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ISBN 978-1-291-68933-4
2
GIORGIO PANNUNZIO
PREMESSA
Stranezze, negli studi letterari, se ne presentano poche o
molte, a seconda del punto di vista da cui ci si pone quando si
valutano gli apporti creativi del singolo scrittore. Magari una
manciata di versi, di quelli buoni, bastano a collocare un poeta sul
piedistallo, certamente addobbato con qualche petrarchesca corona
d’alloro che ne attesti il valore e la “vis” artistica. E questo,
ovviamente, vale anche per la diffusa congerie dei narratori. Tuttavia,
in qualche caso, si assiste a una singolare amnesia, un oblio che, in
tutta franchezza, ha qualcosa di arcano, di inspiegabile. Ed in effetti
appare sostanzialmente incomprensibile che un letterato qualsiasi,
degno d’apprezzamento e di qualche lode nell’epoca in cui visse,
finisca poi con l’essere inspiegabilmente misconosciuto anche dai suoi
stessi pretesi amici, quando i tempi cominciano a cambiare. Non ci si
vuole riferire qui ad analisi critiche più attempate (o vetuste, per dirla
col Croce): chi scrive in prossimità del delitto – ci si passi la sorridente
criminalizzazione del testo – ha forse conosciuto gli autori, se ne sente
conlimitaneo, quasi come se l’esercizio critico da porre in essere in
quelle occasioni fosse sentito ancora come impegnato e/o militante.
Nel nostro caso si vuol intendere che un poeta, un giornalista, uno
scrittore prolifico quale fu Antonio della Porta 1 avrebbe meritato
miglior sorte. Coevo alla migliore stagione del bizantinismo nostrano,
pur se da posizioni che lo apparentano al carduccianesimo assai più
che al D’Annunzio (altra strana occorrenza, ché Antonio era abruzzese
1
La grafia del nome di Antonio della Porta varia a seconda dei testi in cui egli
è citato. Orientativamente, gli amici più intimi e coloro di cui si considerava
discepolo scrivono il cognome in forma nobiliare, con la “d” minuscola. Si è
deciso di adottare questa forma perché in effetti il della Porta vantava origini
nobili (e a leggere le Canzoni non sembra avesse torto) e non si hanno
argomenti contrari a tale ascendenza. Comunque, nelle citazioni dai testi dove
la lettera minuscola non è riportata, si è deciso di lasciare il carattere scelto dal
critico o comunque dallo scrittore che eventualmente lo citasse. Si noti che il
Carducci, che della Porta considerava come proprio mentore, utilizza sempre
la maiuscola.
4
alla loro estensione, soprattutto per quel che concerne le recensioni di testi
letterari.
5
Per le riviste citate, e s’intende quelle di più breve respiro, vedi
principalmente O. MAJOLO MOLINARI, La stampa periodica romana dell’Ottocento,
2 voll., Roma, Istituto di Studi Romani, 1977, in part, vol. I, pp. 54 e 546 – 547;
e A. BRIGANTI – C. CATTARULA – F. D’INTINO, I periodici letterari dell’Ottocento.
Indice ragionato (collaboratori e testate), Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 33, 139,
213 – 214.
6
Cfr. Annuario della Stampa Italiana, Roma, Casa editrice del Libro Italiano,
1931, p. 122, dov’è ricordato come cronista giudiziario nei quotidiani romani.
7
Cfr. F. NERI, Poesia nel tempo, Torino, Silva, 1948, pp. 152 – 156.
8
Cfr. F. ULIVI, Poeti minori dell’Ottocento italiano, Milano, Vallardi, 1963, pp.
761 – 764. L’Ulivi, bontà sua, definisce “illeggibili” le canzoni e nella sua
raccolta privilegia le opere precedenti.
6
9
Cfr. M. PARENTI, “Una commedia da rifare”, in Lo Smeraldo. Rivista letteraria e
di cultura, 1 (1962), pp. 23 – 27, in part, pp. 25 – 26.
10
Cfr. G. PASCOLI – A. DE BOSIS, Carteggio, cur. M.L. GHELLI, Firenze, La
Nuova Italia, 1998, passim. Una citazione, davvero “en passant”, in D. TROTTA,
La via della penna e dell’ago. Matilde Serao tra giornalismo e letteratura, Napoli,
Liguori, 2008, p. 45, n. 16, e soprattutto p. 98, n. 3, in riferimento al fatto che
della Porta fu per qualche tempo una “firma assidua” del supplemento al
quotidiano Il Mattino, (stampato nel biennio 1894/1895), inviando al periodico
“numerose sestine”.
11
Cfr. C. CHIODO, “In margine ai «marzocchini»: il caso di Romualdo Pàntini,
in Campi immaginabili, 2 (2000), pp. 70 – 96, in part. pp. 85 – 86
12
Cfr. B. CROCE, La letteratura della nuova Italia, Saggi critici (vol. VI), Bari,
Laterza, 1940, pp. 213 – 221. In precedenza, esso era apparso in La Critica, 1
(1936), pp. 81 – 87.
7
13
Cfr., ad esempio, L. SAVORINI, “Versi e poeti. Le Canzoni di Antonio della
Porta”, in Rivista Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti, a. XV, fasc. V (1900), pp.
212 – 217 (l’articolo è firmato Aloysius); L. D’AMBRA, Le opere e gli uomini.
Note, figure, medaglioni, saggi (1898 – 1903), Torino – Roma, Roux & Viarengo,
1904, pp. 128 – 133 (l’articolo è però datato 1896 e si colloca in un volume che
raccoglie recensioni da qualche rivista, con la citazione di una quindicina
d’autori francesi e solo due minori italiani, appunto il della Porta e il narratore
ciociaro, d’impronta bizantineggiante, Giustino L. Ferri, su cui si veda, ad
esempio, A. BRIGANTI, ” Un intellettuale fra utopia e professione: Giustino L.
Ferri”, in AA.VV., Letteratura italiana contemporanea, voll. 5, cur. G. MARIANI –
M. PETRUCCIANI, Roma, Lucarini, 1979 – 1982, in part. vol. I, pp. 1-39, con
bibliografia). Si noti che il D’Ambra, romanziere e drammaturgo di fine
Ottocento nonché sceneggiatore dei primi film muti (e cfr. G. RONDOLINO,
“Lucio D’Ambra”, in www.treccani.it/enciclopedia/renato-eduardo-
manganella_(DizionarioBiografico), ult. cons. 26 febbraio 2013, con
abbondante bibliografia, nella quale si segnala A. IERMANO , “Il giovane
D’Ambra tra mondanità e letteratura”, in Riscontri, 3-4 (1993), pp. 85 – 96, che
però non fa menzione del della Porta), cita il nostro autore anche nei suoi diari
come presente alla prima rappresentazione del Braccialetto di Giannino
Antona-Traversi, per una discussione letteraria con lo stesso D’Ambra in
relazione ai “nuovi bizantini” e per gli auguri di matrimonio (cfr. L. D’AMBRA,
Gli anni della feluca, cur. G. GRAZZINI, Roma, Lucarini, 1989, pp. 129, 143, 151, e
la seconda menzione verrà discussa in seguito). Spulciando gli archivi, si
segnala anche una recensione di Minareti pubblicata nel 1888, nei numeri 15 –
16 della rivista letteraria gelese Cronaca Siciliana, testo che però risulta a
tutt’oggi introvabile. Non si esclude che su alte riviste d’ambito locale
possano essere usciti altri interventi, vista l’abitudine dello scrittore
montazzolese di inviare l’elenco dei libri ricevuti presente nella Rassegna
8
IL DATO BIOGRAFICO
1. Di nebbie e nuvole…
complexe, ne saurait renaître. Ce sont là des jeux de lettrés, dignes des poètes
élégants de la Renaissance, dont ceux-ci sont les enfants” (vedi ivi, p. 82).
Altrove, l’autrice transalpina parla del nostro come di un “ardent disciple de
d’Annunzio”, ricordando anche, oltre alle già citate sestine, anche la nota
“Ode a Gabriele D’Annunzio legislatore” che della Porta pubblicò prima sulla
rivista. Quanto a Jean Dornis, originariamente nata a Firenze come Elena
Goldschmidt-Franchetti (1870 – 1948), va detto che fu amica, nonché allieva, di
Leconte de Lisle, conobbe Proust ed ebbe qualche fama, nel periodo “fin de
siecle”, come autrice di romanzi e di opere di critica letteraria. Va rilevato che
il Carducci, pur nel suo sostanziale rifiuto del parnassianesimo, aveva
espresso un giudizio positivo del Leconte de Lisle, sostenendo che soltanto
con il poeta di Saint-Paul e con Victor Hugo egli si ritrovava “in piena e
concorde rispondenza sublime” (cfr., su questo, G.P. SOZZI, Il Parnasse e i suoi
riflessi in Italia, Urbino, Argalia, 1968, p. 133, n 35. Si noti che nello spoglio
bibliografico di Sozzi, alle pp. 233 – 433, non si fa menzione di nessun
intervento dellaportiano relativo al parnassianesimo sulle riviste dell’epoca, e
che tra i poeti carducciani che risentirebbero di qualche influsso del
“Parnasse” sono citati i soli Ferrari e Marradi). Sempre in ambiente francese,
si segnala il breve accenno di A. REGGIO, L’Italie intellectuelle et littéraire au
debut du XX siècle, Paris, Perrin, 1907, p. 127, dove il della Porta viene indicato,
non si capisce su quali basi, come il vero soggetto dell’imitazione altrimenti
dannunzianeggiante di Angiolo Orvieto (“M. Orvieto a vibré à même le
clavier sentimental, mais sous une forme plutôt tributaire delà manière de M.
d’Annunzio, laquelle paraît, d’autre part, avoir pétri le style, le cœur et l’esprit
d’un tempérament plus vassal et comme écrasé, celui d’Antonio della Porta,
jeune auteur de Sestines, ayant à son actif une Ode à G. d’Annunzio,
législateur […]”).
10
15
Cfr. W. SHARP, Studies and Appreciations, New York, Duffield & Company,
1912, pp. 347 – 348. Lo Sharp cita il poeta di Montazzoli all’interno di una
riflessione sul desolante panorama che caratterizzerebbe (a suo dire) la
letteratura post-carducciana: “The subsequent period would be a blank but
for the modest appearance of three young writers of promise, the Sicilian
Cesareo, the Roman Diego Angeli, the Lombard Antonio della Porta. It must
be admitted that the outlook to-day is not more encouraging than it was a
decade ago; perhaps less so since Carducci is now all but silent, and the
mature writers of the younger group – with the exception of Giovanni Pascoli
– reveal no advance upon what they had achieved before 1890 [...]”, con la
presa d’atto che le cose migliori, in quel periodo, erano prodotte da
D’Annunzio e dai poeti dannunzianeggianti. William Sharp (1855 – 1905),
critico e poeta scozzese, scrisse, a partire da 1893, anche sotto lo pseudonimo
di Fiona MacLeod, tenuto quasi segreto durante la sua vita. Fu, inoltre,
editore di poesie di Ossian, Walter Scott, Matthew Arnold, Algernon
Swinburne e Eugene Lee-Hamilton. Lasciata la Scozia verso la fine del secolo,
dopo un lungo peregrinare si stabilì in Sicilia, nella Ducea di Bronte, dove
morì qualche anno dopo. Si noti, a margine, il curioso refuso dello Sharp, che
scambia l’abruzzese della Porta per un lombardo, forse confondendosi con
l’omonimo scultore quattrocentesco. Il contrasto tra l’opinione critica dello
Sharp e quella della Dornis può essere spiegato con il fatto che entrambi
sembrano non essere del tutto informati sul panorama letterario italiano del
tempo. Un’altra citazione, sia pure collaterale e divulgativa, nonché
certamente esagerata vista la sua collocazione accanto alla menzione di
Pascoli e Carducci, si trova in un volume pubblicato negli Stati Uniti da Carlo
Sforza, futuro ministro degli esteri di De Gasperi, già antifascista e docente di
“Italian Culture” a Berkeley (e cfr. ID., Italy and Italians, New York, Dutton,
1949, p. 62. Il testo venne tradotto in inglese da E. Mutton direttamente dagli
11
appunti delle lezioni dello Sforza): “[…] Today too, this sentiment for nature
has inspired Carducci with his finest verses and has made of Pascoli a poet;
and with Pascoli, others whom fate has not allowed to become famous, the
Abruzzese Antonio della Porta and the Lunigianese, Ceccardo Roccatagliata
[…]”. In questa particolare occasione, in tutta evidenza, il politico lucchese
inserisce l’opera del della Porta in un filone bucolico ed agreste che a suo dire
trovava i propri natali nelle Georgiche virgiliane, nel Ninfale Fiesolano di
Boccaccio, in Poliziano ed Ariosto, e infine nel Pastor Fido di Guarini.
Notevole, ma non del tutto condivisibile, l’accostamento implicito tra il della
Porta e Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. In Ceccardi veicola, nella sua poesia,
un autobiografismo lirico d’estrazione paesistica, esaltando e glorificando i
ricordi (vere e proprie “memoires involontaires”), in un tessuto espressivo
dove la memoria s’intreccia in modo inestricabile a una seducente musicalità
(e su tutto ciò, cfr. R. MOSENA, Roccatagliata Ceccardi. Metamorfosi e ismi della
poesia, Roma, Ulisse, 2004). Quello che non convince, nell’approccio non certo
specializzato posto in essere dallo Sforza, è il suo silenzio sulle intonazioni
civili e patriottiche del poeta ligure, che, se lo avvicinano indubbiamente a
Carducci e D’Annunzio (e non a Pascoli, dunque, se non “apres le coup”),
indubbiamente lo pongono in contrasto con della Porta, non aduso a
esaltazioni nazionalistiche se non di sfuggita e per scopi del tutto secondari.
16
Si legga, ad esempio, questa significativa affermazione, relativa ad una
richiesta di notizie sui poeti italiani più in voga alla fine del secolo
diciannovesimo: “[…] quanto alla domanda del Muret? è un po’ difficile
rispondere e tu ne sai quanto me. Orvieto, Garoglio, Pàntini, Gaeta, Catapano,
Pastonchi, Cena, Ceccardi, Giorgeri-Contri, Della Porta, Angeli, Bertacchi,
Damiani, Lipparini ecc. Ecc. Son tanti ! E come fare a trovar notizie? Ne
chiederò a Garoglio appena lo vedrò […]”. Su ciò, cfr. G. PAPINI – G.
PREZZOLINI, Carteggio, cur. S. GENTILI – G. MANGHETTI, voll. II, Roma, Edizioni
12
esistenziali di della Porta, almeno per quel che concerne la sua prima
giovinezza, sono avvolte da una nebbia abbastanza fitta, non
facilmente squarciabile dall’occhio interessato del biografo, ciò accade
perché, in primo luogo, a tuttora manca qualsivoglia edizione degli
epistolari dellaportiani, ove nessuna apparente traccia sembra esser
rimasta di lettere indirizzate alla famiglia e/o ad amici del paese
nativo. In seconda battuta, anche le missive indirizzate a suoi sodali
letterari e culturali (prime fra tutte quelle reperibili negli archivi di
Casa Carducci) sono assolutamente parche di notizie utili a rischiarare
il panorama affettivo e storico in cui il poeta trascorse la sua infanzia e
l’adolescenza, sicché allo studioso non resta appunto che l’inferenza,
l’abduzione, basandosi il tutto sui dati scarni che è possibile ricavare
dal materiale a tutt’oggi affiorato, nonché su quanto emerge dalle
stesse opere e in particolare dalle autobiografiche Canzoni. Svelare le
nebbie e le nubi che ostacolano la vista dell’esegeta sarà dunque un
tentativo non inutile, un “experimentum vitae” a cui – come s’è
accennato – nemmeno della Porta si sarebbe sottratto. Ma cerchiamo
di andare con ordine.
di Storia e Letteratura, 2003 – 2008, in part. vol. I (1900 – 1907), p. 201 e n. 10. Il
francese Maurice Muret (1870 – 1954), letterato e scrittore di cose politiche, fu
redattore del Journal des Debats Politiques et Literaires (cfr. ivi, p. 168, n. 5).
17
Cfr. L. CAPUANA, “Le canzoni di Antonio della Porta”, in Rivista d’Italia, a.
II, vol. III, fasc XII, 16 dicembre 1899, pp. 714 – 726.
18
Cfr. Registro dello stato civile, Comune di Montazzoli, a. 1868, “ad vocem” (il
testo integrale è consultabile presso l’Archivio di Stato di Chieti. Testimoni
dell’atto furono due contadini che prestavano la loro opera nelle tenute dei
della Porta. Nell’atto medesimo è altresì trascritta la data della morte della
madre, avvenuta il 12 dicembre 1904. Un altro riferimento cronologico è in F.
ULIVI, Poeti minori cit., p. 761. Il testo dell’Ulivi rappresenta l’unica antologia
13
di poeti ottocenteschi che contenga qualche lirica del della Porta e che fornisca
le date di nascita e di morte in modo corretto. Altre notizie in proposito non è
stato possibile ricavare.
19
Cfr. Codice Civile del regno d’Italia, art. 131 (“Il marito è capo della famiglia: la
moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome, ed è obbligata
ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare residenza”).
20
Cfr. CAPUANA, “Le canzoni ” cit, p. 717.
14
Là, dove la montagna di Lagonero si abbassa, fino a metri 812 sul livello del
mare, comincia una pianura, in direzione ovest e nord-ovest, per la
lunghezza di circa due chilometri, tra l’Asinelio o Sinello e 1’Altova. Seguita
poi uno sprofondamento di circa 600 metri; e, giù giù, spalanca le sue fauci la
così detta Valle dell’Inferno. Il bel paese di Montazzoli siede appunto in una
estremità di quella breve pianura […].
25
Cfr. La Vita Italiana, 7 settembre 1897. L’ode venne poi inclusa nelle Canzoni
(e cfr. Cfr. A. DELLA PORTA, Canzoni, Roma, Società Editrice Dante Alighieri,
1900, pp. 57 – 63, ma mutila dell’ultima strofa, forse considerata dal poeta
montazzolese eccessivamente politicizzata e retorica).
26
Sulla questione, cfr. M. RIZZO, “L’Idea Liberale dal 1896 al 1900”, in Rassegna
Storica del Risorgimento, 1978, pp. 306 – 340.
18
periodici degli articoli che, agli occhi dei liberali più ortodossi, lo
dipingevano come antidemocratico, nazionalista e militarista. Durante
la campagna elettorale, invero, il Vate aveva tenuto il famoso Discorso
della Siepe, rivolto guarda caso a quella classe di piccoli proprietari
terrieri da cui, come s’è visto, il della Porta proveniva, e che allora
erano assai preoccupati per il sorgere del socialismo e per l’eccessiva
pressione fiscale cui erano sottoposti27. Ma si leggano queste
osservazioni di Mariella Rizzo, relative alla discesa in campo del
D’Annunzio nelle elezioni del 1897, discesa che venne salutata con la
sua entusiastica “Ode” proprio dal della Porta28:
27
Su tutte queste questioni, cfr. M. BIONDI, “D’Annunzio politico”, in Il Ponte,
1 (1989), pp. 127 – 138. Si tenga conto, come osserva il Moroni, che con il suo
discorso D’Annunzio “veicolava anche una retorica legata alla nozione di
proprietà agraria di cui la siepe rappresentava il confine difensivo, carico di
suggestioni poetiche […]” (e cfr. M. MORONI, “Estetismo/modernismo in
Italia. Soggetto panico, soggetto dietro la siepe, soggetto pubblico:
D’Annunzio, Pascoli, Palazzeschi”, in Quaderni di Italianistica, 1 – 2 (1994), pp.
70 – 71, n. 3).
28
Cfr. RIZZO, “L’Idea” cit. p. 104, n. 330, dove si cita G. BORELLI, “A Gabriele
D’Annunzio legislatore”, in L’Idea liberale, a. VI, n. 44, 31 ottobre 1897, pp. 523
– 525. Qualche tempo dopo, il Borelli, sulle medesime pagine dell’Idea Liberale,
definirà D’Annunzio “superuomo nietzschiano; bestemmiatore e fedifrago,
iconoclasta e predone, sanguinario ed ebbro di macabra egomania” (vedi
RIZZO, ivi, per la citazione). Il modenese Giovanni Borelli (1867 – 1932),
giornalista, critico letterario e poeta d’ispirazione carducciana, a partire dal
1900 entrò nella vita politica, fondando il Movimento dei giovani liberali con
un programma monarchico, irredentista, colonialista, e ripromettendosi di
scuotere l’opinione pubblica attraverso i giornali da lui diretti (L’Alba e
appunto L’Idea Liberale), nel mito di un risorgimento dell’idea latino-
mediterranea ma facendo a meno delle pericolose idee colonialistiche e
sciovinistiche che caratterizzarono il periodo crispino. Fu poi interventista e
fascista, collaborando al Popolo d’Italia di Mussolini. Su di lui cfr. ad esempio,
B. VIGEZZI, Da Giolitti a Salandra, Firenze, Vallecchi, 1969, pp. 32 ss.gg., 287
ss.gg, 318 ss.gg.
19
29
Si tenga conto, a scopo di chiarezza, che il testo borelliano non è
tecnicamente strutturato come una recensione, ma come una sorta di articolo
di fondo.
30
Cfr. BORELLI, “A Gabriele D’Annunzio”, p. 523
31
Vedi ivi, p. 524.
20
Tanto ho voluto premettere, perché nulla del mio pensiero rimanga nascosto o
dubbio, prima di entrare nel concetto opposto di Antonio della Porta il quale
fraternamente ha dettato a Gabriele D’Annunzio l’ode che mi ha mosso a
scrivere e che è senza dubbio singolarissima testimonianza dell’ingegno e
della maestria di codesto eccelso fra tutti i rievocatori dei modi e delle forme
della metrica classica italiana.
33
Si tenga conto che il discorso dannunziano aveva stimolato anche la penna
del Pascoli, il quale, sulla Tribuna del 31 agosto 1897 (D’Annunzio aveva
parlato il 22 dello stesso mese), pubblicò una risposta al discorso medesimo
intitolata appunto “La siepe”. Citando Garboli, il D’Annunzio aveva condito
la sua orazione con “individualismo, arte, bellezza, latinità, energia
imprenditoriale: tutti gli eterni luoghi comuni della destra italiana erano
chiamati a raccolta da d’Annunzio e figurati col simbolo, l’immagine, l’icona
della siepe […]. Il Pascoli condivide, applaude, ma corregge il tiro. Sotto il
profilo politico, […] l’ambiguo intervento pascoliano [va] diviso tra elogio
della proprietà privata (il campetto) e odio antimprenditoriale (l’affarismo),
all’ideologia nazional-socialista, mistica e guerriera”, richiamando concetti che
sarebbero stati poi meglio espressi nella celebre allocuzione del 1912 La grande
proletaria si è mossa, dove il Pascoli giustificava e applaudiva l’intervento
italiano in Libia. Su tutta la questione, cfr. inizialmente C. GARBOLI,
“Introduzione”, in G. PASCOLI, Poesie e prose scelte, 2 voll., cur. ID. – G.
