistolario letterario? Oggi si assiste alla pubblicazione
indiscriminata, e talvolta con poco giudizio critico, di materiale
epistolare dei più disparati autori; un caso emblematico è
rappresentato, “et pour cause”, dal D’Annunzio, per il quale gli
archivi del Vittoriale e delle varie biblioteche nazionali sono stati
saccheggiati al solo scopo di pubblicare lettere spesso di scarsissimo
valore esegetico. Si è dunque scelto di discutere, in questa sede,
soltanto di quelle corrispondenze che della Porta intrattenne con i
luminari del tempo (escludendo il D’Annunzio, per il quale allo stato
non c’è documentazione), nella convinzione che le altre missive poco
avrebbero aggiunto all’analisi del personaggio e della sua influenza
negli ambienti in cui si mosse e scrisse. Le lettere più importanti, s’è
detto, sono quelle al Carducci. Dall’iniziale invito ad assistere alla
lettura della commedia Immacolata (ma la lettera è cofirmata
dall’Albertazzi e quindi non ascrivibile al solo della Porta), si passa a
lettere certamente di notevole interesse, non solo perché esse
mostrano “in corpore vili” l’ovvia e già chiarita influenza che il
maestro ebbe sull’allievo (vista l’appartenenza del della Porta alle
cerchie che attorniavano il poeta di Bolgheri), ma anche perché talune

Per quel che concerne D’Annunzio, nell’archivio del Vittoriale non risultano
lettere del della Porta, l’unico riscontro consistendo in un volume delle
Canzoni senza alcuna dedica. La cosa – vista l’esplicita iscrizione del della
Porta, da parte di molti critici coevi e non, nel folto gruppo dei poeti
dannunzianeggianti – appare assai strana: essa dimostrerebbe, invece, che i
suoi rapporti con D’Annunzio furono assai più freddi di quel che (stando
almeno alla produzione poetica e alla già menzionata “Ode a G. D’A.,
legislatore”) si potrebbe apparentemente pensare.
71

di esse si inseriscono all’interno di atmosfere polemiche ben note. Si


ricordi che Antonio della Porta era una nota firma di quella Vita
Italiana93 ove Carducci pubblicò il celebre articolo sulle “mosche
cocchiere” (come si sa, esso riguardava la controversia che, partendo
dal Carducci medesimo per giungere fino al Pascoli, lo vide
contrapposto all’Ojetti della Revue de Paris – poi significativamente
anche’esso ripubblicato sulla Vita – nel segno di un insanabile dissidio
sui linguaggi utilizzati dalla letteratura nostra nel periodo coevo 94).

93
Per qualche scarno dato sul periodico, cfr. BRIGANTI, I Periodici Letterari, pp.
213 – 214. I contributi pubblicati dal della Porta sono esclusivamente poesie,
ma l’autore figura anche tra gli “editors” della rivista. Si vedano le poesie “A
mia madre” (La Vita Italiana, 6 luglio 1996); “Ode a mia madre per il maggio e
per le rose (ivi, 25 maggio 1996) e la citata “Ode a Gabriele D’Annunzio
legislatore” (3 settembre 1897).
94
Su tutta la questione, cfr. inizialmente G. PETROCCHI, “Il Pascoli e le
“Mosche cocchiere”, in AA.VV., Studi per il centenario della nascita di Giovanni
Pascoli pubblicati nel cinquantenario della morte: Convegno bolognese (28-30 marzo
1958), 3 voll., Bologna, CTL, 1962, in part. vol. I, pp. 45 – 55 (poi in IBID.,
Lezioni di critica romantica, Milano, Il Saggiatore, 1975, pp. 256 – 269; e citato in
G. PASCOLI, Prose disperse, cur. G. CAPECCHI, Lanciano, Carabba, 2004, p. 131,
con un brevissimo riassunto della questione); dopo in C. GARBOLI, intr. a
“Letteratura italiana o italo-europea”, in Poesie e prose scelte cit., vol. I, pp. 1285
- 1287; in seguito D. TOMASELLO, La realtà per il suo verso e altri studi su Pascoli
prosatore, Firenze, Olschki, 2005, pp. 38 ss.gg., poi in IBID., “Geremiadi del
vate. Carducci, Pascoli, Ojetti e la breve storia di una polemica”, in Studi sul
Settecento e l’Ottocento, II, (2007), pp. 85 – 93; e definitivamente L. TOMASIN,
“Carducci tra Ojetti e Pascoli: Mosche cocchiere e la questione della lingua
tardo-ottocentesca”, in IBID., Classica e odierna: studi sulla lingua di Carducci,
Firenze, Olschki, 2007, pp. 169 – 200, con edizione critica dell’articolo
carducciano (tutti gli studi citati riportano ampia e ulteriore bibliografia). Un
cenno fugace all’argomento vien fatto in M.R. BRICCHI, “La questione della
lingua dal Settecento all’Ottocento”, in AA.VV., Atlante della letteratura italiana,
cur. S. LUZZATTO – G. PEDULLÀ – A. DE VINCENTIIS – E. IRACE – D. SCARPA , 3
voll., Torino, Einaudi, 2010 - 2012, in part. vol. III, pp. 106 – 112, e nello
specifico p. 111. Ma vedi anche l’interessante articolo di G. DE LORENZI, “Ugo
72

L’aver ospitato la risposta del Carducci all’Ojetti e in seguito il


sarcastico e stizzoso intervento del Pascoli, pur non essendo la cosa
segnalata né nello scarno carteggio tra della Porta e il suo maestro, né
in quello con Pascoli, è di per se stessa indicativa di dove andassero le
simpatie del montazzolese95. E tuttavia, si può certamente trovare, nel
carteggio medesimo, l’eco di una polemica secondaria, che, se non
rientra nell’ambito della questione or ora discussa, certamente getta su

Ojetti e la polemica sulla nazionalità della letteratura italiana contemporanea”,


in AA.VV., L’identità nazionale della cultura letteraria italiana. Atti del III
Congresso ADI, Lecce-Otranto 20 – 22 settembre 1999, cur. G. RIZZO, tt. II.
Galatina, Congedo, 2001, in part. t. 2, pp. 205 – 211 (non citato né dal
Tomasello, né dal Tomasin). Se gli studi del Garboli e del Tomasello
affrontano il problema in senso storico-letterario (il primo) ed esegetico (il
secondo), mentre Tomasin si occupa dei risvolti linguistici sottintesi dalla
controversia. La De Lorenzi, d’altro canto, inserisce la polemica ojettiana in
una cornice anche filosofica assai più vasta (esaminando anche gli interventi
di Capuana, di Pirandello, dello Gnoli, e le numerose risposte e chiarimenti
dello stesso Ojetti, che derivò le sue teorie cosmopolite dal Taine), non
considerata in nessuno degli interventi menzionati in precedenza (come del
resto ignoto alle bibliografie di Tomasello e Tomasin appare il suo articolo).
Per parte sua il De Luca, riferendosi alla prefazione di Ettore Sanfelice al
Prometeo Liberato del 1894, sostiene che “along with Mosche cocchiere this
preface must be regarded as one of Carducci’s strongest attacks against the
inroads of contemporary French literature in Itali and against Aestethicism of
D’Annunzio and his followers, to whom Carducci bluntly referred in this
writing as degenerate (c.vo dell’autore)”, il che farebbe rientrare la controversia
carducciana nel già menzionato ambito del sostanziale rifiuto del
Decadentismo che il poeta aveva più volte espresso nei suoi scritti e nelle
lettere e che, come si vedrà, apparteneva anche al sostrato culturale del
medesimo della Porta. Ma cfr. A.M. DE LUCA, “An Evaluation of Carducci’s
Polemical Writings”, in Italica, vol. 28, n. 4 (dec. 1951), pp. 233 – 240, in part. p.
238. Sulla stessa questione, cfr. anche F. FLORA, “Il Risorgimento e l’età
carducciana”, in AA.VV., Bologna e la cultura dopo l’Unità d’Italia, Bologna,
Zanichelli, 1960, pp. 41 – 123, in part. pp. 82 – 83, con la definizione di
“pifferai” riguardo i poeti francesi che fecero da ispiratori degli italiani (e si
73

di essa una luce particolare, definendone i contorni in modo da


collegarla a uno stato d’animo contrario all’Ojetti, una disposizione
psicologica avversa che potrebbe trovare in questa iniziale e banale
controversia una qualche spiegazione. Ugo Ojetti, giornalista più
aduso al gossip letterario che alla critica militante, si trovo spesso,
finché visse, “a Dio spiacente e a’ nemici sui” (e si ricordino gli
sprezzanti giudizi del Gramsci e del Gobetti, nonché – per contro – la
scarsa affidabilità politica agli occhi del Duce, la quale poi lo condusse
a perdere il posto di direttore del Corriere della Sera e a fare vita grama
fino alla morte)96. Nell’estate del 1894, in occasione di una delle sue
molte interviste agli intellettuali più famosi del periodo, l’Ojetti si recò
a Bologna per parlare di persona con il Carducci. L’intervista ojettiana,
che gli venne rilasciata presso il “caffè del Pavaglione in piazza
Galvani”, ebbe per oggetto, sostanzialmente, l’edizione di una futura
Storia del Risorgimento italiano, qualche sorta di volume divulgativo che
avrebbe dovuto narrare le vicende del nostro Risorgimento a partire
dagli eventi rivoluzionari del 1789 fino a giungere al pieno
compimento dell’unità nel 187097. Ma la questione che maggiormente

noti che lo stesso termine venne poi usato dal Borelli per definire quanti
esaltavano con la penna la discesa del D’Annunzio in politica, e su ciò cfr.
supra, la n. 31) e con la citazione del della Porta come uno dei “giovani che si
educarono al […] magistero del Carducci” (p. 98) e come uno dei “poeti del
tempo [che] fecero capo, prima o dopo, all’editore bolognese” Zanichelli” (p.
104).
95
Cfr. G. CARDUCCI, “Mosche cocchiere”, in La Vita italiana, 16 marzo 1897, pp.
8 ss.gg.
96
Su tali questioni cfr. P. L. VERCESI, L’Italia in prima pagina: i giornalisti che
hanno fatto la storia, Milano, Brioschi, 2008, p. 135. Sui giudizi negativi di
Gobetti e Gramsci, cfr. P. GOBETTI, Opere complete, 3 voll., cur. P. SPRIANO,
Torino, Einaudi, 1968 – 1974, in part. vol. I, pp. 412 – 415; A. GRAMSCI,
Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori riuniti, 20003, p. 158.
97
Cfr. U. OJETTI, Alla scoperta dei letterati, Milano, Bocca, 1899, pp. 3 – 16, in
part., sulla questione, pp. 11 – 14. le interviste di Ojetti apparvero, in prima
istanza, sul periodico La Tribuna, per poi venire raccolte in volume solo
74

interessa il presente contesto è leggibile all’inizio dell’intervista,


quando Ojetti si lascia andare a giudizi non del tutto lusinghieri
sull’ambiente didattico bolognese, accusando tra l’altro il Carducci di
“pontifica[re]” e descrivendo la casa del Carducci abbastanza
minuziosamente, con un finale rilievo alle sostanze del professore che
sarebbero ammontate a circa ottantamile lire dell’epoca98. Il poeta di
Bolgheri, ovviamente, non era uomo da sopportare simili sciocche
vociferazioni e rispose all’Ojetti con una lettera pubblicata sul Resto del
Carlino in cui stigmatizzava sarcasticamente – con la sua solita sottile
veemenza – quanto scritto dall’Ojetti99:

Caro Direttore, Che i giornalisti descrivano la casa mia senza che io ve li


abbia accolti e mi contino i denari in tasca senza che io abbia mostrato loro il
portamonete, io non lo posso impedire; ma quanto al mostrarmi in un
baraccone, pagandomi mille fiorini, in compagnia d’un degenerato
birbaccione qualsiasi, Le assicuro, signor direttore, che ci devo essere anch’io.
Bologna, 15 settembre 1894. Suo Giosuè Carducci.

Il finale riferimento carducciano, forse relativo a una


conferenza che il poeta avrebbe dovuto tenere – a pagamento –

successivamente. quanto alla conversazione con il Carducci, va rilevato come


essa si protraesse poi su “altre cose molte e diverse”, tra cui spiccano i giudizi
ironici sul Petruccelli della Gattina e sul Bovio, nonché talune riflessioni sul
soggiorno di Ruggero Bonghi in Francia. Quanto al pubblicando volume, è
probabile che nelle parole del Carducci si trovassero i prodromi di un testo
che venne poi edito in due tomi due anni dopo (Letture del Risorgimento
italiano, 2 voll., Bologna, Zanichelli, 1896), che però appare radicalmente
diverso, a livello strutturale, da quello preconizzato in presenza dell’Ojetti.
98
Cfr. ivi, pp. 3 – 7 e 15 – 16, in un frammischiarsi di frasi poco elogiative
(“[…] letterati e pubblico di tutta Italia, ancora memori d’altri tempi, credono
che Bologna sia l’Atene italiana, il centro illuminante, l’essenza quinta del
profumo poetico nostro […]”) e di pettegolezzi sull’abilità del Carducci come
paraninfo delle figlie.
99
Cfr. Il Resto del Carlino, 19 settembre 1894, p. 3, poi in Ceneri e faville cit. p. 99.
75

assieme a qualche personaggio da lui assai poco stimato (nessun


legame ha con tale questione l’accenno a un “discorso che avrebbe
dovuto pronunciare a San Marino in fine di settembre” riguardante gli
“antichi e recenti studi sulla repubblica di San Marino” 100) pare rivolto
all’anonimo estensore della rubrica “Intermezzi e resti”, in cui appare
la piccata lettera carducciana; costui risponde al Carducci con parole
assolutamente perentorie e dense di sottile sarcasmo:

La seconda [parte] è scritta a benefizio di me sottoscritto che in un intermezzo


di ieri, proponeva, a similitudine di quanto farà tra breve un impresario di
Vienna coi sette salvati dalla caverna di Semeriac, il tentativo di una buona
speculazione portando in giro per il mondo le bestie più grosse – scrivevo –
(e: sia detto senza intenzione d’offesa – soggiungevo) della letteratura
paesana. ma per Giosuè Carducci mi ero ben guardato, come oggi mi guardo,
dal fissare i mille fiorini mensili od altra somma qualsiasi. Conosco il rispetto
che gli è dovuto, e so che una prestazione del genere da me, per sola celia,
vagheggiata, sarebbe di un valore assolutamente inestimabile.

L’iniziativa descritta dall’anonimo interlocutore (forse, come


si è appena ipotizzato, un ciclo di conferenze da tenersi in coppia con
qualche altro luminare della letteratura nostrana dell’epoca)
probabilmente si scontrava con l’indisponibilità del Carducci a
muoversi da Bologna, dove egli aveva appunto la sua casa e dove
coltivava quelle ripetitive abitudini borghesi descritte anche dall’Ojetti
nella sua intervista. Fatto sta che il della Porta, qualche giorno dopo la
lettera carducciana al Carlino, si premurava di contattarlo nel modo
seguente101:

100
Cfr. OJETTI, Alla scoperta, p. 10.
101
Questa lettera e le seguenti scritte per mano del della Porta (quelle
carduciane vengono citate a parte) sono inedite e sono tutte contenute
nell’Archivio di Casa Carducci a Bologna, sotto varie segnature che per
brevità non riportiamo.
76

Roma – Hotel Santa Chiara


19 sett. 1894

Illustre signor Professore


Leggo in questo momento il Carlino, che ha premessa alla di Lei lettera, come
inciso, le seguenti parole: “anche col sussidio di qualche amico cortese”.
Se l’inciso designa me, sbagliò il giornalista
Io le affermo – sul mio onore – che non ho avuto parte alcuna nella
compilazione stampata dalla Tribuna; e aggiungo che la ho disapprovata
prima e dopo la pubblicazione
Sono addolorato profondamente che la leggerezza non scusabile di un giovane
abbia procurato dispiacere a Lei; ma più mi accoro che qualcuno abbia osato
indicare me a complice di una sciagurata impresa e di una non delicata prosa.
Scrivo con l’animo turbato la mia ferma fiducia che Ella, illustre Professore,
ricorderà con amore l’immutabile e rispettosa devozione del

suo
devotissimo
Antonio della Porta

La lettera fu poi seguita, a brevissimo termine, da un altro


biglietto, in cui il della Porta, dividendo in qualche modo le sue
77

responsabilità nella vicenda con l’amico Gualtiero Belvederi 102,


scriveva quanto segue:

Illustre Signor Professore,


Consenta che alla lettera pur ora impostata io aggiunga, in nome di Belvederi
e mio, queste notizie.
Il 24 o il 25 di luglio, Belvederi venne a mostrare a me, che ero a letto con la
tifoidea, la nota corrispondenza da Bologna. Gli dissi quel che ne pensavo; e il
mio pensiero ripresi, più tardi, a voce allo scrittore.
Belvederi accolse il mio giudizio in tutto sfavorevole e mi propose di non
stampare l’articolo. Cinquanta giorni dopo esso usciva sulla Tribuna, contro
il consiglio di Belvederi il quale non pose impedimenti la pubblicazione.
Perdoni la mia insistenza e permetta che mi affermi, col più profondo rispetto,

Roma, 19 sett. 94.

Suo devotissimo servo


Antonio della Porta

Come si vede, il della Porta mostra di non essere stato in


nessun rapporto con l’articolo pubblicato dall’Ojetti, e con ogni
probabilità mette le mani avanti con il suo antico maestro per il fatto
che il suo nome era comunque stato menzionato dall’Ojetti medesimo
102
Gualtiero Belvederi (1852 – ?), laureato in lettere e in legge, fu redattore e
collaboratore della Tribuna (con lo pseudonimo Re Orso) e della Rassegna
Gregoriana. Fu anche corrispondente del Mattino di Napoli e – nel 1888 –
fondatore e direttore del giornale Il Veneto, nonché amico di Ruggero
Leoncavallo (per cui scrisse il libretto dell’opera dedicata a Goffredo Mameli
(e cfr. G. BELVEDERI – R. LEONCAVALLO, Mameli, cur. E. DE LUCA, Cosenza,
Falco, 2010, dove però, e curiosamente, mancano notizie specifiche, citandosi
soltanto la corrispondenza epistolare che il Belvederi ebbe con il compositore
di Montalto Offugo). Quasi tutte queste notizie in R. PIRANI, Romanzi Racconti
Poesie Drammi nelle edizioni della Tribuna 1883 – 1918, 2 voll., Firenze, Pirani,
2007, in part. vol 2, p. 20.
78

nell’intervista103. La discordia delle datazioni (l’intervista ojettiana è


datata agosto 1894, mentre il della Porta racconta di un evento
successo alla fine di luglio) sembra spiegabile supponendo che
l’incontro con il giornalista romano sia avvenuto a luglio e poi
trascritto qualche settimana dopo (a non voler sottolineare che lo
stesso della Porta, aumentando la confusione, parla di un articolo
uscito “cinquanta giorni dopo”). Appare dunque evidente come le
radici dell’astio di Carducci, poi sfociato – due anni dopo – nel celebre
elzeviro sulle “mosche cocchiere”, trovino in questa iniziale diatriba la
loro origine e la loro parziale giustificazione. L’antipatia mostrata dal
poeta nei confronti delle teorie dell’Ojetti, che potrebbe sembrare
assolutamente eccessiva se vista in un’ottica di semplice dissidio
esegetico sui fondamenti della letteratura italiana da un punto di vista
comparativo, diventa comprensibile se vista secondo la prospettiva
d’un fastidio pregresso, motivato da questioni alle quali i discepoli del
Carducci (o almeno Antonio della Porta) non vollero essere
minimamente associati. In seguito la questione venne toccata quando
il della Porta rivolse un’accorata richiesta alla sua guida spirituale di

103
“Domandai al Rugarli se quello fosse il cenacolo consueto ed egli assentì: in
inverno c’era anche Antonio della Porta che ora è esule a Roma […]” (cfr.
OJETTI, Alla scoperta, p. 9). Il parmense Vittorio Rugarli (1862 – 1900) fu a lungo
insegnante nel Ginnasio comunale di Bologna. Appassionato di studi
orientali, si specializzò nella traduzione in prosa dal persiano, dando alle
stampe svariati lavori condotti sulla tradizione epica di Persia (e sui poeti
delle rubā‛iyyāt come Omar Khayyâm). Fu intimo amico di Carducci, che
apprezzò le sue traduzioni e gli chiese più volte giudizi intorno alla propria
produzione poetica. Come il maestro Italo Pizzi (del quale era cognato),
Rugarli usava offrire saggi di traduzione negli omaggi per nozze, in questo
curiosamente avvicinandosi alle abitudini del medesimo della Porta.
Diversamente dal maestro, tuttavia, egli preferiva alla traduzione in versi
quella in prosa, ritenuta peraltro molto efficace dallo stesso Carducci. Per tali
notizie, ma purtroppo senza una bibliografia specifica, cfr.
badigit.comune.bologna.it/mostre /teresita/rugarli.htm.
79

procurargli un posto come insegnante d’italiano in qualche liceo della


penisola (richiesta che però il Carducci non ebbe modo di esaudire):

Roma, 16 sett. 94

Illustre Signor Professore


Una febbre tifoidea violentissima mi ha costretto a letto per quarantacinque
giorni. Esco appena ora di convalescenza: stremato di forze e percosso di
spirito. Mi son ricordato a lei, ieri, mandandole un “mattino che reca alcuni
versi, ai quali invoco la benevola attenzione del maestro.
Anche, illustre e caro signor Professore, oso ricordare a Lei, che paternamente
vorrà perdonarmene, la mia dolorosa condizione. È di questi giorni seguendo
al Ministero la designazione dei posti di insegnamento, invoco da Lei, unica
speranza, l’aiuto di un autorevole ricordo al comm. Chiarini o, meglio, al
Ministro. Creda, signor Professore, che io sento tutto l’ingrato valore della
mia petulanza; ma, più per la mia famiglia che per me. Ella non vorrà
farmene rimprovero. Sono sempre in albergo: “Hotel Santa Chiara”.
Consolazioni e conforti non mi vennero, da nessuna parte, durante la
malattia; ond’è ch’io penso, con tutto l’ardore dell’anima, al conforto che mi
recherà la lettera del mio venerato maestro.
Vuole esserle sempre, illustre e caro professore,

Devotissimo servo
Antonio della Porta

A siffatta lettera, assai accorata, il Carducci rispose nel


seguente modo104:

[Bologna], 4 ottobre 1894

Caro Antonio. È inutile parlare e scrivere al Baccelli 105, come ho fatto; non
attiene e non s’ottiene. Il Chiarini non ha posti. Giovini laureati in lettere han

104
Cfr. CARDUCCI, Ceneri e faville cit., p. 103
80

chiesto invano. Per disperato, oggi stesso ho scritto al provveditore di Roma,


se avesse un incarico o supplenza per scuole aggiunte.
Nessun dispiacere a me dall’Ojetti. Mi fece rabbia la menzogna. Con la scusa
d’esser giornalista, affermare in pubblico ciò che non s’è visto né anche da
lontano! Ma chi è bugiardo è ladro, dice il proverbio; essendo giornalista, può
essere anche ruffiano.
Addio. Tuo
Giosué Carducci

Questa missiva, che chiarisce fino in fondo la dinamica dei


rapporti tra il poeta delle Odi barbare e Antonio della Porta
(caratterizzati da stima e da condiscendenza reciproca, pur nella
distanza mantenuta dal maestro nei confronti dell’allievo), getta una
luce conclusiva sul contrasto Ojetti vs. Carducci di cui s’è parlato in
precedenza, evidenziando il totale disprezzo che quest’ultimo nutriva
nei confronti del giornalista romano; sicché un tale discredito può e
deve essere stato alla base del violento attacco che l’Ojetti subì dal
Carducci medesimo in occasione dell’articolo pubblicato sulla Revue
de Paris, articolo nel quale – a veder bene – il Carducci era pur
annoverato tra le sole “quatre ou cinq sommités” che illustravano la
nostra letteratura, altrimenti del tutto perdente nel confronto con
quelle europee. Perché, dunque, prendersela a morte con Ugo Ojetti, il
quale evidentemente, con l’articolo scritto oltralpe, voleva fare una
sorta di sconclusionata palinodia nei confronti del Carducci, quando
appunto il pezzo ojettiano non solo (in pratica) poneva Giosué su un
piedistallo, ma evitava accuratamente di citare il suo grande

105
Guido Baccelli (1830 – 1916), medico e politico romano, fu per ben sei volte
Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia tra il 1881 e il 1900. Su di
lui cfr. soprattutto F. PETTINELLI, Il Medico dei Re, Pontremoli, CLD, 2000; e I.
QUARESIMA, Guido Baccelli. Sintesi di una vita, Roma, Prospettive, 2012, nonche
il lemma a lui appositamente dedicato in M. CRESPI, “Guido Baccelli”, in
www.treccani.it/enciclopedia/guido-baccelli_(Dizionario-Biografico), ult.
cons. 15 marzo 2013, con ulteriore bibliografia.
81

allievo/nemico Pascoli? E non è significativo che quest’ultimo si sentì


in dovere di entrare, non richiesto, nella polemica, scrivendo righe di
raro e fine sarcasmo contro l’Ojetti (che in precedenza e in lettere
private aveva ben esaltato106)? Si diceva del sincero affetto nutrito dal
della Porta nei confronti del professore. Eccone una manifestazione, in
questa missiva del 18 novembre 1898:

Carissimo ed amato Professore,


leggo, in questo momento, gli Idilli alpini: e grazie, caro Professore, di tanta e
tanto bella poesia.
Ho già a mente la stupenda Elegia dello Spluga: e me ne viene una dolcezza
infinita.
Quanto le dobbiamo, limpido cuore, a questi tempi di “compilazioni” sulle
guide della Regia Parnassi107!
E come nuovi, per varietà metrica, i distici!
Catilina108, il rapsodo, le si ricorda con affetto e rispetto
106
Vedi, ad esempio, il passo di una lettera al De Bosis in cui Pascoli rivolge
“saluti affettuosi […] al giovane Ojetti […]” (cfr. Pascoli a De Bosis, 15 gennaio
1895, in GHELLI, Carteggio, p. 31).
107
La cosiddetta “Regia Parnassi” era un dizionario prosodico di parole latine,
pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1679, che contiene e completa il
materiale di precedenti dizionari analoghi; l’opera nacque nell’ambiente dei
gesuiti parigini ma l’autore non è sicuramente identificabile: si propende
tuttavia ad attribuirne la paternità al gesuita e umanista F. Vavasseur.
Dell’opera furono pubblicate in seguito numerose riedizioni ampliate ed
emendate: molto nota quella romana del 1832 a cura di I. Gioazzini (e cfr. I.
GIOAZZINI, Regia Parnassi, seu Dictionarium poeticum in hac prima editione
romana novis curis digestum pluribus vocibus auctum et ab innumeris mendis
expurgatum consilio et studio Ignatii Gioazzini surdorum ac mutorum in urbe
institutoris auspiciis viri eminentissimi D. Placidi card. Zurlae, Romae, ex typ.
Ven. Hospitii Apostolici, 1832, volume più volte ristampato nel corso del
secolo diciannovesimo). Per buona parte di queste notizie, cfr.
www.treccani.it/enciclopedia/regia-parnassi.
108
Catilina era lo scherzoso soprannome con cui veniva chiamato il della Porta
negli ambienti giornalistici bolognesi.
82

al vivo
Antonio della Porta

Gli Idilli alpini, poi confluiti in Rime e Ritmi109, sono


caratterizzati da una voluta “brevitas” e vogliono porre in evidenza i
maestosi e solenni scenari del monti valdostani, dove il Carducci si
recava spesso in villeggiatura. La critica moderna ha voluto vedere in
essi dei “piccoli quadri a tenue e perfetto disegno e colore” 110, o anche
sottolineare “fresca allegria di colori, di prati di smeraldo e di lucide
acque, di rossi papaveri e di segale bionde, di cieli trasparenti e di
candidi ghiacciai, di casolari dal fumo bianco e turchino e di balconi
fioriti”111; o mettere in evidenza come essi consistano in “nitidi e
freschi bozzetti”112, esaltando la “mano felice” del poeta che
“conferma l’attitudine alla contemplazione delle prospettive
grandiose del paesaggio e la capacità di fissare istanti squisitamente
idillici”113. Per contro, esegeti più severi parlano di “gracilissimi
quadretti montani, che non di rado, per quella retorica dei grandi
silenzi, delle cime immacolate, dei nevai sfiorati dal sole, suggeriscono
piuttosto l’idea di un impressionismo da turista entusiasta” 114. Tra di
essi, spicca appunto la nota “Elegia del Monte Spluga”, in venti distici,
nella quale, citando il Giuliani115,
109
Cfr. G. CARDUCCI, Rime e Ritmi, Bologna, Zanichelli, 1899, pp. 87 ss.gg.
110
Cfr. W. BINNI, Carducci e altri saggi, Torino, Einaudi, 1960, p. 48.
111
Cfr. G. GETTO, Carducci e Pascoli, Napoli, ESI, 1965, p. 5.
112
Cfr. M. SACCENTI, Opere scelte di Giosue Carducci, Torino, Utet, 1993, vol. I, p.
949.
113
Cfr. G. CAPOVILLA, “L’opposizione del classicismo. Giosue Carducci”, in
AA.VV., Storia della letteratura italiana, cur. E. MALATO, Salerno, Roma, 1999,
vol. VIII, p. 358.
114
Cfr. R. CONTARINO, “Giosuè Carducci”, in AA.VV., Carducci e il tramonto del
classicismo, Bari-Roma, Laterza, 1981, p. 128.
115
Cfr. F. GIULIANI, L’acqua e l’alpe. Gli Idillii alpini di Carducci, San Severo,
Miranda, 1999, p. 118. Il “colpo” a cui si riferisce Giuliani è la rottura
83

c’è tutta la sofferenza, c’è tutta l’ansia dell’uomo Carducci che si ritrova solo,
che non riesce a filosofare, consolandosi con il pensiero di Orazio o di
Petrarca, ma avverte la desolazione della sua anima, il vuoto che si è creato
intorno a lui; l’illusione è appena svanita ed egli ci appare come disarmato,
colpito dall’accaduto, accasciato e incapace di sollevarsi dal colpo subito,
riuscendo, in particolar modo nel finale, a materializzare questo stato
d’animo con grande potenza artistica […].

Antonio della Porta, con ogni probabilità, seppe intuire questo


stato d’animo dolente del suo illustre modello: egli, infatti, mostra di
apprezzare il tono solenne del componimento, ove gli accenni
mitologici e quelli fantastici s’intersecano a creare un’atmosfera
onirica con la quale si cerca di esaltare un amore che pure ormai era
senza speranza. La certezza della fine imminente del rapporto tra la
Vivanti e il Carducci è configurata da quest’ultimo anche tramite la
finale citazione della Loreley heininiana. In Das Lied der Loreley la
ninfa, vera e propria sirena incantatrice, per non essere uccisa, viene
riportata dal padre – dio del fiume – nelle profondità della terra, dalle
quali non farà mai più ritorno. “Limpido cuore” è chiamato il
Carducci dal della Porta, come se la purezza dei suoi sentimenti fosse
una giustificazione necessaria e sufficiente per consentire allo scrittore
di Bolgheri l’accettazione d’un rapporto ormai annichilato e perduto.
Detto di due missive di poca importanza con le quali il della
Porta sollecitava al Carducci alcuni lavori per la rivista La Vita
Italiana116, e – come detto all’inizio – trascurando cartoncini, biglietti e

incipiente della sua relazione con Annie Vivanti.


116
Le due missive pongono solo qualche problema di datazione, perché in una
di esse si preconizza l’invio di bozze di stampa al Carducci e il ritorno di
Carducci a Roma, e nell’epistolario carducciano (per cui vedi CARDUCCI,
Ceneri e faville cit., p. 286), è menzionato un biglietto da visita, inviato da
Bologna e con riferimento cronologico del 5 marzo 1897, ove si legge questo:
“Ecco. Presto le bozze di stampa. Non tardi sarò a Roma”. Ma le due lettere
84

telegrammi, la lettera più rilevante è certamente quella con cui lo


scrittore di Montazzoli avverte Carducci dell’imminente
pubblicazione del Convito, rivista di cui egli fu segretario redazionale:

Roma, Palazzo Borgese, 12 nov. 94

Illustre signor Professore,

dellaportiane sono datate, rispettivamente, 9 febbraio e 13 marzo 1899, il che


lascerebbe supporre che il biglietto di Carducci si riferisca ad altro evento
consimile. Il testo della lettera del marzo ‘99 è il seguente: “19 marzo ‘99.
Illustre e caro Professore, nel dubbio che il secondo pacco espresso, con le
seconde prove, non le sia giunto, imposto ora una seconda edizione condotta
sulle bozze che Ella ha corrette in lapis. Voglia farmela rimandare in espresso,
con la maggior possibile sollecitudine. Presto sarà a Roma, non è vero? Con
rispetto ed affetto a lei dev.tmo Antonio della Porta”. Affascinante potrebbe
essere l’ipotesi che il testo della lettera si riferisca alle Canzoni (dato anche il
fatto che, talvolta e su richiesta, Carducci era uso revisionare testi di allievi e
ammiratori, e si veda, per un caso esemplificativo, A. BRAMBILLA, “Problemi e
prospettive nell’edizione dei carteggi carducciani”, in AA.VV., Carducci filologo
e la filologia su Carducci. Atti del convegno (Milano, 6 – 7 nobembre 2007) , cur. M.
COLOMBO, Modena, Mucci, 2009, pp. 33 – 56, in part. pp. 47 – 51, dove si narra
il caso della poetessa rodigina Clarice Dalla Bona Roncali), anche se la missiva
precedente lascerebbe pensare il contrario: “9 febb. ‘99. Illustre e caro
professore. Le mando, per conto della società Editrice e d’incarico del nostro
Tommaso Capini, queste quaranta lire: furono spese per l’acquisto
dell’opuscolo di cui Ella sa. Avremo in febbraio il secondo ms. Fantoni? E
l’altro scritto contro la «Posta»? E il ritratto del Fantoni? ne scriva una riga di
ricordo a Mario Menghini. Se qualche «poesia» è pronta non si dimentichi
della rivista e del suo devotissimo Antonio della Porta”. Se sconosciuto
appare il nome del Capini, probabilmente un redattore della rivista, non così
si può dire di Giovanni Fantoni (1755 – 1807), poeta toscano, amico di Foscolo
e appartenente alla vasta schiera dei lirici d’ascendenza preromantica, su cui
vedi L. ROSSI, “Giovanni Fantoni”, in www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-
fantoni_(Dizionario-Biografico), ult. cons. 16 marzo 2013, con bibliografia.
Quanto allo storico letterario e filologo Mario Menghini (1865 – 1945), per il
85

Il Convito117 esiste già: in duecento risme di bellissima carta a mano con la


filigrana del titolo; nello stipendio (unico stipendio del Convito!) del
sottoscritto come segretario; nella somma delle azioni raccolte da Adolfo de
Bosis; nella domanda per la proprietà letteraria che la legge impone agli
Editori di stampe periodiche; nella copertina disegnata da Michetti.
Ella immagini con quanto piacere io compia, scrivendo a Lei, il primo atto del
mio ufficio!
Ella consentì che Le scrivessi per ricordarle la promessa delle otto, mi pare,
strofi: voglia, Illustre e caro professore, mandarle a de Bosis o a me, al
Palazzo Borghese.
E ardentemente la preghiamo di unire ad esse, per Adolfo e per me, un
biglietto di presentazione a Francesco Crispi, al quale desideriamo dire con
quali puri propositi e con quanto disinteresse ci disponiamo, in pochi giovani,
ad un’opera che sarà immune da qualunque intenzione di utilità commerciale
e vorrà essere, in tutto decorosa per l’arte italiana. Noi, può esserne certa,
non domanderemo un aiuto; ma siamo convinti che ce lo offriranno,
volonterosi, l’intelletto e il cuore del grande italiano.
Assolva, illustre Professore, Adolfo e me dalla petulanza; e mi pensi con
rispetto ed affetto a Lei

devotissimo
Antonio della Porta

Va innanzitutto rilevato come della Porta impetri il Carducci


d’inviargli otto strofe di qualche lirica che appare del tutto sconosciuta

matrimonio del quale il montazzolese compose il volume Numeri e che è citato


anche nelle lettere a Pascoli, come della Porta si laureò presso la facoltà
giuridica felsinea e appartenne anch’egli alla cerchia degli amici di Carducci.
Per lui cfr. R. PERTICI, “Mario Menghini”, in www.treccani.it/
enciclopedia/mario-menghini_(Dizionario-Biografico), ult. cons. 16 marzo
2013, con abbondante bibliografia.
117
Sottolineatura nell’originale.
86

e che non può affatto essere identificata con la prima parte della
“Canzone di Legnano”, unico testo carducciano uscito sul Convito
quasi un anno e mezzo dopo 118. Carducci, insolitamente sparagnino
con il suo discepolo, non manderà nulla, concedendo, al massimo, che
venisse ripubblicato un testo assai conosciuto e senza nessun crisma
di novità. Questo accadde forse perché Carducci considerava Il
Convito come un covo di pascoliani e di dannunziani, e si sa quanto i
rapporti sia con il primo che con il secondo fossero per lo meno
controversi (se non segnati da frequenti gelate e/o momenti d’intensa
aridità)119.

2. Pascoli e della Porta: un vero “discepolato”?


Il rapporto intercorso fra Antonio della Porta e Pascoli trova
una mediazione importante nella figura del poeta-manager Adolfo De
Bosis. Fraterno amico di Pascoli e di D’Annunzio, De Bosis fu
sostanzialmente uno “one book man”, i suoi lavori consistendo nel
volume di versi Amori ac Silentio Sacrum, continuamente arricchito alla
maniera dell’amato Walt Whitman, e in pregevoli traduzioni di varie
opere di Shelley120. Alcune lettere scritte di pugno da della Porta, ma
firmate anche dal De Bosis, sono già state edite nel carteggio Pascoli-

118
Cfr. G. CARDUCCI, “Della Canzone di Legnano. Parte prima: Il Parlamento”,
in Il Convito, ann. II, fasc. 8 (aprile/giugno 1896), pp. 501 ss.gg., con la
prefazione – collocata a p. 502 – che lo stesso Carducci scrisse in occasione
della prima pubblicazione della lirica sulla Rassegna settimanale (vol. III, n. 65)
il 30 marzo 1879. Le strofe edite, in questa occasione, erano tredici.
119
Lasciando stare le sarcastiche osservazioni del Lucini (e cfr.”D’Annunzio
commemora Carducci (1907)”, in D’Annunzio al vaglio dell’Humorismo [1914?],
cur. E. SANGUINETI, Genova, Costa & Nolan, 1989, pp. 81 – 92, in part. p. 92),
di “maestro avverso” parlò lo stesso D’Annunzio ne Il Compagno dagli occhi
senza cigli (leggibile in G. D’ANNUNZIO, Prose di ricerca, di lotta, di comando, voll.
2, Milano, Mondadori, 1968, in part. vol. II, pp. 542 – 549). Sul rapporto
intercorrente tra Carducci e D’Annunzio, cfr. anche G. FATINI, Il D’Annunzio e
il Pascoli e altri amici, Pisa, Nistri Lischi, 1963; e E. FALQUI, Novecento letterario,
serie seconda, Firenze, Vallecchi, 1960, passim.
87

De Bosis pubblicato anni addietro da M.L. Ghelli, e dunque non mette


conto parlarne (anche perché sembrano tutte chiaramente ispirate
dallo scrittore anconetano e solo trascritte dal montazzolese). Tuttavia,
e lasciando per un attimo da parte la restante corrispondenza relativa
ad altre situazioni e/o altre riviste, il connubio con il de Bosis fa spesso
capolino anche in quelle missive di sola attribuzione dellaportiana,
lasciando spazio all’ipotesi che i rapporti tra della Porta e Pascoli
fossero in un certo modo contaminati – ci si passi il termine – dalla
presenza della figura ingombrante del direttore del Convito. In ogni
caso, è subito da porre in evidenza come Antonio avesse, o forse
mostrasse di avere, una venerazione disinteressata verso Pascoli (che
pure per lungo tempo non era stato in buoni rapporti con l’antico
maestro Carducci). Ne può essere testimonianza una lettera, inviata a
Pascoli quando della Porta collaborava con la rivista La Vita Italiana, in
cui la nostalgia per il fatto di non poter godere dei paesaggi nativi si
mescola a sperticate effusioni d’affetto nei confronti del poeta di
Castelvecchio121:

Carissimo Giovannino,
imparo or ora che sei già a Barga.
ne sono contento: la campagna è il mio sospiro, ahimé, continuo. Te beato!
ma faccio a te ed a me l’augurio di vederti ancora a Roma. E sia presto.
Ricordati che io ti voglio bene davvero, senza secondi fini… letterari. E tu mi
capisci. Riverisco la signorina Maria e ti abbraccio

aff.mo
Antonio

120
Su di lui, cfr. da ultimo, G. PANNUNZIO, Cittadino del cielo: De Bosis poeta tra
modernità e tradizione, Raleigh, Lulu Press, 2011, con bibliografia.
121
Ove non altrimenti detto, le lettere del della Porta sono inedite e reperte,
sotto varie segnature che sempre per brevità non si ritiene opportuno
riportare, nell’Archivio Pascoli di Castelvecchio di Barga.
88

Traspare evidente, nelle parole del della Porta, la necessità di


accreditarsi come sincero amico del Pascoli, “senza secondi fini
letterari”, a differenza della pletora di adulatori che il Pascoli
medesimo si vedeva attorno e che volevano soltanto ottenere la sua
intercessione per poter pubblicare qualche volume presso le case
editrici di pertinenza del poeta.
Altre missive furono inviate dal della Porta della Vita Italiana
al Pascoli, in cui il primo sollecitava al secondo l’invio di versi per la
rivista:

Carissimo Giovannino,
La tua adesione ha confortato veramente l’opera di questo Editore. Grazie,
per lui; grazie per me. La promessa, non potuta tenere da Jesi, ti è ricordata a
Bologna: il II° fascicolo uscirà infallibilmente il giorno 10 corrente. Una
grande fortuna, per l’umile compilatore fiduciario della Ditta, se in esso potrà
comparire il nome di Giovanni Pascoli!
Mi raccomando, dunque: e penso che l’affezione tua mi dia un poco di diritto
a sperare. E grazie.
Perché non mi hai mandato il recente carme122 premiato?
Ti abbraccio, caro Giovannino

Tuo aff.mo
Antonio della Porta
1° Giugno

Il testo è interessante, per almeno due motivi: il primo è che


Pascoli aveva promesso la pubblicazione di qualche suo scritto (non si
capisce se in prosa o in poesia) in occasione d’un uscita della rivista
che risalirebbe al 10 giugno di un anno non ben precisato (forse, come
si vedrà tra poco, il 1896); la seconda si riferisce probabilmente a uno
dei carmi con i quali per ben tredici volte Pascoli vinse il “Certamen
poeticum Hoeufftianum” di Amsterdam. La lettera non è datata, ma
122
Sottolineatura nell’originale.
89

nel catalogo delle carte pascoliane custodite a Castelvecchio di Barga


essa è immediatamente precedente una missiva datata 15 novembre
1896, e ciò lascia supporre che il carme citato sia “Cena in Caudiano
Nervae”, con cui appunto Pascoli risultò vincitore nell’anno in
questione123.
Un’altra lettera degna di nota è quella che Pascoli ricevette da
parte di un della Porta che gli chiedeva conto di alcuni versi che non
gli erano ancora giunti e si mostrava assai felice per la sua incipiente
nomina alla cattedra di Letteratura Latina dell’Università di Messina:

Caro Giovanni,
sta bene: aspetto per l’altro fascicolo. Ho mandato le bozze al Martinozzi.
Questo fas. è già compiuto.
Il Prof. Marchi tiene ferme le sue idee intorno all’opera tua; e ci conta
assolutamente. Il fatto di Messina è una bella cosa: ed è anche, affermano,
veramente certa. Ne siamo lietissimi. A fra poco, la tua definitiva stanza in
Roma. Così sia. I v. del Damiani prendono il loro posto, nel turno. Ti
abbraccio caramente, Ossequi alla signorina Maria

Il tuo Antonio

A questa lettera è consequenzialmente legata un’altra missiva,


che il della Porta invia a Pascoli per lamentarsi d’esser stato
redarguito a causa di una pubblicazione di versi già stampati altrove,
e in particolare di due liriche dovute alla penna di quel Martinozzi che
è citato nella lettera precedente:

Caro Giovannino,
ti scrivo di cose che mi fanno male: e faranno male anche a te. Ma mi è
impossibile risparmiarti questa lettera.

