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COP. Novaro Pioggerellina_tracc_NOVARO 30/06/16 18.

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Quaderni del Tempo

a cura di Giorgio Devoto

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Angiolo Silvio Novaro

La pioggerellina di marzo e
altre poesie
a cura di Stefano Verdino

Edizioni San Marco dei Giustiniani


in Genova

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Il poeta perduto

Angiolo Silvio Novaro ebbe molto successo nel


ventennio 1910-30, quando poté essere gustato da
molteplici lettori come un vero e proprio successore
di Pascoli (di un Pascoli «domestico» - fanciullo, quello
comunque più vulgato). Novaro fu poeta dei fanciulli,
ma nell’Italia deamicisiana e perbene questo voleva
dire molte cose. Non si trattava solo di comparire con
frequenza nei sussidiari della scuola elementare e
media (a cui anche collaborò come autore), essere
mandato a memoria per varie generazioni almeno con
la celeberrima Pioggerellina di marzo. Le sue poesie
«per i piccoli» (ovvero Il cestello, 1910, che gli diede
la fama) non sono semplici manipolazioni del
linguaggio e dell’incantato fiabesco, come forse
richiederebbero poesie per l’infanzia, ma hanno
sempre una effusa seduzione melodica per lo più con
finalità educativa: dalla presa di contatto con gli
elementi della natura all’esaltazione del sentimento

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materno alla devozione religiosa alla fratellanza, fino
al primo avvio «dei piccoli» verso le basilari figure della
storia sacra e patriotica, come San Francesco e
Garibaldi.
La delibazione idillica della campagna, che tanto
piace nella vasta provincia dell’Italia di allora, la
salvaguardia di valori-miti nazionali come il mammismo,
la buona fede, l’amor proprio unito alla fratellanza
coagularono una miscela perfetta e già collaudata (da
De Amicis), ma nuova per i godibili e scaltri ritmi di
zucchero, tanto da imporsi popolarmente a una folta
schiera di maestri, educatori, famiglie borghesi e
perbene, grazie all’abilità di leggere nell’armonia agile
del verso quello che si può così pacificamente
condividere. Tutto questo spiega il successo popolare e
scolastico di Angiolo Silvio, e anche, per contrappasso,
la sua brusca obliterazione in un secondo Novecento,
così tanto lontano e diverso dalla sua stagione di
consenso e che nella propria genealogia poetica da
tempo ha piuttosto iscritto il fratello minore Mario e la
“Riviera ligure” (fondata da Angiolo Silvio, ma poi
diretta e gestita per vent’anni da Mario).
Ma davvero la poesia di Angiolo Silvio è da buttare?
In fondo la memoria dei più anziani è tutto sommato
grata per quella Pioggerellina, felice variante in semi-
filastrocca della Pioggia nel pineto, e forse può valere la
pena di una ripresa d’attenzione per uno scrittore che

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esordì come narratore nell’ambito del Verismo, con il
plauso del Verga1, il quale, solo per il giovane Novaro,
mostrò gradire l’inserzione così “naturale” di un
“carattere” lirico nell’ordito narrativo2. Novelle e
romanzi occuperanno a lungo il Novaro, ma la sua vena
si trova nei territori meno battuti della lirica: dopo le
poesie per i piccoli, ecco la prosa lirico-sentimentale di
Il fabbro armonioso (1919), dialogo intimo con l’unico
figlio Jacopo, ucciso in guerra, testo forse troppo trepido
e commosso, ma con alcune pagine d’intimo sfogo che
tuttora resistono a rileggersi. Se la replica delle prose
liriche di Dio è qui (1926) non mi pare produca frutti
significativi, meritano tuttavia di essere riletti in parte i
versi di Il cuore nascosto (1920) e qualcosa da Il piccolo
Orfeo (1929), ma soprattutto Tempietto (1939, postumo),
da premiare decisamente3 (una certa attenzione va
tuttavia prestata alla biografia in versi di Maria in La
Madre di Gesù (1936).
Uomo meno disattento all’evolversi del gusto, di
quanto si supponga (e ne sono prova le lettere scambiate
con Quasimodo ed edite da Archinto nel 1999), l’ultimo4
Novaro riduce sensibilmente il suo collaudato effetto
di tenera ed elegante commozione per rilevare un
maggior edonismo nel puro e semplice godere
dell’armonioso spettacolo di natura, emancipandosi dal
suo tipico e troppo rugiadoso liberty per una linearità
decò, sobria quanto musicalissima, con versi di minime