LEONELLI – A. OLDCORN – F.M. PONTANI, Milano, Mondadori, 2002, in part.
vol I, pp. 1417 - 1419, con bibliografia specifica.
34
Si tenga presente che, stante Capuana (e vedi CAPUANA, Canzoni di Antonio
della Porta, p. 717), la famiglia della Porta era proprietaria del “vasto
possedimento della Lupara, circondato da boschi di faggio e di abeti, con
denso verde vago/anfiteatro un lago (c.vo nostro)”, con una citazione da DELLA
PORTA, Canzoni, p. 22. Non essendovi, negli immediati dintorni di Montazzoli,
nessuna località che sia denominata con il toponimo Lupara, si può solo
ipotizzare che la tenuta dei della Porta sorgesse alle falde del monte
omonimo, su cui si trovano le sorgenti del Sinello. Proprio all’inizio, tale
fiume percorre un parte dell’agro montazzolese (e su ciò, menzionando il
Sinello ma senza ricordarne le sorgenti, cfr. L. CUOMO, Montazzoli: guida al
centro antico e al territorio, Napoli, Arte Tipografica, 2006, pp. 3 – 5).
22
che tutte ebber le tue speranze rotte […]”36, da cui si inferirebbe che,
almeno in gioventù, egli non fosse al corrente di quali potessero essere
state le cause contingenti dell’improvviso tracollo familiare, e che
invece, come s’è visto, andrebbero ricercate nelle motivazioni di tipo
storico-economico di cui s’è discusso in precedenza. Una richiesta di
prestito, fatta a qualche altro maggiorente del paese onde tamponare
falle finanziarie improvvisamente apertesi nella gestione dei terreni,
debito poi non onorato con conseguente vendita del patrimonio
ancestrale? Allo stato non è possibile saperlo, ma la cosa pare assai
verosimile. L’esempio più significativo della condizione
d’appartenenza dei della Porta è reperibile in una delle Canzoni più
struggenti, quella in cui il giovane Antonio ricorda i tempi felici
dell’ormai trascorsa giovinezza37:
36
Cfr. DELLA PORTA, Canzoni, p. 13.
37
Cfr. ivi, pp. 50 – 52. Ma si leggano queste pregnanti osservazioni di
Capuana: “[…] C’è, specie nelle canzoni, un rimpianto del passato della sua
casa, della sua famiglia […] nella signorile casa paterna, le prime impressioni
sono di stacco della sua classe da quella dei cafoni. Il lusso, per quanto
provinciale, che lo circonda, educa e raffina la sua intelligenza con la vista di
cose belle, con gli usi e le abitudini di una vita dissimile da quella che menano
attorno a lui, tenuti in distanza, borghesi, operai, contadini […]”, ma in
seguito sopravvengono “l’inatteso disastro che colpisce la sua famiglia, prima
ch’egli esca dalla fanciullezza; e l’esilio dai possedimenti paterni, e la
dispersione di quasi tutti quegli oggetti di bellezza e di arte che avevano
educato i suoi sensi; e le dure necessità della vita, e la lotta, e il rancore contro
la immeritata disgrazia, rancore che lo preserva dal disformarsi da quel che le
prime aristocratiche impressioni lo avevano foggiato […]”, dando la stura a
quella malinconia di fondo che caratterizza molte delle liriche dellaportiane
(cfr. CAPUANA, “Le canzoni”, p. 717).
24
giustizia,/ Mio padre a udir, che, tra grano e avena,/ Tanto a misura piena,
affittava una terra e a sottoscrivere/ Chiedea la carta a quei che sopravvivere/
Potesse, figlio, al proprietario erede,/ L’infantil firma a piede/ Dell’atto. O
nonna, che in man mi ponesti/ La penna e mi dicesti:/ – Scrivi, al nome di
Dio –, tu fosti scorta/ Al segnar cauto “antonio della porta”// L’affittuario,
cui ventinove anni/ Legavano in contratto, ebbesi offerta/ Sulla pagina
aperta/ Da me la penna: mi guardò, sorrise:/ Poi, di un suo gesto, dichiarò
inesperta/ La mano usa alla stiva, usa agli affanni/ Del sarchio: e
turcomanni/ Chiese due letterati, alle intercise/ Da lui due sbarre in croce: e
aveale incise/ Egli sicuramente a pié del foglio/ Segnato dell’orgoglio/ Mio
primo, a voto! E, più tardi, il contratto/ Fé, del canone in patto,/ Vano, e
acquistò la tua terra, o poeta,/ Marcata di sua croce analfabeta.// Forse che tu
ne avresti fatta, o buona/ Madre, la dote per Evangelina/ Se stata ella vicina/
Ti fosse più nella deserta casa./ Anzi che donna, ma non più bambina,/
Vanìo, sorella, l’esile persona/ Pria che la sua corona/ Ti avesse al mondo
Amore persuasa.
38
Cfr. “archiviostorico.unibo.it/template/listStudenti.asp?IDFolder=143&
start=true&LN=I T&nEPP=200&offset=17000&filtro=no”, ult. cons. 6 febbraio
2013. Si noti che la stessa fonte riporta, quale iscritto alla Facoltà di farmacia
nel medesimo anno in cui Antonio cominciava i suoi studi legali, un non
meglio identificato Felice della Porta di Montazzoli. Se tra i due ci fosse una
qualche parentela, non è stato possibile appurarlo.
39
Cfr. DELLA PORTA, Canzoni, p. 13.
26
ancor più plausibile da altri due fattori: altrove, il della Porta cita una
“casa ricca di tutte abbondanze”40, altro indizio che porterebbe a
intuire come, nell’epoca della primissima fanciullezza, egli vivesse in
condizioni agiate. Il fatto poi che ci si trovasse di fronte a una magione
antica e aristocratica è comprovato dall’accenno, nella medesima
lirica, ad una pietra (“insigne monumento”41) che sarebbe l’unica
traccia sopravvissuta della passata grandezza. È probabile che qui
della Porta voglia proprio riferirsi all’architrave di un camino, dotata –
nelle dimore nobiliari – d’uno stemma gentilizio posto al centro
dell’architrave medesima. Peraltro della Porta definisce, sul finale, la
vicenda esistenziale della sua famiglia “di tanto centenaria”, parlando
di “gradi e segni nobili e nativi/ Che ritornata al prisco officio,
splenda/ Lare fedele, e a sé chiami e restringa/ quelli del nostro
sangue ultimi vivi […]”42. Il termine “gradi” rimonta genericamente
all’araldica e all’aspilogia e indica il livello di nobiltà raggiunto da una
certa casata.
Tornando alle problematiche economiche, e leggendo quel che
ne scrive il già ricordato Padovani, non si è lontani dalla verità se si
afferma che l’attività giornalistica del della Porta potrebbe esser
servita per integrare quella piccola rendita che gli consentiva di
frequentare, sia pure con successo, la facoltà giuridica felsinea;
un’ipotesi non del tutto escludibile se solo si pensa che, dopo la
laurea, il poeta preferì dedicarsi all’avvocatura piuttosto che
continuare ad esercitare la professione di pubblicista nella quale pure
aveva avuto – come vedremo – non pochi meriti.
40
Vedi ivi, p. 14.
41
Ivi, p. 15.
42
Ivi, pp. 15 – 16. Ma si veda, in proposito, questa pregnante osservazione del
Croce: “i1 focolare è ritratto tutt’insieme nella sua precisa forrila materiale, nel
contenuto etico che esso assume nella vita della famiglia, e nel suo significato
di legame tradizionale e secolare, che risale ai primi nuclei della società
umana” (e cfr. CROCE, La letteratura cit., p. 86).
27
43
Cfr. A DELLA PORTA – A. CERVI, Minareti, Bologna, Società Tipografica
Azzoguidi, 1888, p. 8 (“[…] l’audace fondazione del giornale Stamura ad
Ancona, nel ‘84, quando il poeta non avea che sedici anni […]”).
44
Stando all’Albertazzi (Carducci in professione cit.. p. 144), “la persona sua
[era] alta due metri circa”.
45
Sulla facoltà giuridica bolognese, cfr. A.C. JEMOLO, “La Facoltà di
Giurisprudenza”, in AA.VV., Bologna e la cultura dopo l’Unità d’Italia, Bologna,
Zanichelli, 1960, in part. pp. 212 – 225, con un nutrito elenco di giuristi famosi
che colà insegnarono alla fine del secolo (pur se non tutti riconducibili al
periodo in cui della Porta frequentò quell’ateneo).
46
Nel 1888 il della Porta fu addirittura invitato a tenere un discorso, poi
debitamente pubblicato, in occasione di un evento collaterale
all’ottocentesimo anniversario della fondazione dell’ateneo felsineo (e cfr. A.
DELLA PORTA, I berretti. Conferenza detta al club felsineo il XXVI gennaio
MDCCCLXXXIX giorno dell’innaugurazione dei berretti storici universitari,
Bologna, Stabilimento Tipografico zamorani – Albertazzi, 1889). Nel discorso,
dedicato al compagno di corso, il conte veneziano Ottavio Orti Manara (su cui
vedi il sito “archiviostorico.unibo.it/template/listStudenti.asp?
IDFolder=143&start=true& LN=I&nEPP=200&offset=36600&filtro=no”, ult.
cons 22 febbraio 2013), il Della Porta si rivelava un entusiasta fautore della
scelta di un copricapo adottato come accessorio distintivo degli studenti (“Noi
oggi abbiamo preso cappello [...] non ha le due punte del cappello che fu di
moda sotto Luigi XV; non ha le tre punte del tricorno clericale; non ha le
quattro punte del cappello che ebbero i soldati di Luigi XVI per ordine del
28
due labili tracce sono le ultime prima della sua morte, avvenuta nel
193850.
50
Cfr. supra, la n. 9.
51
Cfr. Cronaca siciliana di lettere ed arti, nn. 15 – 16, 1888, irreperibile. Vincenzo
Maugeri Zangara (1866 – 1948), narratore, giornalista e autore di numerosi
saggi, collaborò con alcuni dei maggiori periodici dell’epoca, come il Fanfulla
della Domenica, la Tribuna e la Gazzetta letteraria. Su di lui, cfr. C. GALLO, Il
verismo minore in Sicilia, Acireale-Roma, Bonanno, 1999, pp. 375 – 376 e passim.
31
54
La lettera, che abbiamo già citato (e vedi supra, la n. 3), venne poi pubblicata
sulla Battaglia bizantina del 6 maggio 1888 (e cfr. CARDUCCI, Ceneri e faville, p.
303).
55
Per i dati bibliografici, cfr. infra, la n. 13. Non è stato possibile risalire
all’originale in alcuna rivista dell’epoca.
56
La sestina lirica del della Porta, in secondo piano rispetto alle creazioni
carducciane, dannunziane e perfino del De Bosis (che peraltro ne scrisse solo
una e privilegiò invece il verso libero d’ispirazione whitmaniana!) sono
affrontate in G. FRASCA, La furia della sintassi. La sestina in Italia, Napoli,
Bibliopolis, 1992, pp. 362 e 377, n. 15. Il Frasca, con qualche superficialità, nota
che quelle del della Porta sono “esperienze chiaramente minori, ove la forma
occorre a veicolare sentimentalità genericamente pascoliane e crepuscolari
(!)”, trovando maggiore originalità nella traduzione dellaportiana di una
sestina del Cervantes presente ne La bella mano (pp. 95 – 97). Si potrebbe
obiettare che, fatti salvi i numi Carducci e D’Annunzio (e stranamente il
Frasca non riconosce le ascendenze carducciane nei testi di della Porta), forse
il numero elevato di composizioni in sesta rima del della Porta avrebbe
dovuto porlo davanti, nella disamina critica, all’unica creazione debosisiana,
peraltro proveniente da un autore sostanzialmente verslibrista. Curiosamente,
con un salto cronologico che dal Cinquecento arriva ai gioni nostri, nessuna
menzione degli esperimenti metrici tardo ottocenteschi vien fatta in AA.VV.,
“La Sestina”, cur. F. M. BERTOLO – P. CANETTIERI – A. P. FUKSAS – C. PULSONI ,
in Anticomoderno, 1 (1996), pp. 9 – 130, dove dagli esempi medioevali e
rinascimentali si passa subito all’analisi dei tentativi di ipersestina posti in
essere dal Frasca medesimo. Una citazione collaterale, nell’ambito della
33
lingua nostra modernissima, pallida e anemica, che per povertà di parole note
agli scrittori e per troppo monotona uniformità di periodare rende
spessissimo involuti e oscuri fino i concetti più nitidi e semplici, e che per
ignoranza degli scrittori non è talvolta nemmeno sufficiente a dar forma
sensibile e salda ai concetti che essi sentono embrionalmente fervere nel loro
intelletto […].
61
Sulla presenza dell’infanzia nelle maggiori letterature europee ottocentesche
e primo novecentesche, cfr., orientativamente, J. HODGSON, The search for the
self: childhood and autobiography in fiction since 1940, Sheffield, Sheffield
Academic Press, 1993; P. COVENEY, The image of childhood: the individual and
society, a study of the theme in English literature, Harmondsworth, Penguin,
1967; M. BERNARDI, Infanzia e metafore letterarie: orfanezza e diversità nella
circolarità dell’immaginario, Bologna, Bononia university press, 2009; AA.VV., Il
tempo dei bambini: il mistero, lo stupore, la magia dell’infanzia, nel racconto di 26
grandi scrittori, cur, R. ZIMLER – R. SEKULOVIC, Milano, Oscar Mondadori, 2010;
AA.VV., Tracce d’infanzia nella letteratura italiana fra Ottocento e Novecento, cur.
W. DE NUNZIO-SCHILARDI – A. NEIGER – G. PAGLIANO, Napoli, Liguori, 2000;
G. TISON, Une mosaique d’enfants: l’enfant et l’adolescent dans le roman francais
(1876-1890), Artois, Artois Presses Universite, 1998; E. BADELLINO – F.
BENINCASA, Bulli di carta: la scuola della cattiveria in cento anni di storia, Torino,
SEI, 2010.
37
62
Insegnante, giornalista e scrittore, teramano d’adozione, Luigi Savorini
(1875 – 1937) verso la fine del secolo fu redattore capo della Rivista Abruzzese
di Scienze, Lettere ed Arti. Gestore della Biblioteca provinciale di Teramo, e
curatore delle opere di melchiorre Delfico, con lo pseudonimo Aloysius firmò
la maggior parte dei suoi interventi di argomento artistico, letterario e
bibliografico. Su di lui, cfr., da ultimo, G. CASTELLUCCI, “Cesare Brandi, Luigi
38
nessuna molle cadenza […] nei suoi versi, nessun accento debole o fiacco,
nessun sospiro di perdute speranze, nessun lamento di vane e infeconde
recriminazioni. Egli atteggia la propria passione e il proprio dolore a una
fierezza nobile e dignitosa e la strofe metallica della sua canzone sembra
ripetere vigorosamente: non flectar, non flectar!
Sissignori, sono fatto cosi; prendetemi come sono, se vi piace; se no, buona
notte; continuerò a cantare per conto mio, come ho già fatto sempre. I miei
versi li scrivo prima unicamente per me, perché la natura del mio ingegno e il
mio cuore mi costringono a scriverli; la vanità, l’amor proprio che me li
63
Cfr. L. CAPUANA, “Le canzoni” cit., da cui tutte le citazioni seguenti.
64
Sul Capuana critico letterario, cfr. ora e definitivamente L. MENEGHEL,
“Luigi Capuana critico letterario del Corriere della Sera”, in ACME. Annali
della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, 2 (2011), pp.
157 – 179, con bibliografia specifica.
41
Per mantenersi in tono, la parola, il giro del periodo, assumono una, dirò
cosi, teatralità che stride col resto. Si scorge una strana lotta; una specie di
scommessa di dire in modo non ordinario un concetto semplicissimo e che
dalla semplicità della forma prenderebbe maggiore efficacia. Rivincita della
tecnica, che riporta l’artificio là dove l’artificio dovrebbe essere evitato. Da ciò
più vengono qua e là quelle oscurità che irritano, e menomano l’impressione
quando sta per divenire più acuta; quel che di faticoso, di contorto che
ostruisce la piena irrompente del sentimento anche nelle canzoni di amore;
67
Cfr. G. D’ANNUNZIO, S. Pantaleone, Firenze, Barbera, 1886, pp. 152 – 161. Il
testo venne poi riutilizzato da D’Annunzio nel Piacere.
45
per nascondere che tali riflessioni gli venivano dalla lettura quel
componimento sul D’Annunzio legislatore, il quale però appare una
specie di “unicum” in tutta la produzione del montazzolese. Croce
però riesce a capovolgere il problema rispetto alla solita ottica
deformante “passatismo vs. comprensione pubblica” che aveva
inficiato in parte i giudizi dei contemporanei. Secondo lui, la
“vaghezza letteraria” è scavalcata da una “sobrietà” di toni che
parrebbe assente perfino in Carducci. La “delicatezza e trepidanza
d’affetto che è negli accenti d’amore” del della Porta, e che Croce
farebbe risalire all’influenza su di lui delle liriche del Severino Ferrari
dei Nuovi Goliardi69, “si distacca e s’innalza sul D’Annunzio”, dal
momento che Antonio della Porta non canta “gli affetti di qualsiasi
qualità come mera dilettazione da estetizzante”, ma cerca di dare ad
essi una sorta di “originale schiettezza” per fornire una chiave
interpretativa realistica al complesso dei suoi versi. Croce, come altri
prima di lui, mette in evidenza come il montazzolese esaltasse la
figura materna; ciò avviene “con commozione”, scavalcando già da
principio i rari influssi dell’estetismo pur presenti nella sua
produzione più giovanile. Per il critico di Rivisondoli, nella poesia
dellaportiana sono presenti alcuni punti fermi:
69
Sui contrasti di campo negli ambienti carducciani, cfr. il fondamentale
articolo di P. BONFIGLIOLI, “Conformismo e opposizione nella scuola
carducciana. Severino, Pascoli e i goliardi”, in Emilia, VII (1955), pp. 238 – 244,
a cui si aggiungano E. CHIORBOLI, “Il tramonto di Severino Ferrari e il ritorno
di Giovanni Pascoli a Bologna”, in Nuova Antologia, CDXXXVII (1946), pp. 3 –
14; IBID., “Il Ferrari, il D’Annunzio, il Pascoli, il Carducci”, ivi, CDL (1950), pp.
162 – 182; E. GERUNZI, “Per la scuola bolognese e Severino Ferrari”, in Rivista
d’Italia, IX, I (1906), pp. 306 – 319.
47
72
Cfr. infra, la n. 70.
73
Per una biografia di A. Cervi, vedi il già citato l’articolo di Parenti (cfr.
supra, la n. 10), il quale, praticamente, ha valore di fonte.
74
Cfr. A. DELLA PORTA – A. CERVI, Minareti, Bologna, Azzoguidi, 1888, da cui
tutte le citazioni che seguono.
75
Cfr. ad esempio, sul Martini, E. SORMANI, Bizantini e decadenti nell’Italia
umbertina, Bari-Roma, Laterza, 1978, pp. 18 – 22.
51
76
Si tenga presente che Martini, sul Fanfulla della Domenica, pubblico nel
1873 un articolo-recensione dedicato alla Eva di Verga (e vedi SORMANI,
Bizantini cit., pp. 19 – 22, da cui la menzione che segue), in cui – inserendosi
con molto anticipo nella ben nota polemica sulla moralità dello stile e dei
contenuti delle opere realiste, si schierava con l’autore catanese e con quanto
quest’ultimo aveva scritto nella famosa prefazione all’opera medesima
riguardo alle eventuali rampogne dei moralisti sulle tematiche affrontate nel
romanzo (“Non accusate l’arte, che ha il solo torto di aver più cuore di voi, e
di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi
che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che
create, voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore, l’onore, là
dove non lasciate che la borsa, voi che fate scricchiolare allegramente i vostri
stivali inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono dolori
sconosciuti, che l’arte raccoglie e vi getta in faccia […]”). Il Martini, da parte
sua, rispondendo indirettamente a una lettera allarmata di un genitore di
Udine, sostiene di non voler “far da educatore alle ragazze di sedici anni,
ufficio arduo e, secondo l’opinione mia, non divertente. […] Del resto, se i
romanzieri dovessero, quando pigliano la penna, pensare che il loro libro può
cadere sott’occhio alle educande, de’ romanzi non se ne scriverebbero più. Mi
pare che le ragazze di sedici anni, le quali compongono tanti romanzi,
potrebbero fare a meno di leggere quegli degli altri […]”. E conclude con
l’affermazione secondo cui “tutte le volte che un romanziere o un
commediografo piglia a trattare un argomento un tantino scabroso, non si
sente che ripetere da ogni parte: Le ragazze! Le ragazze! Benedette figliole!
Non vedo l’ora che si maritino!”.
52
77
Cfr. V. PRATOLINI, Cronache di poveri amanti, Milano, Mondadori, 1971, pp.
333 – 35.
78
Federico Ugo Maranzana (? – post 1897), in arte Fritz, fu autore di romanzi
d’ambiente “bohemienne” (Mimì, Milano, Quadrio, 1887; Minu, ivi, 1887), di
53
narrativa per l’infanzia (Il romanzo del maestro di scuola, Milano, Quadrio, 1886,
anticipante l’analoga opera del De Amicis; e I quattro moschettieri, ivi, 1888),
nonché di novelle d’imitazione verghiana e scapigliata (Tentativi, Torino,
Roux & Favale, 1884). Poeta (Il libro delle canzoni, Pistoia, Tipografia del Popolo
Pistoiese, 1889) e commediografo (Filosofia matrimoniale. Commedia in un atto,
Blogna Azzoguidi, 1889), tradusse le opere teatrali del poligrafo spagnolo
Eugenio Hartzenbusch (su cui cfr. il conclusivo F. M. MARIÑO, La estatua de
bronce. Lás fábulas en prosa de Lessing y la traducción de Hartzenbusch, Valladolid,
PUV, 2007, con bibliografia in lingua originale) e del poeta polacco
Aleksander Fredro (su cui vedi, in italiano, A. STEFANINI, Ottimismo e
pessimismo fredriano, Roma, Istituto per l’Europa Orientale, 1930). Il
Maranzana va ricordato anche come collaboratore dei due periodici bolognesi
Battaglia Bizantina (ove evidentemente conobbe il della Porta, e cfr. A.
