Sei sulla pagina 1di 112

Cesare Iacono Isidoro

EPISTOLE A CENTO POETI


(PIÙ UNO)
In copertina:

Jonathan Eastman Johnson


L’angolo della stufa (1863)
Cesare Iacono Isidoro

EPISTOLE A CENTO POETI


(PIÙ UNO)
Con ogni cenere, con ogni vera poesia
ci è sempre restituita la Fenice.

Paul Celan
Microliti, 1963 [14]

Simili al nuotatore che costeggia


tranquillo o varca l’onda che lontano
suona argentea o il silenzio degli abissi,
noi poeti del popolo migriamo

volentieri, gioiosi e amici a tutti,


dove è il respiro e l’onda della vita.
Ci fidiamo di ognuno. In altro modo
Canteremmo ad ognuno il proprio Dio?

Friedrich Hölderlin
Coraggio del poeta
(prima stesura)

Accade come nell’Annunciazione: l’angelo


messaggero visita i poeti. Se dicono di sì,
la loro vita è perduta. Diverranno il ventre
della parola. E da quel ventre nascerà solo
l’Amore.

Salvatore Lo Bue
La Storia Della Poesia
VII. Il compasso di John Donne
Trovatori d’amore dal VI al XVI secolo

Alla mia età resto sveglio di notte,


e mormoro tra me e me i versi
di Crane, Whitman e Shakespeare,
perché le voci grandiose
tengono in qualche modo
lontana l’oscurità permanente.

Harold Bloom
Il canone americano.
Lo spirito creativo e la grande letteratura

Teneramente considero Voi tutti:


senza Voi non avrei potuto maneggiare
nemmeno il più debole dei miei versi

W. H. Auden
Ringraziamento
Andrea Zanzotto

Mi sono trovato davanti una parete


di cristallo trasparente e irriducibile:
che è come dire un’immagine perfetta
della caparbia e dell’amore.
E allora ogni parola diventava
una stella di Ipparco, e la poesia
un cielo uguale mai giorno per giorno:
sotto la volta, si trattava ogni volta
di decidere, desidera o assidera,
e ho scelto sempre di desiderare,
fino in fondo, fino all’ultimo
grano di fuoco di Conglomerati
“Sì parola, sì silenzio: infine assenzio”.
E mai abbastanza, mai abbastanza
potrò aver ringraziati quei versi,
ogni singola stella;
per aspera ad astra
a bordo di questa cosa,
la tua poesia così bella.

26 giugno 2021

Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 1921 – Conegliano, 2011) è per me il più grande poeta italiano del secondo ‘900 e
di inizio millennio. La sua opera omnia – 850 grammi nell’edizione Mondadori, 2011 – è un canzoniere al fulmicotone,
impervio e commovente, che racconta in modo accorato e implacabile a un tempo il progressivo disgregarsi del
panorama fisico e morale del nostro paese dagli anni Cinquanta in avanti. La sua voce mite, come si ascolta in interviste
e letture, sembra una cenere tiepida sotto la quale però cova il fuoco più generoso.

Thomas S. Eliot

Cento volte ormai ho attraversato


la tua landa desolata
e ancora non ne sono sazio:
ancora vedo fremere i frammenti
e le radici avvoltolarsi
intorno al tronco dell’albero morto;
e ancora sento di non aver pagato dazio
al carbone che arde della tua intelligenza.
La tua voce si alza da un vecchio disco
e già nell’“April is the cruellest month”
c’è tutto il dolore, e la pazienza
di una scrittura nel suo corpo a corpo
con la storia e le sue tragedie.
Non ho imparato una sola parola
- certo, si fa un po’ per dire – a memoria,
perché ogni volta rivoglio la fatica
e la virescenza di rileggere,
ogni volta ritrovare Phlebas
sospeso sulla soglia, la poesia
combattere per non voler morire.

26 giugno 2021

Thomas Stearns Eliot (St. Louis, 1888 – Londra, 1965) ovviamente non ha scritto soltanto La terra desolata, che molti
considerano il suo capolavoro – oltre che uno dei testi capitali del ‘900 - e alcuni no: io sì ma, a dispetto di quanto può
apparire dai versi qui sopra, mi sono altrettanto nutrito dei Quattro quartetti, dei Cori da “La rocca”, del Mercoledì
delle ceneri, dell’Assassinio nella cattedrale, degli scritti di critica letteraria. E mi sono nutrito anche del rigore etico e
professionale, se così si può dire di un poeta, di quest’uomo che biasimava il cinema ma adorava Groucho Marx (al
punto da aver appeso nel suo ufficio presso la casa editrice Faber&Faber una foto con autografo), il quale alla notizia
della sua morte disse: “Era una brava persona, e questo è il migliore epitaffio che un uomo possa avere … “.

Giuseppe Ungaretti

Da poeta imberbe, da ragazzino


imitavo i tuoi versi
- lo facevo anche con Garcia Lorca –
come se quelle parole asciutte
come le pietre del S. Michele
in realtà fossero bulbi
pronti a resistere al tempo
e alle intemperie, e a schiudersi
in frutti quando sarebbe arrivata
una mia temperie.
E tu ragazzino sempre lo eri
coi tuoi occhi strizzati
davanti all’immenso
o alla siccità della storia,
col tuo sorriso scolpito
dall’allegria e dal dolore.
Poi il dolore le parole le ha sciolte
e dalla pietra la sabbia
o le briciole sparse
per distrarre il tuo bimbo.
Mai avrei immaginato
quanto dovevo sentirti fratello,
prima ancora che padre, di poesia
imparando che la morte è la morte
quando tu perdesti tuo figlio,
quando io perdetti la mia.
Ma fu allora che forse compresi
meglio che mai quel titolo strano,
Allegria di naufragi, e quell’incipit
“E subito riprende il viaggio”:
e anche da allora non ho più smesso
di scrivere, e vivo e scrivo
e sempre daccapo mi meraviglio.

27 giugno 2021

Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto, 1888 – Milano, 1970), o del destino poco invidiabile di restare inchiodato a
una poesia di due versi e quattro parole e a mitografiche letture delle proprie poesie, reliquie delle Teche RAI, come se
l’intero corpus di Vita di un uomo, le traduzioni da Góngora, Shakespeare, St. John Perse, o le lezioni su Leopardi “a tu
per tu” (Leone Piccioni) fossero poco più che un’appendice a quella folgorante intuizione, a quelle idealizzate
recitazioni. Ma Ungaretti seppe superare la durezza di quella poesia levata al fango delle trincee, e restituire ai suoi
versi il respiro che la guerra aveva essi tolto. E, in quanto al “ragazzino”, come dire diversamente di colui che,
incontrando quasi ottantenne il non ancora quarantenne Allen Ginsberg, gli donò un pelo del pube? (qualcuno sostiene
che tale usanza avesse corso tra i poeti Beat per rinsaldare i legami d’amicizia).

Ezra Pound

Ho commesso l’errore madornale –


l’equivalenza Pound = Cantos –
l’ho scontato dedicando cinque anni,
cinque interi anni alla lettura.
Confesso di averti detestato
per le citazioni sparse come sesamo,
per gli ideogrammi,
per quella pretesa sottintesa
“chi mi legge non deve non sapere”.
Umilmente mi sono rifugiato
nel precetto
“la legge non ammette ignoranza”
e nel dato difficilmente confutabile
che la tua poesia legge lo è,
dura lex sed lex.
Se ora riprendo in mano il libro
ogni verso mi sembra sia già troppo
e al tempo stesso il poema mai abbastanza.

27 giugno 2021

Ezra Pound (Hailey, Idaho, 1885 – Venezia, 1972), in certo modo anch’egli ancorato a un titolo, quello appunto dei
Cantos (in questo caso non pochi versi ma un imponente poema ginepraio, peraltro notoriamente incompiuto) e alle sue
infelici simpatie per il Fascismo italiano, propagandato nei famigerati discorsi che il poeta lanciò da Radio Roma fra il
1941 e il 1943, pagandola assai cara. Pound era un genio ingenuo (due parole etimologicamente non così lontane tra
loro) capace di tradurre in inglese Cavalcanti e Folgore da San Giminiano, ma confuso circa i rapporti tra l’usura e la
grande arte italiana: “Duccio non si fe’ con usura / né Piero della Francesca o Zuan Bellini / né fu «La Calunnia»
dipinta con usura. / L’Angelico non si fe’ con usura, né Ambrogio de Praedis” scriveva nel Canto XLV, ignorando
ahimè che perfino Giotto era un usuraio.

Amelia Rosselli

Entrando nella Serie ospedaliera


ho fatto gli scongiuri:
che la tua poesia mi desse pure qualche scossa,
la giusta perplessità delle visioni,
il vibrare del suono, viscerale.
E tu sulla copertina di Le poesie,
seduta, con lo sguardo perso
si direbbe per luogo comune,
in realtà forse solo smarrito
(per lo scarto vedi Dizionario etimologico),
sei diventata la Sibilla:
hai già scritto su ogni foglia possibile
ogni sacrosanta profezia,
ti stai asciugando, aspetti
che si compia il desiderio,
che la vita, il mito, ti si porti via.

27 giugno 2021

Amelia Rosselli (Parigi, 1930 – Roma, 1996). Oggi va molto di moda l’assunto che la poesia debba “andare incontro
alla gente”, al punto che si chiede a Jovanotti di scrivere prefazioni, leggere testi (al festival di San Remo), curare
antologie (detto col massimo rispetto per Jovanotti). Bene: quella di Amelia Rosselli non è una poesia che possegga tale
qualità. Dall’alto della sua precoce tragedia familiare – il padre Carlo e lo zio Nello antifascisti assassinati nel 1937, la
madre scomparsa nel 1949 -, della sua malattia mentale (schizofrenia paranoide), del suo cosmopolitismo e del suo
plurilinguismo (ha scritto anche in francese e in inglese), della sua competenza musicale (studi di pianoforte e
composizione, interessi di etnomusicologia, frequentazione della scuola di Darmstadt), Rosselli ci ha lasciato una poesia
“densa e tortuosa” (Franco Cordelli), apolide ma altamente civica, costruita sulle fondamenta minime ma solide del
suono, anche di una singola sillaba. Ascoltarla mentre la legge di persona è come incamminarsi lungo una petraia.

Dino Campana

Con te condivido il collo del piede alto,


la passione per il caffè smodata,
l’essere selvatico – vabbè, tu un po’ più di me -,
i vani studi in chimica,
il segno zodiacale del Leone,
il bisogno di far conoscere al mondo
le mie poesie ma alle mie condizioni,
le difficoltà con gli editori
(per te addirittura “succhiatori
del migliore sangue d’Italia”).
Ma soprattutto la alta coscienza
che la poesia è un dono terribile
ma è pur sempre un’arte
e domanda lavoro, sacrificio,
non di aprire un rubinetto
perché tutto facile ne sgorghi.
Con te non condivido ancora
il non voler più essere poeta
e sentire che la poesia si è allontanata
per non più tornare:
come te sempre ho dovuto strapparla
ai giorni e alla fatica
e so che lei non mi vuole abbandonare.
Il tuo sguardo nel ritratto di Costetti
si è caricato tutto quel fardello:
lo hai fatto anche per me, poeta unicorno,
mio fratello.

3 luglio 2021

Dino Campana (Marradi, 1885 – Castel Pulci, 1932). Dato che da vivo la sua poesia fu per lo più presa non troppo sul
serio dai vari Papini, Soffici e Prezzolini (anche se col senno di poi qualcuno recitò ipocriti mea culpa); dato che la
frettolosa diagnosi di presunta demenza precoce ne condizionò l’esistenza fino alla chiusura definitiva in manicomio,
dove morì senza esserne più uscito; dato che quando non ne voleva sapere più nulla di poesia lo psichiatra Carlo Pariani
lo tormentava in clinica per sapere il perché e il percome; dato tutto questo, per acquietarsi la coscienza “l’industria del
cadavere” – come Campana stesso definì la letteratura nazionale – si è poi avventata sui Canti orfici facendone anche
più di quel che sono. Come a voler sardonicamente risarcire il “morto orale” (Carmelo Bene) le edizioni del suo unico
libro, compresa l’anastatica del manoscritto originale, quello smarrito e miracolosamente ritrovato de Il più lungo
giorno, si sono moltiplicate come funghi, e idem le varie forme di celebrazione. A Marradi da decenni si pensa di
erigere un monumento, ma ancora non si è riusciti a erigerlo: in compenso nel paese della Romagna Toscana che gli ha
dato i natali è sorto un Centro Studi Campaniani prodigo e operoso.

John Keats

Quando pondero che sei morto a 26 anni


- più o meno come un Jim Morrison o un Nick Drake –
e che le tue Bright Stars
potrebbero finire – o già lo sono –
sui cartigli dei cioccolatini,
beh, allora per un verso sono attonito
e per un altro verso mi consolo:
non era solo il tuo un tempo angusto
per cui i poeti valgono paglia o giù di lì,
e non è solo il mio un tempo angusto
per cui i poeti devono essere pop star
brillanti di triste luce al neon.
Ora tu sei una pop star – attonita –
quando ai tuoi giorni i Poems
e l’Endymion venivano stroncati:
ma per noi poeti assiderati
dal firmamento freddo della fama
tu resti sempre quella stella,
lucente, costante, mai mutevole,
stella calda, luce amorevole.

4 luglio 2021

John Keats (Londra, 1795 – Roma, 1821). In una breve sequenza di Bright Star, il film che Jane Campion ha dedicato
nel 2009 a Keats, si vede Fanny Brawne, il grande amore dei suoi ultimi anni di vita, disperata dopo aver ricevuto da
John poco più di un telegramma al posto di una lettera d’amore; è persuasa che lui, amareggiato per la mancanza di
successo come scrittore, si vergogni a tal punto da pensare di non meritarlo più, quell’amore. Un grande poeta – non un
grande poeta romantico inglese, un grande poeta, punto – ringrazierà la morte di essere arrivata a liberarlo dalla
tribolazione della tubercolosi, il 23 febbraio 1821 a Roma, convinto di essere stato un fallito. “Qui giace uno il cui nome
fu scritto sull’acqua” è l’epigrafe che Keats volle sulla propria tomba, quasi come a desiderare che il tempo lo portasse
via con sé, fino a obnubilarlo: ma così non è stato.
Osip Mandel’štam

Hai incontrato la parola come pietra,


come un pianeta incontra un meteorite
con violenza di catastrofe feconda:
e dal cratere si è levata un’onda
di osso e lava e cenere
e intemerato sguardo su ogni cosa.
E quando un poeta guarda il mondo
e quale che sia l’immagine
non chiude gli occhi e non volge il volto
l’onda torna e si fa risacca scura:
ma tu non hai scritto sulla sabbia
o se sì le tue parole fossili
hanno reso quella sabbia dura,
un bagnasciuga su cui la poesia
è impressa come impronte di mani preistoriche
sulle pareti delle grotte.
E tutto poteva farsi poesia
sotto i tuoi occhi febbrili di sciamano.
Grazie al cielo così possiamo leggerti
e, se ne abbiamo il coraggio,
ogni volta che leggiamo conosciamo.

4 luglio 2021

Osip Mandel’štam (Varsavia, 1891 – Vladivostok, 1938). Come si intitola la prima raccolta di liriche di Mandel’ štam?
La pietra. E come il poeta definì l’Armenia, dove nel 1930 compì un viaggio alla ricerca delle fonti del linguaggio e
della cultura stessa? “Regno di pietre urlanti”. Negli appunti relativi a quel viaggio persino il sangue è pietroso. Eppure
i suoi versi, benché nutriti da questa sorta di non soluzione di continuità tra l’asprezza di certi paesaggi e quella del
suono delle lingue antiche che vi risuonarono, hanno sì una loro forza minerale, ma pure sono accuratamente levigati
fino a diventare gemme. Non a caso, nella sua leggendaria Conversazione su Dante, colui che secondo Iosif Brodskij è
stato il più grande poeta russo del ’900, lamentava il fatto che non ci sono disponibili i documenti del lavorio dell’autore
della Divina Commedia, e che se ne parla come se essa fosse sgorgata così com’è “direttamente su pergamena
intestata”: invece la poesia è come la scultura, corpo a corpo con materiale grezzo. A proposito di corpo: quello di
Mandel’štam, che a Vladivostok morì in un campo di concentramento, non fu mai trovato: si è all’improvviso acceso di
magnesio e fosforo a incendiare nuova vita, come in una pagina dei taccuini armeni, anziché addormentarsi nella terra
per dissolvervisi lentamente?

