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Sandro Zanotto, geniale irregolare

L’opera di Sandro Zanotto andrebbe integralmente riedita per leggerla magari all’insegna della
categoria della fedele testimonianza rispetto ad un mondo che andava ormai scomparendo
all’altezza degli anni Settanta del secolo scorso: il narratore, come il saggista, il critico o il poeta,
assolvevano infatti il compito di attestare che l’uomo può obbedire a valori diversi dall’utile,
dall’interesse o dal potere, ovverosia quelli eterni della bellezza, della grazia, della gratuità, in una
parola dell’arte e della poesia valorizzando tutto ciò che in apparenza non ha valore, a cominciare
dalla scrittura, sino all’apertura preferenziale agli ultimi (i contadini della più depressa e profonda
campagna veneta, insieme agli “irochesi”, ovvero uomini e donne di fiume o di valle, ai cavatori e
ai “bastardi” di Carrara, come ai marginali di ogni dove), ai luoghi splendidi in cui costoro
vivevano spesso in miserevoli condizioni, ossia l’Alta Padovana, il Polesine e tutte le aree
d’incrocio associate all’acqua e ai grandi fiumi, congiuntamente al litorale adriatico e all’ambiente
lagunare nel romanzo Delta di Venere o alla città toscana dei cavatori di marmo nella quale
Zanotto aveva trascorso un intero anno scolastico alla metà degli anni ’60 come ci attesta nel suo
“diario anarchico”, con pari attenzioni per gli oggetti più umili del quotidiano e persino per le
lingue degli esclusi, ovvero i loro dialetti nobilitati da Zanotto a registro lirico, per arrivare al culto
della poesia, forse la più disutile tra le arti.
A supporto di tale lettura, peraltro riduttiva qualora si rivelasse l’unica via d’approccio all’autore,
sta il fatto che era lo scrittore medesimo ad utilizzare in più occasioni il lemma “testimone”,
associandolo magari alla voce “funzionario”, ovvero alla variante veneto/pavana dell’uomo senza
qualità di Musil reificato a semplice ingranaggio dell’istituzione che egli rappresenta senza alcun
investimento nella veste di oscuro insegnante, che si rivela per contro fine intellettuale e poeta
irriducibile a qualsiasi accademia.

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A questo modo Zanotto manifestava altresì una visione della letteratura lontana anni luce da ogni
protagonismo mondano e da ogni assoluto, orfano di nobili padri ma senza alcuna nostalgia per
tale vuoto, condizione indispensabile, viceversa, per una consapevole elezione dei propri modelli,
in parallelo alla valorizzazione delle grandi potenzialità inespresse di quei territori e di quelle
lingue. Il suo diviene di fatto l’omaggio ad un mondo e ad una cultura ormai scomparsi, quelli
preindustriali delle nostre campagne, spazzati via dall’irrefrenabile avanzata della logica del
profitto ad ogni livello possibile, e il profitto non poteva tollerare l’esistenza di paradisi naturali
del tutto “improduttivi” quali risultavano le valli da pesca con le loro genti, le loro regole dalle
quali era bandito financo il concetto di proprietà privata o di recinzione, i casoni e il fitto reticolo
dei canali.
Come un rabdomante, o quei sismografi umani che sanno cogliere meglio di ogni altro certe svolte
epocali (Rutilio Namaziano, ad esempio, o Andrea Zanzotto), Zanotto ci restituisce nei suoi
romanzi o nel complesso delle sue liriche l’immagine imperitura di un universo che ci appartiene
fino alle radici, benché lo abbiamo colpevolmente distrutto e del tutto rimosso, venendo così a
collocarsi nel solco di una solidissima tradizione letteraria e artistica. C’è tuttavia un elemento
ulteriore che distingue Zanotto da chiunque altro ancorandolo ancor più saldamente alla
tradizione cui si faceva cenno. È lui stesso a manifestarlo nelle pagine del suo singolarissimo
romanzo-saggio La Venere del Buttini:
Nel malinconico bilancio del mio passato devo riconoscere che ho amato e sofferto solo quello che
sapevo che stavo per perdere. Quello che ho scritto non era che un epigrafe.
Peculiarità, come l’autore medesimo fa notare, che era stato Andrea Zanzotto a cogliere per primo
allorché coniava per la raccolta del trevigiano La fiora del vin la formula “una Spoon river dei vivi”
(in Sandro Zanotto, La Venere del Buttini. Diario anarchico, pp. 54-55). Ancora più marcato, nella
forma di un climax tematico dal primo all’ultimo dei suoi romanzi, è quel cupio dissolvi
strettamente intrecciato alla pulsione erotica che costituisce uno dei suoi stilemi distintivi. Gli
appartiene inoltre una naturale e congenita insofferenza per ogni autorità costituita, attestata
anche dal suo interesse per la tradizione dell’anarchismo, eredità che gli viene per via di sangue
dal bisnonno Davidegolia Zanotto emigrato in Argentina, col figlio Sandro al seguito, ai primi del
Novecento: senso di appartenenza a lontane radici nella consapevolezza di coltivare un’ideale del
tutto inattuale. Non è assente nella scrittura del trevigiano, a riprova della sua originalità e
ricchezza, una componente saturnina, visionaria e mitopoietica fortemente erotizzata attiva tanto
in poesia che in prosa (si veda, al riguardo, il romanzo Manoscritto rinvenuto a Villa del Conte),
una vena che attinge, per coniugarle insieme, tanto ai libri biblici, quanto ai capisaldi dei classici e

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del Barocco, come alla tradizione misterica orficodionisiaca o alla cultura popolare e
paganeggiante delle campagne venete, oltre che a studi socioantropologici.