Cfr. G. PASCOLI, Tutte le poesie, cur. A. COLASANTI, - N. CALZOLAIO, Roma,


123

Newton Compton, 20103, p. 934.


90

L’altra sera è stato denunciato al Prof. Morelli un mio fallo, nella


compilazione della rivista. E il professore si è lamentato della cosa, sulle
prime: poi, alle mie parole, si è calmato.
Ecco di che si tratta.
La poesia Preghiera del Mattino124 del tuo amico Martinozzi, accettata da te e
da me, per la Vita era già apparsa il 17 settembre125 nel Resto del Carlino! Tu
capisci che noi non possiamo farci secondi editori, mai! Staremmo freschi!
Ora vedi tu che razza di povero uomo! Inganna puerilmente te e me: e fa fare
a me, per la prima volta, una magra figura con questi signori che avevano
ragione di essere, non dico ammirati e incantati, ma certo contenti della mia
umile opera.
Te ne scrivo, per un’altra ragione.
Egli ha mandato, per mezzo di De Gubernatis, subito dopo la stampa dei
versi da te consegnatimi nel fascicolo del 16 novembre, alcuni altri versi: fra i
quali un saluto a te che vai a Messina. Poi, ha scritto anche a me
direttamente per sollecitare la stampa dei versi stessi mandati alla Vita verso
i primi di questo mese: e, signorsì, gli stessi, proprio gli stessi versi a te, egli
li avrebbe stampati fin dal giorno 20 di novembre sul Resto del Carlino!! Che
razza di stolto!
Ora, per un riguardo a te, caro Giovannino, io non scrivo immediatamente a
questo signore, dicendogli quel che meriterebbe.
Ma tu vorrai dirmi qualche cosa: o suggerirmi il mezzo meno doloroso per te
di ammonire questo povero sciocco.
Perdonami ed amami.
Il tuo
Antonio

124
Questa e tutte le altre sottolineature nell’originale.
125
Sottolineatura doppia nell’originale.
91

Questa lettera, anch’essa mal datata nell’archivio di Barga 126,


appare densa d’acredine nei confronti di uno scrittore che era amico e
corrispondente del Pascoli, e lascia trasparire, tra le righe, un senso di
frustrazione, un’invidia sotterranea per il maggior posto che, nel
cuore pascoliano, godeva Giuseppe Marinozzi rispetto al della Porta.
Va rilevato che il litigio con il Morelli 127 probabilmente non rimase
senza conseguenze, perché della Porta non collaborò più alla rivista
che, proprio alla fine del 1897, avrebbe assorbito la Vita, e cioè quella
Rivista d’Italia dove – come si è visto – apparve la recensione
capuaniana alle Canzoni. Ma si legga questa lettera che il della Porta
scrisse in risposta a una missiva, attualmente non reperibile, dello
storico letterario Giulio Natali128:

Roma, li 24 gennaio 99

Carissimo Natali,
eccole le poesie, la Rivista d’Italia129 è diretta, come Ella sa, dal conte
Domenico Gnoli. Ella, che lo conosce, può direttamente proporgli la stampa
del Veltro. Io dirò a lui che avrei stampato nella Vita tale studio: e
raccomanderò la cosa. Mi ricordi con l’affetto che le ricambio sinceramente. Io
non ho parte nella Rivista d’Italia: sono restato nelle casa Editrice per
edizioni ed altro

126
Risale infatti, come si comprende dall’ennesimo accenno all’incipiente
cattedra di Messina, alla fine di novembre o inizio dicembre del 1897 (e non,
come di nuovo e curiosamente leggesi nella scheda catalografica, al 29
gennaio 1904).
127
La data nella scheda è infatti il 29 gennaio 1904, ma anch’essa è da
collocare, al più tardi, nell’inverno 1897.
128
La lettera e conservata alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma,
Archivio Manoscritti e Rari, segn. ARC.7.XXXIII/87. Il Veltro è probabilmente
uno studio dantesco, ma di esso ci è stato dato di trovare tra le molte
pubblicazioni in volume del Natali.
129
Questa e le altre sottolineature nell’originale.
92

Suo Aff.mo
Antonio della Porta

Da una lettera del genere, che ha un tono in parte


malinconico, in parte gelido (appare infatti strano che il della Porta
ponga dopo i saluti finali una precisazione sul suo mancato
coinvolgimento nella nuova impresa editoriale), si comprende come il
montazzolese si stesse lentamente staccando da quegli ambienti
letterari che aveva frequentato fino ad allora. Ma ancor di più si
rilevano due altri punti fondamentali: in primo luogo, che l’altrimenti
ignoto professor Morelli non doveva aver fatto una buona pubblicità
ad Antonio della Porta con lo Gnoli 130, in secondo luogo che la sua
collaborazione con la casa editrice della Società Dante Alighieri
volgeva al termine, restandogli, in pratica da pubblicare soltanto le
Canzoni, che – millesimate al 1900 – sarebbero in effetti uscite qualche
mese prima.
Ma che nei rapporti tra i due poeti, quasi sempre professionali
(salvo diverse “trouvailles”), ci fosse qualcosa di falso, di fittizio, né è
parziale testimonianza un altro documento. Il 27 settembre 1896, e
dunque un anno prima della lettera discussa in precedenza, Pascoli
aveva tenuto un discorso commemorativo in memoria dell’umanista
barghigiano Pietro Angeli, che aveva intitolato “Il Bargeo” e che fu
oggetto di pubblicazione proprio sulla Vita Italiana, ad opera del della
Porta:

15 nov. ‘96

Caro Giovannino,

130
Domenico Gnoli, meglio conosciuto anche con il nome di Giulio Orsini
(1838 – 1915), fu storico, poeta e giornalista romano. Su di lui cfr. ora J.
BUTCHER, La Roma di Domenico Gnoli, Bologna, Nuova S1, 2008, con
bibliografia.
93

domani ti manderò le bozze dell’estratto: Il Bargeo. Per il 1° di dicembre ci


occorrerebbe della prosa (magari da illustrare). ma il manoscritto dovrebbe
essere qui il 22 o 23.
Pensaci e scrivimi.
Il 1° di dicembre uscirà il 1° fascicolo delle nuova annata131. Continueremo
nei patti: prosa e versi, per i due fascicoli, alternando £ 50.
Dimmi come stai con la amministrazione: che cosa ti ha pagato? Sei in
credito?
Informami.
Ti abbraccio

Tuo
Antonio della Porta

PS: Il Bargeo esce nel fascicolo del 10, che verrà fuori oggi; il 25 non esce il
fascicolo, per unire il 1° dicembre e rimetterci al 1°. e/g.

Se le informazioni editoriali risultano abbastanza


incomprensibili al lettore moderno (ma è assai probabile che Pascoli
ne capisse pienamente il senso), di qualche utilità può essere la
notazione sul compenso pattuito tra della Porta e Pascoli, perché il
richiamo a tale questione getta una luce ambigua, almeno dal ponto di
vista del poeta di Barga, sulla sincerità dei rapporti intercorrenti tra
lui e il suo corrispondente abruzzese. Come sostiene il Garboli,
citando D’Annunzio, Pascoli fu anche “grandissimo poeta del
meschino arzigogolo e perfin del bisticcio peregrino” 132 (e non solo dal
punto letterario, ma anche nella sostanza) e non c’è dubbio che –
almeno a giudicare dai pochi accenni che si reperiscono
nell’epistolario tra lui e De Bosis – l’affetto che il della Porta diceva di
nutrire verso l’autore di Myricae fosse ricambiato solo in quanto il

131
Questa e l’altra sottolineatura nell’originale
132
Cfr. GARBOLI, Poesie e prose cit., vol. I, p. 1287.
94

montazzolese poteva costituire, con il suo lavoro di redattore di


riviste, un’indiretta fonte di guadagno133.
Detto di una lettera di congratulazioni inviata al Pascoli
probabilmente per felicitarsi con lui per l’ennesimo trionfo nel premio
di poesia latina di Amsterdam134, val la pena accennare all’unica
missiva risalente al periodo in cui della Porta lavorava per il Convito
(s’è già detto che le lettere restanti, vergate a quattro mani, sono state
già pubblicate altrove). Nello scritto, si accenna alla pubblicazione
sulla rivista del poema “Gog e Magog”, ritenuto straordinario da tutti
coloro che l’avevano letto:

Carissimo Giovannino,
eccoti le bozze di stampa. Rimandale a rigor di posta. Esse van tirate in carta
in formato del nostro libello (corpo 14). In basso, all’angolo, ci sarà nella
carta la filigrana del Convito.
Questo 1° libro sarà pronto per la fine del mese.
Ma già tutti sappiamo a memoria il tuo Gog e Magog135.
Adolfo ti abbraccia caramente.

133
“Affettuosi saluti al nostro Totonno […]” (cfr. Pascoli a De Bosis, 11
gennaio 1895, in GHELLI, Carteggio, p. 29); “Saluti affettuosi ad Antonio nostro
[…]” (Pascoli a De Bosis, 13 gennaio 1995, ivi, p. 31); “Voi ed Antonio nostro
[…]” (Pascoli a De Bosis, 31 gennaio 1895, ivi, p. 33): tutte queste espressioni
di vicinanza potrebbero sembrare, francamente, un tantino esagerate se si
tiene conto della già citata avversione emersa nel corso degli anni tra Pascoli e
Carducci. Esse acquistano un diverso sapore se si suppone che al Pascoli
facesse certamente piacere che un noto discepolo del poeta di Bolgheri si
prosternasse ai suoi piedi come faceva Antonio della Porta.
134
“26 gennaio 1898, Carissimo Giovannino, applausi al tuo trionfo, di gran
cuore, anzi con tutto il cuore. Tutti, della Dante (sottolineatura nell’originale), ti
si ricordano in festa. Il Prof. Morelli ed io ti abbracciamo. Antonio. Auguri alla
Signorina.” Ovviamente, vista la data, ci si riferisce all’ultima vittoria ottenuta
dal Pascoli nel secolo diciannovesimo, quella del 1897 con il carme “De Reditu
Augusti”. Su questo, cfr. PASCOLI, Tutte le poesie cit., p. 992.
135
La sottolineatura nell’originale.
95

Menghini non si è fatto vedere da tanto tempo. Quanto voglio rivederlo!


Spero che sia nel venturo febbraio. Ti bacio.

Il tuo
Antonio

Le consuete raccomandazioni editoriali sono qui mescolate


alla solita adulazione (laddove viene esaltato il Gog e Magog) e a una
menzione del già citato Menghini, che era fraterno amico del della
Porta e che viene ricordato anche in una delle lettere a Carducci.

ANTONIO DELLA PORTA GIORNALISTA


LETTERARIO

1. I primi ragguagli critici dellaportiani


Pur non essendo evidentemente utile, in questa sede,
catalogare con precisione le recensioni apparse nelle varie riviste con
cui della Porta ebbe contatti o che contribuì a fondare, qualche
esemplificazione va fatta, anche per sottolineare come l’onnivoro della
Porta si tenesse informato – sia pure in modo non certo costante – su
talune, anche importanti, tra le novità editoriali del suo tempo; in sede
di premessa va rilevato che molti dei suoi contributi sono diseguali,
consistendo a volte in veri e propri articoli di critica militante, in altri
caso in semplici ragguagli di libri letti. Corredati da taluni appunti di
tipo linguistico e/o letterario. Per comodità, tratteremo qui prima il
periodo in cui il giovane montazzolese fu ospite della città emiliana e
poi l’apporto che egli diede al giornalismo romano, anche se – va
rilevato – alcuni articoli presenti su riviste della Capitale sono databili
al 1885. Questo lascerebbe ipotizzare che la famiglia della Porta, dopo
le vicende sfortunate di cui s’è parlato in precedenza, si fosse trasferita
a Roma in un periodo in cui Antonio era ancora adolescente (e
peraltro, come sostiene l’Ojetti nel già citato intervento su Carducci in
96

Cose viste, egli sarebbe stato “esule” a Roma)136. Ma anche questa è una
congettura non suffragata da nessun documento 137. Va subito rilevato
che l’accento sarà posto soprattutto sulle recensioni maggiori,
inserendo in un solo contesto tutti gli spogli critici di breve respiro,
presentando – grosso modo – quattro modelli, tre dei quali relativi a
singole opere e uno comprensivo d’interventi vari.
Come si è detto, dunque, Antonio della Porta ebbe una vasta
produzione di critico militante, con articoli apparsi in quasi tutte le
riviste a cui egli collaborò o di cui fu segretario redazionale. Ma
bisogna subito distinguere due piani interpretativi: il primo, che si
potrebbe chiamare dello spoglio bibliografico; il secondo, che più
propriamente andrà definito dell’approfondimento critico. Nel primo
caso, il della Porta si limita a leggere il testo (curiosamente
dichiarandolo nella recensione medesima), sottolineandone i pregi,
sovente pochi, e le sviste, solitamente molte. È il caso, ad esempio,
delle recensioni brevi, come molte tra quelle apparse sulla Libera
Stampa138, anche se la schematizzazione trova qualche sua
eccezionalità: questo accade, ad esempio, con la recensione al testo del
conterraneo Giovanni Pansa139, all’interno della quale il della Porta si
permette di fare allo studioso sulmonese talune osservazioni di tipo

136
Cfr. OJETTI, Alla scoperta cit., p. 12.
137
Va rilevato che, all’apparenza, non risultano attestazioni cartacee
comprovanti l’effettivo conseguimento della laurea da parte del della Porta
(anche se costui, sui biglietti da visita, preponeva il titolo di avvocato, com’è
possibile leggere nei carteggi carducciani), e peraltro nessun risultato ha dato
la ricerca in proposito fatta presso l’Archivio Storico dell’Università di Roma.
138
Cfr. le recensioni, rispettivamente, ai testi di A.E. Spinola (“Canzoni
Mondane”, in La Libera Stampa, a. I, 7 giugno 1885, p. 4); e di A. Foschini (“La
letteratura italiana negli ultimi anni del secolo XIX”, ivi, 21 giugno 1885, p. 4).
Sono due vere e proprie stroncature in cui il puntiglio sarcastico dell’autore
punisce, in un caso, l’arroganza d’uno sconosciuto poeta genovese, e –
nell’altro – la tronfia boria di un altro compaesano, un professore abruzzese il
cui testo (motteggia della Porta) era giunto proprio “come il dito di Dio” (c.vo
dell’autore).
97

glottologico non si saprebbe quanto efficaci o fondate. L’articolo,


tuttavia appare interessante, in quanto – in primo luogo – dimostra
come della Porta fosse assai legato ai suoi territori d’appartenenza,
perché sovente le poche critiche mosse al Pansa vertono su
comparazioni fatte con il dialetto di Montazzoli. In seconda battuta,
inoltre, il della Porta utilizza l’occasione per incensare, in qualche
modo, il grande folklorista Antonio De Nino140, mostrandosi in cortese
disaccordo con la scelta operata dal Pansa di proporre interpretazioni
troppo sottili ad alcune locuzioni che il De Nino aveva, nei suoi studi,
lasciato impregiudicate. Parlando degli Usi abruzzesi, un libro di fiabe
pubblicato poco tempo prima proprio dal De Nino, il montazzolese
sostiene che

[…] certe speciali frasi, stereotipate 141 dal popolo, non hanno efficace
corrispondente nella lingua italiana; e il De Nino giudiziosamente le ha

139
Cfr. “Saggio di uno studio sul dialetto abruzzese”, ivi, 7 giugno 1885, p. 4 (i
corsivi della citazione che segue sono dell’autore). Giovanni Pansa (1865 –
1929), archeologo, e storico abruzzese, fu tra i fondatori della Rassegna
Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arte. Autore di numerosi scritti su storia locale,
numismatica, archeologia, bibliografia, tradizioni popolari, si appassionò
anche di dialettologia. Su di lui, cfr. E. MATTIOCCO, in AA.VV., Dizionario
biografico della gente d’Abruzzo, Castelli, Andromeda, 2006, vol. VII, pp. 27
ss.gg., con bibliografia.
140
Antonio De Nino (1833 – 1907) fu soprattutto un antropologo e uno
studioso del folklore abruzzese, pur non disdegnando, talvolta, di misurarsi
nel campo della critica letteraria (ma sempre sostanzialmente riguardo gli
scrittori della sua terra), come dimostra appunto il volume recensito dal della
Porta, che apparve in due tomi, presso l’editore Carabba di Lanciano, nel
biennio 1884 – 1885. Su di lui, con abbondante bibliografia, cfr. il lemma di
D.V. FUCINESE, in www.treccani.it/enciclopedia/antonio-de-nino_(Dizionario-
Biografico). Nel già citato articolo di Carmine Chiodo (e cfr. “In margine ai
«marzocchini»”, p. 85), si fa riferimento ad un’analoga incensazione da parte
proprio del Pàntini).
141
I due corsivi del testo sono del della Porta.
98

lasciate tali e quali nel contesto della esposizione. Di molte di quelle frasi o
parole troviamo nel volume del Pansa non soltanto la spiegazione, ma anche
la descrizione etimologica. È accuratissimo lo studio posto dall’Autore nella
ricerca della etimologia di parecchie centinaia di vocaboli affatto abruzzesi.
Questi studi vanno incoraggiati, come quelli che sono destinati a portare non
lieve contributo alla scienza glottologica.

Altra spigolatura di qualche valore è certamente quella


riguardante, appunto, un volume di Antonio De Nino, e in particolare
il secondo tomo delle Briciole Letterarie. Se, sostiene della Porta, il
primo volume “risentiva di alquanto eguale benevolenza paterna per
tutti indistintamente gli scritti accoltivi”, ora invece l’autore peligno
avrebbe tenuto in debito conto le critiche mossegli, producendo
un’opera nella quale “una certa uniformità di indole de’ vari scritti
diletta più serenamente il lettore studioso delle lettere”.
Preannunziando un mai pubblicato volume sul folklore abruzzese,
della Porta si limita a segnalare una sola discordanza rispetto al De
Nino, un rilievo su un accostamento fatto da quest’ultimo tra la
celebre lirica di Cecco Angiolieri “S’i fossi foco” e la poesia di Victor
Hugo “A la femme”, con il montazzolese che considera del tutto
improponibile il paragone.
Non di rilievo apparirebbe la recensione al testo del Marasca,
volume in cui si cerca di accreditare, come fonte del poema Henriade
di Voltaire, un’opera semisconosciuta del seicentesco poeta veneziano
G. Malmignati142. Apparirebbe, si diceva, perché in essa sono
142
Nato da nobile famiglia a Lendinara (nell’attuale provincia di Rovigo),
Giulio Malmignati visse tra la seconda metà del sec. XVI e la prima del XVII.
Letterato e poeta, scrisse L’Enrico ovvero La Francia Conquistata (Venezia 1623),
dal quale sembra che il Voltaire traesse appunto qualche ispirazione per il
primo canto del poema Henriade. Su di lui, cfr. orientativamente A. MARASCA,
La Henriade del Voltaire. L’Enrico di Giulio Malmignati, Città di Castello, Lapi
1885; A. BELLONI, Gli epigoni della Gerusalemme Liberata, Padova, Draghi, 1893,
pp. 218 ss.gg.; E. BOUVY, Voltaire et l’Italie, Parigi, Slatkine, 1970 (rist. anast.
della prima edizione del 1898), pp. 133-182; A. BELLONI, Il Seicento, Milano,
99

contenute alcune affermazioni che sembrerebbero potersi riferire alla


(morente) polemica intercorsa tra coloro che consideravano il verismo
una corrente letteraria quanto meno eterodossa, e chi invece
difendeva a spada tratta gli autori della scuola verista designandoli
come corifei di un’arte nuova e che non rifiutava il contatto con la
realtà, per quanto cruda essa potesse essere143. Il della Porta pare
inserirsi tra coloro che appartenevano alla prima scuola di pensiero,
quando, in riferimento alla “corruzione” presente nella letteratura
seicentesca, egli sostiene che

malauguratamente da alcuni forti ingegni moderni sì è voluto tornare al


barocco ed all’osceno, non consentendolo né le presenti condizioni del
progresso e della società, né lo spirito del popolo, il quale, per vero, come nel
secento, può dirsi che anche ora è estraneo ai poeti. E infatti qual’é oggi la
poesia accessibile al popolo? Se non è la Marianna va in campagna, io non ne
conosco altra. La strofe dotta, cesellata, tornita, brunita, vigile, sonante,
metallica e chi n’ha più di qualificativi, ne metta, sarà una testimonianza
della valentia erudita dello scrittore; ma rimarrà pel popolo incompresa,
strana […]. Che poi la bellezza de’ particolari costituisca il sommo dell’arte
parrà una tesi discutibile, quando la sì ponga in modo assoluto. L'arte ha
molti mezzi per produrre, anche con elementi non del tutto nuovi; e che uno
de’tanti sia l'accuratezza nei particolari. io non voglio punto contradire.

In queste affermazioni sono presenti, da un lato, un elitismo


intellettuale che riduce la letteratura popolare alle filastrocche da
bambini; dall’altro, la predicazione d’un ruolo dello scrittore che non
deve limitarsi “al barocco ed all’osceno”, ma che ha il dovere di
portare avanti una poesia dalle forme metriche raffinate ed eleganti,
proprio come si accinse a fare lo stesso della Porta qualche tempo
dopo. D’altro canto, quel riferimento ironico alla poetica del

Vallardi 1929, pp. 209 ss.gg.


143
Sulla questione, cfr., ad esempio, GALLO, Il verismo minore cit. p. 6, n. 6 e
comunque passim.
100

particolare di flaubertiana memoria, un elemento fondante anche


della narrativa realistica italiana almeno dalla Scapigliatura in avanti,
lascia comprendere dove andassero le simpatie del della Porta, il
quale sembra inserire le nuove istanze sorgenti nella letteratura coeva
in un calderone dove vanno a finire tutti quei fenomeni passeggeri che
vengono subito dimenticati (“[…] siamo in tempi in. cui ci si annoia di
tutto, financo del pettegolezzo, che è tutto dire […]). Cattivo profeta, il
montazzolese, ma la cosa, dal suo punto di vista di poeta arcaizzante,
appare del tutto comprensibile.

2. Le Myricae di Pascoli
Senza dubbio, la più importante tra le recensioni dellaportiane
è quella riguardante le Myricae di Pascoli144. Scritte con una “ragione
quasi tragica”, le poesie pascoliane vogliono porsi, sostanzialmente,
come una sorta di onoranza funebre: per della Porta, Pascoli “non ha
altro fine, al quale indirizzare l’opera e lo studio, se non questo: farsi
apprezzare, lodare e benedire dai suoi poveri morti”, senza aspirare
ad alcuna gloria. Il testo, “fatto di bontà e di amore, sereno nella
contemplazione della natura, sincero per movimento d’immagini e
per impeto di memorie affettuose e care”, testimonierebbe il valore
assoluto di Pascoli. Egli, “come ha lucida sempre la visione del
fantasma lirico, così ha sicurezza e precisione mirabili nellalinea del
paesaggio [...]”. Come si vede, ciò che interessa notare al della Porta è
la collocazione autobiografica delle liriche, le quali vengono
interpretate come rimembranze d’un passato ormai irripetibile e come
estremo omaggio alla memoria del padre ormai defunto e alle amate
sorelle. Il della Porta riesce ad individuare, sia pure con la sveltezza
propria del critico militante, le caratteristiche fondamentali dell’opera
pascoliana, la quale - tanto per citare l’ormai classica interpretazione
generalista di Mario Tropea - sarebbe fondata “sulla corrispondenza
di stati d’animo e paesaggi naturali in una vicenda di rapporti che
144
Cfr. “Intermezzo letterario. Myricae di Giovanni Pascoli”, in Il Resto del
Carlino, 14 febbraio 1894, p. 4.
101

ingloba l’esperienza umana moderatamente lieta e più spesso


dolorosa, l’effusività sentimentale e l’esperienza rasserenatrice della
poesia dentro l’arco più ampio della ciclicità stagionale e nel ritmo
scandito degli eventi della natura”145. Non è un caso che queste
caratteristiche siano quelle che maggiormente affascinassero il della
Porta: egli, nove anni dopo, immergerà le sue Canzoni (o almeno
quelle contenute della prima parte) nello stesso clima nostalgico e
nelle stesse “memoires volontaires” che costituiscono la cornice
necessaria e sufficiente in cui vengono fatte orbitare le liriche dello
scrittore di San Mauro. La bontà d’animo del poeta viene tradotta in
un tessuto linguistico ricco d’una “certa singolarità di vocaboli, pur
sempre rigorosamente italiani, ma di uso raro e prezioso, e non certo
questa sua compiacenza concorda, di buon amore, con la bellezza e la
semplicità dello stile che egli ha originalmente temprato di classica
purezza e di vivacità tutta moderna”. Una distonia, dunque, un
contrasto tra forma e contenuto che però non segna lo scadimento del
testo o la sua nullità: “de te fabula narratur”, si potrebbe suggerire al
della Porta, perché, come s’è visto, quelli che egli stima essere punti di
forza della poesia pascoliana verranno invece a lui imputati come
elementi di debolezza in almeno una delle recensioni alle Canzoni,
quella scritta da Luigi Capuana. Citando la lirica “Il cane”, della Porta
sostiene che Pascoli, udendo “le voci della natura, con grandissima
penetrazione di sentimento, sorprende, tra le rustiche opere,
l’immagine etica che ha energia ed efficacia di comparazione
dantesca”; è, questo, un rilievo formale, che nonerò non riesce a
cogliere il valore simbolico dell’intero componimento, ove il corso
lento e fatale della vita è simboleggiato dal carro, mentre l’uomo si
perde in un dimenarsi vano e contraddittorio esattamente come quello
d’un cane. A partire proprio da questo esempio, un rilievo va fatto al
sistema citazionale dellaportiano: le poesie che trovano diretta
menzione dell’articolo sono sette, e in particolare la già rimembrata “Il
145
Cfr. G. SAVOCA – M. TROPEA, Pascoli,Gozzano e i crepuscolari, Bari-Roma,
Laterza, 1978, p.7.
102

cane”, “Dopo l’acquazzone”, “Il piccolo bucato”, “Nozze”,


“Romagna” (ove si trova menzionato quel Guidon Selvaggio, cugino
di Rinaldo nel poema ariostesco, che divenne il soprannome di cui
spesso si fregiò proprio il della Porta), “Anniversario”, “Tre versi
dell’Ascreo”; ma nessuna di esse – tranne forse “Il cane” – appartiene
al novero di quelle più conosciute, come “Arano”, “L’Assiuolo”, “X
Agosto”, “Ultimo sogno”. Per alcuni di essi la scelta del della Porta
appare facilmente comprensibile: in “Anniversario” il Pascoli,
commemorando il padre, sembra ricordare a se stesso di aver preso
lui in mano le redini della famiglia e di aver dato alle sorelle quella
tranquillità economica che pareva perduta, esattamente come aveva
divisato di fare il montazzolese con la madre e con gli altri congiunti
rimasti in vita; di “Romagna” s’è detto, ma a questa bisogna
aggiungere “Nozze”, che appare, almeno tipologicamente, assai vicina
a certe produzioni matrimoniali composte da Antonio negli anni
precedenti (e c’è da dire anche in seguito). Altre poesie vengon citate
sparsamente, ma solo nel titolo (“[...] e di queste, e di moltre altre, io
non posso che dare il titolo; né di certo oserei, pur di darne un’idea,
guastar la linea signorile di tali componimenti con sunti, a prosa, che
forse troppo spesso sarebbero inesatti, e, in ogni caso, certamente,
incivili [...]”): è il caso di “Campane a sera”, “Paese notturno”,
“Dall’argine”, “Novembre”, “Lo Stornello”, “I Sepolcri”, “I Puffini
dell’Adriatico”, “Il Principino”, “La Pieve”, “La chiesa”, “Il bove”, “Il
fiume”, “Il santuario”; questi testi sarebbero caratterizzati da “fuoco
di immagini, colore di paese, voce delle cose, effetto di ombre, chiarità
di luce, simpatia di fantasmi, vivacità di movimento, squisitezze e
pecisione di forma; e cielo e aria e sole ed orizzonte, nella linea lirica
più nobile e più aperta [...]”. Una catalogazione critica del genere è
indice, senza dubbio, di mancanza d’approfondimento; e tuttavia il
contesto militante in cui tali affermazioni si trovano ci spinge a
comprendere lo spirito con cui il della Porta le scriveva. Pur
sostenendo di non saper “trovare, tra i moderni giovani poeti, chi
superi il Pascoli nel sonetto ad immagine, a rappresentazione
103

pittorica”, e che “troppi paesaggi, di troppi colori sfacciati e striduli,


troppo scevri di pensiero e stanchi di disegno, e su per tele troppo
deboli e vili, si son venuti scontrando [...] nella letteratura moderna, a
delizia dei burattini e dei cantastorie”, Antonio della Porta trova – e
non poteva essere altrimenti – che

l’arte del Pascoli dismaga, ed era tempo, tutti i lucidatori146 di oleografie: egli
è veramente il solo che abbia degnamente derivato dal massimo poeta vivente,
da Giosué Carducci, la schiettezza e l’immediatezza della rappresentazione
delle cose naturali; non rappresentazione convenzionale di chiari dubbi e di
scuri vaghi; sì la penetrazione dell’anima delle cose nei colori, nelle linee, nei
movimenti e nelle attitudini. Certo dal Carducci è venuta a questo giovane
artista la severità, scheletrica quasi, con che dà rilievo e corpo alle visioni
compite sotto l’azzurro del cielo, in mezzo al verde dei campi; e certo dal Bove
carducciano traggono loro origine, pur destri e svelti di lor movimenti
spontanei, i sonetti rurali del Pascoli [...].

Tali riferimenti, a prima vista e con l’occhio clinico


dell’esegeta moderno, sembrano affrettati e fuor di luogo. Sembrano,
perché in realtà nulla di meno ci si poteva aspettare da un poeta che
aveva sempre idolatrato Carducci e che ben conosceva quanto, al
Carducci medesimo, Pascoli almeno all’inizio avesse materialmente
dovuto147. Ma il della Porta non poteva, s’è detto, agire altrimenti, né
poteva non notare la corona finale di tre sonetti (quelli di “XXXI
Dicembre”) dedicati alla madre, dal Pascoli stesso definita
“infelicissima”, sonetti “così pieni di lagrime sante, così nobili di
poesia veramente alta ed umana, così tristi, così ineffabilmente tristi,
che io non so veramente pensare che niuno possa leggerli senza
sentire una commozione profonda, intensa, dolorosa [...]”. L’affetto

146
Il corsivo è dell’autore.
147
Si ricordi che Pascoli aveva vinto la borsa di studio che, almeno per i primi
anni, doveva sostentarlo all’università, proprio grazie ai buoni uffici del poeta
di Bolgheri.
104

che il poeta di Montazzoli nutriva verso la madre, il quale - secondo


tutti gli esegeti - è la colonna portante delle Canzoni, non avrebbe
potuto essere espresso meglio, paradossalmente, che in queste frasi
riferite a Pascoli. E se della Porta fu colpito dagli ultimi componimenti
di Myricae, appare del tutto chiaro, adesso, come l’interpretazione data
al volume pascoliano si muovesse nella prospettiva delle propensioni
e delle esperienze che lo scrittore abruzzese aveva avuto da fanciullo,
anche attraverso un’identificazione emozionale, cogliendo così, e
finalmente, il vero senso della primitiva ispirazione che Pascoli aveva
inteso dare al complesso delle sue liriche.

3. I drammi storici di Filippo Barattani


Un’interessante recensione, apparsa sulla Libera Stampa nel
1885148, riguarda l’opera drammatica dello scrittore marchigiano
Filippo Barattani, con il quale forse il della Porta era venuto in
contatto – direttamente o indirettamente – all’epoca della sua presunta
direzione del periodico anconitano Stamura149. Il Barattani, lodato dal

148
Cfr. La Libera Stampa, 24 maggio 1885, p. 1. La recensione viene presentata
come parte di un pubblicando volume intitolato Profili di poeti (e nel
periodico infatti essa appare mutila), volume che però il della Porta
evidentemente non terminò mai, alla stregua dell’analogo studio sui
folkloristi italiani promesso nella recensione al testo del De Nino.
149
Sul massone Filippo Barattani, autore risorgimentale di drammi storici e
buon dantista, valga il giudizio positivo espresso dal Carducci, che lodava la
forza patriottica delle sue opere (il che rende comprensibile anche l’interesse
del della Porta). Su di lui, cfr. ad esempio C. PARISET, “Un aspetto ignoto della
vita di Luigi Mercantini”, in Rassegna Storica del Risorgimento, 1 (1939), pp. 488
– 496 (poi in Un aspetto ignoto della vita di Luigi Mercantini, Roma, La libreria
dello Stato, 1939), in part. pp. 488 – 490. Al testo del Pariset si aggiunga IBID.,
“Lettere inedite di Atto Vannucci”, in Bullettino storico pistoiese, 4 (1937), pp. 1
– 7 e, dello stesso, Lettere inedite di P. Giannone di Camposanto (Modena) allo
scrittore e patriotta anconitano Fiippo Barattani, Roma, Stabilimento Tipografico
Luigi Proja, 1933, inizialmente apparso in Rassegna Storica del Risorgimento, 4
(1932), pp. 367 ss.gg.. Si vedano poi C. ROSA, “Profili e figure del patriottismo
105

Carducci, sembra avesse attivamente partecipato alle vicende


risorgimentali della sua regione, ma nell’articolo la sua vicenda
patriottica non viene presa in nessuna considerazione 150. Il testo è
strutturato a mo’ di compendio, presentando inizialmente, anche
attraverso una citazione del Roux151, un violento attacco ai critici
dell’epoca per aver trascurato un autore degno di miglior fortuna:

Chè in Italia la critica (è lecito ripeterlo per la centesima volta?) non è fatta
per amor dell’Arte, onde poi dovrebbe emergere il giusto apprezzamento e la
rettitudine de’ giudizi, ma oggimai essa, piuttosto che esaminare un’opera in
quanto costituisce un lavoro artistico la considera in rapporto all’autore. E
avviene, che, se dell’autore esiste, strombazzata da furbi editori, una fama da
gazzette, il critico dice l’opera stupenda, magnifica; se poi il meschino ha fatto

marchigiano: Filippo Barattani”, in L’esposizione marchigiana, 12 (1905), pp. 93 –


94; C. TREVISANI, Delle condizioni della letteratura drammatica italiana nell’ultimo
ventennio: relazione storica, Firenze, Bettini, 1867, pp. 78 ss.gg.; e C.
CATANZARO, Vignette in penna di alcuni scrittori contemporanei, Siena, Mucci,
1876, passim. Il Pariset, con qualche ragione in più, individua gli estremi di
nascita e di morte dell’autore di Filottrano rispettivamente nel 1825 e nel 1900,
mentre il Baldoncini – ma si ignora la fonte – lo dice nato nel 1831 e morto nel
1903 (e cfr. S. BALDONCINI, Letteratura delle regioni d’Italia. Storia e testi. Marche,
Brescia, La Scuola, 1988, p. 53, dove ne leggiamo un fugacissimo cenno).
150
Si tenga presente che negli studi eruditi relativi al Risorgimento
marchigiano, vera e propria miniera di nomi ed eventi, il nome del Barattani
viene citato una sola volta, in riferimento ad una compagnia d’anconetani che
andò in aiuto del veneziano Daniele Manin nel 1849 (e cfr. D. SPADONI,
Settant’anni di patriottismo marchigiano, Ascoli Piceno, Cesari, 1910, p. 61, n. 1,
dov’è citato un carme commemorativo del Barattani da cui però non si capisce
se egli partecipò all’impresa).
151
Narratore, poeta e soprattutto italianista, Amédée Roux (1828-1902) operò
infaticabilmente per divulgare la letteratura italiana in Francia nella seconda
metà del secolo diciannovesimo, essendo anche tra i fondatori della “Ecole
Française” di Roma. Su di lui, orientativamente, cfr. P. CARRÉ – J.F. GLOMET –
A. MALGLAIVE – J. PERRET, Les lieux de Broût-Vernet et leur histoire, Azi La
Garance, Association Azi La Garance, 2007, passim, con bibliografia.
106

gemere i torchi in questa anzi che in quella tipografia, allora…apriti


cielo!....il critico condanna tutto, persino la disposizione tipografica.

Risulta evidente, nella tirata di della Porta, uno strale diretto


alle consorterie che legano il giornalismo letterario all’editoria, un
“vinculum sceleris” che già allora mieteva le sue vittime, anche al di
fuori di un’oggettiva valutazione delle opere dei singoli autori e al di
là del valore intrinseco dell’opera medesima. Secondo il della Porta,
invece, Barattani

È uno di quegli uomini, cui la critica malevola ha potuto impunemente


attaccare, perché l’anima nobile e sdegnosa dell’offeso ha rifuggito sempre
dalla lotta con gente, non so dire se più gesuitica, o più cretina. Il suo nome
sconosciuto ingiustamente in Italia, è segnato fra quelli de’ migliori autori
drammatici; e credo, che se il Barattani avesse usato la politica di una réclame
purchessia, ne sarebbe venuta all’arte utilità grande. Poiché il poeta
anconitano, sconfortato dalla guerra indegna mossagli contro, con un senso
d’indefinibile rammarico, sentì venirsi meno l’ardore per il culto della poesia
e dell’arte drammatica, nella quale si è mostrato veramente grande.

Interessante, in questa occasione, è l’accento posto dallo


scrittore montazzolese sulle cause che spinsero il Barattani al silenzio
creativo. L’antipatia che i critici nutrivano nei confronti dell’opera di
costui, probabilmente derivata dal fatto che il drammaturgo
marchigiano era un sopravvissuto d’altre epoche (il dramma storico
d’estrazione manzoniana aveva ormai fatto il suo tempo già prima che
Barattani prendesse in mano la penna), era solo di poco indebolita dal
riconoscimento del ruolo che egli, come intellettuale organico al
periodo e alle classi sociali di cui faceva parte, aveva avuto nel corso
del periodo risorgimentale: pare quasi che, con sguardo premonitore,
della Porta stesse parlando di se stesso, in una sorta di anticipazione
speculare di ciò che sarebbe toccato a lui quindi anni dopo. In altre
parole, nella recensione dellaportina il lettore vien posto di fronte alle
107

vere ragioni che avevano motivato l’inclemenza dei critici verso il


Barattani. Esse derivano dall’incipiente desuetudine della forma
letteraria utilizzata per esprimere i propri contenuti (il dramma
storico), forma che – soprattutto nelle rappresentazioni sceniche – era
già stata sorpassata da quel teatro borghese che aveva avuto in
personaggi come Giacometti, Giacosa e lo stesso Verga i suoi
precursori e i principali artefici. Il drammaturgo di Filottrano, “au
contraire”, ricalca le orme del Pellico e di Giovanni Battista Niccolini,
ripetendone stancamente i modelli e le ispirazioni. Nei testi di
Barattani infatti (almeno uno dei quali, significativamente, ha lo stesso
titolo d’una tragedia del Niccolini152), si reperiscono influenze
schilleriane e byroniane, ma i suoi personaggi spesso sembrano
restare brillantemente descritti in modo artificioso e non mostrano di
vivere di luce propria, nonostante la volontà eroica che dovrebbe
animarli. Barattani, infatti, mantenne le tradizionali unità aristoteliche,
scegliendo temi che sviluppavano gli ideali ottocenteschi permeati di
romanticismo ed ispirati all’afflato libertario e patriottico. E tuttavia
l’intreccio dei drammi del Barattani, non liberamente svolto, finisce
con il risentire d’un tono libresco e professorale, che a volte rende
poco incisivo il complesso dell’azione scenica.
Il della Porta, dunque, prende in esame tre fra le molte opere
drammatiche messe in scena dal Barattani, e in particolare L’Ospite,
Moderna Arcadia e I Legati di Clemente VII (quest’ultima considerata dal
Pariset l’opera migliore del filottranese153), narrandone le vicende in
tono solidale e appassionato. Se il primo di tre testi è una commedia
dei buoni sentimenti di stampo tardo-romantico e pre-scapigliato
(tanto che lo stesso della Porta la definisce “idillio”), il secondo, del
1865, si presenta come una sorta di bozzetto campagnolo,

152
Si tratta della Beatrice Cenci (e cfr. F. BARATTANI, Beatrice Cenci: tragedia
lirica, Ancona, s.n., 1847; e G.B. NICCOLINI, Antonio Foscarini; Giovanni da
Procida; Lodovico Sforza; Rosmonda; Beatrice Cenci; Poesie varie, Firenze, Le
Monnier, 1844).
153
Cfr. PARISET, “Un aspetto ignoto”, p. 488.
108

dall’inevitabile e parenetico lieto fine, che tuttavia il della Porta ha


l’ardire di paragonare alla Cavalleria Rusticana del Verga e che invece è
solo un pretesto per ostentare un rancoroso anticlericalismo. E le tesi
anticlericali sembrano essere il vero motivo conduttore della
recensione, perché esse sono richiamate e definite con maggior
virulenza durante l’esposizione della trama de I Legati di Clemente VII.
L’opera, che ricorda gli inganni e le mene con cui gli inviati di
Clemente VII ricondussero al dominio papale la città di Ancona nel
1532, è descritta mettendo l’accento sugli episodi in cui più
torbidamente emerge il potere temporale della Chiesa; gli ecclesiastici
che vi sono tratteggiati sono considerati poco più che dei truci e feroci
“villains” (il secondo aggettivo è del della Porta) e vengono
contrapposti agli amministratori anconitani dell’epoca, i quali si
pongono come uomini saggi e venerandi, schiacciati dal prepotere
d’una Chiesa che utilizza i propri cardinali per fini immorali e non
realmente cristiani. Quest’afflato cristianeggiante viene peraltro ben
individuato dal della Porta in una cantica del Barattani intitolata Il
Viaggio dello Spirito, citata nel finale del suo articolo e data per
pubblicata nel 1863: in tale opera della Porta rileva, correttamente,
numerose influenze del Manzoni e di Dante, ma sempre ispirandosi
alle parole dell’onnipresente Roux che l’aveva primieramente
menzionata nella sua Histoire de la littérature contemporaine en Italie. Si
tenga conto, a questo proposito, che uno dei più grandi esponenti
dell’anticlericalismo nostrano, almeno nella prima parte della sua vita,
fu proprio l’idolatrato Carducci, di cui della Porta – come si vede
anche da queste recensioni giovanili – seguiva il dettato come un
fervoroso discepolo.