Lucrezio
Quanto meraviglioso il tempo tuo
quando filosofia, scienza e poesia
potevano stare in parole eguali,
interrogare, capire, raccontare
in uno stesso moto
dell’animo, in un volo senz’ali.
E quanto altera la tua malinconia
che insieme alle parole fa regali
di immensurabile placida sapienza,
ci insegna accento per accento a vivere
guidati dalla bussola dell’esperienza
e a guardare il naufragio
non con la sicurezza dell’indenne
né con la sua comoda pietà
ma con la serenità della coscienza
che il naufragio avviene ma non cessa,
che la tempesta come un ladro sta
nascosta pronta a approfittare
della prima nostra distrazione;
che la natura non ha intelligenza
e noi che l’abbiamo la dobbiamo usare
per vincere, sì, la superstizione
sempre con l’umiltà della prudenza.

10 luglio 2021

Tito Lucrezio Caro (ca. 98 a.C. – ca. 55 a.C.). Io provo veramente una profonda invidia per un poeta come Lucrezio,
che scrivendo un poema stava al tempo stesso filosofando e componendo un trattato scientifico: non si tratta di una
generica ammirazione per l’unità del sapere, ma di un meditato stupore per la potenza del pensiero e la forza della
parola. Maggiore è l’invidia considerando che Lucrezio nel suo tempo poté ancora permettersi questo lusso, dato che
quel “genere” di poesia pareva aver esaurito il suo compito da secoli, se pensiamo a Sulla natura di Empedocle, o in
parte a Le opere e i giorni di Esiodo. Certo questo comportava anche dei rischi e delle responsabilità, in quanto come ha
sentenziato Luca Canali “Il contenuto del De rerum natura è di quelli che generano le asseverazioni e le palinodie dei
poetastri, o, come nel caso di Lucrezio, le strutture del genio”, un discrimine che divide Lucrezio che resta poeta
autentico e grande dai “filosofanti in versi” (Eugenio Montale). Io non posso leggere La natura delle cose in latino,
perché non lo conosco, ma l’italiano nel quale lo ha reso lo stesso Canali mi sembra meraviglioso, nel suo fluire solenne
e malinconico a un tempo. Quanto alla faccenda del naufragio, quei pochi versi in apertura del Libro secondo forse sono
fin troppo citati, più o meno a proposito: ma noi platea di naufragi pressoché quotidiani, assopiti dalla assuefazione più
che rinfrancati dalla sicurezza, dovremmo impararli a memoria; c’è il motto di Pascal, messo da Hans Blumenberg in
esergo al suo saggio Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, che mai come oggi incombe
come una spada di Damocle: “Vous êtes embarqué”.

Guido Gozzano
Sono lieto che si siano accorti
che dietro Felicita e Nonna Speranza
c’era ben più che il Crepuscolarismo
- che poi, anche se era così,
crepuscolo non vuol dire tristezza
da cartolina, nostalgia da bonbon,
ma luce di transito, barlume mercuriale;
sai, cominciavo a sentirmi
un pesce fuor d’acqua a dire papale
che eri e sei tra i miei primi maestri:
perché ho appreso la musica
tra i tuoi sapidissimi estri
e se ne fossi stato capace
avrei appreso un bel po’ di ironia.
Ma non importa, io mi accontento,
al di là di quello che scrivo
resta sempre la consolazione
che quando riapro le tue Opere
respiro a pieni polmoni
l’aria buona della poesia.

15 luglio 2021

Guido Gozzano (Torino, 1883 – Torino, 1916). Ho visto in una libreria dell’usato un volumetto con la riproduzione
anastatica dei manoscritti di diverse poesie di Gozzano; e subito mi sono figurato il volto asciutto e malinconico del
poeta chino sulla carta a vergare i suoi versi con il tratto bello e sereno che appariva su quelle pagine: proprio una grafia
da Gozzano, mi dissi. E del resto mi riesce difficile pensare a lui come a uno scrittore inquieto, ansioso: erratico,
semmai, come il volo delle sua amate farfalle, attraverso le cui ali trasparenti forse guardava il mondo e lo illuminava
come Segantini le sue tele nell’incipit di uno dei poemetti delle Epistole entomologiche.

Umberto Saba

“Non aver paura di dire che son stato


un grande poeta, per sventura mia
lo sono stato per davvero”:
così scrivevi a uno “svogliato prefatore”
e a me, che pure la falsa modestia aborro,
colpì molto questa sicumera
esposta con tale tanto candore
da uno come te, così dimesso,
coi versi sempre in punta di penna,
così cagionevole, depresso.
E pensare che per John Keats quello sarebbe
- il lusingarsi d’essere un grande poeta
appunto – un ottavo peccato capitale.
Passi, non è poi un tanto grande male
guardare in faccia al proprio talento:
posso essere o non essere d’accordo
ma il Canzoniere è lì, nello scaffale,
l’antologia che tu stesso hai disegnato,
col suo accento ben lungi dall’essersi spento.

18 luglio 2021

Umberto Saba (Trieste, 1883 – Gorizia, 1957). Il poeta viene accompagnato da una donna che lo tiene sottobraccio al
tavolo della cucina, ed aiutato a sedersi. Sul tavolo sono deposti tre oggetti direi quasi simbolici, morandiamente
disposti, un bicchiere d’acqua, una moka, un comune posacenere di bachelite, di quelli da bar con la pubblicità. Quindi,
con la mano appoggiata alla fronte, legge da un foglio una sorta di dichiarazione sul fatto di essersi isolato dall’umano
consesso non per scortesia o orgoglio, ma a causa di una “lunga, troppo lunga sofferenza”. Eppure, date le “affettuose e
reiterate insistenze di alcuni amici”, ha accettato di comparire in un breve programma televisivo per leggere qualcosa
dalle Cinque poesie per il gioco del calcio. Siamo nel 1956, il programma della allora unica rete nazionale RAI si
chiama “Dieci minuti con … ”, e il frammento or ora raccontato si può ancora vedere sul sito RAI Teche: esso ha tutto
il sapore di molte poesie di Saba, come ad esempio Cucina economica, dove “tutto al suo posto si trova”; e il
“vecchietto che il pasto senza vino ha consumato” potrebbe ben essere un autoritratto dell’artista da anziano prefigurato
un quarto di secolo prima.

Federico García Lorca

Per tanto tempo sei stato


quello del “balcone aperto”
e di “alle cinque della sera”
e per questo ti amavo
– e ti ho anche copiato
(cfr. poesia su Ungaretti).
Poi, il Romancero gitano,
Poeta a New York, i tuoi drammi
e il cuore mi si è spaccato
a metà come un melograno,
e il sangue è diventato un torrente
come il canto di Camaron de la Isla.
Da allora tempo assai ne è passato
e io un giorno trovai la mia via:
ma il mio cuore non si è saldato,
il mio sangue ancora tracima
- così credo – gli argini della poesia,
scrivo dappresso il margine
della ferita, di quel sangue talvolta
mi sa la bocca;
tu che dici, potrei avere il duende?

18 luglio 2021

Federico García Lorca (Granada, 1898 – Granada, 1936). García Lorca, ecco, una manifestazione quasi perfetta della
possessione da duende - la parola di fatto è intraducibile – ovvero un’entità che potremmo assimilare grosso modo a un
folletto, o a un demone, “un potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo spiega” (Goethe a proposito di
Paganini) capace di determinare l’intensità di un’espressione artistica, sia questa il toreare, la danza, il canto. O la
poesia. Egli dedicò al tema una splendida conferenza, Gioco e teoria del duende, letta per la prima volta il 20 ottobre
1933 a Buenos Aires. Come si sa questo spirito è stato sfrattato dal corpo e dall’anima del poeta granadino a fucilate da
uno squadrone della milizia franchista: continua ad aleggiare tra le pagine sublimi che ha dato una mano a creare.

Virgilio

Ho letto buona parte dell’Eneide


aspettando nella cabina di un furgone
che aprissero i negozi
ai quali dovevo consegnare il pane:
e credo che l’associazione
di idee non mi abbia più lasciato,
la poesia che nasce dalle mani
almeno tanto quanto dal respiro,
dall’aria – famigerata ispirazione –
e dai muscoli che le danno forme.
E io ti seguo come fece Dante
attraversando le lande dell’informe
senza lievito, sale, fantasia
e soprattutto senza impronte di calli
che nel mio tempo sembra diventato
lo sciapo vitto della poesia.
E quando medito sul tuo corpo infermo
esiliato alla bellezza antica
di “pascoli, campi, duci”
che sente il gelo dell’inverno
attanagliare, stritolare la poesia
al punto che per salvarla non restava
che farla consumare al fuoco
mi chiedo com’è possibile che sia
che tanti poeti si sentano all’altezza
non dico dei tuoi versi, ma almeno del nitore
del tuo sguardo benché febbricitante,
ripongano i tuoi poemi in libreria
e scrivano, scrivano come fosse un gioco;
mentre io mi getto in quelle fiamme vive,
esco come fenice dalla cenere,
mi affido alla tua musa operaia
e quando mi visita spero che mi scruti
con pietà e mi dica “Va bene, non sei più un dilettante”.

25 luglio 2021

Publio Virgilio Marone (Andes, presso Mantova, 70 a.C. - Brindisi, 19 a.C.). Che Dante abbia scelto Virgilio come
guida per il suo viaggio mi sembra quasi ovvio: egli in vita ebbe modo indubbiamente di attraversare il proprio
Purgatorio e il proprio Inferno, e in quanto a qualche tipo di Paradiso altrettanto indubbiamente in quella vita se lo
meritò. Io lessi per davvero buona parte dell’Eneide nella situazione suddetta, in un’edizione Longanesi & C. super-
economica (brossura a rischio a ogni apertura del volume) ma con la bella traduzione di Cesare Vivaldi. Molti, molti
anni dopo rimasi vivamente impressionato dal romanzo di Hermann Broch, La morte di Virgilio, dove si immagina che
l’opera fallita (come il poeta pensava fosse l’Eneide) potesse essere surrogata da un capolavoro ultimo, definitivo: una
morte ideale, perfetta. I tre Virgilii, quello vero, quello di Dante e quello di Broch, si sono in qualche modo amalgamati
in una figura unica che mi piacerebbe tanto mi visitasse, almeno in sogno, per confortarmi con le parole che chiudono
questa poesia.

Dante Alighieri

Thomas Eliot, Osip Mandel’štam, Jorge Luis Borges


conoscevano la Commedia molto meglio
della maggior parte dei tuoi connazionali
e l’amavano.
Hai inventato una lingua
e l’abbiamo dissipata,
hai inventato visioni
e abbiamo fette di salame sopra gli occhi.
I poeti hanno paura a usare una parola
che qualcuno potrebbe non capire
o che qualcuno per capire
debba far lo sforzo immane
di aprire un vocabolario.
E ancora più paura
hanno che la loro poesia
possa risuonare come musica,
che gli scappi un endecasillabo per sbaglio
o peggio che andar di notte un ottonario.
E se ci fosse chi per caso ricordasse
il tuo proponimento del Convivio
- dare una poesia ardua vivanda
benché servita con il giusto pane –
lo farà soffocare in un cassetto;
oggi la poesia è fast-food
e quando non lo è
piuttosto che masticarla lentamente
i più preferiscono la fame.
L’importante è far la fila al tuo sepolcro
ascoltando le solite manfrine
di qualche cicerone,
l’importante è imbottire la Commedia
con la farsa della commemorazione
in questo tonitruante anniversario
dei 700 anni dalla tua scomparsa
in cui tutti corrono a procurarsi un’edizione
del poema come fosse un souvenir.
Io diserto e ho la coscienza a posto:
ogni tanto mi sorseggio un canto
dalla pagine ingiallite
del tomo Einaudi PBE Testi 6
e mi riguardo nella bellezza anguicrinita
dell’impareggiabile elisir,
che mi pietrifica ma,
fosse anche di un solo secondo
mi allunga la vita.

1 agosto 2021

Dante Alighieri (Firenze, 1265 – Ravenna, 1321). Se serve dirlo, Dante non è solo la Divina commedia, e soprattutto la
Divina commedia non è soltanto l’Inferno del quale tutti da ragazzi ci si entusiasma per le sue qualità granguignolesche.
E, ancora, il poema nazionale non è le letture-spettacolo dei vari Giorgio Albertazzi, Vittorio Gassman, Vittorio
Sermonti, Roberto Benigni, Piera degli Esposti, e via di passo. È poi sconvolgente che si sia dovuta decretare una
giornata nazionale istituzionale – il Dantedì (?!) – per non dimenticarsi di onorare il padre della nostra lingua.
Percorrendo le sale della mostra Un’Epopea POP, organizzata dal Museo d’Arte della città di Ravenna tra 2021 e 2022
come terzo atto di un ciclo espositivo tutto incentrato sull’Alighieri – Dante. Gli occhi la mente – ci siamo accorti come
anche la presenza nutritissima di Dante e della Commedia nella cultura di massa (cinema, televisione, musica,
pubblicità, fumetti etc.) non sia stata infine che una pletora di slanci celebrativi destinati a infrangersi contro il muro
dell’effimerità. Quest’ardore commemorativo ha toccato uno sterile parossismo nel 2021, settecentenario della morte
del poeta, allorché si è visto è sentito di tutto e di più. Non so perché, mi viene da fare la domanda che l’alpino Giuanin
faceva al suo superiore ne Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern: “ghe riverem a baita?”, ovvero torneremo a
casa? Usciremo un bel giorno vivi e sani da questo bombardamento mediatico per rientrare nelle stanze della
formidabile poesia dantesca e della sua lingua meravigliosa?
Charles Baudelaire

I poeti non sono più albatros,


nessuno più ride di loro
che sulle tolde planano da soli
e le ali da gigante hanno imparato
a chiudere come le falde di un cappotto.
I lettori non sono più ipocriti,
nessuno conosce più la noia
in mille faccende affaccendati
che rispecchiarsi nello sguardo fraterno
di un poeta
non trova posto su nessun organizer.
Il patto non è più
scendere insieme nell’abisso
con l’unica luce della poesia
che per tenere alta la testa
di fronte alla vita si può scrivere,
il nuovo patto è vivi e lascia vivere.

1 agosto 2021

Charles Baudelaire (Parigi, 1821 – Parigi, 1867). Devo essere onesto: la lettura de I fiori del male, compiuta a circa
diciassette anni sull’edizione Newton Compton (Paperbacks Poeti, 1972), la sera a letto in coda a lunghe giornate di
scuola, mi ha procurato più di un sonnellino; ma addormentarsi in compagnia dello spleen non era poi mica male! È
male invece che quella lettura sia stata data per acquisita, una volta per tutte, e che le derrate del “fottuto mercante di
nuvole” siano rimaste nella dispensa (leggi: scaffale della libreria) a lungo dimenticate. In effetti, ogni volta che mi
capita di rivedere la stupenda fotografia di Etienne Carjat, una delle più note immagini di Baudelaire, mi sembra che il
suo sguardo in macchina, i suoi occhi fondi e il taglio sottile della bocca chiusa, ce l’abbiano proprio con me, mi
rimproverino. Ma no, poi mi dico, quel piglio tra il malinconico e il risentito è per tutti, per tutti gli “ipocriti lettori” che
per qualche tempo hanno distratto i loro occhi da quelli del fraterno poeta e dei suoi potenti alessandrini.