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sillabe. In Tempietto è una poesia dell’arabesco che vien
fuori, grazie alla sua attitudine polizianesca5 (o tagoriana,
secondo uno sfottimento a suo carico6) di ricreare una
sensazione di totalità armonica dentro un dettaglio, spesso
con il sigillo di un’immagine di movimento. Frutto di
manierismo e calligrafismo impressionista, la sua vuole
essere una poesia dell’estasi, dove l’infantilismo
pervicacemente ricercato è sì la ricreazione d’innocenza,
di pascoliana memoria, ma senza quella irredenta
nostalgia. Non mancano momenti di tinta scura (si veda
la notevole poesia di guerra Campane di Natale, scritta
nel ‘15) e per di più la sua offerta celeste e dorata,
musicalissima, sa pure, ritmicamente, la lieve dissonanza;
ma dominante è l’innocenza liturgica, indispensabile per
l’abolizione di io e realtà al fine del godimento epifanico
e beatifico del mondo in termini di intima stupefazione.
E in questo tratto a suo modo “miracolistico” una
qualche suggestione esercitò perfino su Montale. Non ci
furono tra i due rapporti, anzi Montale in privato e in
pubblico fu nemico della poesia del ligure più anziano:
per non dire di cenni in lettere, vedi la stroncatura di Dio
è qui che “l’Ambrosiano” non si sentì di pubblicare7. E
tuttavia più volte gli esegeti montaliani (da Gaetano
Mariani a Tiziana Arvigo, di recente8) hanno riscontrato
tracce, principalmente da Il cuore nascosto: ed in effetti
l’apertura di La mia musa ci fa venire in mente i poco
successivi e celeberrimi I limoni ed alcune formule

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montaliane doc («il sole che abbaglia», «Ti libero la
fronte», ecc.) traspaiono, intermittentemente, dai
melodici versi di un Novaro, da lui ufficialmente assai
detestato9.

Stefano Verdino

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Note

1
Angiolo Silvio Novaro rimase sempre legato a Verga: nel
1920 collaborerà con un pezzo (Beata solitudo) per lo spe-
ciale curato da “L’illustrazione italiana” in occasione degli
ottant’anni dello scrittore siciliano e nel 1933 scriverà una
lettera al “Corriere della Sera” (Giovanni Verga e la gloria,
scritta da Imperia il 28 maggio e pubblicato sul quotidiano
del 30 maggio), ad integrazione dell’articolo di Lucio d’Am-
bra comparso giorni prima e relativo alla prima notizia del
carteggio tra Verga e Dina di Sordevolo (Giovanni Verga e
un’amica milanese, “Corriere della Sera”, 27 maggio 1933).
Novaro vuole precisare «il distacco del grande siciliano dal
comune tipo del letterato», ricordando un aneddoto («Ad
un giovane letterato che, recatosi da lui per insistere [affin-
ché partecipasse a manifestazioni in suo onore], parlava di
‘eccessiva modestia’, Verga voltandosi irritato scattò: - E se
fosse sdegno?») e una personale memoria: «Ed io che lo
vidi a Roma un anno prima della morte, un giorno in Sena-
to, potei, da qualche frase appena sussurrata, misurare tut-
ta la scontentezza di quel magnanimo che nulla ormai pote-
va consolare dall’avere così a lungo dovuto aspettare il pre-
mio troppo ben meritato da chi, lavorando in assoluta purità
d’ardore, aveva regalato all’Italia un’opera immortale».
2
Così Verga gli scrive da Vizzini il 31 dicembre 1888 a propo-
sito delle novelle di Sul mare: «Egregio Signor Novaro, ho
letto e riletto il suo volume, e gliene parlo con vero compia-
cimento. Non so quale accoglienza avrà dal pubblico e dalla
critica, tanto più che tipograficamente non tira molto l’oc-
chio al soffietto. Ma c’è uno schietto sentimento delle cose
che innamora e dà all’opera d’arte una grande sincerità. Sul
mare e Come Veronica portava la croce mi piacciono special-
mente e badi ch’io non son facile all’entusiasmo, se un certo