4. Le Ultime rime di Orazio Spagnoletti


Quarta ed ultima esemplificazione può esser rappresentata
dalla recensione alle Ultime rime di Orazio Spagnoletti154. In questo

“Poesia del Focolare”, in La Nuova Rassegna, 27 maggio 1894, a. II, n. 21, pp.
154

660 – 661.
109

caso, siamo di fronte ad un amico del della Porta, un collega


d’università che, benché avesse coltivato in gioventù la scrittura, fu
poi meglio noto, almeno dalle sue parti, come deputato ed esponente
dell’avvocatura155. Per della Porta, lo Spagnoletti

un giovane scrittore di prose polemiche vigorose e di libri di eletta erudizione,


poeta singolarmente pensoso nei fantasmi attediati e crucciosi, nelle
sollecitudini amorevoli per la forma ed in una sua particolare enfasi lirica tra
di primitivo ed ingenuo, tra di mussettiano e mordace. Il suo nome avrei
desiderato leggere nello studio giudizioso stampato di questi giorni da Ugo
Ojetti intorno alla poesia del Pascoli; non tanto, forse, per l'abitudine della
maniera poetica di Orazio Spagnoletti che ha, parmi, qua e là convulsioni ed
impeti non propri né adatti, spesso, alla serena onda della poesia famigliare;
quanto per la contenenza del suo ultimo libro di versi, materiato essenzial-
155
Orazio Spagnoletti (1867 – 1916) fu scrittore e uomo politico pugliese (in
quest’ultima veste alquanto chiacchierato, e cfr. P. DI BIASE, “Il Grido del
Popolo. Il fallimento della banca agricola di Trinitapoli”, in Ipogei 06. Quaderni
dell’Istituto Superiore Statale “S. Staffa” di Trinitapoli, 7 (2009), pp. 25 – 32, dove,
citando un articolo del 1906 riguardante un fallimento bancario in cui era
implicato per una rilevante distrazione di fondi, lo si definisce “mangiatore
d’arrosto e venditore di fumo”. Su tale questione e sugli scontri politici tra
progressisti e conservatori nella zona, cfr. A. FIDELIS, Il partito democratico, il
caso Spagnoletti: gli ultimi avvenimenti nel Collegio di Andria, Trani, Paganelli,
1907, non citato dal Di Biase). Collaboratore di riviste come la Rassegna
Pugliese di Scienze, Lettere e Arti e L’Arca di Noé (a cui prestò i suoi servigi anche
il della Porta nel 1895) tra le sue opere si ricordano Canzoni e baci, Andria,
Tipografia F.lli Terlizzi, 1885; Persone, Genova, Formiggini, 1914; per il Vecchi,
presso cui apparvero i dellaportiani Numeri (volume composto proprio in
occasione delle nozze dell’autore andriese) e San Silvestro, lo Spagnoletti
pubblicò Catullo: saggio critico, 1887; appunto Ultime rime, 1893; Post Prandium:
saggi letterarii e scientifici, 1894; Dall’amore all’amore: la donna romana, 1892. Tra
le liriche sparse, ci sono anche vari opuscoli contenenti componimenti nuziali
nell’identica maniera utilizzata dal della Porta. Su di lui, cfr. anche, e
sparsamente, R. RUSSO, Valdemaro Vecchi, ricordo del grande tipografo-editore,
Barletta, Rotas, 2006, passim.
110

mente di passione, e vibrante, per più corde, di quella dolce commozione


derivata dai motivi solenni, religiosi, quasi divini della famiglia.

Si comincia a intravedere qui uno scopo recondito, una sorta


di secondo fine ideologico, per dir così, che della Porta cela nella sua
recensione. Secondo della Porta, infatti,

[…] torna in fiore, dopo tanto strazio di enimmi inaccessibili e di figurazioni


crudeli, la rima soave che si avviva alla placida e ricca fiamma del focolare,
mentre i vecchi venerandi favoleggiano ai bimbi intenti, ed angioli e spiriti
ascendono su da quella sacra luce, visibili e saldi, nel loro mistero, per la
vergine fantasia della puerizia. Una dolcezza di suoni, che la prima poesia
popolare italica aveva squillato serenamente, torna ad esprimersi nei modi
recenti di poeti dottissimi: ed è infinitamente deliziosa e delicata la voce
insolita di quella dolcezza che è chiamata a rendere le vicende varie ed acute
del travagliato spirito moderno. Quasi, essa più si è affinata per una
maggiore intensità di motivo, e più e meglio si è svolta per una più ricca
varietà di accenti. Ma nessun artefice poté – né volle – distogliere dalla rima
sacra l'attenzione dell’anima imperativamente data soltanto a sorprendere,
nell’abisso dei giocondi e dei tristi ricordi, la ricorrente e pura sensazione
affettiva da cui snodasi il tema del canto; non poté nessun artefice piegare ad
ire sociali, a frenesie demagogiche, a despotismi anarchici la squisita tempera
della rima sacra; non poté nessun artefice – né volle – chiamare, presso al
ceppo domestico che brucia votivamente, la bile scomposta e livida
dell'apostolo.

Siffatte affermazioni, che sembrano contrapporre una poesia


di tipo intimistico a espressioni liriche innervate nella socialità,
evocano la polemica sul prevalere della cosiddetta “art pour l’art”
rispetto a una visione creativa che tenesse conto anche delle istanze
sociali, in una dialettica già cara al movimento simbolista (e che,
prima ancora, in epoca romantica aveva visto il rifiuto delle forme
poetiche pariniane in nome di una produzione lirica spiritualista e di
111

alto profilo). È evidente che qui, in una visione della poesia come
“turris eburnea”, si vuol sottintendere un problema tipico degli
intellettuali di fine Ottocento, vale a dire il sopravvenuto
declassamento della letteratura, la quale da qualcosa di solenne e
mitizzante, si era trasformata in una merce che, parafrasando Asor
Rosa, aveva attaccato su di sé il cartellino del prezzo. Al della Porta,
nel recensire Spagnoletti, non interessa porre in evidenza il far poesia
come qualcosa di ludico, o come un passatempo da scioperati (anche
se le illusioni perdute dallo Spagnoletti maturo e dallo stesso autore
delle Canzoni dovettero poi pesare a tal punto da far loro abbandonare
quasi totalmente la carriera letteraria); e neppure interessa predicare –
appunto – la poesia come mezzo di denuncia, sia pure impotente, o
come provocatoria ribellione (alla stregua di certi esponenti del
decadentismo sul tipo di Baudelaire). Egli, sull’esempio del suo
pseudo-amico Giovannino Pascoli, predica il ripiegamento sovra
antichi valori come quelli della famiglia e della casa, in un tripudio dei
buoni sentimenti che ha nell’esaltazione conservatrice del “common
man” il suo punto più elevato. In questa prospettiva può certamente
essere interpretato il parallelo che della Porta instaura tra il testo
spagnolettiano e, da un lato, le già citate Myricae di Pascoli, dall’altro
la Consolazione del D’Annunzio paradisiaco:

Gran mercé; che veramente non tutto è inquinato e guasto se ancora negli
spiriti formatori (intendo, gli intelletti, incitati d'amore e di scienza, che
improntano di sé una parte del tempo sociale) sta, immacolato e custodito, il
trepido lume del focolare paterno; che veramente non tutto è formola e forma
d'energia della materia, se ancora orecchi umani chiedono vogliosi i canti,
freschissimi di pianto e di mesto riso, armonizzati nelle Myricae di, Giovanni
Pascoli; se ancora gli occhi si velano di lagrime fissando nel placido tramonto
la madre che vive nella Consolazione di Gabriele d’Annunzio […].

La corruzione del tempo presente (tematica medioevalizzante


assai cara all’arcaista della Porta) finisce con l’essere una
112

giustificazione necessaria e sufficiente affinché si verifichi la


glorificazione e l’intronizzazione del mondo familiare. Antonio cita,
come elementi fondanti ed ispiratori la poesia di Spagnoletti, l’amata
(per la quale, nel canzoniere spagnolettiano, si reperiscono soffusi ed
eleganti accenti di passione, non senza qualche riferimento
stilnovistico che non poteva certo dispiacere al poeta delle sestine e
dei sonetti guittoniani156), la sorella157, la madre, in una ricerca di
fratellanza compositiva che accomunasse la sua visione lirica a quella
dell’amico. La madre, poi, viene anche menzionata in riferimento ai
fratelli maggiori dello Spagnoletti, morti tutti in tenera età e a lui –
nato dopo – totalmente sconosciuti. Infine, a chiusura del libro, una
“laudatio funebris” in terza rima dedicata al padre morto (altra
analogia con i casi dellaportiani!), nella quale lo scrittore andriese
compone, “a espiare ed augurare, la confessione, in canto di terza
rima, ai mani del babbo”, che per il della Porta sarebbe “uno dei
componimenti più nobili e più gagliardamente investiti di accensione
lirica, pur su fondamento ed orditura elegiaci […]”. La recensione,
dunque, più che una ricerca delle effettive qualità poetiche presenti in
chi scrisse il testo, si pone come una dichiarazione d’intenti
programmatica, ma anche come un debito di riconoscenza e
d’amicizia che della Porta certo sentiva – per ragioni s chi scrive
sconosciute – di dover pagare ad un sodale di cui aveva goduto
l’amicizia in gioventù. E sembra quasi una confessione inconscia la
citazione, nel finale, di due nuovi volume che lo Spagnoletti aveva in
156
“Il poeta compone ai piedi dell’amata, in collana lirica, la storia dell’anima
sua; e le torbide malie femminili, e le durate prove, e le confessate follie
chiamano, in voce della idealità non mai rinnegata (la speranza del
compatimento materno) la vergine pura ed onorata […]”. E ancora “La poesia
di Orazio Spagnoletti mette ali, per aperto e calmo e serenato cielo, nel terzo
libro, in lode della “gentilissima”, dolce e soave, che seppe, per virtù d’amore,
bonacciare le tempeste furiose […]”.
157
“E, nei tre libri, ad ora ad ora, levasi a soccorso dei propositi nobili la pia
immagine della sorella lontana, a cui il tormentato fratello dice le terribili
paure, le violenti prostrazioni, le angoscio profonde […]”
113

animo di comporre (e che poi, come peraltro era abitudine anche dello
stesso della Porta) non scrisse mai: “Una donna delinquente, contributo
alla evoluzione psicologica del delitto e L’amore colpevole, studio di
criminali”, due testi forse d’impronta lombrosiana e sociologica che
sembrano predire quell’incontro con il codice penale che lo
Spagnoletti avrebbe avuto modo di fare personalmente in epoca
successiva.

ESISTE UN DELLA PORTA DRAMMATURGO?

1. Il caso dell’Immacolata e di San Silvestro


Oltre ai consueti tentativi nel campo della poesia (tanta) e
della prosa (come s’è visto, molto giornalismo e pochissima narrativa),
il della Porta ebbe inizialmente un’altra ambizione: quella di essere
annoverato – pur se non ufficialmente – nel numero degli intellettuali
“fin de siecle” che vollero sperimentare anche le delizie del
palcoscenico. Intendiamoci: le prove dellaportiane, tra l’altro solo due
ed entrambe scritte in condivisione con due sodali bolognesi (uno dei
quali totalmente sconosciuto), sono di poco valore. Ma esse si
inseriscono bene nel clima di sostanziale rinnovamento che si verificò,
a partire dal periodo immediatamente posteriore l’Unità d’Italia, fra
gli autori di commedie e di drammi. Non è certo questa la sede per
ricordare tutte le diatribe e i dibattiti che interessarono la
drammaturgia nostrana del periodo, esistendo una già copiosa
bibliografia in proposito158: basterà dire che le due opere che videro
l’apporto dello scrittore di Montazzoli, si inseriscono all’interno di
quel filone che è stato definito con il nome di “teatro borghese”;
questo tipo di rappresentazione scenica era sostanzialmente aduso a
un conformismo sociale di fondo che, esplicitandosi anche come una

158
Per una panoramica generale, cfr. soprattutto F. ANGELINI, “Il teatro”, in F.
ANGELINI – C.A. MADRIGNANI, Cultura, narrativa e teatro nell’età del postivismo,
Bari-Roma, Laterza, 1978, pp. 133 – 196, con copiosa bibliografia alle pp. 193 –
196.
114

sorta di “goldonismo di ritorno”159, voleva scimmiottare gli esempi


francesi di Scribe, Dumas figlio, Augier, Becque, Sardou e – nel caso
specifico della seconda commedia in questione – del Murger 160. Del
resto, se i drammi romantici erano segnati dal gesto, dall’azione, il
dramma borghese da inizio a una tipologia di rappresentazione
scenica in cui si agisce poco e l’azione sembra cominciare quando già
qualche evento importante – di qualsivoglia natura – è in realtà
avvenuto, sicché i personaggi si limitano ad analizzare i fatti senza
poter in alcun modo intervenire sulla loro dimensione fattuale; tale
analisi, vera è propria “cogitatio destruens” perché relativa a
questioni che hanno portato un danno ai protagonisti, non si
concentra più sui grandi tradimenti politici (come accadeva, ad
esempio, nelle tragedie manzoniane e nei drammoni a forti tinte del
Niccolini), bensì sui problemi familiari e personali (il disgregamento
della famiglia, i tradimenti coniugali, il fallimento della propria
rispettabilità sociale, o – inoltre – il possesso della ricchezza o la stessa
159
Cfr. ANGELINI, “Il teatro”, p. 141
160
Si ricordi che le “Scenès de la vie de bohème”, in prima istanza apparse in
veste di romanzo, ebbero una versione teatrale già a partire dal 1849. Sul
Murger, vedi, ad esempio, G. MONTORGUEIL, Henry Murger: romancier dela
boheme, s.l., s.e. 1929; G. PIASTRA, Enrico Murger e la boheme, Genova, Apuania,
1928; F. GAVAZZENI, Goncourt, Courbet, Murger (e la Bohème di Puccini),
Arbizzano, Stamperia Valdonega, 2006); A. WARNOD, La vraie bohème de Henri
Murger, Paris, Dupont, 1947; F. MAILLARD, Les derniers boheme : Henri Murger
et son temps, Bassac, Plein chant, 1999; J. SEIGEL, Bohemian Paris. Culture,
Politics and the Boundaries of Bourgeois Life, 1830-1930, New York, Johns
Hopkins University Press, 19993. Sull’influsso della vita “bohemienne” sulla
cultura novecentesca, cfr. V. NICHOLSON, Among the bohemians. Experiments in
linving 1900 – 1939, London, Viking, 2002. Sulle questioni inerenti l’influsso
della narrativa scapigliata sui coevi modelli letterari, cfr. L. ZOPPELLI, “Modi
narrativi scapigliati nella drammaturgia della «Bohème»”, in Studi pucciniani,
1 (1998), pp. 57 – 65, ripubblicato dal medesimo come “Modi narrativi
scapigliati nella drammaturgia della «Bohème»: Il capolavoro pucciniano
come principale realizzazione dell’indirizzo antiverista”, in Nuova rivista
musicale italiana, n. s. V/2 (2001), pp. 200 – 208.
115

rispettabilità intesa come valore fondante di un equilibrio basato sulla


conservazione dei “mores maiorum”). Nei drammi d’estrazione
borghese si riscontra il venir meno dell’ottimismo tipico della cultura
positivistica, con la dipintura d’un atmosfera di disagio che raggiunge
talvolta livelli quasi metafisici, e si assiste alla progressiva e totale
dissoluzione dei valori tradizionali, simboleggiata anche dalla crisi
dell’istituto del matrimonio e/o dall’irrisolto e conflittuale rapporto tra
genitori e figli. Per quel che concerne le “pieces” composte a quattro
mani dal della Porta e dai suoi amici, si può certamente dire che esse
possiedono tutte le specifiche peculiarità che si riscontrano in questo
tipo di opere. E dunque converrà analizzarne almeno la trama, onde
riscontrarne più compitamente la caratteristiche. Ma veniamo ai fatti.
Nel 1888, in collaborazione con un suo altrimenti sconosciuto sodale
universitario, il della Porta compone un’altra commedia, un atto unico
intitolato San Silvestro, che apparve sulla “Rassegna Pugliese di
Scienze, Lettere e Arti”161 e contemporaneamente, in volume, presso i
tipi dell’editore Vecchi di Trani162. Ma veniamo alla trama, qui
certamente più semplice: due studenti che risiedono presso
un’affittacamere bolognese s’innamorano, entrambi, della figlia d’un
pizzicagnolo. Il primo cerca di sedurla con il consueto armamentario
romantico (poesie, sdolcinatezze, etc.), mentre il secondo – più posato
– finirà con il conquistarla offrendole in cambio una posizione (un
solido posto nell’amministrazione dello Stato). La commedia è
esilissima, dimostrandosi davvero poca cosa, ma interessanti sono, da
un lato, i riferimenti autobiografici che in tutta evidenza emergono nel
testo il quale appare denso di accenni all’ambiente goliardico
bolognese; dall’altro, però, della Porta riesce ad evidenziare la
perenne insofferenza contro le tasse che esisteva, anche allora, in certe
categorie del lavoro autonomo e che si risolve in un iniziale rifiuto

161
Cfr. Rassegna Pugliese di Scienze, Lettere e Arti, 15 ottobre 1888, V, nn. 19 – 20,
pp. 315 – 320.
162
Cfr. A. DELLA PORTA – V. TIRABASSI, San Silvestro: bozzetto comico in un atto,
Trani, Vecchi, 1888.
116

dello Stato, lasciando poi il posto a una assennata e diversa


soluzione163. Anche in questo caso, la dimensione sentimentale, tutta
giocata sul crinale d’un aleardismo edulcorato e deteriore, lascia
spazio a un buonsenso d’accatto di matrice, anche qui, goldoniana,
con l’esaltazione d’una vita familiare semplice e comune (a scapito
della sensibilità propria della prima metà del secolo) che sembra tanto
una dichiarazione d’intenti antisuperomistica e/o antidannunziana e
che si inserisce all’interno della già citata polemica del Carducci
contro il Decadentismo inteso come estrema propaggine del
Romanticismo164.
Non contento degli esiti davvero deludenti della “piece”
precedenti, il della Porta fa un altro tentativo con l’Immacolata,
commedia in tre atti scritta a due mani con l’amico Adolfo Albertazzi
e pubblicata con una premessa dell’Albertazzi medesimo concernente
l’accoglimento a dir poco contrastato dell’opera nelle cerchie culturali
bolognesi165. La trama (e ciò potrebbe rappresentare uno dei motivi del
163
Su questo, a puro titolo d’esempio, cfr. A.A. MOLA, L’economia italiana dopo
l’unità, Torino, Paravia, 1971; G. LUZZATTO, Gli anni piu critici dell’economia
italiana: 1888-1893, Milano, Giuffre, 1961; IBID., L’ economia italiana dal 1861 al
1894, Torino, Einaudi, 19912, passim.
164
Su questo, cfr. G. CAROCCI, “La polemica antidecadentista di G. Carducci”,
in Belfagor, IV (1949), pp. 263 – 282.
165
Cfr. A. ALBERTAZZI – A. DELLA PORTA, Immacolata. Commedia in tre atti,
Bologna, Zanichelli, 1894, pp. I – XII (poi riproposto in A. ALBERTAZZI,
Carducci in professione d’uomo, Lanciano, Carabba, 1921, pp. 142 – 148, da noi
consultato, per riscontro diretto, in alternativa alla ristampa integrale che lo
stesso editore ne ha fatto nel 2008). Adolfo Albertazzi (1865 – 1924), figura
centrale del cenacolo carducciano a Bologna, fu appunto discepolo, amico e
biografo di Giosuè Carducci. Fu insegnante a Mantova, a Foggia ed infine a
Bologna. Narratore fecondo, vide la sua opera esaltata da alcuni e criticata da
altri. Ebbe, tra gli altri, giudizi lusinghieri dal Papini e in parte anche da Luigi
Russo. Scrisse romanzi, racconti sullo stile di Maupassant, saggi critici e libri
per l’infanzia e curò l’edizione di opere di Carducci, Tommaseo, Oriani e
Tassoni. Non eccelso romanziere, scrisse invece numerose raccolte di novelle
in cui mostra, nell’ambito del gusto verista, un particolare spirito ironico e
117

fiasco) è qui assai complicata: due sorelle, Gina e Anna Dorani,


rispettivamente minore e maggiore, orfane di padre e in cerca di
marito; Giovanni Sani, il borioso fidanzato di Gina che impone il suo
moralismo e la sua albagia alla famiglia delle due donne in nome di
un non ben specificato atto disdicevole compiuto dall’altra sorella; e
Paolo Amari, un giovane di belle speranze – amico del Sani – che si
invaghisce di Anna ma non può sposarla perché ancora privo di
mezzi. Il tutto ruota attorno alla rinuncia che la sorella maggiore
avrebbe compiuto a favore della più piccola, a causa, appunto, di
qualche fatto poco onorevole che avrebbe potuto impedire ogni
possibilità di matrimonio a Gina con conseguenze a dir poco negative
per l’intera famiglia. I personaggi della commedia, compresi quelli
minori (tra cui spicca Teresa, la perbenista madre delle due ragazze)
appaiono troppo conformi a definizioni moralistiche (il sacrificio, il
matrimonio che non può avvenire se non in presenza di solide basi
economiche, la reputazione della famiglia, quest’ultima
conformisticamente intesa come valore borghese che va comunque
salvaguardato anche sacrificando a ciò la felicità di uno dei suoi
componenti) per avere un qualche spessore. Come s’è già detto, la
commedia, pur dotata di un intreccio contorto, è di poca sostanza e
per tale ragione ebbe una pessima riuscita, benché sia stata recitata da
attori di non disprezzabile levatura166: rappresentata per la prima volta

felici momenti lirici. Per quel che riguarda la sua attività giornalistica, va
ricordata la sua assidua collaborazione Il Resto del Carlino. Per tali notizie, cfr.
U. BOSCO, “Adolfo Albertazzi”, in www.treccani.it/enciclopedia/adolfo-
albertazzi_(Dizionario_Biografico), ult. cons. 16 marzo 2013. Su ciò vedi anche
PARENTI, “Una commedia” cit, p. 23.
166
La commedia venne infatti messa in scena dalla compagnia Vitaliani. Italia
Vitaliani (1866 – 1938), cugina di Eleonora Duse, nacque da una famiglia di
attori ed esordì sulle scene giovanissima con L. Cuniberti, passando poi nella
Compagnia Bellotti Bon e Marini, diretta dallo zio Cesare Vitaliani, a sua volta
attore, scrittore e capocomico (come del resto anche il padre Vitaliano). Nel
1883 fece parte della Compagnia Nazionale e l’anno seguente della
Compagnia di Cesare Rossi, nella quale recitava anche la Duse. Grande
118

al teatro Sannazzaro di Napoli, non ebbe neppure l’onore di essere


fischiata167, al punto che – di fronte alla proposta del Cervi di ripetere
la rappresentazione a Firenze, con un pubblico forse più favorevole –
sia l’Albertazzi che il della Porta risposero un reciso no. Il fatto più
importante da segnalare, in questa occorrenza, riguarda
l’introduzione al testo stampato della commedia 168, dove sono narrate
le peripezie che i due autori dovettero affrontare nella composizione
della medesima e dove viene anche menzionato il giudizio che della
stessa diedero gli amici della cerchia bolognese, e in special modo il
Carducci. Se si esamina il tono e la forma della premessa
summenzionata, è possibile dire che il testo di Albertazzi e della Porta
sia da considerare più sul piano delle buone intenzioni e del dibattito
insito nella cerchia dei discepoli di Carducci che come vera e propria
prova drammatica, considerando anche il valore a dir poco diseguale
del testo. Un valore storico-culturale, dunque, più che intrinseco, nella
scia di tentativi consimili operati anche, ad esempio, nell’ambiente
romano e in quello napoletano169, anche in nome di una dimensione
utilitaristica del teatro, quando già Verga, con il suo solito
pragmatismo, aveva gia detto che le opere drammatiche erano “la sola
cosa che potesse fruttare materialmente alla letteratura”170; e questo,

interprete del teatro ibseniano, nel 1892 la Vitaliani divenne capocomico, una
delle prime donne a rivestire questo ruolo, e in seguito, nel 1919, sostituì Luigi
Rasi nell’insegnamento di declamazione alla Scuola di recitazione di Firenze.
Per queste notizie cfr. www.treccani.it/enciclopedia/cesare-vitaliani, ult. cons.
16 marzo 2013; e L. RASI, I comici italiani: biografia, bibliografia, iconografia, 2 voll.
Firenze, Bocca/Lumachi, 1897 – 1905, in part, vol. II, p. 701.
167
Cfr, PARENTI, “Una commedia”, pp. 27, ove il Cervi rispose all’Albertazzi,
che chiedeva notizie su come fosse andata la commedia, con la frase “neppure
zittita”.
168
Se ne occupo l’editore Zanichelli, nel 1894, in un’edizione ovviamente non
veniale.
169
Cfr. ANGELINI, “Il teatro”, pp. 141 – 144.
170
Per qualche considerazione in proposito, cfr. M. BERTACCA, “L’arte per
piacere nella Spagna del ‘600 e nell’Italia dell’800”, in AA.VV., Norme per lo
119

nella stessa epoca che avrebbe espresso un Giacosa, un Bracco o un


Marco Praga (tanto per fare i nomi più conosciuti e portatori, a livello
indubbiamente più alto, di istanze consimili) è una sorta di
“diminutio” che non può non avere i suoi riflessi anche da un punto
di vista esegetico.
È dunque impossibile parlare d’un della Porta drammaturgo?
A voler leggere quanto ne scrive Marino Parenti, bisognerebbe
certamente negare valore all’ispirazione drammatica dellaportiana.
Dopo il fiasco dell’Immacolata, come s’è accennato, sia l’Albertazzi che
il della Porta non vollero avere più nulla a che fare con il teatro, ove
invece l’amico Cervi si mostrava invece possibilista su una ripresa
della commedia, lasciata l’inospitale Napoli, presso le scene fiorentine
(chissà perché, non a Bologna171).
Qualche maggior successo il della Porta dovette riscuoterlo
come critico teatrale, se Domenico Oliva si permise di citare un suo
giudizio positivo sulla Fedra di Bozzini, che forse il poeta
montazzolese ebbe ad apprezzare per la sua evidente rassomiglianza
con la tragedia composta, quasi nello stesso periodo, dal
D’Annunzio172. E c’è infatti da chedersi: il della Porta esercitò anche

spettacolo. Norme per lo spettatore, cur. G. POGGI – M.G. PROFETI, Alinea, Firenze,
2011, pp. 447 – 462, in part. p. 456 per la citazione e n. 30 per ulteriore
bibliografia sul teatro italiano del secondo Ottocento.
171
Bologna fu centro assai vivace per quel che riguarda il teatro, sin dal
Seicento. Su questo, cfr. M. CALORE, Bologna a teatro. L’Ottocento, Guidicini &
Rosa, 1982, ma si veda anche la bibliografia contenuta in
badigit.comune.bologna.it/spettacoli/bibliografia.htm, ult. cons. 21 marzo
2013.
172
“Antonio Della Porta, poeta, e quale poeta!... e critico non contentabile,
sebbene per tranquillità sua e per la pace di quelli che oggi stampano poesie,
non scriva di critica, come pur troppo non pubblica suoi versi, Antonio della
Porta afferma che questo è lavoro assai bello, assai nobile, assai degno […]”.
Ma cfr. D. OLIVA, Il teatro in Italia nel 1909, Milano, Quintieri, 1911, p. 272,
sottolineando come l’entusiastico giudizio dellaportiano può forse essere
ricondotto, “au contraire”, a una diluita stima del D’Annunzio quale
120

l’ingrata militanza del recensore d’opere drammatiche? Ci sovviene,


per aiutarci, la consapevolezza che certamente egli fu frequentatore
assiduo dei teatri romani, e di tale propensione abbiamo traccia non
soltanto nelle sparse osservazioni del D’Ambra 173, ma anche in un
riferimento che ci viene tramandato da Camillo Antona-Traversi, noto
studioso di letteratura e scrittore di commedie (in italiano e in
francese) di fine secolo174. Nel 1899 l’Antona-Traversi fece
rappresentare sulle scene la commedia I Parassiti, una “piece” di tipo
verista che intendeva raffigurare il variegato mondo di quanti vivono
alle spalle altrui. L’opera, considerata la migliore del pur non eccelso
autore milanese, ebbe una discreta accoglienza e tra coloro che ne
seguirono la prima c’era anche il della Porta, il quale scrisse
all’Antona-Traversi una missiva in cui sostanzialmente magnificava il
testo in questione, missiva che è bene trascrivere qui175:

drammaturgo (il quale, è da notarlo, mise in scena la sua tragedia nella stesso
anno in cui apparve quella del Bozzini). Quanto a Umberto Bozzini (1876 –
1921), avvocato, poeta e drammaturgo foggiano, egli ebbe effimera fama a
partire dal 23 ottobre 1909, quando – al teatro Valle di Roma, protagonista
proprio quell’Italia Vitaliani citata in precedenza – si tenne la
rappresentazione della tragedia in quattro atti Fedra. L’opera, che riscosse
grandissimo successo sin dalla prima rappresentazione, venne definita
“perfetta” da Ferdinando Martini, secondo il quale in essa segni della sua arte
si evidenziavano meglio che nell’omonimo lavoro dannunziano. Tra le altre
opere, si citano Manfredi, Il Cuore di Rosaura, Ritmo Antico, Georgica, tutte
rappresentate dalle più celebri compagnie di teatro del tempo. Su di lui, oltre
alle pagine del già citato Oliva e a S. CAPUANO, Vita e opere di un drammaturgo
pugliese: Umberto Bozzini, Urbino, Argalia, 1971, vedi la premessa a U. BOZZINI,
Opere, cur. F. DE MARTINO, Bari, Levante, 2009, con bibliografia conclusiva.
173
Cfr. D’AMBRA, Gli anni della feluca cit. p. 129 e p. 151.
174
Su di lui vedi, ad esempio, M. QUATTRUCCI in
www.treccani.it/enciclopedia/camillo-antona-traversi_(Dizionario-Biografico),
con bibliografia.
175
Teatro di Camillo Antona-Traversi (Edizione riveduta e corretta). Parassiti.
Commedia in tre atti. Volume VI, Remo Sandron Editore, Libraio della R. Casa,
Milano-Palermo-Napoli, 1912, p. 20.
121

Roma, 26 luglio 1899.

Mio carissimo,

Io, naturalmente, ero al Costanzi. E seguii, con tenerezza affettuosa, tutto il


lavoro. Debbo dirti che quei quattro atti sono “una forte cosa”? Mi par
inutile.

Essi sono molto vicini ai fratelli delle Bozeno e di Danza Macabra 176. Come
unità, li superano. Mi spiego: il centro etico del lavoro attrae costantemente a
sé persone, cose e casi. Quel Commendatore è lineato con bravura e audacia
della miglior commedia greca.

Di questi giorni, ho letto e riletto Aristofane: ebbene, l’altra sera ho pensato a


lui!

Lode non piccola, è vero?... Ma tu sai che io non te la darei se non ne sentissi
la sincerità.

Forse gli episodj, da cui balza vivo e grande il protagonista, non sono tutti di
egual rilievo e di eguale verità scenica. Questa impressione, che se ne ha alla
fine del lavoro, nuoce alla ragionevolezza della favola di costume, che tu hai –
ripeto – ideata con arguzia e furore greci.

Anche gli accenni a contemporanei viventi furono saporiti e contenuti in un


decoroso freno artistico.

176
Le Bozeno e Danza Macabra sono due drammi dello stesso Antona-Traversi,
messi in scena rispettivamente nel 1891 e nel 1893. Il secondo titolo ha qualche
connessione con il fatto che, come autore drammatico, l’Antona-Traversi
frequento anche l’impervio genere del “grand guignol” (su cui cfr. l’epitaffio
che ne scrive la Angelini in ANGELINI – MADRIGNANI, Cultura cit., p. 183 e 196,
con bibliografia).
122

Uscendo di teatro, io pensai la gioja dell’esule all’annuncio della vittoria; e


mi ridussi a casa meno triste –, e ne parlai a mia madre, destandola per la
lieta notizia.

Quanti voti ti vennero, allora, da cuori memori!

Tuo aff.mo
Antonio della Porta.

Dalla lettera è possibile inferire, innanzitutto, che essa si


configura come una risposta a qualche sollecitazione venuta dallo
stesso Antona-Traversi (come si arguisce facilmente esaminandone
l’inizio). Va ricordato, per comprendere meglio i motivi che possono
aver legato della Porta all’Antona-Traversi, che il drammaturgo
lombardo fu assai apprezzato, nella veste di studioso e di “editor” di
fonti, dal Carducci, che – come emerge dagli epistolari – “faceva gran
conto” delle sue pubblicazioni soprattutto perché l’Antona-Traversi
medesimo, più che per le sue posizioni critiche (spesso non degne di
nota), era considerato un vero segugio nello scoprire testi inediti della
letteratura medioevale nostrana. Nella lettera, in cui Antonio riveste
gli insoliti panni del critico teatrale, emergono due soli elementi degni
di nota: il primo è rappresentato dall’esplicito paragone che della
Porta instaura tra l’Antona-Traversi e Aristofane, una vera e propria
iperbole elogiativa che denunzia un eccesso di confidenza con
l’autore, e che a stento è ridimensionata – è il secondo punto –
dall’osservazione critica secondo cui “[…] gli episodj, da cui balza
vivo e grande il protagonista, non sono tutti di egual rilievo e di
eguale verità scenica. Questa impressione, che se ne ha alla fine del
lavoro, nuoce alla ragionevolezza della favola di costume, che tu hai –
ripeto – ideata con arguzia e furore greci […]”. Sicché dunque, alla
domanda se sia esistito un della Porta critico teatrale, bisogna
rispondere un reciso no, neppure implicitamente, e forse l’unico
123

elemento degno di nota appare quel finale cenno alla madre: “ […]
Uscendo di teatro, io pensai la gioja dell’esule all’annuncio della
vittoria; e mi ridussi a casa meno triste –, e ne parlai a mia madre,
destandola per la lieta notizia. Quanti voti ti vennero, allora, da cuori
memori! […]”. Queste ultime frasi lascino pensare che la conoscenza
tra il della Porta e l’Antona-Traversi non si limitasse ai soliti contatti
ufficiali o epistolari, ma fosse più stretta, una frequentazione familiare
che coinvolgeva anche la figura diafana, ma non meno importante,
della madre del poeta.
A parte questa insolita fonte, nient’altro emerge dal calderone
storiografico, non occupandosi il della Porta di drammaturgia in
nessuno degli articoli reperti sulle riviste del tempo, e soprattutto in
seguito, come se l’oblio in cui cadde l’artista ebbe riflessi anche, a
quanto pare, sulla sua attività di critico militante, pur sperimentata
con successo, come s’è visto, negli anni della giovinezza.

APPENDICE: CANZONI SCELTE

IL DATO METRICO

1. Gli schemi catalogici della poesia dellaportiana


Nella disamina generale delle liriche dellaportiane, anche se si
volesse seguire un criterio catalogico, bisognerebbe comunque
sottolineare un dato di fatto importante: al di là dell’ovvia e già
rilevata suddivisione implicita tra produzione in sesta rima e
versificazione diversa, va sottolineata una seconda ripartizione, quella
tra liriche composte per occasioni liete (in particolare matrimoni) e
liriche d’ispirazione personale, amorosa o generica. Ben tre
pubblicazioni (le Canzoni di Guidon Selvaggio, Ballata a la maniera di
124

Guittone d’Arezzo e Numeri) sono state composte come omaggio per le


nozze di cari amici del della Porta 177 e questo lascia pensare che il
classicismo dello scrittore montazzolese fosse assai più vicino ad
esempi già visti nella poesia arcadica e in particolar modo
settecentesca, soprattutto in riferimento a quelle scuole poetiche
d’ascendenza oraziana che popolarono la nostra penisola durante
tutto il secolo diciottesimo e, almeno in parte, all’inizio del secolo
diciannovesimo. Si tenga presente, in premessa, che ascendenze
oraziane sono ovviamente presenti anche – a livello tematico – nel
Carducci178: esse vanno intese non solo come naturali estroflessioni del
suo impegno classicistico, ma in particolar modo come atmosfere
paesistiche e bucoliche assai vicine a certe suggestioni che erano
presenti, appunto, nella poesia di genere sbocciata nelle Marche e
nell’Emilia Romagna del Settecento. In quest’ottica, anche il dato
177
“Queste canzoni di Guidon Selvaggio manda alle nozze dell’amico
Giuseppe Gotti con la signorina Giulia Becchetti oggi che sono Li II di
Febbraio MDCCCXCIX Antonio della Porta” (e cfr. A. DELLA PORTA, Tre
Canzoni di Guidon Selvaggio, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 1899, p. 1).
La Ballata a la maniera di Guittone d’Arezzo (Bologna, Zamorani & Albertazzi,
1891) venne scritta per le nozze tra Pompero Goretti e Jenny Callari. Quanto a
Numeri (e cfr. IBID., Numeri, Trani, Vecchi, 1894), il volume venne offerto
all’amico Orazio Spagnoletti (e vedi infra), in occasione delle sue nozze con
Maria Perfetti.
178
A livello esemplificativo, cfr., su tali argomenti, F. MATTESINI, “Carducci tra
Properzio, Orazio, Virgilio. Tre generi di poesia, una cultura”, in AA.VV.,
Letteratura fra centro e periferia: studi in memoria di Pasquale Alberto De Lisio , cur.
G. PAPARELLI – S. MARTELLI, Napoli, ESI, 1987, pp. 859 – 867; G. CALORÌ,
“Orazio e Carducci”, in AA.VV., Orazio e la letteratura italiana, Roma, Istituto
Poligrafico e Zecca dello Stato, 1994, pp. 469 – 488 (ma vedi anche, nello stesso
volume e sul versante della metrica) G. MANCINI, “L’imitazione metrica di
Orazio nella poesia italiana”, ivi, pp. 489 – 532, con citazione della metrica
barbara del Carducci alle pp. 514 – 532; e (per quel che concerne il già
menzionato Fantoni), pp. 497 – 499 e passim. Si veda pure A. IURILLI, Orazio
nella letteratura italiana: commentatori, traduttori, editori italiani di Quinto Orazio
Flacco. Dal XV al XVIII secolo, Roma, Vecchiarelli, 2004.
125

metrico – dissonante rispetto all’ipotesi, perché di certo strutturato


secondo esempi cari alla lirica provenzale e italiana delle origini – può
trovare qualche residua somiglianza nell’uso della canzone libera
sotto forma di ode, sull’esempio di talune produzioni classicistiche e/o
protoromantiche come la già citata Ode al Bonaparte liberatore del
Foscolo179. È però evidente che, soprattutto nelle Canzoni, l’esempio
che maggiormente si avvicina ai testi dellaportiani è, ma non sempre e
non precisamente, quello del Leopardi; la canzone libera leopardiana
vede un netto prevalere degli endecasillabi irrelati sui settenari, il cui
ristretto numero rende assai complicato ridurre – nel caso specifico –
le canzoni del della Porta agli “specimen” codificati da Petrarca.
L’utilizzo poi di tutta la congerie di forme metriche antiche, secondo i
dettami di quello che W.T. Elwert ha acutamente chiamato “arcaismo
metrico storicizzante”180, inserisce di nuovo il della Porta nel solco
delle contro-innovazioni portate avanti, ad esempio, dal D’Annunzio
dell’Isotteo, con un virtuosismo formale che però, nel caso del
montazzolese, non può e non potrà mai essere ricondotto agli esempi
esotizzanti del parnassianesimo. Sicchè le canzono composte dal della
Porta possono essere ascritte, talvolta, agli schemi della ballata (come
nel caso delle secvonda, “Ave. Del gesto delle cristiane”, la quale si
compone di otto strofe di endecasillabi con un settenario inserito al
decimo verso d’ogni strofa più un congedo, con schema metrico
ABCABCCDEeDFGHHGFFII), altre volte variare secondo un sistema
di stanze isomorfe senza l’inserimento di un congedo (come la prima,
“Se questa casa non è nostra ancora”, dove si riscontrano cinque strofe
di endecasillabi e settenari variamente alternati, con schema metrico

179
Sulle forme metriche settecentesche, devesi vedere principalmente R.
ZUCCO, Istituti metrici del Settecento. L’ode e la canzonetta, Genova, Name,
2001, dove si possono reperire taluni schemi metrici significativamente vicini
a quelli usati dal della Porta.
180
Cfr. W.T. ELWERT, “Lo svolgimento della forma metrica della poesia lirica
italiana dell’Ottocento”, in IBID., Saggi di letteratura italiana, Wiesbaden,
Steiner, 1970, p. 30.
126

ABCABCdEFfEE), senza parlare delle solite sestine presenti nella


seconda parte del volume. Volendo riassumere, è possibile dire
questo: la canzone dellaportiana non possiede modelli fissi se non
interni ad ogni singolo componimento (e s’è detto che in ciò egli
ricalca, ma senza imitarla mai pedissequamente, la canzone libera di
tipo leopardiano), operando una “variatio” tra paradigmi continui che
appare tipica anche di altri testi del montazzolese, come ad esempio
Numeri, dove si susseguono ben otto tipologie metriche diverse, con
una sola ripetizione non consecutiva181. Questo uso abbastanza libero,
pur nella costrizione di singole e determinate partizioni metriche, è
tipico di tutte le opere del della Porta, fatta eccezione – “repetita
juvant” – dei tomi composti esclusivamente da sestine. si noti, a
margine, il caso di Modi antichi: la strutturazione del testo è
curiosamente assai simile a quella di Numeri, e questo farebbe pensare
che la predilezione dello scrittore per il già menzionato schema di
“variationes” create utilizzando “Leit-motive” continui sia abbastanza
definita e a lui attribuibile con definita certezza. In questa sede sarà
opportuno proporre una tabella in cui mostrare come tali parallelismi
si esplicano nel complesso della suddivisione compositiva, in modo
che la comparazione risulti utile sia in funzione chiarificatrice, sia per
mostrare, a livello esemplificativo, quelli che si potrebbero definire gli
schemi catalogici propri del della Porta:

MODI ANTICHI NUMERI

1) madrigale 1) madrigale
2) “ceciliana” (tre “coblas 2) “ceciliana”, uguale alla sua

181
Rispettivamente madrigale, “ceciliana” (tre “coblas capfinidas” monorime
di endecasillabi, più un singolo verso di congedo), sestina (ripetuta due volte),
ballata (di endecasillabi e settenari misti con rima ABBACdECdEEFFA),
sonetto guittoniano, stanza monostrofica, canzonetta e “napolitana” (breve
canzone villanesca composta da quattro distici di endecasillabi rimati
AB/AB/AB/AB).
127

capfinidas” monorime di gemella


endecasillabi, più un singolo
verso di congedo)
3) Sestina (ripetuta tre volte) 3) sestina (ripetuta due volte)
4) Ballata (apparentemente di 4) ballata (apparentemente
due stanze, sia pure con parte monostrofica, per le stesse
del testo “in recto” con punto ragioni della sua gemella, con
finale, delle quali una di soli punto finale, composta di
endecasillabi con rima ABBA e endecasillabi e settenari misti con
l’altra composta di rima ABBACdECdEEFFA)
endecasillabi e settenari misti
con rima CdECdEEFFA)
5) sonetto 5) sonetto guittoniano182 (o
rinterzato di settenari, con
schema rimico AaBAaB/
AaBAaB/CcDdC/DdCcD)
6) stanza monostrofica
6) canzonetta di quattro stanze 7) canzonetta, uguale alla sua
con distici d’introduzione e gemella
congedo, con schema rimico
AA/BCBCCD/FGFGGD etc.
7) “napolitana” (breve canzone 8) “napolitana”, uguale alla
villanesca composta da quattro gemella
distici di endecasillabi rimati
AB/AB/AB/AB)

Come si può vedere, esiste una perfetta “coincidentia


numerorum” (nove composizioni in ognuno dei due volumi), che –
con l’ovvia eccezione del prosimetro Minareti in cui pure si
reperiscono quattordici liriche – trova consonanze in un altro
182
Il della Porta ebbe una certa predilezione per il sonetto rinterzato, tant’è
che ne sono presenti ben quattro nel volume La bella mano (cfr. A. DELLA
PORTA, La bella mano, pp. 7, 9, 11, 13).
128

parallelismo, quello tra le Sestine e le Canzoni, dove il rapporto è di


quindici su quindici. Deviante rispetto all’ipotesi precedente è,
senz’altro, il più ponderoso La bella mano, dove i componimenti inclusi
raggiungono il numero di trentatre183. Si può dunque affermare che il
della Porta, per quel che concerne la forma-libro, amò strutturare i
propri testi in modo variabile, inserendo in essi, in linea generale, da
un minimo di otto a un massimo di quindici componimenti,
utilizzando la varianza formale solo per quel che attiene il numero e la
diversificazione delle tipologie metriche e strofiche, ma risultando
abbastanza tradizionale quanto al rispetto degli schemi ritmici
presenti nei singoli componimenti. Quest’ultima osservazione vale
anche per le Canzoni, ovviamente considerando il termine
“tradizionale” come applicabile anche al grande esempio del
Leopardi.

