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Quaderni del Tempo
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Angiolo Silvio Novaro
La pioggerellina di marzo e
altre poesie
a cura di Stefano Verdino
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Il poeta perduto
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materno alla devozione religiosa alla fratellanza, fino
al primo avvio «dei piccoli» verso le basilari figure della
storia sacra e patriotica, come San Francesco e
Garibaldi.
La delibazione idillica della campagna, che tanto
piace nella vasta provincia dell’Italia di allora, la
salvaguardia di valori-miti nazionali come il mammismo,
la buona fede, l’amor proprio unito alla fratellanza
coagularono una miscela perfetta e già collaudata (da
De Amicis), ma nuova per i godibili e scaltri ritmi di
zucchero, tanto da imporsi popolarmente a una folta
schiera di maestri, educatori, famiglie borghesi e
perbene, grazie all’abilità di leggere nell’armonia agile
del verso quello che si può così pacificamente
condividere. Tutto questo spiega il successo popolare e
scolastico di Angiolo Silvio, e anche, per contrappasso,
la sua brusca obliterazione in un secondo Novecento,
così tanto lontano e diverso dalla sua stagione di
consenso e che nella propria genealogia poetica da
tempo ha piuttosto iscritto il fratello minore Mario e la
“Riviera ligure” (fondata da Angiolo Silvio, ma poi
diretta e gestita per vent’anni da Mario).
Ma davvero la poesia di Angiolo Silvio è da buttare?
In fondo la memoria dei più anziani è tutto sommato
grata per quella Pioggerellina, felice variante in semi-
filastrocca della Pioggia nel pineto, e forse può valere la
pena di una ripresa d’attenzione per uno scrittore che
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esordì come narratore nell’ambito del Verismo, con il
plauso del Verga1, il quale, solo per il giovane Novaro,
mostrò gradire l’inserzione così “naturale” di un
“carattere” lirico nell’ordito narrativo2. Novelle e
romanzi occuperanno a lungo il Novaro, ma la sua vena
si trova nei territori meno battuti della lirica: dopo le
poesie per i piccoli, ecco la prosa lirico-sentimentale di
Il fabbro armonioso (1919), dialogo intimo con l’unico
figlio Jacopo, ucciso in guerra, testo forse troppo trepido
e commosso, ma con alcune pagine d’intimo sfogo che
tuttora resistono a rileggersi. Se la replica delle prose
liriche di Dio è qui (1926) non mi pare produca frutti
significativi, meritano tuttavia di essere riletti in parte i
versi di Il cuore nascosto (1920) e qualcosa da Il piccolo
Orfeo (1929), ma soprattutto Tempietto (1939, postumo),
da premiare decisamente3 (una certa attenzione va
tuttavia prestata alla biografia in versi di Maria in La
Madre di Gesù (1936).
Uomo meno disattento all’evolversi del gusto, di
quanto si supponga (e ne sono prova le lettere scambiate
con Quasimodo ed edite da Archinto nel 1999), l’ultimo4
Novaro riduce sensibilmente il suo collaudato effetto
di tenera ed elegante commozione per rilevare un
maggior edonismo nel puro e semplice godere
dell’armonioso spettacolo di natura, emancipandosi dal
suo tipico e troppo rugiadoso liberty per una linearità
decò, sobria quanto musicalissima, con versi di minime
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sillabe. In Tempietto è una poesia dell’arabesco che vien
fuori, grazie alla sua attitudine polizianesca5 (o tagoriana,
secondo uno sfottimento a suo carico6) di ricreare una
sensazione di totalità armonica dentro un dettaglio, spesso
con il sigillo di un’immagine di movimento. Frutto di
manierismo e calligrafismo impressionista, la sua vuole
essere una poesia dell’estasi, dove l’infantilismo
pervicacemente ricercato è sì la ricreazione d’innocenza,
di pascoliana memoria, ma senza quella irredenta
nostalgia. Non mancano momenti di tinta scura (si veda
la notevole poesia di guerra Campane di Natale, scritta
nel ‘15) e per di più la sua offerta celeste e dorata,
musicalissima, sa pure, ritmicamente, la lieve dissonanza;
ma dominante è l’innocenza liturgica, indispensabile per
l’abolizione di io e realtà al fine del godimento epifanico
e beatifico del mondo in termini di intima stupefazione.
E in questo tratto a suo modo “miracolistico” una
qualche suggestione esercitò perfino su Montale. Non ci
furono tra i due rapporti, anzi Montale in privato e in
pubblico fu nemico della poesia del ligure più anziano:
per non dire di cenni in lettere, vedi la stroncatura di Dio
è qui che “l’Ambrosiano” non si sentì di pubblicare7. E
tuttavia più volte gli esegeti montaliani (da Gaetano
Mariani a Tiziana Arvigo, di recente8) hanno riscontrato
tracce, principalmente da Il cuore nascosto: ed in effetti
l’apertura di La mia musa ci fa venire in mente i poco
successivi e celeberrimi I limoni ed alcune formule
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montaliane doc («il sole che abbaglia», «Ti libero la
fronte», ecc.) traspaiono, intermittentemente, dai
melodici versi di un Novaro, da lui ufficialmente assai
detestato9.