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lirismo che c’è qua e là nel suo stile offende il senso obbietti-
vo dell’immagine serena della realtà, ai miei occhi. Ma cotesto
carattere in lei è così schiettamente naturale che diventa anzi
un’altra attrattiva della sua fisionomia di scrittore e dimostra
quanto siano anguste tutte le teorie che vogliono restringere
in una forma il sentimento e l’espressione dell’arte. Ella ha
perciò la dote più spiccata d’artista, la personalità, e l’indivi-
dualità sua. Vada avanti coi suoi piedi e pensi alla sua lotta. È
il miglior augurio e il miglior complimento che io posso far-
le. Colla medesima franchezza devo dirle che avrei voluto
più curata la lingua e che certi particolari di Soave soggiorno
(pag. 78 e sgg.) e di Notte ansiosa (pag. 52) avrei evitato. Io
sono abbastanza di manica larga, ma quando gli ardimenti
hanno una importanza e una necessità artistica che li salvi
dalla volgarità, e che qui non hanno. Veda, dagli appunti, se
son franco e sincero nella lode e se mi congratulo cordial-
mente con l’autore di Sul mare. Suo G. Verga» (edita in ap-
pendice a S. Verdino, Angiolo Silvio Novaro: il poeta perdu-
to, “Poesia”, XV, Settembre 2002, 164, p. 25).
3
Cfr. S. Verdino, A. S. Novaro: L’impossibile arcadia, “Il Verri”,
1, 1991, pp. 145-156. Dello stesso parere è Stefano Pavarini
nelle pagine dedicate ad Angiolo Silvio Novaro nel capitolo
Saba, Ungaretti, Quasimodo, l’Ermetismo della Letteratura del
Novecento edita dalla Salerno (Roma 2000, pp.477-8), che
segna altresì il ritorno di una qualche attenzione per Angiolo
Silvio in una complessiva opera di storia letteraria del Nove-
cento italiano.
4
In realtà non si hanno al momento notizie sui tempi di com-
posizione di Tempietto, ma non pare un libro solo della vec-
chiaia, dal momento che alcune liriche risalgono agli anni
Dieci, come ad esempio proprio il testo di chiusura Campa-
ne di Natale apparso su “L’illustrazione italiana”, XLII, 52,
26 dicembre 1915.
5
Nel 1925 presso “Treves” curò la scelta di Le più belle pagine
di Poliziano.

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6
«Tagore della Riviera di ponente» fu l’epiteto denigratorio
con cui lo staffilò nella sua rubrica “Frusta letteraria” un
genovese Aristarco Scannabove (alias Mario Tarello) sulla
rivista antifascista “Pietre”, II, IV, aprile 1927, p.124.
7
È il testo in cui Montale, additando il «manierismo rovino-
so» di Dio è qui, profila tutto Angiolo Silvio: salvato solo per
«una sottile vena in minore, dedotta dal Pascoli» per Il cestello
e La bottega dello Stregone; «trucco» e «cifra» sono evidenti
nel Fabbro armonioso e in Il cuore nascosto, infine le «pagine
gelide e artificiali di un misticismo dernier cri» di Dio è qui
ripugnano, nel loro esibizionismo, il poeta cultore di un Dio
nascosto e indicibile (questa «nota stroncativa» – come Mon-
tale scrive a Debenedetti – si è letta la prima volta nell’edi-
zione mondadoriana Il secondo mestiere, a c. di G. Zampa,
pp. 3101-3).
8
T. Arvigo, Guida alla lettura di Montale Ossi di seppia;
Carocci, Roma 2001, p.32.
9
Da parte sua Novaro lesse il Montale degli Ossi nell’edizione
Carabba del 1931; l’esemplare tuttora custodito in Casa Rossa
ha vari segnature (In limine, I limoni, Falsetto, Ripenso il tuo
sorriso, Mia vita a te non chiedo – dove Novaro a v. 5 annota
“Leopardi”); in Flussi e Clivo le sottolineature rilevano i ri-
chiami fonici (“riale-roggio”, “scoscende-discende-fende”,
“stanza-speranza”; “mani-rami-nani”; “trema-scema”); per
Flussi Novaro annota una personale variante (“nell’edera ac-
cesa” invece di “nell’accesa edera”).

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Poesie

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da “Il cestello”
Poesie

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I mesi dell’anno

GENNAIO mette ai monti la parrucca,


FEBBRAIO grandi e piccoli imbacucca;

MARZO libera il sol di prigionia,


APRIL di bei color gli orna la via;

MAGGIO vive tra musiche d’uccelli,


GIUGNO ama i frutti appesi ai ramoscelli;

LUGLIO falcia le mèssi al solleone,


AGOSTO, avaro, ansando le ripone;

SETTEMBRE i dolci grappoli arrubina,


OTTOBRE di vendemmia empie la tina;

NOVEMBRE ammucchia aride foglie in terra,


DICEMBRE ammazza l’anno, e lo sotterra.

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Che dice la pioggerellina di marzo?

Che dice la pioggerellina


Di marzo, che picchia argentina
Sui tegoli vecchi
Del tetto, sui bruscoli secchi
Dell’orto, sul fico e sul moro
Ornati di gèmmule d’oro?

- Passata è l’uggiosa invernata,


Passata, passata!
Di fuor dalla nuvola nera,
Di fuor dalla nuvola bigia
Che in cielo si pigia,
Domani uscirà Primavera
Guernita di gemme e di gale,
Di lucido sole,
Di fresche vïole,
Di primule rosse, di battiti d’ale,

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Di nidi,
Di gridi
Di rondini, ed anche
Di stelle di mandorlo, bianche...