183
Si tenga presente che, non contando testi finora non reperti, si sono trovate
tre sole composizioni non raccolte in volume: la “Sestina del primo mattino”
apparsa sulla Nuova Rassegna del 30 agosto 1894 (a. II, n. 27), la “Sestina della
madre terra”, edita sul Convito, a. I, fasc. 5 (1895), p. 343; “Il quartiero
oscurato”, sestina pubblicata – con il nome di Ettore della Porta, forse per un
refuso – sul Marzocco, 22 maggio 1898, p. 1; e “In morte di Gaetano Manaresi”,
elogio funebre alla memoria d’un compagno di corso prematuramente
scomparso (in Battaglia bizantina, anno III (1889), n. 24, p. 4). Si noti che il della
Porta ebbe a pubblicare anche un opuscolo contenente una singola ballata (e
cfr. A. DELLA PORTA, Ballata a la maniera di Guittone d’Arezzo, Bologna,
Zamorani & Albertazzi, 1891), il che porterebbe il numero complessivo delle
liriche dellaportiane note a superare la cinquantina.
129

I.

SE QUESTA CASA NON È NOSTRA ANCORA184

Se questa casa non è nostra ancora,


Madre, e tu guarda: i muri bianchi ostili185
Nereggiano qua e là di qualche tela
Antica nostra; l’avo si scolora
Ogni dì più tra i cromi ardui sottili
Di gravi pergamene e non disvela,
Per lume di candela
Che vigili costante sulle dotte
Veglie186, sì lunghe, del lontan nipote,
184
Pubblicata per la prima volta – senz’alcuna variante – sulla Vita Italiana, a.
II, fasc. X, 10 luglio 1896, con il titolo “A mia madre, la lirica porta come data
di composizione il 6 luglio 1896, p. 304. Nel volume delle Canzoni essa appare
a pp. 16 – 13. La poesia descrive la magione avita, a Montazzoli, che il della
Porta dovette lasciare per le motivazioni economiche di cui s’è detto.
185
Cfr. L.V. SAVIOLI, Annali Bolognesi, vol. III, part. I, Bassano MDCCLXXXXV,
p. 470: “I nostri Legati, che osarono di minacciarla (sc. la guerra) in Forlì,
ritornarono vituperati, e lo sdegno potè a maniera, che l’oste de’ Bolognési col
seguito degli ausiliarj comparve improvvisamente a San Bártolo a vista de’
muri ostili” (il Savioli, poeta e storico bolognese vissuto tra il 1729 e il 1804,
ripete il lemma anche un’altra volta).
186
Cfr. I Secoli dellla letteratura Italiana dopo il suo Risorgimento. Comentario di
Giambattista Corniani continuato fino all’età presente da Stefano Ticozzi, 2 tt.,
Milano, coi tipi di Vincenzo Ferrario, 1833, p. 161: “Queste dotte veglie si
chiudevano con dilicato simposio, […], condito da gioviali e sensate
disputazioni, rinovando così il costume degli antichi dipnosofisti […]”; ma cfr
anche Rivista viennese, anno secondo, tomo IV, Vienna, 1839, dal negozio di libri di
Tenler e Schefer, p. 300, tenendo conto che il passo in questione è tratto da una
traduzione di G.B. Bolza del Wallenstein del poeta tedesco, amico di
Eichendorff, Josef Christian Von Zedlitz, su cui vedi C.D.F. VON ZEDLITZ-
NEUKIRCH, “Josef Christian Freiherr Von Zedlitz. Leben und Schaffen einel
Schulkameraden Eichendorffs”, in Aurora. Eichendorff Almanach, 29 (1969), pp.
130

Ahi, le cagioni ignote


Che tutte ebber le tue speranze rotte187,
Madre, che intanto piangi nella notte.

Ti fere, in sul mattino, il primo sole188


E pio tenzona con le tarde nevi
De’ tuoi capelli, operatrice santa;
Mattinano le tue prime parole
II buon figliuolo, pronto, chè si levi
Alla milizia ch’egli sa cotanta:
Córrevi incontro e canta,
E l’accompagna il limpido sorriso
Che sulle labra fresco ti rinasce

70 – 91: “[…] Tu nelle dotte veglie il ciglio immoto/ Nello stellato firmamento
intendi,/ E de’ remoti soli e de’ minor/ Erranti fochi spiando le arcan/ Ruote
fatali , d’indagar confidi/ Se sventura o favor t’indica il fato […]”. Vedi anche
Prediche del signor Abate di Cambaceres Predicatore del Re Canonico Arcidiacono
della Chiesa di Montpellier tradotte dal Sacerdote Sante Rossi sopra l’Originale della
Seconda Edizione dedicate all’Illustrizzimo e Reverendissimo monsignore Carlo
Emanuele Sardagna Vescovo di Cremona, 2 tt., Cremona, dalla Tipografia Manini,
1831, , in part. t. II, p. 179: “Per glorificare questa divina parola i martiri
salirono sopra le cataste e sopra i patiboli; per pubblicarla gliu apostoli
trascorsero e terre e mari dall’uno all’altro confine dell’universo; per
meditarla gli anacoreti vissero nel silenzio e nella solitudine dei deserti; per
illustrarla i scari interpreti consacrarono le loro dotte veglie e le fatiche
dell’ingegno […]”.
187
Cfr. L. ARIOSTO, I cinque canti, c. IV, ott. XLIV: “Quanti anni sien non saprei
dir, ch’io scesi/ in queste d’ogni tempo oscure grotte:/ che qui né gli anni
annoverar né i mesi,/ né si può il dì conoscer da la notte./ Duo vecchi ci trovai,
dai quali intesi/ quel da che fur le mie speranze rotte:/ che più de la mia età ci
avean consunto,/ et io gli giunsi a sepelire a punto.
188
È una citazione evidentissima dal Passero solitario di Leopardi (vv. 39 – 43,
in part. v. 41): “[…] Indugio in altro tempo: e intanto il guardo/ Steso nell’aria
aprica/ Mi fere il Sol che tra lontani monti,/ Dopo il giorno sereno,/ Cadendo
si dilegua […]”.
131

Dal dì che tra le fasce,


Cred’io, vedesti, o lieta madre, il riso
Dell’universo accolto nel mio viso.
Ricercano le poche umili stanze189
Da mane a sera, gravi oggi e sì lenti,
I passi che un di corsero leggeri
La casa ricca di tutte abondanze:
D'onde spirai, fanciullo, con ardenti
Impeti, i modi disdegnosi alteri,
Che non fatti men fieri
Dai colpi per cui, madre, anco ti accori,
Dispongon già, per tempo ch’è vicino,
Un tuo miglior destino,
O nata a dolorar tutti i dolori,
Alta la fronte, onor di vincitori.

Solo una pietra, insigne monumento,


Recastimi dai luoghi e dalle terre
Nostre una volta: quella, per tant’anni
Sostenitrice senza mutamento190,
Fossero paci o rompessero guerre191

189
Cfr. Gli Atti dell’Accademia delle Scienze di Siena, detta de’ Fisio-Critici, Tomo
IX, Siena 1808, dai torchi di Onorato Porri, con Licenza de’ Superiori, p. 148:
“Annesso a questa Chiesa esiste ancora un’angusto (sic!) conventino di poche,
ed umili stanze; abitato una volta dai Religiosi Serviti; oggi da un romito
custode […]”.
190
È espressione presente nel Purgatorio di Dante, (c. XXVIII, vv. 7 – 9):
“Un’aura dolce, sanza mutamento/ avere in sé, mi feria per la fronte/ non di
più colpo che soave vento […]”.
191
F.D. GUERRAZZI, Lo assedio di Roma, Livorno, Zecchini, 1864, p. 121: “Intanto
questo è il primo predicato del Vangelo, che i sacerdoti di Cristo non solo
devono procedere immuni da qualsivoglia dominio il quale ingerisca
necessità di rompere guerre, e mettere mano nel sangue, ma ed anco da
possedimento terreno […]”.
132

Ridesser gioie o gemessero affanni


Per letizie o per danni,
Di ròcchi annosi che sul focolare
Crepitavano in fiamma ilare e grande;
E, intornovi, ghirlande
Di rose, in ordin duplice, a guardare
Tutti i nepoti, e la nonna a filare.

Quella vorrò, mentre che la vicenda


Da tanto centenaria ne ripinga
A, gradi e segni nobili e nativi,
Che, ritornata al prisco officio192, splenda
Lare fedele, e a sè chiami e restringa
Quelli di nostro sangue ultimi vivi.
Veggano i tuoi giulivi
Occhi, al chiaror dell'inclita fiammata193
192
Cfr., in un contesto di studi grammaticali ed eruditi, un “prisco officio di
consonante” in Dissertazione Storico-Critica di Michele Angelo Lanci Romano sugli
Omireni e loro Forme di Scrivere trovate ne’ Codici Vaticani, Roma, presso
Francesco Burlié, con permissione, 1820, p. 132.
193
Il lemma, in forma leggermente diverza ma sostanzialmente analogo,
appare nelle Rime di Tasso (forse letto in Le Opere di Torquato Tasso raccolte per
Giuseppe Mauro. Volume Primo, In Venezia, MDCCXXVII, Presso Carlo
Buonarrigo, Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio, p. XXVII: “[…] Usa è a
veder la faccia/ Di cose avverse, e a vincerle l’infiamma/ Quella onde cita scese
entro le membra,/ Celeste inclita fiamma,/ Di cui non scemò dramma […]”;
poi, su evidente ispirazione petrarchesca, in Poesie varie di Angelo Talassi. Tomo
Primo, In Venezia, MDCCLXXXIX, Presso Antonio Zatta, Xon Licenza de’
Superiori, p. 256: “[…] Inclita fiamma onesta/ Ne’ saggi cuori avvampi,/ Ne
l’orme Amor vi stampi, Cui benda gli occhi un vel […]” (vedi anche,
certamente in ambiente arcadico emiliano, ma senza che si potesse identificare
la fonte, i seguenti versi sepolcrali: “[…] Col zelo ancor d’inclita
fiamma adorno,/ Mira ch’or l’empie e la mestizia e il duolo,/ Né qui più
avvien ch’altro di te risieda,/ Che il bel vanto dell’opre e il nome […]”). Vedi
anche, infine, L’Odissea della Donna di Tullo Massarani, Roma, Forzani e C,
133

Di nostra gente, i superstiti volti


Che il ceppo abbia raccolti,
Dopo tant’ora di tanta vernata
Forse ad un’ora di pace, beata.

II.

AVE. DEL GESTO DELLE CRISTIANE194

Ave. Del gesto delle cristiane,


Te contemplando affettuosi gli occhi
Dei dolci amici che ospiti ti addussi195,
Madre, alla mensa natalizia, tocchi,
Pietosa donna196, la mia fronte. Piane
Rompon le voci nuove, ch’io condussi
Nel tuo silenzio: onorano inconcussi
Latinamente gli atti della fede

Tipografi del Senato Editori, MDCCCCVII, p.. 34: “[…] O Forte eccelso, o
Forte!/ […] E, correndo, sul culmine già sale,/ Ove un guerriero vale/ Ode
tuonar da innumera coorte/ – O mio diletto! In campo/ Morrai. Per te d’inclita
fiamma avvampo […]”
194
Allo stato, non esistono apparizioni di questo componimento antecedenti
all’edizione delle Canzoni del 1900. La lirica, tutta giocata su movenze
neoclassiche e petrarchesche, descrive il rientro a Montazzoli del poeta, e il
pranzo natalizio allietato dalla presenza dei suoi più cari amici e della madre.
È anche un pretesto per una melopea struggente sull’infanzia idillica e quasi
bucolica trascorsa dal poeta nel suo paese nativo.
195
Il verbo pare avere una vaga origine montiana (e si veda il noto “incipit”
della traduzione dell’Iliade d’Omero, dove si legge di una “ira funesta che
infiniti addusse/ lutti agli Achei […]”).
196
Il binomio verbale è d’ovvia origine dantesca, basti pensare alla canzone
“Donna pietosa e di novella etate” e ad altri noti contesti della Vita Nova e
delle Rime.
134

In che tu credi. Il tenero consenso


Dei nuovi cuori un senso
Di antica pace, o d’ogni danno erede
Eroica, diffonde per gli alterni
Tondi, ove fuma la vivanda. I visi
Ridono alterni alla tua vista, nuovi
Vólti ed antichi: guardi, e mi ritrovi
Starti di contro, insolito. Io commisi
La vecchia madre a spiriti fraterni197:
Siedi tra gale di abiti moderni
Tu che ti avesti, o nobile signora,
Vanto di bella, alla lontana aurora.

Quando dal bosco ti venìa la caccia


Resa in omaggio, tutta la campagna
In questa notte si accendea di fuochi
Rossi: ne dava scarsi la montagna;
Ma dalla valle ne saliano in traccia
Lunga: e ispessa va al sovvenir198 dei pochi
Anche dispersi, cui giungeano fiochi
Porse i richiami della pia campana.
E ciascun fuoco, di una sua fumosa
Chioma, per la petrosa
Costa, rigava, nuvolaglia strana,
La tanta neve ombratasi di azzurro
Sotto le stelle. L’alacre pastore
Aveva estrutto, al rituale incendio,

197
Citazione da un verso della Francesca da Rimini del Pellico (a. IV, sc. III, e
cfr. Tragedie ed Altri Versi di Silvio Pellico da Saluzzo, Parigi, Baudry, Libreria
Europea, 9, Rue du Coq, prés le Louvre, 1835, p. 47): “Ah, pace,/ O esacerbati
spiriti fraterni!”.
198
“Sorvenir”, nel testo.
135

I giganteschi fasci199, ove, a compendio


Di degna vita, rendevan splendore
Qual per fervente resina, sussurro
Da flauti dolenti e un verdazzurro
Pio d’orifiamma200, quelle, che la vite
Ressero opima, canne svigorite.

Scende la neve e in turbine volteggia


Nel dolce cuore: del più dolce clima
Tu non ti allieti, ben che il sangue stanco
Se ne conforti. Vedi tu la cima
Del campanile, spulezzata reggia
Vaga ai colombi? e, dal sinistro fianco,
199
Il rituale descritto dal della Porta (che ambienta la sua lirica proprio nel
periodo natalizio) è probabilmente riconducibile a una festività simile a quella
delle Farchie (dall’arabo “afaca”, torcia o fascio di canne), che si festeggia il 16
gennaio nella località abruzzese di Fara Filiorum Petri. Le farchie sono dei
grossi fasci di canne legati ad arte, manualmente, con rami di salice rosso.
Hanno una consistenza di circa un metro di diametro e circa otto metri di
lunghezza. L’evento leggendario che sembra essere alla base del rito
consisterebbe in un miracolo compiuto da Sant’Antonio abate durante
l’invasione francese del 1799. Secondo il racconto popolare Sant’Antonio
apparve alle truppe francesi, che volevano entrare a Fara, e trasformò le
querce che circondavano il paese in fiamme, costringendo alla fuga i soldati. I
faresi, il giorno prima della festa del santo (che cade appunto 17 gennaio) e
poco prima del crepuscolo, compiono una processione con grandi fiaccole
formate appunto da canne intrecciate. Non si hanno notizie su riti consimili
nell’agro di Montazzoli, ma è possibile che essi siano stati perduti o siano
caduti in disuso all’inizio del secolo ventesimo, proprio perché superati dalla
festa di Fara. Su questo, cfr., definitivamente, G. TARDIO, Le farchie di Fara
Filiorum Petri e della zona abruzzese-molisana, SMiL, Foggia, 2009, passim, ma
senza alcun cenno a cerimoniali di tal genere associati a Montazzoli.
200
L’Orifiamma era lo stendardo del Re di Francia e aveva colore rosso o
arancione rosso. Qui sta a identificare, con il verdazzurro del verso
precedente, uno dei diversi stadi di maturazione della vite.
136

La natìa casa1 ove, diritto e bianco,


II padre tuo, l’avo possente, vive
Centenario solenne? Egli le ciglia
Severe201 nella figlia
Dedusse aggentilì compose attive
A un mesto riso; e non ti aveva al pianto
Egli creata, che oggi ti verrebbe
A benedire: ai passi del vegliardo
Farìa la strada, tra la neve, il tardo
Gettito della pala, se più crebbe
L’ingombro ed eguagliò, candido manto,
Vicoli e clivi: tu, se avessi intanto
L’aspra persona202, d’oltre i vetri, scorta
201
Cfr. Stanze di Messer Angelo Poliziano per la Giostra del Magnifico Giuliano di
Piero de Medici illustrate per la prima volta con note dall’Abate Vincenzo Nannucci
del Collegio Eugeniano di Firenze, Firenze, 1812, nella Stamperia di Giuseppe
Magheri e Figli, p. XV (l’espressione è nell’introduzione del Nannucci):
“Come non ponderannosi tosto il barbaro piacere di speculare con la più
scrupolosa attenzione […] se sia la dicitura polita, se aggiustate le sue
maniere, se propria l’acconcezza dell’espressione? Come non aguzzeranno in
esso le ciglia severe […] per invenirvi ogni benché minimo difetto per poi
meritarne trionfo?”. Cfr. anche Salterio Davidico Parafrasato in Versi lirici
Toscani da Pasquale Margolfo, voll. VI, Napoli, dai tipi di Giuseppe Cioffi, 1834,
in part. vol. III, p. 81: “Ma perché di me misero intanto/ Non ascolti le ardenti
preghiere?/ Perché volgi le ciglia severe/ E non senti pietà del mio duol?”;
“[…] Rinaldo, […] stretto di nuovo il pugnale si guardò attorno con ciglia
severe […]”; e La Battaglia di Benevento, Storia del Secolo XIII. Scritta dal Dottore
F.D. Guerrazzi, voll. IV, Livorno, presso Bertani Antonelli e C i all’insegna del
Palladio, 1827, in part. vol 4, p. 43: “Rinaldo, […] stretto di nuovo il pugnale si
guardò attorno con ciglia severe […]”; e infine Esopo, poema gioioso in canti XII,
in Venezia, per il Picotti editore tipografo, 1828, 2 tt., in part. t. I, p. 57: “E
quivi si venia per osservare/ Se gli schiavi faceano il lor dovere/ Zena, che tal
nomavasi, e a girare/ Si messe intorno con ciglia severe […]”.
202
È espressione rinvenibile in vari “loci” umanistici e rinascimentali. Da
segnalare nella Marfisa di Pietro Aretino (c. I, ott. 76, e cfr. P. ARETINO, Poemi
137

Venire a te, staresti su la porta.

Tu parli: ascoltan gli ospiti la chiara


Favellatrice203, semplice, narrare
Il caro tempo: guida cittadine
Orme204 su a monte; ed ammonisco errare,
Quando la cacci fame di Lupara,

cavallereschi, cur. D. Romei, Roma, Salerno, 1995, p. 47: “Gigante era Melegro e
la sembianza/ ha gigantea e così il cuore e ‘l volto,/ e qual ciascun d’aspra
persona avanza,/ così è più d’ogn’altro audace e stolto./ – Gran tempo è già –
diss’ei – ch’ebbi speranza/ salir là sù per veder Marte <‘n> volto/ e con l’arme
provar al vile dio/ chi più degno è del cielo, o egli o io […]”); e nel Morgante di
Pulci (la fonte probabile della citazione della portiana in Poemi Romanzeschi.
Morgante maggiore, Orlando Innamorato, Ricciardetto, Milano, per Niccolò
Bettoni, MDCCCXXX, p. 89: “Non voleva il pagan per riverenza,/ ma poi per
riverenza anco l’accetta./ Vanno parlando della gran potenza/ di quella aspra
persona e maladetta./ Diceva il mamalucco: – Abbi avvertenza/ che la sua
branca addosso non ti metta. –/ Rinaldo rispondea: – Tu riderai,/ché maggior
bestia son di lui assai. […]”).
203
Termine medioevale, attestato per la prima volta in Boccaccio (Corbaccio,
142), e cfr. Vocabolario degli accademici della Crusca, Quarta impressione.
All’altezza reale del serenissimo Gio. Gastone Granduca di Toscana loro Signore,
Firenze, appresso Domenico Maria Manni, 1729 – 1738, voll. VI, in part. vol. I,
“ad. voc.”.
204
Non esistono antecedenti, ma tuttavia val la pena ricordare l’unica paredra,
presente in un volume di liriche giovanili del Bontempelli, il quale ebbe un
periodo classicista e carducciano, poi rinnegato, e fu in certo qual modo
allievo di quel Adolfo Albertazzi che figurava tra gli amici più cari del della
Porta. Su ciò vedi la voce di Alberto Asor Rosa in
www.treccani.it/enciclopedia/massimo-bontempelli_(Dizionario-Biografico),
ult. cons. 1 maggio 2013: “[…] Ma rivi e marghi a te son cose acerbe,/ Né mai
segnate ai prati freddi e molli/ Hai tu le cittadine orme superbe,// Né ti è noto
il vaporar dei colli/ Nei velati mattini, e la rugiada/ Gocciante in vetta ai fragili
rampolli […]”, in Egloghe di Massimo Bontempelli, Torino – Genova, Editori
Renzo Streglio & Comp. 1904, p. 76.
138

Belva, pel borgo; ed ore mattutine


Suscita fresche e fulgide al confine
Tra bosco e bosco, ove a l’abete il faggio
Paterno indulge: denso verde vago
Anfiteatro a un lago:
E dalla riva, chi proclami un saggio
Verso, di tutte sillabo rià
L’alta sentenza in pause, da tre
Echi di quelle verdi chiostre, più
E men distinte, se del verso fu
Più o men largo il passo. Ella ver me
Volgesi e chiede che tal verità
Adorni io di un esempio; ella che sa
Quante tre volte quell’eco mi suona:
“Amor che nella mente mi ragiona.”205

Quegli che l’alba vide, giovinetto,


Della mia vita meditante206; e l’altro
Che ne avvisò la norma al novo frutto:
Mentre che parli, spesso, di uno scaltro

205
La citazione della canzone dantesca viene a proposito, sia per l’implicito
rimando all’episodio di Casella nel canto II del Purgatorio, sia perché essa è
tratta dal Convivio, e dunque la sua menzione era ritenuta giusta in un
ambiente conviviale (e d’intellettuali che gravitavano attorno alla rivista quasi
omonima!), quale quello descritto.
206
Cfr., in riferimento al Canova, Nuovo Giornale de’ Letterati, t. III, Pisa, presso
Sebastiano Nistri, MDCCCXXII, p. 274 (qui appare anonimo, ma è
probabilmente dovito alla penna di Isabella Teotochi Albrizzi, e vedi Opere di
Scultura e di Plastica di Antonio Canova Descritte da Isabella Albrizzi nata Teotochi,
tomo I, Pisa, presso, Niccolò Capurro co’ caratteri di F. Didot, MDCCCXXI,
con pedissequa citazione dello stesso passo a p. 82, illustrando la statua di
George Washington): “Il decoro della sua attitudine non può essere maggiore,
né più meravigliosa la vita meditante che spira […]”.
139

Riso207 benigno accennamni. L’aspetto


Ti si colora ed ànima di tutto
L’aer dipinto cui con ciglio asciutto
Guardi e ripensi. A quattro fiamme luce
Ancor l’antica lampada di argento.
Cui non più l’alimento
Una tua terra fertile produce.
Quando, ai bei dì, mandavi in chiosa questa
Con altre ricche lampade, votiva
Dei tuoi pensieri a placar l’Ombre, l’olio
Che tu sempre ricordi onde ti duoli, o
Madre, era già stato matura oliva
Di su alberi tuoi, dentro la cesta
Di giunco: e il mulo, cieco per molesta
Benda, girato nel frantoio in tondo
Aveva un mese: il doglio era profondo.

Ma tu racconti le ore in che, tra carte

207
Cfr., per la probabilissima citazione, Antologia Romantica Raccolta per Opera
di F.D. Guerrazzi, Livorno, tipografia Tignozzi, 1830, p. 249 (la menzione è
tratta dalla novella “Maltraversi e Scacchesi” di Carlo Tedaldi-Flores, e vedi
Romanzi Poetici di C. Tedaldi-Flores, Cremona, co’ tipi del Feraboli, 1820, p. 61;
si tenga conto che il Tignozzi ripubblicò lo stesso testo in Poesie Varie di Diversi
Autori, sempre nel 1830, a p. 127): “Me sol odi, se correggere/ Di Bologna aneli
il freno;/ Scaltro riso usa e veleno/ Nascondendo il tuo livor […]”. Si veda
pure Scritti in Prosa ed in Versi di Achille Monti, Vol. III, Edito a Cura dei Figli , in
Imola, tipografia d’Ignazio Galeati e Figlio, 1885, p. 108: “Di perigliosi balli/
Ivi l’arte s’impara, e guidar cocchi,/ Ed infrenar cavalli,/ E atteggiar la persona
e volger gli occhi,/ E fingere il pudor là dove è morto,/ E scaltro riso e favellare
accorto […]”; e Poesie del marchese Giuseppe Antinori, Pisa, presso Niccolò
Capurro, 1811, p. 120 (è parte della traduzione d’un idillio del poeta tedesco
Salomon Gessner): “Gelose invan spiegarono/ Lo scaltro riso, e invan/ Degli
ocelli e della man/ Fer cenno e invito:/ D’esse ciascuno immemore/ La Diva sol
mirò/ Finché a lor s’involò/ Sul curvo lito […]”.
140

Rapido scritte e libri di cui lente


Vedei le facce variar, venuta
Sei nella notte a rinnovar prudente
L’olio: che fosse alla lucerna e all’arte
Si liberale che della veduta
Il buon figliuolo avesse men battuta
La scarsa forza. Chi a valle guardò,
Bimbo, e non vide, quando tu indicasti
Salir, binati ai basti,
I barili del mosto? Ahi, chi sviò
Il caro orgoglio208 delle tue vendemmie
Dalle tue cure? Ora le vuote botti,
Vocàli, invano aspettan l’odorante
Copia dei franti grappoli209: e le tante
Prove dei nuovi solfi ebbersi motti
208
La citazione, da una canzonetta di Vincenzo Monti, viene quasi certamente
da Raccolta di Poeti Classici Italiani Antichi e Moderni, volume C, Milano, Dalla
Società Tipografica de’ Classici italiani, MDCCCXXXIV, p. 76 (poi ripresa in
Poesie varie di Vincenzo Monti, Milano, presso Giovanni Resnati,
MDCCCXXXXIX, p. 167, tenendo anche presente che al Monti l’accenno a sua
volta deriva da Cento Donne Cantate da Mutio Manfredi il fermo, Accademico
Innominato di Parma, al Serenissimo Principe di Parma, in Parma, Nella
Stamperia d’Erasmo Viotti, MDLXXX, p. 136: “[…] E chi non pere al vostro
caro orgoglio/ Di soverchia beltà seguace? E ‘l Nome/ Pur anco accresce
feritate al core […]”): “Delle Grazie e di Minerva/ Dolce studio e caro
orgoglio,/ Di bel ramo bel germoglio,/ Salve; e sempre arrida e serva/ Alla tua
beltà pudica/ La stagion de’ fiori amica […]”. Il binomio verbale ebbe poi
molto successo; tra i molti autori che lo citarono è bene ricordare il librettista
primo-ottocentesco Calisto Bassi nel Guglielmo Tell di Rossini, a. II, Scena
Prima: “Semplice abitator di questi campi,/ Di questi monti caro orgoglio e
speme,/ Sei tu sol che incanti il mio pensiero,/ Che il mio timor cagioni […]”. Il
testo, tradotto, era originariamente scritto in francese da Étienne de Jouy e
Hippolyte-Louis-Florent Bis. Sul Bassi, vedi l’anonimo articolo contenuto in
www.treccani.it/enciclopedia/calisto-bassi_(Dizionario-Biografico), ult. cons.
17 maggio 2013, con buona bibliografia.
141

Al primo tempo e suono di bestemmie!


Nè più le dita, madre mia, t’ingemmi e
Non, della mano, a seguitar la voce,
Sul fermentante vin segni la croce!

Pure, ne versa a questa mensa, amico


Dono di Adolfo fabro di romanzi210,
L’ospite Alberto211 e chiama la salute
Alla tua grave età. Pronti, d’innanzi
Ecco i bicchieri a te: gentile intrico212
Fan le protese braccia; e van perdute
Alcune gocce: il vetro rigan mute,
Indi rosseggian, spante, l’augurio.
E tu la lode, schiva ma felice,
Rendi a colui che dice:
“Beata, se nel verso v’infuturi, o

209
Cfr. Egloghe di Virgilio, di Calpurnio, di Nemesiano, del Petrarca e del
Sannazzaro volgarizzate dal Marchese Luigi Biondi romano, Roma, Tipografia
delle Belle Arti, p. 155: La state, che dechina, ancor non mitiga/ Del sol gli
ardori, benché i franti grappoli/ Già preme lo strettoio; e i mosti fervidi/
Rocamente gorgogliano e spumeggiano […]”. Ma vedi anche Cfr. Nuovi Canti
di Luigi Grippo, Potentino, Potenza, per Vincenzo Santanello, 1848, p. 17: “Qui
le ariste sui gambi spezzate;/ Pomi e rami qui a furia divisi:/ Là le piante
depresse troncate:/ Là bei fiori divelti succisi:/ Franti grappoli in erba […]”.
210
Si riferisce al poeta Adolfo De Bosis.
211
È probabile che qui il della Porta voglia alludere ad Adolfo Albertazzi, che
evidentemente non poteva essere citato con il suo vero nome essendo
omonimo del De Bosis.
212
Cfr., con qualche certezza, Nuovo Giornale de’ Letterati, Tomo Duodecimo,
Letteratura, Scienze Morali, e Arti Liberali, Pisa, presso Sebastiano Nistri,
MDCCCXXVI (ma l’originale in La Georgica de’ Fiori. Poema di A.M. Ricci,,
cavaliere del S. Ordine Gerosolimitano, Pisa, Tipografia Nistri, 1825) p. 71: “E
in qualche vaso con gentile intrico/ Effigiar quelle medesme fole/ Che
rispondon del fiore al nome antico […]”.
142

Donna Maria, questo diletto figlio213!”


Rilevi allora, in subita energia214
La cara faccia dove, in alpe neve,
Paion le bande dei capelli, al breve
Pallido lobo torte. “Così sia,”
Alto mirando all’Eterno Consiglio215,
Parli serena. Ma sul morto ciglio216
Luce una viva lagrima: la esilia
Dunque il destino dalla mia vigilia?

Notte silente! Ed io, che ti doloro


Unico desto nella casa, veggo
In tuo mistero, pavido, le forme
Della mia gente. Ancora ne posseggo
Qualche vestigio; ma vanio con loro
La favellante, in spirito conforme,
Virginea bocca217: la sorella dorme

213
Ovvia citazione paradisiaca dalla Consolazione di D’Annunzio.
214
Cfr., probabilmente, A. FOGAZZARO, Fedele ed altri racconti, Milano, Galli,
1897, p. 22: “Le ultime parole furono proferite da lui con una subita energia di
voce, con un aggrottar fiero di ciglia, con un gran gesto d’ambo le braccia
[…]”; ma vedi anche Due strade. Commedia popolare in tre atti di Ettore Dominici,
Milano, 1872, presso l’Editore Carlo Barbini, p. 48: “È vero... (con subita
energia) è tempo oramai! Andate nella mia stanza, pigliate con cura
Arriguccio, il mio scialle, ed il cappello […]”, dove però è solo in didascalia.
215
È di nuovo citazione dantesca, e vedi Purg., c. XXIII, v. 61; e Par., c. VII, v.
93 e – celeberrimo – c. XXXIII, v. 3.
216
Citato nella traduzione del Salvini dell’Idillio XXIII di Teocrito (e cfr.
Teocrito Volgarizzato da Anton Maria Salvini, Gentiluomo Fiorentino, in Venetia,
MDCCXVII, presso Bastian Coletti, con Licenza de Superiori, p. 109: “[…] il
sangue/ Scorre vermiglio sulla bianca carne./ Languisce l’occhio sotto al morto
ciglio;/ Dal labbro fugge il bel color di rosa […]”).
217
Cfr. Canti Orientali di Tommaso Moore, Traduzione del Cav. Andrea Maffei
(Seconda Edizione), Milano, presso i Fratelli Ubicini, 1836, p. 62: “Sulle mie
143

Lungi alla madre, d’oltre la Majella:


E spiccherebbe il fuso dalla rocca,
Reliquia non tocca
Se non da me, di tra i miei libri, snella.
Ma no: diserta tu la giovinezza
Non trarresti con me: certo la gota
Florida avrebbe dimandati i baci
Del dolce sposo: e le pronube faci218

braccia, e gli occhi, i tuoi begli occhi/ Levar senza terrore agli occhi miei!/
Och’io possa una sola unica volta/ Sfiorar d’un bacio la virginea bocca,/ O se
troppo richieggo, al suo profumo/ Appressar le mie labbra! […]”. Il binomio
verbale è menzionato anche nella Vita di santa Caterina da Siena del Razzi (e
vedi Vite dei santi e Beati del Sacro Ordine de’ Frati Predicatori, così Huomini, come
donne. Con l’aggiunta di molte vite, che nella prima impressione non erono. Scritte
dal R.P. Maestro Serafino Razzi dell’istesso ordine, e professo di San Marco di
Firenze, Con Licenzia de’ Signori Superiori, in Firenze, Nella Stamperia di
Bartolomeo Sermartelli, MDLXXXVIII, p. 72: “Da quel tempo, che meritò di
porre la virginea bocca a costato di Cristo, quasi continuamente l’anima sua,
quanto alla parte superiore, perseverava nella contemplazione […]”); e in
Biografia Mitologica ossia Storia, per Ordine d’Alfabeto, dei Personaggi dei tempi
Eroici e delle Deità Greche, Italiche, Egizie, Indiane, Giapponesi, Scandinave,
Celtiche, messicane, ecc. Per la Prima Volta recate in Italiano, Volume I, Venezia,
presso Giambattista Missaglia, MDCCCXXXIII, dalla Tipografia di F.
Andreola, p. 664: “Deirdre fu sorpresa dell’ammirabile miscuglio di quelle tre
tinte, bianca, nera e rossa, e fu ispirata a mandar fuori della viginea bocca
un’esclamazione amorosa […]”.
218
Il lemma utilizzato dal della Porta è interessantissimo, perché godè d’una
certa fortuna, soprattutto in ambiente settecentesco e neoclassico e consente di
esperire l’ipotesi d’un ispirazione oraziana e neoclassica serpeggiante nella
poesia dellaportiana. A tal proposito, cfr., per esempio, Lezioni Sacre sopra la
Divina Scrittura Composte, e dette dal Padre Ferdinando Zucconi della Compagnia di
Giesù. Tomo terzo del Nuovo Testamento, Venezia, MDCCXXIV, Nella Stamperia
Baglioni. Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio, p. 339: Ma felice Chiesa,
beata Sposa di Cristo, a cui il Velo stracciato dell’antico Santuario, fu il Velo, e
l’Ammanto più bello delle tue Nozze; e la Notte improvvisa, e le Stelle
144

Ti avrian scortata, bianca, alla remota


Stanza219; e sarieno i canti d’allegrezza
Caduti220 sì, per troppo di dolcezza!
Notte silente, il nodo geniale
Tu disviluppa a senso di mortale.

comparse quasi pronube Faci al talamo della Croce t’introdussero […]”; ma


vedi soprattutto Poesie per le Gloriose Nozze dell’Eccellenze Loro il Nobil Uomo
Niccolò Foscarini e la Nobil Donna Andriana Barbaro, appresso Luigi Pavini, in
Venezia, MDCCLXVI, con Licenza de’ Superiori, p. XVII (il testo da cui è
tratta la citazione è un ode di Giuseppe Pierotti): “Le fauste al Ciel
lampeggiano/ Pronube faci accese,/ Che gà il gran Nodo a compiere/ Felicità
discese./ Vieni o garzone, e fervido,/ Cinto del tuo fulgore,/ Porgi alla Sposa
amabile/ Di lei sol pieno il core […]”: quest’ultimo testo risulta essere, in tutta
evidenza, una parafrasi di un poemetto dedicato alla città di Mantova che
trovasi in Versi Sciolti di Diodoro Delfico, in Milano, MDCCLV, appresso
Giuseppe Marelli, con Licenza de’ Superiori, p. 132 (il nome greco è
l’appellativo arcaico di Saverio Bettinelli): “Venni e tornai, donde sì novo
effetto?/ Non certo altronde che dal Nume amico,/ Che di novo splendor
fulgido scuote/ E le pronube faci e l’ aureo cinto/ Innanzi a te Sposa gentil, fu
cui/ Degnò dal trono lampeggiar d’un riso/ L’austriaca Giuno, che maggior
del sesso,/ Maggior de la beltà, dei Re maggiore/ Su l’Istro regna, e in te il
valor paterno/ Raffigurando stette e si compiacque […]”, poi riedito in volumi
successivi. La citazione si ripete anche in un altro carme nuziale (genere molto
amato dal della Porta), e in particolare in Per le Faustissime Nozze della Nobil
Donna La signora Marchesa Isabella Rangoni e del Nobil Uomo il Signor Marchese
Bonifazio Rangoni Ciambellano di S.M., Modena, per G. Vincenzi e Comp.,
MDCCCXVII, p. 17: “Si eco già spunta il desiato giorno/ Coppia gentil che
lega eterno i cori./ Splendan pronube faci all’ara intorno/ E la circondili
pargoletti Amori./ Propizia Giuno il casto letto adorno/ Fecondi a speme di
destin migliori,/ Tal che di più remote albe al ritorno/De’ Figli i Figli un sì bel
nodo onori […]”; e, prima ancora, in un testo drammatico di Apostolo Zeno (e
vedi Poesie Drammatiche di Apostolo Zeno. Tomo Sesto, in Orleans, Da Torchi di
L.P. Courtet de Villeneuve, Stampatore regio. Con Licenza, e Privilegio. 1786,
145

I padri gloriosi221, o mia canzone,


Dieron scienza alle maggior’ sorelle
D’arte e di amore: e altissimo sospiro222
Temprò celeste armonioso giro223
Alle parole, musiche di stelle.
Tu fa la madre, di tuo pio sermone,
Lieta, chè diede al eroico di limone

p. 96): “Intendo, Alinda, intendo./ Da un Sultano rival tu vuoi, che scudo/


Autorità ne sia di regio ammanto./ Facciasi. Udrà fra poco/ Pronube faci, e
talami reali;/ Ne più Asaf in amore avrà rivali […]”. Collaterali appaiono altre
due occorrenze: la prima trovasi in un libretto scritto da Felice Romani per il
Sampieri (Gli Illinesi. Melodramma Serio da Rappresentarsi nel gran Teatro di
Bologna la Primavera del 1823, per le Stampe del Sassi, p. 19) “[…] Guido nel
sacro tempio/ Già le pronube faci/ ardon per noi […]”, la seconda, in un altro
libretto per un opera di Donizzetti, risale a Domenico Gilardoni (L’esule di
Roma. Melodramma Eroico in Due Atti, da Rappresentarsi nel Teatro
dell’Eccellentissima Città di Barcellona, Anno 1833. Con permesso, dalla Tipografia
della Vedova e Figli di D. Antonio Brusi, p. 17) “[…] Non di pronube faci e di
festivi/ Inni nuziali è questo/ Il sospirato giorno […]”. Dalla ricostruzione
operata questo caso specifico, l’ipotesi di un della Porta ispirato dalla poesia
settecentesca risulterebbe confermata in modo lampante.
219
Cfr. M. BANDELLO, Rime di Matteo Bandello tratte da un codice della regia
biblioteca di Torino e pubblicate per la prima volta dal dottore Lodovico Costa,
Torino, vedova Pomba e figli stampatori e librai, 1816, p. 207: “[…] i’ pur son
giunto tormentato e lasso,/ e veggio la remota stanza e diva/ ch’al gran
Petrarca sovra tutte piacque […]”. Ma vedi anche, con qualche maggior
fondamento, due citazioni del Fuoco dannunziano (“[…] Per analogia, egli si
ricordava dei momenti straordinarii in cui — nel silenzio e nel calore
intellettuale della sua stanza remota — la mano aveva scritto su la pagina un
verso eterno ch’eragli parso non nato dal suo cervello ma dettato da un nume
impetuoso a cui l’organo inconscio avesse obbedito come un cieco istrumento
[…]”; e “[…] Ella desiderò la solitudine, la quiete, la stanza chiusa e remota,
l’ombra delle cortine gravi […]”; e infine “[…] Ah, io t’ ho creata, io t’ ho
creata ! – le gridò illuso dall’ intensità dell’allucinazione, credendo vedere la
sua eroina stessa apparir su la soglia della remota stanza occupata dai tesori
146

Memmi frondeggio di lauro cortese,


Ad onorar la Donna Avignonese224.