Walt Whitman

Tra l’incisione di Samuel Hollyer


del 1854
e la foto di George C. Cox
del 1887
ci sono edite sette Leaves of Grass,
un colpo apoplettico
e i disastri della Civil War.
Nella prima il cipiglio
del perfetto Adamo Americano,
nell’altra – una delle tue preferite –
il sorriso del filosofo.
C’è chi ha detto senza mezzi termini
che eri più o meno un ciarlatano
e che le “foglie d’erba”
servivano a accendere la pipa,
c’è chi ti ha visto come il vero bardo
della poesia statunitense;
in medio stat virtus assai probabilmente
anche se la misura non era il tuo traguardo
e per questo non hai temuto mai l’azzardo,
a volte mettendo a fuoco una visione
e a volte scrivendo come un’abitudine
ripetendo te stesso o un’idea fatta.
Io a essere sincero
spesso ho faticato ad arrivare
in fondo al Canto di me stesso:
ma ammiro incondizionatamente
i poeti della tua discussa schiatta
e la penso come Gerard Hopkins,
ogni volta che ho in mano Leaves of Grass
mi trovo davanti alla sua stessa impasse
e non posso che prenderne atto;
brama di leggere e infida tentazione
di non leggere affatto …

3 agosto 2021

Walt Whitman (West Hills, 1819 – Camden, 1892). Ma infine cosa diavolo sono queste “foglie d’erba”, dato che con
ogni evidenza le foglie sono foglie e l’erba erba? Su questo titolo si sono fatte le più svariate ipotesi, fino a quella fin
troppo scontata, che fa tutt’uno con la macchietta di Whitman come “profeta” della nuova poesia americana, di pagine
sibilline sulle quali scrivere oracoli destinati al vento. Harold Bloom ribalta la prospettiva, e immagina che sia il vento
della storia della letteratura ad aver consegnato a Whitman il tropo della foglia fin da Isaia, attraverso Omero, Virgilio,
Milton, Shelley etc. generando l’humus sul quale potesse crescere l’erba fresca della sua poesia. È d’uopo ricordare che
per Whitman questa poesia doveva essere davvero verde come la speranza, data l’alta missione che egli le conferiva di
contribuire, insieme alle altre arti, all’istruzione, alla teologia, a fare della democrazia americana qualcosa di “superiore
ai cavilli”. Un sogno smisurato che egli cullò per tutta la vita, consegnandone il frutto ai suoi eredi con estrema umiltà:
“Io scrivo solo una o due parole per indicare il futuro”.

Marina Čvetaeva
I tuoi poemi sono raffiche di mitra
da cui difendersi o a cui offrire il petto
a seconda del sentire.
Io sento che con in corpo mezzo litro
di buon vino e davanti il pomeriggio
posso aprimi la camicia sul torace
come Timoš nel finale di Arsenal
di Alexandr Dovženko,
le tue pallottole-parole
mi rimbalzano sul petto
e ogni singola scintilla del tuo verso
diventa goccia da cui sprizza arcobaleno.
E se invece dovessi rassegnarmi
a leggere qualcosa a letto
la sera prima di dormire
sento che potrei al massimo riuscire
a udire l’ansito fioco di una mantica
che da secoli attende di morire.
Ma la morte nella tua poesia è mare,
scala, montagna, aria,
auguri di buon anno nuovo al mondo:
la morte che ti sei data –
più volte, del resto, adombrata –
è l’ultimo colpo d’arma,
quello senza più eco, quello più fecondo.

5 agosto 2021

Marina Čvetaeva (Mosca, 1892 – Elabuga, 1941). Marina Čvetaeva visse gli eventi turbinosi e, talora, tragici della
propria esistenza in un continuo alternarsi di entusiasmi e disperazione, come disse di lei il marito Sergej Efron, e in una
orgogliosa indipendenza morale e intellettuale. E nei suoi poemi l’avvicendarsi di sentimenti e situazioni diviene
materia di visioni fulminanti dominate dal ritmo e dalla potenza fonica, da una frenesia quasi di riuscire a fissare nei
versi tutto quel ribollio, che la pagina sembra faticare a trattenere: “Vengo col vento Nord-Sud / (lo so che non esiste, /
ma se serve - esiste!”)”. Così perfino nell’atto estremo del suicidio, della morte cercata, la vita continua a pulsare, anzi
lo fa perfino in maniera “smodata”, come in un verso di Poema della fine.

Angelo Maria Ripellino

Leggere i tuoi versi è come mangiare


cannoli, cassata, frutta di martorana,
un tuffo nella raffinata e estremistica
pasticceria della Trinacria,
un’apnea dentro nuvole barocche
di zucchero filato di poesia:
sono quasi certo che a testarla
prima e dopo quattro o cinque brani
si sarebbe alzata già la glicemia.
Eppure non una sillaba stucchevole,
non un candito di troppo
nelle tue “sinfoniette”, semmai l’acre
retrogusto di un tempo inacidito
che il poeta non ha reso cattivo,
di una malattia tampinatrice
con il suo ansimo e il suo passo zoppo
che lo insegue fino a farlo sporgere
sul margine del baratro
col grido strozzato in gola di Laforgue
“Astres! Je ne veux pas mourir! J’ai du genie!”,
Fool gentile che nella dismisura
misura sempre ciò che dice.

Angelo Maria Ripellino (Palermo, 1923 – Roma, 1978). A Ripellino saremo eternamente grati per averci fatto
conoscere poeti “unicorni” (Sebastiano Vassalli a proposito di Dino Campana) quali Vladimir Holan – del quale fu
anche amico – o Velimir Chlèbnikov, per averci regalato il “suo” Pasternak, per la magia di Praga magica. Ma
pregherei chi eventualmente non conoscesse la sua poesia di conoscerla per aggiungerla alla lista dei meriti: per me è
stato amore a prima vista, quello per il diluvio cosiddetto barocco (ma che seguendo l’ipotesi di Ernst Robert Curtius,
secondo cui il barocco non sarebbe che l’espressione contingente di un manierismo che si ripresenta ciclicamente nella
storia delle arti, io direi appunto manierista) di una poesia sensuale, musicale, ironica, funambolicamente sospesa tra
malinconia e ludus pirotecnico. Non sarà un caso la sua evocazione di/invocazione a Laforgue (il verso che ho citato è
messo in esergo all’ultima poesia della raccolta Lo splendido violino verde): c’è una sua fotografia che, togliete i
baffetti e il mezzo sorriso, aggiungete un cappello a cilindro in testa, è quasi identica a una lastra del poeta francese
datata 1885. In quanto al Fool, lo stesso Ripellino si autodefinì tale, e in quanto tale “rifiutato dall’Indifferenza e
sommerso da quell’Eterno Buon Senso che oggi chiamiamo Civiltà dei Consumi, – un fuori sesto, un X a disagio”.

8 agosto 2021

Vladimir Majakovskij

Alle nuvole hai messo i pantaloni


e hai calato le brache alla realtà,
giullare col volto accigliato e verde
di rabbia giusta e di vitalità,
la testa rivoltata sulle spalle
come un contorsionista favoloso,
in mano un bicchierino di cognac
per mandar giù anche la più ardita iperbole
e la matita aperta sul taccuino
che riempi di fuochi d’artificio:
insomma, Il poeta di Chagall
cielo-vestito.
Io non sono un rivoluzionario,
scrivo poesia ben educata
ma Dio sa quanto ho capito
la tua furia contro i benpensanti,
i piccolo-borghesi, gli ignoranti, i burocrati
il tuo entusiasmo e la tua disperazione:
così mi auguro che nei miei versi saggi
percoli un po’ di santa indignazione,
che tra i miei metri provenzal-siculo-toschi
si insinui ogni tanto l’arroganza
del teppista Vladimir Majakovskij.

8 agosto 2021

Vladimir Majakovskij (Bardad, 1893 – Mosca, 1930). Con Majakowskij siamo di fronte a uno dei più classici esempi
nei quali il mito, il personaggio, rischiano di offuscare il poeta – per quanto si debba riconoscere che l’effervescenza del
suo gesto artistico abbia contribuito non poco a innescare tale rischio. Si è detto che Majakovskij sia stato ossessionato
dalla visione e dalle promesse del futuro quanto Eliot lo sia stato dal passato e dai suoi fantasmi nel presente. Ma il
futuro ha tradito la fiducia impetuosa del poeta e la luce della rivoluzione si è oscurata, e in quel buio i poeti e gli artisti
che l’avevano cantata sono diventati essi stessi fantasmi. Ancora una volta è uno sguardo a sfidarmi, non da una foto ma
da un ritratto di Renato Guttuso, nel quale tutta l’irrequietezza di Majakovskij è trasfigurata nel vigore del tratto e nel
nitore dei colori, benché freddi. È infatti quella di Vladimir una poesia focosa e brillante, ma è meglio guardarla
bruciare da una certa distanza per ricomporre le singole scintille nel disegno complessivo della fiamma.

Paul Celan

I tuoi versi sono un muro di gomma


già dai titoli dei libri -
Luce coatta, Di soglia in soglia, Grata di parole –
ma in questo circo d’arte varia,
in questo freak show che è il mondo
sono sempre più spia
di quanto la poesia sia inutile
e altrettanto necessaria.
E quando verso dopo verso
pare che tentare di capire
sia un rimbalzarci contro
estenuante, vano
ecco arrivare in soccorso Il Meridiano,
il vademecum che ogni poeta
che abbia a cuore davvero la poesia
dovrebbe tenere sempre aperto
o perlomeno pronto sulla scrivania.
Di sicuro i poeti logorroici
per i quali ogni sala, ogni teatro,
ogni libreria sono una chance
- beati loro, ovunque a proprio agio –,
che sguainano in un attimo la biro
a ogni spiffero di cronaca
ma non sentono realmente che aria tira,
non grideranno mai un “Viva il Re!”,
non patiranno mai la svolta del respiro;
respirano, l’aria che c’è c’è.

9 agosto 2021

Paul Celan (Czernowitz, 1920 – Parigi, 1970). Il Meridiano è il titolo di una famosa allocuzione che Celan tenne nel
1960 in occasione del conferimento del Premio Büchner, che contiene alcuni essenziali elementi della sua poetica, tra i
quali il concetto di atemwende, svolta del respiro, il momento che passa tra l’inspirazione e l’espirazione durante il
quale il poeta assume “l’aria che tira” per poi restituirla nella poesia; e se “l’aria che tira” è quella di un momento di
tregenda storica – quella del Nazismo per quanto riguarda Celan – ciò che esce da quella svolta può essere un grido
soffocato, una parola strozzata in gola, l’estrema reazione all’indicibilità del mondo (il “Viva il Re!” che ne La morte di
Danton di Büchner Lucile, moglie di Camille Desmoulins, urla in mezzo alla Piazza della Rivoluzione mentre la
ghigliottina sta per cadere sul collo dello sposo). Ma Il Meridiano è per me anche il volume della prestigiosa collana che
tutti conoscono, quello dedicato a Celan, il primo in assoluto della collana medesima che ho comperato nella mia vita:
nel tentativo di affrontare al meglio l’ardua ma ineludibile opera di un poeta col quale ritengo molto difficile, in quanto
poeti, non fare i conti.

Arthur Rimbaud

Roberto Vecchioni ti scrisse una canzone


intitolata semplicemente A.R.,
le tue iniziali come un distintivo
o un marchio di fabbrica.
Oppure A come andata, R come ritorno
da quella dannazione che dovette
sembrarti la poesia all’improvviso
un desolato giorno.
Ma cos’era successo veramente
perché dopo tante parole tumultuose
ti affiorasse sui bordi delle labbra
quella tanto semplice e terribile,
quella parola di trionfante arresa, Addio?
Cos’era stata per te la risalita
dopo la tua discesa di veggente,
Orfeo-Prometeo, poeta ladro di fuoco,
che candela s’era spenta laggiù
che non valesse ormai più il gioco?
Una stagione all’inferno aveva potuto
prosciugare le cateratte di un ventenne?
Tornato sulla terra, ubriaco d’aria
che cosa aveva ridotto il genio
ombra di sé a se stessa avversaria?

11 agosto 2021

Arthur Rimbaud (Charleville, 1854 – Marsiglia, 1891). Rimbaud, un ragazzo che ha avuto bisogno di diventare adulto
troppo presto, e che ha avuto bisogno di annegare l’amarezza di un’infanzia e un’adolescenza apparentemente
tranquille, ma gravate dal controllo di una madre forse troppo esigente, nel doppio movimento di fughe e peregrinazioni
e della scrittura. Sappiamo come è andata a finire: il movimento della scrittura si è interrotto, troppo presto per molti,
probabilmente quand’era necessario; quello delle peregrinazioni è continuato in vario modo ed è terminato a Marsiglia
con un ferale tumore a una gamba. Poi Arthur è diventato il “maudit” per antonomasia, un modello pop per tanti artisti
dopo di lui (una per tutti Patti Smith, che ha anche comperato la casa abbandonata dove il poeta compose Una stagione
all’inferno) e il destinatario di centinaia di lettere d’amore che vengono indirizzate presso la sua tomba.

Pier Paolo Pasolini

Hai cercato una poesia fuori dal tempo


ma dentro il mistero tenace della vita
nel dialetto; hai trovato
un accento audace
in forme antiche per snidare
una lingua in salute instabile,
quasi in convalescenza
(anacronismo? O piuttosto resistenza?)
per arrivare poi fino al pastiche
mettendo insieme cronaca e sermone,
preghiera e pezzi su commissione.
Hai saputo guardare oltre il pregiudizio
dicendo adorabile Marianne Moore
benché della più odiosa razza borghese
e bellissime le poesie di Gottfried Benn
benché nazista e in palese
contrasto con la idea di quello che
doveva per te essere un poeta.
Ti sei fatto magistrato ad quem,
addirittura, per auto-giudicare
quei tuoi famigerati “brutti versi”
di Il PCI ai giovani!!.
Tra questi paletti controversi
io faccio lo slalom con ardore,
senza schernire, senza venerare:
e quando ascolto la tua voce
leggere Le ceneri di Gramsci,
un gheriglio di furore mite
nella noce di una timidezza,
mi sembra che il tuo mondo senza lucciole
si illumini della consolazione
di un Ein deutsches Requiem
di Johannes Brahms.

12 agosto 2021

Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922 – Roma, 1975). Nella sua orazione funebre per Pasolini Alberto Moravia disse che
prima di tutto l’Italia aveva perso un poeta, “e i poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro dentro un
secolo. Quando sarà finito questo secolo Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta”. Ora, di queste cose
dette a caldo, e per giunta da persone amiche, è sempre opportuno diffidare un poco: ma l’importanza di Pasolini come
poeta – lasciamo da parte qui tutto il resto, per ovvi motivi di spazio – non credo si possa discutere: nel bene e nel male.
Per me la poesia di Pasolini è soprattutto quella della prima fase, Le ceneri di Gramsci, L’usignolo della chiesa
cattolica, La religione del mio tempo: quando, come ha scritto Caterina Verbaro, il poeta adottava modelli metrici
classici come strategia metastorica, per rinnovare la forma della poesia nel presente non adeguandovisi ma opponendo
resistenza. Credo che sia proprio questo aspetto che mi ha fatto innamorare delle anacronistiche terzine de L’Appennino
e Le ceneri di Gramsci, e mi ha spinto a inventarmi come poeta un’ideale doppia genealogia nel poeta bolognese e nel
mio conterraneo Pascoli, non a caso da Pasolini studiato fin dalla tesi di laurea.

Yves Bonnefoy
Ti ho sentito leggere tue poesie
e ho visto le parole scendere,
venire giù piano fuori la finestra
a lenire le ansietà del mondo
come i fiocchi che riempiono le pagine
di Inizio e fine delle neve:
e come il bianco dilata lo spazio
e lo sconfina
così la tua voce friabile
schiude la strofa anche più breve
a contenere coltri di nostalgia,
tutto il bianco sul quale altra neve
avrebbe cercato una dimora,
le parole integre appena condensate,
l’inizio e la fine della poesia.