Ciò dice la pioggerellina


Di marzo, che picchia argentina
Sui tegoli vecchi
Del tetto, sui bruscoli secchi
Dell’orto, sul fico e sul moro
Ornati di gèmmule d’oro.

Ciò canta, ciò dice;


E il cuor che l’ascolta è felice.

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da “Il fabbro armonioso”

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Non mi sono saziato abbastanza di te

Non mi sono saziato abbastanza di te.


La mia sete e la mia fame le nascondevo come una
debolezza e un peccato.
Per arricchirti costringevo me e te in miseria.
Potevamo soffermarci, con la mamma, rifiatare un
poco, assaporare il riposo d’un’ora, voltarci indietro,
compiacerci a misurare la strada fatta: ci siamo proibiti
anche questo. Per timore di sminuirti, per amore del
“più lontano”. Rimandavamo a più tardi, quando tu
saresti finalmente e interamente tu, e ti saresti da te
stesso dettata la legge, forse più rigida e implacabile
ancora.
I grappoli sospesi alla vite gli avremmo colti or ora.
Non avevamo che allungare la mano. T’avevamo dato
uno e tu ci restituivi cento.
E ora io piango tutto ciò ch’era tuo, che ti ho tolto,
e mi avanza, come il seme non seminato in tempo, che
invecchiò sul solaio. Le tenerezze che la mamma ed io
mettevamo da parte per offrirtele poi tutte in una volta,
le portiamo tutte qui dentro accumulate che ci fanno
un carico e ingombro e il cuore non le può contenere.
Le nostre braccia oppresse di doni si tendono nel
vuoto. I doni non sappiamo dove deporli e braccio e
cuore si schiantano.

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L’edera che incorona la porta

L’edera che incorona la porta ha buttato durante la


nostra assenza: la ritrovo tutta sveglia delle fogliette
lustre apertesi lungo il gambo rugoso.
I pini sono cresciuti sregolatamente come i
ragazzoni allampanati dal travaglio della pubertà che
non sanno come atteggiarsi e le braccia troppo lunghe
gl’impacciano. Rubano sole al prato che intristisce e
lo ricoprono degli aghi rossi che il vento o la pioggia
poi raccoglie e ammucchia qua e là. Ciò mi attrista
come se tu seguitassi a morire.
La bufera ha fatto guasti. Il capanno sconquassato
tentennava: è bisognato demolirlo. E il rosaio che ci
strisciava su, siamo stati in angustia per la sua sorte.
Tu non sai con quale superstizioso affetto siamo attaccati
alle cose che furono testimoni della nostra felicità e
ancora ne serbano l’ombra e il profumo.
Ma il rosaio, la mamma trovò modo di salvarlo.

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Uscire dal dolore

Uscire dal dolore come il convalescente dalla stanza


dove lo inchiodò il male, a prendere un po’ di sole, a
respirare dell’aria sana, a passeggiare per le strade,
spettatore delle cose e del movimento degli altri, finché
a poco a poco il gusto della vita gli torna, ed egli lo
riceve come un dono insperato.
Ma quando io cerco d’uscire, il mio passo esita.
Il sole non ha tepori né allettamenti. Gli alberi non
verdeggiano per il piacere dei miei occhi. I giuochi
delle nuvole d’oro mi sono indifferenti. Ogni lusinga
è svanita, ogni magia è caduta. Desidero qualcosa che
non so, che mi tragga violentemente fuori di me, dove
io possa annegare il mio vecchio io disamorato.
L’anima mia sta legata ai tuoi piedi nell’altezza dove
tu l’hai levata. La tua immagine è la mia condanna e la
mia difesa. La tua figura è il mio limite, la mia barriera.

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Le vie che salgono le guardo con arsura e rodimento.
Balzare là dove si respira a pieni polmoni, veramente
liberi, assoluti, non me ne sento la forza.
E in questo mio ondeggiare e voltarmi intorno a
me stesso e ritrovarmi chino sulla ferita che non si
richiude, in questo senso d’impotenza incurabile, è la
mia costernazione più nera.

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Conforti

Mi dicono, Chi misura il tuo sacrificio t’invidia.


E non sanno che non c’è bilancia capace di pesare
il mio dolore, né orgoglio cosi fiero da poterlo
temperare.
Mi dicono, Perché lo piangi? Quale più bella morte!
Non sanno quale sarebbe stata la vita. Ciò che ti
restava a compire. Tutto il bene che ti portasti chiuso
nel pugno, e per sempre.
Mi dicono, Era troppo puro e questo mondo è
troppo malvagio. Pensa gli ostacoli le delusioni le
amarezze gli abbattimenti!
E non sanno che disconoscono le tue migliori virtù,
la tua formidabile volontà, il tuo divino equilibrio:
questo tuo saldo stare coi piedi sopra la terra e il capo
fra le stelle nutrendoti dell’aria e della luce delle alture.
Mi dicono, Il tempo ti guarirà.