BRIGANTI – C. GATTARULLA – F. D’INTINO, I Periodici Letterari dell’Ottocento,
Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 33 – 34) e Battaglie artistiche, nonché come
direttore, nel 1888, del periodico comasco L’Araldo, e per aver pubblicato un
articolo d’argomento goldoniano (cfr. “A proposito di Un Tipo fortunato”, in
Gazzetta letteraria, 24 ottobre 1885, p. 3) che potrebbe aver suscitato anche
l’interesse del della Porta (e si veda l’ode “La morte di Goldoni”, pubblicata
sulla Vita Italiana del 19 febbraio 1893, a. I, n. 5). Una fugacissima citazione del
Maranzana anche in R. CASAPULLO, “Maestri e maestre nella prosa letteraria
dell'Ottocento”, in AA.VV., La nazione tra i banchi, cur. V. FIORELLI, Genova,
Rubbettino, 2012., pp. 305 – 318, in part. p. 312.
79
Sul Ciampoli (1852 – 1929), che fu traduttore, narratore e slavista di una
certa fama, cfr. D. CIAMPOLI, Trecce nere, cur. D. REDAELLI, Chieti, Vecchio
Faggio, 1990, con ampia introduzione e corposa bibliografia. Si noti che il
54
binomio verbale che da titolo alla raccolta di Ciampoli è citato, forse per un
“lapsus calami”, anche dal della Porta (“Le belle ragazze sfidavano il freddo
acuto portando il capo scoperto per fare ammirare le belle trecce nere e
bionde”, e vedi DELLA PORTA – CERVI, Minareti, p. 90).
80
Cfr. DELLA PORTA – CERVI, Minareti, pp. 89 – 90, dove il dottor
Azzeccagabugli è sostituito da un più umile cancelliere comunale; ma
all’inizio (p. 79) è citata anche una “Provvidenza” che, “un giorno o l’altro,
sarebbesi ricordata di Monte Azzo”.
55
81
Sull’emigrazione italiana in Brasile nell’Ottocento e nel primo Novecento,
cfr. R. PARIS, “L’Italia fuori d’Italia”, in AA.VV., Storia d’Italia, cur. R. ROMANO
– C. VIVANTI, voll. IX, Torino, Einaudi, 19909, in part vol 4, t. I, pp. 509 – 818 e
pp. 592 – 600 per l’emigrazione in Brasile.
82
DELLA PORTA – CERVI, Minareti, pp. 80 – 81.
56
83
È il caso delle cosiddette “vedove bianche”, donne lasciate in patria da un
marito che emigrava oltreoceano e che poi non si faceva più vivo. Alcuni di
questi uomini “pur essendo sposati o fidanzati, non rientrarono in Abruzzo,
radicandosi e naturalizzandosi nei paesi d’immigrazione: essi interruppero i
rapporti con la moglie ed il resto della famiglia, creando la piaga delle vedove
bianche. Il fenomeno si manifestò soprattutto nei primi decenni del
Novecento, quando questi, pur avendo contratto la promessa di matrimonio o
addirittura il matrimonio, si unirono all’estero con altre donne e diradarono la
corrispondenza con la compagna lasciata a casa, la quale, per la sua
condizione ambigua, veniva indicata come vedova, nonostante il coniuge
fosse vivo, come spesso veniva riferito dai compaesani emigrati che lo
incontravano nella stessa città o quartiere. Si trattava di una condizione assai
triste; il mancato ricongiungimento delle donne ai loro coniugi, a causa del
pregiudizio antifemminile, poneva queste in una condizione di umiliante
disagio sociale perché, non essendo vedove (quindi sciolte dal legame
matrimoniale ed eventualmente in grado di risposarsi), rappresentavano un
pericolo per l’ordine costituito e per la sessualità. Il fenomeno della
vedovanza fittizia era, dunque, fortemente avvertito nelle comunità paesane.
La rescissione dei legami con la famiglia rimasta in patria e con la terra natia
era favorita dalla difficoltà delle comunicazioni; tuttavia, essa poteva essere
determinata dalla delusione dell’esperienza migratoria e dall’imbarazzo a
rientrare in paese più poveri di come si era partiti […]”. (la citazione in E.
SPEDICATO – L. GIANCRISTOFARO, “L’emigrazione abruzzese e la donna.
Risvolti socio culturali. Le vedove bianche”, in
www.abruzzoemigrazione.it/e_view.asp?E=164, ult. cons. 9 aprile 2013. Ma
57
Una cosa spaventosa, figli cari, una cosa che mi mette orrore adesso che ci
ripenso. Figuratevi che il vapore fa sempre così e così – ed illustrava con gesti
delle lunghe braccia questo punto del discorso. – Poi quando fa tempesta
bisogna raccomandarsi l’anima a Dio perché da un momento all’altro il
bastimento sprofonda e buonanotte.
vari colori. Cocciolone vide anche i segni di ammirazione degli uomini che la
guardavano.
la miseria torna la
rassegnazione, la pazienza, e
tutti i vecchi usi contadini: in
breve questi americani non si
distinguono più in nulla da
tutti gli altri contadini, se non
per una maggiore amarezza, il
67
88
Paris, (cfr. ivi, p. 593) sostiene infatti che il decreto del 13 maggio 1888 che
aboliva la schiavitù nei territori soggetti all’autorità dell’allora impero di
Pietro II, aveva contemporaneamente creato “una grave crisi di manodopera
agricola”. Per tale ragione, nell’anno successivo, ad opera della nuova
amministrazione repubblicana, vennero emanati i primi decreti che
regolavano il flusso dell’immigrazione. Il 2 agosto 1892, inoltre, il governo
brasiliano firmò un contratto con la società “La Metropolitana” di Rio de
Janeiro, per “introdurre nel paese un milione d’immigrati nel giro di dieci
anni a partire dal 1° gennaio 1893”, con una clausola speciale che prevede che
il 90% di costoro dovessero essere necessariamente agricoltori e con la
famiglia al completo. Si può pensare che, se Cocciolone avesse atteso altri
cinque anni, avrebbe potuto portare con se Rosella con pochissima spesa!
89
Cfr. A. DELLA PORTA, “Il genio dell’amore”, in La Libera Stampa, a. I, 16
agosto 1885, pp. 3 – 4. La citazione successiva è a p. 3.
68
90
Nell’ultimissima parte di questa novella è presente, come appunto anche
nel testo di Minareti, l’incipit d’un breve stornello amoroso, che (a parte la
tombola di quartiere, sostituita da una cerimonia religiosa, e a non voler citare
la palese somiglianza dei personaggi, nonna compresa) rende finale ragione
del parallelismo di cui si diceva.
69
91
All’epoca, a dir la verità, ci fu qualcuno che considerò le autobiografiche
prose carducciane addirittura come una sorta di contraltare alle novelle di
Verga (“[…] in esse i giovani italiani potranno osservare quella che può dirsi,
sotto tutti gli aspetti, rappresentazione compiuta d’un fatto, d’una avventura,
d’ una realità qualsiasi. Si paragonino queste prose carducciane colle tante
altre di certi novellatori piccinini che vogliono russeggiare e portare non so
che rivoluzione nella novella nostra, e si ritenga pure che la novella,
specialmente la campagnola, perché possa dirsi artistica, deve essere
sanamente vigorosa e comprensiva, e, anzitutto, italiana […]”, e cfr. G.
CHECCHIA, Poeti, prosatori e filosofi nel secolo che muore: studi, ritratti e bozzetti,
Caserta, Marino, 1900, p. 32), ma non pare possibile che il della Porta avesse
mai condiviso siffatta eccentrica opinione.
92
Si vedano, per cominciare, le missive contenute in G. PASCOLI – A. DE BOSIS
– M. BIANCHI, Carteggio Pascoli – De Bosis. Carteggio Pascoli – Bianchi, cur. M.L.
GHELLI – C. CEVOLANI, Bologna, Patron, 2007, precedentemente, per quel che
riguarda l’epistolario debosisiano e testo da cui si cita, in G. PASCOLI – A. DE
BOSIS, Carteggio, Firenze, La Nuova Italia, 1998, a cura della stessa Ghelli (pp.
29 – 36; 42 – 43 e 63. Alla p. 25 si cita una lettera del della Porta, allegata al
carteggio in oggetto, in cui costui annunciava “la calorosa ed entusiastica
accoglienza” del poemetto Gog e Magog nella cerchia del Convito).
Nell’archivio di Castelvecchio di Barga si segnalano nove missive di della
Porta al Pascoli, più una recensione di Myricae (verranno citate via via). Per
quel che concerne l’epistolario con Carducci, cfr. Carteggio Carducci, XLI.21,
ora, in parte, in G. CARDUCCI, Ceneri e faville cit., vol. X, pp. 30 – 31, 286 e 303.
70
Per quel che concerne D’Annunzio, nell’archivio del Vittoriale non risultano
lettere del della Porta, l’unico riscontro consistendo in un volume delle
Canzoni senza alcuna dedica. La cosa – vista l’esplicita iscrizione del della
Porta, da parte di molti critici coevi e non, nel folto gruppo dei poeti
dannunzianeggianti – appare assai strana: essa dimostrerebbe, invece, che i
suoi rapporti con D’Annunzio furono assai più freddi di quel che (stando
almeno alla produzione poetica e alla già menzionata “Ode a G. D’A.,
legislatore”) si potrebbe apparentemente pensare.
71
93
Per qualche scarno dato sul periodico, cfr. BRIGANTI, I Periodici Letterari, pp.
213 – 214. I contributi pubblicati dal della Porta sono esclusivamente poesie,
ma l’autore figura anche tra gli “editors” della rivista. Si vedano le poesie “A
mia madre” (La Vita Italiana, 6 luglio 1996); “Ode a mia madre per il maggio e
per le rose (ivi, 25 maggio 1996) e la citata “Ode a Gabriele D’Annunzio
legislatore” (3 settembre 1897).
94
Su tutta la questione, cfr. inizialmente G. PETROCCHI, “Il Pascoli e le
“Mosche cocchiere”, in AA.VV., Studi per il centenario della nascita di Giovanni
Pascoli pubblicati nel cinquantenario della morte: Convegno bolognese (28-30 marzo
1958), 3 voll., Bologna, CTL, 1962, in part. vol. I, pp. 45 – 55 (poi in IBID.,
Lezioni di critica romantica, Milano, Il Saggiatore, 1975, pp. 256 – 269; e citato in
G. PASCOLI, Prose disperse, cur. G. CAPECCHI, Lanciano, Carabba, 2004, p. 131,
con un brevissimo riassunto della questione); dopo in C. GARBOLI, intr. a
“Letteratura italiana o italo-europea”, in Poesie e prose scelte cit., vol. I, pp. 1285
- 1287; in seguito D. TOMASELLO, La realtà per il suo verso e altri studi su Pascoli
prosatore, Firenze, Olschki, 2005, pp. 38 ss.gg., poi in IBID., “Geremiadi del
vate. Carducci, Pascoli, Ojetti e la breve storia di una polemica”, in Studi sul
Settecento e l’Ottocento, II, (2007), pp. 85 – 93; e definitivamente L. TOMASIN,
“Carducci tra Ojetti e Pascoli: Mosche cocchiere e la questione della lingua
tardo-ottocentesca”, in IBID., Classica e odierna: studi sulla lingua di Carducci,
Firenze, Olschki, 2007, pp. 169 – 200, con edizione critica dell’articolo
carducciano (tutti gli studi citati riportano ampia e ulteriore bibliografia). Un
cenno fugace all’argomento vien fatto in M.R. BRICCHI, “La questione della
lingua dal Settecento all’Ottocento”, in AA.VV., Atlante della letteratura italiana,
cur. S. LUZZATTO – G. PEDULLÀ – A. DE VINCENTIIS – E. IRACE – D. SCARPA , 3
voll., Torino, Einaudi, 2010 - 2012, in part. vol. III, pp. 106 – 112, e nello
specifico p. 111. Ma vedi anche l’interessante articolo di G. DE LORENZI, “Ugo
72
noti che lo stesso termine venne poi usato dal Borelli per definire quanti
esaltavano con la penna la discesa del D’Annunzio in politica, e su ciò cfr.
supra, la n. 31) e con la citazione del della Porta come uno dei “giovani che si
educarono al […] magistero del Carducci” (p. 98) e come uno dei “poeti del
tempo [che] fecero capo, prima o dopo, all’editore bolognese” Zanichelli” (p.
104).
95
Cfr. G. CARDUCCI, “Mosche cocchiere”, in La Vita italiana, 16 marzo 1897, pp.
8 ss.gg.
96
Su tali questioni cfr. P. L. VERCESI, L’Italia in prima pagina: i giornalisti che
hanno fatto la storia, Milano, Brioschi, 2008, p. 135. Sui giudizi negativi di
Gobetti e Gramsci, cfr. P. GOBETTI, Opere complete, 3 voll., cur. P. SPRIANO,
Torino, Einaudi, 1968 – 1974, in part. vol. I, pp. 412 – 415; A. GRAMSCI,
Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori riuniti, 20003, p. 158.
97
Cfr. U. OJETTI, Alla scoperta dei letterati, Milano, Bocca, 1899, pp. 3 – 16, in
part., sulla questione, pp. 11 – 14. le interviste di Ojetti apparvero, in prima
istanza, sul periodico La Tribuna, per poi venire raccolte in volume solo
74
100
Cfr. OJETTI, Alla scoperta, p. 10.
101
Questa lettera e le seguenti scritte per mano del della Porta (quelle
carduciane vengono citate a parte) sono inedite e sono tutte contenute
nell’Archivio di Casa Carducci a Bologna, sotto varie segnature che per
brevità non riportiamo.
76
suo
devotissimo
Antonio della Porta
103
“Domandai al Rugarli se quello fosse il cenacolo consueto ed egli assentì: in
inverno c’era anche Antonio della Porta che ora è esule a Roma […]” (cfr.
OJETTI, Alla scoperta, p. 9). Il parmense Vittorio Rugarli (1862 – 1900) fu a lungo
insegnante nel Ginnasio comunale di Bologna. Appassionato di studi
orientali, si specializzò nella traduzione in prosa dal persiano, dando alle
stampe svariati lavori condotti sulla tradizione epica di Persia (e sui poeti
delle rubā‛iyyāt come Omar Khayyâm). Fu intimo amico di Carducci, che
apprezzò le sue traduzioni e gli chiese più volte giudizi intorno alla propria
produzione poetica. Come il maestro Italo Pizzi (del quale era cognato),
Rugarli usava offrire saggi di traduzione negli omaggi per nozze, in questo
curiosamente avvicinandosi alle abitudini del medesimo della Porta.
Diversamente dal maestro, tuttavia, egli preferiva alla traduzione in versi
quella in prosa, ritenuta peraltro molto efficace dallo stesso Carducci. Per tali
notizie, ma purtroppo senza una bibliografia specifica, cfr.
badigit.comune.bologna.it/mostre /teresita/rugarli.htm.
79
Roma, 16 sett. 94
Devotissimo servo
Antonio della Porta
Caro Antonio. È inutile parlare e scrivere al Baccelli 105, come ho fatto; non
attiene e non s’ottiene. Il Chiarini non ha posti. Giovini laureati in lettere han
104
Cfr. CARDUCCI, Ceneri e faville cit., p. 103
80
105
Guido Baccelli (1830 – 1916), medico e politico romano, fu per ben sei volte
Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia tra il 1881 e il 1900. Su di
lui cfr. soprattutto F. PETTINELLI, Il Medico dei Re, Pontremoli, CLD, 2000; e I.
QUARESIMA, Guido Baccelli. Sintesi di una vita, Roma, Prospettive, 2012, nonche
il lemma a lui appositamente dedicato in M. CRESPI, “Guido Baccelli”, in
www.treccani.it/enciclopedia/guido-baccelli_(Dizionario-Biografico), ult.
cons. 15 marzo 2013, con ulteriore bibliografia.
81
al vivo
Antonio della Porta
c’è tutta la sofferenza, c’è tutta l’ansia dell’uomo Carducci che si ritrova solo,
che non riesce a filosofare, consolandosi con il pensiero di Orazio o di
Petrarca, ma avverte la desolazione della sua anima, il vuoto che si è creato
intorno a lui; l’illusione è appena svanita ed egli ci appare come disarmato,
colpito dall’accaduto, accasciato e incapace di sollevarsi dal colpo subito,
riuscendo, in particolar modo nel finale, a materializzare questo stato
d’animo con grande potenza artistica […].
devotissimo
Antonio della Porta
e che non può affatto essere identificata con la prima parte della
“Canzone di Legnano”, unico testo carducciano uscito sul Convito
quasi un anno e mezzo dopo 118. Carducci, insolitamente sparagnino
con il suo discepolo, non manderà nulla, concedendo, al massimo, che
venisse ripubblicato un testo assai conosciuto e senza nessun crisma
di novità. Questo accadde forse perché Carducci considerava Il
Convito come un covo di pascoliani e di dannunziani, e si sa quanto i
rapporti sia con il primo che con il secondo fossero per lo meno
controversi (se non segnati da frequenti gelate e/o momenti d’intensa
aridità)119.
118
Cfr. G. CARDUCCI, “Della Canzone di Legnano. Parte prima: Il Parlamento”,
in Il Convito, ann. II, fasc. 8 (aprile/giugno 1896), pp. 501 ss.gg., con la
prefazione – collocata a p. 502 – che lo stesso Carducci scrisse in occasione
della prima pubblicazione della lirica sulla Rassegna settimanale (vol. III, n. 65)
il 30 marzo 1879. Le strofe edite, in questa occasione, erano tredici.
119
Lasciando stare le sarcastiche osservazioni del Lucini (e cfr.”D’Annunzio
commemora Carducci (1907)”, in D’Annunzio al vaglio dell’Humorismo [1914?],
cur. E. SANGUINETI, Genova, Costa & Nolan, 1989, pp. 81 – 92, in part. p. 92),
di “maestro avverso” parlò lo stesso D’Annunzio ne Il Compagno dagli occhi
senza cigli (leggibile in G. D’ANNUNZIO, Prose di ricerca, di lotta, di comando, voll.
2, Milano, Mondadori, 1968, in part. vol. II, pp. 542 – 549). Sul rapporto
intercorrente tra Carducci e D’Annunzio, cfr. anche G. FATINI, Il D’Annunzio e
il Pascoli e altri amici, Pisa, Nistri Lischi, 1963; e E. FALQUI, Novecento letterario,
serie seconda, Firenze, Vallecchi, 1960, passim.
87
Carissimo Giovannino,
imparo or ora che sei già a Barga.
ne sono contento: la campagna è il mio sospiro, ahimé, continuo. Te beato!
ma faccio a te ed a me l’augurio di vederti ancora a Roma. E sia presto.
Ricordati che io ti voglio bene davvero, senza secondi fini… letterari. E tu mi
capisci. Riverisco la signorina Maria e ti abbraccio
aff.mo
Antonio
120
Su di lui, cfr. da ultimo, G. PANNUNZIO, Cittadino del cielo: De Bosis poeta tra
modernità e tradizione, Raleigh, Lulu Press, 2011, con bibliografia.
121
Ove non altrimenti detto, le lettere del della Porta sono inedite e reperte,
sotto varie segnature che sempre per brevità non si ritiene opportuno
riportare, nell’Archivio Pascoli di Castelvecchio di Barga.
88
Carissimo Giovannino,
La tua adesione ha confortato veramente l’opera di questo Editore. Grazie,
per lui; grazie per me. La promessa, non potuta tenere da Jesi, ti è ricordata a
Bologna: il II° fascicolo uscirà infallibilmente il giorno 10 corrente. Una
grande fortuna, per l’umile compilatore fiduciario della Ditta, se in esso potrà
comparire il nome di Giovanni Pascoli!
Mi raccomando, dunque: e penso che l’affezione tua mi dia un poco di diritto
a sperare. E grazie.
Perché non mi hai mandato il recente carme122 premiato?
Ti abbraccio, caro Giovannino
Tuo aff.mo
Antonio della Porta
1° Giugno
Caro Giovanni,
sta bene: aspetto per l’altro fascicolo. Ho mandato le bozze al Martinozzi.
Questo fas. è già compiuto.
Il Prof. Marchi tiene ferme le sue idee intorno all’opera tua; e ci conta
assolutamente. Il fatto di Messina è una bella cosa: ed è anche, affermano,
veramente certa. Ne siamo lietissimi. A fra poco, la tua definitiva stanza in
Roma. Così sia. I v. del Damiani prendono il loro posto, nel turno. Ti
abbraccio caramente, Ossequi alla signorina Maria
Il tuo Antonio
Caro Giovannino,
ti scrivo di cose che mi fanno male: e faranno male anche a te. Ma mi è
impossibile risparmiarti questa lettera.
124
Questa e tutte le altre sottolineature nell’originale.
125
Sottolineatura doppia nell’originale.
91
Roma, li 24 gennaio 99
Carissimo Natali,
eccole le poesie, la Rivista d’Italia129 è diretta, come Ella sa, dal conte
Domenico Gnoli. Ella, che lo conosce, può direttamente proporgli la stampa
del Veltro. Io dirò a lui che avrei stampato nella Vita tale studio: e
raccomanderò la cosa. Mi ricordi con l’affetto che le ricambio sinceramente. Io
non ho parte nella Rivista d’Italia: sono restato nelle casa Editrice per
edizioni ed altro
126
Risale infatti, come si comprende dall’ennesimo accenno all’incipiente
cattedra di Messina, alla fine di novembre o inizio dicembre del 1897 (e non,
come di nuovo e curiosamente leggesi nella scheda catalografica, al 29
gennaio 1904).
127
La data nella scheda è infatti il 29 gennaio 1904, ma anch’essa è da
collocare, al più tardi, nell’inverno 1897.
128
La lettera e conservata alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma,
Archivio Manoscritti e Rari, segn. ARC.7.XXXIII/87. Il Veltro è probabilmente
uno studio dantesco, ma di esso ci è stato dato di trovare tra le molte
pubblicazioni in volume del Natali.
129
Questa e le altre sottolineature nell’originale.
92
Suo Aff.mo
Antonio della Porta
15 nov. ‘96
Caro Giovannino,
130
Domenico Gnoli, meglio conosciuto anche con il nome di Giulio Orsini
(1838 – 1915), fu storico, poeta e giornalista romano. Su di lui cfr. ora J.
BUTCHER, La Roma di Domenico Gnoli, Bologna, Nuova S1, 2008, con
bibliografia.
93
Tuo
Antonio della Porta
PS: Il Bargeo esce nel fascicolo del 10, che verrà fuori oggi; il 25 non esce il
fascicolo, per unire il 1° dicembre e rimetterci al 1°. e/g.
131
Questa e l’altra sottolineatura nell’originale
132
Cfr. GARBOLI, Poesie e prose cit., vol. I, p. 1287.
94
Carissimo Giovannino,
eccoti le bozze di stampa. Rimandale a rigor di posta. Esse van tirate in carta
in formato del nostro libello (corpo 14). In basso, all’angolo, ci sarà nella
carta la filigrana del Convito.
Questo 1° libro sarà pronto per la fine del mese.
Ma già tutti sappiamo a memoria il tuo Gog e Magog135.
Adolfo ti abbraccia caramente.
