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Coniugare i verbi fra le parentesi ai tempi e ai modi opportuni. E’ richiesto l’uso del passato
remoto indicativo come principale tempo storico della narrazione.
A) Quando rividi Marco, dopo tanti anni, per caso, in una piccola via del centro di Milano, quasi
non credevo ai miei occhi. Lo riconobbi per caso. Il suo viso, in fondo, non era molto cambiato,
anche se la magrezza e il peso di quello che aveva passato qualche anno prima lo avevano segnato
profondamente.
Ci eravamo incrociati ma non mi aveva visto tanto che, dopo averlo superato e aver capito che
era proprio lui, il mio compagno di università con cui avevo condiviso tanti bei momenti, tornai
indietro e lo fermai con un “Ciao, Marco…”.
Quando mi guardò, gli si illuminarono gli occhi. Proprio come quelli di un bambino che ha perso
la madre e, finalmente, la trova e le corre incontro.
Dapprima, non disse nulla ma mi abbracciò forte, dandomi delle pacche sulla spalla e ala fine mi
salutò: “Che sorpresa, Andrea. Sei proprio tu…”
Certo, quei dieci anni erano passati anche per me. Pensai a tutti i miei capelli grigi, a quei chili di
troppo che mi portavo ormai da anni e a qualche ruga che mi solcava la fronte. Ma tutto ciò era
niente in confronto a quello che il tempo e qualcosa che ancora non conoscevo, avevano fatto a lui.
Frenai l’impulso di chiedergli subito “Che cosa ti è successo?” e decisi di invitarlo a prendere un
aperitivo con me. Forse mi avrebbe raccontato lui come stavano le cose e infatti così fu.
B) Mentre sorseggiavamo il nostro aperitivo e mangiavamo gli ottimi stuzzichini che il cameriere
ci aveva portato, Marco mi chiese che lavoro facessi. Gli dissi che, dopo un’esperienza di cinque
anni nello studio legale di mio zio, avevo fatto il grande passo aprendo uno studio mio; che,
ovviamente, le difficoltà non mancavano e anche che, tutto sommato, stavo trovando la mia strada
e i miei clienti.
Notai che Marco mi seguiva con attenzione, benché di tanto in tanto abbassasse lo sguardo sul
bicchiere, facendo scorrere in dito medio sul bordo. Era come se stesse organizzando i suoi pensieri
per dirmi quello che, di lì a poco, mi avrebbe detto.
Infatti, quando ebbi finito di parlare e senza che glielo chiedessi, cominciò a raccontarmi degli
ultimi sei anni della sua vita che erano stati la causa di ciò che il suo volto scuro rispecchiava.
Mi fece davvero male sentirgli dire con una voce che non tradiva mai un’emozione che Enrica,
l’eterna fidanzata dai tempi del liceo, che aveva sposato un anno dopo essersi laureato e che gli
aveva dato due splendide bambine, era morta. Se n’era andata nel sonno, era andata a letto la
sera prima, apparentemente in’ottima salute, e non si era più svegliata.
Da adolescente, Enrica soffriva di una grave malformazione cardiaca e a diciott’anni si era
sottoposta a un delicato intervento chirurgico. Sembrava che il suo cuore non desse più problemi,
anzi, i medici dicevano che avrebbe avuto una vita normale, certo, con le debite precauzioni e con
controlli accurati uniti a cure medicinali.
C) Invece Enrica se n’era andata e la vita di Marco, da quel mattino, era quella di un uomo solo e
incapace di trovare una ragione per non sentirsi solo.
Mentre lui parlava, quasi mi sentivo colpevole di non riuscire a manifestargli quello che provavo.
Riuscivo a malapena a dirgli, di tanto in tanto, “Mi dispiace… Davvero, mi dispiace…”. Lo
ripetevo di continuo, come un automa, con l’aggiunta del fatto che un senso d’impotenza ero mi
paralizzava le membra e le corde vocali.
Ma Marco, no. Lui sembrava forte, deciso a raccontarmi fino in fondo quella terribile esperienza e
i giorni che l’avevano seguita. Aveva la forza di chi sopravvive a un evento a cui era impossibile
dare un senso.
Tutto d’un colpo, le difficoltà che disseminavano la mia vita privata e lavorativa mi sembrarono
microscopiche.
Ci scambiammo i numeri di telefono e gli promisi che lo avrei chiamato, ma non fu di lì a breve.
Passarono alcuni mesi prima che mia moglie quasi mi obbligasse a invitarlo a cena.
Era una una di quelle magnifiche serate di tarda estate, una di quelle in cui la luce e il tepore di
settembre sembrano essere perfettamente complici.
Marco arrivò con le bimbe, perfettamente in orario. Sonia, mia moglie, li accolse con un affetto che
trovai addirittura esagerato; più di una volta ho pensato che lei ci sa fare meglio di me in occasioni
in cui io mi sento imbarazzato.
Le bambine erano due piccoli capolavori e da come erano vestite, da come parlavano e si
comportavano, capii che Marco se ne prendeva una gran cura.
Giocarono a lungo con Meo, il mio vecchio gatto, che quella sera sembrava particolarmente
avvezzo a carezze e giochi.