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E non sanno che il tempo non può più nulla togliermi
né nulla darmi. Che questo dolore è la mia unica
sorgente di vita, e perderlo sarebbe un nuovo e più
disperato morire.
No! Solo quelli che mi dicono, Non c’è conforto
possibile, mi dànno un reale conforto. Essi indovinano
il mio cuore, e non ardiscono entrarvi. Lo sfiorano, e
si allontanano.
Solo essi mi danno un reale conforto.

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da “Il cuore nascosto”

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34
Come cenere

Come cenere vïola


La sera monotona cade
Lungo l’abbandonate strade.

Dai seni de’ cieli ove l’anima vola


Sperduta,
Una tremula stella sola
Ti saluta
Ti consola.

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Ti chiamò forse il mattino

Ti chiamò forse il mattino?


Tu venisti al balconcino
E ora stai presso i nidi
Vicino al cielo ove s’intaglia
Il tuo profilo, e sorridi
Trasognata…
O di che mai?
D’un segreto che tu hai
Chiuso dentro e ti godi,
O del sole che ti abbaglia,
Ti lusinga in vari modi
E ti scalda nuca e piedi?
Dei prati d’oro che rivedi,
Che scorrono oltre l’aria azzurra
Dove il vento pianigiano susurra?
O della pace
Dove l’anima si affonda

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Consolata e si compiace?
Delle rondini irrequiete
Febbrili attorno alla gronda
O della passera loquace
Che strilla in cima all’abete?
In questi silenzi fini
Dove stupefatta ti chini
Come sopra un altare
Ad ascoltare
Se mai parlino i destini,
O d’una farfalla
Smemorata che balla
Il minuetto fra i gelsomini
E prova se l’aria la culla?
D’un miracolo o di nulla?

Oh forse tu stessa lo ignori!


Ignori il tuo senso, che cosa
Ti cerchi nel fondo o ti sfiori
Il cuore con minimi tocchi
E in cima ai tuoi labbri trabocchi!
Che importa? – Io ti bevo con gli occhi:
Mi piaci mentre sorridi
Vestita della fiorita vestaglia
Vicino al cielo e ai nidi
Nel sole che ti abbaglia.
Così bella mai non ti vidi.

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Mi piaci come l’amante
Novella, come la sposa
Di ora, come la fanciulla
Che serba all’amante
Il suo cuore nascosto, il fragrante
Profumo del suo mistero.

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La Musa mia

La Musa mia schiva le strade


Rettilinee e polverose
Che la folla variopinta invade,
Ma ricerca i viottoli foresi
Bordati di ramerini e di rose
Di tutti i mesi
Che rampicano in collina
Dove tra rama e rama indovina
Il fresco tremolar della marina.

La mia Musa cammina


Con un fiore montanino in bocca
Pei mattini intirizziti d’argento
Che il rumor dei passi è spento;
E quasi terra non tocca,
E per buccole ha una ciocca
Di ciliege che le dondola agli orecchi,
E per rimirarsi ha gli specchi
Qua e là d’una pozza cilestrina.

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Dorme sotto una pergola di stelle
Frammezzo un carezzevole fruscìo,
E nel sonno fantastica misteri
Di parole da dire a Dio tutte belle,
E si sveglia nuova d’oblio
Con un grillo nel seno o una viola:
Beve dell’acqua delle fontanelle
Coglie ai rovi le dolci dolci more,
E canta per grazia d’amore.

Canta e ignora quale amore


Le insegnò cantare!
Il melodico sdrucciolare
D’un’acqua in cuna di pietra viva
Che dietro se la rapiva?
O il sonoro arpeggiamento
Che tra gli aghi dei pini fa il vento?
La passera o l’usignuolo, la rana o il mare?
Le povere cose senza nome o le grandi e rare?

Ma quando ammutisce, e rimane


A sedere sulla porta della sera
Che l’aria tra poco annera
E la valle affonda e smuore
Tra freddolosi addii di campane
E brividi di foglie vane,
Una sperduta malinconia

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Una tristezza che non sa che sia
Le prende il cuore:

Si rammenta d’un tempo e d’un bene


Che il destino gli ebbe uccisi,
Aspetta un dono promesso che non viene,
Pensa un cielo e una riva
Dove il cuore non il piede arriva,
Sogna il Giordano e il Gange
E la collina d’Assisi
Ventilata d’ali d’angeli:
E piange.