III.

tolti ai sepolcri degli Atridi […]” (e vedi G. D’ANNUNZIO, Il Fuoco, Milano,


Treves, 1900, passim, con la datazione che però esclude qualsiasi influenza sul
della Porta). Il lemma è citato anche in Della Republica et Magistrati di Venetia
libri Cinque di M. Gasparo Contarini che fu poi Cardinale. Con un Ragionamento
intorno alla medesima di M. Donato Gianotti Fiorentino. Colle Annotazioni Sopra li
due Sudetti Auttori di Nicolò Crasso, Et i discorsi de’ Governi Civili di M. Sebastiano
Erizzo, & XV Discorsi di M. Bartolomeo Cavalcanti Aggiuntovi un Discorso
dell’Eccellenza delle Republiche. All’Illustriss. & Eccellentiss. Sig. il Sig. Giovanni di
Zamoscia Zamoiski, conte di Tannouv & Iaroslav, & c. Governatore di Calussia, et
Rzecica, & c., In Venetia, MDCL, Per Francesco Storti. Con Licenza de’
Superiori e Privilegi, p. 41, in relazione all’elezione dei Dogi veneziani (“[…]
eglino anchora nella ordinata, appartata è remota stanza s’appartano, e si
trasferiscono […]); Notizie Storiche della Città di Casale e del Monferrato di
Vincenzo de’ Conti. Voll. 6., Casale, 1840, dalla Tipografia Casuccio e Comp., in
part. vol. II, p 128, “[…] Soddisfatti ai doveri d’amore e di rispetto, ritiratisi
ambedue in remota stanza, il principe gli espose i consigli del duca padre, coi
quali rassicurava la vedova duchessa dal timore, e innalzavala a maggiori
speranze, distogliendola dalle nozze del cardinale che taluno aveva progettato
[…]”; La Genesi Ridotta in Ottava Rima Secondo l’ordine del sacro Testo dal Dottore
Ferdinando Caldari Fiorentino, Divisa in Due Parti Con gli Argomenti della Signora
Contessa Luisa Bergagli Cozzi, In Venezia, MDCCXLVII. Nella Stamperia di
Stefano Orlandini. Con Licenza de’ Superiori e Privilegio., p. 123: “[…] egli
(sc. Labano) in sembianza/ D’uom ch’abbia in tanto affar la maggior parte/ Ove
le figlie entro remota stanza/ Stansi, s’inoltra per segreta parte,/ E quivi ad
ambe a disvelar s’avanza/ Il suo disegno, consigliando ad arte/ Ragione, e
ubbidienza a lei/ cui toglie/ Senza ragion la qualità di moglie […]”; Il
Prepotente Punito. Commedia Originale in Cinque Atti di Filippo Casari, Trieste,
Dagli Eredi Coletti, MDCCCXXVIII, p. 11: “[…] Chiusa io m’era con la mia
147

DUE DI SETTEMBRE! E TU NON SENTIRAI225

Due di settembre! E tu non sentirai,


Madre, in sul mezzodì, come una volta
Per sessantanni, strepere i tamburi
Gemere le zampogne e il flauto in volta
Alzar la nota di tra gli abituri

genitrice, e con pochi servoi in una remota stanza […]”; le già citate Tragedie
ed Altri Versi di Silvio Pellico, p. 250: “[…] Miseri noi!/ Già strepito d’armati
odesi. Ascosa/ In più remota stanza […]”; e infine, fonte quest’ultima da
ritenersi, visto il contesto, quasi certa, Rivista Europea. Nuova Serie del
Ricoglitore Italiano e Straniero, Anno II, parte IV. Milano, vedova di F.A. Stella e
Giacomo figlio, 1859, p. 207: “ […] È nella casa che ci ha veduti nascere, è nella
sua più quieta e remota stanza, a cui passando vicino il famiglio o la fantesca,
la dolce sorella e la madre, la madre istessa, fanno più cauti i passi e più
sommessa la voce, che il nostro spirito s’allontana dalle inquietudini della vita
e pone giù il peso del desiderio e dell’invidia per sollevarsi alle più pure
regioni del pensiero, e discenderne poi più confortato, più virtuoso […]” (il
brano s’inquadra in alcune riflessioni sulla “poesia domestica” fatte in un
saggio apposito dallo scrittore, traduttore e librettista di metà Ottocento Giulio
Carcano, già utilizzato in altri contesti, e vedi infra).
220
Petrarchesco, e vedi gli “atti d’allegrezza spenti” del sonetto “Solo e
pensoso”.
221
L’espressione, da cui discendono tutte le altre e che sembra con tutta
probabilita la fonte primaria del della Porta, in Opere di Torquato Tasso colle
Controversie sulla Gerusalemme Poste in Migliore Ordine, Ricorrette sull’Edizione
Fiorentina, ed Illustrate dal Professore Gio. Rosini. Volume XI, Pisa, presso
Niccolò Capurro, MDCCCXXIII, p. 161: “[i poemi”] generano negli animi belle
virtù e scienza, e conservano in sé viva perpetuamente la fama prima de’ loror
padri gloriosi, e poi di altri molti, de’ quali fanno menzione […]”. Si veda, in
seguito, Della Lingua Toscana Dialoghi Sette di Girolamo Rosasco Accademico della
Crusca, Volume Secondo, Milano, per Giovanni Silvestri, MDCCCXXIV, p. 185:
“[…] S’innalzino pure infino al cielo Dante, il Petrarca, il Boccaccio; ma perché
si dovrò biasimare la lingua nostra? da quando in qua, per tenere in credito la
madre, si avrà a screditar la figliuola? forse non saranno que0 primi padri
148

Del natio borgo: e i cani, con lor guai,


Renderla dai pagliai;
Nè dalla chiesa madre il campanile,
Vicin nostro gentile,
Le tre campane darà nere all’aria
– Mettea, tra la mezzana e quella grande
Un suo canto argentino
La gaia campanella che alla scuola

gloriosi, aurei ed immortali, se non siamo vituperati, pezzenti e moribondi?


[…]”; riferito agli eremiti, cfr. Breve Notizia dell’Abito, e Corona de’ Sette Dolori
Col modo di praticare la divozione de’ Sette Venerdì in onore della Santissima Vergine
Addolorata E Sommario delle Indulgenze concedute a’ Servi, e Divoti della
Medesima, Con altri divoti Esercizi di pietà in onore di Gesù Crocifisso, e de Sette
Beati Fondatori, ed altri Santi dell’Ordine de’ Servi di maria Vergine Con le regole da
osservarsi da’ Terziarj, e Terziarie dell’Ordine suddetto. Raccolti da Fr. Francesco
Maria Pecoroni Sacerdote del medesimo ordine, In Roma 1825. Per Michele
Puccinelli. Con licenza de’ Superiori, p. 162: “[…] O Padri gloriosi, che dopo
avere abbandonate le ricchezze, e gl’agj paterni sembrandovi non essere
ancora ben sicuri, finchè non eravate nascosti agli uomini, i quali concorrendo
al ritiro vostro, frastornavano la pia libertà de’ vostri esercizi […] meritaste
[…] che la Regina del Cielo vi additasse [un] luogo di quiete, e di pace […]”;
poi, riferito agli avi, Nuova Raccolta di Epigrafi Italiane di Autori Diversi, Roma,
presso Vincenzo Poggioli, 1828, p. 234: “[…] in tempi poveri di virtù
pubbliche serbi il santo costume dei non corrotti padri gloriosi onorandi per
forte amore a bella e dolce cittadinanza […]”; ancora, forse con riferimento al
clero, in Almanacco Letterario, Scientifico, Giudiziario, Commerciale, Artistico,
Teatrale, etc., ossia Raccolta di circa 10.000 Indirizzi, ed Altre Interessanti Notizie,
per Comodo di ogni Classe di persone, Roma, Tipografia de’ Classici, 1841, p. III:
“[…] né si toglie tosto per visitare quei luoghi dove tuonò la voce di Tullio, e
dove si riportarono i nostri padri gloriosi […]”; e infine, citazione anonima e
riguardo due vescovi di Basilea, in La Civiltà Cattolica, a. 36, Serie XII. Vol X,
Quaderno 838. p. 509: “[…] monsignor Giuseppe Antonio Salzmann, uomo
ragguardevole per fede e per sapienza, poi […] monsignor Carlo Arnold,
prelato pio e cospicuo, alla memoria de’ quali io mi fo un dovere di rendere
un giusto omaggio co a’ miei padri gloriosi […]”.
149

Ahi, mi chiamò sollecita, bambino –


Nunziatrici per la solitaria
Valle del fiume, ai curvi in sui lontani
Còlti, della gran festa: chè ghirlande
Riportino a Colei che ne consola,
Proteggitrice Vergine, domani;
Né mi vedrai, come a quei dì, tentare

222
La menzione prima in Il Trionfo della Vaccinia. Poema di Gioacchino Ponta
Genovese, Parma, co’ Tipi Bodoniani, MDCCCX, p. 19: “[…] Era quell’ora che
del curvo giro/ Saliva il sommo all’arco il Dio del giorno,/ Quando del cielo al
liquido zaffiro,/ Tolser la bella luce i nembi intorno:/ Allora con altissimo
sospiro,/ Della clamide arcana il petto adorno,/ Affiso al cielo i popol
benedisse,/ L’elmo gittò l’irto Profeta […]. Si vedano poi Opere del Conte
Gasparo Gozzi Viniziano, Vol. I, in Padova, Dalla Tipografia e Fonderia della
Minerva, MDCCCXVIII, p. 68: “[…] E tanta fu la forza del suo pensiero, che
non potendo del tutto tenerlo rinchiuso, gittò un altissimo sospiro, e abbassati
gli occhi e divenuto in viso vermiglio, diede indizio della sua segreta
intenzione all’avveduta Talia, la quale non si spiccava mai dal suo fianco
[…]”, poi più volte ripubblicate anche in altra veste. In contesti diversi vedi
Biblioteca Italiana o sia Giornale di Letteratura Scienze ed Arti Compilato da Varj
Letterati. Tomo XV. Anno Quarto, Luglio, Agosto e Settembre 1819, Milano,
presso la Direzione del Giornale, Contrada del Monte di Pietà n. 1254, Casa
Caj dirimpetto al Borgo Nuovo, p. 393: “[…] Ed ogni buon italiano erudito
delle cose passate, esperto delle presenti, ed infiammato di carità per le future,
letto questo frammento, tragga dal petto un altissimo sospiro e prorompa in
lamenti […]”; ancora, in Storia della Antica Liguria e di Genova Scritta dal
Marchese Girolamo Serra, Tomo III, Capolago, cantone Ticino, Tipografia
Elvetica, MDCCCXXXV, p. 38: “[…] L’infelice Boccanegra leva gli occhi in
alto; vede il doge sedente a un veron del palagio, e mettendo altissimo sospiro
gli domanda pietosamente la vita […]”; in Prime Poesie di Giulio Carcano,
Milano, per l’Editore Pietro Manzonj Libraio, MDCCCXLI, p. 275: “[…] Ti
ricordi il tuo martiro,/ Quando udisti a ciglio asciutto/ Quell’altissimo sospiro/
Che redense il prisco lutto […]” (quest’ultimo “locus” appare decisivo a
segnare la fonte primaria, perché il contestuale lemma “ciglio asciutto” appare
anche nella lirica dellaportiana, e precisamente al verso 87).
150

Con piccole arti argute226,


Non so qua! tromba o cetra da sfidare,
Per strazio di gamme aspre ed acute,
La schiera musicale chiusa in tondo
D’in sulla piazza, grave, a concertare;
L’oricalco227 vincendo più profondo.

223
Cfr. La Giuditta, del Card. Pietro Ottoboni. Oratorio, In Roma, nella Stamperia
di Gio. Giacomo Komarek bohemo all’Angelo Custode, MDCXCIII, p. 10:
“[…] Bella, non ruotan gli astri/ con sì soave, armonioso giro/ né così dolce
porta/ il selvaggio usignol di ramo in ramo/ la sua musica pena/ come tu
sciogli il canto e incantar sai […]” (si noti che il testo dell’Ottoboni fu musicato
da Alessandro Scarlatti, e ciò forse ne aiutò la diffusione); poi vedi Il Sidro.
Poema in Due Canti di Giovanni Filips, Tradotto dall’Inglese in Toscano dal celebre
Conte Lorenzo Magalotti, Ora per la prima volta stampato con altre Traduzioni, e
Componimenti di vari Autori, In Firenze, MDCCXLIX, Appresso Andrea
Bonducci, Con Approvazione, p. 75: “[…] Per entro a questo nostro Orbe
Solare/ Tutto del chiaro suo Genio potente/ L’occhio penetrator fissando il
primo,/ In un misto poter, che gravitante,/ E projciente insieme eterno agisce,/
L’alta cagion del moto ei vide il primo,/ Ed in queto armonioso giro/
L’Universo mirò volgersi intorno [..]”. Vedi pure Biblioteca Storica di Diodoro
Siculo Volgarizzata dal Cav. Compagnoni, Tomo Primo, Dalla Tipografia di Gio.
Battista Sonzogno, 1820, p. LII: “[…] Con che egli attacca l’immaginazione di
chi legge, e ne seduce l’orecchio mercè l’elegante, ed armonioso giro di belle
frasi […]”; in Storia della Letteratura Italiana di P.L. Ginguené, Membro
dell’Instituto di Francia, Traduzione del prof. Benedetto Perotti, con Note ed
Illustrazioni. Tomo III, Milano, Dalla Tipografia di Commercio, 1823, p. 251:
“[…] L’ottava ha la medesima forma, che conservò di poi, ma non ha la
nobiltà, la leggiadria, le soavi cadenze e l’armonioso giro che ebbe prima dal
Poliziano, e dopo di lui dall’Ariosto […]. Su quale sia la fonte dellaportiana, si
può ipotizzare – dato il contesto – un’influenza del Magalotti.
224
Si riferisce alla Laura del Petrarca, cui implicitamente il della Porta
paragona la madre.
225
Pubblicata per la prima volta su La Tribuna, XV, 1897, p. 3, con minime
varianti di punteggiatura. Il testo è un amaro e struggente ricordo
151

Unica festa, avremo in sulla mensa


Che ne raccoglie, genitori e figli,
E rare voci rendonsi, la prima
Uva, a memoria che veniali famigli
A farne da una nostra vigna opima
Di grappoli tra i pampini si densa,
Offerta alla dispensa:

dell’infanzia trascorsa dal poeta a Montazzoli, con un riferimento alla festa


della Madonna, festeggiata colà, come in molte altre località italiane, la prima
domenica di settembre. Da un breve calcolo effettuato, e tenendo conto che il
della Porta rimase nella sua Montazzoli almeno fino al 1884 (“terminus post
quem” dettato dalla sua collaborazione alle riviste romane), non si può che
pensare a due sole date: il 2 settembre del 1877 o del 1883. Stante i numerosi
riferimenti ad una fanciullezza gioiosa e considerando che la seconda
datazione pare troppo vicina a quel periodo di lutti e di problematiche
economiche precedentemente discusse, si può propendere per l’anno 1877.
226
Cfr. Galleria Omerica o Raccolta di Monumenti Antichi Esibita dal Cav.
Francesco Inghirami per servire allo studio dell’Iliade e dell’Odissea. Volume Primo,
Poligrafia Fiesolana, dai Torchi dell’Autore, 1831, p. 105. “[…] le armi di
Ercole vedonsi patentemente rimesse ai piedi di Filottete, onde non parmi
esservi dubbio che quegli non sia Pirro, il quale vuol Filottete palcato, come
infatti addivenne, per le arti argute di Ulisse […]”. Vedi anche Annali del
Teatro della Città di Reggio, Anno 1825, coll’Aggiunta di un Discorso Dell’Uso del
Coro nelle Opere Buffe e con un Epistola Sulle rappresentazioni de’ Dilettanti,
Bologna, coi Tipi del Nobili e Comp., 1826, Con Approvazione, p. 77: “[...] Ma
non taciono intanto/ Le divine Pieridi, Che attenuando il canto/ Ora d’amor
rammentano/ L’armi anche in ciel temute,/ Ed ora all’arti argute/ Intrecciano
di laudi eterno onor […]”. La strofa citata appartiene ad un ode per ballo del
poeta e matematico emiliano Giovanni Paradisi (su cui vedi C. CHIANCONE,
“Il circolo Paradisi e il Poligrafo”, in AA.VV., Istituzioni e cultura in età
napoleonica, cur. E. BRAMBILLA – C. CAPRA – A. SCOTTI, Milano, FrancoAngeli,
2008, pp. 232 – 250) che la ripubblicò a Firenze un anno dopo e che pare esser
la fonte più sicura del dell Porta per il lemma in questione.
227
L’oricalco (dal greco ορειχαλκος, in latino “aurichalcum”) è un metallo
leggendario utilizzato per la prima volta da Platone nel racconto del mito di
152

Vanto paterno228 e di abruzzesi soli


Benigni229 ai pii maglioli.
E tu narravi, mentr’io con rapaci
Atti eleggea dalla vendemmia cara
II meglio d’ambra e d’oro,
Com’io chiedessi a un grappolo l’oblìo
Del latte che mi davi. Era il tesoro
Perenne230 nelle due mamme capaci:

Atlantide. Il termine in seguito è stato ripreso per altri usi, venendo ad


indicare, più genericamente, una lega metallica di rame e zinco. Il poeta qui,
descrivendo il concerto bandistico tipico delle festività paesane, vuol riferirsi
al materiale utilizzato per fabbricare strumenti musicali a fiato.
228
Cfr. Historia Della Monarchia Spagnola Antica e Moderna fino l’Anno 1674,
Ridotta in auattro Libri e Consacrata all’Eccellentissimo Signore Gaspar Di Teves da
Bernardo Giustiniani, Venezia Presso Combi, & LaNoù, MDCLXXIV, Con
Licenza de’ Superiori e Privilegio, intr., p. 4: “[…] tutte le Reggie d’Europa si
sarebbero vedute ammantate di lutto in testimonio dell’universale mestizia,
che in tanto viene contemperata, in quanto V.E. gareggiando col vanto
paterno riempie le medesime d’altrettanta consolazione […]”.
229
Il lemma rimonta ad un Alberti latino tradotto da Cosimo Bartoli (forse
letto in Della Architettura Libri Dieci, di Leon Battista Alberti, Traduzione di
Cosimo Bartoli, con Note Apologetiche di Stefano Ticozzi e Trenta Tavole in Rame
Disegnate ed Incise da Costantino Gianni, Milano, a Spese degli Editori,
MDCCCXXXIII, p. 149): “[…] Ricevino ne l’invernata i soli benigni e ne la
state ombra e ventolini, il più che si può piacevolissimi […]” e si riferisce a
luoghi dove viene effettuata la cura del corpo (paleste, scuole, ospedali, etc.).
Nel contesto, il poeta potrebbe voler simboleggiare Montazzoli come luogo in
cui era possibile guarire il corpo e l’anima dagli affanni d’una moderna e
ancora non del tutto tollerabile quotidianità.
230
Cfr. Continuazione dei Saggi di Morale del Signo di Chanteresme, Tomo Terzo.
Che contiene alcune Riflessioni Morali sopta l’Epistole ed i Vangeli, Cominciando
dalla quarta Domenica di Quaresma fino alla quinta Domenica dopo Pasqua, In
Venezia, MDCCLXII, Appresso Francesco Pitteri, Con Licenza de’ Superiori, e
Privilegio, p. 249: “[…] la carità, quando è nel cuore, è un tesoro perenne
[…]”; vedi anche Riporti Evangelici Dalla Natività del Signore infino alla SS.
153

Sì ch’io correvo, già sui passi eretto,


E ingaggiator di zuffe, dall’amara
Con eguali e maggior’ lotta, per mio
Premio e riparo all’abbondante petto.
Suggevo, ingordo, in piedi: e a quando a quando
Le pause della fonte
Segnavo impaziente scalpicciando.

Trinità Del M.R.P.M.F. Serafino Leggi panormitano del Terz’Ordine di S. Francesco


regolare Osservante. All’Eminentissimo e Reverentissimo Card. Costacuti, in
Venetia, Combi, MDCXLV, p. 580: “[…] sollevandosi noi in alto, e
contemplando l’amor divino, senza dubbio alcuno lo stimaremo tesoro
perenne e in deficiente […]. Vedi pure Scrittori Classici Italiani di Economia
Politica, Parte Moderna, Tomo XVIII, Milano, Nella Stamperia e Fonderia di
G.G. Destefanis a S. Zeno, N° 534, MDCCCIV, p. 38: “[…] Quindi riuscirà
agevol cosa e di poca spesa il fare degli scava menti, e profittare di un tesoro
perenne infino ad ora tra noi ignoto […]”. Il lemma si trova nelle Lettere Scelte
sull’Agricoltura, sul Commercio e sulle Arti dello scrittore friulano Antonio
Zanon, e vine citato una seconda volta, in riferimento alle manifatture della
seta, in uno scritto raccolto pubblicato nel 1829 (Edizione Completa degli Scritti
di Agricoltura, Arti E Commercio di Antonio Zanon, Vol. III, Udine, pei Fratelli
Mattiuzzi, 1829, nella Tipografia Pecile, p. 384); Dialogo sacro sopra i Libri
dell’Ecclesiastes, e della Sapienza, del Dottor Paolo Medici Sacerdote, e Lettor
Pubblico Fiorentino. Al Reverendissimo Padre Don Carlo Bertaud, Abate di
Buonsolazzo, dell’ordine della stretta osservanza de’ Cistercensi, e della Trapa, In
Venezia, presso Angiolo Geremia, In Campo di S. Salvatore all’Insegna della
Minerva, MDCCXXXIII, con Licenza de’ Superiori, e Privilegio, p. 135: “[…]
Imperocché ella (sc. la sapienza) è per gli uomini un tesoro perenne, e
inesausto […]”; riferito al settecentesco arcivescovo genovese Saporiti, cfr.
Storia Ecclesiastica di Genova e della Liguria dai Tempi Apostolici sino all’Anno
1838, Torino, 1838, dalla Tipografia e Libreria Canfari. Con Permissione, p.
109: “[…] Né prima, né dopo di lui fuvvi altro arcivescovo, che abbia lasciato
alle stampe tanti libri, tesoro perenne di sua scienza e di suo zelo […]”. Si può
ipotizzare, per il binomio verbale in oggetto, un origine rimontante a testi
simili al primo e il secondo tra quelli citati, anche per il contesto d’amor filiale
in cui esso si trova.
154

Tu proteggevi di una man la fronte


Al parvolo protervo231, la vittoria
Al felice rissoso premiando,
Lungi guardante tu, madre, alla gloria.

Te non verranno a salutar signora


Tutti gli ottoni e i cembali con passo
Di marcia glorioso: ed ogni nota
Feriva con orribile fracasso232

231
Il lemma, non pedissequamente rintracciabile, trova però una sua
inconfondibile e contestuale certezza in un “locus” carducciano, e in
particolare la lirica “Figurine vecchie” delle Odi Barbare (lette in G. CARDUCCI,
Tutte le poesie, cur. P. GIBELLINI, Roma, Newton Compton, 2011, pp. 501 – 502:
“Qual da la madre battuto pargolo/ od in proterva rissa mal domito/ stanco
s’addorme con le pugna/ serrate e i cigli rannuvolati,/ tal ne ‘l mio petto
l’amore […]”).
232
Cfr., ad esempio, un’occorrenza di tipo geografico in Il Nuovo Osservatore
Veneziano, per Lorenzo Fracasso Estensore, Stampatore, Fondamenta Malvasia
Vecchia, S. Maurizio, N. 2279, 1837, p. 76: “[…] La prima caduta è un pacifico
corso d’acqua che scende maestosamente e senza strepito; la seconda al
contrario precipitandosi con orribile fracasso, getta lontano su pei boschi e per
le montagne circostanti un polvere umida […]”; in contesto,
significativamente, dantesco, cfr. Storia della Letteratura Italiana dall’Origine
della Lingua sino a’ Nostri Giorni del Cavaliere Abate Giuseppe Maffei, Seconda
Edizione originale Emendata ed Accresciuta colla Storia dei Primi Trent’Anni del
secolo XIX, ad uso della Pubblica e Privata Istruzione, vol. I, Milano, Dalla Società
Tipografica de’ Classici Italiani, MDCCCXXXIV, p. 72: “[…] La porta si
schiude e gira sui cardini con orribile fracasso […]”; descrivendo una
tempesta equatoriale, La Civiltà Cattolica, Anno Trigesimoprimo, vol. III della
Serie Undecima, Firenze, presso Luigi Manuelli Libraio, Via del Proconsolo 16,
poresso S. Maria in Campo, 1880, p. 190: “[…] I ripetuti scrosci del tuono
destano un orribile fracasso […]; in contesti guerreschi, p. 323: “[…] Ma in
questo forte punto il colonnello Rampon, sotto la custodia del quale era la
trincea, a patto nessuno sbigottitosi a quell’orribile fracasso, che anzi tanto più
infiamma dosi nel suo coraggio […] fece lor prestare (sc. ai soldati) quel bel
155

La vecchia casa nobile e remota,


Muta dal di che, non più nostra, ancora
Era la tua dimora:
D’onde, con fermo piede, o madre, uscisti
Il di che a me venisti.
Dietro, la porta ti lasciasti aperta
Non ti volgendo: riguardando innanzi

giuramento […] di non cedere se non morti […]”; in ambito corografico, e in


riferimento a un torrente istriano, Corografia dell’Italia di G.B. Rampoldi, Volume
III, Milano, Per Antonio Fontana, MDCCCXXXIV, p. 556: “[…] Forma il lago
[…], da dove con orribile fracasso sprofondansi le acque […]”; in un “locus”
ossianico, da leggersi, probabilmente nell’edizione del Bettoni (e cfr. Le Poesie
di Ossian tradotte da Melchior Cesarotti, Vol. I, Milano, per Niccolò Bettoni,
MDCCCXXII, p. 193) il seguente passo: “[…] Mosse l’eroe nel rimbombar
dell’armi,/ Come di Loda il formidato atroce/ Spirto, che, nell’orribile fracasso/
Di ben mille tempeste esce, e dagli occhi/ Slancia battaglia […]”; in contesti
marinareschi di lotta alla pirateria, cfr. Gazzetta Piemontese (N. 13, Martedì, 29
gennaio 1828), Torino, dalla Tipografia di Giuseppe Favale, in Dora-grossa,
casa Della-Mottas, n. 31, p. 112: “[…] giunto nel magazzino della polvere
ordinò con voce forte al pilota di far saltare i Francesi, qui datogli un addio ad
annunziato il momento della vendetta, diede fuoco alle pèolveri, e la nave con
orribile fracasso andò in pezzi e in fiamme […]”; in ambiente fiabesco, cfr.
Favole e Novelle di Lorenzo Pignotti Aretino, Firenze, Al gabinetto Letterario,
All’Insegna di Pallade, MDCCCXVII, p. 308: “[…] A un tratto con orribile
fracasso/ Si spalancan le porte; entran staffieri,/ Sguatteri, camerieri […]”; in
un ambito geologico, vedi Indicatore Lombardo, ossia Raccolta Periodica di Scelti
Articoli Tolti da più Accreditati Giornali Italiani, Tedeschi, Francesi, Inglesi, etc.,
Tomo Primo, Milano, per gli Editori dell’Indicatore Lombardo, Contrada de’
Moroni, N. 4120, 1829, p. 395: “ […] Questo vulcano […] è una specie di
grande imbuto […] nel cui seno bolle incessantemente con orribile fracasso un
lago di fuoco […]”; in tema di prodigi inspiegabili, si veda Completa Raccolta di
Opuscoli, Osservazioni, e notizie diverse Contenute nei Giornali Astro-Metereologici
Dall’Anno 1773, sino all’Anno 1798. Del fu Signor Abate Giuseppe Toaldo, Tomo
Secondo, Venezia, presso Francesco Andreola, Con Regia Permissione, e
Privilegio, 1802, p. 165: “[…] Apparve la Luna tutta sanguigna: cadde fiamma
156

Con fissi gli occhi asciutti


Varcasti tu la benedetta soglia.
Ed il non tristo che rifece tutti
I passi tuoi entrandovi, con certa
Legge, padrone, udì forse pei cavi
Delle diserte sale, tra gli avanzi
Del nostro stato, correre la doglia,
In grida miserevoli233, degli avi.
Ma i figli, dal battesimo tornati
A morirti sul seno,
Ivi ti richiamarono accorati:

dal Cielo, come una torre, con orribile fracasso […]”; in contesto relativo a
delitti, cfr. Beatrice Cènci. Storia del Secolo XVI di F.D. Guerrazzi, Pisa, A Spese
dell’Editore, 1854, Tipografia Vannucchi, p. 621: “[…] Una volta il moribondo,
dibattendosi nelle estreme convulsioni, precipitò giù dal letto con orribile
fracasso; al rumore del tracollo si svegliò la guardia che dormiva, e andò per
dargli aiuto [...] ma il meschino di aiuto non aveva più bisogno: egli era
spirato! […]”; in altro contesto fiabesco, E.T.A HOFFMANN, “Schiaccia-Noci
(adattamento)”, in Giornale per i Bambini, nr. 5 (4 agosto 1881), p. 76: “[…]
Corazzieri, dragoni ed ussari si preparavano alla pugna. I treni dell’artiglieria
facevano un orribile fracasso […]”. La fonte più credibile, per la sua
derivazione dantesca, appare quella del Maffei.
233
Il lemma in una descrizione delle conseguenze del sacco delle città limitrofe
a Casale Monferrato (l’episodio si riferisce al seicentesco assedio di Casale, cui
accenna anche il Manzoni nei Promessi Sposi), e cfr. Notizie Storiche della Città di
Casale cit. Vol. 5, Casale, 1840, Dalla Tipografia Casuccio e Comp., pp. 218 –
219: “[…] La città risuonò per tre interi giorni di grida miserevoli e di pianti
[…]” in un carme dedicato ad un’inondazione in Valsassina, e cfr. Notizie
Storiche della Valsassina e della Terre Limitrofe dalla più remota fino alla Presente
Età, raccolte ed Ordinate dall’Ingegnere Giuseppe Arrigoni, Milano, coi Tipi di
Luigi di Giacomo Pirola, MDCCCXL, p. 341: “[…] Di qua, di là sia scoltano/ E
lagni di morenti/ E grida miserevoli/ Soccorso alto chiedenti,/ E i sacerdoti
erigere/ Sull’ale della fede/ L’alme all’eterna sede […]”. Forse la fonte è nel
testo del De’ Conti, vista un’occorrenza diversa rimontante allo stesso autore
presente nelle Canzoni in altro contesto (e vedi supra).
157

“Che ne abbandoni? Non darà veleno


L’ombra qui dentro, se tu non ne sia,
Madre, vicino? Non ne hai tu chiamati
Amici spirti234 alla tua casa ria?”

Come, al ricordo, salgono pel chiaro


Ciel le montagne: e l’ultima ricama

234
Da segnalare il lemma, usato dal già menzionato Gasparo Gozzi, in
Componimenti Lirici de’ Più Illustri Poeti d’Italia scelti da T.J. Mathias, Vol. II,
Londra, presso T. Becket, Pall-Mall; Dalla Stamperia di Bulmer e co.,
Cleveland-Row, St. James’s, 1802, pp. 228 – 229: “[…] E per dolermi ancor, che
fan miei passi/ Per campi e selve, ove son faggi e mirti,/ Né vanno a ritrovar
amici spirti? […]; vedi anche un’elegia di Giulio Perticari, in Poesie Varie di
Diversi Autori, Livorno, Tipografia Vignozzi, 1830, p. 23: “[…] Gli amici spirti,
che di notte guidano/ La rotonda lor danza in mezzo ai prati,/ Cingon la
fronte di meste vïole […]”; e ancora, nella traduzione d’un poema georgico
latino di dubbia attribuzione, in Vicende della Coltura delle Due Sicilie, Dalla
venuta delle Colonie straniere sino a’ nostri giorni, di Pietro Napoli-Signorelli,
Napoletano, Dedicate alla Maestà di Annunziata Carolina di Francia, Regina delle
Due Sicilie, Seconda Edizione Napoletana. Tomo VII, In Napoli, 1811, p. 219: “[…]
A questi di pietade amici spirti/ Non mostrossi il destin crudele, avaro,/ A far
soggiorno fra gli elisii mirti,/ E fra l’alme felici esse ne andaro […]”; cfr. anche
il libretto di Niccolò Minato per il Xerse del Cavalli (e vedi Xerse. Drama per
Musica nel Teatro SS. Giovanni e Paolo per l’Anno 1654. Dedicato all’Illustrissimo
marchese Cornelio Bentivoglio, p. 29): “[…] Poco resta d’indugio/ A varcar in
Europa: il nostro amato/ Platano qui riman; di lui dovete/ Stringere co’ vostri
carmi amici spirti/ A custodia incessante,/ Perché non sian da man profana, o
avara/ Svelte le frondi, o pur rapiti i doni,/ Onde l’abbiam di nostra mano
ornate [...]”. Quasi tutte queste testimonianza, eccettuata forse quella del
Minato, hanno un’unica fonte: Galeria del Cavalier Marino. Distinta in Pitture, &
Sculture, In Venetia, MDCLXIV, Presso Giovan Pietro Brigonci, Con Licenza
de’ Superiori, p. 192: “[…] Piantate allori e mirti,/ Che faccian’ ombra à questa/
Dotta, honorata, e venerabil testa/ O delle sacre Muse amici spirti;/ Che
Apollo la mira,/ Apollo, à cui di man scosse la lira,/ Per l’invidia, che vinto in
terra n’hebbe,/ Saettarla dal Ciel forse potrebbe […]”. Va tuttavia rilevato che,
158

Linea di faggi il memore orizzonte:


Ivi si frange, al folto di una rama
Di querce, a occaso, tremula sul monte,
Sole, il tuo raggio in cui tanti guardaro
Di nostra gente, caro:
Mentre per l’aria, a sfida dei rondoni,
Salivan le canzoni.
Una, intonata da una pronta gola
Di sotto il grigio dômo di un olivo,
Cui protendea suo verde
Seguace abbracciamento ampia una vite,
Ecco, riodo: e quanto se ne perde
Ch’era sì dolce in ogni pia parola.
Forse ella canta, dai singhiozzi rotta,
Quella ch’io non udii, recente vivo,
Ninna nanna chiamante al sonno, dotta.
O destò, forse, vigile diana,
Il florido nipote,
Ahi, con quel canto la nonna lontana;
Via, d’oltre i lini concitando a ignote
Prove il fanciullo, ch’ei potesse presto
Alto, in sui piedi, per la norma umana,
Renderle, oh gioia!, un inchinevol gesto.

Ned io potrò implorare, argutamente,


Come ai bei dì, stringendoti da presso
Un po’ di argento in sulle brevi palme
Alto protese a giungere il promesso

benché l’autorità del Marino dovrebbe indurre a pensare il contrario,


l’occorrenza dellaportiana sembra rimontare a quella menzionata nel testo del
Napoli-Signorelli, anche e soprattutto per talune evidenti somiglianze di
contesto.
159

Dono235: e sentir dalle tue mani calme


Passar nelle febrili mie, con lente
Cifre, il danar lucente
A commerci ministro ed a contese
Coi bimbi del paese.
Chè, per diversa cura, oggi ti vedo
Tender ver me le mani sacre oneste,
Ridendoti risorti
Li ocelli al ricordo nel festevol atto236:
E tali son le avvicendate sorti
Che, se tu chiedi, pronto me rivedo
Nel parvolo pregante, e liberale
La tua man su di lui. Oh, le richieste
Tue fosser tante, e le potessi al tratto
Accogliere con giubilo figliale!
Potessi, per ciascun nodo di pianto
Ch’io non ti seppi sciorre237,

235
È citazione dalle Grazie di Foscolo (Inno Terzo. Pallade, carme ad Antonio
Canova, vv. 180 – 184), forse tratta da Le Grazie: carme di Ugo Foscolo; riordinato
sugli autografi per cura di F. S. Orlandini, Firenze, Felice Le Monnier, 1848, p. 27:
“Corsero intorno le celesti alunne,/ Come giunse, alla Diva. Ella a ciascuna/
Compartì l’opre del promesso dono/ (Era un velo) alle Grazie […]”.
236
Cfr. I trattenimenti di Scipion Bargagli; doue da vaghe donne, e da giouani
huomini rappresentati sono honesti, e diletteuoli giuochi: narrate nouelle e cantate
alcune amorose canzonette, In Venetia, appresso Bernardo Giunti, 1587, Pt. 1,
Preambulo 19, p. 32: “Perciò che, secondo il giudicio mio, si verrebbe non
piccola parte a scemare della dolcezza d’ogni festevol atto o detto che da noi si
sentisse, qualunque volta noi donne così da noi cercassimo prenderci
sollazzevoli diporti […]”.
237
Vocabolo d’origine umanistica (e vedi, ad esempio, A. POLIZIANO, Rime,
101,6 (forse letto nell’edizione di Vincenzo Nannucci e Luigi Ciampolini, e
vedi Rime di Messer Angiolo Poliziano, seconda edizione, Firenze, presso
Filippo Marchini, 1822, p. 164: “Fuss’io pur certo, nella morte almeno,/ poter
l’aspre catene all’alma tôrre,/ Ch’io ardirei con ferro o con veneno/ queste
160

Volgere in gioia qual n’aspetti vanto


Della mia nova età: se dato opporre
Mi sia l’animo invitto238 ai casi torvi;
Sì che, ben fitto, in voce del tuo santo
Nome, saetti, a conflitto, nei corvi.

IV.

O TU, SORELLA GIOVINETTA, USCITA239

O tu, sorella giovinetta, uscita


Per la gran porta, tra due file, doppie,
Di servi proni, con in man ciascuno
Un cero: innanzi lo zio prete invita

languide membra in terra porre!/ Ma chi sa se morendo amor vien meno,/ o se


può stringer l’alma e ‘l corpo sciorre?/ Vivendo, il ciel mi sforza esser tua
preda,/ né so dopo el morir quel ch’io mi creda […]”, e in seguito il vocabolo
ebbe vasta fortuna, a partire dall’Orlando Furioso dell’Ariosto, dov’è citato in
vari “loci”).
238
L’espressione risale originariamente alla Gerusalemme Liberata di Tasso,
forse letta nelle già citate Opere edite dal Rosini nel 1830 (volume XXIV, p. 65):
“[…] Ivi giunger dovea […]/ Un giovane regal, d’animo invitto,/ Ch’a farsi
vien nostro compagno in guerra:/ Prence è de’ Dani, e mena un grande stuolo/
Sin da i paesi sottoposti al polo […]”, e ha avuto una quantità rilevantissima
di geminazioni (tra cui la più nota risale alla traduzione dell’Eneide virgiliana
da parte di Annibal Caro, e vedi l. X, vv. 711 – 715: “Oggi o d’opime spoglie/ o
di morte onorata il pregio acquisto./ E ‘l padre mio (tal è d’animo invitto/
incontr’ogni fortuna, o buona o rea/ che sia la mia) ne porrà ‘l core in pace
[…]”), per cui appare inutile citarle tutte, con ogni probabilità dovendosi il
“locus” dellaportiano al Tasso medesimo.
239
Pubblicata la prima volta, con il titolo di “A Evangelina”, ne La Vita Italiana,
fasc. VI, 10 agosto 1896, p. 493, con minime varianti di punteggiatura, la lirica
descrive i toccanti momenti del funerale della sorella, morta in tenera età e le
conseguenze negative che tale perdita ebbe per il poeta.
161

Tutta la gente a un “requiem;” per coppie,


Biancovestite, ombratesi di bruno,
Passan le eguali in lacrime; sol
Muto, alto, bianco nel dolore, il padre
Tiene la destra lieve sulla bara,
Leggera salma240 e cara
Di quattro servi sulle spalle quadre;
L’ululo, dietro, orrendo241 della madre!

240
Il lemma rimonta ad un operetta escatologica e dantesca del Folengo, in un
contesto paradisiaco (Chaos del tri per uno. Stampata in Vinegia, per Giovanni
Antonio & fratelli da Sabbio, ad istantia de Nicolo Garanta, adi primo zener
1527, con privilegio, p. 120: “[…] Vado fra loro poscia, lento lento,/
favoleggiando verso il gran palaccio./ Ecco quegli angioletti, a trenta, a cento/
lascian chi l’arpa, chi ‘l danzar, chi ‘l laccio,/ e vengono assalirmi in un
momento/ con un soave intrico e dolce impaccio,/ perché mi carcan gli omeri,
la testa/ di sua leggiera salma e fanno festa […]”), ma venne poi ripreso nelle
Rime di Tasso (e cfr. Rime del signor Torquato Tasso; divise in sei parti, In Venetia,
apresso Giovanni Battista Pulciani, appresso Evangelista Deuchino &
Giovanni Battista Pulciani, 1608, pt. 3, p. 357: “[…] Più bello che d’oliva o pur
di palma/ Di trionfali spoglie un fregio adorno/ Il Costanzo ritratto avvolge
intorno,/ E furo al suo valor leggera salma […]”). Stanti le due sole occorrenze
– più inquadrabile nel contesto ma rara (quella del Folengo); encomiastica e
non relativa a canti funebri ma d’un autore più noto e più usato dal della
Porta (quella del Tasso) – non appare ipotizzabile quale sia la fonte diretta.
241
I due termini sono presenti nella tragedia Francesca da Rimini del Bucchi
(cfr. Tragedie di Ulivo Bucchi, Tomo Primo, Pisa, Presso Sebastiano Nistri, 1814,
pp. 79 – 80: “[…] Quindi d’armi un rimbombo, un fragor cupo/ Ed a breve
silenzio ululo orrendo/ Sottentrò di furore e lunga e mesta/ Poscia voce di
morte al cor mi scese […]”); ma si ritrovano anche nella traduzione di
Domenico Rossetti d’un egloga petrarchesca (e cfr. Francisci Petrarchae Pöemata
Minora Quae Extant Omnia Nunc Primo Ad Trutinam Revocata Ac Recensita, Vol.
I, Mediolani, Excudebat Societas Typhographica Classicorum Italiae
Scriptorum, MDCCCXXIX, p. 115: “[…] Sia laude al ver: fu pari ad alma
avara,/ Che per tema del molto al poco guarda,/ E il meglio perde: ecco: ei dì e
notte stride,/ E mai non resta, e de’ villan gli orecchi/ Introna di selvaggo ululo
162

Dovunque tu ti rammarichi o pianga,


Viva negli anni che non hai vissuti,
Ahi, noverati dalla madre a voto;
Ivi ti giunga e ai piedi ti si franga,
Pia giovinetta242, l’eco dei temuti
Danni243, nel grido del fratel remoto.
Questi era a te, mentre vivesti, ignoto,

orrendo […]”). Quest’ultima potrebbe essere la fonte del della Porta.