133
“Affettuosi saluti al nostro Totonno […]” (cfr. Pascoli a De Bosis, 11
gennaio 1895, in GHELLI, Carteggio, p. 29); “Saluti affettuosi ad Antonio nostro
[…]” (Pascoli a De Bosis, 13 gennaio 1995, ivi, p. 31); “Voi ed Antonio nostro
[…]” (Pascoli a De Bosis, 31 gennaio 1895, ivi, p. 33): tutte queste espressioni
di vicinanza potrebbero sembrare, francamente, un tantino esagerate se si
tiene conto della già citata avversione emersa nel corso degli anni tra Pascoli e
Carducci. Esse acquistano un diverso sapore se si suppone che al Pascoli
facesse certamente piacere che un noto discepolo del poeta di Bolgheri si
prosternasse ai suoi piedi come faceva Antonio della Porta.
134
“26 gennaio 1898, Carissimo Giovannino, applausi al tuo trionfo, di gran
cuore, anzi con tutto il cuore. Tutti, della Dante (sottolineatura nell’originale), ti
si ricordano in festa. Il Prof. Morelli ed io ti abbracciamo. Antonio. Auguri alla
Signorina.” Ovviamente, vista la data, ci si riferisce all’ultima vittoria ottenuta
dal Pascoli nel secolo diciannovesimo, quella del 1897 con il carme “De Reditu
Augusti”. Su questo, cfr. PASCOLI, Tutte le poesie cit., p. 992.
135
La sottolineatura nell’originale.
95
Il tuo
Antonio
Cose viste, egli sarebbe stato “esule” a Roma)136. Ma anche questa è una
congettura non suffragata da nessun documento 137. Va subito rilevato
che l’accento sarà posto soprattutto sulle recensioni maggiori,
inserendo in un solo contesto tutti gli spogli critici di breve respiro,
presentando – grosso modo – quattro modelli, tre dei quali relativi a
singole opere e uno comprensivo d’interventi vari.
Come si è detto, dunque, Antonio della Porta ebbe una vasta
produzione di critico militante, con articoli apparsi in quasi tutte le
riviste a cui egli collaborò o di cui fu segretario redazionale. Ma
bisogna subito distinguere due piani interpretativi: il primo, che si
potrebbe chiamare dello spoglio bibliografico; il secondo, che più
propriamente andrà definito dell’approfondimento critico. Nel primo
caso, il della Porta si limita a leggere il testo (curiosamente
dichiarandolo nella recensione medesima), sottolineandone i pregi,
sovente pochi, e le sviste, solitamente molte. È il caso, ad esempio,
delle recensioni brevi, come molte tra quelle apparse sulla Libera
Stampa138, anche se la schematizzazione trova qualche sua
eccezionalità: questo accade, ad esempio, con la recensione al testo del
conterraneo Giovanni Pansa139, all’interno della quale il della Porta si
permette di fare allo studioso sulmonese talune osservazioni di tipo
136
Cfr. OJETTI, Alla scoperta cit., p. 12.
137
Va rilevato che, all’apparenza, non risultano attestazioni cartacee
comprovanti l’effettivo conseguimento della laurea da parte del della Porta
(anche se costui, sui biglietti da visita, preponeva il titolo di avvocato, com’è
possibile leggere nei carteggi carducciani), e peraltro nessun risultato ha dato
la ricerca in proposito fatta presso l’Archivio Storico dell’Università di Roma.
138
Cfr. le recensioni, rispettivamente, ai testi di A.E. Spinola (“Canzoni
Mondane”, in La Libera Stampa, a. I, 7 giugno 1885, p. 4); e di A. Foschini (“La
letteratura italiana negli ultimi anni del secolo XIX”, ivi, 21 giugno 1885, p. 4).
Sono due vere e proprie stroncature in cui il puntiglio sarcastico dell’autore
punisce, in un caso, l’arroganza d’uno sconosciuto poeta genovese, e –
nell’altro – la tronfia boria di un altro compaesano, un professore abruzzese il
cui testo (motteggia della Porta) era giunto proprio “come il dito di Dio” (c.vo
dell’autore).
97
[…] certe speciali frasi, stereotipate 141 dal popolo, non hanno efficace
corrispondente nella lingua italiana; e il De Nino giudiziosamente le ha
139
Cfr. “Saggio di uno studio sul dialetto abruzzese”, ivi, 7 giugno 1885, p. 4 (i
corsivi della citazione che segue sono dell’autore). Giovanni Pansa (1865 –
1929), archeologo, e storico abruzzese, fu tra i fondatori della Rassegna
Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arte. Autore di numerosi scritti su storia locale,
numismatica, archeologia, bibliografia, tradizioni popolari, si appassionò
anche di dialettologia. Su di lui, cfr. E. MATTIOCCO, in AA.VV., Dizionario
biografico della gente d’Abruzzo, Castelli, Andromeda, 2006, vol. VII, pp. 27
ss.gg., con bibliografia.
140
Antonio De Nino (1833 – 1907) fu soprattutto un antropologo e uno
studioso del folklore abruzzese, pur non disdegnando, talvolta, di misurarsi
nel campo della critica letteraria (ma sempre sostanzialmente riguardo gli
scrittori della sua terra), come dimostra appunto il volume recensito dal della
Porta, che apparve in due tomi, presso l’editore Carabba di Lanciano, nel
biennio 1884 – 1885. Su di lui, con abbondante bibliografia, cfr. il lemma di
D.V. FUCINESE, in www.treccani.it/enciclopedia/antonio-de-nino_(Dizionario-
Biografico). Nel già citato articolo di Carmine Chiodo (e cfr. “In margine ai
«marzocchini»”, p. 85), si fa riferimento ad un’analoga incensazione da parte
proprio del Pàntini).
141
I due corsivi del testo sono del della Porta.
98
lasciate tali e quali nel contesto della esposizione. Di molte di quelle frasi o
parole troviamo nel volume del Pansa non soltanto la spiegazione, ma anche
la descrizione etimologica. È accuratissimo lo studio posto dall’Autore nella
ricerca della etimologia di parecchie centinaia di vocaboli affatto abruzzesi.
Questi studi vanno incoraggiati, come quelli che sono destinati a portare non
lieve contributo alla scienza glottologica.
2. Le Myricae di Pascoli
Senza dubbio, la più importante tra le recensioni dellaportiane
è quella riguardante le Myricae di Pascoli144. Scritte con una “ragione
quasi tragica”, le poesie pascoliane vogliono porsi, sostanzialmente,
come una sorta di onoranza funebre: per della Porta, Pascoli “non ha
altro fine, al quale indirizzare l’opera e lo studio, se non questo: farsi
apprezzare, lodare e benedire dai suoi poveri morti”, senza aspirare
ad alcuna gloria. Il testo, “fatto di bontà e di amore, sereno nella
contemplazione della natura, sincero per movimento d’immagini e
per impeto di memorie affettuose e care”, testimonierebbe il valore
assoluto di Pascoli. Egli, “come ha lucida sempre la visione del
fantasma lirico, così ha sicurezza e precisione mirabili nellalinea del
paesaggio [...]”. Come si vede, ciò che interessa notare al della Porta è
la collocazione autobiografica delle liriche, le quali vengono
interpretate come rimembranze d’un passato ormai irripetibile e come
estremo omaggio alla memoria del padre ormai defunto e alle amate
sorelle. Il della Porta riesce ad individuare, sia pure con la sveltezza
propria del critico militante, le caratteristiche fondamentali dell’opera
pascoliana, la quale - tanto per citare l’ormai classica interpretazione
generalista di Mario Tropea - sarebbe fondata “sulla corrispondenza
di stati d’animo e paesaggi naturali in una vicenda di rapporti che
144
Cfr. “Intermezzo letterario. Myricae di Giovanni Pascoli”, in Il Resto del
Carlino, 14 febbraio 1894, p. 4.
101
l’arte del Pascoli dismaga, ed era tempo, tutti i lucidatori146 di oleografie: egli
è veramente il solo che abbia degnamente derivato dal massimo poeta vivente,
da Giosué Carducci, la schiettezza e l’immediatezza della rappresentazione
delle cose naturali; non rappresentazione convenzionale di chiari dubbi e di
scuri vaghi; sì la penetrazione dell’anima delle cose nei colori, nelle linee, nei
movimenti e nelle attitudini. Certo dal Carducci è venuta a questo giovane
artista la severità, scheletrica quasi, con che dà rilievo e corpo alle visioni
compite sotto l’azzurro del cielo, in mezzo al verde dei campi; e certo dal Bove
carducciano traggono loro origine, pur destri e svelti di lor movimenti
spontanei, i sonetti rurali del Pascoli [...].
146
Il corsivo è dell’autore.
147
Si ricordi che Pascoli aveva vinto la borsa di studio che, almeno per i primi
anni, doveva sostentarlo all’università, proprio grazie ai buoni uffici del poeta
di Bolgheri.
104
148
Cfr. La Libera Stampa, 24 maggio 1885, p. 1. La recensione viene presentata
come parte di un pubblicando volume intitolato Profili di poeti (e nel
periodico infatti essa appare mutila), volume che però il della Porta
evidentemente non terminò mai, alla stregua dell’analogo studio sui
folkloristi italiani promesso nella recensione al testo del De Nino.
149
Sul massone Filippo Barattani, autore risorgimentale di drammi storici e
buon dantista, valga il giudizio positivo espresso dal Carducci, che lodava la
forza patriottica delle sue opere (il che rende comprensibile anche l’interesse
del della Porta). Su di lui, cfr. ad esempio C. PARISET, “Un aspetto ignoto della
vita di Luigi Mercantini”, in Rassegna Storica del Risorgimento, 1 (1939), pp. 488
– 496 (poi in Un aspetto ignoto della vita di Luigi Mercantini, Roma, La libreria
dello Stato, 1939), in part. pp. 488 – 490. Al testo del Pariset si aggiunga IBID.,
“Lettere inedite di Atto Vannucci”, in Bullettino storico pistoiese, 4 (1937), pp. 1
– 7 e, dello stesso, Lettere inedite di P. Giannone di Camposanto (Modena) allo
scrittore e patriotta anconitano Fiippo Barattani, Roma, Stabilimento Tipografico
Luigi Proja, 1933, inizialmente apparso in Rassegna Storica del Risorgimento, 4
(1932), pp. 367 ss.gg.. Si vedano poi C. ROSA, “Profili e figure del patriottismo
105
Chè in Italia la critica (è lecito ripeterlo per la centesima volta?) non è fatta
per amor dell’Arte, onde poi dovrebbe emergere il giusto apprezzamento e la
rettitudine de’ giudizi, ma oggimai essa, piuttosto che esaminare un’opera in
quanto costituisce un lavoro artistico la considera in rapporto all’autore. E
avviene, che, se dell’autore esiste, strombazzata da furbi editori, una fama da
gazzette, il critico dice l’opera stupenda, magnifica; se poi il meschino ha fatto
152
Si tratta della Beatrice Cenci (e cfr. F. BARATTANI, Beatrice Cenci: tragedia
lirica, Ancona, s.n., 1847; e G.B. NICCOLINI, Antonio Foscarini; Giovanni da
Procida; Lodovico Sforza; Rosmonda; Beatrice Cenci; Poesie varie, Firenze, Le
Monnier, 1844).
153
Cfr. PARISET, “Un aspetto ignoto”, p. 488.
108
“Poesia del Focolare”, in La Nuova Rassegna, 27 maggio 1894, a. II, n. 21, pp.
154
660 – 661.
109
alto profilo). È evidente che qui, in una visione della poesia come
“turris eburnea”, si vuol sottintendere un problema tipico degli
intellettuali di fine Ottocento, vale a dire il sopravvenuto
declassamento della letteratura, la quale da qualcosa di solenne e
mitizzante, si era trasformata in una merce che, parafrasando Asor
Rosa, aveva attaccato su di sé il cartellino del prezzo. Al della Porta,
nel recensire Spagnoletti, non interessa porre in evidenza il far poesia
come qualcosa di ludico, o come un passatempo da scioperati (anche
se le illusioni perdute dallo Spagnoletti maturo e dallo stesso autore
delle Canzoni dovettero poi pesare a tal punto da far loro abbandonare
quasi totalmente la carriera letteraria); e neppure interessa predicare –
appunto – la poesia come mezzo di denuncia, sia pure impotente, o
come provocatoria ribellione (alla stregua di certi esponenti del
decadentismo sul tipo di Baudelaire). Egli, sull’esempio del suo
pseudo-amico Giovannino Pascoli, predica il ripiegamento sovra
antichi valori come quelli della famiglia e della casa, in un tripudio dei
buoni sentimenti che ha nell’esaltazione conservatrice del “common
man” il suo punto più elevato. In questa prospettiva può certamente
essere interpretato il parallelo che della Porta instaura tra il testo
spagnolettiano e, da un lato, le già citate Myricae di Pascoli, dall’altro
la Consolazione del D’Annunzio paradisiaco:
Gran mercé; che veramente non tutto è inquinato e guasto se ancora negli
spiriti formatori (intendo, gli intelletti, incitati d'amore e di scienza, che
improntano di sé una parte del tempo sociale) sta, immacolato e custodito, il
trepido lume del focolare paterno; che veramente non tutto è formola e forma
d'energia della materia, se ancora orecchi umani chiedono vogliosi i canti,
freschissimi di pianto e di mesto riso, armonizzati nelle Myricae di, Giovanni
Pascoli; se ancora gli occhi si velano di lagrime fissando nel placido tramonto
la madre che vive nella Consolazione di Gabriele d’Annunzio […].
animo di comporre (e che poi, come peraltro era abitudine anche dello
stesso della Porta) non scrisse mai: “Una donna delinquente, contributo
alla evoluzione psicologica del delitto e L’amore colpevole, studio di
criminali”, due testi forse d’impronta lombrosiana e sociologica che
sembrano predire quell’incontro con il codice penale che lo
Spagnoletti avrebbe avuto modo di fare personalmente in epoca
successiva.
158
Per una panoramica generale, cfr. soprattutto F. ANGELINI, “Il teatro”, in F.
ANGELINI – C.A. MADRIGNANI, Cultura, narrativa e teatro nell’età del postivismo,
Bari-Roma, Laterza, 1978, pp. 133 – 196, con copiosa bibliografia alle pp. 193 –
196.
114
161
Cfr. Rassegna Pugliese di Scienze, Lettere e Arti, 15 ottobre 1888, V, nn. 19 – 20,
pp. 315 – 320.
162
Cfr. A. DELLA PORTA – V. TIRABASSI, San Silvestro: bozzetto comico in un atto,
Trani, Vecchi, 1888.
116
felici momenti lirici. Per quel che riguarda la sua attività giornalistica, va
ricordata la sua assidua collaborazione Il Resto del Carlino. Per tali notizie, cfr.
U. BOSCO, “Adolfo Albertazzi”, in www.treccani.it/enciclopedia/adolfo-
albertazzi_(Dizionario_Biografico), ult. cons. 16 marzo 2013. Su ciò vedi anche
PARENTI, “Una commedia” cit, p. 23.
166
La commedia venne infatti messa in scena dalla compagnia Vitaliani. Italia
Vitaliani (1866 – 1938), cugina di Eleonora Duse, nacque da una famiglia di
attori ed esordì sulle scene giovanissima con L. Cuniberti, passando poi nella
Compagnia Bellotti Bon e Marini, diretta dallo zio Cesare Vitaliani, a sua volta
attore, scrittore e capocomico (come del resto anche il padre Vitaliano). Nel
1883 fece parte della Compagnia Nazionale e l’anno seguente della
Compagnia di Cesare Rossi, nella quale recitava anche la Duse. Grande
118
interprete del teatro ibseniano, nel 1892 la Vitaliani divenne capocomico, una
delle prime donne a rivestire questo ruolo, e in seguito, nel 1919, sostituì Luigi
Rasi nell’insegnamento di declamazione alla Scuola di recitazione di Firenze.
Per queste notizie cfr. www.treccani.it/enciclopedia/cesare-vitaliani, ult. cons.
16 marzo 2013; e L. RASI, I comici italiani: biografia, bibliografia, iconografia, 2 voll.
Firenze, Bocca/Lumachi, 1897 – 1905, in part, vol. II, p. 701.
167
Cfr, PARENTI, “Una commedia”, pp. 27, ove il Cervi rispose all’Albertazzi,
che chiedeva notizie su come fosse andata la commedia, con la frase “neppure
zittita”.
168
Se ne occupo l’editore Zanichelli, nel 1894, in un’edizione ovviamente non
veniale.
169
Cfr. ANGELINI, “Il teatro”, pp. 141 – 144.
170
Per qualche considerazione in proposito, cfr. M. BERTACCA, “L’arte per
piacere nella Spagna del ‘600 e nell’Italia dell’800”, in AA.VV., Norme per lo
119
spettacolo. Norme per lo spettatore, cur. G. POGGI – M.G. PROFETI, Alinea, Firenze,
2011, pp. 447 – 462, in part. p. 456 per la citazione e n. 30 per ulteriore
bibliografia sul teatro italiano del secondo Ottocento.
171
Bologna fu centro assai vivace per quel che riguarda il teatro, sin dal
Seicento. Su questo, cfr. M. CALORE, Bologna a teatro. L’Ottocento, Guidicini &
Rosa, 1982, ma si veda anche la bibliografia contenuta in
badigit.comune.bologna.it/spettacoli/bibliografia.htm, ult. cons. 21 marzo
2013.
172
“Antonio Della Porta, poeta, e quale poeta!... e critico non contentabile,
sebbene per tranquillità sua e per la pace di quelli che oggi stampano poesie,
non scriva di critica, come pur troppo non pubblica suoi versi, Antonio della
Porta afferma che questo è lavoro assai bello, assai nobile, assai degno […]”.
Ma cfr. D. OLIVA, Il teatro in Italia nel 1909, Milano, Quintieri, 1911, p. 272,
sottolineando come l’entusiastico giudizio dellaportiano può forse essere
ricondotto, “au contraire”, a una diluita stima del D’Annunzio quale
120
drammaturgo (il quale, è da notarlo, mise in scena la sua tragedia nella stesso
anno in cui apparve quella del Bozzini). Quanto a Umberto Bozzini (1876 –
1921), avvocato, poeta e drammaturgo foggiano, egli ebbe effimera fama a
partire dal 23 ottobre 1909, quando – al teatro Valle di Roma, protagonista
proprio quell’Italia Vitaliani citata in precedenza – si tenne la
rappresentazione della tragedia in quattro atti Fedra. L’opera, che riscosse
grandissimo successo sin dalla prima rappresentazione, venne definita
“perfetta” da Ferdinando Martini, secondo il quale in essa segni della sua arte
si evidenziavano meglio che nell’omonimo lavoro dannunziano. Tra le altre
opere, si citano Manfredi, Il Cuore di Rosaura, Ritmo Antico, Georgica, tutte
rappresentate dalle più celebri compagnie di teatro del tempo. Su di lui, oltre
alle pagine del già citato Oliva e a S. CAPUANO, Vita e opere di un drammaturgo
pugliese: Umberto Bozzini, Urbino, Argalia, 1971, vedi la premessa a U. BOZZINI,
Opere, cur. F. DE MARTINO, Bari, Levante, 2009, con bibliografia conclusiva.
173
Cfr. D’AMBRA, Gli anni della feluca cit. p. 129 e p. 151.
174
Su di lui vedi, ad esempio, M. QUATTRUCCI in
www.treccani.it/enciclopedia/camillo-antona-traversi_(Dizionario-Biografico),
con bibliografia.
175
Teatro di Camillo Antona-Traversi (Edizione riveduta e corretta). Parassiti.
Commedia in tre atti. Volume VI, Remo Sandron Editore, Libraio della R. Casa,
Milano-Palermo-Napoli, 1912, p. 20.
121
Mio carissimo,
Essi sono molto vicini ai fratelli delle Bozeno e di Danza Macabra 176. Come
unità, li superano. Mi spiego: il centro etico del lavoro attrae costantemente a
sé persone, cose e casi. Quel Commendatore è lineato con bravura e audacia
della miglior commedia greca.
Lode non piccola, è vero?... Ma tu sai che io non te la darei se non ne sentissi
la sincerità.
Forse gli episodj, da cui balza vivo e grande il protagonista, non sono tutti di
egual rilievo e di eguale verità scenica. Questa impressione, che se ne ha alla
fine del lavoro, nuoce alla ragionevolezza della favola di costume, che tu hai –
ripeto – ideata con arguzia e furore greci.
176
Le Bozeno e Danza Macabra sono due drammi dello stesso Antona-Traversi,
messi in scena rispettivamente nel 1891 e nel 1893. Il secondo titolo ha qualche
connessione con il fatto che, come autore drammatico, l’Antona-Traversi
frequento anche l’impervio genere del “grand guignol” (su cui cfr. l’epitaffio
che ne scrive la Angelini in ANGELINI – MADRIGNANI, Cultura cit., p. 183 e 196,
con bibliografia).
122
Tuo aff.mo
Antonio della Porta.
elemento degno di nota appare quel finale cenno alla madre: “ […]
Uscendo di teatro, io pensai la gioja dell’esule all’annuncio della
vittoria; e mi ridussi a casa meno triste –, e ne parlai a mia madre,
destandola per la lieta notizia. Quanti voti ti vennero, allora, da cuori
memori! […]”. Queste ultime frasi lascino pensare che la conoscenza
tra il della Porta e l’Antona-Traversi non si limitasse ai soliti contatti
ufficiali o epistolari, ma fosse più stretta, una frequentazione familiare
che coinvolgeva anche la figura diafana, ma non meno importante,
della madre del poeta.
A parte questa insolita fonte, nient’altro emerge dal calderone
storiografico, non occupandosi il della Porta di drammaturgia in
nessuno degli articoli reperti sulle riviste del tempo, e soprattutto in
seguito, come se l’oblio in cui cadde l’artista ebbe riflessi anche, a
quanto pare, sulla sua attività di critico militante, pur sperimentata
con successo, come s’è visto, negli anni della giovinezza.
IL DATO METRICO
179
Sulle forme metriche settecentesche, devesi vedere principalmente R.
ZUCCO, Istituti metrici del Settecento. L’ode e la canzonetta, Genova, Name,
2001, dove si possono reperire taluni schemi metrici significativamente vicini
a quelli usati dal della Porta.
180
Cfr. W.T. ELWERT, “Lo svolgimento della forma metrica della poesia lirica
italiana dell’Ottocento”, in IBID., Saggi di letteratura italiana, Wiesbaden,
Steiner, 1970, p. 30.
126
1) madrigale 1) madrigale
2) “ceciliana” (tre “coblas 2) “ceciliana”, uguale alla sua
181
Rispettivamente madrigale, “ceciliana” (tre “coblas capfinidas” monorime
di endecasillabi, più un singolo verso di congedo), sestina (ripetuta due volte),
ballata (di endecasillabi e settenari misti con rima ABBACdECdEEFFA),
sonetto guittoniano, stanza monostrofica, canzonetta e “napolitana” (breve
canzone villanesca composta da quattro distici di endecasillabi rimati
AB/AB/AB/AB).