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Parole alla luna

Ti liberi dal groviglio


Di nuvole che t’impaccia:
E bianca, più bianca di un giglio,
Mi mostri la nitida faccia:

E guardi fra i tremuli orrori


La casa gli ulivi i cipressi,
E fissi le siepi ed esplori
I ciechi e dubbiosi recessi.

Che cerchi? - silenzio e abbandono


Possiede le cose a noi care.
Non vive, sospeso, che il suono
Monotono del mare.

De’ trilli e de’ voli non resta


Che un’eco, una traccia sanguigna:
La ghiaia che ieri fu pesta
Si copre di avara gramigna.

42
La casa che argentea tu bagni,
Che attonita illumini, è chiusa:
Vi filano e tessono i ragni:
Uscì la domestica musa.

Son solo: disgiunto dai vivi,


Disgiunto dai morti cuori,
Discorro d’essi con gli ulivi
Che ascoltano assorti.

Che cerchi tu dunque? - Oh rimani


Dove l’ombra t’impaccia
Tra il nodo de’ nuvoli strani,
E volta da me la tua faccia:

Che nulla o sorella mia muta


Fra tanto abbandono è più triste
Di questo tuo sguardo che scruta,
Di questo tuo sguardo che insiste!

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da “Il piccolo Orfeo”

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Gentilezza di luna nuova

La dolce e delicata luna nuova


Uscita fuori dal turchino mare
Sopra il tuo cuore la sua grazia prova:
Ti guarda con intente iridi chiare
Bacia a lungo il tuo freddo limitare
E sembra che ti voglia consolare
Delle tristezze che il silenzio cova.

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da “La madre di Gesù”

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A punta di mattina
S’alza la spica d’oro del grano
E a Lui tremula s’inchina:

Fiori di melograno
Piovono da occulti rami
E l’avvolgono di fuoco.

Canta il gallo roco,


E dall’onda dei capelli
Leva il Bimbo gli occhi puri belli
E mormora il tuo nome.

Primi oscillanti passetti brevi


Bilanciando le fragili braccine:
Ansia, tremore, aperta gioia infine
Che il rapito cuore sollevi!

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Staccato dal tuo seno
Sgambetta tra i papaveri del fieno,
E lo riveste il sole d’oro fine.

O Maria Maria raccogli,


Stipa la messe nella memoria
Felice, ponila in serbo
Per quando carestia
Verrà dei giorni di sole spogli
E grevi della gloria
Del duolo acerbo!

E all’ora di stella riposa


Su la gèmina gota rosa.

Gli angeli vedono i tuoi pensieri


Notturni in campo d’amore,
Li compongono in panieri
D’oro, e gli offrono al Signore:

Ma tu riposa
Su la gèmina gota rosa!
[...]

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Rondini in cielo viola
Guizzano come spola.
Tace il coro dei soavi
Inni degli avi
Mentre allato alla fontana
Sosta la carovana.

Legaste giumente e cammelli


Ai tronchi degli ulivi,
Piantaste le tende, e ivi
La luna lusinghiera
Invase il bosco a ruscelli:
Ma il Figlio tuo dov’era?

Lo chiami tremante e richiami,


Ne chiedi affannata ai vicini,
Su fossi e cespugli ti chini,
Lo cerchi in intrichi di rami:
Ma sola rimani, piú sola,
E sale sui labbri ti cola.

53
Nessuno ahimè lo vide,
Nessuno di Lui seppe,
Nessuno a te rimena
L’agnello smarrito. Serena
La luna guarda, ma in pena
La tua povera carne stride.

E ora o Maria che farai?


Senza degli inni il coro
A Jerosòlima ritornerai,
E lagrimando per ogni poro
Il celeste tesoro
A Dio ridomanderai.

Mentre su l’erba stesi


Dormono i pellegrini, tu con muti
Piedi, e occhi intenti e accesi
Corri, e correndo scruti
L’avviluppato cammino, e intanto
Trangugi il salso pianto.

Cadde alfine la luna.


Da l’alba avara scosse
Si spensero le stelle a una a una,
E in cima al colle spanta
Levò la Città santa
Mura d’aurora rosse.

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da “Tempietto”

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Giungesti

Giungesti. Posa un momento


E affacciati mentre tace il vento
E spersa delle nuvole è la greggia
E tutto è intento
Silenzio.

Il mare che lampeggia


E di gemmea verdezza riluce
In vastità serena,
È più grande dall’orlo della rupe,
È più bello dal colmo della vita
Dove tu il rombo dell’eterno odi;
E la scena
Che i tuoi occhi incatena,
Fuga d’onde su onde infinita,
Immemore ti godi.