242
Una pletora di testi religiosi e parenetici di chiara origine clericale e rivolti
a fanciulle di buona famiglia ha, nel titolo, questo lemma. Per quel che
concerne un minimo di consequenzialità letteraria e di contesto, si citeranno la
tirata antiromantica di Antonio Bresciani presente in Continuazione dele
Memorie di Religione, di Morale e di Letteratura, Tomo VII, Modena, dalla Reale
Tipografia Eredi Soliani, 1839, p. 123: “[…] Colà il truculento cipiglio d’un
sicario spaventa la pia giovinetta, che nel silenzio de’ virginali recessi colle
mani giunte sul petto, invoca la Madre di Dio; e l’empia mano ravvoltale fra le
chiome, ivi inginocchiata l’uccide, la spara, le strappa il cuore e al disperato
amante lo reca […]” (e cfr. anche Ammonimenti di Tionide al Giovine Conte di
Leone, Opera Del Padre Antonio Bresciani D.C.D.G. Settima Edizione Riveduta ed
Aumentata dall’Autore, Genova, Per Giovanni Ferrando, MDCCCXXXIX, p.
340); in contesto tipico della “vitae sanctorum” vedi Vita della Venerabile
Marianna di Gesù de Paredes e Flores, Vergine Secolare Americana Soprannomata Il
Giglio di Quito, sua patria, Da D. Giovanni Del Castillo Canonico della Cattedrale di
S. Giacomo del Chile, Seconda Edizione Romana, Roma, Tipografia Salviucci,
1833, p. 41: “[…] Sentì al vivo la pia giovinetta una tale, come ne parve a lei,
troppo ingrata dimenticanza […]”; in contesto seicentesco tragico, con
riferimento al mito d’Ippodamia, cfr. Alcune Poesie di Gabriele Chiabrera Non
mai prima d’ora pubblicate, Prima Edizione, Genova, 1798, Nella Stamperia
Caffarelli, Sulla Piazza delle Vigne, con permissione, p. 61: “[…] Ma s’ella è
falsa e mente./ O rende onore al vero,/ Chiaro se ‘l manifesta/ La giornata
funesta,/ E il dispietato fin del gran guerriero,/ E la pia giovinetta,/ Che dietro
il segue ed a morir s’affretta […]”; riferito alla Ester biblica, cfr. Il Daniele e le
Tre Sante Donne Ester, Susanna, Giuditta. Lezioni Storicomorali di Antonio Cesari,
Prete Veronese, Milano, pèresso Antonio Fortunato Stella, 1816, p. 30: “[…]
Intendete perfetta virtù di questa pia giovinetta? […]”. Come si vede, questo
163

Non anche nato, che unico mi è ora


Fratello; e questa, che non ha più scura
La gran capellatura, Non riconosci?
Eppur piangono ancora
Le lagrime, i materni occhi, di allora!

Vedila mentre il piccolo quaderno

binomio verbale trova una qualche sua validità in dimensioni narrative o


poetiche rimontanti alla martirologia.
243
Cfr. Elogi Storici di Federico Commandino, G. Ubaldo Del Monte, Giulio Carlo
Fagnani, Letti all’Accademia Pesarese dal Conte Giuseppe Mamiani, Vice-Segretario
per la Sezione Scientifica, Coi ritratti dei Lodati incisi in rame, Pesaro, Dalla
Tipografia Nobili, Con approvazione, pp. 118 – 119: “[…] Supposta la verità di
essa, parmi che tutto proceda benissimo: e che volendosi (come è ragionevole)
devenir prontamente al rimedio degli ulteriori danni, gli espedienti proposti
dai dottissimi padri, abbiano da preferirsi ai progetti degli altri nello scritto
enunciati […]. Poi, in ambito di prosa scientifica e da parte d’autori
semisconosciuti, si vedano i seguenti tre testi: Annali Universali di Statistica,
Economia Pubblica, Storia, Viaggi e Commercio, Volume Quarantesimoquinto,
Luglio, Agosto e Settembre 1835, Milano, Presso La Società degli Editori degli
Annali Universitari delle Scienze e dell’Industria, Nella Galleria Decristoforis,
Sopra lo Scalone a Sinistra, 1835, p. 89: “[…] avranno sempre i nostri torcitori
il vantaggio d’una maggiore economia nella mano d’opera, anche di essere sul
luogo dell’origine della seta, circostanze queste impeditive dei temuti danni
[…]”; Lo Stato Presente di Tutti i Paesi, e Popoli del Mondo naturale, politico e
Morale, con Nuove Osservazioni e Correzioni degli Antichi, e Moderni Viaggiatori.
Volume XX. Parte II. Che Contiene il Compendio Dell’Antica e Moderna Istoria della
Repubblica di Venezia, In Venezia, Presso Giambattista Albrizzi Q. Gir.,
MDCCLIV, con Licenza de’ Superiori e Privilegio, p. 129: “[…] Non corrispose
tuttavia al grande apparecchio, e a’ gravissimi temuti danni l’esito della
campagna […]”; Memorie dell’Accademia d’Agricoltura, Commercio ed Arti di
Verona, Volume I, MDCCCVII, Tipografia Gambaretti, p. 300: “[…] Che resta
da concludere? Appunto questo: due rimedj trovarsi facilissimi ed utilissimi
contro i temuti danni delle pecore […]”. Si veda anche Degli Istorici delle Cose
Veneziane, I quali hanno scritto per Pubblico Decreto, Tomo Nono, che Comprende la
164

Che mi fé dotto nella “santa croce”


Ella mi mostra: sulle gialle carte
Tra l’ “a” “e” “i” discorre con alterno
Tratto uno sgorbio, che da voce a voce
Va, per finire finalmente in parto
Ove in tre raggi lo partiva, l’arte
Tua, fanciulletta, a figurare un drago;
S’io mi impuntassi all’ “a e i o u”
Restìo, superbo, tu,
Evangelina, minacciavi: “un mago
Cavalca il drago! i denti, punte d’ago!”
Oh, non ti avessi mai perduta, o prima

Parte Seconda dell’Istoria delle Repubblica Veneta di Battista Nani; cavaliere e


procuratore. Aggiuntevi postille nel margine, e nel fine un Indice copioso, In
Venezia, MDCCXX, Appresso il Lovisa. Con Licenza de’ Superiori, e
Privilegio, p. 17: “[…] Ma con più autorevole mediazione gli Olandesi, non
potendo soffrire i temuti danni del traffico, espedirono la flotta mercantile per
il Baltico e con la scorta dell’armata navale […]. In un ambito relativo alle
traduzioni, cfr innanzitutto L’Ingegnoso Cittadino Don Chisciotte della Mancia,
Opera di Michele di Cervantes Saavedra, Traduzione dall’originale spagnuolo colla
Vita dell’Autore, Vol. IV, Napoli, dai Torchi di Raffaele Pierro, Salita degli Studj,
n. 25, 1831, p. 21: “[…] Ed in fatti riflettasi che con le sole forze materiali egli
non è possibile che si giunga a penetrare o presumere i divisamenti
dell’inimico, le difficoltà, l’antivedenza dei temuti danni […]”; nel contesto di
una versione romantica d’un carme di Orazio, vedi Della Letteratura. Discorsi
ed Esempi in Appoggio alla Storia Universale di Cesare Cantù, Vol. I, Torino, presso
gli Editori Giuseppe Pomba e Compagni, 1841, pp. 333 – 334: “[…] Il coro
invoca, e accorrere al suo prego/ Sente gli dei: co’ molli carmi esperto/ dal ciel
le piogge implora; i morbi sgombra;/ Scaccia i temuti danni; e pace e lieto/ Di
ricche messi ‘l novel anno impetra […]”. È probabile che tra queste ultime due
occorrenze vada ricercata la fonte del della Porta.
165

Fronte inchinata244 al grave insegnamento245,


Mentre che fui discepolo protervo246!
Strazio minore, forse, dalla lima
Avrebbe questo risuscitamento
Su dai ricordi onde mi nutro e fervo;
Ma più dolcezza, quanta ne conservo
Nell’arca santa della puerizia!,

244
Si veda, inizialmente, il commento del Buti al primo canto della Divina
commedia (e cfr., forse, Commento di Francesco da Buti sopra la Divina Commedia
di Dante Allighieri Pubblicato per Cura di Crescentino Giannini. Tomo Primo, In
Pisa, pei Fratelli Nistri, 1858, p. 42: “[…] Dice prima, maravigliandosi e
vergognandosi che innanzi non l’avea conosciuto: Risposi a lui; cioè io Dante a
Virgilio con vergognosa fronte; cioè con la fronte inchinata, che significa
vergogna; quando l’uomo si vergogna cala la fronte: imperò che alzare la
fronte […]”, evidenziando che i corsivi sono nel testo del Giannini); in un
dizionario d’inizio Ottocento, in riferimento all’angolo visuale in pittura, e
vedi Enciclopedia Italiana e Dizionario della Conversazione. Opera Originale. Vol. II,
Venezia, dallo Stabilimento Enciclopedico di Girolamo Tasso, 1838, p. 226:
“[…] In vero se, poste cotali forme, si supponga in una testa la fronte
inchinata all’indietro […]”; in riferimento alle malefatte dei signori feudali
padani, Gli Eccelini e gli Estensi, Storia del Secolo XIII narrata da Filippo De Boni.
Volume III, Venezia, co’ Tipi del Gondoliere, MDCCCXLI, p. 124: “[…] Adelitta
con mirabile costanza inginocchiata innanzi un altare aspetta la morte; le
sciagure la avean temprata alla rassegnazione, e colla fronte inchinata a Dio,
gli chiede che termini la sua vita […]”; nella traduzione d’una parafrasi del
racconto biblico relativo a Ruth, e cfr. Rut e Naomi ovvero Le Due Vedove,
Racconto Episodico Tratto Dalla Bibbia dal Sig. Keratry E volgarizzato con note ed
aggiunta d’un indica mento dei nomi particolari adoperati in esso, ed in fine del
Volgarizzamento letterale del Testo Sacro di Francesco Longhena, Milano, dalla
Tipografia di Omobono Manini, 1822, p. 57: […] Colpita da cotale
rassomiglianza che essa era ben lontana di prevedere, piega rispettosamente
le ginocchia, e colla fronte inchinata verso il campo lascia fuggire dai suoi
labbri queste parole […]”; in riferimento al protocollo vigente nelle corti
cinesi, vedi Indicatore Lombardo cit., Tomo II (1830), p. 74: “[…] le proteste
contro la santa sua volontà (sc. del sovrano) non si devono fare che colla fronte
166

Vi spirerebber, certo, le melodi


Che con sì mesti modi247
Trovavi tu, nell’ore di letizia,
O, del mio sangue, feminil primizia.

Le voci nostre tutte sono fatte


Fioche dal tempo e, più, dalle vicende

inchinata verso i gradini del suo trono […]”; in contesto relativo alla
letteratura panegiristica di Napoleone (per cui cfr. G. PANNUNZIO, “Un caso di
damnatio memoriae: Camillo Mapei e la letteratura dell’emigrazione italiana nel
primo ‘800”, in Studi Medievali e Moderni, 2 (1999), pp. 53 – 75, in part. pp. 71 –
72, n. 98, con bibliografia), si veda La Selva Napoleoniana, Composizione Pastorale
di Tommaso Grapputo, Venezia, Nella Tipografia Picotti, 1809, p. 82: “[…] Erano
stati sino a quel punto tutti gli ascoltanti con bocca aperta, e con fronte
inchinata ad udire il sacro cantore […]” (quest’ultima, in alternativa al testo
dantesco del Buti, potrebbe anche esser la fonte del della Porta, dato che, alla
p. 79, si legge d’un “altro che tanto amò l’Avignonese Laura […]” e che
potrebbe connettersi all’ultimo verso della canzone “Ave. Del gesto delle
cristiane”, dove si parla d’un della Porta che “frondeggi[a] di lauro cortese,/
Ad onorar la Donna Avignonese […]”). Infine, a titolo di cronaca, cfr. Risposta
all’autore del libro Della civile, e religiosa sovranita del popolo provata colla
rivelazione. Dissertazione del conte abate Cristofaro Muzani vicentino, In Vicenza,
per Giovanni Rossi, 1798, p. 97: “[…] da questa remota mia Africa colla fronte
inchinata sul suolo adoro io in te quel sacro inviolabil Tesoro di tutta la più
sicura dottrina […]”.
245
Cfr. Cenni e documenti intorno all’insurrezione lombarda e alla guerra regia del
1848, per Gius. Mazzini, Imprimerie S. Gentori, Laquiens et Comp., 1850, p. 86:
“[…] La guerra regia ha dato un grave insegnamento ai Lombardi, e imposto
un obbligo severo al Piemonte […]”; cfr. inoltre, in contesto religioso, Il
Vangelo delle Domeniche Spiegato dal Preposto Parroco Anton-Luigi De Carli, Vol.
III, Milano, dalla Tipografia di Omobono Manini, MDCCCXXIII, p. 310: “[…]
Queste parole ci presentano una difficoltà da doversi sciogliere: facciamolo,
che la soluzione c’introdurrà in considerazioni di grave insegnamento […]”;
nella confutazione della letteratura stregonesca da parte del Tartarotti (e cfr.
Apologia del Congresso Notturno delle Lammie, o sia risposta di Girolamo Tartarotti
167

Tristi, o lontana! Ahimè, non o più quella


La madre nostra! Quando in lei si abbatte,
L’Ombra Tua Cara a udire si protende
Ansia, ed ascolta: “Fosse la sorella
Viva! traesse dalla faccia bella
Lume di gioja il lavorante figlio!
E, più che queste, in cui ripara, gote

all’Arte Magica Dileguata del Sig. March. Scipione Maffei, Ed all’opposizione Del
Sig. Assessore Bartolomeo Melchiori; S’aggiunge una Lettera del Sig. Clemente
Baroni di Cavalcabò, In Venezia, MDCCLI, Presso Simone Occhi, Con Licenza
de’ Superiori, e Privilegio, p. 228: “[…] nei loro giudizj abbia non poco influito
il non essersi da lor saputo ridurre quel grave insegnamento di Tacito […]”; si
veda anche una riflessione di G. Battaglia, recensendo il Vitige del Brofferio, in
Rivista Europea. Nuova Serie del Ricoglitore Italiano e Straniero. Anno III, parte IV,
Milano, Vedova di A.F. Stella e Giacomo figlio, 1840, p. 493: “[…] Egli voleva
che […] non solo s’imparasse a quale trista fine di solito sia tratto chi non sa
domare in tempo le proprie non oneste passioni, ma un ben più grave
insegnamento ne derivasse […]”; da parte di Pietro Odescalchi, in un contesto
di critica artistica, e cfr. Giornale Arcadico di Scienze, Lettere ed Arti, Tomo XLV.
Gennaio, Febbraio, Marzo 1830, Roma, Nella Stamperia del Giornale, Presso
Antonio Boulzaler, 1830, p. 98: “[…] E vedesi chiaro, come l’Agricola ha qui
tolto ad imitare il tutto dalla natura, e come a minuto seguitato quel grave
insegnamento di Lionardo da Vinci […]”; si noti, inoltre, la presenza del
lemma in questa riflessione dell’erudito Leopoldo Cicognara, in Sessioni
Pubbliche dell’Ateneo Veneto Tenute negli Anni MDCCCXII, MDCCCXIII,
MDCCCXIV, Venezia, Vitarelli, Nel mese di Settembre MDCCCXIV, p. 6: “[…]
dal contatto di tali estremi ne emerge un mutuo sussidio, un tal insieme felice
d’istruzione e di utilità, che la finzione in guisa d’un sottilissimo velo ogni più
grave insegnamento adombra soltanto […]”.
246
Cfr. Lezioni Sacre sopra la Divina Scrittura Composte, e dette dal Padre
Ferdinando Zucconi Della Compagnia di Gesù. Tomo Secondo del Vecchio
Testamento, In Venezia, MDCCLXII, Nella Stamperia Remondini, Con Licenza
de’ Superiori, p. 405: “[…] Il protervo Discepolo nascose il donativo, licenziò i
Servidori, e quasi nulla avesse fatto, avanti ad Eliseo con volto sicuro e franco
tornò […].
168

Cave rugose e vote,


Lo serenasse, del fraterno ciglio,
O mia figliuola, un riso di consiglio!”

V.

AVE! SE MAGGIO VENNE DAL GIARDINO248

A lei che nel suo grembo


Scaldò l’ingegno mio
UGO FOSCOLO

Ave! Se maggio venne dal giardino


247
La fonte sembra potersi identificare in un passo della traduzione di Felice
Belotti dell’Edipo a Colono di Sofocle, innumerevoli volte ristampata nel corso
del secolo diciannovesimo (e vedi, ad esempio, Il Fiore della Letteratura Greca,
Volume Primo, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 1840, p. 441: “[…] O
peregrin, nell’ubertuoso suolo/ Nutritor di cavalli, / Nel beato Colono il piè
ponesti,/ Ove molce coi mesti/ Modi frequente il querulo usignuolo/ Nelle
verdi convalli/ Fra l’edera nascose, e nel sacrato/ Bosco di cento e cento/ Frutti
ferace, al sole/ Chiuso e all’ira del vento […]”, da cui poi derviva anche
Polinnia. Versi raccolti Nell’Inverno del 1859 da Saverio Baldacchini, Napoli,
Stamperia del Fibreno, 1859, p. 16: “[…] il canto abbandona i mesti modi/ De
tragica elegia, lieto esaltando/ Nel trionfo de gl’inni […]”).Vedi inoltre, in
ambito omiliare, Opere Complete del Rev. Padre Gioacchino Ventura, Vol. III,
Genova, Dario Giuseppe Rossi, 1867, p. 116: “[…] Le stanze ne risuonavano,
secondo l’uso, de’ mesti modi de’ suonatori di flauto […]”.
248
Pubblicata per la prima volta, con minime varianti di punteggiatura, ne La
Vita Italiana, fasc. XII, 1 giugno 1897, pp. 1022 – 1023. con il titolo di “Ode a
mia madre per il maggio e per le rose”. Poi in Canzoni, con il titolo finale, alle
pp. 46 – 54, senza l’epigrafe foscoliana, tratta dagli ultimi versi del Sermone (e
cfr. IX, 176 ss.gg.). La lirica mette in scena, con il solito tono struggente, i
ricordi d’infanzia dell’autore, e in particolare i momenti della sua vita che egli
trascorse negli ambienti campestri del suo paese.
169

Che non è nostro a offrirti le sue rose,


Che dai rosai dispose
Rampicasser su su a la tua finestra:
Sorridi, o madre, con le dolorose
Morte pupille249 al segno del destino
Che, quant’è più vicino
Più tanto ti avvalora e ai casi addestra.

249
Il lemma è anfibolo. Per quel che concerne l’occorrenza “dolorose pupille”,
cfr. soltanto Anno Doloroso ovvero Meditazioni sopra la Dolorosa Vita della
Santissima Vergine Maria Distribuito per Tutti in Giorni dell’Anno, composte dal P.
Antonio Dell’Olivadi Missionario Cappuccino e Diviso in Quattro trimestri,
Nuovamente ristampato con figure in rame, ed a più colta lezione ridotto. Tomo I ,
Bassano, Nella Tipografia Remondini, 1819, p. 73: “[…] Se essa non parla,
parlano le sue dolorose pupille, ch’esprimono a bastanza del suo mesto cuore
le suppliche, con le quali ti scongiura, e desidera, che muoia il Figlio in quelle
braccia, con le quali per sì lungo tempo lo tenne Bambino […]”. Tuttavia,
appare molto più probabile una derivazione pascoliana, e cfr. la poesia “Il
Miracolo”, contenuta in Myricae (“[…] Vedeste, al tocco suo, morte pupille!/
Vedeste in cielo bianchi lastricati/ con macchie azzurre tra le latre rare […]”).
Si veda, per un tracciamento, un orazione in onore di S. Nicola da Tolentino, e
cfr. Orazioni Panegiriche del Padre Angelo maria da San Filippo, Eremitano Scalzo
di S. Agostino, Lettore di Sacra Teologia. Seconda Impressione. Con aggiunta di altre
Orazioni Sacre; opera postuma del medesimo, In Milano MDCCVIII, Nella Stampa
di Francesco Vigone, e fratelli, Con licenza de’ Superiori, p. 215: “[…] Porti il
fiele d’un pesce al giovinetto Tobia la spenta luce del giorno, e su le morte
pupille facci rinascere il mondo […]”; Solitudini di Sacri e Pietosi Affetti. Intorno
a Misteri sanguinosi, e gloriosi di Giesù Cristo, e di Maria. Opera Parenetica del
Molto Reverendissimo P. maestro F. Ignazio del Nente dell’Ordine de Predicatori del
Convento di S. Marco di Firenze, In Fiorenza, Per Amadore Maffi, e Lorenzo
Landi, MDCXXXXV. Con Licenza de’ Superiori, pp. 181 – 182: “[…] Così
m’insegna il sole, che per la pietà di queste morte pupille scolorisce i suoi
raggi, e li priva della corona di luce delle sue bellezze […]”; in un racconto
anonimo a sfondo martirologico, in Civiltà Cattolica, Anno Quarantesimoquinto,
Serie XV. Vol. XII. Quaderno 1067, Roma, 1 dicembre 1894, p. 568: “[…] quando,
vegliando al capezzale del suo sposo moribondo, si sentì quasi mancare per
170

Quanto, o memoria, odori di ginestra


Nell’anima di quella che le tante
Sue terre al sole spante
Segnò, frementi al mareggiar del grano250,
O sanguinanti al piano
Verde, pei fiori della lupinella251,
Al guardo della mia maggior sorella.

l’ambascia e nondimeno, per la virtù superiormente infusale, ebbe la fortezza


cristiana di accoglierne gli ultimi aneliti e di chiudergli poscia con le sue mani
le morte pupille […]”.
250
Si tratta di una soprendente coincidenza con una metafora dovuta alla
penna di Ippolito Nievo, (e cfr. i postumi Canti del Friuli, Udine, Del Bianco,
1912, p. 100): “Una villotta giunge da lontano/ sopra il dorato mareggiar del
grano: […]/ Trilla un istante limpida, e si perde/ via per il prato silenzioso e
verde […]”. Il lemma è ), in tutta evidenza unico. Come il della Porta ne sia
venuto a conoscenza è questione su cui non è possibile operare nessuna
ipotesi.
251
I fiori della lupinella sono citati numerose volte nei trattati relativi
all’apicoltura, o più genericamente al mondo agricolo, come quelli contenenti
un nettare assai apprezzato dalle api. Cfr. su ciò, ad esempio, Dizionario
Geografico, Fisico, Storico della Toscana Contenente la descrizione di tutti i Luoghi
del Granducato e Ducato di Lucca, Garfagnana e Lunigiana Compilato da Emanuele
Repetti, Socio Ordinario della I.R. Accademia dei Georgofili e di Varie Altre. Volume
Terzo, Firenze, Presso L’Autore e Editore, Coi Tipi Allegrini e Manzoni, 1839,
p. 350: “[…] mi rammento di un osservazione fatta da alcuni valenti
geoponici, i quali credono che il nettare somministrato alle api dai fiori della
lupinella selvatica […] possa contribuire a rendere più saporito e pregiato il
miele […]”; p. 20: in riferimento all’uso del gesso per rafforzare la produzione
di nettare della lupinella, cfr. Nuovo Dizionario Universale di Agricoltura etc.,
Compilato sulle Opere dei più Celebri Autori Italiani e Stranieri da una Società di
Dotti e Di Agronomi per Cura del Dottor Francesco Cera da Conegliano, Membro
ordinario e Corrispondente di Parecchie Illustri Accademie Nazionali e Straniere,
Premiato più Volte dall’I.R. Istituto Italiano e dall’Eccelso Governo di Venezia etc.
Tomo Nono, Venezia, co’ Tipi dell’Ed. Giuseppe Antonelli, Tip premiato con
Medaglie d’oro, 1839, “[…] I fiori della lupinella gessata sembrarono al sig.
171

Ride, tra gialle case cittadine


Ahi, terminanti, ovunque, l’orizzonte
Senza proni di monte
Alla tua vista, questo verde spazio.
Non vi han gli alberi radi252 le alte e cónte
Alterigie dei faggi che al confine,
Tra monte e ciel, di trine
Rompean l’azzurro onde mai non mi sazio.
Oh, montagne solenni253, e d’oltre Lazio

Fernand più abbondanti in mele, di quelli della lupinella non gessata, e ciò
concorda con tutti i fatti, vale a dire, che le piante separano tanto più mele,
quanto sono più vigorose […]”; L’Apicoltore, Associazione centrale
d’incoraggiamento per l’apicoltura in Italia, Milano, volumi 21 – 22 (1888), p. 352
e volumi 23 – 24 (1890), p. 229: “[…] Al tempo della fioritura non abbiamo
veduto che pochissime api, evidentemente non nostre, foraggiare sui fiori
della lupinella […]” e “[…] vidi poche api sui fiori della lupinella […]”. In
questo caso il della porta avrà voluto dare al suo testo una lieve coloritura
virgiliana (e basta ricordare, al proposito, il contenuto del libro IV delle
Georgiche).
252
La fonte è certamente ne “Il canto dell’amore” del maestro Carducci,
presente nell’edizione definitiva di Giambi ed Epodi (e cfr. Opere di Giosuè
Carducci. IX, Bologna, Nicola Zanichelli, 1894, p. 133): “[…] da i conventi tra i
borghi e le cittadi/ Cupi sedenti al suon de le campane,/ Come cucùli tra gli
alberi radi/ Cantanti noie ed allegrezze strane […]”. Non val la pena citare le
occorrenze precedenti, le quali rimontano quasi tutte a un lemma del
seicentesco Vocabolario della Crusca.
253
Si vedano, per una sicura suggestione riconducibile al D’Annunzio delle
Laudi, i primi versi della lirica “Alle Montagne”, contenuta in Elettra:
“Candide cime, grandi nel cielo forme solenni/ cui le nubi notturne/ stanno
sommesse come la gregge al pastore ed i Vegli/ inclinati su l’urne/ profonde
dànno eterne parole, e fanno corona/ le stelle taciturne;/ o Montagne, terribili
dòmi abitati da Dio […]”. Si tenga conto che “Alle montagne” apparve, per la
prima volta e con il titolo “Ode a colui che deve venire”, nel febbraio 1896 in
un fascicolo di Versi e disegni offerti dalla Baronessa Blanc nella festa di beneficenza
172

Forza d’Abruzzo in impeto di fiumi254


Tra bruni sassi255 e dumi
Dirompenti alla valle! e tu, perduto
Fra pioppi in ordin muto256,
Alacre pio mulino! e tu, a me cara,
Buccina di pastori257 alla Lupara!

per i feriti d’Africa, pubblicato a Roma da Adolfo De Bosis; la liriva medesima


venne poi ristampata – e il riferimento appare decisivo – nel Convito (libro VII,
luglio 1895 – marzo 1896, pp.445 – 447).
254
Cfr. Solitudini di Sacri e Pietosi Affetti cit., p. 159: “[…] Così non teme l’anima
santa che vacilli, o tremi l’edifizio spirituale della tua salda fede per impeto di
fiumi, o di torrenti, né per acque di tentazioni diaboliche […]”.
255
La fonte qui è certa: le Rime Nuove di Carducci, e in particolare la lirica
“Colloqui con gli alberi”, vv. 9 – 11: “[…] Amo te, vite, che tra bruni sassi/
Pampinea ridi, ed a me pia maturi/ Il sapïente de la vita oblio […]”. Per una
ricostruzione dell’origine del lemma, cfr. alcuni sciolti di Felice Bisazza
rievocanti le antiche glorie della latinità, in Metodo per Studiare la lingua Latina
all’uso de’ Licei e delle Scuole Secondarie, Prescritto ed Adottata dalla Commissione
de’ Libri Classici da P.C.B. Gueroult, Antico Professore di Rettorica nell’Università
di Parigi, Provveditore del Liceo Charlemagne. Traduzione dal Francese con
annotazioni ed aggiunte di Giovanni Caserta. prima Edizione Italiana su l’Undecima
dell’Autore, Napoli, Dalla Stamperia Di reale, 1849, p. 96: “[…] Che vide armi e
bandiere, or sol negli occhi/ S’illucida del serpe, e i bruni sassi/ D’un teatro e
d’un foro arde di vili/ sue fiamme il mandrian […]”; in un poema rievocante
le bellezze italiche, e vedi Italiade. Poema del cavaliere Angelo Maria Ricci, Rieti,
Per Salvatore Trinchi, 1838, p. 213: “[…] Ed esso a se d’intorno i bruni sassi/
Ruota premendo co’ cubiti il cerchio […]”.
256
Per la storia di tale lemma, cfr. Secreti della Magia Bianca ossia Spiegazione de’
Giuochi di mano Sorprendenti del Cavalier Pinetti fatta da M. Decremps Professore
di Fisica, Napoli, 1827, Presso Gaetano Nobile, Vico Birri e Toledo n. 2°, primo
piano, p. 98: “[…] E così subito M. van Estin si contentò di stendere la sua
mano verso l’automato per fargli segno di suonare, quest’ordine muto fu
seguito da una pronta ubbidienza […]”; in riferimento alla napoleonica
bnattaglia di Wagram, Storia dell’Armi Italiane dal 1796 al 1814 scritta Da Felice
173

Apri, per entro questa che rameggia


Poca chioma258 di selva, la tua pura
Anima, o creatura
Semplice259, in tua bontà ferma260 ed ardita;
Rompi tu dalla mia prima rancura261
Per cui lo spirto dubita ed ondeggia,
Maria, madre, una scheggia

Turotti, Autore della continuazione alla Storia d’Italia, con Prefazione e note Del Dr.
Pietro Boniotti, Milano, Tipografia dell’Editore Pietro Boniotti, 1856, p. 252:
“[…] Un evviva generale risponde a questo ordine muto di vincere o di
morire […]”; all’interno d’un discorso politico, cfr. Le Discordie e Guerre Civili
dei Genovesi nell’anno 1575 Descritte dal Doge Gio. Batta Lercari arrichite di Note e
Documenti Importanti da Agostino Olivieri. Prima Edizione, Genova, presso
Girolamo Filippo Garbarino Editore, 1857, pp. 302 – 303: “[…] Supplico
dunque […] che io le raccordi non potersi trovar rimedio più certo migliore a
mantenerb l’unico ordine muto, che non interporre e mescolare nell’elezione
la sorte […]”; nell’ambito d’un romanzo storico, e parlando d’un “villain”, cfr.
Valderico o la Schiavitù dell’Ottavo Secolo di C. Guenot, Bologna, presso l’Uffizio
del Messaggere, 1871 p. 198 (con traduzione anonima): “[…] Il miserabile
sorpreso parve che non comprendesse il gravi significato di quest’ordime
muto, ed il principe prese a spiegarlo […]”; descrivendo le malefatte
dell’inquisizione, vedi Misteri dell’inquisizione ed Altre Società segrete di Spagna
per V. De Féréal, con Note Storiche ed una introduzione di Manuel de Cuendias e con
Estratti di una Lettera Relativa a quest’Opera di Edgardo Quinet. Prima Versione
Italiana. Tomo I, Parigi, 1847, p. 142 (anche qui con traduzione anonima): “[…]
In quel momento Josè, uscendo dalla folla, fè cenno agli emissari; a
quell’ordine muto si allontanarono come ombre […]”; in un dramma di Luigi
Marchionni ambientato alla corte del Gran Moghul indiano, e cfr. Enrico IV o
la presa di Parigi, Dramma Storico in Tre Atti di Léopold, Traduzione dal Francese
dell’Artista Drammatico Luigi Marchionni, Milano, da Placido Maria Visaj, Nei
Tre Re a S. Gio,. Laterano, 1842, p. 75: (al testo è allegata una “Biblioteca
Ebdomadaria dove si riportano traduzioni di drammi anche d’altri autori e,
appunto, azioni drammatiche dello stesso Marchionni): “[…] Il solo Araldo
dopo l’ordine muto d’Orangzeb fa chiudere il portone fuori del quale saranno
i soldati, il popolo e i mercatanti sulle navi […]”; nel resoconto d’una vicenda
174

Da cui gemmi la mia seconda vita.


Lo spasimo che ti ha torte le dita,
Degne che vi tenessi in sacramento
Dio, conferisce un lento
Gesto262 alle mani mentre le sollevi
Ad impedir le nevi
Dei tuoi capelli al sole, che di un raggio

di tipo giudiziario, Storia completa dell’Assassinio e del processo Fualdés. Prima


Edizione napoletana Copiata su quella di Livorno. Tomo I, In Napoli, nella
Tipografia di Antonio Garruccio, 1818, p. 303: “[…] le sue rivelazioni [sono]
come un tratto di luce, come il grido della coscienza, o come un ordine muto
della Provvidenza, che si serve dei colpevoli stessi per illuminare la giustizia
[…]”
257
La buccina è uno strumento musicale che la tradizione antica di tipo
bucolico assegna all’ambito pastorale. Innumerevoli, e dunque non
significative, le citazioni, soprattutto in ambito arcadico.
258
In riferimento ad un nobiluomo medioevale, cfr. Istoria dell’Europa di Messer
Pierfrancesco Giambullari dal DCCC al DCCCCXIII. Testo di Lingua. Tomo Primo,
Pisa, presso Niccolò Capurro, co’ Caratteri di F. Didot, MDCCCXXII, p. 88:
“[…] Conciossiacosachè egli è quell’Alberto, di chi cantava ne’ tempi suoi
(come recita Liutprando): Alberto poca chioma, lunga spada, e corta fede
[…]”; riferito ai cavalli andalusi, cfr. Elementi d’Agricoltura di Lodovico
Mitterpacher di Miternburg, Membro della Soc. Econ. dell’Austria infer. e P. Profess.
ord. d’Agricoltura nella R. Università di Buda, Tradotti in Italiano, con note relative
all’Agricoltura Milanese. edizione seconda corretta, ed accresciuta. Tomo Secondo,
Milano, MDCCXCI, Per Giuseppe Galeazzi R. Stampatore, p. 239: “[…] A
questa prerogativa (sc. la docile maestosità) si perdona l’eccesso della testa e del
collo troppo lunghi, e della poca chioma […]”; p. 214: riferito a un seduttore,
cfr. Opere del Conte Gasparo Gozzi Viniziano. Volume IV, In Padova, dalla
Tipografia e Fonderia Della Minerva, MDCCCXIX, p. 214: “[…] E ti parlerà a
un dipresso in tal forma, dappoichè si sarà fatto quel suo vezzoso e dolce
risolino ch’egli usa […]”.
259
Cfr. Della Gierarchia overo Del sacro Segno di Maria Vergine madre di Dio, e
Reina del Cielo. Libro Primo. Del R.P.D. Giovanni Battista Guarini di Cremona
Canonico Regolare Lateranense, In Venetia, MDCIX, Appresso Evangelista
175

Ti fere alla finestra; e odora il maggio263.

Ricordi tu le rose in lor tenzone


Con l’oro delle pergole? I rosai
Non fioriran più mai
Quinci e quindi lunghesso i bei viali!
L’ultima volta: “Perchè non ristai?”

Deuchino, & Gio. Battista Pulciani, p. 198: “[…] e ciò perché niuna creatura
semplice poté mai compararsi a Dio tanto, quanto lei […]” (il lemma è
ripetuto in mariera analoga un’altra volta nella stessa pagina), ma ci fu
cermìtamente una cointeressenza con Amori Ac Silentio Sacrum e Le Rime
Sparse di Adolfo De Bosis, Milano, Studio Editoriale Lombardo, MDCCCCXIV,
p. 134: “[…] E intendono la creatura/ semplice, tra l’erba/ e l’erba pur anco e la
dura/ silice e l’altura// e il mare e la nube e la pura/ sorgiva e ogni cosa che
serba/ in più d’una sillaba oscura/ per te dell’amante Natura/ la legge
universa e superba […]. Non è possibile dire in che verso si è verificato lo
scambio, dovendosi tener conto tenga che, stante la grande amicizia tra De
Bosis e della Porta, le liriche debosisiane – tra l’altro apparse ben prima che
uscisse la prima edizione del 1901 – erano ben conosciute dal poeta abruzzese.
In effetti la poesia a cui l’occorrenza rimonta uscì nel 1907 (e vedi Il Convito, A.
IV, Fasc. 12, dicembre 1907, p. 1073).
260
Cfr. Guida dell’educatore. Foglio Mensuale Compilato da Raffaello Lambruschini,
Anno Secondo, 1837, Firenze, Al gabinetto Scientifico e Letterario di G.P.
Vieusseux, Coi Tipi della Galileiana, MDCCCXXXVII, p. 15: “[…] Per verità
una bontà ferma ed instancabile, parole di sapienza e d’amore e insieme di
dignità, opposte sempre alle furie o alla ferrea ostinazione d’un giovane
caparbio, diminuiscono grandemente il bisogno di punizioni […]” (da un
contesto pedagogico siffatto geminò, in seguito, la citazione reperibile in Fra
scuola e casa. Bozzetti e racconti di Edmondo De Amicis, Milano, Treves, 1892, p.
15: “[…] Riuscì non dimeno, col contegno dignitoso e con la bontà ferma e
giusta, a ottener molto in breve tempo […]”); vedi poi, in ambito religioso,
Sessanta Salmi di David, Tradotti in Rime Volgari Italiane, Secondo la verità del testo
Hebreo. Col Cantico di Simeone, & i dieci Comandamenti della Legge, In Genova,
Appresso Stefano Miege, MDCL, p. 120, “[…] Ai poveri dispensa,/ Sempre la
sua bontà ferma tenendo,/ Il suo corno con gloria esaltarassi […]”; p. 14. C’è
176

Chiesero i contadini, anime buone,


“Non sei tu, qui, padrone?
Passi e dilegui: il tuo cavallo ha l’ali!”
Io contenni la bestia ma con tali
Strappi del morso, tanto ero straniero
Ivi nel mio pensiero,
Ch’essa gemette. Apparvermi, lontane,
Flettersi gravi e piane
Le verdi lance del fìtto canneto,
E piansi un pianto tragico segreto264.

da credere che il testo deamicisiano sia quello che più si avvicini all’esempio
del della Porta.
261
Gallicismo (antico francese “rancure”), che vale “senso di oppressione”,
“angoscia” (cfr. Guittone Chi pote departire, v. 6: “più tene in sé d’affanno e di
rancura”, e 34: “con più ci ha d’aver, più ci ha rancura”; Pensand’om che val bon
disio, v. 4: “desio lo punge e mettelo ‘n rancura”), si trova in Purgatorio, X.133:
“Come per sostentar solaio o tetto,/ per mensola talvolta una figura/ si vede
giugner le ginocchia al petto,/ la qual fa del non ver vera rancura/ nascere ‘n
chi la vede; così fatti/ vid’io color […]” (è la similitudine è tra i superbi gravati
di massi e le cariatidi). Su ciò, cfr. F. VAGNI, in Enciclopedia Dantesca, Roma,
Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970 – 1978, vol. IV, “ad voc.”.
262
Stranamente, per un espressione simile, sovviene un unico lemma, in una
dissertazione drammaturgica, e vedi Teatro Comico dell’Avvocato Vincenzo Roiti.
Tomo II, Milano, MDCCCXVII, a spese dell’Autore, p. 267: “[…] Alberto può
rabbuffarsi il crine con lento gesto e quasi dignitoso, ed in tal foggia
interessare il sentimento dello spettatore […]”.
263
In questo verso sono presenti ben due citazioni leopardiane consecutive:
una appare rimontante al “Passero solitario” (“[…] al sole, che di un raggio/ Ti
fere alla finestra […]” richiama il “ti fere il sol” del Leopardi. Si tenga conto
che l’immagine è già stata già evocata altrove, e vedi supra, in “Se questa casa
non è nostra ancora); l’altra non può che ricondurre alla lirica “A Silvia” (il
“maggio odoroso” che viene rimembrato nell’espressione dellaportiana
“odora il maggio”).
264
Cfr., ad esempio e la fonte pare certa, Scelte Poesie Italiane di Vincenzo Monti,
Lorenzo Mascheroni, Ugo Foscolo, Ipp. Pindemonte, Gio. Torti, Gaspare Gozzi,
177

Rividi allora una remota scena265


Inabissata nella puerizia
Felice, onde si inizia
Il trionfo del mio leggere e scrivere.
Ne avea chiamati, a corte di giustizia,
Mio padre a udir, che, tra grano ed avena,
Tanto, a misura piena,
Affittava una terra e a sottoscrivere.
Chiedea la carta a quei che sopravvivere
Potesse, figlio e al proprietario erede,
L’infantil firma a piede
Dell’atto. O nonna, che in man mi ponesti
La penna e mi dicesti:
– Scrivi, al nome di Dio –, tu fosti scorta
Al segnar cauto “antonio della porta.”

Giuseppe Parini, Aless. Manzoni, Ag. e Gio. Paradisi, Vol. Unico, Venezia, dallo
Stabilimento Encicl. Di G. Tasso Edit., MDCCCXXXIII, p. 15: “[…] Ei procedea
depresso ad inquieto/ Nel portamento, i rai celesti empiendo/ Di largo ad or
ad or pianto segreto […]”.
265
Cfr. Istoria della Decadenza e Rovina dell’Impero Romano, Tradotta dall’Inglese di
Edoardo Gibbon. Volume Secondo, in Pisa, MDCCXCVII, con Licenza de’
superiori, p. 107: “[…] I più nobili guerrieri, qualora il lor paese nativo era
immerso nell’ozio della pace, mantenevano le numerose loro truppe in
qualche remota scena d’azione […]; n una descrizione dei nativi americani, e
cfr. Annali del Teatro della Città di Reggio. Anno 1828, Bologna, coi Tipi del
Nobili e Comp., 1828, p. 173: “[…] Avverta il lettore, che non giudico degli
Osagi nostri se non dall’apparenza loro, veduti al lume fallace della remota
scena […]. Vedi pure Opere Varie in Versi ed in Prosa di Michelangelo Buonarroti
il Giovane, Alcune delle Quali non mai Stampate, Raccolte da Pietro Fanfani,
Firenze, Felice Le Monnier, 1863, p. 277: “[…] Tanto è fallace la remota scena,/
Dove noi fabbrichiamo il nostro fóro/ Ch’a darvi entro del capo alfin ne mena/
Ogni nostr’ opra […]”, fonte probabile del della Porta.
178

L’affittuario, cui ventinove anni


Legavano in contratto, ebbesi offerta
Sulla pagina aperta
Da me la penna: mi guardò; sorrise:
Poi, di un suo gesto, dichiarò inesperta
La mano usa alla stiva, usa agli affanni
Del sarchio: e turcimanni
Chiese due, letterati, alle intercise
Da lui due sbarre in croce: e aveale incise
Egli sicuramente a pie del foglio
Segnato dell’orgoglio
Mio primo, a voto! E, più tardi, il contratto
Fé’, del canone in patto,
Vano, e acquistò la tua terra, o poeta,
Marcata di sua croce analfabeta.

Forse che tu ne avresti fatta, o buona


Madre, la dote per Evangelina
Se stata ella vicina
Ti fosse più nella deserta casa.
Anzi che donna, ma non più bambina,
Vanìo, sorella, l’esile persona
Pria che la sua corona
Ti avesse al mondo Amore persuasa.
Straniere genti266 hanno, più tardi, invasa
La virginea tua stanza, o giovinetta:
Un passo vi si affretta
Crudele267, che vi suscita chi sa

266
Chiaro riferimento al penultimo verso del sonetto “In morte del fratello
Giovanni” di Ugo Foscolo.
267
Il lemma ha avuto una certa fortuna in epoca precedente a quella in cui
scrisse il della Porta. In un ambito di critica omerica, cfr. Lo Spettatore Italiano
ovvero Mescolanze di Poesia, di Filosofia, di Novelle, di letteratura, di Teatro, di Belle
179

Quali echi di pietà,


Se veramente, in suo pensier deliro,
Vi udì sempre la madre il tuo respiro.