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Se ne ricava l’idea di un geniale irregolare, molto sui generis, che contaminando codici linguistici,
stili e registri mirava fondamentalmente a mettere in luce all’insegna del grottesco le
contraddizioni e le ipocrisie, mascherate nei secoli, della più resiliente fra le classi sociali, ovvero
la borghesia, particolarmente radicata nel Veneto con intrecci a doppia mandata rispetto al potere
del clero e del denaro, nuovo “Tempio” moderno con uno stuolo di fedeli “Cavalieri” (benché la
metafora dell’Ordine, in Adone, opera che incarna una critica radicale ad ogni civiltà
dell’immagine, adombri anche lo sfacelo dell’istituzione scolastica, già seriamente compromessa
sul finire degli anni ’80), come alle sirene dell’omologazione consumistica, obiettivi prediletti per
gli strali acuminati del sarcasmo corrosivo di uno Zanotto calantesi nei panni di Adone, di
Casanova, o del Capitano Cook redivivi.

Nota biobibliografica:
Sandro Zanotto, nato a Treviso nel 1932, moriva a Padova nel 1996.
I suoi interessi spaziavano dalla storia e dall’antropologia del Veneto alla poesia e alla narrativa,
per spingersi fino alla critica d’arte e al giornalismo, ma anche alla navigazione nelle acque
interne e all’idraulica della pianura padana. Tra i suoi saggi o articoli, da ricordare quelli
contenuti in Immagine di Venezia, Galasso, Milano 1970; Polesine, Alfieri, Venezia 1971; Storia di
Padova in Il Veneto paese per paese, Bonecchi, Firenze 1984; la monografia Este: ritratto di una
città, Programma, Padova 1990 e la raccolta Proverbi pavani, Scheiwiller, Milano 1967.
Da segnalare, inoltre, il volume di Bino Rebellato, Passeggiate in bicicletta, disegni e didascalie
dell’autore con nota di Sandro Zanotto, Edizioni SL, Cittadella 1976.
Come narratore aveva pubblicato i seguenti romanzi-saggio: Manoscritto rinvenuto a Villa del
Conte Scheiwiller, Milano 1966; Delta di Venere, Rusconi, Milano 1975 (introduzione di André
Pieyre de Mandiargues); La Venere del Buttini: diario anarchico ’66-’67, Scheiwiller, Milano –
Pantarei, Lugano 1980, poi riedito da Scheiwiller nel 1996; Adone, Vallecchi, Firenze 1984.
Come critico d’arte si era dedicato all’opera di Tono Zancanaro e Primo Conti, oltre alla raccolta
degli scritti di Filippo De Pisis, pubblicati con vari editori.
Poesia in lingua: Basso orizzonte, Amicucci, Padova 1959, con presentazione di Giorgio Caproni; Il
funzionario testimonia, All’insegna del Pesce d’Oro, Milano 1975 (prefazione di André Pieyre de
Mandiargues e un’incisione di Tono Zancanaro); Lettere dall’argine sinistro, Piovan, Abano Terme
1986 (presentazione di Giacinto Spagnoletti con disegni di Orfeo Tamburi); Non è di queste acque,
Editoria universitaria, Venezia 1991.

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Poesia in dialetto: La fiora del vin. Storie venete, Padova 1960; El dì dela conta: poesie pavane,
Scheiwiller, Milano 1966; Aque perse, Lunarionuovo, Acireale 1985 (prefazione di Mario Grasso);
Insoniarse de aque, Editoriale Clessidra, Padova 1985 (prefazione di Livio Pezzato), poi Piovan,
Abano Terme 1986; Loghi de l’omo, Boetti & C., Mondovì 1988 (prefazione di Giovanni Tesio);
Antologia personale: poesie in veneto 1960-1993, Campanotto, Udine 1993 (prefazione di G.
Tesio); Dadrio del specio, Biblioteca Cominiana, Cittadella 1996 (prefazione di Fernando Bandini).
Ancora inedite le liriche di Cantoni del mondo.
Hanno ospitato suoi testi varie antologie sulla poesia dialettale a cura di Manlio Dazzi, Mario
dell’Arco, Fernando Bandini, Mario Chiesa, Giovanni Tesio e Matteo Vercesi.

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