57
Fosforescenti

Fosforescenti
Città di lusso
Ricche in occulte vene
Di sangue di tesori
Multicolori
Natanti al ritmo di vari
Lusinghevoli venti
Passeggiano i notturni mari
Arano dritto e storto
La faccia degli abissi
Ricercando con occhi di cubia
Aridi e fissi
La grazia d’un porto
Dove sbarcare peso morto
E contrabbando di malinconia.

58
Vento

Fosco
Trasale il bosco
Sotto la voce del vento.

Tremano i pini e abbattonsi


Torturati, e gli ulivi
Sgranano delle foglie
I triti argenti
Con lamenti
Di tizzi spenti.

Il mare scudisciato
Rabbrividisce
In grovigli di bisce
Sbuffa bianche pecorelle
Impaurite che l’una incalza l’altra
Come gregge scompigliato
Dalla verga del pastore.

59
Sorpreso in sonno l’uomo
Balza sgomento
Che fredda sente
Alle reni la lama del destino:
Fugge e a mezzo cammino
Gli cade il cuore.

60
Freschezza azzurra

Freschezza azzurra
Effusa chiarità
Luce infinita
Da non so quale
Miracolo esplosa.

Silenzio
A pace
Si sposa

Un veliero
Sulle tremule
Acque senz’orme
Con l’ali aperte
Dorme

61
Né foglia né fiore
Nel bosco
Si muove.

Pensiero
Segreto rema
Verso un come
Verso un dove
E nel profondo
Trema.

62
Va come paglia

Va come paglia a volontà di vento


In cieco stordimento
Il desio volto a nulla
Guarda la nube che in cielo si culla
L’uomo che vola, il vento che mulina
La polvere alla svolta della strada
E quando il giorno cada
S’ingolfa dentro la città regina
E tra piogge di luci di bengala
Tedio e stanchezza esala.

Nulla trova che gli riempia


La vita scempia
Da sé lontano, in sé discorde
Cammina invano
Acqua non ha che spegna
La sete che lo morde

63
Ha freddo e non ha legna
Da riscaldarsi l’ossa
Vacilla come il vecchio
Su l’orlo della fossa.

Deluso torna alla dolce casa


Ghirlandata è la cimasa
Di rondini nel lucido mattino
Le fedeli memori cose
Che il tempo in alta sicurezza pose
Ridono nel quadro antico
Giovini piú che non dico
E il rosaio che pasce il morto cuore
È carico di rose.

64
Taci non li svegliare

Taci, non li svegliare


E covali dolcissimi ricordi
Lasciali se tu pure
Ami dormire in pace
E il chiuso labbro mordi:
Di là dal tempo, sordi
Nelle segrete arene
Del cuore naufragato
Senza voltare lato
Dormono così bene.

65
Ilarità

Ilarità, gioioso impeto e grido


D’albero inghirlandato
Di fiori entro gabbia
Di lucidi labili fili
Di pioggia
Arpa sorvolata
Da dita femminili.
Spaccasi il cielo e versa
Dovizia di fuochi
Sul mare bello a coda di pavone.
E tu rinasci, adolescente cuore,
Rivive la fatata età lontana,
Voci care che il tempo invido rose,
Mentre una margherita
Trema tra le dita
(M’ama? Non m’ama?)
Fanfara di trombe d’oro

66
In profumate sere
Squillano, e cuore gonfio
Chinasi a bere
Acqua innocente di sogni,
Ombre passeggiano la dolce terra
Vestite d’adorati nomi
(M’ama? Non m’ama?)
S’imbigia il cielo e ogni beltà divora,
Cenere grigia cenere nera
Fuma ove ieri esplose aurora
Invano volgesi e chiama
L’adolescente cuore
Invano scruta e spera
Di qua dal mugghio della bufera,
Mentre sull’albero esile fruscia
Pioggia leggiera.

67
Io la chioma del pino

Io la chioma del pino che il sonoro


Vento ara
E m’impara
Effusi in sillabe d’oro
Misteri che assaporo,
Io la barocca nuvola bella
Che fuggitiva incastella
In pomposa architettura
L’incandescente figura
Solare,
Io la veste di seta cangiante del mare,
Io la gocciola che prima
Crepita a maggio su l’aperta foglia
Della vite, io la conchiglia
Soave come il lobo dell’orecchio
Infantile che la maretta
Rovescia sulla sabbia

68
Perché n’abbia
Qualcuno maraviglia,
Io l’insonne pellegrino
Vagabondo d’amore
Che d’ogni creatura
Si fa specchio
Si fa mondo
Si fa nido casa e cuore
E l’abbraccia come il cane
Le ginocchia del pastore,
Entra e trova pane e vino
Suono a gloria di campane
E conforto di destino.

69
Come peso d’inutili foglie

Come peso d’inutili foglie


Che il respiro autunnale
Dall’albero distacca
E in cumuli di ruggine raccoglie
Cadranno i ricordi del male
E su l’ignudo tronco del cuore
Vergine di memorie resterà
Unica luce unica gloria
La rossa bacca
Della felicità.