Or, sconsolata, il vario della sorte


Giro ripensi e affidi la salute
Ultima, con le mute

Arti e di Bibliografia. Tomo Ottavo, Milano, presso gli Editori A.F. Stella e
Comp., 1817, p. 120: “[…] Son io dunque ridotto al passo crudele d’insegnare,
se non a leggere, almeno a intendere un libro laddove non è né intralciato, né
difficile, né oscuro? […]”; in ambito patriottico, e vedi Il Corrispondente
Costituzionale, No. 20, Sabato 23 settembre 1820, In Messina, presso la Vedova di
Gio. Del Nobolo, p. 1: “[…] Assai si è sofferto in Sicilia per il furore di una
rubelle Città, spinse dessa il passo crudele a trucidare un Regno […]”; in un
romanzo del Ghislanzoni, vedi Gli Artisti da Teatro. Romanzo di A. Ghislanzoni
con note critico-biografiche. Vol. V, Milano, G. Daelli e C. Editori, MDCCCLXV,
p. 15: in un discorso di Luigi XVI, e vedi Storia della Vita e Regno di Luigi XVI.
Compilata da D. Gioseffo Massa. Vol. IV, Torino, 1794, Dalla Stamperia Soffietti.
Con permissione, p. 20: “[…] Molto ho lottato prima di condurmi a questo
passo crudele […]”; “[…] Mi sono adoprato con ogni mio potere per evitare la
guerra, e non mi sono determinato a questo passo crudele, da cui è aggravato
il popolo tutto, se non mio malgrado […]”; in un libretto d’opera di stampo
“bohemienne” e patriottico, e cfr. Michele Perrin. Opera Comica in Tre Atti.
Parole di M. Marcello. Musica del M° Cav. Antonio Cagnoni. Da rappresentarsi al
Teatro Vittorio Emanuele di Torino in Primavera 1865, Torino, R. Stabilimento
Tito di Gio. Ricordi, Milano-Napoli, p. 10: “[…] Mi costò ben caro questo
passo crudele […]; in una commedia di tipo goldoniano scritta da Domenico
Bassi, cfr. L’Impensato Accidente. Commedia del Signor Domenico Bassi Ferrarese,
Venezia, MDCCXCII. Con licenza de’ Superiori, p. 27: “[…] Sappi che con mio
estremo cordoglio son condotta al passo crudele di dovere stender la mano a
Roberto figlio del tuo padrone […]”; in un contesto d’un’ anonima orazione
funeraria, cfr. Elogio Funebre di Felice De Maria, Venezia, dalla Tipografia Eredi
Paroni, 1854, p. 37: “[…] Reputo la parola un passo crudele, che riapre la
piaga, che rinnova il martirio […]”; in ambito d’un romanzo storico
dumasiano ambientato nel Seicento inglese (la traduzione è anonima), e cfr.
180

Lagrime268, o madre, all’ultimo tuo figlio:


Cui non mestizia di gioie perdute
O vana speme269 di gloria fan forte,
Ned un pensier di morte,
Ma un tuo rincora cenno di consiglio270.
Ti rivedessi nell’arido ciglio271
La gioia onde credesti di morire

Gli Stuart. racconto Storico di Alessandro Dumas. prima versione Italiana. Volume I,
Milano, coi tipi Borroni e Scotti. A spese degli editori, p. 165. “[…] Voi mi
avete forzato, diceva Cromwello, a questo passo crudele […]”; parlando della
morte per suicidio dell’incisore Vincenso Vangelisti, in Le Classiche stampe dal
Cominciamento della Calcografia fino al Presente compresi gli artisti Viventi,
Descritte e Corredate di Storiche e Critiche Osservazioni sul Merito, sui Soggetti che
rappresentano etc., Scelte e Proposte a Dilettevole ed Instruttivo ornamento di una
Galleria dal Dottore Giulio Ferrario, Milano, presso Santo Bravetta Tipografo-
Libraio, contrada di S.ta Margherita all’angolo de’ Due Muri N.° 1042, 1835, p.
357: “[…] Non mi è lecito pubblicare i motivi dai quali probabilmente fu
spinta la troppo focosa sua immaginazione a tal passo crudele […]”; riguardo
la triste condizione dei sacerdoti in periodo rivoluzionario, in I vantaggio della
Rivoluzione. Discorso di Aurelio Benattenti da Ortezzano, Fermo, Pel Bartolini Tip.
Arciv. Con Permess., MDCCCXXV, p. 73: “[…] ve n’ha pur uno, che giunto a
questo passo crudele e spaventevole, scosso dall’orrore attuale, e dalla triste
immaginazione sbigottito di un avvenire ignoto, un sol pensiero rivolga alla
Prebenda […]”; infine, in ambito della storiografia erudita, cfr. D. CARUTTI,
Storia della diplomazia della corte di Savoia. Vol. III, Milano, Fratelli Bocca, 1879,
p. 135: “[…] Il retto giudizio di Vittorio Amedeo II ripugnava al passo crudele
[…]”.
268
Il lemma “mute lacrime” è certamente carducciano (e cfr. Juvenilia,
Bologna, Zanichelli, 1880, p. 226: “[…] E presso al freddo focolar sedea/
Barbaro sgherro, a i padri antichi in faccia/ Esplorando il dolor l’ansia la
speme:/ Vile! e a le mute lacrime irridea;/ E col ferro e lo scherno e la
minaccia,/ Vile!, l’ira premea che inerme freme […]”). Per una storia di tale
occorrenza, si veda, inizialmente, Memorie Poetiche e Poesie di N. Tommaseo.
Volume Unico, Venezia, co’ Tipi del Gondoliere, p. 375: “[…] ma tu di mute
lacrime/ pascevi il lungo affanno,/ Tu mansüeta e docile/ Servivi al tuo
181

Quando mi udisti dire


Com’ io recassi al fiero petto272 e in faccia,
Per due colpi, la traccia
Vermiglia273 delle due fresche ferite
Da giusto campar, ed ora scolorite

tiranno; E semplice, sincera/ saliva al Dio degli angeli/ Per lui la tua preghiera
[…]”; in un discorso politico sulla condizione dei lavoratori minuti nello Stato
della Chiesa, cfr. (ma esistono paredre e discendenti) Opere del Conte Giulio
Perticari di Pesaro. Vol. I, Venezia, Girolamo Tasso Ed. Calc. Lit. Lib. e Fond.,
MDCCCXXXII, p. 173 “[…] Poi freddi, stupidi ritorneranno alle vuote lor case,
e mostreranno nelle mute lacrime la futura fame ai fanciulli, alle madri, ai
vecchi infermi, alle povere mogli loro […]”; in carme encomiastico dello
scrittore e politico siciliano Benedetto Scillamà, cfr. Giornale di Scienze, lettere e
Arti per La Sicilia Diretto dal Bar. V. Mortillaro, Vol. 73, Anno 19, Gennaio Febbraio
Marzo, Palermo, presso la Stamperia Oretea, Via maestra dell’Albergaria N.
240, 1841, p. 323: “[…] con mute/ Lacrime al ciel io ti chiedeva ignaro/ Che
prego uman non v’ha che degli estinti/ Possa l’ombre evocar […]”; G.
D’ANNUNZIO, L’innocente, Napoli, Bideri, 1892, p. 207: “[…] Le mute lacrime
dell’anima calpestata non più le riempivano il cavo degli occhi […]”;
nell’ambito d’un ragguaglio bibliografico anonimo su una tragedia di
Federico della Valle, e cfr. Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti.
Opera Periodica Compilata per Cura di G.R.. Volume Quarto. II° Anno, Napoli, Pe’
Tipi Della Minerva, strada s. Anna de’ Lombardi num.° 10, 1833 “[…] Ve ne
invita il popolo cogli applausi; ve ne pregano gli amici con pie parole; ve ne
scongiurano le madri vostre con quelle mute lacrime, con quel tremare e
palpitare d’amore, mentre odono proclamarvi a nome, e veggono que’ premi
in cui solo prende sicurtà ogni loro speranza! […]”; in riferimento alle guerre
anglo-irlandesi della prima metà del Seicento, e vedi Istoria d’Inghilterra di
David Hume Recata in Italiano da Michele Leoni. Tomo X, In Venezia, per
Giuseppe Picotti Edit., 1825, p. 21: “[…] Attraversavan eglino in fretta e con
mute lacrime, o lamentosi gridi i territorj ostili, e trovavano ogni cuore, che
non fosse indurato dalla nativa barbarie, guardato dalle furie, ancor più
implacabili, di una malintesa pietà e religione […]”; si veda poi, in un
182

Altra milizia ed altri fieri segni274


Chiede e mi stampa, ogni di più, sul volto
Il pensiero accolto
Dall’error della vita alla tua pace;
Tu mi comanda: intero ti si è vólto
Quel che di me par che meglio s’ingegni
Ad atti austeri275 e degni,
Madre, il cui labro parla raro o tace.

romanzo psicologico di Federico De Roberto, e cfr. F. DE ROBERTO, L’illusione:


Romanzo, Milano, Libr. Edit. Galli di C. Chiesa e F. Guindani, 1891, p. 128 e
passim: “[…] Allora, a quell’idea, all’idea di vestire la bianca veste delle spose,
di cingere la simbolica ghirlanda del fior d’arancio, due mute lacrime le
rigavan le gote […]” (l’occorrenza è qui soltanto esemplificativa, essendo
citata nel volume derobertiano – sempre in contesto nuziale – altre due volte);
in ambito patriottico, e cfr. Poesie di Giannina Milli. Volume Secondo, Firenze,
Felice Le Monnier, 1863, p. 332: “[…] Io ti vidi, o Italia mia,/ Sparso il volto di
squallore,/ Nell’ inerzia del dolore/ Mute lacrime versar […]”; in contesto
riferibile ad un’omelia di Gregorio di Nazianzo, Storia Universale scritta da
Cesare Cantù. Volume VI. Epoca VII, Torino, presso gli Editori Giuseppe Pomba
e C., 1840, p. 521: “[…] Intorno ad essa mute lacrime , dolore inconsolabile ma
silenzioso; facendosi ognuno coscienza d’ onorare di gemili la partenza così
tranquilla della cristiana , la cui morte pareva una devota solennità […]”; in
una traduzione dei Sette a Tebe di Eschilo, e cfr. I Sette a Tebe. Tragedia d’Eschilo
Recata in Versi Italiani da G. Battista Niccolini Fiorentino, Firenze, dalla
Tipografia all’Insegna dell’Ancora, 1816, p. 59: “[…] ma sol (chi pago/ Di ciò
sarebbe?) egli avverrà che mute/ lacrime ottenga dalla pia sorella […]”; ancora
in contesto patriottico, in Prose e Versi di Carlo Pepoli, Ginevra, Tipografia di
A.L. Vignier, MDCCCXXXIII, e p. 98: “Ve ne invita il popolo cogli appalusi;
ve ne pregano gli amici con pie parole; ve ne scongiurano le madri vostre con
quelle mute lacrime, con quel tremare e palpitare d’amore […]”; in ambito di
critica leopardiana, e cfr. La vita e le opere di Giacomo Leopardi, per Francesco
Montefredini, Milano, Dumolard, 1881, p. 477: “[…] gli occhi gli si gonfiano
d’inaspettate e mute lacrime […]”. Si tenga conto che numerosi sono poi i
contesti di opere parenetiche o comunque religiose, tanto del Settecento
quanto dell’Ottocento, in cui il lemma trova luogo.
183

Ridi una volta! vedi? ti compiace


Delle sue rose il maggio: ne vuoi una
Tra quella, che fu bruna,
Chioma d’argento? Ah, se tu fossi nonna,
Che bel vederti in gonna
Candida276 andare: araldi giovinetti277

269
Innumerevoli sono gli usi di tale lemma, per il quale si segnalerà – “et pour
cause” – l’uso fattone da Alfieri (e cfr., ad esempio, Opere di Vittorio Alfieri.
Volume Vigesimoprimo, Italia, MDCCCXV, p. 164: “[…] Turno allora deluso, a
sè davanti/ Fuggir vedendo Enea, di vana speme,/ Ebro il superbo core, ei
grida […]”, forse a sua volta derivato da un’altra versione virgiliana, quella di
Clemente Bondi, per cui vedi L’Eneide Tradotta in Versi Italiani da Clemente
Bondi. Tomo I, Parma, Dalla Stamperia Reale, MDCCXC, p. 254: “[…] Egli ode i
rei,/ Ei li punisce, e a rivelar gli sforza/ Le colpe qui, che impunemente
occulte/ Tennero in vita, o differir protervi/ Con vana speme ad espiarle in
morte […]”), che sembra render ragione degli utilizzi successivi in epoca
romantica. L’occorrenza dellaportiana, peraltro, e l’ipotesi appare intrigante,
potrebbe anche aver avuto qualche origine anch’essa nella traduzione del
Bondi, perché il passo da cui è tratta si riferisce al libro VI, quello in cui c’è la
discesa agli inferi di Enea; le note propensioni dantesche del nostro autore
possono averlo portato ad incontrare la versione del Bondi e a trarree la sua
citazione dalla medesima.
270
Cfr., per il lemma, due sole occorrenze reperte, la prima delle quali trovasi
in una versione italiana del Tom Jones di Fielding circolante nel primo
Ottocento (e cfr. Storia di Tom Jones il trovatello. Opera dello Scudiere Enrico
Fielding. Versione dall’Originale Inglese di Gaetano Barbieri, I.R. Prof. di
Matematica Emerito. Volume V, Milano, per G. Truffi e Comp., MDCCCXXXIII,
p. 262: “[…] La nostra eroina all’atto di congedarsi dalla cugina, non potè
starsi dal darle un cenno di consiglio; supplicandola fin per amor di Dio, a
tenersi in guardia sopra sè stessa, e a pensare quanto fosse pericolosa la
situazione in cui si trovava […]”; in contesto d’esaltazione delle virtù
femminili, cfr. Due Lettere di Gabriele Pepe già Colonnello napoletano al
Marchese Gino Capponi, Firenze, per Battelli e Figli, MDCCCXXXVI, p. 10:
“[…] Non infrequente è l’altro caso di malvaggi atrocissimi, i quali
184

Avresti, dei miei figli i dolci aspetti278!

VI.

UNA NOTTE, ED AVRÒ DI QUELLA NOTTE279

incorrigibilmente contumaci ad ogni timor di legge, d’autorità, di pena, e


sordi ad ogni esortazione di persona venerandissima, si ravvidero ed
ammendarono al solo cenno di consiglio avutone da cara donna […]”, forse la
fonte – dato l’ambito – dell’occorrenza dellaportiana.
271
Per tale occorrenza, cfr., ad esempio, Il Tasso e la Principessa Eleonora d’Este.
Romanzo Storico di Madama Cottis. Versione di Alessandro Magni. Vol. II, Milano,
Tipografia e Libreria Pirotta e C., 1842, p. 146: “[…] Alcune lagrime vennero
ad inumidirmi l’arido ciglio, mi sembrava che ritrovassi un amico già da
lunga pezza perduto […]”; in un testo encomiastico del Frugoni, e vedi Opere
Poetiche del Signor Abate Carlo Innocenzio Frugoni cit., Tomo VII, p. 270. “[…]
Tu, che libero sei, deh! fa ch’io stringa/ Ancor l’amica destra, ancora ascolti/
La nota voce; e sebben sempre ignote/ Furo al mio non imbelle arido ciglio
[…]”; in ambito tragico, anche se in traduzione, e vedi Tragedie di Eschilo
Tradotte da Felice Belotti. Tomo I, Milano, dalla Società Tipografica dei Classici
Italiani, MDCCCXXI, p. 114: “[…] Di mio padre l’ultrice Erinne al fianco/ Mi
sta con fermo arido ciglio, e dice:/ Meglio a te fia presto morir che tardo […]”;
in una lirica d’intonazione slavistica, e vedi Meditazioni Poetiche e Canti
Popolari di Alessandro Ballanti, Parma, Tipografia Cavour, di P. Grazioli, 1863,
pp. 263 – 264: “[…] Come un velo/ Di morte le offuscò l’arido ciglio […]; di
nuovo, ancora una volta, in anonimo ambito patriottardo, Antologia
Repubblicana, Bologna, Marzo 1831, p. 32: “[…] Ed al figlio/ Con arido ciglio/
Madre addita severa 1’estinto,/ Ma non vinto/ Consorte guerrier […]”; dentro
un racconto di stampo bozzettistico dovuto alla penna di Gaetano Torelli, in
Napoli in miniatura, ovvero Il Popolo di Napoli ed i suoi Costumi. Opera di Patrii
Autori Pubblicata per cura di Mariano Lombardi. Volume Unico, Napoli,
Tipografia Cannavacciuoli, 1847, p. 80: “[…] il signor d’Elboeuf le protese la
mano e strinse nella sua quella della vecchia dal cui arido ciglio scorreva
qualche lagrima di tenerezza […]”; sul versante d’una traduzione di Dumas,
185

Una notte, ed avrò di quella notte


Vivo in eterno il brivido nel sangue280,
Ella si offerse, róca nella voce,
Mozzo il respiro, accesa dalla febre281:
Ed io contenni282 quel tremante fiore
Di giovinezza, fra283 le braccia, bianco.

cfr. Il Conte di Montecristo di Alessandro Dumas. Versione di Jean Rossari. Vol. V,


Milano, per Borroni e Scotti Tipografi-Libraj e Fonditori di Caratteri, 1846, p.
51: “[…] Una lagrima irrorò l’arido ciglio del vecchio […]”; in un carme
funebre della poetessa napoletana Emilia Jezzi, e cfr. Bibliografia Femminile
Italiana del XX Secolo, per Oscar Greco, presso i Principali Librai d’Italia,
Venezia, 1875, p. 268: “[…] A che d’imbelle/ onore il fasto! lagrime spremette/
D’arido ciglio, mendicati detti/ Formula di pensier, compri lamenti,/ Sariano
insulto a così nobil frale […]”; in ambito delle traduzioni shakespeariane di
metà Ottocento, e cfr. Roméo et Juliette: tragédie en cinq actes de Shakespeare;
tradución italienne avec le francais en regard; seule édition conforme è la
représentation, Milan, Fontana, s.d., p. 19: “[…] Oh, giovani! voi strappate dal
mio arido ciglio lagrime di contentezza! […]”. Confrontando la titolatura di
opere consimili, quest’ultima traduzione in oggetto dovrebbe esser dovuta a
Carlo Rusconi scrittore e politico risorgimentale italiano, su cui vedi,
esemplificativamente, M. PRAZ, Ricerche anglo-italiane, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, 1944, p. 174. Essa appare dunque situabile, con “terminus
post quem”, prima del 1873, che è la data dell’ultima edizione delle versioni
rusconiane, ma non dovrebbe essere la fonte ultima del della Porta, vista la
sua citata propensione per Giulio Carcano, altro traduttore di Shakespeare
assai noto in quel periodo, sicché la fonta più probabile appare quella del
Frugoni.
272
Anche in questo caso le geminazioni sono numerosissime, ma il termine
pare avere, vista la frequenza delle edizioni a stampa tanto settecentesche
quanto del secolo decimonono, una decisa origine in un passo del Chiabrera
(e cfr. Delle Poesie di Gabriello Chiabrera. Volume Primo, In Firenze, Per Zanobi
Pignoni, 1627. Con Licenza de’ Superiori, p. 29: “[…] Ah, fiero petto dove
rabbia il tira[…]”. Il brano si riferisce agli sciolti riguardanti argomenti
atronomici che il Chiabrera dedicò a Carlo Medici e che vennero più volte
186

Mai nessun giglio folgorò più bianco,


Nella284 paura di più fonda notte,
Del suo corpo divino285; né mai fiore
Aulì più che la bocca; né mai sangue
Nutrì286 vene più azzurre; né mai febre
Delirò con più triste arida287 voce.

ristampati nei due secoli successivi).


273
L’occorrenza è certamente d’origine deamicisiana, e si veda il volume delle
Poesie (Milano, Treves, 1881) a p. 36: “[…] E un dì gli vide in fronte la
vermiglia/ Traccia del labbro de la nuova amante,/ E – bada – mormorò, cupa
e tremante,/ – Un’ape ti ferì sopra le ciglia […]”.
274
Benché il lemma abbia avuto, anche in questo caso, un’assoluta molteplicità
di geminazioni, esso rimonta certamente, e dunque anche in questo caso, ad
un passo del Pastor fido di Guarini (e cfr. “[…] I fieri segni intanto,/ E gli
accidenti mostruosi e pieni/ Di spavento e d’orror, che son nel tempio/ Non
pativano Indugio […]”, rilevando che appare ovviamente impossibile, in
questo caso e viste le tante ristampe, determinare un’edizione di riferimento).
275
Per l’occorrenza, cfr. F. ZANOTTO, La Divina Commedia di Dante Alighieri,
con commento del prof. Giacomo Poletto, S.e., Tournay, 1894, p. 684: “[…] ma
credo accennare agli atti austeri e onesti di Beatrice quand’era viva […]”; in
riferimento ad un poeta siculo, cfr. Archivio storico siciliano. Volume 20,
Palermo, Società Siciliana per la Storia Patria, 1895, p. 31 “[…] Questo concetto
domina in molti luoghi delle Rime, ove egli loda le imprese ardue, che
recarono danno agli invasori delle sue terre; ove egli non si astiene dal
ricordare le migliori azioni contro le degenerate, che privavano degli atti
austeri e dello splendore del sapere […]”; in un contesto fiabesco, e cfr. Letture
di famiglia, giornale settimanale di educazione civile, morale e religiosa. Anno
Quarto, Torino, presso G. Pomba e Comp. Editori, 1845, p. 152: “[…] Nella
foresta [c’erano] gli atti austeri della penitenza […]”; Rassegna Emiliana di
Storia, Letteratura ed Arte, Volume, 1, S.e, Modena, 1888, p. 304: “[…] A che
pugnar, se tal ne irride il fato?/ Vidimi allora l’ultima diva a lato/ Bianca qual
giglio, in atti austeri e miti […]”; in un carme d’autore semisconosciuto
d’argometo patriottico, cfr. L’Illustrazione popolare, Volume XIII. Dal n. 1 (4
novembre 1877), al n. 52 (27 ottobre 1878), Milano, Fratelli Treves, 1877, p. 686:
187

Qualche singulto raro288 quella voce


Su dagli abissi del petto289, sì bianco290,
Traeva: anche tremavan per la febre
I fior’ del seno291: vivo, nella notte292
Silenziosa293, avea parole il sangue
Sulla sua bocca, esuriente294 fiore.

“[…] Era un tramonto; tutto in sè raccolto/ Ligure giovinetto in cuor gemea;/ E


dalla sponda inverso il mar rivolto,/ Ansio quell’ onde interrogar parea:/
Negli atti austeri, nel seren del volto/ Di mondi scopritor lume splendea:/
Guatava il mare […]”. Si può ipotizzare, per il della porta, un’origine nel testo
di Poletto e Zanotto.
276
Occorrenza sicuramente petrarchesca, e vedi Canzoniere, Parte II, Canzone
II (42), vv. 61 – 66, certamente letto in Il Canzoniere di Francesco Petrarca,
riveduto nel testo e commentato da E.A. Scartazzini, Leipzig, F.A. Brockhaus,
1883, p. 253: “[…] Al fin vid’ io per entro i fiori e l’erba/ Pensosa ir sì leggiadra
e bella Donna,/ Che mai noi penso eh’ i’ non arda e treme;/ Umile in sé, ma
‘ncontr’ Amor superba:/ Ed avea in dosso sì candida gonna,/ Sì testa, eh’ oro e
neve parea insieme […]” (ripetuto più volte, e vedi ivi, “Trionfo della Castità”,
v. 115, p. 337: “[…] avea in dosso il dì candida gonna […]”).
277
Il lemma, di stampo vagamente pascoliano, nasce con una poesia di Arturo
Graf (e cfr. la lirica “Venere demonio”, in A. GRAF, Dopo il tramonto. Versi,
Milano, Fratelli Treves, 1893, p. 91: “[…] Vien da prima, con
bell’ordinamento,/ Un bianco stuol di giovinetti araldi,/ Che una dolce
armonia, festosi e baldi,/ Spiran da trombe di forbito argento […]”), per poi
passare – forse anche attraverso la mediazione dellaportiana – a Sergio
Corazzini (per cui vedi “Alla serenità”, in S. CORAZZINI, Le Aureole, Tip.
operaia romana cooperativa, 1905, p. 26: “[…] Io t’ò nel cuore e tu, sole, mi
scaldi/ e le cose non oggi allo sfacelo/ imminente rassegnansi: che cielo,/ oggi!
e che squilli! Nunziano gli araldi// giovinetti l’avvento che sognai?/ Come
tutto è soave, come tutto/ mi canta in cuore! non m’hai tu costrutto/ un nido
nei novissimi rosai? […]”), per poi finire ne “I Mille”, celebre testo celebrativo
dell’impresa garibaldina composto da Angiolo Silvio Novaro (e vedi A.S.
NOVARO, Il cestello: poesie per i piccoli, Milano, Fratelli Treves, 1910, p. 107: “[…]
Erano mille appena/ I giovinetti araldi/ Della fortuna italica nascente:/ Mille,
188

Vìnta, piegò come succiso fiore295


E sul mio petto si abbattè, con voce
Non tutta umana agli296 impeti del sangue297
Chiamandomi: morivano in lor bianco
I grandi occhi nerissimi: la notte
Alta incitava la concorde febre.

contro un esercito potente/ Armato di cannoni,/ Mille inermi […]”).


278
Una pletora sono le occorrenze di questo lemma, di cui pure val la pena
dare qualche esempio cogente. Si veda, inizialmente, Opere Poetiche del Signor
Abate Carlo Innocenzio Frugoni, fra gli Arcadi Comante Eginetico, Segretario
Perpetuo della Reale Accademia delle Belle Arti, Compositore e Revisore degli
Spettacoli Teatrali di S.A.R. Il Signor Infante Duca di Parma, Piacenza, Guastalla,
etc. Tomo VII, Parma, dalla Stamperia Reale, MDCCLXXIX, p. 209: “[…] Godea
Pietate,/ Quanto convien, temprarle, e sea sovente/ Succeder delle pene al
tristo orrore/ Ne’ dolci aspetti lor Grazia e Perdono […]”; nella Frusta
Letteraria del Baretti, e cfr. La Frusta Letteraria di Aristarco Scannabue, Opera di
Giuseppe Baretti. Tomo III, Bologna, 1838, Tipografia Governativa della Volpe al
Sassi, p. 98: “[…] mi affrettai a visitare le rovine di un tempio chiamato
dell’imperador Giustiniano, di cui me ne diedero i dolci aspetti di quelle belle
mussulmane […]. In ambito filiale o comunque relativo a fanciulli, come nel
caso del della Porta, si segnala, inizialmente e in ambito bucolico, La Pastorizia
di Cesare Arici, membro e Segretario dell’Istituto Italiano, Brescia, per Nicolò
Bettoni, MDCCCXIV, p. 125: “[…] Questa, condotta in suo poter, la speme/
Frodò de’ padri un giorno, o i dolci aspetti/ Disonestando, disfiorar si piacque/
La pudica bellezza e le serene/ De’ fanciulli sembianze […]”; in un libretto per
musica di tematica mitologica, e cfr.Dafne. Serenata per Musica Da
rappresentarsi nella Sala del Ninfenburgo Per Comando Dell’Altezza Serenissima
Elettorale di Carlo Alberto, Duca dell’Alta e Bassa Baviera, etc., Li 10 Luglio 1738, In
Monaco, Appresso Giov. Giac. Vötter, Stampat. degli Stati Provinc. di Baviera,
p. 15: “[...] Deh quell’amor che inspira/ Secrete intelligenze al fido Core/
Quello in tale abbandono, oggi mi detti/ Sensi di sofferenza in dolci aspetti/
ma qui il figlio, O contento, è qual indusse/ Cieco desio di giovanil pensiero/
Con si nascosta luce/ Quivi l’orme a stampare? […]”. Tuttavia, la fonte appare,
con qualche certezza, in un pensiero di Gasparo Gozzi citato dalllo storico
189

Pronte, le bocche che ne avea la febre


Arse298 ci si composero in un fiore
Unico299: e tutta fiammeggiò la notte
Propiziando300; ma nessuna voce
Se non, parvemi301, un gemito dal bianco
Petto302 salìa concordando col sangue.

Carlo Botta e riportato, di seconda mano, dal Carducci in Letture del


risorgimento italiano, scelte e ordinate da Giosue Carducci (1719-1870). Volume 1,
N. Zanichelli, 1896, p. 150: “[…] E se le generazioni presenti adorano, come
fanno, la memoria ed il nome di questo barbaro, è perché sono diventate
barbare esse stesse e celano sotto dolci aspetti anime di fango […]”. Si tenga
conto, da ultimo, che il lemma è anche ne “La Caduta” di Giuseppe Parini (e
vedi Alcune poesie di Ripano Eupilino, Londra, presso Giacomo Tomson, 1752,
p. 56: “[…] E come mai fra così dolci aspetti/ Osa Morte por piè franca, ed
ardita,/ Ond’uom sì grande al suo poter soggetti? […]”), il quale potrebbe aver
dato origine a tutte le geminazioni successive.
279
Cfr. “La Sestina del Biancofiore”, in La Nuova Rassegna, domenica 3
dicembre 1893, n. 46, p. 713. Il componimento è dedicato ad una donna in
stato di convalescenza, il cui nome – Biancofiore – è certamente quello d’un
ignota donna amata dal della Porta. Esso si ripete almeno un’altra volta nel
volume delle Canzoni (e cfr., come in una sorta d’imperfetta “cobla capfinida”,
la lirica “Anche ritorni tra le meste brume” dove, ai vv. 18 – 20, leggesi: “[…]
Tempo è, nel verno, a tante rinnovare,/ Rendendo il ceppo un memore
chiarore,/ Viole ne’ tuoi occhi, o Biancofiore […], e cfr. Canzoni, pp. 73 – 80, in
part, p. 76 per la citazione), anche se da nessuna parte, neppure tra gli esangui
epistolari dellaportiani, è possibile inferire chi fosse costei. Interessante
appare il fatto che essa venga identificata, alla maniera degli adorati poeti
stilnovistici, con un delicato “senhal”. riguardo le varianti, in questo caso
notevoli e d’una certa importanza interpretativa, il testo in rivista verrà
designato con l’acronimo NR.
280
“Una notte (perché di quella notte/ pur ora freme il brivido nel sangue”
(NR). La differenza di connotazione sta qui nel fatto che, mentre nel testo
primigenio le parole del poeta appaiono venate di tristezza e di malinconico
rimpianto, in quello definitivo prevale un’atmosfera di dolce rimembranza,
190

Ella sorrise: la sua bocca esangue303


Non respirava; la recente febre
Avea gittate rose per il bianco
Volto e viole sotto i cigli, il fiore
Della delizia. Prima, la mia voce
Ruppe il silenzio della sacra notte304.

quasi che il ricordo vada lentamente sfocando nella memoria.


281
“da la febre” (NR). Nella versione iniziale prevale una coloritura più
arcaizzante, come di mostrano questo ed altri casi successivi.
282
“ritenni” (NR).
283
“tra” (NR), forse per ragioni grammaticali.
284
“ne la” (NR).
285
Innumerevoli i riferimenti nei testi parenetici, teologici e religiosi in
generale. Qui varrà piuttosto la pena segnalare questi versi de “La Maschera”,
nei Fleurs du Mal di Baudelaire: “[…] Ô blaspheme de l’art! ô surprise fatale!/
La femme au corps divin, promettant le Bonheur,/ Par le haut se termin en
monster bicéphale! […]” (letti, nel testo francese a fronte, in C. BAUDELAIRE, I
Fiori del Male, trad. it., Firenze, Giunti, 2007, pp. 52 – 55, in part. p. 55, vv. 17 –
19).
286
“segnò” (NR). Nel testo definitivo il poeta fa prevalere la figura di pensiero
(metafora) rispetto alla figura di parola (allitterazione), probabilmente per
definire un ambito simbolista.
287
“strana e arida” (NR). Il vocabolo “triste”, presente nell’edizione definitiva,
smussa il contrastivo originale “strana”. Per quel che concerne il primo dei
due lemmi, e daata anche la storia filologica del verso, si può dire che esso ha
certamente una filiazione nelle Canzoni di Re Enzio del Pascoli, e in particolare
nella “Canzone dell’Olifante”, lassa VII, vv. 23 – 25: “[…] «O triste voce! pensa
il re prigione./ Che non cavalco per le bianche strade/ di Lombardia con
Ecellino e Buoso?» […]” (il testo venne pubblicato il 31 maggio 1908). In
precedenza si segnalano, a titolo d’esempio, l’idillico Brofferio (e cfr.
Tradizioni Italiane per la Prima Volta raccolte in Ciascuna Provincia dell’Italia e
Mandate alla Luce per Cura di Rinomati Scrittori Italiani. Opera Diretta da Angelo
Brofferio. Volume Quarto, Torino, Stabilimento Tip. di Al. Fontana, 1850, p. 527:
“[…] ma già i raggi del sole rimontano dalle valli, ed il canto de’ pastori più
191

Ben tu, notte305, vivrai sacra nel sangue,


Mentre la dolce febre306 con sua voce
Rinnovi le viole a Biancofiore.

VII.

flebile e più lento, a guisa della triste voce delle ore trascorse, a guisa del
vento che muore sulle cime velate, sembra piangere, nell’uscire dal petto
[…]”); o un Cesare Cantù “raccolto” dal Bertolotti (e vedi Il Nuovo Ricoglitore
ossia archivi d’Ogni Letteratura Antica e Moderna con Rassegna e Notizie di Libri
Nuovi e Nuove Edizioni. Anno IV, Milano, presso Ant. Fort. Stella e Figli, 1828,
p. 120: “[…] Ma qual si fe’ quando alla triste voce,/ Al biondo crin sull’omero
ondeggiante/ Nelle torose braccia ad un feroce/ raffigurò la sua diletta amante
[…]”). Le altre occorrenze non meritano menzione perché poco probanti o non
cogenti. Per quanto riguarda la seconda occorrenza, cfr., nella traduzione di
Ermolao Federigo delle Metamorfosi di Ovidio, Opere di Publio Ovidio Nasone
Tradotte ed Illustrate. Volume Secondo, Venezia, dalla Tip. di Giuseppe Antonelli
Ed. Premiato con Medaglie d’Oro, 1844, col. 76: “[…] In se stessa alcun poco si
ristrinse/ E bassa giacque oltre l’usato; e queste/ mandò parole con arida voce
[…]”; La Donna e La Scienza o La Soluzione del Problema Sociale di Salvatore
Morelli, Due Volte Consigliere del Municipio di Napoli e Deputato al Parlamento
Italiano. 3a Edizione riveduta dall’autore, con Cenno Critico e Biografico del
Professore Virgilio Estival, Napoli Società Tipografico-Editrice, Rosario di
Palazzo 25, 1869, p. 214: “[…] l’uomo che si dice di scienza non lo à cavato egli
medesimo dal concreto, ma dall’arida voce del maestro o dei libri […]”; in
ambito di poesia erudita. e vedi G. DI MARZO, Biblioteca storica e letteraria di
Sicilia: Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX: Pubblicati Sui Manoscritti
Della Biblioteca Comunale Volume 15 di Biblioteca storica e letteraria di Sicilia,
Palermo, L.P. Lauriel, 1875, p. 220: “[…] L’assonnata alle pene alzò una volta/
L’indurata cervice, arida voce/ Nel magro sen d’inopia lamentando […].
288
Il lemma, relativo a un neonato e in citazione anonima, unicamente in
Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’Anno Accademico MDCCCLXXII, Brescia,
Tipografia della Minerva, MDCCCLXXIV, p. 448: “[…] Qualche moto
respiratorio si avvertì, e al singulto raro sostituivasi un interrotto e incompleto
192

SIATE FELICE!... PRONUNZIÒ LA TRISTE307

Siate felice!... pronunziò la triste


Donna, sorgendo; rilevò la fronte
Ahi, non più santa308, e con securo gesto
Ambe ella tese ed offerì le mani
Bianche all’ultimo addio. La rotta fede
Nel fermo sguardo folgorò la sfida.

vagire […]”
289
Anche in questo caso una sola occorrenza, e cfr., in contesto mariano,
Pensieri Predicabili Per i Sabbati di Quaresima in Honore di Maria Vergine, Del
Molto R. Padre F. Domenico Paolacci maestro in Teologia dell’Ordine de’ Predicatori,
e Professore publico della Sagra Scrittura nell’Università di Padova, In Venetia, Per
Giunti, e Baba, MDCXLIV, Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio, p. 49: “[…]
Hor questo primo pensiero di Dio era nascosto negli impenetrabili abissi del
petto paterno […]”.
290
“Giù dagli abissi di quel petto bianco” (NR). La sostituzione dell’avverbio è
dettata, con ogni probabilità, dalla necessità di evocare un riflesso
stilnovistico, mentre la variazione della punteggiatura, con l’inserzione
dell’altro avverbio “così”, sembra dipendere dalla volontà di inserire una
cesura.
291
Qui la fonte è più che certa, consistendo in un passo d’un racconto
dell’amico Albertazzi, e cfr. A. ALBERTAZZI, Vecchie storie d’amore, Bologna,
Nicola Zanichelli, MDCCCXCV, p. 58 (il testo in cui il lemma si trova, “La
salvazione di fra’ Gerunzio”, pare una sorta di rielaborazione della novella
dannunziana “Fra Lucerta”): “[…] Allora, di sùbito. lì innanzi a lui, stesa a
giacere. viode una femmina nuda. Come lucide le chiome nere! Come freschi i
fiori del seno turgido! Vezzi di vergine, riso di peccatrice, beltà d’una dea: era
piena di grazia e rideva, tutta nuda […]”. Si ricordi che secondo taluni esegeti
il motivo dei “fiori del seno” risale al D’Annunzio, e cfr. G. D’ANNUNZIO,
Versi d’amore e di gloria, voll. 2, cur. L. ANCESCHI – A. ANDREOLI – N.
LORENZINI, Milano, Mondadori, 19823, p. 994.
292
“I fior del seno; vivo, ne la notte” (NR). Si segnala l’inserzione di
un’apocope e nella solita cancellazione della preposizione articolata
arcaizzante.
193

Egli guardò disfavillar la sfida.


Nei grandi occhi profondi della triste
Donna cui fu mal tenitor di fede;
Rivide sulla minacciosa fronte309
Tutti i baci furiosi310 a cui le mani

293
“silenzïosa” (NR), con eliminazione della dieresi nel testo definitivo, per
ragioni metriche.
294
“esurïente” (NR), e vedi la nota precedente.
295
Il lemma piacque certamente al D’Annunzio alcionico dei “Sogni di terre
lontane” (e cfr. “La Loggia”, dove si legge di “[…] Capodistria, succiso
adriaco fiore! […]”), che però non può esser considerato la fonte del nostro. Si
potrebbe ipotizzare, sulla scia d’una suggestione di Federico Roncoroni (vedi
G. D’ANNUNZIO, Alcyone, cur. F. RONCORONI, Milano, Mondadori, 1982, p.
699, nota “ad loc.”), che l’origine del binomio verbale risalga direttamente al
“succisus flos” di Virgilio (cfr. Aen., IX, v. 435), anche se non va esclusa –
sempre in campo classico – qualche influenza di Catullo (e vedi Liber, c. 62,
vv. 39 – 40, in riferimento ad una vergine). Ma si veda, per un antecedente
vicino al periodo maggiormente amato dal della Porta, cfr. L’Imperio Vendicato.
Poema Heroico d’Antonio Caraccio, Barone di Corano. Dedicato alla Serenissima
Republica di Venetia. Con gli Argomenti, e Chiave dell’Allegoria del Conte Giulio di
Montevecchio. E con le Dichiarazioni historiche del Marchese Gregorio Spada, In
Roma, Per Gio. Battista Bussotti. MDCLXXIX. Con Licenza de’ Superiori, p.
69: “[…] Ella cadea come succiso fiore: ma le fur tutte le donzelle intorno,/ e
d’un singulto, un gemito, un rumore/ Tutto risuona il lugubre soggiorno […].
La presenza del vocabolo “singulto”, che il della Porta cita al verso 13, fa
sospettare che il testo del Caraccio possa aver servito da base a quello
dellaportiano.
296
“a gli” (NR), e vedi quanto detto prima.
297
Il lemma, anche dopo la menzione dellaportiana, indica un’energica
tempesta dei sensi ed è spesso associato ad emozioni forti come l’amore o la
rabbia. A livello di fonti precedenti, si può cominciare citando una recensione
al Savonarola di Pasquale Villari, e cfr. Rivista di Firenze e Bullettino delle Arti del
Disegno. Pubblicazione Mensile di Scienze, Lettere ed Arti Diretta dal Prof. Atto
194

Facean debole schermo in caro gesto311.

Or quelle mani fan diverso gesto312


E non tremano più; ferme, la sfida
Ostentano virilmente le mani
Un dì sì dolci a consolar la triste

Vannucci. Anno Terzo – Volume Sesto, Firenze, Tipografia di g. Mariani, 1859, p.


458. “[…] Il signor Villari spese in ciò lungo tempo e lunghi studii con solerzia
indefessa e direi rara a trovarsi in giovine dell’età sua, quando gli impeti del
sangue sono più caldi, e l’animo meno si piega alle pazienti ricerche negli
archivi o nelle biblioteche […]; in ambito di libretti teatrali settecenteschi, e
vedi Creso. Dramma per Musica da Rappresentarsi nel Regio Teatro di Torino nel
Carnovale del 1768 alla Presenza di S.S.R.M., In Torino, Nella Stamperia Reale. A
spese di Onorato Derossi, Libraio della Società de’ Signori Cavalieri sotto i
primi Portici della Contrada di Po, p. 40: “[…] Ciro pietà: misura/ Cogl’impeti
del sangue i miei trasporti […]” (il testo è di Gioacchino Pizzi); in ambito
sticodo-erudito, e vedi Il Marchese Salvatore Pes di Villamarina. Memorie e
Documenti Inediti per Ferdinando Bosio. Seconda Edizione, Torino, Tipografia di
francesco franchini, 1864, p. 104: “[…] E tuttavia, non dovendosi gli impeti del
sangue irritato massime dagli uomini politici, sempre ascoltare, il Villamarina
con abbastanza simulata calma, si studiò di mitigare le apprensioni del
Granduca […]”; in simile contesto, cfr. Istoria della Repubblica di Venezia ove
insieme narrasi la Guerra per la Successione delle Spagne al Re Carlo II. Di Pietro
Garzoni Senatore. Parte Seconda, In Venezia, Appresso Gio. Manfrè, MDCCXVI.
Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio, p. 790: “[…] Con tutto ciò addottrinato
il Re dal gran senno, e dalla lunga sperienza del Mondo resistette a gl’impeti
del sangue […]”; in contesto medico relativo al ciclo mestruale, e vedi Annali
Universali di Medicina compilati da Annibale Omodei, etc., Anno 1839. Volume
XCII. Ottobre, Novembre e Dicembre, Milano, presso la Società degli Editori
degli Annali Universali delle Scienze e dell’Industria, Nella Galleria
Decristoforis, p. 552: “[…] Rispetto al regime dietetico, s’insista nei mezzi
moderatori gl’impeti del sangue e atti a rendere meno abbondevole
l’ematopoesi […]”; in un testo d’ambiente scapigliato, e vedi E. CASTELNUOVO,
Nuovi racconti, Torino, F. Casanova, 1876, p. 108: “[…] Meditava di fare a pezzi
195

Anima313 e così tarde della fronte


Pura, custodi, tanta era la fede!