127
183
Si tenga presente che, non contando testi finora non reperti, si sono trovate
tre sole composizioni non raccolte in volume: la “Sestina del primo mattino”
apparsa sulla Nuova Rassegna del 30 agosto 1894 (a. II, n. 27), la “Sestina della
madre terra”, edita sul Convito, a. I, fasc. 5 (1895), p. 343; “Il quartiero
oscurato”, sestina pubblicata – con il nome di Ettore della Porta, forse per un
refuso – sul Marzocco, 22 maggio 1898, p. 1; e “In morte di Gaetano Manaresi”,
elogio funebre alla memoria d’un compagno di corso prematuramente
scomparso (in Battaglia bizantina, anno III (1889), n. 24, p. 4). Si noti che il della
Porta ebbe a pubblicare anche un opuscolo contenente una singola ballata (e
cfr. A. DELLA PORTA, Ballata a la maniera di Guittone d’Arezzo, Bologna,
Zamorani & Albertazzi, 1891), il che porterebbe il numero complessivo delle
liriche dellaportiane note a superare la cinquantina.
129
I.
70 – 91: “[…] Tu nelle dotte veglie il ciglio immoto/ Nello stellato firmamento
intendi,/ E de’ remoti soli e de’ minor/ Erranti fochi spiando le arcan/ Ruote
fatali , d’indagar confidi/ Se sventura o favor t’indica il fato […]”. Vedi anche
Prediche del signor Abate di Cambaceres Predicatore del Re Canonico Arcidiacono
della Chiesa di Montpellier tradotte dal Sacerdote Sante Rossi sopra l’Originale della
Seconda Edizione dedicate all’Illustrizzimo e Reverendissimo monsignore Carlo
Emanuele Sardagna Vescovo di Cremona, 2 tt., Cremona, dalla Tipografia Manini,
1831, , in part. t. II, p. 179: “Per glorificare questa divina parola i martiri
salirono sopra le cataste e sopra i patiboli; per pubblicarla gliu apostoli
trascorsero e terre e mari dall’uno all’altro confine dell’universo; per
meditarla gli anacoreti vissero nel silenzio e nella solitudine dei deserti; per
illustrarla i scari interpreti consacrarono le loro dotte veglie e le fatiche
dell’ingegno […]”.
187
Cfr. L. ARIOSTO, I cinque canti, c. IV, ott. XLIV: “Quanti anni sien non saprei
dir, ch’io scesi/ in queste d’ogni tempo oscure grotte:/ che qui né gli anni
annoverar né i mesi,/ né si può il dì conoscer da la notte./ Duo vecchi ci trovai,
dai quali intesi/ quel da che fur le mie speranze rotte:/ che più de la mia età ci
avean consunto,/ et io gli giunsi a sepelire a punto.
188
È una citazione evidentissima dal Passero solitario di Leopardi (vv. 39 – 43,
in part. v. 41): “[…] Indugio in altro tempo: e intanto il guardo/ Steso nell’aria
aprica/ Mi fere il Sol che tra lontani monti,/ Dopo il giorno sereno,/ Cadendo
si dilegua […]”.
131
189
Cfr. Gli Atti dell’Accademia delle Scienze di Siena, detta de’ Fisio-Critici, Tomo
IX, Siena 1808, dai torchi di Onorato Porri, con Licenza de’ Superiori, p. 148:
“Annesso a questa Chiesa esiste ancora un’angusto (sic!) conventino di poche,
ed umili stanze; abitato una volta dai Religiosi Serviti; oggi da un romito
custode […]”.
190
È espressione presente nel Purgatorio di Dante, (c. XXVIII, vv. 7 – 9):
“Un’aura dolce, sanza mutamento/ avere in sé, mi feria per la fronte/ non di
più colpo che soave vento […]”.
191
F.D. GUERRAZZI, Lo assedio di Roma, Livorno, Zecchini, 1864, p. 121: “Intanto
questo è il primo predicato del Vangelo, che i sacerdoti di Cristo non solo
devono procedere immuni da qualsivoglia dominio il quale ingerisca
necessità di rompere guerre, e mettere mano nel sangue, ma ed anco da
possedimento terreno […]”.
132
II.
Tipografi del Senato Editori, MDCCCCVII, p.. 34: “[…] O Forte eccelso, o
Forte!/ […] E, correndo, sul culmine già sale,/ Ove un guerriero vale/ Ode
tuonar da innumera coorte/ – O mio diletto! In campo/ Morrai. Per te d’inclita
fiamma avvampo […]”
194
Allo stato, non esistono apparizioni di questo componimento antecedenti
all’edizione delle Canzoni del 1900. La lirica, tutta giocata su movenze
neoclassiche e petrarchesche, descrive il rientro a Montazzoli del poeta, e il
pranzo natalizio allietato dalla presenza dei suoi più cari amici e della madre.
È anche un pretesto per una melopea struggente sull’infanzia idillica e quasi
bucolica trascorsa dal poeta nel suo paese nativo.
195
Il verbo pare avere una vaga origine montiana (e si veda il noto “incipit”
della traduzione dell’Iliade d’Omero, dove si legge di una “ira funesta che
infiniti addusse/ lutti agli Achei […]”).
196
Il binomio verbale è d’ovvia origine dantesca, basti pensare alla canzone
“Donna pietosa e di novella etate” e ad altri noti contesti della Vita Nova e
delle Rime.
134
197
Citazione da un verso della Francesca da Rimini del Pellico (a. IV, sc. III, e
cfr. Tragedie ed Altri Versi di Silvio Pellico da Saluzzo, Parigi, Baudry, Libreria
Europea, 9, Rue du Coq, prés le Louvre, 1835, p. 47): “Ah, pace,/ O esacerbati
spiriti fraterni!”.
198
“Sorvenir”, nel testo.
135
cavallereschi, cur. D. Romei, Roma, Salerno, 1995, p. 47: “Gigante era Melegro e
la sembianza/ ha gigantea e così il cuore e ‘l volto,/ e qual ciascun d’aspra
persona avanza,/ così è più d’ogn’altro audace e stolto./ – Gran tempo è già –
diss’ei – ch’ebbi speranza/ salir là sù per veder Marte <‘n> volto/ e con l’arme
provar al vile dio/ chi più degno è del cielo, o egli o io […]”); e nel Morgante di
Pulci (la fonte probabile della citazione della portiana in Poemi Romanzeschi.
Morgante maggiore, Orlando Innamorato, Ricciardetto, Milano, per Niccolò
Bettoni, MDCCCXXX, p. 89: “Non voleva il pagan per riverenza,/ ma poi per
riverenza anco l’accetta./ Vanno parlando della gran potenza/ di quella aspra
persona e maladetta./ Diceva il mamalucco: – Abbi avvertenza/ che la sua
branca addosso non ti metta. –/ Rinaldo rispondea: – Tu riderai,/ché maggior
bestia son di lui assai. […]”).
203
Termine medioevale, attestato per la prima volta in Boccaccio (Corbaccio,
142), e cfr. Vocabolario degli accademici della Crusca, Quarta impressione.
All’altezza reale del serenissimo Gio. Gastone Granduca di Toscana loro Signore,
Firenze, appresso Domenico Maria Manni, 1729 – 1738, voll. VI, in part. vol. I,
“ad. voc.”.
204
Non esistono antecedenti, ma tuttavia val la pena ricordare l’unica paredra,
presente in un volume di liriche giovanili del Bontempelli, il quale ebbe un
periodo classicista e carducciano, poi rinnegato, e fu in certo qual modo
allievo di quel Adolfo Albertazzi che figurava tra gli amici più cari del della
Porta. Su ciò vedi la voce di Alberto Asor Rosa in
www.treccani.it/enciclopedia/massimo-bontempelli_(Dizionario-Biografico),
ult. cons. 1 maggio 2013: “[…] Ma rivi e marghi a te son cose acerbe,/ Né mai
segnate ai prati freddi e molli/ Hai tu le cittadine orme superbe,// Né ti è noto
il vaporar dei colli/ Nei velati mattini, e la rugiada/ Gocciante in vetta ai fragili
rampolli […]”, in Egloghe di Massimo Bontempelli, Torino – Genova, Editori
Renzo Streglio & Comp. 1904, p. 76.
138
205
La citazione della canzone dantesca viene a proposito, sia per l’implicito
rimando all’episodio di Casella nel canto II del Purgatorio, sia perché essa è
tratta dal Convivio, e dunque la sua menzione era ritenuta giusta in un
ambiente conviviale (e d’intellettuali che gravitavano attorno alla rivista quasi
omonima!), quale quello descritto.
206
Cfr., in riferimento al Canova, Nuovo Giornale de’ Letterati, t. III, Pisa, presso
Sebastiano Nistri, MDCCCXXII, p. 274 (qui appare anonimo, ma è
probabilmente dovito alla penna di Isabella Teotochi Albrizzi, e vedi Opere di
Scultura e di Plastica di Antonio Canova Descritte da Isabella Albrizzi nata Teotochi,
tomo I, Pisa, presso, Niccolò Capurro co’ caratteri di F. Didot, MDCCCXXI,
con pedissequa citazione dello stesso passo a p. 82, illustrando la statua di
George Washington): “Il decoro della sua attitudine non può essere maggiore,
né più meravigliosa la vita meditante che spira […]”.
139
207
Cfr., per la probabilissima citazione, Antologia Romantica Raccolta per Opera
di F.D. Guerrazzi, Livorno, tipografia Tignozzi, 1830, p. 249 (la menzione è
tratta dalla novella “Maltraversi e Scacchesi” di Carlo Tedaldi-Flores, e vedi
Romanzi Poetici di C. Tedaldi-Flores, Cremona, co’ tipi del Feraboli, 1820, p. 61;
si tenga conto che il Tignozzi ripubblicò lo stesso testo in Poesie Varie di Diversi
Autori, sempre nel 1830, a p. 127): “Me sol odi, se correggere/ Di Bologna aneli
il freno;/ Scaltro riso usa e veleno/ Nascondendo il tuo livor […]”. Si veda
pure Scritti in Prosa ed in Versi di Achille Monti, Vol. III, Edito a Cura dei Figli , in
Imola, tipografia d’Ignazio Galeati e Figlio, 1885, p. 108: “Di perigliosi balli/
Ivi l’arte s’impara, e guidar cocchi,/ Ed infrenar cavalli,/ E atteggiar la persona
e volger gli occhi,/ E fingere il pudor là dove è morto,/ E scaltro riso e favellare
accorto […]”; e Poesie del marchese Giuseppe Antinori, Pisa, presso Niccolò
Capurro, 1811, p. 120 (è parte della traduzione d’un idillio del poeta tedesco
Salomon Gessner): “Gelose invan spiegarono/ Lo scaltro riso, e invan/ Degli
ocelli e della man/ Fer cenno e invito:/ D’esse ciascuno immemore/ La Diva sol
mirò/ Finché a lor s’involò/ Sul curvo lito […]”.
140
209
Cfr. Egloghe di Virgilio, di Calpurnio, di Nemesiano, del Petrarca e del
Sannazzaro volgarizzate dal Marchese Luigi Biondi romano, Roma, Tipografia
delle Belle Arti, p. 155: La state, che dechina, ancor non mitiga/ Del sol gli
ardori, benché i franti grappoli/ Già preme lo strettoio; e i mosti fervidi/
Rocamente gorgogliano e spumeggiano […]”. Ma vedi anche Cfr. Nuovi Canti
di Luigi Grippo, Potentino, Potenza, per Vincenzo Santanello, 1848, p. 17: “Qui
le ariste sui gambi spezzate;/ Pomi e rami qui a furia divisi:/ Là le piante
depresse troncate:/ Là bei fiori divelti succisi:/ Franti grappoli in erba […]”.
210
Si riferisce al poeta Adolfo De Bosis.
211
È probabile che qui il della Porta voglia alludere ad Adolfo Albertazzi, che
evidentemente non poteva essere citato con il suo vero nome essendo
omonimo del De Bosis.
212
Cfr., con qualche certezza, Nuovo Giornale de’ Letterati, Tomo Duodecimo,
Letteratura, Scienze Morali, e Arti Liberali, Pisa, presso Sebastiano Nistri,
MDCCCXXVI (ma l’originale in La Georgica de’ Fiori. Poema di A.M. Ricci,,
cavaliere del S. Ordine Gerosolimitano, Pisa, Tipografia Nistri, 1825) p. 71: “E
in qualche vaso con gentile intrico/ Effigiar quelle medesme fole/ Che
rispondon del fiore al nome antico […]”.
142
213
Ovvia citazione paradisiaca dalla Consolazione di D’Annunzio.
214
Cfr., probabilmente, A. FOGAZZARO, Fedele ed altri racconti, Milano, Galli,
1897, p. 22: “Le ultime parole furono proferite da lui con una subita energia di
voce, con un aggrottar fiero di ciglia, con un gran gesto d’ambo le braccia
[…]”; ma vedi anche Due strade. Commedia popolare in tre atti di Ettore Dominici,
Milano, 1872, presso l’Editore Carlo Barbini, p. 48: “È vero... (con subita
energia) è tempo oramai! Andate nella mia stanza, pigliate con cura
Arriguccio, il mio scialle, ed il cappello […]”, dove però è solo in didascalia.
215
È di nuovo citazione dantesca, e vedi Purg., c. XXIII, v. 61; e Par., c. VII, v.
93 e – celeberrimo – c. XXXIII, v. 3.
216
Citato nella traduzione del Salvini dell’Idillio XXIII di Teocrito (e cfr.
Teocrito Volgarizzato da Anton Maria Salvini, Gentiluomo Fiorentino, in Venetia,
MDCCXVII, presso Bastian Coletti, con Licenza de Superiori, p. 109: “[…] il
sangue/ Scorre vermiglio sulla bianca carne./ Languisce l’occhio sotto al morto
ciglio;/ Dal labbro fugge il bel color di rosa […]”).
217
Cfr. Canti Orientali di Tommaso Moore, Traduzione del Cav. Andrea Maffei
(Seconda Edizione), Milano, presso i Fratelli Ubicini, 1836, p. 62: “Sulle mie
143
braccia, e gli occhi, i tuoi begli occhi/ Levar senza terrore agli occhi miei!/
Och’io possa una sola unica volta/ Sfiorar d’un bacio la virginea bocca,/ O se
troppo richieggo, al suo profumo/ Appressar le mie labbra! […]”. Il binomio
verbale è menzionato anche nella Vita di santa Caterina da Siena del Razzi (e
vedi Vite dei santi e Beati del Sacro Ordine de’ Frati Predicatori, così Huomini, come
donne. Con l’aggiunta di molte vite, che nella prima impressione non erono. Scritte
dal R.P. Maestro Serafino Razzi dell’istesso ordine, e professo di San Marco di
Firenze, Con Licenzia de’ Signori Superiori, in Firenze, Nella Stamperia di
Bartolomeo Sermartelli, MDLXXXVIII, p. 72: “Da quel tempo, che meritò di
porre la virginea bocca a costato di Cristo, quasi continuamente l’anima sua,
quanto alla parte superiore, perseverava nella contemplazione […]”); e in
Biografia Mitologica ossia Storia, per Ordine d’Alfabeto, dei Personaggi dei tempi
Eroici e delle Deità Greche, Italiche, Egizie, Indiane, Giapponesi, Scandinave,
Celtiche, messicane, ecc. Per la Prima Volta recate in Italiano, Volume I, Venezia,
presso Giambattista Missaglia, MDCCCXXXIII, dalla Tipografia di F.
Andreola, p. 664: “Deirdre fu sorpresa dell’ammirabile miscuglio di quelle tre
tinte, bianca, nera e rossa, e fu ispirata a mandar fuori della viginea bocca
un’esclamazione amorosa […]”.
218
Il lemma utilizzato dal della Porta è interessantissimo, perché godè d’una
certa fortuna, soprattutto in ambiente settecentesco e neoclassico e consente di
esperire l’ipotesi d’un ispirazione oraziana e neoclassica serpeggiante nella
poesia dellaportiana. A tal proposito, cfr., per esempio, Lezioni Sacre sopra la
Divina Scrittura Composte, e dette dal Padre Ferdinando Zucconi della Compagnia di
Giesù. Tomo terzo del Nuovo Testamento, Venezia, MDCCXXIV, Nella Stamperia
Baglioni. Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio, p. 339: Ma felice Chiesa,
beata Sposa di Cristo, a cui il Velo stracciato dell’antico Santuario, fu il Velo, e
l’Ammanto più bello delle tue Nozze; e la Notte improvvisa, e le Stelle
144
III.
genitrice, e con pochi servoi in una remota stanza […]”; le già citate Tragedie
ed Altri Versi di Silvio Pellico, p. 250: “[…] Miseri noi!/ Già strepito d’armati
odesi. Ascosa/ In più remota stanza […]”; e infine, fonte quest’ultima da
ritenersi, visto il contesto, quasi certa, Rivista Europea. Nuova Serie del
Ricoglitore Italiano e Straniero, Anno II, parte IV. Milano, vedova di F.A. Stella e
Giacomo figlio, 1859, p. 207: “ […] È nella casa che ci ha veduti nascere, è nella
sua più quieta e remota stanza, a cui passando vicino il famiglio o la fantesca,
la dolce sorella e la madre, la madre istessa, fanno più cauti i passi e più
sommessa la voce, che il nostro spirito s’allontana dalle inquietudini della vita
e pone giù il peso del desiderio e dell’invidia per sollevarsi alle più pure
regioni del pensiero, e discenderne poi più confortato, più virtuoso […]” (il
brano s’inquadra in alcune riflessioni sulla “poesia domestica” fatte in un
saggio apposito dallo scrittore, traduttore e librettista di metà Ottocento Giulio
Carcano, già utilizzato in altri contesti, e vedi infra).
220
Petrarchesco, e vedi gli “atti d’allegrezza spenti” del sonetto “Solo e
pensoso”.
221
L’espressione, da cui discendono tutte le altre e che sembra con tutta
probabilita la fonte primaria del della Porta, in Opere di Torquato Tasso colle
Controversie sulla Gerusalemme Poste in Migliore Ordine, Ricorrette sull’Edizione
Fiorentina, ed Illustrate dal Professore Gio. Rosini. Volume XI, Pisa, presso
Niccolò Capurro, MDCCCXXIII, p. 161: “[i poemi”] generano negli animi belle
virtù e scienza, e conservano in sé viva perpetuamente la fama prima de’ loror
padri gloriosi, e poi di altri molti, de’ quali fanno menzione […]”. Si veda, in
seguito, Della Lingua Toscana Dialoghi Sette di Girolamo Rosasco Accademico della
Crusca, Volume Secondo, Milano, per Giovanni Silvestri, MDCCCXXIV, p. 185:
“[…] S’innalzino pure infino al cielo Dante, il Petrarca, il Boccaccio; ma perché
si dovrò biasimare la lingua nostra? da quando in qua, per tenere in credito la
madre, si avrà a screditar la figliuola? forse non saranno que0 primi padri
148
222
La menzione prima in Il Trionfo della Vaccinia. Poema di Gioacchino Ponta
Genovese, Parma, co’ Tipi Bodoniani, MDCCCX, p. 19: “[…] Era quell’ora che
del curvo giro/ Saliva il sommo all’arco il Dio del giorno,/ Quando del cielo al
liquido zaffiro,/ Tolser la bella luce i nembi intorno:/ Allora con altissimo
sospiro,/ Della clamide arcana il petto adorno,/ Affiso al cielo i popol
benedisse,/ L’elmo gittò l’irto Profeta […]. Si vedano poi Opere del Conte
Gasparo Gozzi Viniziano, Vol. I, in Padova, Dalla Tipografia e Fonderia della
Minerva, MDCCCXVIII, p. 68: “[…] E tanta fu la forza del suo pensiero, che
non potendo del tutto tenerlo rinchiuso, gittò un altissimo sospiro, e abbassati
gli occhi e divenuto in viso vermiglio, diede indizio della sua segreta
intenzione all’avveduta Talia, la quale non si spiccava mai dal suo fianco
[…]”, poi più volte ripubblicate anche in altra veste. In contesti diversi vedi
Biblioteca Italiana o sia Giornale di Letteratura Scienze ed Arti Compilato da Varj
Letterati. Tomo XV. Anno Quarto, Luglio, Agosto e Settembre 1819, Milano,
presso la Direzione del Giornale, Contrada del Monte di Pietà n. 1254, Casa
Caj dirimpetto al Borgo Nuovo, p. 393: “[…] Ed ogni buon italiano erudito
delle cose passate, esperto delle presenti, ed infiammato di carità per le future,
letto questo frammento, tragga dal petto un altissimo sospiro e prorompa in
lamenti […]”; ancora, in Storia della Antica Liguria e di Genova Scritta dal
Marchese Girolamo Serra, Tomo III, Capolago, cantone Ticino, Tipografia
Elvetica, MDCCCXXXV, p. 38: “[…] L’infelice Boccanegra leva gli occhi in
alto; vede il doge sedente a un veron del palagio, e mettendo altissimo sospiro
gli domanda pietosamente la vita […]”; in Prime Poesie di Giulio Carcano,
Milano, per l’Editore Pietro Manzonj Libraio, MDCCCXLI, p. 275: “[…] Ti
ricordi il tuo martiro,/ Quando udisti a ciglio asciutto/ Quell’altissimo sospiro/
Che redense il prisco lutto […]” (quest’ultimo “locus” appare decisivo a
segnare la fonte primaria, perché il contestuale lemma “ciglio asciutto” appare
anche nella lirica dellaportiana, e precisamente al verso 87).
150
223
Cfr. La Giuditta, del Card. Pietro Ottoboni. Oratorio, In Roma, nella Stamperia
di Gio. Giacomo Komarek bohemo all’Angelo Custode, MDCXCIII, p. 10:
“[…] Bella, non ruotan gli astri/ con sì soave, armonioso giro/ né così dolce
porta/ il selvaggio usignol di ramo in ramo/ la sua musica pena/ come tu
sciogli il canto e incantar sai […]” (si noti che il testo dell’Ottoboni fu musicato
da Alessandro Scarlatti, e ciò forse ne aiutò la diffusione); poi vedi Il Sidro.
Poema in Due Canti di Giovanni Filips, Tradotto dall’Inglese in Toscano dal celebre
Conte Lorenzo Magalotti, Ora per la prima volta stampato con altre Traduzioni, e
Componimenti di vari Autori, In Firenze, MDCCXLIX, Appresso Andrea
Bonducci, Con Approvazione, p. 75: “[…] Per entro a questo nostro Orbe
Solare/ Tutto del chiaro suo Genio potente/ L’occhio penetrator fissando il
primo,/ In un misto poter, che gravitante,/ E projciente insieme eterno agisce,/
L’alta cagion del moto ei vide il primo,/ Ed in queto armonioso giro/
L’Universo mirò volgersi intorno [..]”. Vedi pure Biblioteca Storica di Diodoro
Siculo Volgarizzata dal Cav. Compagnoni, Tomo Primo, Dalla Tipografia di Gio.