13 agosto 2021

Yves Bonnefoy (Tours, 1923 – Parigi, 2016). Quando nel 2012 la Romagna fu seppellita dalla neve, tra una sessione di
spalatura del cortile e l’altra tentavo di riconciliarmi con la candida meteora – va detto, io non l’amo alla follia -
leggendo uno dei libri di poesia stabilmente presente nella mia personale top ten, Inizio e fine della neve (in realtà un
volume Einaudi del 2011 che accorpa di Bonnefoy questa raccolta e Quel che fu senza luce): volevo un modo umano di
convivere con la neve, lontano dal senso di uggia che si rinnovava precipitazione dopo precipitazione, ma anche dalla
risibile agiografia che montava giorno per giorno preparando in anticipo la narrazione della “eroica” resilienza della
popolazione alla “apocalisse bianca” (non scherzo, qualche giornale disse proprio così). Anche la voce tremante ma
vibrante di Bonnefoy lettore dei propri versi (o di quelli di Giovanni Pascoli di cui è stato traduttore) fu un medium tra
l’incanto del fenomeno e il disincanto dovuto alle sue conseguenze pratiche.

Francesco Petrarca

Ho visitato la tua casa a Arquà


- la sola casa di un poeta
in cui son stato oltre al Vittoriale
di D’Annunzio.
Io amo conoscere i poeti
attraverso la loro poesia
senza farmi distrarre da null’altro,
spesso nemmeno dalla biografia;
però devo dire in questo caso
c’è qualcosa che accomuna il focolare
alla scrittura
nel sobrio rigore di un’architettura
che sembra fatta apposta per accogliere
l’eleganza di una giovane signora
strappata a un fresco di Sandro Botticelli
e la bellezza austera,
inossidabile del tuo Canzoniere.
Un sonetto, una canzone ogni sera
come un farmaco prima di dormire
per fare il sogno più bello che ci sia:
incontrare a quattr’occhi il maestro
di questa inarrivabile poesia.

13 agosto 2021

Francesco Petrarca (Arezzo, 1404 – Arquà, 1374). Pare che Petrarca fosse un abile promotore di se stesso, e la prima
manifestazione di questa abilità forse è la scelta di cambiare il proprio cognome da Petracco in Petrarca: una solida arca
di pietra destinata a recuperare dall’oblio i grandi della cultura classica - dei quali fu un appassionato e rigoroso
ricercatore - e a portare nel futuro le tavole della legge della lirica moderna, grazie a quel Canzoniere che non
abbandonò se non in pratica sul letto di morte, rivedendolo e risistemandolo di continuo per farne l’espressione della
perfezione. Nel frattempo scrisse opere in latino che gli diedero fama in vita, e gli apersero la strada all’incoronazione
poetica in Campidoglio, indirizzò ai grandi del passato lettere semi-confidenziali, si auto-diagnosticò l’acedia
confessandosi a quattr’occhi con l’amato Sant’Agostino nel Secretum. Per noi comuni mortali resterà sempre il poeta
del lauro e di Laura, di una compiuta coincidenza tra poesia e bellezza.

Giovanni Pascoli

Le tue scrivanie di Castelvecchio


- poesia italiana, poesia latina, studio –
sono un’icona immarcescibile
ma quasi da album delle figurine
o da quesito per un cruciverba
(12 orizzontale, nove lettere:
“ne aveva tre il poeta di San Mauro”).
Sei diventato un Minotauro
chiuso nel labirinto del suo mito
o uno sventurato ospite viandante
sul letto di Procuste
del valico di secolo:
troppo poco neoclassico,
non abbastanza barbaro
(“un accento cade su ogni arsi”
sentenziò Contini)
così ancora per molti
- e non necessariamente gli scolari –
la tua poesia è un “rabarbaro rabarbaro”
intorno a cavalline, rondini, aquiloni.
Ma io ho comprato la tua opera omnia,
non mi fido più dei trafiletti
di certi cataloghi antiquari.

13 agosto 2021

Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 1855 – Bologna, 1912). Ecco, come sta scritto nei primi versi della poesia
che precede questa, io non sono avvezzo a visitare le case dei poeti: e non ho mai visitato quella di Giovanni Pascoli che
pur sta a pochi chilometri da dove abito, in quella San Mauro di Romagna che ha assunto il nome del suo più illustre
cittadino nel 1932: e dove appunto sono piantate come querce le leggendarie scrivanie tra le quali il poeta suddivideva i
propri campi di lavoro. Ho usato la parola “campo” nel senso di ambito non a caso, naturalmente, data l’importanza che
la dimensione rurale ha avuto per parte della poesia di Pascoli: ma così dicendo mi accorgo di rientrare dalla finestra
dove avevo appena tentato di uscire dalla porta; ovvero nel mito del Pascoli casalingo, cantore del nido familiare etc.
etc. Ma il segreto di Pascoli forse sta proprio nel parlare di quelle cose così banali riuscendo – non sempre – a farlo
attraverso la sperimentazione, all’interno di uno stile apparentemente monotono (“spesso stucchevole”, diceva Pasolini),
di forme linguistiche e metriche. È tra i poeti che, oltre e più che maestri, sento fratelli.

Giorgio Caproni

Vedo il tuo volto immortalato


nelle foto di Giovanni Giovannetti,
un volto che potrebbe aver
scolpito Alberto Giacometti,
e nei solchi dolci e a un tempo arcigni
scivola la prolissa cantilena
del Congedo del viaggiatore cerimonioso,
restano infissi come aghi di pino
i tuoi epigrammi acidi e perfetti
che oggi che scrivo in un pomeriggio afoso
scendono quali gelidi confetti
dal cervello fin giù nell’intestino.
E in una delle foto stai guardando
con le pupille irte come spini
qualcosa che fuoricampo sta scappando
nell’aria silicea e vespertina
di tanto squisito disincanto:
la res amissa, la ninfa perduta
nell’inflessibilità del tuo compianto.

13 agosto 2021
Giorgio Caproni (Livorno, 1912 – Roma, 1990). Molti, molti anni fa frequentai una prestigiosa scuola di teatro dove,
fra l’altro, si facevano anche letture collettive: è là che rimasi folgorato dagli epigrammi di Giorgio Caproni; in quattro
versi come questi: “Fermi! Tanto / non farete mai centro. / La Bestia che cercate voi, / voi ci siete dentro” (da Il conte di
Kevenhüller, 1976 – 1986) si potrebbe dire che è racchiusa tutta la storia italiana del decennio nel quale rientra la loro
composizione (e forse non solo di quello). Poi conobbi tutto il resto, dalle toccanti Stanze della funicolare all’accorato
Congedo del viaggiatore cerimonioso (provate ad ascoltare la poesia letta da lui stesso, piuttosto che da qualunque fine
dicitore per quanto bravo: struggente) e via dicendo. Il suo volto segaligno è l’icona inequivocabile della lucidità della
sua poesia, e della sua responsabilità poetica: “Le parole. Già / Dissolvono l’oggetto. / Come la nebbia gli alberi, / il
fiume: il traghetto” (da Il franco cacciatore, 1973 – 1982).

Gabriele D’Annunzio

Ho qui davanti i due Meridiani


che raccolgono i Versi d’amore e di gloria,
il segnalibro di stoffa blu
del secondo volume tiene Maia
e penso al privilegio di avere
questi libri – ne ho parecchi –
in questo caso più che per la cura
di note, introduzioni, cronistoria
e via dicendo, proprio
per il fasto della confezione
più consono a te che ad ogni altro
- il lusso si addice ad Elettra
mi verrebbe da dire a calembour … -
che hai fatto dello sfarzo,
del dono, dello slancio superfluo e devoto
il gesto della poesia intrepida tout court.
È bello ripassare la lezione
in questo tempo in cui la poesia
è placata per non dire placida,
senza ansia, nerbo, dépense;
i poeti scansano la disperazione
del corpo a corpo con le sudate carte,
la tigre non ruggisce
casomai la rana gracida.
Paul Valéry disse che vivevi
da poeta contro il tempo del secolo
automatico e troppo organizzato;
eroico e voluttuoso,
inventore di giardini, tenero con gli amici:
che direbbe oggi dei poeti
che non sprecano un minuto e un verso,
più bravi di te forse come copywriters,
cronisti, didascalisti
ma incapaci di lanciare un sasso
alla taciturnità dell’universo?

14 agosto 2021

Gabriele D’Annunzio (Pescara, 1863 – Gardone Riviera, 1938). Da quando ho scritto questa poesia a quando sto
scrivendo queste note è trascorso un anno (non serve qui spiegare perché): ebbene, il “segnalibro di stoffa blu” del
secondo volume non si è spostato di molto da dov’era mesi fa. Di D’Annunzio è stato detto e si può dire tutto e il
contrario di tutto: io potrei dire, anche a conferma di quanto appena asserito, quello che diceva Hopkins di Whitman,
sono strattonato fra la brama di leggerlo e la tentazione di non leggerlo affatto. Quando vince la seconda sono preso da
complessi di colpa, quando vince la prima mi piace abbandonarmi all’ipnotico susseguirsi in strofe e stanze di una
musicalità che secondo me spesso è impareggiabile, martellante come Iacopone da Todi (mica le Laudi le chiamò così
per caso) ma al tempo stesso petrarchescamente levigata (“in certi scritti e in certe sestine del Petrarca, le parole paiono
divenire immateriali e dissolversi nell’Indefinito”, scrisse l’Immaginifico). Espio questa mia ambiguità con la
devozione a Notturno, il libro che D’Annunzio scrisse con gli occhi bendati su listarelle di carta poi amorosamente
gestite dalla Sirenetta, la figlia Renata: bellissimo.

Friedrich Hölderlin

Sono giunto a pensare che se il prezzo


da pagare per arrivare a scrivere
le liriche, i poemetti, La morte di Empedocle
doveva essere la schizofrenia
tutto sommato valeva la pena di ammattire:
mi permetto di scherzarci su
solo perché ho capito fino in fondo
quello che tu hai capito della poesia,
che è dono redimente e terribile,
marchio di predestinazione
ma soprattutto scudo di resistenza
all’oblio, alla dissipazione.
Tutto parla, ma qualcosa tace
sempre all’orecchio dei poeti –
si può dire natura, divinità, o Etere Padre,
si può anche non nominarlo affatto –
e quel silenzio è il vento che muove la poesia.
“Vorrei seguire l’eroe nell’abisso
ma mi richiama amore”,
hai scritto pensando già a Empedocle
ma dietro l’angolo stava acquattato il patto
col crepaccio del “metà del vivere”
e il tuo inferno di muraglie fredde e mute
i suoi cardini già faceva stridere.
Poi qualcuno ha detto che eri un matto
diverso da ogni altro, uno spostato,
un non-allineato al mondo
ma anche al mondo nel mondo
che si è soliti dire pazzia:
e a questo punto forse mi ricredo,
finisce lo scherzo, la speculazione,
si apre lo specchio vero dove vedo
lo stesso tuo abisso, dove sento
chiamarmi il tuo stesso amore:
lo specchio liquido e infrangibile
della poesia.

14 agosto 2021

Friedrich Hölderlin (Lauffen, 1770 – Tubinga, 1843). Come Dante, Hölderlin nel mezzo del cammino della propria
vita – ma proprio nel mezzo, pressoché esatto – si ritrovò per una selva oscura, quella di una malattia mentale che per lo
più è stata descritta come una schizofrenia catatonica, con dubbi annessi e connessi, una follia nella quale molti hanno
cercato di intravedere – da ultimo Giorgio Agamben – i segni para- o peri- profetici di qualcosa che all’epoca non
poteva che essere relegato nell’ambito appunto della follia, ma che oggi ci interrogherebbe sulle nostre più radicate
abitudini vitali. Si tratta di ipotesi affascinanti, ma per quanto mi riguarda piuttosto distrattive. Un altro filosofo, Martin
Heidegger, ha visto in Hölderlin un poeta “destinato”, nel doppio senso di mandato dal e nel destino; e di conseguenza
la sua poesia stessa un “destino”: chi ha tradotto gli scritti di Heidegger su Hölderlin in italiano ha tenuto a precisare
l’estrema difficoltà di sovrapporre la natura etimologica del nostro termine “destino” al suo presunto equivalente
tedesco, rilevando il fatto che “destino” ha un orizzonte statico (fissare, stabilire) mentre il lemma usato dal filosofo
tedesco (lemma peraltro polivalente), geschick, ha un orizzonte dinamico. Sottigliezze etimologiche a parte, mi pare che
un concetto elastico di “destino”, fuori da ogni prospettiva mistica o peggio politica, sia molto calzante per Hölderlin:
egli ha veramente fissato, stabilito, insieme a Leopardi, se non altro un punto di non-ritorno, il punto in cui forse è
finita, o almeno ha cominciato a finire, la storia della poesia, alla quale è subentrata la storia dei poeti.

Romancero della resistenza spagnola

Voi, poeti di Spagna


a cui il mondo sarà sempre grato,
e voi, poeti del mondo,
che già avete ringraziato
per voi stessi e altri dopo di voi,
voi raccolti in queste pagine
cremisi e fiammeggianti,
voi vorrei darvi in pasto
come un’eucaristia
a tanti poeti d’oggi, coribanti
che percuotono i timpani e soffiano negli aulòs
a ogni terremoto, naufragio,
attentato, epidemia
dopo aver digerito gli spaghetti,
preso l’amaro al bar
e strisciato la carta di credito nei POS
del centro commerciale;
perché i poeti non siano cretinetti
a smammolarsi del proprio ombelico
ma i guardiani del mondo
coi loro occhiali a lente bifocale.
Tutto molto giusto, se non fosse
a dir poco troppo facile
pestare la tastiera da remoto
e spendere la poesia come una chiacchiera
o una sequenza di colpi di tosse.
Dovreste spiegare loro, se poteste,
che le parole hanno diverso peso
a seconda di dove poggia la bilancia
e che il mondo mezzo in fiamme
e mezzo sott’acqua non lo salvano
- se mai l’hanno salvato –
i Parsifal e i Don Chisciotte della Mancha.
Dovreste spiegar lor soprattutto
la differenza tra una poesia di lotta vera
e l’impegno civile da festival, salotto, parrucchiera.

15 agosto 2021

Romancero della resistenza spagnola (1936 – 1965). Come si evince dalle date, il canzoniere della resistenza
spagnola non riguarda, come intuitivamente si potrebbe pensare, soltanto il periodo in cui la Spagna visse la propria
guerra civile seguita dalla presa di potere del Franchismo, ma il Franchismo nel suo complesso. L’edizione che io
posseggo di tale canzoniere, stampata da Laterza nel 1974 a cura di Dario Puccini, è una terza edizione a dieci anni
dalla prima e a cinque dalla seconda: ma il curatore specifica che la data alla quale essa si arresta è una data arbitraria,
in quanto il romancero ha ricevuto un suggello dalla storia non soltanto dagli eventi narrati ma in qualche modo anche
già dal loro futuro. Spero che quello che ho scritto nei miei versi risulti chiaro: quando i poeti parlano di certe cose
devono sapere bene di cosa parlano, averlo toccato con mano, avere sperimentato di persona che i versi usciti dalle loro
penne più che dalla ispirazione e dal talento sono stati “forgiati nell’incudini torrenziali delle lacrime” (Miguel
Hernández). Come sosteneva per bocca di Virgilio Herman Broch nel suo romanzo (vedi più sopra), ci sono momenti
della storia in cui i poeti devono rimboccarsi le maniche e dare una mano: se possono farlo in modo onesto e utile con le
parole bene, altrimenti è meglio dimenticare la poesia fino a quando arriveranno tempi migliori. Questo omaggio a poeti
che hanno servito il loro paese con la poesia, ma non solo, serva da monito a tutti i loro colleghi che pare non aspettino
altro che qualche catastrofe per sfornare dal loro caldo (o fresco a seconda della stagione) studiolo qualche poesia
“impegnata”.
Emily Dickinson

Ho trascorso un’intera domenica d’agosto


a scrivere poesie e a studiare
da solo chiuso in casa e sul balcone
distante 500 metri e anni luce
dall’allegria e la confusione balneare,
e non è la prima volta:
e, così, quasi come un gioco
provo a immaginare come fosse
vivere quella tua domenica dissolta
lungo l’arco di 24 anni,
quella tua lettera al mondo
spanta in centinaia di poesie
spedita dalla tua stanzetta,
quel tuo trattato della lontananza
al quale il mondo rispondeva forse
impercettibilmente, a modo suo,
regalandoti le parole come polvere,
polline, frullo d’ali di uccelli,
danza di foglie.
Nella tua immaginazione ogni distanza
correva tra la cella della monaca
e il cammino errante della zingara,
spinta dai piedi e dalla mente
in ogni luogo possibile alla poesia;
mentre l’America si accontentava
di unire due oceani con la ferrovia.
Ma poi l’hai detto chiaro come mai
nella tua ultima lettera
l’altrove in cui sei sempre stata,
quel messaggio di due sole parole
“Cuginette, Richiamata”.