Ella insistette: – Io rendevi la fede


Vostra; siate dell’altra! – E con un gesto
Calmo314 iterò l’offerta fronte a fronte
Col traditor; ma spenta era la sfida

il suo rivale e di sfolgorare la dama che sprezzava i suoi omaggi, ma un


sentimento molto umano, la paura, calmava in lui gl’impeti del sangue […]”;
sempre in ambito vicino agli studi di medicina, e cfr, un Luigi Ferri in Rivista
Italiana di Filosofia. Volume VI, Roma, Tip. di G. Balbi, 1891, p. 230: “[…] Si
abbia vitto sufficiente, alla buona, non stuzzicante, specialmente freddo; vino
quel che basti per far la digestione; di tanto in tanto qualche digiuno per
raffrenare gli impeti del sangue […]”; in ambito sostanzialmente pedagogico,
e vedi O. BRUNI, Le nostre donne: considerazioni d’un direttore di scuole femminili,
Firenze, G. Barbera, 1886, p. 186: […] Fu una fatica davvero enorme, quella di
saper sempre resistere agl’impeti del sangue, di saper dominarsi e di arrivare
a mostrare una dolcezza da angelo […]”. Quanto alla paredra originaria,
appare probabile una derivazione dal testo del Castelnuovo.
298
Nel contesto d’una “vita sanctorum”, e vedi Vita di S. Camillo de Lellis
Fondatore della Religione de’ Chierici Regolari Ministri degli Infermi Descritta dai
PP. Sanzio Cicatelli e Pantaleone Dolera generali della Medesima Religione Ora N
uovamente Corretta, ed Accresciuta, Roma, Tipografia Marini e Compagno.
Vendibile nella Libreria Marini Pazza del Collegio Romano N. 4, 1837, p. 125:
“[…] era solito […] presentare a tutti dell’acqua fresca, onde bagnarsi le
bocche arse da penosissima sete […]”; in un racconto dalla vaga impronta
militarista di E. De Amicis, contenuto in Novelle, Firenze. Felice Le Monnier,
1872, p. 140, ma originariamente in Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti.
Volume Decimottavo, Firenze, Direzione della Nuova Antologia, Via San Gallo,
n° 33, 1871, p. 551: “[…] dopo un istante, da quei mille petti sfiniti, da quelle
mille bocche arse, usci un grido lungo, stanco, straziante, accompagnato da un
sorriso di sarcasmo amaro […]”. Il lemma avrà successo anche nel
D’Annunzio de La Nave (e cfr. G. D’ANNUNZIO, La Nave: tragedia, Milano,
Treves, 1908, p. 158: “[…] Che i cantori sollèvino le bocche arse dall’inno verso
gli astri e bevano fino all’alba le lacrime del cielo. Questa è la notte dell’attesa
196

Nei grandi occhi profondi ed era triste


La faccia bella; esangui eran le mani.

– No, non vorrò più mai stringer le mani


Vostre – proruppe il mancator di fede315 –
E sarà il mio castigo e sarà il triste
Castigo ch’io ben merito; e quel gesto

[…]); e in un Angiolo Orvieto cantore dell’esotismo (e vedi A. ORVIETO, Verso


l’Oriente, Milano, Treves, 1902, p. 191: “[…] Invano per mille e mille bocche
arse la terra s’apre di contro al ciel tutta protesa in una febbre di delirio […]”).
299
Eliminati tutti i riferimenti presenti nei testi di botanica e di agricoltura, il
lemma va ovviamente ricondotto a “Pianto antico” del Carducci, ma può
essere interessante risalire alla costituzione del medesimo come metafora. E
dunque cfr. Archivio di Curiosità e Novità Interessanti e Dilettevoli, etc. Opera
Periodica Compilata sulla corrispondenza di distinti Letterati nazionali, e stranieri, e
sopra i migliori giornali d’Europa. Volumetto Duodecimo, Napoli, dalla Tipografia
Trani, 1832, p. 41. “[…] La rosa è fiore unico per la sua nitida freschezza e per
la sua venusta, e il solo a cui tutti i gusti, tutti gli affetti dell’anima, i più
elevati e i più teneri, siansi appropriati […]”; nelle vibranti pagine d’un
quaresimalista come Paolo segneri, e vedi L’Incredulo Senza Scusa. Opera di
Paolo Segneri Della Compagnia di Giesù. Dove Dimostra Che non può conoscere
quale sia la vera Religione, chi vuol conoscerla, In Venezia, MDCXC. Presso Paolo
Baglioni. Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio, p. 68: “[….] Adunque non si
può contrastare a Dio. Una gioia unica al Mondo, quato ha di stima! Un fiore
unico! Un frutto unico! un libro unico! […]; In un contesto relativo
all’emigrazione, in una lirica di Domenico Fulvio, e cfr. L’Illustrazione popolare,
Volume XXVI, Milano, E. Treves, 1890, p. 510: “[…] ma a la corona che ti cinge
un fiore/ Unico forse, ancor vi manca: è il puro/ Idioma gentil d’Italia mia
[…]”; nell’ambito di discussioni letterarie, in Nuova Antologia di Scienze, Lettere
ed Arti. Volume Vigesimosecondo, Firenze, Direzione della Nuova Antologia, Via
San Gallo, n° 33, 1875, p. 403: “[…] e tolta anche le storiella, che ci sembra per
ogni verso infelicissima, del fiore unico e del sonetto petrarchesco, stupenda è
davvero in ogni rimanente la esposizione dell’ argomento […]”; in un
componimento a tema familiare, e cfr. Versi di Mariano Alvitreti, Firenze, Coi
Tipi di Felice Le Monnier, 1856, p. 82: “[…] Un fiore, unico fior, che is colori/
197

Che mi congeda freddamente e sfida


Descrive il mio destin sulla mia fronte.

Oh, verrà il dì ch’io piegherò la fronte


Me percotendo con le stesse mani
Giunte, guardate, a scongiurar la sfida
Vostra; perdono! – Disse ella, per fede

Fra i deserti fatali de la vita,/ Quello è che al Sole di mortali amori/ Spande
all’aure la fronda invigorita,/ E di beati inganni/ Bella fa l’alma e arcano il vol
degli anni […]; in contesto di meditazioni mariane, e cfr. Delle Grandezze di
Gesù Cristo e della Gran Madre Santissima, Lezioni Sacre di Francesco Pepe Della
Compagnia di Gesù. Tomo Quinto Delle Grandezze della Divina Madre. Consecrato
all’Altezza Reale di Filippo Borbone, Infante di Spagna, Principe Ereditario delle Due
Sicilie, etc. In Napoli MDCCXLVIII. Nella Stamperia Muziana. Con Licenza de’
Superiori, p. 188: “[…] Sia fiore unico, e singolare, se lo cercate in Maria, tutti
ottener lo possiamo […].
300
“propïziando” (NR), con dieresi eliminata per le solite ragioni metriche.
301
“(parvemi)” (NR). La parentetica è sostituita, probabilmente per motivi di
più netta cesura, dal polisindeto.
302
Un occorrenza del genere ha una sola origine, poi geminata in tutti i
numerosi testi successivi: Poesie di Ossian, Antico Poeta Celtico, Ultimamente
Scoperte e Tradotte in Prosa Inglese da Jacopo Macpherson e da Quella Trasportate in
verso Italiano dall’Ab. Melchior Cesarotti con varie Annotazioni de’ Due Traduttori,
In Padova, appresso Giuseppe Comino, 1763. Con Licenza de’ Superiori, e
Privilegio (per cui vedi p. 364: “[…] Il bianco petto le si gonfiava all’aura de’
sospiri. […]” e “[…] Salia, scendeva il bianco petto a scosse di sospiri. […]”; p.
125: “[…] palpiterà di gioja il bianco petto […]”; e infine p. 154 “[…] Il bianco
petto, quasi tremula onda/ Che siede il margo e si ritira: è l’alma/ Fonte di
luce, alma gentil […]”). L’ultima testimonianza, e la contestuale citazione del
verbo “salìa”, che è presente anche nel secondo dei due “loci”, rendono giusta
ragione della fonte.
303
Il lemma è certamente dannunziano, e in particolare risale al Poema
paradisiaco (vedi “Un ricordo”, dove leggesi “[…] Ancóra la convulsa bocca
esangue/ vedo. Le prime sue parole, rare,/ cadono come gocciole di sangue/
da piaga che incominci a sanguinare […]”). Da segnalare, tra le tante
198

Del suo gran cuore, senza pure un gesto:


– Tutto che avvien dispose Amore, il triste

Amico; e, triste, io vi perdono, a fronte


Del supplicante gesto delle mani:
La fede vi è rimessa senza sfida.

geminazioni successive, un uso consimile in G. CENA, In umbra: versi, Torino,


R. Streglio, 1899, p. 92: “[…] O bocca esangue dove il bacio scocca/ la morte,
bocca, fior di latte e sangue;/ ahi tutto langue dove quella tocca,/ o bocca
esangue! […]”.
304
A prescindere dalle tante menzioni in opere religiose, il lemma appare
citatissimo anche e soprattutto in epoca classicista ed è menzionato, tra gli
innumerevoli altri, dal Frugoni, dallo Zappi, dal Gozzi e infine dal Monti,
forse sull’esempio chiaramente dantesco di Torquato Tasso (e vedi il sonetto
VII delle Rime, “In questa sacra notte in cui non osa/ L’alma spiar cagion sovra
natura/ Dio si fece uomo, il gran Fattor fattura,/ Servo il signor fra gente aspra
e ritrosa […]). Curiosa nè la ripresa, assai più precisa e quindi certa, in O.
TESCARI, Fantasie e meditazioni, Brescia, La Scuola, 1951, p. 37 “[…] emise nel
silenzio della sacra notte un grido […]”, con riferimento al riconoscimento di
Odisseo da parte della nutrice Euriclea.
305
“Notte” (NR), con cancellazione del dato prosopopaico.
306
Il lemma, come presentato dal della Porta, non trova analogie. Tuttavia, per
occorrenze similari, cfr., innanzitutto, Panegirici di Stanislao Canovai delle Scuole
Pie. Tomo I, Firenze, Nella Stamperia Di S. Giuseppe Calasanzio. Con
Imperiale e Real Privilegio, p. 38: “[…] Ah! voi solo potete dirci, o Filippo (sc.
Neri), ciò che sentiste da quel beato momento: narrateci quelle incredibili
palpitazioni, informateci di quel tremor portentoso, definiteci quella febbre
ardentissima, quella dolce febbre d’amore che vi forzò tante volte ad
abbandonarvi languido e moribondo suolo […]”; in una novella in ottave del
Castorina, e cfr. Carlo e Maria. Novella di Domenico Castorina, Torino, Tipografia
dei Fratelli Castellazzo, 1845, p. 10: “[…] Vide, rivide il giovane amatore/
Ch’era al pari di lei vinto e distrutto/ Da dolce febbre; e spesso in sul
cammino/ Gli favellò, spesso nel suo giardino […]”; in ambito di traduzione
di romanzi storici d’oltralpe, e cfr. Giovanna di Castiglia. Novella Storica di C.
199

Robert Fatta Italiana da L. Masieri, Milano, per Borroni e Scotti, Tipografi Librai
e Fonditori di Caratteri, 1844, p. 75: “[…] luce, musica, armonia, grazia,
profumo, ambrosia, la più dolce febbre de’ sensi […]”; all’interno d’una
dissertazione erudita, e vedi Enciclopedia Italiana. Dizionario della Conversazione.
Opera Originale. Vol. I, Venezia, dallo Stabilimento Enciclopedico di Girolamo
Tasso, 1838, p. 914: “[…] Dolce febbre dell’amore, chi ti prova teme che la vita
non basti alla sua gioia e sente che la terra gli sfugge, tanto violenta è la
bramosia che l’occupa tutto! […]”; in una lirica del librettista pucciniano,
Ferdinando Fontana, cfr. F. FONTANA, Poesie vecchie e nuove (1876 – 1891),
Milano, presso l’Autore, 1892, p. 163: “[…] «Cantano i tetti!/ «Oh, la scintilla
— che tutto incendia!/ «L’acuta e dolce — febbre infinita!/ «Oh, la tremenda —
gioia del vivere […]”; in un accesso di crisi compositiva, presso L. Settembrini
(e vedi, ad titolo d’esempio perché fino al 1893 le edizioni sono copiose,
Ricordanze della mia vita, Napoli, A. Morano, 1892, p. 168: “[…] Un lavoro di
composizione mi sarebbe impossibile, e da tanto tempo io .non sento più la
dolce febbre della composizione, che si chiama estro, ed è rapimento soave
[…]”); in un romanzo psicologico della Serao (cfr. Castigo, Torino, F.
Casanova, 1893, p. 239: “[…] e forse sorrideva loro, nella dolce febbre della
loro vita mondana, la speranza di poter prolungare quella bella stagione di
feste […]); in un testo di Svevo, e cfr. Una vita, Trieste, Libreria Editrice Ettore
Vram, 1893, p. 320: “[…] La lotta cui stava per accingersi era grave, e,
immediatamente dopo di essere vissuto nella dolce febbre che lo aveva fatto
vivere tra fantasmi cari, ne sentiva maggiormente l’asprezza […]”: in ambito
bizantino, in una descrizione dell’ispirazione d’un pittore, cfr. Cronaca
Bizantina. Volume 11 (1882 – 1883), Canova, Treviso, 1975, p. 237: “[…] sento il
polso accelerarsi e dolcemente venire in me la dolce febbre della creazione
[…]”.
200

307
Apparsa per la prima volta in La Nuova Rassegna, Anno II, N. 30, 15 Ottobre
1894, pp. 634 – 635, poi in Canzoni, pp. 113 – 115, con minime varianti di
punteggiatura. Il testo, che descrive l’inizialmente rabbiosa reazione d’una
donna tradita (la quale poi si scioglie di fronte all’autocritica dell’uomo), è
tutto giocato sull’utilizzo di terminologie guerresche, proprie del poema epico
italiano, pur se – rispetto alle canzoni lunghe ma anche al testo precedente – il
linguaggio appare sovente aduso ad un conformismo lirico di maniera,
recando traccia di prestiti dannunziani o comunque simbolisti. Si noti,
tuttavia, che la posizione di forza della donna rispetto all’uomo è designata
anche attraverso l’utilizzo di fonti religiose o giuridiche piuttosto infrequenti.
La situazione descritta dal poeta appare assai vicina a taluni antecedenti della
narrativa del tempo (e si veda, per esempio, la novella dannunziana Il
commiato, poi inclusa nel Piacere), cosa che appare segnalata anche da taluni
prestiti lessicali, più coerenti con il genre romanzesco che con le atmosfere
liriche proprie del montazzolese.
308
Il lemma, così come riportato da della Porta, è unico. Ma a voler cercare
l’antifrastico “fronte santa”, ci si accorge che esso è stranamente rarissimo: lo
si trova, infatti, in una traduzione settecentesca d’un trattato di Tertulliano
contro gli ornamenti femminili (cfr. Opere di Tertulliano Tradotte in Toscano
dalla Signora Selvaggia Borghini Nobile Pisana, In Roma MDCCLVI, nella
Stamperia di Pallade, appresso Nicola, e Marco Pagliarini. Con Licenza de’
Superiori, p. 369: “[…] Forse le spoglie d’un immondo, forse d’un reo e
destinato all’inferno collocate sopra una fronte santa e cristiana […]”).
309
Ci sono una enorme pletora d’occorrenze uguali, tutte d’ambito neoclassico
e primo romantico, riferite ad ambientazioni guerresche (anche in un contesto
eroicomico) e, assai più raramente, idilliche. Solo una manciata d’occorrenze
(a cui si sottraggono, ad esempio, i riferimento presenti nel Petroni, nel Ceva,
nel Muzzarelli, nel Paciaudo, nel Giulio e in un folto gruppo d’autori religiosi,
201

di cui si da solo qualche cennto, o di scrittori che comunque commentano le


vicende – anch’esse relative ad un combattimento – di Davide e Golia),
dunque, il primo dei quali contenuto in un curioso scritto del Galilei sulla
Gerusalemme Liberata di Tasso, in cui – commentando la stanza XXVI del sesto
canto, non si sa quanto involontariamente si riporta una variante al verso 2 (e
vedi, in periodo quasi coevo, Le Opere di Galileo Galilei. Prima Edizione Completa
Condotta sugli Autentici Manoscritti Palatini e Dedicata a S.A.I e R. Leopoldo II,
Granduca di Toscana. Tomo XV, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 1856, p.
194: “[…] Già non mira Tancredi ove il Circasso/ La minacciosa fronte al cielo
estolle:/ Ma move il suo destrier con lento passo,/ Volgendo gli occhi ov’è
colei su ‘l colle […]” (nel testo originale è “spaventosa”; sulle lotte tra inglesi e
francesi in età napoleonica, e cfr. “[…] Già del Tamigi, e della Senna i fieri/
Emuli figli in minacciosa fronte,/ Si disfidano all’armi […]”; si vedano anche
Poesie di Lorenzo Pignotti Aretino. Tomo III, Pisa, dalla Tipografia della Società
Letteraria, MDCCXCVIII, p. 80: “[…] Già del Tamigi, e della Senna i fieri/
Emuli figli in ‘minacciosa fronte,/ Si disfidano all’armi, e guai ‘dal teso/
Canape, della tromba al primo squillo/ Con arruffato pelo e con spumose
Labbra/ slanciansi i barberi anelanti/ Nel vuoto arringo […]”; l’occorrenza è
anche in un poema cavalleresco d’inizio Seicento, e vedi, ad esempio e vicino
ai tempi del della Porta, La croce Racquistata di Francesco Bracciolini. Tomo III,
Venezia, Giuseppe Antonelli Editore, 1838, p. 284: “[…] Armallo altier con
minacciosa fronte/ Sfidando appella a singular certame/ Qualunque sia, che più
nell’armi monte/ E col periglio acquistar gloria brame […]” (il lemma è
evidentemente presente nelle edizioni di tale poema epico antecedenti a
quella definitiva del 1611 pubblicata dal Bracciolini medesimo, e cfr. La Croce
racquistata. Poema Heroico di Francesco Bracciolini Libri XXXV. Al Serenissimo
Gran Duca di Toscana Cosimo Secondo. Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio,
In Venetia. MDCXI. Appresso Bernardo Giunti, Gio. Battista Cietti e
202

INDICE

PREMESSA p. 3

IL DATO BIOGRAFICO p. 11

Compagni, unica consultata nell’edizione posseduta dalla Duke University). E


non possono mancare certamente questi versi di Vincenzo Monti (lo si
consulta in Versi dell’Abate Vincenzo Monti. Parte Prima, Parma, Dalla
Stamperia Reale, 1787, p. 43: “[…] Su i fianchi alpestri , e sul ciglion del
monte/ Van cavalcando i nembi orridi e cupi,/ E stan pendenti in minacciosa
fronte […]”), in una poesia del Bertolli su lord Byron, e cfr. Antologia. Giornale
di Scienze, Lettere e arti. Luglio, Agosto, settembre 1830, Tomo Trigesimonono,
Firenze, al Gabinetto Scientifico e Letterario di G.P. Vieusseux Direttore e
Editore. Tipografia di Luigi Pezzati, MDCCCXXX, p. 151: “[…] E le stridenti
folgori/ In mezzo alle tempeste/ Del torbido orizzonte/ Sembra sfidar con
minacciosa fronte […]”; in un altro poema epico del Seicento, forse tra le fonti
dell’Adelchi del Manzoni, e vedi La caduta de’ Longobardi. Poema Eroico del Sig.
Sigismondo Boldoni; Con Argomenti, e Supplimenti del P.D. Gio. Nicolò Boldoni
Suo Fratello. Alla Reale Altezza di Madama Christina Duchessa di Savoia, reina di
Cipro, etc., In Milano, MDCLVI. Per Lodovico Monza, nel Collegio di S.
Alessandro de’ PP. Barnabiti. Con licenza de’ Superiori, e Privilegio, p. 506:
“[…] Vallari, il Duca di Cremona, stava/ Sopra una torre in minacciosa fronte
[…]”; in un poema d’intonazione anch’essa epica di Carlo Botta, e si veda Il
Camillo, o Vejo Conquistata, di Carlo Botta, Paris, Chez L’Auteur, rue de la
Tixerandrie, N°. 41. Rey et Gravier, libraires, quai des Augustins, N°. 55. 1815,
p. 472: “[…] In cotal guisa/ L’ali lor due con minacciosa fronte/ Al nemico stan
sopra […]”; in un poema maccheronico di Folengo tradotto in italiano da
Francesco Antolini, e cfr. La Moscheide di Teofilo Folengo Cognominato Merlin
Cocajo. Poema Eroicomico Recato in Versi Italiani da Francesco Antolini, Aggiuntavi
la Batracomiomachia d’Omero, Milano, Tipi di Francesco Pulini, 1817, p. 141:
“[…] Con torvo ciglio e minacciosa fronte/ La veloce Locusta sprona al corso
[…]”; in una sorta di dramma sacro di Giovanni Granelli, e cfr. Drammatici
Sacri del Secolo XVIII, Venezia MDCCXC, presso Antonio Zatta e Figli, Con
203

1. Di nebbie e nuvole… p. 11

2. La “rovina di casa della Porta” p. 12

3. La “fuga” dall’Abruzzo natio p. 26

Licenza de’ Superiori e Privilegio, p. 133: “[…] Ma di qual novo raggio, angel
possente,/ Ti veggio accesi i lumi,/ E sfavillar la minacciosa fronte? […]”; nel
dramma Maometto di Voltaire tradotto da Melchiorre Cesarotti, e vedi, ad
esempio, Opere dell’Abate Melchior Cesarotti Padovano. Volume XXXIII, Firenze,
presso Molini, Landi e Comp., MDCCCX, p. 194: “[…] Ma con che sdegno,/
Con che severa e minacciosa fronte/ Maometto imperioso accusa e sgrida/ La
debolezza mia […]”; in un’elogio del Giovio – tradotto dal Domenici – nei
confronti di Carlo di Borgogna, e cfr. Gli Elogi. Vite Brevemente Scritte
d’Huomini Illustri di Guerra, Antichi e Moderni, di Mons. Paolo Giovio Vescovo di
Nocera etc.: Tradotte per M. Lodovico Domenichi (sic!), In Fiorenza, MDLIIII, p.
181: “[…] Costui che con severa, e minacciosa fronte con la spada ignuda e
con l’armi rilucenti par che voglia combattere, folgorando spirito Martiale, è
Carlo […]”; in un idillio dialogato del Marchetti, tradotto da Andrea Maffei, e
cfr. Canzoni del Conte Giovanni Marchetti. Idilli Tradotti dal Cavaliere Andrea
Maffei e Due Poemetti del signor Gio. Battista Niccolini, Napoli, 1830, p. 109: “[…]
Mira quel nembo, che pari ad un monte/ Sbocca dall’acque, e sovra il mar
procede/ Si dilatando in minacciosa fronte! […]”; in un altro poema epico
d’intonazione storica, e cfr. Semifonte Conquistata e Distrutta dai Fiorentini
nell’Anno 1202. Poema Eroico in Dodici Canti. Autore Giacomo Mini. Libro Primo,
Firenze, 1827, p. 130: “[…] La formidabil minacciosa fronte/ Elmo di bronzo
saldamente fascia,/ Che mai penètra, o su cui fisse impronte/ Dardo, o
quadrello il più sottil non lascia […]”; sempre in contesto bellico, cfr. Raccolta
Generale Delle Poesie Del Signor Commendatore dell’Inoiosa L CO. D. Fulvio Testi
cavalier di S. Iago. divisa in Tre Parte. Dedicata al Serenis. Principe. Cesare D’Este
Fratello del sereniss. Duca di Modena. Parte Prima, In Modena, per Bartolomeo
Soliani 1648, p. 103: “[…] schianta con destra forte/ Da la superba, e
minacciosa fronte/ del rivale Acheloo le corna Alcide […]”. Per quanto
riguarda la tipologia eroicomica, cfr. un’occorrenza nell’Asino di Carlo de
204

LE POESIE DI ANTONIO DELLA PORTA TRA p. 29


MILITANZA, TRADIZIONE E “DAMNATIO
MEMORIAE”

1. L’intervento di Lucio D’Ambra sulle Sestine p. 30

2. A partire dal Pantini… p. 35

Dottori, e vedi L’Asino. Poema Eroicomico di Carlo de’ Dottori. Con Argomenti,
Annotazioni, e Notizie dell’Autore, Vicenza MDCCXCVI, Per Gio. Battista
Vendramini Mosca. Con Licenza e Privilegio, p. 244 : “[…] Quand’ecco uscir
giovane Dama altera/ Con l’arco in man con minacciosa fronte/ Tra due che
paion Ninfe in corta gonna/ E la suora del sol parea la donna […]”; e La Rete di
Vulcano. Poema Eroicomico del Monaco Beda Ticchi. Tomo I, Siena, per Francesco
Boccioni, MDCCLXXIX, p. 122: “[…] Ma troppo mi sedusse il cuor guerriero/
La nobil vista dell’eccelso monte,/ Che ha sul duplice mar gemino impero/
Mentre alza al ciel la minacciosa fronte:/ Se i fati in cielo hanno predetto il vero,/
Là d’un eroe saran le glorie conte […]”. Tutto questo, a prescindere dalla fonte
primaria, evidentemente non individuabile, fa comunque comprendere che in
questo caso il della Porta ha voluto caratterizzare la scena tra i due (non più)
innamorati con un piglio guerresco, che vuol ricordare i combattimenti tra
cavalieri presenti nei poemi epici rinascimentali e manieristi della tradizione
nostrana.
310
Il lemma, assai diffuso nella letteratura ottocentesca, ebbe fortuna anche
dopo (si reperisce persino in Francesco Jovine!). Tuttavia, per ragioni
cronologiche, ci si limiterà ad una duplice analisi, cronologica e tematica. E
dunque può notarsi come esso sia presente nel Piacere di D’Annunzio, e cfr. G.
D’ANNUNZIO, Il Piacere, Milano, Treves, 1889, p. 422: “[…] Egli la strinse di
nuovo fra le braccia, la stese, la copri di baci furiosi, ciecamente,
perdutamente, con un divorante ardore, senza parlare, soffocandole il gemito
su la bocca […]”; e nel Trionfo della morte, per cui cfr. ID., Trionfo della morte,
Milano, F.lli Treves, 1894, p. 465: “[…] Mi prese tra le sue braccia e mi copri di
baci furiosi, come folle, singhiozzando. Ella, nella strada, aveva avuto il
presentimento ch’io fossi precipitata da quella finestra! […]”; il lemma si può
anche leggere in G. ROVETTA, La baraonda, Milano, F.lli Treves, 1894, p. 334:
“[...] per farla tacere le chiudeva la bocca colla mano, ma Nora gliela baciava
205

3. Il parere localistico di Luigi Savorini p. 37

4. L’autorevolezza di Luigi Capuana p. 39

5. Il decisivo intervento del Croce p. 45

con tanti piccoli baci furiosi, bramosi, rapidamente, continuamente […]”;


riferito ad una scenda d’affetto materno presente in un racconto
risorgimentale di De Amicis, cfr. Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti.
Volume Decimoprimo, Firenze, Direzione della Nuova Antologia, Via San Gallo,
n° 35, 1869, p. 537: “[…] essa mi si slanciò tra le braccia, mi avvinghiò il collo
con una forza virile, mi coprì di baci furiosi […]” (in seguito un’occorrenza
simile in una novella d’epoca successiva, e cfr. ID., Pagine sparse. Quarta
Edizione, Milano, Tipografia Editrice Lombarda, 1877, p. 38: “[…] ho contato i
baci furiosi che ha stampati sulla fronte e sul petto […]”; e in un resoconto
d’un viaggio in Asia Minore, e vedi Costantinopoli, 2 voll., Milano, F.lli Treves,
1877 – 1878, in part. vol. I, p. 77: “[…] è caduto in deliquio coprendo di baci
furiosi la Pietra Nera […]”); in un dramma di Pietro Cossa, e cfr. Beethoven.
Dramma in Cinque Atti in Prosa di Pietro Cossa, Milano, F. Sanvito Editore, 1872,
p. 52: “[…] Piano con questi baci furioso; non vedete che ho i guanti? […]”; in
un romanzo d’abbandono della Serao (probabilmente la fonte primaria del
della Porta) e vedi, M. Serao, Addio, amore!, Napoli, R. Tipografia Francesco
Giannini e Figli, 1890, p. 245: “[…] Laura si era sciolta da quei baci furiosi di
Cesare, si era rialzata e stava ritta innanzi a lui […]”; in una novella anch’essa
d’ambientazione bellica e patriottica, in Rivista politica e letteraria, Volume 7,
Roma, Stab. Ti. della Tribuna, 1899, p. 125: “[…] Non potè più tacere, e
prendendo con forza fra le braccia lei e la creatura, le tempestò di baci furiosi,
frenetici […]”; in altro contesto relativo a novelle, e cfr. La Commedia umana,
Volume 5, Edizioni 229 – 250, Milano, Sonzogno, 1889: “[…] Ella corse, come
un fulmine […], lo prese in collo e, coprendogli il visetto di baci furiosi si diede
a correre per il vicolo, allontanandosi, come una cagna inseguita […]”; ancora
in una novella, e vedi La Rassegna italiana: periodico mensile, Roma, Tip.
della Pace di Filippo Guggiani, Piazza della Pace n. 35, 1885, p. 252: “[…]
Un’onda di sangue le salì dal cuore al cervello, arrossì, impallidì, prese la
206

6. Un ultimo ragguaglio: Ferdinando Neri p. 48

RAGGUAGLI SUL DELLA PORTA p. 50


NARRATORE

1. L’esperimento prosimetrico di Minareti p. 50

lettera, la girò in tutti i sensi, la fissò, e riconoscendo i caratteri di Enrico, se la


portò avidamente alle labbra, coprendola di baci furiosi […]”; in un testo
autobiografico del Dossi, e cfr. C. DOSSI, Vita di Alberto Pisani, Milano, Luigi
Perelli, 1870, p. 143: “[…] Essa pigliàvalo in grembo, accarezzava, baciava;
spesso però stringeva con tale grande passione sì da farlo strillare. Poi – una
volta – ei si svegliò atterrito fra abbracci che lo strozzavano quasi, baci furiosi,
morsicature e graffiate […]”; in una lettera di d’Azeglio, e vedi M. D’AZEGLIO
– F.A. GUALTERIO, Lettere inedite di Massimo d’Azeglio e Filippo Gualterio a
Tommaso Tommasoni, cur. G. TOMMASONI, Roma, Forzani e c., 1885, p. 33: “[…]
Durante la lettura del foglio, a noi nessuno badava, ma dopo ci cadeva
addosso una pioggia di lagrime, una gragnola di baci furiosi […]”, in un
racconto lungo di Roberto Sacchetti, e cfr. R. SACCHETTI, Cesare Mariani:
racconto, 3 voll., Torino, F. Casanova, 1876, in part. vol. III, p. 238: “[…] Cesare
le stese la mano ch’ella coprì di baci furiosi […]”. A margine, da segnalare due
riferimenti anche nel solito D’Ambra (cfr. Gli anni della feluca cit., p. 134: “[…]
Ella non voleva, non voleva… Finalmente ha ceduto ed è stata mia, in fretta.
Poi altri baci furiosi […]”; e p. 146: […] sabato e ieri ci trovavamo nella grande
sala al mattino […] tra i baci furiosi e parole amorosissime […]”).
311
Il lemma, prima dell’uso che ne fa il della Porta, quasi assente. Si noti,
evidentemente, un’occorrenza situata all’interno d’un poema epico scritto da
una delle “auctoritates” del primo Verga, già menzionata in precedenza, e cfr.
Cartagine Distrutta. Poema Epico di Domenico Castorina. Tomo Secondo, Catania,
presso Carmelo Pastore, 1836, p. 40: “[…] Senza dargli un saluto, una ridente/
Occhiata, un caro gesto, un detto amico/ Smonta ei dal corridor, e ad un
piangente/ Salce si drizza su nel poggio aprico […].
312
Due sole le occorrenze notevoli, la prima delle quali in La Mimica degli
Antichi Investigata nel Gestire Napoletano del Canonico Andrea De Jorio, Napoli,
dalla Stamperia e Cartiera del Fibreno, largo S. Domenico Maggiore N. 3,
207

GLI EPISTOLARI DELLAPORTIANI E p. 64


L’AMBIENTE CARDUCCIANO E PASCOLIANO

1. Carducci e della Porta p. 64

2. Pascoli e della Porta: un vero “discepolato”? p. 81

1832, p. 259: “[…] Il nostro mimico linguaggio giunge a parlarci della


proporzione de’ liquidi, come abbiamo detto, de’ solidi, praticando un diverso
gesto […]. Il secondo, in un trattato di giurisprudenza, e cfr. La Scienza della
Legislazione del Cittadino Gaetano Filangieri. Tomo IV, In Genova 1798, Presso
Jvone Gravier Libraio, p. 52: “[…] Un istessa parola proferita in un modo
risveglia un’idea, e proferita in un un altro tuono, e con diverso gesto, può
risvegliare un’idea tutta opposta […]”. Si può propendere, visto anche quello
che pure fu un difficoltoso “iter studiorum” del della Porta, per la seconda
fonte.
313
Il lemma, assai diffuso soprattutto nel secolo ventesimo, si può leggere,
innanzitutto, in Della Vita e Delle Opere di Giovanni Raffaelli, Aggiuntivi Alcuni
Scritti Inediti e Rari del Medesimo. Commemorazione di Oreste Raggi, Modena per
Carlo Vincenzi, 1870, p. 38: “[…] Il suono delle parole di lei scese alla sua
anima pensosa, ed egli immensamente amò; e fu riamato ma il tempo de’ felici
amori scomparve e la sua triste anima piange i perduti anni […]”; si veda
anche una traduzione del Konrad Wallenrod di Mickiewicz, nella versione di
Napoleone Giotti, e cfr. Rivista Contemporanea, etc., Volume Vigesimoquarto.
Anno Nono, Torino, dall’Unione Tipografico-Editrice, 1861, p. 221: “[…] Di
questa torre resterò, dannato/ A maledir la triste anima mia,/ Perché serbava
una favilla ancora/ Dell’antica sua fiamma? […]”; nel poema di Giovanni Prati
Edmenegarda, e vedi Edmenegarda. Canti Cinque di G. Prati, Milano, presso
Andrea Ubicini, 1841, p. 120: “[…] Io così prego,/ Ma renitenti alle invocate
gioie/ Non rispondon le corde, e dalla triste/ Anima il vivo immaginar dilegua
[…]”;in un ambito metafisico, all’interno d’un trattato d’antropologia
religiosa, cfr. A. CONTI, L’armonia delle cose: o antropologia, cosmologia, teologia
razionale. Volume II, Firenze, Successori Le Monnier, 1888, p. 82: “[…] egli vuol
donare la sua triste anima, cioè la sua goffa e procace incredulità […]”;in
rifermento spregiativo al re di Napoli, cfr. Rendiconti del Parlamento Italiano.
208

ANTONIO DELLA PORTA GIORNALISTA p. 89


LETTERARIO

1. I primi ragguagli critici dellaportiani p. 89

2. Le Myricae di Pascoli p. 94

Sessione del 1865 – 66 (IX Legislatura), dal 18 novembre 1865 al 30 ottobre 1866.
Seconda edizione Riveduta. Discussioni della Camera dei Deputati. Volume II, dal 26
febbraio al 7 maggio 1866, Firenze 1866, Tipografia Eredi Botta, Palazzo Vecchio,
pp. 1164 – 1165: “[…] andiamo a prendere del danaro dall’Italia, e poi
ritorneremo nel nostro covo a consigliare il nostro augusto padrone assoluto,
come si faceva chiamare quella triste anima di Ferdinando di Borbone [….]”.
Una citazione collaterale e successiva, ma d’una certa importante perché
presente in un autore già ben noto, è in Lucio D’Ambra, in riferimento a due
letterati francesi (Le opere e gli uomini cit., p. 58): “[…] E mentre l’uno dei due
fratelli ci dà tutta la soave od autunnale fioritura della sua triste anima
pensosa, l’altro ci riscalda e ci infiamma con tutto il calore del suo cervello
meditativo […]”; sempre in seguito, il lemma appare ne Le Vergini delle rocce di
Gabriele D’Annunzio, e cfr. ID., Le vergini delle rocce, Milano, F.lli Treves, 1896.
p. 398: “[…] Io congiungeva l’imagine della custode di erbarii fintami da
Oddo e l’imagine di quella triste anima errante intorno all’ orologio solare che
aveva segnato per lei l’ora della beatitudine invano […]” (il testo era stato
pubblicato originariamente a puntate sul Convito, di cui della Porta era
redattore, nel 1895). Sempre successivamente, si segnala, in una sorta
d’antifrastica citazione letteraria, il testo geografico di P. MOLMENTI – D.
MANTOVANI, Le isole della Laguna veneta, Venezia, F. Visentini, 1895, p. 181:
“[…] In un’isola come questa Giacinto Gallina pone la scena di Fora del
mondo, una delle più acute e felici rappresentazioni psicologiche del tempo
nostro, della quale ognuno di noi può sentire la verità quando porti la sua
triste anima […]”; in un testo di Giovanni Alfredo Cesareo a uso delle scuole,
e vedi ID., Storia della letteratura italiana a uso delle scuole, Catania, V. Muglia,
1908, p. 87: “[…] La sua originalità e la sua importanza propriamente consiste
nelle variazioni interiori, nelle paure, nelle gloje colpevoli, nelle angosce
rimorditrici , nelle lagrimose implorazioni , nelle tarde speranze di quella
209

3. I drammi storici di Filippo Barattani p. 98

4. Le Ultime rime di Orazio Spagnoletti p. 103

ESISTE UN DELLA PORTA DRAMMATURGO? p. 108

1. Il caso dell’Immacolata e di San Silvestro p. 108

triste anima in pena […]”; e infine in un testo critico di drammaturgia


anglosassone dovuto alla penna di Mario Borsa (e cfr. Il teatro inglese
contemporaneo, Milano, F.lli Treves, 1906, p. 206. “[…] Un soffio di vento fra gli
alberi, lungo una siepe, in una notte stellata, pare il sospiro di qualche triste
anima immensa, vicina all’universo nello spazio, e alla storia nel tempo. I
faggi guardano giù sui passanti con occhi inquisitivi […]”). Si tenga poi
presente che il lemma, nella forma inversa di “anima triste”, è sovente
menzionato nelle già citate liriche di Corazzini.
314
Questo lemma ha una connotazione propria di contesti prosastici e
narrativi. Lo si può reperire, in prima battuta, nel Verga e nel D’Annunzio
romanziere. Cfr., innanzitutto, G. VERGA, Il marito di Elena, Milano, F.lli
Treves, 1882, pp. 60 – 61: “[…] Dopo qualche momento donna Barbara tornò a
prendere in silenzio il tondo del cognato per riempirlo, ma questi disse con un
gesto calmo, levando la mano collo smeraldo al dito. – No, non ho più fame.
[…]”; poi cfr. G. D’ANNUNZIO, L’innocente, Napoli, Bideri, 1892, p. 74: “[…]
Parlava in piedi, avanzando di tutto il capo gli astanti; e il suo gesto calmo
dimostrava la semplicità delle sue parole. […]” (in seguito anche in La città
morta: tragedia, Milano F.lli Treves, 1898, p. 218: “[…] Ascoltano attonite le
parole che salgono alle loro bocche dalla profondità della terra, ma non sono
sorde ai colloquii dei poeti c dei saggi che amano di riposarsi, come in un
asilo, nell’ombra musicale ove il marmo perpetua un gesto calmo. […]”). Si
veda poi, in un contesto di traduzione d’un racconto francese, La Commedia
Umana, Volume 4, Edizioni 180 – 190, Milano, Sonzogno, 1888, p. 49: ”[…] Il
suo gran gesto calmo mostrava al disopra della piazza della Concordi ove la
vettura era giunta una larga zona di cielo d’un verde cupo […]”; e si
aggiunga, sempre in tema di romanzi, M. FACCIO, La rosa e la spina. la morte di
Don Giovanni, Vercelli, Tipolit. dell’Erra, 1888, p 68: “[…] Al romor della porta
si compresse il viso, poi ritolse ambe le mani e lentamente, quasi vergognoso
210

IL DATO METRICO p. 118

SE QUESTA CASA NON È NOSTRA ANCORA p. 124

AVE. DEL GESTO DELLE CRISTIANE p. 128

DUE DI SETTEMBRE! E TU NON SENTIRAI p. 145

O TU, SORELLA GIOVINETTA, USCITA p. 155

AVE! SE MAGGIO VENNE DAL GIARDINO p. 163

UNA NOTTE, ED AVRÒ DI QUELLA NOTTE p. 182

che fossero umidiccie, le passò sui calzoni più volte: quando furono asciutte si
levò con gesto calmo […]”. In seguito, ma sempre in ambito narrativo e entro
il secolo diciannovesimo, cfr. E.A. BUTTI, L’incantesimo: romanzo, Milano, F.lli
Treves, 1897, p. 376: “[…] egli interrompe, sorridendo, rassicurandola con un
gesto calmo e affettuoso. – Se tu temi, se dubiti di me, sei ingiusta. […]”; e,
finalmente in un contesto diverso, ma relativo a teorie lombrosiane (e dunque
per vie traverse vicino alla narrativa realista), cfr. L. FERIANI, Delinquenti
scaltri e fortunati: Studio di psicologia criminale e sociale, Como, O. Vittorio, 1897,
p. 359: “[…] Il ladro ha lo sguardo incerto, mobile, scilinguagnolo spedito,
gesto rapido, sorriso stentato, corpo snello: il truffatore ha lo sguardo
ipnotizzatore, la parola facile, suggestionante, il gesto calmo, misurato, il
sorriso pronto […]”.
315
Prima di dare seguito a un numero enorme di geminazioni, il lemma trova
la sua origine nell’Orlando furioso di Ariosto, che lo usa due volte: “[…] A
Ferraù parlò come adirato,/ e disse – Ah mancator di fé, marano!/ perché di
lasciar l’elmo anche t’aggrevi,/ che render già da tempo mi dovevi […]” (c. I,
ott. 27, vv. 5 – 8, Rinaldo a Ferraù); e “[…] Un cavalier che di provar si crede,/
e fare a tutto ‘l mondo manifesto/ che contra lui sei mancator di fede;/ acciò ti
trovi apparecchiato e presto,/ questo destrier, perch’io tel dia, mi diede […]”
(c. XXXV, ott. 60, vv. 2 – 6, Bradamante a Ruggiero, per interposta persona).
211

SIATE FELICE!... PRONUNZIÒ LA TRISTE p. 192

INDICE p. 203

Finito di stampare a gennaio 2014


Prima Edizione
ISBN 978-1-291-68933-4
Copyright © 2002-2011 Lulu Enterprises, Inc.
3101 Hillsborough St, Raleigh, North Carolina

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