Battista Sonzogno, 1820, p. LII: “[…] Con che egli attacca l’immaginazione di
chi legge, e ne seduce l’orecchio mercè l’elegante, ed armonioso giro di belle
frasi […]”; in Storia della Letteratura Italiana di P.L. Ginguené, Membro
dell’Instituto di Francia, Traduzione del prof. Benedetto Perotti, con Note ed
Illustrazioni. Tomo III, Milano, Dalla Tipografia di Commercio, 1823, p. 251:
“[…] L’ottava ha la medesima forma, che conservò di poi, ma non ha la
nobiltà, la leggiadria, le soavi cadenze e l’armonioso giro che ebbe prima dal
Poliziano, e dopo di lui dall’Ariosto […]. Su quale sia la fonte dellaportiana, si
può ipotizzare – dato il contesto – un’influenza del Magalotti.
224
Si riferisce alla Laura del Petrarca, cui implicitamente il della Porta
paragona la madre.
225
Pubblicata per la prima volta su La Tribuna, XV, 1897, p. 3, con minime
varianti di punteggiatura. Il testo è un amaro e struggente ricordo
151
231
Il lemma, non pedissequamente rintracciabile, trova però una sua
inconfondibile e contestuale certezza in un “locus” carducciano, e in
particolare la lirica “Figurine vecchie” delle Odi Barbare (lette in G. CARDUCCI,
Tutte le poesie, cur. P. GIBELLINI, Roma, Newton Compton, 2011, pp. 501 – 502:
“Qual da la madre battuto pargolo/ od in proterva rissa mal domito/ stanco
s’addorme con le pugna/ serrate e i cigli rannuvolati,/ tal ne ‘l mio petto
l’amore […]”).
232
Cfr., ad esempio, un’occorrenza di tipo geografico in Il Nuovo Osservatore
Veneziano, per Lorenzo Fracasso Estensore, Stampatore, Fondamenta Malvasia
Vecchia, S. Maurizio, N. 2279, 1837, p. 76: “[…] La prima caduta è un pacifico
corso d’acqua che scende maestosamente e senza strepito; la seconda al
contrario precipitandosi con orribile fracasso, getta lontano su pei boschi e per
le montagne circostanti un polvere umida […]”; in contesto,
significativamente, dantesco, cfr. Storia della Letteratura Italiana dall’Origine
della Lingua sino a’ Nostri Giorni del Cavaliere Abate Giuseppe Maffei, Seconda
Edizione originale Emendata ed Accresciuta colla Storia dei Primi Trent’Anni del
secolo XIX, ad uso della Pubblica e Privata Istruzione, vol. I, Milano, Dalla Società
Tipografica de’ Classici Italiani, MDCCCXXXIV, p. 72: “[…] La porta si
schiude e gira sui cardini con orribile fracasso […]”; descrivendo una
tempesta equatoriale, La Civiltà Cattolica, Anno Trigesimoprimo, vol. III della
Serie Undecima, Firenze, presso Luigi Manuelli Libraio, Via del Proconsolo 16,
poresso S. Maria in Campo, 1880, p. 190: “[…] I ripetuti scrosci del tuono
destano un orribile fracasso […]; in contesti guerreschi, p. 323: “[…] Ma in
questo forte punto il colonnello Rampon, sotto la custodia del quale era la
trincea, a patto nessuno sbigottitosi a quell’orribile fracasso, che anzi tanto più
infiamma dosi nel suo coraggio […] fece lor prestare (sc. ai soldati) quel bel
155
dal Cielo, come una torre, con orribile fracasso […]”; in contesto relativo a
delitti, cfr. Beatrice Cènci. Storia del Secolo XVI di F.D. Guerrazzi, Pisa, A Spese
dell’Editore, 1854, Tipografia Vannucchi, p. 621: “[…] Una volta il moribondo,
dibattendosi nelle estreme convulsioni, precipitò giù dal letto con orribile
fracasso; al rumore del tracollo si svegliò la guardia che dormiva, e andò per
dargli aiuto [...] ma il meschino di aiuto non aveva più bisogno: egli era
spirato! […]”; in altro contesto fiabesco, E.T.A HOFFMANN, “Schiaccia-Noci
(adattamento)”, in Giornale per i Bambini, nr. 5 (4 agosto 1881), p. 76: “[…]
Corazzieri, dragoni ed ussari si preparavano alla pugna. I treni dell’artiglieria
facevano un orribile fracasso […]”. La fonte più credibile, per la sua
derivazione dantesca, appare quella del Maffei.
233
Il lemma in una descrizione delle conseguenze del sacco delle città limitrofe
a Casale Monferrato (l’episodio si riferisce al seicentesco assedio di Casale, cui
accenna anche il Manzoni nei Promessi Sposi), e cfr. Notizie Storiche della Città di
Casale cit. Vol. 5, Casale, 1840, Dalla Tipografia Casuccio e Comp., pp. 218 –
219: “[…] La città risuonò per tre interi giorni di grida miserevoli e di pianti
[…]” in un carme dedicato ad un’inondazione in Valsassina, e cfr. Notizie
Storiche della Valsassina e della Terre Limitrofe dalla più remota fino alla Presente
Età, raccolte ed Ordinate dall’Ingegnere Giuseppe Arrigoni, Milano, coi Tipi di
Luigi di Giacomo Pirola, MDCCCXL, p. 341: “[…] Di qua, di là sia scoltano/ E
lagni di morenti/ E grida miserevoli/ Soccorso alto chiedenti,/ E i sacerdoti
erigere/ Sull’ale della fede/ L’alme all’eterna sede […]”. Forse la fonte è nel
testo del De’ Conti, vista un’occorrenza diversa rimontante allo stesso autore
presente nelle Canzoni in altro contesto (e vedi supra).
157
234
Da segnalare il lemma, usato dal già menzionato Gasparo Gozzi, in
Componimenti Lirici de’ Più Illustri Poeti d’Italia scelti da T.J. Mathias, Vol. II,
Londra, presso T. Becket, Pall-Mall; Dalla Stamperia di Bulmer e co.,
Cleveland-Row, St. James’s, 1802, pp. 228 – 229: “[…] E per dolermi ancor, che
fan miei passi/ Per campi e selve, ove son faggi e mirti,/ Né vanno a ritrovar
amici spirti? […]; vedi anche un’elegia di Giulio Perticari, in Poesie Varie di
Diversi Autori, Livorno, Tipografia Vignozzi, 1830, p. 23: “[…] Gli amici spirti,
che di notte guidano/ La rotonda lor danza in mezzo ai prati,/ Cingon la
fronte di meste vïole […]”; e ancora, nella traduzione d’un poema georgico
latino di dubbia attribuzione, in Vicende della Coltura delle Due Sicilie, Dalla
venuta delle Colonie straniere sino a’ nostri giorni, di Pietro Napoli-Signorelli,
Napoletano, Dedicate alla Maestà di Annunziata Carolina di Francia, Regina delle
Due Sicilie, Seconda Edizione Napoletana. Tomo VII, In Napoli, 1811, p. 219: “[…]
A questi di pietade amici spirti/ Non mostrossi il destin crudele, avaro,/ A far
soggiorno fra gli elisii mirti,/ E fra l’alme felici esse ne andaro […]”; cfr. anche
il libretto di Niccolò Minato per il Xerse del Cavalli (e vedi Xerse. Drama per
Musica nel Teatro SS. Giovanni e Paolo per l’Anno 1654. Dedicato all’Illustrissimo
marchese Cornelio Bentivoglio, p. 29): “[…] Poco resta d’indugio/ A varcar in
Europa: il nostro amato/ Platano qui riman; di lui dovete/ Stringere co’ vostri
carmi amici spirti/ A custodia incessante,/ Perché non sian da man profana, o
avara/ Svelte le frondi, o pur rapiti i doni,/ Onde l’abbiam di nostra mano
ornate [...]”. Quasi tutte queste testimonianza, eccettuata forse quella del
Minato, hanno un’unica fonte: Galeria del Cavalier Marino. Distinta in Pitture, &
Sculture, In Venetia, MDCLXIV, Presso Giovan Pietro Brigonci, Con Licenza
de’ Superiori, p. 192: “[…] Piantate allori e mirti,/ Che faccian’ ombra à questa/
Dotta, honorata, e venerabil testa/ O delle sacre Muse amici spirti;/ Che
Apollo la mira,/ Apollo, à cui di man scosse la lira,/ Per l’invidia, che vinto in
terra n’hebbe,/ Saettarla dal Ciel forse potrebbe […]”. Va tuttavia rilevato che,
158
235
È citazione dalle Grazie di Foscolo (Inno Terzo. Pallade, carme ad Antonio
Canova, vv. 180 – 184), forse tratta da Le Grazie: carme di Ugo Foscolo; riordinato
sugli autografi per cura di F. S. Orlandini, Firenze, Felice Le Monnier, 1848, p. 27:
“Corsero intorno le celesti alunne,/ Come giunse, alla Diva. Ella a ciascuna/
Compartì l’opre del promesso dono/ (Era un velo) alle Grazie […]”.
236
Cfr. I trattenimenti di Scipion Bargagli; doue da vaghe donne, e da giouani
huomini rappresentati sono honesti, e diletteuoli giuochi: narrate nouelle e cantate
alcune amorose canzonette, In Venetia, appresso Bernardo Giunti, 1587, Pt. 1,
Preambulo 19, p. 32: “Perciò che, secondo il giudicio mio, si verrebbe non
piccola parte a scemare della dolcezza d’ogni festevol atto o detto che da noi si
sentisse, qualunque volta noi donne così da noi cercassimo prenderci
sollazzevoli diporti […]”.
237
Vocabolo d’origine umanistica (e vedi, ad esempio, A. POLIZIANO, Rime,
101,6 (forse letto nell’edizione di Vincenzo Nannucci e Luigi Ciampolini, e
vedi Rime di Messer Angiolo Poliziano, seconda edizione, Firenze, presso
Filippo Marchini, 1822, p. 164: “Fuss’io pur certo, nella morte almeno,/ poter
l’aspre catene all’alma tôrre,/ Ch’io ardirei con ferro o con veneno/ queste
160
IV.
240
Il lemma rimonta ad un operetta escatologica e dantesca del Folengo, in un
contesto paradisiaco (Chaos del tri per uno. Stampata in Vinegia, per Giovanni
Antonio & fratelli da Sabbio, ad istantia de Nicolo Garanta, adi primo zener
1527, con privilegio, p. 120: “[…] Vado fra loro poscia, lento lento,/
favoleggiando verso il gran palaccio./ Ecco quegli angioletti, a trenta, a cento/
lascian chi l’arpa, chi ‘l danzar, chi ‘l laccio,/ e vengono assalirmi in un
momento/ con un soave intrico e dolce impaccio,/ perché mi carcan gli omeri,
la testa/ di sua leggiera salma e fanno festa […]”), ma venne poi ripreso nelle
Rime di Tasso (e cfr. Rime del signor Torquato Tasso; divise in sei parti, In Venetia,
apresso Giovanni Battista Pulciani, appresso Evangelista Deuchino &
Giovanni Battista Pulciani, 1608, pt. 3, p. 357: “[…] Più bello che d’oliva o pur
di palma/ Di trionfali spoglie un fregio adorno/ Il Costanzo ritratto avvolge
intorno,/ E furo al suo valor leggera salma […]”). Stanti le due sole occorrenze
– più inquadrabile nel contesto ma rara (quella del Folengo); encomiastica e
non relativa a canti funebri ma d’un autore più noto e più usato dal della
Porta (quella del Tasso) – non appare ipotizzabile quale sia la fonte diretta.
241
I due termini sono presenti nella tragedia Francesca da Rimini del Bucchi
(cfr. Tragedie di Ulivo Bucchi, Tomo Primo, Pisa, Presso Sebastiano Nistri, 1814,
pp. 79 – 80: “[…] Quindi d’armi un rimbombo, un fragor cupo/ Ed a breve
silenzio ululo orrendo/ Sottentrò di furore e lunga e mesta/ Poscia voce di
morte al cor mi scese […]”); ma si ritrovano anche nella traduzione di
Domenico Rossetti d’un egloga petrarchesca (e cfr. Francisci Petrarchae Pöemata
Minora Quae Extant Omnia Nunc Primo Ad Trutinam Revocata Ac Recensita, Vol.
I, Mediolani, Excudebat Societas Typhographica Classicorum Italiae
Scriptorum, MDCCCXXIX, p. 115: “[…] Sia laude al ver: fu pari ad alma
avara,/ Che per tema del molto al poco guarda,/ E il meglio perde: ecco: ei dì e
notte stride,/ E mai non resta, e de’ villan gli orecchi/ Introna di selvaggo ululo
162
244
Si veda, inizialmente, il commento del Buti al primo canto della Divina
commedia (e cfr., forse, Commento di Francesco da Buti sopra la Divina Commedia
di Dante Allighieri Pubblicato per Cura di Crescentino Giannini. Tomo Primo, In
Pisa, pei Fratelli Nistri, 1858, p. 42: “[…] Dice prima, maravigliandosi e
vergognandosi che innanzi non l’avea conosciuto: Risposi a lui; cioè io Dante a
Virgilio con vergognosa fronte; cioè con la fronte inchinata, che significa
vergogna; quando l’uomo si vergogna cala la fronte: imperò che alzare la
fronte […]”, evidenziando che i corsivi sono nel testo del Giannini); in un
dizionario d’inizio Ottocento, in riferimento all’angolo visuale in pittura, e
vedi Enciclopedia Italiana e Dizionario della Conversazione. Opera Originale. Vol. II,
Venezia, dallo Stabilimento Enciclopedico di Girolamo Tasso, 1838, p. 226:
“[…] In vero se, poste cotali forme, si supponga in una testa la fronte
inchinata all’indietro […]”; in riferimento alle malefatte dei signori feudali
padani, Gli Eccelini e gli Estensi, Storia del Secolo XIII narrata da Filippo De Boni.
Volume III, Venezia, co’ Tipi del Gondoliere, MDCCCXLI, p. 124: “[…] Adelitta
con mirabile costanza inginocchiata innanzi un altare aspetta la morte; le
sciagure la avean temprata alla rassegnazione, e colla fronte inchinata a Dio,
gli chiede che termini la sua vita […]”; nella traduzione d’una parafrasi del
racconto biblico relativo a Ruth, e cfr. Rut e Naomi ovvero Le Due Vedove,
Racconto Episodico Tratto Dalla Bibbia dal Sig. Keratry E volgarizzato con note ed
aggiunta d’un indica mento dei nomi particolari adoperati in esso, ed in fine del
Volgarizzamento letterale del Testo Sacro di Francesco Longhena, Milano, dalla
Tipografia di Omobono Manini, 1822, p. 57: […] Colpita da cotale
rassomiglianza che essa era ben lontana di prevedere, piega rispettosamente
le ginocchia, e colla fronte inchinata verso il campo lascia fuggire dai suoi
labbri queste parole […]”; in riferimento al protocollo vigente nelle corti
cinesi, vedi Indicatore Lombardo cit., Tomo II (1830), p. 74: “[…] le proteste
contro la santa sua volontà (sc. del sovrano) non si devono fare che colla fronte
166
inchinata verso i gradini del suo trono […]”; in contesto relativo alla
letteratura panegiristica di Napoleone (per cui cfr. G. PANNUNZIO, “Un caso di
damnatio memoriae: Camillo Mapei e la letteratura dell’emigrazione italiana nel
primo ‘800”, in Studi Medievali e Moderni, 2 (1999), pp. 53 – 75, in part. pp. 71 –
72, n. 98, con bibliografia), si veda La Selva Napoleoniana, Composizione Pastorale
di Tommaso Grapputo, Venezia, Nella Tipografia Picotti, 1809, p. 82: “[…] Erano
stati sino a quel punto tutti gli ascoltanti con bocca aperta, e con fronte
inchinata ad udire il sacro cantore […]” (quest’ultima, in alternativa al testo
dantesco del Buti, potrebbe anche esser la fonte del della Porta, dato che, alla
p. 79, si legge d’un “altro che tanto amò l’Avignonese Laura […]” e che
potrebbe connettersi all’ultimo verso della canzone “Ave. Del gesto delle
cristiane”, dove si parla d’un della Porta che “frondeggi[a] di lauro cortese,/
Ad onorar la Donna Avignonese […]”). Infine, a titolo di cronaca, cfr. Risposta
all’autore del libro Della civile, e religiosa sovranita del popolo provata colla
rivelazione. Dissertazione del conte abate Cristofaro Muzani vicentino, In Vicenza,
per Giovanni Rossi, 1798, p. 97: “[…] da questa remota mia Africa colla fronte
inchinata sul suolo adoro io in te quel sacro inviolabil Tesoro di tutta la più
sicura dottrina […]”.
245
Cfr. Cenni e documenti intorno all’insurrezione lombarda e alla guerra regia del
1848, per Gius. Mazzini, Imprimerie S. Gentori, Laquiens et Comp., 1850, p. 86:
“[…] La guerra regia ha dato un grave insegnamento ai Lombardi, e imposto
un obbligo severo al Piemonte […]”; cfr. inoltre, in contesto religioso, Il
Vangelo delle Domeniche Spiegato dal Preposto Parroco Anton-Luigi De Carli, Vol.
III, Milano, dalla Tipografia di Omobono Manini, MDCCCXXIII, p. 310: “[…]
Queste parole ci presentano una difficoltà da doversi sciogliere: facciamolo,
che la soluzione c’introdurrà in considerazioni di grave insegnamento […]”;
nella confutazione della letteratura stregonesca da parte del Tartarotti (e cfr.
Apologia del Congresso Notturno delle Lammie, o sia risposta di Girolamo Tartarotti
167
all’Arte Magica Dileguata del Sig. March. Scipione Maffei, Ed all’opposizione Del
Sig. Assessore Bartolomeo Melchiori; S’aggiunge una Lettera del Sig. Clemente
Baroni di Cavalcabò, In Venezia, MDCCLI, Presso Simone Occhi, Con Licenza
de’ Superiori, e Privilegio, p. 228: “[…] nei loro giudizj abbia non poco influito
il non essersi da lor saputo ridurre quel grave insegnamento di Tacito […]”; si
veda anche una riflessione di G. Battaglia, recensendo il Vitige del Brofferio, in
Rivista Europea. Nuova Serie del Ricoglitore Italiano e Straniero. Anno III, parte IV,
Milano, Vedova di A.F. Stella e Giacomo figlio, 1840, p. 493: “[…] Egli voleva
che […] non solo s’imparasse a quale trista fine di solito sia tratto chi non sa
domare in tempo le proprie non oneste passioni, ma un ben più grave
insegnamento ne derivasse […]”; da parte di Pietro Odescalchi, in un contesto
di critica artistica, e cfr. Giornale Arcadico di Scienze, Lettere ed Arti, Tomo XLV.
Gennaio, Febbraio, Marzo 1830, Roma, Nella Stamperia del Giornale, Presso
Antonio Boulzaler, 1830, p. 98: “[…] E vedesi chiaro, come l’Agricola ha qui
tolto ad imitare il tutto dalla natura, e come a minuto seguitato quel grave
insegnamento di Lionardo da Vinci […]”; si noti, inoltre, la presenza del
lemma in questa riflessione dell’erudito Leopoldo Cicognara, in Sessioni
Pubbliche dell’Ateneo Veneto Tenute negli Anni MDCCCXII, MDCCCXIII,
MDCCCXIV, Venezia, Vitarelli, Nel mese di Settembre MDCCCXIV, p. 6: “[…]
dal contatto di tali estremi ne emerge un mutuo sussidio, un tal insieme felice
d’istruzione e di utilità, che la finzione in guisa d’un sottilissimo velo ogni più
grave insegnamento adombra soltanto […]”.
246
Cfr. Lezioni Sacre sopra la Divina Scrittura Composte, e dette dal Padre
Ferdinando Zucconi Della Compagnia di Gesù. Tomo Secondo del Vecchio
Testamento, In Venezia, MDCCLXII, Nella Stamperia Remondini, Con Licenza
de’ Superiori, p. 405: “[…] Il protervo Discepolo nascose il donativo, licenziò i
Servidori, e quasi nulla avesse fatto, avanti ad Eliseo con volto sicuro e franco
tornò […].
168
V.
249
Il lemma è anfibolo. Per quel che concerne l’occorrenza “dolorose pupille”,
cfr. soltanto Anno Doloroso ovvero Meditazioni sopra la Dolorosa Vita della
Santissima Vergine Maria Distribuito per Tutti in Giorni dell’Anno, composte dal P.
Antonio Dell’Olivadi Missionario Cappuccino e Diviso in Quattro trimestri,
Nuovamente ristampato con figure in rame, ed a più colta lezione ridotto. Tomo I ,
Bassano, Nella Tipografia Remondini, 1819, p. 73: “[…] Se essa non parla,
parlano le sue dolorose pupille, ch’esprimono a bastanza del suo mesto cuore
le suppliche, con le quali ti scongiura, e desidera, che muoia il Figlio in quelle
braccia, con le quali per sì lungo tempo lo tenne Bambino […]”. Tuttavia,
appare molto più probabile una derivazione pascoliana, e cfr. la poesia “Il
Miracolo”, contenuta in Myricae (“[…] Vedeste, al tocco suo, morte pupille!/
Vedeste in cielo bianchi lastricati/ con macchie azzurre tra le latre rare […]”).
Si veda, per un tracciamento, un orazione in onore di S. Nicola da Tolentino, e
cfr. Orazioni Panegiriche del Padre Angelo maria da San Filippo, Eremitano Scalzo
di S. Agostino, Lettore di Sacra Teologia. Seconda Impressione. Con aggiunta di altre
Orazioni Sacre; opera postuma del medesimo, In Milano MDCCVIII, Nella Stampa
di Francesco Vigone, e fratelli, Con licenza de’ Superiori, p. 215: “[…] Porti il
fiele d’un pesce al giovinetto Tobia la spenta luce del giorno, e su le morte
pupille facci rinascere il mondo […]”; Solitudini di Sacri e Pietosi Affetti. Intorno
a Misteri sanguinosi, e gloriosi di Giesù Cristo, e di Maria. Opera Parenetica del
Molto Reverendissimo P. maestro F. Ignazio del Nente dell’Ordine de Predicatori del
Convento di S. Marco di Firenze, In Fiorenza, Per Amadore Maffi, e Lorenzo
Landi, MDCXXXXV. Con Licenza de’ Superiori, pp. 181 – 182: “[…] Così
m’insegna il sole, che per la pietà di queste morte pupille scolorisce i suoi
raggi, e li priva della corona di luce delle sue bellezze […]”; in un racconto
anonimo a sfondo martirologico, in Civiltà Cattolica, Anno Quarantesimoquinto,
Serie XV. Vol. XII. Quaderno 1067, Roma, 1 dicembre 1894, p. 568: “[…] quando,
vegliando al capezzale del suo sposo moribondo, si sentì quasi mancare per
170
Fernand più abbondanti in mele, di quelli della lupinella non gessata, e ciò
concorda con tutti i fatti, vale a dire, che le piante separano tanto più mele,
quanto sono più vigorose […]”; L’Apicoltore, Associazione centrale
d’incoraggiamento per l’apicoltura in Italia, Milano, volumi 21 – 22 (1888), p. 352
e volumi 23 – 24 (1890), p. 229: “[…] Al tempo della fioritura non abbiamo
veduto che pochissime api, evidentemente non nostre, foraggiare sui fiori
della lupinella […]” e “[…] vidi poche api sui fiori della lupinella […]”. In
questo caso il della porta avrà voluto dare al suo testo una lieve coloritura
virgiliana (e basta ricordare, al proposito, il contenuto del libro IV delle
Georgiche).