16 agosto 2021

Emily Dickinson (Amherst, 1830 – Amhers, 1886). C’è quel dagherrotipo di Emily (una delle forse due foto
autenticate che abbiamo di lei) di quand’era meno che ventenne – quindi molto prima della famigerata auto-clausura –
che ci sfida per la sua invadenza iconica e semiologica che ne ha fatto, direbbe Roland Barthes, un mito d’oggi. Lo
stesso Barthes percepiva nelle foto il “ritorno del morto”, più o meno lo stesso che Cocteau vedeva nel cinema, la morte
al lavoro sugli attori: stando a ciò, Emily sarebbe in quel momento già uno spettro, il fantasma di se stessa che di lì a
qualche lustro diventerà. Quel dagherrotipo è stato infinitamente rimaneggiato per trarne immagini più graziose, è stato
restaurato, insomma per certi versi ha lo statuto di un dipinto del ‘300: appartiene a un tempo ma è fuori dal tempo, è
stato lavorato dal tempo ma anche sottratto al tempo. Emily ha dovuto posare per la sua realizzazione circa 15 minuti,
quanti le ci volevano forse per scrivere una delle sue poesie più brevi. In questa indeterminatezza del tempo sta tutta la
vicenda poetica di Emily: il dagherrotipo possiede già la lugubre fissità delle più vetuste immaginette in porcellana dei
defunti, il volto della morte sul quale in una lirica del 1862 si vede la “distanza” di “un angolo di luce / nei meriggi
invernali” quando se ne sta andando. Emily Dickinson alla morte sentiva forse di appartenere? La vita era una tregua di
poesia prima di essere “richiamata”?

Mario Luzi

Ho sempre amato e sempre venero


quella tua frase, “Se non ci fosse la poesia
forse neanche ci accorgeremmo quanto
stiamo diventando vociferanti e muti”
che mi si impresse al petto
a più riprese come il dardo
transverberante dell’angelo
che visitò Santa Teresa.
Quell’angelo non se ne è andato mai.
È l’angelo di Rilke che se pure
mi prendesse sul suo cuore
mi distruggerebbe,
il principio terribile del bello;
è l’angelo di Benjamin
che ancora insiste a aprire le sue ali
al vento del furore della storia;
è l’angelo di Stevens
che le ali ha appeso al chiodo
per dirmi “guarda, sono come te,
ma non dare per scontato, naturale
il fatto che siamo vicini”.
Ma è soprattutto l’angelo magnifico
dell’Annunciazione di Martini
col suo manto inalberato
e lo sguardo più tagliente di un coltello
- davvero un principio terribile del bello –
che tu avrai visto mille volte.
E io come fossi la Vergine Maria,
col dito a indice incastrato nel mio libro,
sorpreso ogni volta dal turbinoso arrivo
di quell’angelo necessario che è la poesia,
mi ritraggo reverente e vergognoso,
io che ho scritto così tanto
e, forse, fatto così poco,
e sento salirmi sulle labbra
quella preghiera di Simone:
“Non fare che la mia opera
ricada su me medesima,
diventi vaniloquio, colpa”.

17 agosto 2021

Mario Luzi (Sesto Fiorentino, 1914 – Firenze, 2005). La poesia di Mario Luzi ha attraversato diverse stagioni e
stagioni diverse, da quella dell’Ermetismo fino a praticamente l’oggi quando, in sostanziale armonia con il climate
change, nella poesia non ci sono più stagioni. E le ha attraversate con il mite contegno di chi ha in testa la poesia in
quanto tale, e l’idea che si tratti di un’entità che pretende il servizio di chi decide di farne una compagna di vita, come
una dama medievale quello del suo cavaliere. Detto in modo meno retorico: è uno di quei poeti che è andato dritto per la
sua strada, incurante di certe isteriche e talvolta, viste a posteriori, un po’ bislacche baruffe che hanno animato il
panorama della poesia italiana per un paio di decenni, fedele solo all’oggetto della sua dedicazione. Per questa sua
navigazione sicura, alla capitano MacWhirr, si è orientato con la bussola di un pensiero indomabile: la poesia deve
aiutarci a capire quanto la cultura di massa ci ha resi vociferanti e muti: proprio come i marinai del Nan-Shan, le cui
grida vengono loro strappate dal petto dal tifone.

Cristina Campo

Le tue poche foto sono epitome


delle tue – non molte – poesie,
foto dove il tuo sguardo distilla
l’eleganza della sprezzatura,
l’impenetrabile ma chiaro rispetto per le forme,
in una parola un portamento
che sigla il perlaceo distacco
di una dama del Rinascimento.
Il mondo andava per le sue strade ansiose,
il tempo risucchiava l’alito
pestilenziale di tremendi secoli:
ma tu, seppure non distratta,
meglio guardavi negli amati specoli
della liturgia e della poesia,
la prima fresca acqua di sorgente,
la seconda fermo riflesso di bacino
e hai dato loro un luogo d’incontro
nello splendido Diario bizantino.
“Due mondi – e io vengo dall’altro”
comincia quel breve poemetto
che hai scritto poco prima di morire:
e forse vale per la tua vita
e la scrittura tutte; quasi un precetto,
da un altro mondo sempre eri venuta,
orefice invece che scalpellina,
arruffato usignolo in pieno canto
in mezzo a troppi merli da officina.

17 agosto 2021

Cristina Campo (Bologna, 1923 – Roma, 1977). Come Luzi anche Cristina Campo (Vittoria Guerrini all’anagrafe) è
andata per la sua strada, impassibile al ronzio della mondanità fino a sconfinare nell’imperdonabile, imperdonabile tra
imperdonabili quali Marianne Moore, Gottfried Benn, Hugo von Hoffmanstahl, scrittori da lei stessa definiti tali in uno
dei suoi libri più famosi. Imperdonabile nel cercare nella poesia – ce ne ha lasciata poca ma alta – e nella scrittura in
genere, come nel gesto, nel portamento, nel porgere la parola e perfino il silenzio, la perfezione, l’assoluta evidenza
della nettezza della forma, il distacco aristocratico dalle trivialità del mondo, in una parola la sprezzatura nel senso
umanistico del termine. Imperdonabile anche nel vivere il tempo della storia senza distrazione ma fuori da ogni gabbia
ideologica o coinvolgimento politico. Imperdonabile nel celare dietro un’apparenza fragile – dovuta anche a una
malformazione cardiaca congenita – una volontà granitica. “Due mondi – e io vengo dall’altro”. Imperdonabile.

Edgar Lee Masters

Sulla copertina della mia edizione


della Antologia di Spoon River
c’è American Gothic di Grant Wood
e forse mai scelta è stata più azzeccata:
lo sguardo dell’uomo col forcone
sgomento e come catturato
da una prospettiva rovesciata
quale di certe foto sulle lapidi
che pare domandare al mondo intero
“Che ci faccio io qui, e quanti siete,
quanti siete voi là dentro?”;
e quello della donna, lancinante,
che al primo fa quasi da asterisco
ma al contempo abita già un futuro
senza più un perimetro ed un centro.
Perché è questo poi il tuo catalogo,
un cimitero che ha esondato
senza remore il suo muro di cinta
e parimenti esploso il proprio omphalos,
non solo un teatrino dietro quinta
di comparse che hanno preso la parola
e primedonne che non l’hanno mai lasciata.
È stata una fortuna o una iattura
che qualcuno ti abbia dato a leggere
l’Antologia Palatina?
Certo, il tuo nome non si è perso
negli annali dei poeti sconosciuti
ma nessuno ha mai più letto un tuo verso
che non venisse giù dalla “collina”.
One book man, povero Edgar Lee,
però noi siamo felici
che Elmer, Ella e Kate
e il violinista Jones
siano con noi, siano ancora qui.

18 agosto 2021

Edgar Lee Masters (Garnett, 1869 – Melrose Park, 1950). Leslie Fiedler ha individuato in Walt Whitman, Edgar Allan
Poe, Victor Hugo e Charles Dickens (oltre che in P.T. Barnum) coloro che hanno maggiormente contribuito a plasmare
l’immaginazione del primo pubblico di massa. In quest’ottica, mi solletica l’idea di immaginare Edgar Lee Masters
come il primo cantautore della storia, cantautore nel senso in cui siamo abituati a pensarlo diciamo dagli anni ’60 del
‘900. Come se non fosse tanto Fabrizio De André a essersi ispirato a Spoon River per il suo bellissimo disco del 1971
Non al denaro non all’amore né al cielo, ma il poeta del Kansas ad aver prefigurato già la possibilità che le sue poesie
potessero diventare canzoni (canzoni pop, non ballate folk come evidentemente già esistevano nel 1914-15 allorché
Spoon River fu pubblicato prima a puntate su un giornale e poi in volume). Edgar Lee Masters ha scritto 21 libri di
poesia – dei quali uno è un sequel di Spoon River – oltre a narrativa, saggistica e teatro. Ha scritto un’autobiografia in
cui ha raccontato la fortuna e la disgrazia procurategli da quel libro. Ha finito per campare di articoli e conferenze e
morire solo e povero in un ospedale.

Aimé Césaire

Ci sono poeti per i quali le parole


sono molto più che non parole:
poeti che quando leggi i loro versi
senti che se volessero potrebbero
scagliarti contro un anatema,
che scrivono col bruno della terra
alla luce pulsante delle stelle,
poeti sotto le cui penne trema
la storia come all’improvviso nuda,
spogliata del caldo mantello delle ere,
poeti che ogni giorno del mondo
sbattono davanti al chiaro specchio
delle sue crudeli primavere.
Poeti che riportano l’orologio
della poesia alla sua potenza antica
benché da un coriandolo di mondo
dal nome pieno di suono e sangue,
Martinica.

Aimé Césaire (Basse-Pointe, 1913 – Fort-de-France, 2008). Quando si dice “negritudine” si pensa subito, non senza
ragione, a Léopold Sédar Senghor. L’ho sempre pensato anch’io, e forse è per questo che quando vidi un giorno quella
parola nel titolo di un libro, Poesie e negritudine, intestato a un nome che mai avevo sentito, la mia incorreggibile
curiosità mi ha incalzato a comperarlo subito. Fu un tuono a ciel sereno: non un fulmine, non mi sono sbagliato, ma
proprio un tuono, la potenza sonora della parola che squassa l’aria tersa, il tam-tam “direttamente dal fiume di sangue di
terra” di una terra, la Martinica, calpestata dagli stivali del colonialismo francese. Poi certo Césaire Senghor lo conobbe
e insieme a lui e ad altri mise la sua arte, e il suo impegno politico diretto, al servizio della liberazione dal giogo
coloniale. Conobbe anche André Breton che lo arruolò hic et nunc tra le schiere dei Surrealisti: ma la poesia di Césaire
non sta sopra o oltre la realtà, la realtà la trapassa come una talpa meccanica la roccia.

Rainer Maria Rilke

Ed ecco che mi tremano i polsi:


e come potrebbe essere diverso
trovandomi al cospetto dell’erede
più plausibile di Orfeo,
ovvero in un luogo così tanto vicino
eppure franco a ogni vincolo del tempo?
A un luogo dove la luce della vita
splende a un piede dalla soglia della morte?
In ascolto di una voce di ossidiana,
del poeta del quale un solo verso
mi basta a avvicinarmi a un nirvana?
(fuggendolo come la peste, beninteso,
altrimenti non scriverei più da un pezzo).
Eppure, tu così prossimo all’elisio,
fra i maestri sei tra i più generosi:
le tue lettere a Kappus hanno il peso
di un bouquet di piume, nondimeno
quei consigli misericordiosi
- nel senso etimologico dell’essere,
di cuore, addolorato –
a lui e a tutti i fiduciosi
bussanti alle porte di Polimnia
sono lingotti di oro massiccio,
uno su tutti, che io tutte le volte
davanti alla pagina bianca mando a mente:
“Nell’ora più silenziosa della notte,
della vostra notte, domandatevi:
devo io scrivere?”;
vorrei tu fossi qui, che tu potessi
capire e confortarmi che il mio “sì”
ha ragion d’essere e non è un capriccio.

18 agosto 2021

Rainer Maria Rilke (Praga, 1875 – Valmont, 1926). Salvatore Lo Bue nelle prime pagine de L’origine orfica della
poesia racconta dettagliatamente un celebre bassorilievo greco del V sec. a.C. che raffigura Orfeo nel momento in cui
deve lasciare definitivamente Euridice nelle mani di Hermes, che la ricondurrà negli inferi avendo il poeta infranto il
divieto di voltarsi a guardarla impostogli come condizione per riportarla sulla terra dopo la morte. E fa notare come la
mano destra ripiegata all’indietro di Orfeo, posa variamente interpretata, possa suggerire che egli tenga tra le dita l’orlo
del velo di Euridice: Orfeo non solo si è voltato ma ha tolto il velo, ha osato guardare verso i segreti degli dèi. Tutto
quel libro assai bello è incentrato sull’idea che la disubbidienza di Orfeo coincida con la nascita dell’autentico spirito
della poesia, non più puro canto dell’ordine del cosmo ma nuovo grido della tragica invenzione della libertà umana.
Non immagino nessun poeta moderno che, meglio di Rilke, potrebbe in quel bassorilievo stare al posto di Orfeo: non
certo perché egli abbia dedicato al mitico aedo una doppia serie di ardui e splendidi sonetti, ma perché, come ha cercato
di dimostrare Maurice Blanchot in alcune delle pagine più illuminanti di Lo spazio letterario, il poeta austriaco ha
abitato lo spazio orfico che separa la vita dalla morte, e l’impazienza di stare su quella soglia; ha cercato di assolvere il
compito di attuare nella vita l’immanenza della morte, di colmare la distanza tra la luce e il buio, di mettere in parole la
enorme pazienza che comporta l’impazienza di creare un’opera, come il morire di una morte che non sia il semplice ‘si
muore’: “Noi dobbiamo essere i figuratori e i poeti della nostra morte” (Maurice Blanchot).

Salvatore Quasimodo

Per me direi che se sono esistiti


per davvero i Poeti Ermetici
forse l’ermetico eri tu, per eccellenza:
detto non con quel senso di fastidio,
commiserazione, insofferenza
che ha stabilito una dubbia parentela
tra una certa poesia e un infecondo
esercizio di stile, manierismo
fuori tempo e a buon mercato,
lambiccamento décor per cui qualcuno
avrebbe volentieri eliso una erre
trasformando l’ermetico in emetico.
Nessuno scriverebbe versi se l’intento
fosse quello di farsi ben capire,
diceva il buon Montale:
ma c’è assai di più, c’è il radicale
portato di quella parola,
c’è il dio Hermes
che invisibile per l’elmo di Hades
nondimeno è sempre tra i poeti;
coi suoi sandali alati
che fanno a pezzi le distanze,
il suo caduceo che muta le cose,
con la sua lira che ha inventato il canto,
la sua amicizia per mercanti,
viaggiatori, ladri,
che come disse Platone è tutto quanto
dà alla parola la sua ambigua potenza.
Se portare la poesia in questi crocicchi
o dappresso a una curva minore,
sulle soglie tra il senso e il suono
o a strapiombo a intendere su picchi
ciò che disse o non disse il tuono,
o perfino sul cuore della terra
trafitto da un raggio di sole
nell’incombente ombra della sera,
beh, se questa è la colpa io spendo
- ho già speso – il mio perdono;
la poesia non ha l’obbligo di essere chiara
e in fin dei conti neanche sincera.