Stefano Verdino
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Note
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Angiolo Silvio Novaro rimase sempre legato a Verga: nel
1920 collaborerà con un pezzo (Beata solitudo) per lo spe-
ciale curato da “L’illustrazione italiana” in occasione degli
ottant’anni dello scrittore siciliano e nel 1933 scriverà una
lettera al “Corriere della Sera” (Giovanni Verga e la gloria,
scritta da Imperia il 28 maggio e pubblicato sul quotidiano
del 30 maggio), ad integrazione dell’articolo di Lucio d’Am-
bra comparso giorni prima e relativo alla prima notizia del
carteggio tra Verga e Dina di Sordevolo (Giovanni Verga e
un’amica milanese, “Corriere della Sera”, 27 maggio 1933).
Novaro vuole precisare «il distacco del grande siciliano dal
comune tipo del letterato», ricordando un aneddoto («Ad
un giovane letterato che, recatosi da lui per insistere [affin-
ché partecipasse a manifestazioni in suo onore], parlava di
‘eccessiva modestia’, Verga voltandosi irritato scattò: - E se
fosse sdegno?») e una personale memoria: «Ed io che lo
vidi a Roma un anno prima della morte, un giorno in Sena-
to, potei, da qualche frase appena sussurrata, misurare tut-
ta la scontentezza di quel magnanimo che nulla ormai pote-
va consolare dall’avere così a lungo dovuto aspettare il pre-
mio troppo ben meritato da chi, lavorando in assoluta purità
d’ardore, aveva regalato all’Italia un’opera immortale».
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Così Verga gli scrive da Vizzini il 31 dicembre 1888 a propo-
sito delle novelle di Sul mare: «Egregio Signor Novaro, ho
letto e riletto il suo volume, e gliene parlo con vero compia-
cimento. Non so quale accoglienza avrà dal pubblico e dalla
critica, tanto più che tipograficamente non tira molto l’oc-
chio al soffietto. Ma c’è uno schietto sentimento delle cose
che innamora e dà all’opera d’arte una grande sincerità. Sul
mare e Come Veronica portava la croce mi piacciono special-
mente e badi ch’io non son facile all’entusiasmo, se un certo
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lirismo che c’è qua e là nel suo stile offende il senso obbietti-
vo dell’immagine serena della realtà, ai miei occhi. Ma cotesto
carattere in lei è così schiettamente naturale che diventa anzi
un’altra attrattiva della sua fisionomia di scrittore e dimostra
quanto siano anguste tutte le teorie che vogliono restringere
in una forma il sentimento e l’espressione dell’arte. Ella ha
perciò la dote più spiccata d’artista, la personalità, e l’indivi-
dualità sua. Vada avanti coi suoi piedi e pensi alla sua lotta. È
il miglior augurio e il miglior complimento che io posso far-
le. Colla medesima franchezza devo dirle che avrei voluto
più curata la lingua e che certi particolari di Soave soggiorno
(pag. 78 e sgg.) e di Notte ansiosa (pag. 52) avrei evitato. Io
sono abbastanza di manica larga, ma quando gli ardimenti
hanno una importanza e una necessità artistica che li salvi
dalla volgarità, e che qui non hanno. Veda, dagli appunti, se
son franco e sincero nella lode e se mi congratulo cordial-
mente con l’autore di Sul mare. Suo G. Verga» (edita in ap-
pendice a S. Verdino, Angiolo Silvio Novaro: il poeta perdu-
to, “Poesia”, XV, Settembre 2002, 164, p. 25).
3
Cfr. S. Verdino, A. S. Novaro: L’impossibile arcadia, “Il Verri”,
1, 1991, pp. 145-156. Dello stesso parere è Stefano Pavarini
nelle pagine dedicate ad Angiolo Silvio Novaro nel capitolo
Saba, Ungaretti, Quasimodo, l’Ermetismo della Letteratura del
Novecento edita dalla Salerno (Roma 2000, pp.477-8), che
segna altresì il ritorno di una qualche attenzione per Angiolo
Silvio in una complessiva opera di storia letteraria del Nove-
cento italiano.
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In realtà non si hanno al momento notizie sui tempi di com-
posizione di Tempietto, ma non pare un libro solo della vec-
chiaia, dal momento che alcune liriche risalgono agli anni
Dieci, come ad esempio proprio il testo di chiusura Campa-
ne di Natale apparso su “L’illustrazione italiana”, XLII, 52,
26 dicembre 1915.