70
Campane di Natale

Campane di Natale
Che vale
Sonare a distesa? - Gesù
Non c’è più!

Odo la squilla
Che oscilla sul gregge dei tetti
Stretti intorno alla pieve,
Tremola in cuore ai cadetti
Mortali, erra lungo la valle che beve
Il silenzio, dove le foglie
Scolorita allegrezza dell’anno
Il vento preciso le incoglie
E si distaccano, e vanno!
Odo la squilla
Che oscilla soave.
Sopra i culmini mitrïati di neve

71
Ave ridice, ave,
E si perde nel seminio delle stelle
Per i disabitati e nudi
Margini dell’infinito.

Odo l’annunzio e l’invito


Vedo il santo presepe,
Maria e San Giuseppe,
L’asino e il bue che fumano col fiato
E i pastori che fanno siepe
Uguali e ginocchioni
E riveriscono coi visi buoni,
E i re magi da lato
Che porgono i ricchi doni
Oro mirra e incenso,
Ma ciò che mi fa senso
È che il piccolo Gesù
Non c’è più!
Gesù è disceso a baciare
I seppelliti del mare
Che desideravano dolce aria sola
Ed ebbero la spalancata gola
Piena d’amaro sale,
Oltre la chiusa romba dei venti
E degli eventi,
Dormono gl’innocenti
In talami di melme e di scogli

72
Con gli occhi semispenti
Entro la verde luce quasi lunare
Tranquilli, e sopra loro infuria il mare.
Gesù è disceso a baciare
Gli occhi delle madri arsi
Di piangere,
E col batticuore del perseguitato
Che di vivere è mal certo
È andato a rifugiarsi
In fondo al cielo deserto
Ove nessuno lo vede.

Campane di Natale
Che vale
Sonare a distesa? – Gesù
Non c’è più!

73
74
N OTA

Angiolo Silvio Novaro nacque a Diano Marina nel 1866.


Visse ad Oneglia, dove lavorò nell’azienda di famiglia dell’Olio
Sasso. Fondò nel 1895 il foglio letterario “La Riviera Ligure”,
poi diretta dal fratello Mario. Socialista in gioventù, si schierò
poi con il Fascismo, fu Accademico d’Italia. Nel 1916 perse in
guerra l’unico figlio Jacopo. Morì a Imperia nel 1938.
Pubblicò romanzi e novelle, anche per ragazzi (Manoscritto
d’una vergine, 1887; Sul mare, 1889; Giovanna Ruta, 1891; Sulla
soglia della felicità, 1892; Il libro della pietà, 1894; La rovina,
1897; L’angelo risvegliato, 1901; La bottega dello stregone, 1912;
Garibaldi ricordato ai ragazzi, 1912; La fisarmonica, 1924) ed i
seguenti libri di versi e prose liriche: La casa del Signore (Streglio,
Torino 1905); Il cestello - poesie per i piccoli (Treves, Milano
1910, poi Mondadori; ultima edizione, L’arciere, Cuneo 1992);
Il fabbro armonioso (Treves, Milano 1919); Il cuore nascosto (ivi,
1920); Dio è qui (Mondadori, Milano 1926); Il piccolo Orfeo
(Treves, Milano 1929); La madre di Gesù (Mondadori, Milano
1936); Tempietto, (con premessa di Ugo Ojetti, ivi 1939).
Tradusse per Mondadori L’isola del tesoro di Stevenson (tuttora
ristampata) e La vita di Gesù di Mauriac.
I testi sono riprodotti secondo le prime edizioni in volume.
Si ringraziano Giorgio e Daniela Novaro per aver permesso
questa scelta antologica.

75
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Indice

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Il poeta perduto 7
di Stefano Verdino

da “Il cestello”
I mesi dell’anno 21
Che dice la pioggerellina di marzo? 22

da “Il fabbro armonioso”


Non mi sono mai saziato abbastanza di te 27
L’edera che incorona la porta 28
Uscire dal dolore 29
Conforti 31

da “Il cuore nascosto”


Come cenere 35
Ti chiamò forse il mattino 36
La musa mia 39
Parole alla luna 42

da “Il piccolo Orfeo”


Gentilezza di luna nuova 47

79
80
da “La madre di Gesù”
A punta di mattina 51
Rondini in cielo viola 53

da “Tempietto”
Giungesti 57
Fosforescenti 58
Vento 59
Freschezza azzurra 61
Va come paglia 63
Taci non li svegliare 65
Ilarità 66
Io la chioma del pino 68
Come peso d’inutili foglie 70
Campane di Natale 71

Nota 75

81

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