19 agosto 2021

Salvatore Quasimodo (Modica, 1901 – Napoli, 1968). Quasimodo si sentiva legato a doppio filo alla classicità, per il
fatto di essere nato nella Magna Grecia e per il suo cognome latino – Quasi modo è l’incipit dell’introito della messa
della domenica in albis, e in origine pare che la designazione della “gens” fosse accentata sulla o, quasimòdo – e ciò ha
avuto senz’altro un peso sulla sua poesia. Che è tra le più “classiche” del Novecento italiano - forse quella del primo
Luzi vi si può accostare – con la sua ricerca della purezza della parola, della nitidezza del dettato, che a me in molti suoi
testi rende un sentore di trasparenza. Ecco perché ho evocato Hermes, dio dei confini e messaggero, perché leggere
Quasimodo mi chiede di guardare attraverso (trans inspicere) questa nitidezza, questa trasparenza: c’è una profondità,
ma non d’acque torbide.

Giacomo Leopardi

Sei tu, sei tu la vera pietra dello scandalo,


quella in cui sempre inciampo,
semplificando sei tu la mia pietra di inciampo:
un blocchetto infisso al lastricato
con le tue date incise,
quella in cui sei nato
e quella in cui con te,
incamminato verso il nulla della morte,
ha cominciato a morire la poesia
(non i poeti, la poesia).
Del resto in quella parola, scandalo,
c’è già scritto tutto:
scandalo è insidia, trabocchetto,
occasione perfetta di peccato,
e peccare non è altro che inciampare
poiché peccus è difettoso il piede
e tu lo hai visto il mondo zoppicare
ormai irredimibile al difetto,
ciò che nessuno più invece vede
o non ha il coraggio di guardare.
Ma dov’è il germe della malattia?
È in questa illusione forsennata
di noi poeti che ancora ci sentiamo
di spargere il farmaco della poesia
e non ci accorgiamo di essere gli untori
di una peste innocua, annacquata
di cui il mondo giustamente
non ha paura né preoccupazione.
Allora dovremmo impasticcarci noi
di Canti, Operette morali, Zibaldone
e sudando di una febbre glaciale
disintossicarci, buttare via le penne,
bruciare la parodie di Eneidi
- di Publio Virgilio Marone non ce n’è -,
sfoltire la siepe, scendere il declivio
di una maledetta guarigione.

19 agosto 2021

Giacomo Leopardi (Recanati, 1798 – Napoli, 1837). Un personaggio de I sotterranei di Jack Kerouac dice, a proposito
di Baudelaire, “Avrei voluto che fosse felice lui, piuttosto che le poesie infelici che ci ha lasciato”: massima assai
frivola, che frivolmente non pochi potrebbero trasferire armi e bagagli a Leopardi, in nome del famigerato pessimismo
del poeta recanatese. Ma bisognerebbe quantomeno intendersi bene, prima, su cosa si intende per essere felici, se non
addirittura prendere in seria considerazione un’altra massima, direi più credibile, di Andrej Tarkovskij, secondo la quale
per gli uomini ci sono cose molto più importanti della felicità. Allora forse più che di infelicità o pessimismo si
potrebbe “accusare” Leopardi di essere stato un lucido ribelle contro l’indifferenza della natura per l’uomo, che gli
rende così arduo perseguire un’ipotesi di felicità terrena e sensuale, e di averlo fatto usando la ragione per demistificare
le illusioni da essa stessa generate (Walter Binni). O di essere stato uno dei primi a intuire lo sfacelo della tradizione
occidentale e la morte di Dio, anticipando il nichilismo di Nietzsche (Emanuele Severino). Mi aggiungo al pubblico
ministero per formulare l’imputazione più grave, e più affettuosa: quella di aver fatto tutto questo con poesie, e prose,
meravigliose.
René Char

Non è il solo caso, ma è il più bello


il caso del fortunoso incontro
in un mercatino dell’usato
con la tua poesia, che ne sapevo
davvero poco ed era quello
che c’era in una bella antologia
- ma sei testi appena – del ‘900 francese:
per di più me la cavavo con la spesa
di pochi euro per un volume raro,
il Poesia e prosa Feltrinelli
con le versioni di Giorgio Caproni.
A che pro questo memoriale
neanche fossi uno scolaro
alle prese coi suoi compiti a casa?
È perché a volte è giusto ricordare
i doni che la vita quotidiana
sa nonostante tutto riservare
magari in un flash di solitudine;
e anche perché, il caso in questione,
ha molto, moltissimo a che fare
con quanto scriveva il tuo traduttore,
ovvero col fatto che la tua scrittura
si insinua in una nicchia del lettore
che il lettore stesso spesso non immagina
“suscitando un moto, più che d’ammirazione,
di gratitudine”.
Detto questo resta però da dire
dello stupore, della meraviglia
che i tuoi Fogli d’Hypnos
- e tutto il resto – mi hanno dato
parola per parola ad ogni pagina.
Benvenuto, René Char, nella famiglia
dei poeti che più ho amato.

19 agosto 2021

René Char (L'Isle-sur-la-Sorgue, 14 giugno 1907 – Parigi, 19 febbraio 1988). Char è un altro di quei poeti che, in un
momento cruciale della storia del suo paese, ha appeso al chiodo la stilografica per imbracciare il fucile (come Capitano
Alexandre nella resistenza francese) e si è inalberato contro i poeti di partito e di propaganda, non perché la poesia non
dovesse dire “il silenzioso furore e i singhiozzi del nostro umore” ma perché non si pensasse bastasse quello, e perché
incanalare il soffio della libertà nei “pifferi” di una poesia politica per statuto significava offendere e la poesia e la
libertà. Detto questo è vero che io conoscevo così poco la sua poesia, che per Maurice Blanchot era rivelazione stessa
della poesia e per Albert Camus qualcosa che per capacità di sorprendere eguagliò le Illuminazioni di Rimbaud e
Alcools di Apollinaire. Ed è vero che l’ho conosciuta a dovere grazie all’incontro del tutto fortuito col libro di cui parlo
nei versi, che mi ha attratto dallo scaffale di un mercatino dell’usato in mezzo a decine d’altri prima di tutto per la sua
bellezza, sobria bellezza di libri d’altri tempi (1962) e soltanto in seconda istanza per il nome dell’autore scritto sulla
costa. Pura serendipità.

Omero

“Notte d’insonnia. Omero. Vele spiegate laggiù”:


così comincia una poesia di Osip Mandel’štam
che ha messo il tuo nome – ‘colui che non vede’ –
tra il buio inquieto e fervido
qual esso diventa quand’è scontroso e avaro
e il generoso pontos che incanta i vascelli
ma lascia il tempo a noi di un ultimo sguardo.
In mezzo c’è tutto il tuo canto
generato in grembo a un tempo oscuro
tedoforo già d’ogni immaginazione.
Si dice che il capo reclinato
verso l’alto del tuo busto scolpito
suggerisca l’infaticabile attenzione
alla voce della Musa; forse invece
annusavi il mare, e il suo vento impollinato
dal principio di innumeri avventure.
Nei tuoi poemi è ingemmato un mondo intero
che per te non era che nodo di tenebre:
ma quale poeta non invidierebbe
i dieci verbi che potevi usare
solo per dire l’atto di vedere?
Sempre un poeta avrà notti insonni
e sempre vascelli solcheranno le onde
e sempre saranno il metro, notte e vele,
per misurare quante parole bastino
o non basteranno affatto per colmare
la distanza tra l’indicibile orizzonte
e il rassicurante limo delle sponde.
Un altro aedo cieco, Jorge Luis Borges,
tremila anni dopo di te
si è messo in ascolto del tuo stesso mare
- “è abisso e splendore, casa e vento?” -
che è il nostro stesso mare, che i poeti
non debbono mai smettere di guardare,
di ascoltare.

21 agosto 2021

Omero (VIII – VII sec. a.C.). Se ci si pensa è fantastico che si continui a vedere stampato sulle copertine dei libri che
contengono due poemi, Iliade e Odissea, il nome di un autore del tutto presunto: una volta a scuola si raccontava che
costui fosse qualcuno che si era preso la briga di raccogliere storie abitualmente raccontate componendole in quello che
oggi potremmo definire per certi versi un abilissimo remix. Oggi si pensa per lo più che il diverso ethos dei due poemi
suggerisca di attribuire a tale ipotetico autore soltanto il primo, se non addirittura la maggior parte del primo in seguito
interpolata. Lo stesso nome ha un significato sfuggente: la vulgata vuole che il poeta fosse cieco, e che il suo nome ne
sia prova dato che ὅμηρος (homeros), che di per sé sta per “ostaggio”, passò a significare per traslato anche “cieco” – in
qualche modo “ostaggio” di colui che doveva accompagnarlo. È però interessante notare che la stessa parola si
adoperava anche nel senso di garanzia, sicurezza: e che “ostaggio” ci viene attraverso il francese ostage dal latino
hospes, ovvero ospite. Questo poeta presunto di cui non sappiamo nulla non smette di donarci la sua preziosa
compagnia, garanzia di una poesia immortale, ostaggio della sua leggenda e ospite delle nostre accoglienti librerie.

Cees Nooteboom

Mi sono accorto che hai avuto la mia stessa idea


- incontrare poeti nella tua poesia –
e molto prima di me;
si vede che non avevo letto
Luce ovunque con molta attenzione
o, peggio, che la memoria mi comincia a far difetto.
Della luce però mi ricordavo bene
- la luce spesso ti perseguita
più e peggio di ogni altro trascorso –,
di quella luce proiettata indietro
- poiché la tua antologia va a ritroso –
come scendendo nella miniera del passato
fino alla roccia scabra, fino al livello di coltivazione;
o come il cieco di quell’incipit
errante indomito e curioso
che nella luce cade come in una botola.
E così la luce provocata,
un germoglio in letargia,
si ribella aggrappandosi a ogni cosa,
una passiflora, una vitalba
che invade le pagine, pretende di scrivere
l’ultima parola, luce d’alba ammonitoria
a ricordarti che la poesia
non è un lenitivo, semmai un pharmakon,
o la moneta da tenere in bocca
per pagare quel “morire in tutte le sue forme”
che per convenzione si usa dire vivere.

22 agosto 2021

Cees Nooteboom (L’Aja, 1933). Ci sono poeti del mondo di cui nel nostro paese pare non si conosca nemmeno
l’esistenza (poi magari non è così, gli addetti ai lavori la conoscono e fanno anche del loro meglio per diffonderla) fino
a quando all’improvviso “boom” – mi si perdoni il gioco di parole – questa conoscenza esplode e ci accorgiamo
dall’oggi al domani di esserci persi capolavori della poesia planetaria. Credo sia il caso di Nooteboom del quale, prima
dell’antologia pubblicata da Einaudi nel 2016, Luce ovunque, secondo la quarta di copertina della medesima era apparsa
da noi soltanto una breve raccolta stampata da un cosiddetto editore minore (non si può dire lo stesso della sua opera
narrativa, che Iperborea ha licenziato credo per intero). Dunque, grazie alla mia già citata indomita curiosità, ho
conosciuto questo autore per il tramite del curioso florilegio au rebours, che come ogni florilegio ha naturalmente i suoi
pregi e i suoi difetti. Effettivamente Nooteboom ha scritto delle epistole a poeti, ma non solo a poeti, dando loro del tu
come ho fatto io; ed effettivamente quando io ho cominciato a comporre le mie me ne ero completamente dimenticato.
Se qualcuno volesse imputarmi di plagio, non saprei dargli torto …

Raffaello Baldini

Io ci ho provato a scrivere in dialetto


e siccome nessuno me lo ha mai insegnato
come uno scolaretto mi sono messo lì
e me lo sono imparato: sui testi sacri,
quelli dei poeti “laureati”, ma anche quelli
dei cantastorie, i giullari delle zirudële;
e poi i vocabolari, la grammatica, la grafia,
l’etimologia, i modi di dire,
gli accurati studi dello Schürr.
Fra i testi sacri però c’era anche il crudele,
irresistibile, entomologico teatro
dei tuoi libri, quei libri per cui pensi
non tanto che il dialetto è una cosa seria
(il che è sempre e comunque)
ma a volte un giacimento di parole
e immaginazione inesauribile
per raccontare quella feria infernale
che può essere la vita.
Ho pensato fra me e me “meglio lasciar stare,
lasém e’ martël a i carpintir”
e sono tornato a quel finale di partita
che è Furistír.
22 agosto 2021

Raffaello Baldini (Santarcangelo di Romagna, 1924 – Milano, 2005). La poesia dialettale in Italia ha avuto una sua
eccellente tradizione, e molti poeti dialettali sono entrati di diritto nel canone nazionale, dai più “storici” Delio Tessa o
Virgilio Giotti (per non dire di Carlo Porta o G.G. Belli) fino a quelli delle generazioni più giovani, da Franco Loi a
Albino Pierro, con in mezzo Ignazio Buttitta o le prove friulane di Pasolini. Raffaello Baldini è tra questi: non è di quei
poeti che ha usato il dialetto come grimaldello per aggirare la chiave di una parola italiana virtualmente in asfissia, ma a
suo stesso dire perché così lo potevano capire tutti, “Tutti quelli del mio paese, naturalmente. Ma tutti”. E non è di quei
poeti che ha usato il dialetto come lingua commemorativa o elegiaca di un mondo rurale e popolare in disfacimento, lo
ha anzi trasferito in un ambito urbano per raccontare le alienazioni e le nevrosi di uomini e donne che, pur vivendo in un
paese come Santarcangelo di Romagna, provano le stesse ansie, le stesse paure, le stesse umiliazioni degli abitanti delle
grandi città. I monologhi arruffati dei suoi personaggi tra il beckettiano e il keatoniano, davanti ai quali anche le
situazioni e gli oggetti più quotidiani dilatano la loro potenzialità mostruosità, sono indimenticabili.

Wallace Stevens

Quanto di più perfetto e misterioso


un poeta avrebbe potuto mai produrre
e di cui i poeti a venire si sarebbero
nutriti per lungo, lungo tempo:
questo hanno scritto di te, questo si trova
all’inizio del volume che raccoglie
tutte le tue poesie.
Perfetto e misterioso, ovvero fatto
e compiuto per qualcosa
e stretto, chiuso in se stesso;
dovrebbe spiegare cos’è per lui la poesia
chi non vede in questa norma inconfutabile
il senso esatto della poesia, e nei tuoi versi
incontra mistero e perfezione travestiti
con quella maschera tanto detestabile,
la famigerata oscurità.
Tu lo hai detto, non c’è da compiacersi
nel complicare le cose a bella posta;
d’altra parte perché andrebbe composta
una poesia per esprimere un’idea
con le parole che si userebbero al caffè?
Comunicherei la stessa idea, ma sai che c’è?
Non scriverei una poesia …
La poesia è l’alessandrino che misura
la distanza tra la realtà di un dizionario
e la realtà che il poeta ha chilificato
in quell’apparato digerente
che è la sua immaginazione:
oggi si dice che i poeti
devono andare incontro alla gente
come dire che nelle loro parole la poesia
dovrebbe essere già predigerita;
tu sei un gastroenterologo che cura
questo tempo di cibo omogeneizzato,
il benvenuto alla porta a cui nessuno viene,
l’insospettabile angelo necessario .