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Nel 1925 presso “Treves” curò la scelta di Le più belle pagine
di Poliziano.
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«Tagore della Riviera di ponente» fu l’epiteto denigratorio
con cui lo staffilò nella sua rubrica “Frusta letteraria” un
genovese Aristarco Scannabove (alias Mario Tarello) sulla
rivista antifascista “Pietre”, II, IV, aprile 1927, p.124.
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È il testo in cui Montale, additando il «manierismo rovino-
so» di Dio è qui, profila tutto Angiolo Silvio: salvato solo per
«una sottile vena in minore, dedotta dal Pascoli» per Il cestello
e La bottega dello Stregone; «trucco» e «cifra» sono evidenti
nel Fabbro armonioso e in Il cuore nascosto, infine le «pagine
gelide e artificiali di un misticismo dernier cri» di Dio è qui
ripugnano, nel loro esibizionismo, il poeta cultore di un Dio
nascosto e indicibile (questa «nota stroncativa» – come Mon-
tale scrive a Debenedetti – si è letta la prima volta nell’edi-
zione mondadoriana Il secondo mestiere, a c. di G. Zampa,
pp. 3101-3).
8
T. Arvigo, Guida alla lettura di Montale Ossi di seppia;
Carocci, Roma 2001, p.32.
9
Da parte sua Novaro lesse il Montale degli Ossi nell’edizione
Carabba del 1931; l’esemplare tuttora custodito in Casa Rossa
ha vari segnature (In limine, I limoni, Falsetto, Ripenso il tuo
sorriso, Mia vita a te non chiedo – dove Novaro a v. 5 annota
“Leopardi”); in Flussi e Clivo le sottolineature rilevano i ri-
chiami fonici (“riale-roggio”, “scoscende-discende-fende”,
“stanza-speranza”; “mani-rami-nani”; “trema-scema”); per
Flussi Novaro annota una personale variante (“nell’edera ac-
cesa” invece di “nell’accesa edera”).
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Poesie
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da “Il cestello”
Poesie
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I mesi dell’anno
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Che dice la pioggerellina di marzo?
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Di nidi,
Di gridi
Di rondini, ed anche
Di stelle di mandorlo, bianche...
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da “Il fabbro armonioso”
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Non mi sono saziato abbastanza di te
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L’edera che incorona la porta
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Uscire dal dolore
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Le vie che salgono le guardo con arsura e rodimento.
Balzare là dove si respira a pieni polmoni, veramente
liberi, assoluti, non me ne sento la forza.
E in questo mio ondeggiare e voltarmi intorno a
me stesso e ritrovarmi chino sulla ferita che non si
richiude, in questo senso d’impotenza incurabile, è la
mia costernazione più nera.
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Conforti
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E non sanno che il tempo non può più nulla togliermi
né nulla darmi. Che questo dolore è la mia unica
sorgente di vita, e perderlo sarebbe un nuovo e più
disperato morire.
No! Solo quelli che mi dicono, Non c’è conforto
possibile, mi dànno un reale conforto. Essi indovinano
il mio cuore, e non ardiscono entrarvi. Lo sfiorano, e
si allontanano.
Solo essi mi danno un reale conforto.
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da “Il cuore nascosto”
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Come cenere
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Ti chiamò forse il mattino
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Consolata e si compiace?
Delle rondini irrequiete
Febbrili attorno alla gronda
O della passera loquace
Che strilla in cima all’abete?
In questi silenzi fini
Dove stupefatta ti chini
Come sopra un altare
Ad ascoltare
Se mai parlino i destini,
O d’una farfalla
Smemorata che balla
Il minuetto fra i gelsomini
E prova se l’aria la culla?
D’un miracolo o di nulla?
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Mi piaci come l’amante
Novella, come la sposa
Di ora, come la fanciulla
Che serba all’amante
Il suo cuore nascosto, il fragrante
Profumo del suo mistero.
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La Musa mia
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Dorme sotto una pergola di stelle
Frammezzo un carezzevole fruscìo,
E nel sonno fantastica misteri
Di parole da dire a Dio tutte belle,
E si sveglia nuova d’oblio
Con un grillo nel seno o una viola:
Beve dell’acqua delle fontanelle
Coglie ai rovi le dolci dolci more,
E canta per grazia d’amore.
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Una tristezza che non sa che sia
Le prende il cuore:
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Parole alla luna
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La casa che argentea tu bagni,
Che attonita illumini, è chiusa:
Vi filano e tessono i ragni:
Uscì la domestica musa.
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da “Il piccolo Orfeo”
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Gentilezza di luna nuova
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da “La madre di Gesù”
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A punta di mattina
S’alza la spica d’oro del grano
E a Lui tremula s’inchina:
Fiori di melograno
Piovono da occulti rami
E l’avvolgono di fuoco.