252
La fonte è certamente ne “Il canto dell’amore” del maestro Carducci,
presente nell’edizione definitiva di Giambi ed Epodi (e cfr. Opere di Giosuè
Carducci. IX, Bologna, Nicola Zanichelli, 1894, p. 133): “[…] da i conventi tra i
borghi e le cittadi/ Cupi sedenti al suon de le campane,/ Come cucùli tra gli
alberi radi/ Cantanti noie ed allegrezze strane […]”. Non val la pena citare le
occorrenze precedenti, le quali rimontano quasi tutte a un lemma del
seicentesco Vocabolario della Crusca.
253
Si vedano, per una sicura suggestione riconducibile al D’Annunzio delle
Laudi, i primi versi della lirica “Alle Montagne”, contenuta in Elettra:
“Candide cime, grandi nel cielo forme solenni/ cui le nubi notturne/ stanno
sommesse come la gregge al pastore ed i Vegli/ inclinati su l’urne/ profonde
dànno eterne parole, e fanno corona/ le stelle taciturne;/ o Montagne, terribili
dòmi abitati da Dio […]”. Si tenga conto che “Alle montagne” apparve, per la
prima volta e con il titolo “Ode a colui che deve venire”, nel febbraio 1896 in
un fascicolo di Versi e disegni offerti dalla Baronessa Blanc nella festa di beneficenza
172
Turotti, Autore della continuazione alla Storia d’Italia, con Prefazione e note Del Dr.
Pietro Boniotti, Milano, Tipografia dell’Editore Pietro Boniotti, 1856, p. 252:
“[…] Un evviva generale risponde a questo ordine muto di vincere o di
morire […]”; all’interno d’un discorso politico, cfr. Le Discordie e Guerre Civili
dei Genovesi nell’anno 1575 Descritte dal Doge Gio. Batta Lercari arrichite di Note e
Documenti Importanti da Agostino Olivieri. Prima Edizione, Genova, presso
Girolamo Filippo Garbarino Editore, 1857, pp. 302 – 303: “[…] Supplico
dunque […] che io le raccordi non potersi trovar rimedio più certo migliore a
mantenerb l’unico ordine muto, che non interporre e mescolare nell’elezione
la sorte […]”; nell’ambito d’un romanzo storico, e parlando d’un “villain”, cfr.
Valderico o la Schiavitù dell’Ottavo Secolo di C. Guenot, Bologna, presso l’Uffizio
del Messaggere, 1871 p. 198 (con traduzione anonima): “[…] Il miserabile
sorpreso parve che non comprendesse il gravi significato di quest’ordime
muto, ed il principe prese a spiegarlo […]”; descrivendo le malefatte
dell’inquisizione, vedi Misteri dell’inquisizione ed Altre Società segrete di Spagna
per V. De Féréal, con Note Storiche ed una introduzione di Manuel de Cuendias e con
Estratti di una Lettera Relativa a quest’Opera di Edgardo Quinet. Prima Versione
Italiana. Tomo I, Parigi, 1847, p. 142 (anche qui con traduzione anonima): “[…]
In quel momento Josè, uscendo dalla folla, fè cenno agli emissari; a
quell’ordine muto si allontanarono come ombre […]”; in un dramma di Luigi
Marchionni ambientato alla corte del Gran Moghul indiano, e cfr. Enrico IV o
la presa di Parigi, Dramma Storico in Tre Atti di Léopold, Traduzione dal Francese
dell’Artista Drammatico Luigi Marchionni, Milano, da Placido Maria Visaj, Nei
Tre Re a S. Gio,. Laterano, 1842, p. 75: (al testo è allegata una “Biblioteca
Ebdomadaria dove si riportano traduzioni di drammi anche d’altri autori e,
appunto, azioni drammatiche dello stesso Marchionni): “[…] Il solo Araldo
dopo l’ordine muto d’Orangzeb fa chiudere il portone fuori del quale saranno
i soldati, il popolo e i mercatanti sulle navi […]”; nel resoconto d’una vicenda
174
Deuchino, & Gio. Battista Pulciani, p. 198: “[…] e ciò perché niuna creatura
semplice poté mai compararsi a Dio tanto, quanto lei […]” (il lemma è
ripetuto in mariera analoga un’altra volta nella stessa pagina), ma ci fu
cermìtamente una cointeressenza con Amori Ac Silentio Sacrum e Le Rime
Sparse di Adolfo De Bosis, Milano, Studio Editoriale Lombardo, MDCCCCXIV,
p. 134: “[…] E intendono la creatura/ semplice, tra l’erba/ e l’erba pur anco e la
dura/ silice e l’altura// e il mare e la nube e la pura/ sorgiva e ogni cosa che
serba/ in più d’una sillaba oscura/ per te dell’amante Natura/ la legge
universa e superba […]. Non è possibile dire in che verso si è verificato lo
scambio, dovendosi tener conto tenga che, stante la grande amicizia tra De
Bosis e della Porta, le liriche debosisiane – tra l’altro apparse ben prima che
uscisse la prima edizione del 1901 – erano ben conosciute dal poeta abruzzese.
In effetti la poesia a cui l’occorrenza rimonta uscì nel 1907 (e vedi Il Convito, A.
IV, Fasc. 12, dicembre 1907, p. 1073).
260
Cfr. Guida dell’educatore. Foglio Mensuale Compilato da Raffaello Lambruschini,
Anno Secondo, 1837, Firenze, Al gabinetto Scientifico e Letterario di G.P.
Vieusseux, Coi Tipi della Galileiana, MDCCCXXXVII, p. 15: “[…] Per verità
una bontà ferma ed instancabile, parole di sapienza e d’amore e insieme di
dignità, opposte sempre alle furie o alla ferrea ostinazione d’un giovane
caparbio, diminuiscono grandemente il bisogno di punizioni […]” (da un
contesto pedagogico siffatto geminò, in seguito, la citazione reperibile in Fra
scuola e casa. Bozzetti e racconti di Edmondo De Amicis, Milano, Treves, 1892, p.
15: “[…] Riuscì non dimeno, col contegno dignitoso e con la bontà ferma e
giusta, a ottener molto in breve tempo […]”); vedi poi, in ambito religioso,
Sessanta Salmi di David, Tradotti in Rime Volgari Italiane, Secondo la verità del testo
Hebreo. Col Cantico di Simeone, & i dieci Comandamenti della Legge, In Genova,
Appresso Stefano Miege, MDCL, p. 120, “[…] Ai poveri dispensa,/ Sempre la
sua bontà ferma tenendo,/ Il suo corno con gloria esaltarassi […]”; p. 14. C’è
176
da credere che il testo deamicisiano sia quello che più si avvicini all’esempio
del della Porta.
261
Gallicismo (antico francese “rancure”), che vale “senso di oppressione”,
“angoscia” (cfr. Guittone Chi pote departire, v. 6: “più tene in sé d’affanno e di
rancura”, e 34: “con più ci ha d’aver, più ci ha rancura”; Pensand’om che val bon
disio, v. 4: “desio lo punge e mettelo ‘n rancura”), si trova in Purgatorio, X.133:
“Come per sostentar solaio o tetto,/ per mensola talvolta una figura/ si vede
giugner le ginocchia al petto,/ la qual fa del non ver vera rancura/ nascere ‘n
chi la vede; così fatti/ vid’io color […]” (è la similitudine è tra i superbi gravati
di massi e le cariatidi). Su ciò, cfr. F. VAGNI, in Enciclopedia Dantesca, Roma,
Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970 – 1978, vol. IV, “ad voc.”.
262
Stranamente, per un espressione simile, sovviene un unico lemma, in una
dissertazione drammaturgica, e vedi Teatro Comico dell’Avvocato Vincenzo Roiti.
Tomo II, Milano, MDCCCXVII, a spese dell’Autore, p. 267: “[…] Alberto può
rabbuffarsi il crine con lento gesto e quasi dignitoso, ed in tal foggia
interessare il sentimento dello spettatore […]”.
263
In questo verso sono presenti ben due citazioni leopardiane consecutive:
una appare rimontante al “Passero solitario” (“[…] al sole, che di un raggio/ Ti
fere alla finestra […]” richiama il “ti fere il sol” del Leopardi. Si tenga conto
che l’immagine è già stata già evocata altrove, e vedi supra, in “Se questa casa
non è nostra ancora); l’altra non può che ricondurre alla lirica “A Silvia” (il
“maggio odoroso” che viene rimembrato nell’espressione dellaportiana
“odora il maggio”).
264
Cfr., ad esempio e la fonte pare certa, Scelte Poesie Italiane di Vincenzo Monti,
Lorenzo Mascheroni, Ugo Foscolo, Ipp. Pindemonte, Gio. Torti, Gaspare Gozzi,
177
Giuseppe Parini, Aless. Manzoni, Ag. e Gio. Paradisi, Vol. Unico, Venezia, dallo
Stabilimento Encicl. Di G. Tasso Edit., MDCCCXXXIII, p. 15: “[…] Ei procedea
depresso ad inquieto/ Nel portamento, i rai celesti empiendo/ Di largo ad or
ad or pianto segreto […]”.
265
Cfr. Istoria della Decadenza e Rovina dell’Impero Romano, Tradotta dall’Inglese di
Edoardo Gibbon. Volume Secondo, in Pisa, MDCCXCVII, con Licenza de’
superiori, p. 107: “[…] I più nobili guerrieri, qualora il lor paese nativo era
immerso nell’ozio della pace, mantenevano le numerose loro truppe in
qualche remota scena d’azione […]; n una descrizione dei nativi americani, e
cfr. Annali del Teatro della Città di Reggio. Anno 1828, Bologna, coi Tipi del
Nobili e Comp., 1828, p. 173: “[…] Avverta il lettore, che non giudico degli
Osagi nostri se non dall’apparenza loro, veduti al lume fallace della remota
scena […]. Vedi pure Opere Varie in Versi ed in Prosa di Michelangelo Buonarroti
il Giovane, Alcune delle Quali non mai Stampate, Raccolte da Pietro Fanfani,
Firenze, Felice Le Monnier, 1863, p. 277: “[…] Tanto è fallace la remota scena,/
Dove noi fabbrichiamo il nostro fóro/ Ch’a darvi entro del capo alfin ne mena/
Ogni nostr’ opra […]”, fonte probabile del della Porta.
178
266
Chiaro riferimento al penultimo verso del sonetto “In morte del fratello
Giovanni” di Ugo Foscolo.
267
Il lemma ha avuto una certa fortuna in epoca precedente a quella in cui
scrisse il della Porta. In un ambito di critica omerica, cfr. Lo Spettatore Italiano
ovvero Mescolanze di Poesia, di Filosofia, di Novelle, di letteratura, di Teatro, di Belle
179
Arti e di Bibliografia. Tomo Ottavo, Milano, presso gli Editori A.F. Stella e
Comp., 1817, p. 120: “[…] Son io dunque ridotto al passo crudele d’insegnare,
se non a leggere, almeno a intendere un libro laddove non è né intralciato, né
difficile, né oscuro? […]”; in ambito patriottico, e vedi Il Corrispondente
Costituzionale, No. 20, Sabato 23 settembre 1820, In Messina, presso la Vedova di
Gio. Del Nobolo, p. 1: “[…] Assai si è sofferto in Sicilia per il furore di una
rubelle Città, spinse dessa il passo crudele a trucidare un Regno […]”; in un
romanzo del Ghislanzoni, vedi Gli Artisti da Teatro. Romanzo di A. Ghislanzoni
con note critico-biografiche. Vol. V, Milano, G. Daelli e C. Editori, MDCCCLXV,
p. 15: in un discorso di Luigi XVI, e vedi Storia della Vita e Regno di Luigi XVI.
Compilata da D. Gioseffo Massa. Vol. IV, Torino, 1794, Dalla Stamperia Soffietti.
Con permissione, p. 20: “[…] Molto ho lottato prima di condurmi a questo
passo crudele […]”; “[…] Mi sono adoprato con ogni mio potere per evitare la
guerra, e non mi sono determinato a questo passo crudele, da cui è aggravato
il popolo tutto, se non mio malgrado […]”; in un libretto d’opera di stampo
“bohemienne” e patriottico, e cfr. Michele Perrin. Opera Comica in Tre Atti.
Parole di M. Marcello. Musica del M° Cav. Antonio Cagnoni. Da rappresentarsi al
Teatro Vittorio Emanuele di Torino in Primavera 1865, Torino, R. Stabilimento
Tito di Gio. Ricordi, Milano-Napoli, p. 10: “[…] Mi costò ben caro questo
passo crudele […]; in una commedia di tipo goldoniano scritta da Domenico
Bassi, cfr. L’Impensato Accidente. Commedia del Signor Domenico Bassi Ferrarese,
Venezia, MDCCXCII. Con licenza de’ Superiori, p. 27: “[…] Sappi che con mio
estremo cordoglio son condotta al passo crudele di dovere stender la mano a
Roberto figlio del tuo padrone […]”; in un contesto d’un’ anonima orazione
funeraria, cfr. Elogio Funebre di Felice De Maria, Venezia, dalla Tipografia Eredi
Paroni, 1854, p. 37: “[…] Reputo la parola un passo crudele, che riapre la
piaga, che rinnova il martirio […]”; in ambito d’un romanzo storico
dumasiano ambientato nel Seicento inglese (la traduzione è anonima), e cfr.
180
Gli Stuart. racconto Storico di Alessandro Dumas. prima versione Italiana. Volume I,
Milano, coi tipi Borroni e Scotti. A spese degli editori, p. 165. “[…] Voi mi
avete forzato, diceva Cromwello, a questo passo crudele […]”; parlando della
morte per suicidio dell’incisore Vincenso Vangelisti, in Le Classiche stampe dal
Cominciamento della Calcografia fino al Presente compresi gli artisti Viventi,
Descritte e Corredate di Storiche e Critiche Osservazioni sul Merito, sui Soggetti che
rappresentano etc., Scelte e Proposte a Dilettevole ed Instruttivo ornamento di una
Galleria dal Dottore Giulio Ferrario, Milano, presso Santo Bravetta Tipografo-
Libraio, contrada di S.ta Margherita all’angolo de’ Due Muri N.° 1042, 1835, p.
357: “[…] Non mi è lecito pubblicare i motivi dai quali probabilmente fu
spinta la troppo focosa sua immaginazione a tal passo crudele […]”; riguardo
la triste condizione dei sacerdoti in periodo rivoluzionario, in I vantaggio della
Rivoluzione. Discorso di Aurelio Benattenti da Ortezzano, Fermo, Pel Bartolini Tip.
Arciv. Con Permess., MDCCCXXV, p. 73: “[…] ve n’ha pur uno, che giunto a
questo passo crudele e spaventevole, scosso dall’orrore attuale, e dalla triste
immaginazione sbigottito di un avvenire ignoto, un sol pensiero rivolga alla
Prebenda […]”; infine, in ambito della storiografia erudita, cfr. D. CARUTTI,
Storia della diplomazia della corte di Savoia. Vol. III, Milano, Fratelli Bocca, 1879,
p. 135: “[…] Il retto giudizio di Vittorio Amedeo II ripugnava al passo crudele
[…]”.
268
Il lemma “mute lacrime” è certamente carducciano (e cfr. Juvenilia,
Bologna, Zanichelli, 1880, p. 226: “[…] E presso al freddo focolar sedea/
Barbaro sgherro, a i padri antichi in faccia/ Esplorando il dolor l’ansia la
speme:/ Vile! e a le mute lacrime irridea;/ E col ferro e lo scherno e la
minaccia,/ Vile!, l’ira premea che inerme freme […]”). Per una storia di tale
occorrenza, si veda, inizialmente, Memorie Poetiche e Poesie di N. Tommaseo.
Volume Unico, Venezia, co’ Tipi del Gondoliere, p. 375: “[…] ma tu di mute
lacrime/ pascevi il lungo affanno,/ Tu mansüeta e docile/ Servivi al tuo
181
tiranno; E semplice, sincera/ saliva al Dio degli angeli/ Per lui la tua preghiera
[…]”; in un discorso politico sulla condizione dei lavoratori minuti nello Stato
della Chiesa, cfr. (ma esistono paredre e discendenti) Opere del Conte Giulio
Perticari di Pesaro. Vol. I, Venezia, Girolamo Tasso Ed. Calc. Lit. Lib. e Fond.,
MDCCCXXXII, p. 173 “[…] Poi freddi, stupidi ritorneranno alle vuote lor case,
e mostreranno nelle mute lacrime la futura fame ai fanciulli, alle madri, ai
vecchi infermi, alle povere mogli loro […]”; in carme encomiastico dello
scrittore e politico siciliano Benedetto Scillamà, cfr. Giornale di Scienze, lettere e
Arti per La Sicilia Diretto dal Bar. V. Mortillaro, Vol. 73, Anno 19, Gennaio Febbraio
Marzo, Palermo, presso la Stamperia Oretea, Via maestra dell’Albergaria N.
240, 1841, p. 323: “[…] con mute/ Lacrime al ciel io ti chiedeva ignaro/ Che
prego uman non v’ha che degli estinti/ Possa l’ombre evocar […]”; G.
D’ANNUNZIO, L’innocente, Napoli, Bideri, 1892, p. 207: “[…] Le mute lacrime
dell’anima calpestata non più le riempivano il cavo degli occhi […]”;
nell’ambito d’un ragguaglio bibliografico anonimo su una tragedia di
Federico della Valle, e cfr. Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti.
Opera Periodica Compilata per Cura di G.R.. Volume Quarto. II° Anno, Napoli, Pe’
Tipi Della Minerva, strada s. Anna de’ Lombardi num.° 10, 1833 “[…] Ve ne
invita il popolo cogli applausi; ve ne pregano gli amici con pie parole; ve ne
scongiurano le madri vostre con quelle mute lacrime, con quel tremare e
palpitare d’amore, mentre odono proclamarvi a nome, e veggono que’ premi
in cui solo prende sicurtà ogni loro speranza! […]”; in riferimento alle guerre
anglo-irlandesi della prima metà del Seicento, e vedi Istoria d’Inghilterra di
David Hume Recata in Italiano da Michele Leoni. Tomo X, In Venezia, per
Giuseppe Picotti Edit., 1825, p. 21: “[…] Attraversavan eglino in fretta e con
mute lacrime, o lamentosi gridi i territorj ostili, e trovavano ogni cuore, che
non fosse indurato dalla nativa barbarie, guardato dalle furie, ancor più
implacabili, di una malintesa pietà e religione […]”; si veda poi, in un
182
269
Innumerevoli sono gli usi di tale lemma, per il quale si segnalerà – “et pour
cause” – l’uso fattone da Alfieri (e cfr., ad esempio, Opere di Vittorio Alfieri.
Volume Vigesimoprimo, Italia, MDCCCXV, p. 164: “[…] Turno allora deluso, a
sè davanti/ Fuggir vedendo Enea, di vana speme,/ Ebro il superbo core, ei
grida […]”, forse a sua volta derivato da un’altra versione virgiliana, quella di
Clemente Bondi, per cui vedi L’Eneide Tradotta in Versi Italiani da Clemente
Bondi. Tomo I, Parma, Dalla Stamperia Reale, MDCCXC, p. 254: “[…] Egli ode i
rei,/ Ei li punisce, e a rivelar gli sforza/ Le colpe qui, che impunemente
occulte/ Tennero in vita, o differir protervi/ Con vana speme ad espiarle in
morte […]”), che sembra render ragione degli utilizzi successivi in epoca
romantica. L’occorrenza dellaportiana, peraltro, e l’ipotesi appare intrigante,
potrebbe anche aver avuto qualche origine anch’essa nella traduzione del
Bondi, perché il passo da cui è tratta si riferisce al libro VI, quello in cui c’è la
discesa agli inferi di Enea; le note propensioni dantesche del nostro autore
possono averlo portato ad incontrare la versione del Bondi e a trarree la sua
citazione dalla medesima.
270
Cfr., per il lemma, due sole occorrenze reperte, la prima delle quali trovasi
in una versione italiana del Tom Jones di Fielding circolante nel primo
Ottocento (e cfr. Storia di Tom Jones il trovatello. Opera dello Scudiere Enrico
Fielding. Versione dall’Originale Inglese di Gaetano Barbieri, I.R. Prof. di
Matematica Emerito. Volume V, Milano, per G. Truffi e Comp., MDCCCXXXIII,
p. 262: “[…] La nostra eroina all’atto di congedarsi dalla cugina, non potè
starsi dal darle un cenno di consiglio; supplicandola fin per amor di Dio, a
tenersi in guardia sopra sè stessa, e a pensare quanto fosse pericolosa la
situazione in cui si trovava […]”; in contesto d’esaltazione delle virtù
femminili, cfr. Due Lettere di Gabriele Pepe già Colonnello napoletano al
Marchese Gino Capponi, Firenze, per Battelli e Figli, MDCCCXXXVI, p. 10:
“[…] Non infrequente è l’altro caso di malvaggi atrocissimi, i quali
184
VI.
VII.
flebile e più lento, a guisa della triste voce delle ore trascorse, a guisa del
vento che muore sulle cime velate, sembra piangere, nell’uscire dal petto
[…]”); o un Cesare Cantù “raccolto” dal Bertolotti (e vedi Il Nuovo Ricoglitore
ossia archivi d’Ogni Letteratura Antica e Moderna con Rassegna e Notizie di Libri
Nuovi e Nuove Edizioni. Anno IV, Milano, presso Ant. Fort. Stella e Figli, 1828,
p. 120: “[…] Ma qual si fe’ quando alla triste voce,/ Al biondo crin sull’omero
ondeggiante/ Nelle torose braccia ad un feroce/ raffigurò la sua diletta amante
[…]”). Le altre occorrenze non meritano menzione perché poco probanti o non
cogenti. Per quanto riguarda la seconda occorrenza, cfr., nella traduzione di
Ermolao Federigo delle Metamorfosi di Ovidio, Opere di Publio Ovidio Nasone
Tradotte ed Illustrate. Volume Secondo, Venezia, dalla Tip. di Giuseppe Antonelli
Ed. Premiato con Medaglie d’Oro, 1844, col. 76: “[…] In se stessa alcun poco si
ristrinse/ E bassa giacque oltre l’usato; e queste/ mandò parole con arida voce
[…]”; La Donna e La Scienza o La Soluzione del Problema Sociale di Salvatore
Morelli, Due Volte Consigliere del Municipio di Napoli e Deputato al Parlamento
Italiano. 3a Edizione riveduta dall’autore, con Cenno Critico e Biografico del
Professore Virgilio Estival, Napoli Società Tipografico-Editrice, Rosario di
Palazzo 25, 1869, p. 214: “[…] l’uomo che si dice di scienza non lo à cavato egli
medesimo dal concreto, ma dall’arida voce del maestro o dei libri […]”; in
ambito di poesia erudita. e vedi G. DI MARZO, Biblioteca storica e letteraria di
Sicilia: Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX: Pubblicati Sui Manoscritti
Della Biblioteca Comunale Volume 15 di Biblioteca storica e letteraria di Sicilia,
Palermo, L.P. Lauriel, 1875, p. 220: “[…] L’assonnata alle pene alzò una volta/
L’indurata cervice, arida voce/ Nel magro sen d’inopia lamentando […].