23 agosto 2021

Wallace Stevens (Reading, 1879 – Hartford, 1955). Massimo Cacciari ha intitolato un suo libro sulla figura dell’angelo
con una definizione tratta da una poesia di Stevens, “l’angelo necessario”. La poesia si intitola Angelo circondato da
paysans e fu scritta da Stevens sulla scorta dell’acquisto di un quadro del pittore francese Pierre Tal-Coat (tra i fondatori
del Tachisme) che il poeta aveva arbitrariamente chiamato allo stesso modo. In quella poesia un angelo bussa a una
porta e dichiara di essere “l’angelo della realtà”: non un intermediario rivelatore di epifanie divine, ma il messaggero
della necessità di guardare il mondo nella sua presunta prosaicità attraverso il suo stesso vedere; insomma, quell’angelo
potrebbe essere una personificazione della poesia. E di una poesia come quella di Stevens in particolare, in quanto si
tratta di una poesia che, spesso accusata di oscurità, è in realtà come scrive Massimo Bacigalupo introducendo
l’edizione italiana di The Collected Poems of Wallace Stevens, una poesia di ricchezza e di profondità, oscura per chi
non ha voglia di fermarsi un po’ a ragionare, oppure anche a non ragionare facendosi strada per conto proprio nella idea
stevensiana che attraverso la poesia il poeta si dà il compito di porgere al lettore le sue scoperte circa la natura della
poesia stessa, che è un po’ la ricerca della magia delle cose che spesso è la distrazione umana a rendere prosaiche e
silenziose.

Ingeborg Bachmann

Morti stupide corteggiano i poeti intelligenti


o forse sono i poeti intelligenti
che non si accorgono del terzo
che cammina sempre accanto,
una morte stupida, una parodia
del suo trionfo, invisibile in mezzo a loro
che contano solo se stessi e la poesia.
Ma bisogna ascoltare ciò che hai detto:
la poesia deve bastare, il coro
di quelli che cercano di tra la leggenda,
le pagine dei diari, nella cicca della sigaretta
che avrebbe appiccato il fuoco al tuo letto,
sono come i pastori ammaliati
della Invocazione all’Orsa Maggiore
diffidenti dei suoi fianchi stanchi;
non vedono l’uccello che fa compagnia,
soccorso della notte, la civetta
che instilla ragione nella poesia
e poesia nell’intelligenza,
non vedono in quella tua morte stupida
quello che è, uno stupido episodio.
Di certo non si sono ancora accorti
del tramontare intorno di ormai troppe stelle
- comprese quelle dell’Orsa, più che vaghe –
in tanto inquinamento luminoso,
oltremisura abbacinati, assorti
dalle luci artificiali per vedere
il canto che s’alza dalla polvere,
l’uccello che in calma maestosa
stende le ali.

24 agosto 2021

Ingeborg Bachmann (Klagenfurt, 1926 – Roma, 1973. C’è una foto celeberrima di Ingeborg Bachmann, una di quelle
più abusate, che la ritrae seduta con una sigaretta tra le dita della mano destra con un sorriso solare che le ravviva il
volto: non vorrei sembrare irriguardoso, ma a me suggerisce l’idea che la poeta stia ridendo proprio della “morte
stupida” che l’ha portata via al mondo. Allo stesso tempo sembra sfatare il mito dell’artista fragile e disarmata che
spesso ha preso il sopravvento sulla realtà. Ingeborg fu sì una donna tormentata, fin dall’infanzia turbata dalla marcia e
dal canto dei militari nazisti nella sua città natale, e poi dall’aver dovuto volente o nolente partecipare a quella
generazione di scrittori tedeschi che con l’ombra del passato nazista hanno dovuto fare i conti. Ma è proprio nella
capacità di incrociare esperienza personale e storia che lei ha saputo trovare la bussola della propria esperienza, poetica
e poi intellettuale in senso ampio, giacché a un certo momento la poesia sentì la necessità di abbandonarla. Nella
Invocazione all’Orsa Maggiore si sente questa sorta di polarità tra la sensazione di assiderare sotto lo scandalo della
storia e quella di poter comunque desiderare di mettere la propria voce al servizio di una redenzione, magari lontana
quanto le stelle e pur tuttavia, come le stelle, visibile. Theodor Adorno sentenziò che “scrivere una poesia dopo
Auschwitz è un atto di barbarie, e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi
poesie”; Ingeborg Bachmann, come il suo amico Paul Celan in modo totalmente diverso, ha provato a dimostrare che
forse non era così.

Guillaume Apollinaire

A scuola ai bambini e alla bambine


fan fare giochetti con i calligrammi
come se nel 1918 fare calligrammi
fosse stato un giochetto
e non una figura di quel dramma
- nel senso etimologico di azione –
che è mettere parole su una pagina.
Peraltro ai bambini e alle bambine
spesso a scuola si fa credere
che la poesia sia poco più che un gioco:
esprimere le proprie emozioni
con qualche termine appena un po’ fiorito
andando ogni tanto a capo
(nel mio evo si imparava a memoria L’infinito … ).
Del resto viviamo un tempo inflazionato
dove per essere poeti basta dirlo,
un tempo in cui ogni giorno si dispensano
premi di poesia, e ciò nonostante
la gente ama la poesia come le mosche:
più o meno come avevi immaginato
nel tuo racconto Il poeta assassinato.
Le gocce di Il pleut sono perline
per realizzare braccialetti e collanine
e Cœur,couronne et miroir non stupirei
di vederlo su qualche braccio, tatuato:
nessuno nemmeno si sogna di sentire
se la pioggia porta con sé rimpianto e sdegno
e se cadendo spezza quel che lega
il nostro decoro al nitrire delle nubi
- qualcuno se potesse immetterebbe
con la pioggia la poesia (e i poeti?) in tubi
spedendo il tutto dritto al collettore
delle acque reflue, sparagmòs
meno cruento di quello di Orfeo.
Per fortuna le tue poesie scendono ancora
da quel fantasma di nembi genitore
di saltimbanchi tuoi degni compari,
su noi poeti che siamo, non ci crediamo tali,
un po’ trovatori e un po’ giullari
che sulle piazze del mondo
come per te a Parigi
sono sempre meno cercati, sempre più rari.

25 agosto 2021

Guillaume Apollinaire (Roma, 1880 – Parigi, 1918). Ecco, questa idea del giullare col quale un poeta in maniere più o
meno congrue può non tanto identificarsi ma rispecchiarsi (Apollinaire fa parte dell’eletta schiera degli ospiti della
galleria messa insieme da Starobinski in Ritratto dell’artista da saltimbanco) è stata sintetizzata da Sergio Solmi nella
fatica a distinguere in Apollinaire “la parte di adesione profonda e quella di avventato scherzo”, e questa non è che una
delle contraddizioni che hanno plasmato il suo fascino. E la più importante probabilmente è la coesistenza tra uno
sguardo sempre rivolto a una tradizione della quale non fare per forza tabula rasa ma sulla quale tentare di innestare i
prodromi di una poesia nuova: “Alla fine sei stanco di questo mondo antico”, è l’incipit di Zona; ma “Tra noi e per noi
amici miei / Giudico questa lunga disputa della tradizione e della invenzione / Dell’Ordine e dell’Avventura” sta scritto
in La bella rossa, la poesia che chiude i Calligrammes. Così, più che “un vero e proprio inventore” (ancora Solmi) egli
fu uno straordinario collettore delle forze in movimento nella effervescente Parigi di inizio ‘900, il collo della clessidra
che ha sparato la sabbia del secolo precedente dentro ai fuochi d’artificio di quello nuovo.

Lautréamont

I Canti di Maldoror poesia? Siamo sicuri,


Isidore Ducasse Conte di Lautréamont
che quel sublime delirio di follia
nel quale Orfeo è diventato menade
per fare a brani il mondo, il linguaggio, Dio
si possa davvero chiamare poesia?
Quella colata di furore sacro
di cui ormai pare non sia rimasto altro
che il famoso incontro su un tavolo anatomico
di una macchina da cucire ed un ombrello?
(peraltro probabilmente meno innocuo
di quanto ci si voglia fare credere).
Beh, per me la poesia è prima di tutto
una questione di forme: e non c’è prosa
il cui respiro non possa competere,
volendo, con un bel verso libero.
Che la poesia non sia una faccenda
di tramonti, albe, chiari di luna
e via dicendo dovrebbe essere fatto assodato
ma, ahimè, non è così, il chiaro di luna
- ovvero la pia illusione che le cose,
qualsiasi cosa, colpite dal riflesso
della luce del poeta-sole
possano per ciò risplendere da sole –
è tornato più vivo che mai in barba
alle note allergie di Marinetti
(anzi, Marinetti stesso è diventato
malgré lui un “chiaro di luna”).
Dunque, se poesia è come credo che sia
il dare corpo a qualcosa che non c’era
(poiesis non vuol forse dire questo?),
disposti a spiegare le ampie vele
dell’immaginazione ma su rotte ben esatte
benché più nel vuoto che su un mare,
con acribia che Artaud direbbe crudele,
allora i tuoi canti poesia lo sono:
una poesia che a un secolo e mezzo
dalla sua sfortunata entrata in scena
nessuno ha voluto ricordare.
La memoria scucita, la Singer arrugginita,
l’ombrello aperto giusto a riparare
se dovessero piovere ricordi
un po’ indisciplinati
come frammenti di meteore
da quel temporale ribollente;
quanto al banco da dissezione
quello è sempre disponibile
necessitassero necroscopie
per decidere in quale sezione
mettere certi capolavori: poesie, non poesie?

27 agosto 2021

Isidore Ducasse conte i Lautréamont (Montevideo, 1846 – 1889). Come l’Eneide anche I canti di Maldoror l’ho letto
in gran parte dentro la cabina di un furgone aspettando davanti a negozi di alimentari che aprissero per consegnare loro
il pane. Se nel caso del poema di Virgilio la situazione ha determinato un imprinting, diciamo così, di natura artigianale
(comporre versi come impastare pagnotte), nel caso delle pagine lautreamontiane ricordo una dimensione allucinatoria,
quelle pagine illuminate da qualche lampione stradale ancora acceso a attutire la nebbia e, idealmente, il freddo (questi
lussi potevo prendermeli d’inverno, d’estate c’era troppo da correre). Ma anche un pizzico di noia, la stessa che provavo
leggendo molte pagine di Sade, specie quelle in cui il Divin Marchese si prodigava in disquisizioni filosofiche: una noia
giusta e generosa però, che chiedeva e meritava di essere vinta. Quanto alla difficoltà di catalogare I canti di Maldoror,
ho superato i miei complessi di inferiorità: pare che perfino Georges-Emmanuel Clancier nel suo Panorama critico
della poesia francese da Rimbaud al surrealismo (1953) abbia avuto non poche difficoltà a decidersi dove collocarli.

Lawrence Ferlinghetti

Credo di poter dire che per te la poesia


non sia mai andata via da Coney Island:
un luna park è un luogo di allegria,
spesso del resto euforica ma sterile,
ed è pure un luogo di tristezza
non necessariamente a macchine spente.
E forse sarebbe il posto ideale
dove la poesia potrebbe incontrare
non qualche eletto ma un sacco di gente;
versi come i tuoi, giri di giostra
messi in moto da un imbonitore
con la lingua sciolta e il piglio furbetto
ma gli occhi chiari e dentro al petto
un cuore incapaci di imbrogliare chicchessia.
Dal luna park alla City Lights
il passo è breve, la stanza degli specchi
là manda il riflesso di innumeri poeti,
ciascuno col suo volto e la sua voce
ma ognuno, vivo o morto, orgoglioso
di innestare il proprio canto
sul basso continuo della tua poesia,
e cantare per cacciare a calci in culo
la malinconia.

29 agosto 2021

Lawrence Ferlinghetti (Yonkers, 1919 – San Francisco, 2021). Da giovane ho avuto la mia bella infatuazione per i
poeti Beat, e a dire la verità il mio preferito è sempre stato Allen Ginsberg, anche se non so dire se sia stato il migliore.
Da quella stagione sono uscito ormai da molto tempo, e oserei dire per fortuna indenne a parte qualche risibile
esperimento emulativo, però quei poeti non li ho dimenticati e li porto nel cuore. Non risale che a qualche mese fa
l’acquisto di una riedizione recente di A Coney Island of the Mind, la più celebre e celebrata raccolta di Ferlinghetti, che
secondo alcuni critici sarebbe tra le più significative di tutto il ‘900 (a me questo pare un po’ esagerato). Ferlinghetti è
stato un bravo poeta, e naturalmente è stato molto altro: soprattutto è stato un intellettuale cosmopolita, benché il suo
spirito sia sempre in fondo stato ancorato alla City Lights, la sua leggendaria libreria, e a San Francisco, città dalla quale
ha guardato il mondo e alla quale ha dedicato fino alla fine dei suoi giorni parole di semplice ma ardente affetto.

Wolfgang Goethe

Due o tre volte ho avuto l’impressione


(o sarebbe meglio dire l’illusione?)
di aver scritto una roba “smisurata”:
ma non conoscevo ancora il Faust
e soprattutto non sapevo affatto
che quella, proprio quella, definizione
proprio per quello l’avevi già tu usata,
per quell’opera di cui un pugno di versi
presi qua o là – non dovunque magari, ma … -
per me vale un’intera tua ballata,
quell’opera di cui nel mio quatto,
nel mio covile caldo di poeta
mi pregio di avere sei sette edizioni
(sei sette diverse traduzioni).
Il mondo ti sarebbe grato – io di sicuro –
anche se non avessi scritto altro
- e altro hai scritto, eccome –
solo per quel poema il tuo nome
buca la coltre di qualunque nembo.
E, a proposito di nembi, c’è una cosa
per la quale mi sentirei tuo complice
se a appellarmi tale non sentissi
pesarmi in petto un incubo di dubbi:
entrambi siamo caduti dritti dritti
in un incantamento per quel genio
scienziato poeta di Luke Howard
e per il Saggio sulle modificazioni delle nubi,
entrambi gli abbiamo dedicato
un po’ del nostro genio di poeti.
Forse anche tu avevi intuito,
al di là della tua inclinazione per la scienza,
che in quelle pagine di meteorologia
stava nascosto uno dei segreti
della creazione, dell’arte, della poesia:
saper leggere in quella fredda incandescenza
che è l’incessante andirivieni
tra una forma e la sua modificazione;
senonché a differenza delle nuvole
che vi possono giocare all’infinito
al vapore che pur non ne vuol sapere
il poeta deve poter dire a un certo punto:
“Finito”. Per il Faust
tu l’hai detto dopo quasi sessant’anni:
forse per leggerlo davvero
mi ci vorrà altrettanta dedizione?

30 agosto 2021

Johann Wolfgang Goethe (Francoforte, 1749 – Weimar, 1832. Come si può intuire dai versi che gli ho dedicato, io ho
un conto aperto con il Faust di Goethe (le sei sette diverse traduzioni, più un sacco d’altri libri, mi dovrebbero servire
per scrivere un mio “qualcosa” - non so ancora cosa - sul tema): e davvero credo che egli potrebbe essere ricordato
anche se avesse lasciato al mondo soltanto quel poema. Ma, appunto, ha lasciato ben altro. E ha lasciato questa sua
immagine di uomo e artista che ha creato senza mai risparmiarsi in mezzo alle tempeste della vita (“essa non è stata che
fatica e travaglio”) in preda a un susseguirsi di impeti e rivolgimenti e a un motore che egli stesso, non sapendo come
altro definirlo, ha definito, “a guisa degli antichi”, demonico. Luke Howard, il chimico inglese che nel 1802, col suo
Saggio sulle modificazioni delle nubi ha istituito una prima vera e propria classificazione delle nuvole, ricevette nel
1821 una lettera che gli comunicava il desiderio espresso da Goethe di fare la sua conoscenza: sulle prime pensò che si
trattasse di una burla, ma dovette ricredersi; il poeta scienziato aveva anche scritto quattro liriche ispirate da quella sorta
di annessione delle nubi nel mondo della consapevolezza scientifica, che lo scienziato poeta aveva procurato. Anche a
me “l’invenzione delle nuvole” – è questo il titolo stupendo che lo scrittore Richard Hamblyn ha dato a una biografia di
Howard – ha ispirato delle poesie.

Attilio Bertolucci

La tua Camera da letto è accogliente


ma non come si usa volere oggi
dalla poesia, che debba mostrarsi un luogo
in cui la gente possa stare a proprio agio:
accoglie, se mai fosse possibile,
piuttosto nel cuore di un disagio
perché laddove sembra di toccarla,
averla a portata di mano,
lei sfugge come la mosca tormentosa
quando siamo convinti che la mano
le sia piombata sopra come un maglio
lasciandola stecchita;
però la mosca è più che lesta, una saetta,
la tua poesia svicola via col suo lento
ma implacabile respiro, pare là
e tu la stai dominando, invece è lei
che ti risucchia dentro
la sua musica vasta come la pianura
e imponente come l’Eridano.
La tua poesia è per chi non teme il tempo
così inafferrabile che lo puoi trovare
al posto di quella mosca mai ghermita,
sul palmo allorché s’apre la mano
e un fiume in piena sta esondando
il corso della linea della vita.