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Staccato dal tuo seno
Sgambetta tra i papaveri del fieno,
E lo riveste il sole d’oro fine.
Ma tu riposa
Su la gèmina gota rosa!
[...]
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Rondini in cielo viola
Guizzano come spola.
Tace il coro dei soavi
Inni degli avi
Mentre allato alla fontana
Sosta la carovana.
53
Nessuno ahimè lo vide,
Nessuno di Lui seppe,
Nessuno a te rimena
L’agnello smarrito. Serena
La luna guarda, ma in pena
La tua povera carne stride.
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da “Tempietto”
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Giungesti
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Fosforescenti
Fosforescenti
Città di lusso
Ricche in occulte vene
Di sangue di tesori
Multicolori
Natanti al ritmo di vari
Lusinghevoli venti
Passeggiano i notturni mari
Arano dritto e storto
La faccia degli abissi
Ricercando con occhi di cubia
Aridi e fissi
La grazia d’un porto
Dove sbarcare peso morto
E contrabbando di malinconia.
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Vento
Fosco
Trasale il bosco
Sotto la voce del vento.
Il mare scudisciato
Rabbrividisce
In grovigli di bisce
Sbuffa bianche pecorelle
Impaurite che l’una incalza l’altra
Come gregge scompigliato
Dalla verga del pastore.
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Sorpreso in sonno l’uomo
Balza sgomento
Che fredda sente
Alle reni la lama del destino:
Fugge e a mezzo cammino
Gli cade il cuore.
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Freschezza azzurra
Freschezza azzurra
Effusa chiarità
Luce infinita
Da non so quale
Miracolo esplosa.
Silenzio
A pace
Si sposa
Un veliero
Sulle tremule
Acque senz’orme
Con l’ali aperte
Dorme
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Né foglia né fiore
Nel bosco
Si muove.
Pensiero
Segreto rema
Verso un come
Verso un dove
E nel profondo
Trema.
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Va come paglia
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Ha freddo e non ha legna
Da riscaldarsi l’ossa
Vacilla come il vecchio
Su l’orlo della fossa.
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Taci non li svegliare
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Ilarità
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In profumate sere
Squillano, e cuore gonfio
Chinasi a bere
Acqua innocente di sogni,
Ombre passeggiano la dolce terra
Vestite d’adorati nomi
(M’ama? Non m’ama?)
S’imbigia il cielo e ogni beltà divora,
Cenere grigia cenere nera
Fuma ove ieri esplose aurora
Invano volgesi e chiama
L’adolescente cuore
Invano scruta e spera
Di qua dal mugghio della bufera,
Mentre sull’albero esile fruscia
Pioggia leggiera.
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Io la chioma del pino
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Perché n’abbia
Qualcuno maraviglia,
Io l’insonne pellegrino
Vagabondo d’amore
Che d’ogni creatura
Si fa specchio
Si fa mondo
Si fa nido casa e cuore
E l’abbraccia come il cane
Le ginocchia del pastore,
Entra e trova pane e vino
Suono a gloria di campane
E conforto di destino.
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Come peso d’inutili foglie
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Campane di Natale
Campane di Natale
Che vale
Sonare a distesa? - Gesù
Non c’è più!
Odo la squilla
Che oscilla sul gregge dei tetti
Stretti intorno alla pieve,
Tremola in cuore ai cadetti
Mortali, erra lungo la valle che beve
Il silenzio, dove le foglie
Scolorita allegrezza dell’anno
Il vento preciso le incoglie
E si distaccano, e vanno!
Odo la squilla
Che oscilla soave.
Sopra i culmini mitrïati di neve
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Ave ridice, ave,
E si perde nel seminio delle stelle
Per i disabitati e nudi
Margini dell’infinito.
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Con gli occhi semispenti
Entro la verde luce quasi lunare
Tranquilli, e sopra loro infuria il mare.
Gesù è disceso a baciare
Gli occhi delle madri arsi
Di piangere,
E col batticuore del perseguitato
Che di vivere è mal certo
È andato a rifugiarsi
In fondo al cielo deserto
Ove nessuno lo vede.
Campane di Natale
Che vale
Sonare a distesa? – Gesù
Non c’è più!
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N OTA
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Indice
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78
Il poeta perduto 7
di Stefano Verdino
da “Il cestello”
I mesi dell’anno 21
Che dice la pioggerellina di marzo? 22
79
80
da “La madre di Gesù”
A punta di mattina 51
Rondini in cielo viola 53
da “Tempietto”
Giungesti 57
Fosforescenti 58
Vento 59
Freschezza azzurra 61
Va come paglia 63
Taci non li svegliare 65
Ilarità 66
Io la chioma del pino 68
Come peso d’inutili foglie 70
Campane di Natale 71
Nota 75
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