288
Il lemma, relativo a un neonato e in citazione anonima, unicamente in
Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’Anno Accademico MDCCCLXXII, Brescia,
Tipografia della Minerva, MDCCCLXXIV, p. 448: “[…] Qualche moto
respiratorio si avvertì, e al singulto raro sostituivasi un interrotto e incompleto
192
vagire […]”
289
Anche in questo caso una sola occorrenza, e cfr., in contesto mariano,
Pensieri Predicabili Per i Sabbati di Quaresima in Honore di Maria Vergine, Del
Molto R. Padre F. Domenico Paolacci maestro in Teologia dell’Ordine de’ Predicatori,
e Professore publico della Sagra Scrittura nell’Università di Padova, In Venetia, Per
Giunti, e Baba, MDCXLIV, Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio, p. 49: “[…]
Hor questo primo pensiero di Dio era nascosto negli impenetrabili abissi del
petto paterno […]”.
290
“Giù dagli abissi di quel petto bianco” (NR). La sostituzione dell’avverbio è
dettata, con ogni probabilità, dalla necessità di evocare un riflesso
stilnovistico, mentre la variazione della punteggiatura, con l’inserzione
dell’altro avverbio “così”, sembra dipendere dalla volontà di inserire una
cesura.
291
Qui la fonte è più che certa, consistendo in un passo d’un racconto
dell’amico Albertazzi, e cfr. A. ALBERTAZZI, Vecchie storie d’amore, Bologna,
Nicola Zanichelli, MDCCCXCV, p. 58 (il testo in cui il lemma si trova, “La
salvazione di fra’ Gerunzio”, pare una sorta di rielaborazione della novella
dannunziana “Fra Lucerta”): “[…] Allora, di sùbito. lì innanzi a lui, stesa a
giacere. viode una femmina nuda. Come lucide le chiome nere! Come freschi i
fiori del seno turgido! Vezzi di vergine, riso di peccatrice, beltà d’una dea: era
piena di grazia e rideva, tutta nuda […]”. Si ricordi che secondo taluni esegeti
il motivo dei “fiori del seno” risale al D’Annunzio, e cfr. G. D’ANNUNZIO,
Versi d’amore e di gloria, voll. 2, cur. L. ANCESCHI – A. ANDREOLI – N.
LORENZINI, Milano, Mondadori, 19823, p. 994.
292
“I fior del seno; vivo, ne la notte” (NR). Si segnala l’inserzione di
un’apocope e nella solita cancellazione della preposizione articolata
arcaizzante.
193
293
“silenzïosa” (NR), con eliminazione della dieresi nel testo definitivo, per
ragioni metriche.
294
“esurïente” (NR), e vedi la nota precedente.
295
Il lemma piacque certamente al D’Annunzio alcionico dei “Sogni di terre
lontane” (e cfr. “La Loggia”, dove si legge di “[…] Capodistria, succiso
adriaco fiore! […]”), che però non può esser considerato la fonte del nostro. Si
potrebbe ipotizzare, sulla scia d’una suggestione di Federico Roncoroni (vedi
G. D’ANNUNZIO, Alcyone, cur. F. RONCORONI, Milano, Mondadori, 1982, p.
699, nota “ad loc.”), che l’origine del binomio verbale risalga direttamente al
“succisus flos” di Virgilio (cfr. Aen., IX, v. 435), anche se non va esclusa –
sempre in campo classico – qualche influenza di Catullo (e vedi Liber, c. 62,
vv. 39 – 40, in riferimento ad una vergine). Ma si veda, per un antecedente
vicino al periodo maggiormente amato dal della Porta, cfr. L’Imperio Vendicato.
Poema Heroico d’Antonio Caraccio, Barone di Corano. Dedicato alla Serenissima
Republica di Venetia. Con gli Argomenti, e Chiave dell’Allegoria del Conte Giulio di
Montevecchio. E con le Dichiarazioni historiche del Marchese Gregorio Spada, In
Roma, Per Gio. Battista Bussotti. MDCLXXIX. Con Licenza de’ Superiori, p.
69: “[…] Ella cadea come succiso fiore: ma le fur tutte le donzelle intorno,/ e
d’un singulto, un gemito, un rumore/ Tutto risuona il lugubre soggiorno […].
La presenza del vocabolo “singulto”, che il della Porta cita al verso 13, fa
sospettare che il testo del Caraccio possa aver servito da base a quello
dellaportiano.
296
“a gli” (NR), e vedi quanto detto prima.
297
Il lemma, anche dopo la menzione dellaportiana, indica un’energica
tempesta dei sensi ed è spesso associato ad emozioni forti come l’amore o la
rabbia. A livello di fonti precedenti, si può cominciare citando una recensione
al Savonarola di Pasquale Villari, e cfr. Rivista di Firenze e Bullettino delle Arti del
Disegno. Pubblicazione Mensile di Scienze, Lettere ed Arti Diretta dal Prof. Atto
194
Fra i deserti fatali de la vita,/ Quello è che al Sole di mortali amori/ Spande
all’aure la fronda invigorita,/ E di beati inganni/ Bella fa l’alma e arcano il vol
degli anni […]; in contesto di meditazioni mariane, e cfr. Delle Grandezze di
Gesù Cristo e della Gran Madre Santissima, Lezioni Sacre di Francesco Pepe Della
Compagnia di Gesù. Tomo Quinto Delle Grandezze della Divina Madre. Consecrato
all’Altezza Reale di Filippo Borbone, Infante di Spagna, Principe Ereditario delle Due
Sicilie, etc. In Napoli MDCCXLVIII. Nella Stamperia Muziana. Con Licenza de’
Superiori, p. 188: “[…] Sia fiore unico, e singolare, se lo cercate in Maria, tutti
ottener lo possiamo […].
300
“propïziando” (NR), con dieresi eliminata per le solite ragioni metriche.
301
“(parvemi)” (NR). La parentetica è sostituita, probabilmente per motivi di
più netta cesura, dal polisindeto.
302
Un occorrenza del genere ha una sola origine, poi geminata in tutti i
numerosi testi successivi: Poesie di Ossian, Antico Poeta Celtico, Ultimamente
Scoperte e Tradotte in Prosa Inglese da Jacopo Macpherson e da Quella Trasportate in
verso Italiano dall’Ab. Melchior Cesarotti con varie Annotazioni de’ Due Traduttori,
In Padova, appresso Giuseppe Comino, 1763. Con Licenza de’ Superiori, e
Privilegio (per cui vedi p. 364: “[…] Il bianco petto le si gonfiava all’aura de’
sospiri. […]” e “[…] Salia, scendeva il bianco petto a scosse di sospiri. […]”; p.
125: “[…] palpiterà di gioja il bianco petto […]”; e infine p. 154 “[…] Il bianco
petto, quasi tremula onda/ Che siede il margo e si ritira: è l’alma/ Fonte di
luce, alma gentil […]”). L’ultima testimonianza, e la contestuale citazione del
verbo “salìa”, che è presente anche nel secondo dei due “loci”, rendono giusta
ragione della fonte.
303
Il lemma è certamente dannunziano, e in particolare risale al Poema
paradisiaco (vedi “Un ricordo”, dove leggesi “[…] Ancóra la convulsa bocca
esangue/ vedo. Le prime sue parole, rare,/ cadono come gocciole di sangue/
da piaga che incominci a sanguinare […]”). Da segnalare, tra le tante
198
Robert Fatta Italiana da L. Masieri, Milano, per Borroni e Scotti, Tipografi Librai
e Fonditori di Caratteri, 1844, p. 75: “[…] luce, musica, armonia, grazia,
profumo, ambrosia, la più dolce febbre de’ sensi […]”; all’interno d’una
dissertazione erudita, e vedi Enciclopedia Italiana. Dizionario della Conversazione.
Opera Originale. Vol. I, Venezia, dallo Stabilimento Enciclopedico di Girolamo
Tasso, 1838, p. 914: “[…] Dolce febbre dell’amore, chi ti prova teme che la vita
non basti alla sua gioia e sente che la terra gli sfugge, tanto violenta è la
bramosia che l’occupa tutto! […]”; in una lirica del librettista pucciniano,
Ferdinando Fontana, cfr. F. FONTANA, Poesie vecchie e nuove (1876 – 1891),
Milano, presso l’Autore, 1892, p. 163: “[…] «Cantano i tetti!/ «Oh, la scintilla
— che tutto incendia!/ «L’acuta e dolce — febbre infinita!/ «Oh, la tremenda —
gioia del vivere […]”; in un accesso di crisi compositiva, presso L. Settembrini
(e vedi, ad titolo d’esempio perché fino al 1893 le edizioni sono copiose,
Ricordanze della mia vita, Napoli, A. Morano, 1892, p. 168: “[…] Un lavoro di
composizione mi sarebbe impossibile, e da tanto tempo io .non sento più la
dolce febbre della composizione, che si chiama estro, ed è rapimento soave
[…]”); in un romanzo psicologico della Serao (cfr. Castigo, Torino, F.
Casanova, 1893, p. 239: “[…] e forse sorrideva loro, nella dolce febbre della
loro vita mondana, la speranza di poter prolungare quella bella stagione di
feste […]); in un testo di Svevo, e cfr. Una vita, Trieste, Libreria Editrice Ettore
Vram, 1893, p. 320: “[…] La lotta cui stava per accingersi era grave, e,
immediatamente dopo di essere vissuto nella dolce febbre che lo aveva fatto
vivere tra fantasmi cari, ne sentiva maggiormente l’asprezza […]”: in ambito
bizantino, in una descrizione dell’ispirazione d’un pittore, cfr. Cronaca
Bizantina. Volume 11 (1882 – 1883), Canova, Treviso, 1975, p. 237: “[…] sento il
polso accelerarsi e dolcemente venire in me la dolce febbre della creazione
[…]”.
200
307
Apparsa per la prima volta in La Nuova Rassegna, Anno II, N. 30, 15 Ottobre
1894, pp. 634 – 635, poi in Canzoni, pp. 113 – 115, con minime varianti di
punteggiatura. Il testo, che descrive l’inizialmente rabbiosa reazione d’una
donna tradita (la quale poi si scioglie di fronte all’autocritica dell’uomo), è
tutto giocato sull’utilizzo di terminologie guerresche, proprie del poema epico
italiano, pur se – rispetto alle canzoni lunghe ma anche al testo precedente – il
linguaggio appare sovente aduso ad un conformismo lirico di maniera,
recando traccia di prestiti dannunziani o comunque simbolisti. Si noti,
tuttavia, che la posizione di forza della donna rispetto all’uomo è designata
anche attraverso l’utilizzo di fonti religiose o giuridiche piuttosto infrequenti.
La situazione descritta dal poeta appare assai vicina a taluni antecedenti della
narrativa del tempo (e si veda, per esempio, la novella dannunziana Il
commiato, poi inclusa nel Piacere), cosa che appare segnalata anche da taluni
prestiti lessicali, più coerenti con il genre romanzesco che con le atmosfere
liriche proprie del montazzolese.
308
Il lemma, così come riportato da della Porta, è unico. Ma a voler cercare
l’antifrastico “fronte santa”, ci si accorge che esso è stranamente rarissimo: lo
si trova, infatti, in una traduzione settecentesca d’un trattato di Tertulliano
contro gli ornamenti femminili (cfr. Opere di Tertulliano Tradotte in Toscano
dalla Signora Selvaggia Borghini Nobile Pisana, In Roma MDCCLVI, nella
Stamperia di Pallade, appresso Nicola, e Marco Pagliarini. Con Licenza de’
Superiori, p. 369: “[…] Forse le spoglie d’un immondo, forse d’un reo e
destinato all’inferno collocate sopra una fronte santa e cristiana […]”).
309
Ci sono una enorme pletora d’occorrenze uguali, tutte d’ambito neoclassico
e primo romantico, riferite ad ambientazioni guerresche (anche in un contesto
eroicomico) e, assai più raramente, idilliche. Solo una manciata d’occorrenze
(a cui si sottraggono, ad esempio, i riferimento presenti nel Petroni, nel Ceva,
nel Muzzarelli, nel Paciaudo, nel Giulio e in un folto gruppo d’autori religiosi,
201
INDICE
PREMESSA p. 3
IL DATO BIOGRAFICO p. 11
1. Di nebbie e nuvole… p. 11
Licenza de’ Superiori e Privilegio, p. 133: “[…] Ma di qual novo raggio, angel
possente,/ Ti veggio accesi i lumi,/ E sfavillar la minacciosa fronte? […]”; nel
dramma Maometto di Voltaire tradotto da Melchiorre Cesarotti, e vedi, ad
esempio, Opere dell’Abate Melchior Cesarotti Padovano. Volume XXXIII, Firenze,
presso Molini, Landi e Comp., MDCCCX, p. 194: “[…] Ma con che sdegno,/
Con che severa e minacciosa fronte/ Maometto imperioso accusa e sgrida/ La
debolezza mia […]”; in un’elogio del Giovio – tradotto dal Domenici – nei
confronti di Carlo di Borgogna, e cfr. Gli Elogi. Vite Brevemente Scritte
d’Huomini Illustri di Guerra, Antichi e Moderni, di Mons. Paolo Giovio Vescovo di
Nocera etc.: Tradotte per M. Lodovico Domenichi (sic!), In Fiorenza, MDLIIII, p.
181: “[…] Costui che con severa, e minacciosa fronte con la spada ignuda e
con l’armi rilucenti par che voglia combattere, folgorando spirito Martiale, è
Carlo […]”; in un idillio dialogato del Marchetti, tradotto da Andrea Maffei, e
cfr. Canzoni del Conte Giovanni Marchetti. Idilli Tradotti dal Cavaliere Andrea
Maffei e Due Poemetti del signor Gio. Battista Niccolini, Napoli, 1830, p. 109: “[…]
Mira quel nembo, che pari ad un monte/ Sbocca dall’acque, e sovra il mar
procede/ Si dilatando in minacciosa fronte! […]”; in un altro poema epico
d’intonazione storica, e cfr. Semifonte Conquistata e Distrutta dai Fiorentini
nell’Anno 1202. Poema Eroico in Dodici Canti. Autore Giacomo Mini. Libro Primo,
Firenze, 1827, p. 130: “[…] La formidabil minacciosa fronte/ Elmo di bronzo
saldamente fascia,/ Che mai penètra, o su cui fisse impronte/ Dardo, o
quadrello il più sottil non lascia […]”; sempre in contesto bellico, cfr. Raccolta
Generale Delle Poesie Del Signor Commendatore dell’Inoiosa L CO. D. Fulvio Testi
cavalier di S. Iago. divisa in Tre Parte. Dedicata al Serenis. Principe. Cesare D’Este
Fratello del sereniss. Duca di Modena. Parte Prima, In Modena, per Bartolomeo
Soliani 1648, p. 103: “[…] schianta con destra forte/ Da la superba, e
minacciosa fronte/ del rivale Acheloo le corna Alcide […]”. Per quanto
riguarda la tipologia eroicomica, cfr. un’occorrenza nell’Asino di Carlo de
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Dottori, e vedi L’Asino. Poema Eroicomico di Carlo de’ Dottori. Con Argomenti,
Annotazioni, e Notizie dell’Autore, Vicenza MDCCXCVI, Per Gio. Battista
Vendramini Mosca. Con Licenza e Privilegio, p. 244 : “[…] Quand’ecco uscir
giovane Dama altera/ Con l’arco in man con minacciosa fronte/ Tra due che
paion Ninfe in corta gonna/ E la suora del sol parea la donna […]”; e La Rete di
Vulcano. Poema Eroicomico del Monaco Beda Ticchi. Tomo I, Siena, per Francesco
Boccioni, MDCCLXXIX, p. 122: “[…] Ma troppo mi sedusse il cuor guerriero/
La nobil vista dell’eccelso monte,/ Che ha sul duplice mar gemino impero/
Mentre alza al ciel la minacciosa fronte:/ Se i fati in cielo hanno predetto il vero,/
Là d’un eroe saran le glorie conte […]”. Tutto questo, a prescindere dalla fonte
primaria, evidentemente non individuabile, fa comunque comprendere che in
questo caso il della Porta ha voluto caratterizzare la scena tra i due (non più)
innamorati con un piglio guerresco, che vuol ricordare i combattimenti tra
cavalieri presenti nei poemi epici rinascimentali e manieristi della tradizione
nostrana.
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Il lemma, assai diffuso nella letteratura ottocentesca, ebbe fortuna anche
dopo (si reperisce persino in Francesco Jovine!). Tuttavia, per ragioni
cronologiche, ci si limiterà ad una duplice analisi, cronologica e tematica. E
dunque può notarsi come esso sia presente nel Piacere di D’Annunzio, e cfr. G.
D’ANNUNZIO, Il Piacere, Milano, Treves, 1889, p. 422: “[…] Egli la strinse di
nuovo fra le braccia, la stese, la copri di baci furiosi, ciecamente,
perdutamente, con un divorante ardore, senza parlare, soffocandole il gemito
su la bocca […]”; e nel Trionfo della morte, per cui cfr. ID., Trionfo della morte,
Milano, F.lli Treves, 1894, p. 465: “[…] Mi prese tra le sue braccia e mi copri di
baci furiosi, come folle, singhiozzando. Ella, nella strada, aveva avuto il
presentimento ch’io fossi precipitata da quella finestra! […]”; il lemma si può
anche leggere in G. ROVETTA, La baraonda, Milano, F.lli Treves, 1894, p. 334:
“[...] per farla tacere le chiudeva la bocca colla mano, ma Nora gliela baciava
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2. Le Myricae di Pascoli p. 94
Sessione del 1865 – 66 (IX Legislatura), dal 18 novembre 1865 al 30 ottobre 1866.
Seconda edizione Riveduta. Discussioni della Camera dei Deputati. Volume II, dal 26
febbraio al 7 maggio 1866, Firenze 1866, Tipografia Eredi Botta, Palazzo Vecchio,
pp. 1164 – 1165: “[…] andiamo a prendere del danaro dall’Italia, e poi
ritorneremo nel nostro covo a consigliare il nostro augusto padrone assoluto,
come si faceva chiamare quella triste anima di Ferdinando di Borbone [….]”.
Una citazione collaterale e successiva, ma d’una certa importante perché
presente in un autore già ben noto, è in Lucio D’Ambra, in riferimento a due
letterati francesi (Le opere e gli uomini cit., p. 58): “[…] E mentre l’uno dei due
fratelli ci dà tutta la soave od autunnale fioritura della sua triste anima
pensosa, l’altro ci riscalda e ci infiamma con tutto il calore del suo cervello
meditativo […]”; sempre in seguito, il lemma appare ne Le Vergini delle rocce di
Gabriele D’Annunzio, e cfr. ID., Le vergini delle rocce, Milano, F.lli Treves, 1896.
p. 398: “[…] Io congiungeva l’imagine della custode di erbarii fintami da
Oddo e l’imagine di quella triste anima errante intorno all’ orologio solare che
aveva segnato per lei l’ora della beatitudine invano […]” (il testo era stato
pubblicato originariamente a puntate sul Convito, di cui della Porta era
redattore, nel 1895). Sempre successivamente, si segnala, in una sorta
d’antifrastica citazione letteraria, il testo geografico di P. MOLMENTI – D.
MANTOVANI, Le isole della Laguna veneta, Venezia, F. Visentini, 1895, p. 181:
“[…] In un’isola come questa Giacinto Gallina pone la scena di Fora del
mondo, una delle più acute e felici rappresentazioni psicologiche del tempo
nostro, della quale ognuno di noi può sentire la verità quando porti la sua
triste anima […]”; in un testo di Giovanni Alfredo Cesareo a uso delle scuole,
e vedi ID., Storia della letteratura italiana a uso delle scuole, Catania, V. Muglia,
1908, p. 87: “[…] La sua originalità e la sua importanza propriamente consiste
nelle variazioni interiori, nelle paure, nelle gloje colpevoli, nelle angosce
rimorditrici , nelle lagrimose implorazioni , nelle tarde speranze di quella
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che fossero umidiccie, le passò sui calzoni più volte: quando furono asciutte si
levò con gesto calmo […]”. In seguito, ma sempre in ambito narrativo e entro
il secolo diciannovesimo, cfr. E.A. BUTTI, L’incantesimo: romanzo, Milano, F.lli
Treves, 1897, p. 376: “[…] egli interrompe, sorridendo, rassicurandola con un
gesto calmo e affettuoso. – Se tu temi, se dubiti di me, sei ingiusta. […]”; e,
finalmente in un contesto diverso, ma relativo a teorie lombrosiane (e dunque
per vie traverse vicino alla narrativa realista), cfr. L. FERIANI, Delinquenti
scaltri e fortunati: Studio di psicologia criminale e sociale, Como, O. Vittorio, 1897,
p. 359: “[…] Il ladro ha lo sguardo incerto, mobile, scilinguagnolo spedito,
gesto rapido, sorriso stentato, corpo snello: il truffatore ha lo sguardo
ipnotizzatore, la parola facile, suggestionante, il gesto calmo, misurato, il
sorriso pronto […]”.
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Prima di dare seguito a un numero enorme di geminazioni, il lemma trova
la sua origine nell’Orlando furioso di Ariosto, che lo usa due volte: “[…] A
Ferraù parlò come adirato,/ e disse – Ah mancator di fé, marano!/ perché di
lasciar l’elmo anche t’aggrevi,/ che render già da tempo mi dovevi […]” (c. I,
ott. 27, vv. 5 – 8, Rinaldo a Ferraù); e “[…] Un cavalier che di provar si crede,/
e fare a tutto ‘l mondo manifesto/ che contra lui sei mancator di fede;/ acciò ti
trovi apparecchiato e presto,/ questo destrier, perch’io tel dia, mi diede […]”
(c. XXXV, ott. 60, vv. 2 – 6, Bradamante a Ruggiero, per interposta persona).
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INDICE p. 203