3 settembre 2021

Attilio Bertolucci (San Lazzaro, 1911 – Roma, 2000). Bertolucci, com’è noto, ha messo al mondo due registi,
Bernardo e Giuseppe, ed è probabilmente sua la responsabilità di questa progenie cinematografica, della sua passione
per i film che ha per osmosi trasmesso ai figli; una passione generazionale, che gli ha consentito di attraversare la soglia
del cinema tra muto e sonoro, e di diventare uno di quelli che, almeno in parte, ha rimpianto quel particolare specifico
filmico che il sonoro ha … zittito. Ma quest’amore per le immagini si è riversato nella poesia, nella esattezza e
prodigalità delle sue sequenze narrative, al punto che Cesare Garboli ha sentito di definire il poema La camera da letto
un “film in versi”. Sequenze costruite su un senso del tempo, che Bertolucci ha introiettato sin dalla innamorante lettura
adolescenziale della Recherche di Proust, sia nel suo lento scorrere che nel suo manifestarsi in epifanie contingenti, che
a me ricorda il mare delle storie descritto da Salman Rushdie (Harun e il mar delle storie, 1990), nel quale l’acqua è
“composta di centinaia e centinaia di diverse correnti, ognuna di un colore diverso, che ondeggiavano una dentro l'altra
come un arazzo liquido di una complessità mozzafiato…questi erano i Flussi delle Storie, e ogni filo colorato
rappresenta e contiene un singolo racconto”. Nel caso di Bertolucci non si tratta di mare, ma evidentemente di fiume, il
Po, o del suo affluente, il torrente Parma che attraversa la città, ma la cosa funziona lo stesso: e l’andamento maestoso e
tranquillo dell’acqua, che può diventare impetuoso e perfino furioso, tiene chi lo osserva in quel peculiare stato di ansia
che è un’altra delle fonti della poesia di Bertolucci, che lui stesso del resto segnala in alcuni versi di La camera da letto:
“tutta l’ansia accumulata stava / mutando in gioia come fa la nube / che s’illumina passando sul sole”, mentre in realtà
“Il rumore che tu credevi un trotto / avvicinantesi è di nuovo pioggia”.

Odysseas Elytīs

Il Diario del carcere di Mikis Theodorakis


- onore a lui, scomparso pochi giorni fa –
comincia il 21 aprile del ‘67
ricordando un’ultima opera finita,
canzoni su poesie tradotte in greco
di Garcia Lorca, “voce sorella di Odysseas Elytīs”.
Dal tuo To Axion Estì aveva tratto un oratorio,
ma non è questo il punto: il punto è nella
apparente dicotomia tra quel racconto
di tre anni di clandestinità, prigione, resistenza
e la tua poesia che ha rivendicato sempre
il primato del mito sulla storia e la piena libertà
di andare per la propria strada, imperturbabile
ai frangenti in cui la storia alza la voce
e irrompe con il formidabile
passo del suo scandalo nel tempo e nella vita
delle genti e dei popoli. La tua, di voce,
si era alzata dalle rive di un posto
affacciato sul mare fra le terre in cui la storia
fu raccontata dai poeti prima che da ogni altro:
e allora forse avevi ragione tu a volere
che la bellezza e l’eros a ogni costo
non facessero spegnere mai l’eco
delle onde che da tali rive
si staccavano per andare a infrangersi
ovunque nel bacino di quel mare
che in effetti nei secoli dei secoli
non ha mai smesso di pulsare, raccontare.
Ma anche quando non hai potuto più serrare
la porta del tuo nido alle intemperie
di guerra, fascismo, dispotismo
non di meno la tua fede nel potere
della poesia e dell’immaginazione
non si è affievolita; come al sole il primo
che vestiva di luce la natura,
conchiglia per conchiglia, la memoria
parola per parola, così tra le macerie
che la storia non s’era privata di ammassare
il canto di Odysseas teneva duro,
la poesia non s’era prosciugata,
si perpetuava, come il mare.

5 settembre 2021

Odysseas Elytīs (Candia, 1911 – Atene, 1996). Non so se avete presenti quelle collane di libri sui Premi Nobel della
letteratura, credo ce ne siano più d’una: quella della quale io posseggo diversi volumi, tutti comperati presso una
bancarella di libri usati che li vendeva tipo uno o due euro l’uno (ritengo quasi immorale acquistare libri da venditori
del genere, ma come si fa a non approfittare?) è della UTET, si chiama(va) Scrittori del mondo: i Nobel ed è(ra) una
serie fatta con un certo gusto. Mi ha permesso di scoprire autori che non conoscevo, tra i quali Elytīs, che è stata una
scoperta appassionante. Il contrasto tra la sua figura apollinea e quella del dionisiaco Theodorakis, al di là della
dimensione politica di quest’ultimo, militante resistente, e dell’altro, apparentemente distaccato, è molto significativa
proprio per aver avuto una sintesi nella traduzione in oratorio di parte del poema To Axion Estì operata dal compositore
greco - per molti il suo capolavoro. Del resto è pur vero che Elytīs ha partecipato con grande dolore ma appunto da una
certa distanza alle vicende politiche della sua patria, cosa che la stessa motivazione del Nobel in qualche modo pare
adombrare: “per la sua poesia, che, sullo sfondo della tradizione greca, raffigura con forza sensuale e lucidità
intellettuale la lotta dell'uomo moderno per la libertà e la creatività”. Una creatività che Odysseas ha poi rivendicato nel
suo discorso, sottolineando che il viaggio dell’eroe di cui porta il nome “sembra non finire mai. Ed è felice”.

Ovidio

Le Metamorfosi sono racconti mitologici


meravigliosi meravigliosamente raccontati:
ma per i poeti sono molto di più,
sono l’essenza stessa della poesia
ovvero (non) cogliere le cose nel momento
esatto in cui queste stanno per sfuggire via.
Questo io penso fino al punto di provare
un autentico, intenso turbamento
quando leggo fra i tanti formidabili
episodi quello di Dafne e Apollo
- correa, mi è dovuto ricordarlo,
a scatenare la mia commozione
l’immaginifica scultura di Bernini;
obtorto collo non posso che conoscermi
in quella sconfortante onta del Febo
e, ogni volta, davanti al foglio-ninfa
sentire riaffiorare la paura
che la bianchezza ineffabile,
che il mio desiderio di poesia
si trasformi in stupore inafferrabile
e per di più crescente nella fuga.
Qual è, Ovidio, il tuo segreto?
Come hai fatto a bloccare in versi eterni
tutto quel ben di dio prima che altri
vi provvedesse e ti lasciasse
tra le mani bramose un po’ di alloro?
Che penseresti di me, povero ingenuo,
che inseguo dovunque la beltà
supplicandola come uno strenuo
invaghito senza dignità
di concedermi sfiorarle la corteccia
fresca sotto la quale ancora batte un cuore?

9 settembre 2021

Publio Ovidio Nasone (Sulmona, 43 a.C. – Tomi, 17 o 18 d.C.). Proprio mentre sto scrivendo queste note pseudo-
biografiche, tutte posteriori alla composizione delle poesie, sto attraversando un periodo di depressione che mi ha fatto
balenare il pensiero blasfemo di scrivere delle mie personali Tristia, pensiero fortunatamente rientrato. Ho usato
l’aggettivo “blasfemo” non a caso, perché credo che davvero Ovidio meriti di abitare il pantheon della poesia. E credo
che davvero le Metamorfosi siano la più formidabile, sublime, perfetta metafora, racconto per racconto, del corpo a
corpo che il poeta intrattiene con la sua materia, la sua duplice materia di creazione, le cose e le parole. Lo stupore per
la poesia di Ovidio, e lo sgomento provocato dalla lettura della Lettera di Lord Chandos di Hofmannstall, mi hanno
fatto immaginare un giorno come l’Apollo di Bernini, che mentre sta per afferrare l’oggetto della propria eccitazione se
lo vede mutare tra le mani in qualcos’altro: figura patetica del poeta che osserva perplesso le parole trasfigurare in
nonsoché sfuggenti come ninfe. Ovidio riuscì miracolosamente a fermare le metamorfosi in parole, come Bernini riuscì
miracolosamente a fermare nel marmo una di quelle metamorfosi, una delle più belle: anche se, da poeta, quando vedo
la sua scultura di Apollo e Dafne, mi viene da dire “Eppur si muove!”.

Marino Moretti

Potrei stimarmi di stare dentro un libro,


un’antologia di tuoi e miei concittadini
che han trafficato più o meno bene in poesia,
che tu apri per anagrafe e importanza:
ma sarebbe un gesto di ben mala creanza
rispetto a chi ha definito i suoi “versicoli”,
si è chiamato per cognome e nome
e ha intitolato le sue poesie “scritte col lapis”
o con il dialettismo “Poverazze
(il più misero forse tra i molluschi)”.
Però mi istigherebbe a confidenza
la tua modestia senza virgolette
e la tua caparbia di scrivere a un sol occhio
piuttosto che di metterti in ginocchio:
in ginocchio come, a quale altare? *
A ciò che quando lasciavi le ultime tracce
- Le poverazze e Diario senza le date –
poteva sembrare un’eresia,
uno sfottò, una turlupinatura:
in epoca di tensioni e destrutturazioni,
veleni del giocoso e neo e post avanguardie
scrivere come nel ‘910,
come se il tempo non fosse mai passato,
come se il mondo si fosse incantato
nelle frescure del tuo bel giardino
a pochi metri dal porto-canale
e dagli occhi fissi e spalancati
sulle prue dei bragozzi ormeggiati.
Che forza, un poeta di tal genere
potrebbe comporre appuntendo uno straccale
intinto in calamaio “or nell’acqua
or nel vento or nella rena”
mai e poi mai, credo, “nella cenere”. **

12 settembre 2021

Marino Moretti (Cesenatico, 1885 – Cesenatico, 1979). È nella poesia Morettianamente che il mio concittadino
definisce i suoi versi come “versicoli” e confessa di non volersi mettere in ginocchio davanti alle mode, al maistream
diremmo oggi, del mondo poetico: la raccolta che contiene quella poesie, Le poverazze, è stata messa insieme tra il
1968 e il 1972, e lascio chiunque l’abbia letta o abbia voglia di leggerla immaginare cosa poteva significare uscirsene
con quel tipo di poesia in un’epoca come quella. Ed è nella stessa poesia che Moretti pensa di volersi “umiliare” a tal
punto da firmarsi come all’anagrafe Moretti Marino, anche se per voce dell’alter ego con cui intrattiene il dialogo che
intesse il testo. Da alcuni anni nel giardino di Casa Moretti si tengono ogni estate delle rassegne serali nel corso delle
quali poeti, bravi, meno bravi, talvolta al limite della sedicenza, leggono le loro poesie per lo più con un sussiego, una
falsa modestia, una maniera che Dario Fo avrebbe assimilato a un birignao. La rassegna porta il titolo, azzeccatissimo e
assai simpatico, La serenata delle zanzare: spesso la penetrazione dell’epidermide da parte delle proboscidi dei
fastidiosi culicidi è l’unico fatto “pungente” di quelle serate.

Iosif Brodskij

Qual è la forma del tempo che un poeta


si ritrova a maneggiare, se il suo tempo
può finire di fatto in mani altrui,
colpevole il poeta di non lavorare,
di non aver compiuto studi seri
e di scrivere versi per il canto libero
e non per glorificare
l’olimpo grigio e i miti per delibera
di uno Stato?
È la forma di uno sciame dilatato,
la nube sparpagliata dallo “strale
che l’arco de lo essilio pria saetta”,
una forma che sincronizza il battito
del cuore al dolore del mondo
nel momento in cui la lancetta
pare incollata al quadrante mentre corre
in realtà verso le ime fondamenta
degli incurabili infartuati dalla storia.
E chissà quel cuore, il tuo, assalito
dalla fatica propria e dalla compassione
per quale dei due pesi avrà spenta
la sua bella pulsazione un giorno
d’inverno come un qualsiasi giorno d’inverno:
quando il tempo non aveva altra forma
del suo passare indifferente eterno.

18 settembre 2021

Iosif Brodskij (Leningrado, 1940 – New York, 1996). Trovo sorprendente la quasi noncuranza con la quale Brodskij si
riferiva all’ostracismo da parte del potere sovietico (se ci si può limitare alla parola ostracismo per riassumere una
detenzione psichiatrica come anticamera di una condanna ai lavori forzati – per “parassitismo” – e quindi all’esilio
perpetuo): “Mi rifiuto di drammatizzare tutto ciò … credetemi, non mi fece alcuna impressione”; che sarebbe facile
interpretare come una sottovalutazione snobisticamente artefatta, il che però non corrisponderebbe alle qualità della
persona. È piuttosto sorprendente anche quella accusa di “parassitismo” per giustificare la condanna di un poeta che non
scriveva versi sovversivi, ma semplicemente legati ai propri interessi e non partecipi della propaganda di partito:
nell’URSS del 1964, l’anno del processo a Brodskij, questo bastava. Forse la “fuga da Bisanzio” di cui trattò in una
bellissima prosa del 1985 era anche una fuga dal suo paese, dal bizantinismo dei feroci burocrati della cultura, da uno di
quei luoghi dove “la storia è inevitabile, come un incidente automobilistico – luoghi in cui la geografia provoca la
storia”, luoghi dove la cultura si inchioda come, secondo il poeta, le moschee di Istanbul, “Enormi rospi di pietra
congelata, acquattati per terra, incapaci di muoversi”.

Aldo Palazzeschi

Io sono un poeta mediamente serio,


talvolta forse perfino un po’ serioso,
potrei partecipare alle tue fiere insolenti
addirittura, chissà, come un trombone;
ma ho capito il giocoso vituperio,
che tu abbia tritato sotto i denti
la protervia e l’adulta saccenteria
come un bambino masticherebbe dei biscotti
sentendo il gusto dello scricchiolio
man mano che i frammenti rotti
diventano bocconi di poesia.
Avevi dedicato L’incendiario
a Filippo Tommaso Marinetti
- che se n’era appropriato volentieri –
ma sapevi che quel piromane alla gogna
in fondo era il tuo autoritratto:
quello di un saltimbanco senza peli
sulla lingua e senza falsa vergogna
che appicca con lapilli di parole
una fiamma di malinconica speranza
guizzante su un mondo intossicato
di irrefrenabile euforia.
Un mondo, lo avevi capito, che i poeti
mette su piedistalli (o dentro gabbie)
purché stiano ben al loro posto
dietro la lavagna della poesia.
I poeti poi, i poeti veri,
escogitano come andare via di là,
ciascuno a proprio modo accende il fuoco
e va a solcare il cielo come fumo,
come il tuo uomo di fumo Perelà.

25 settembre 2021
Aldo Palazzeschi (Firenze, 1885 – Roma, 1974). C’è una foto scattata nel 1914 da Mario Nunes Vais, l’uomo che fece
scoprire a Benedetto Croce il proprio volto che egli non conosceva in quanto rifuggiva lo specchio, la quale ritrae
cinque paladini del Futurismo: due sono seduti, Carlo Carrà e Umberto Boccioni, tre sono in piedi, Filippo Tommaso
Marinetti, Giovanni Papini e Palazzeschi. Hanno più o meno tutti delle facce da schiaffi, più di tutti Papini e Marinetti,
meno di tutti Palazzeschi, che peraltro non guarda proprio dritto in macchina come gli altri ma leggermente fuori, con
un mezzo sorrisetto appena accennato. È un’immagine perfetta della sua ironia beffarda ma garbata, che con certa
arroganza del Futurismo ha poco a che fare, e del suo partecipare al movimento a distanza di sicurezza. L’incendiario a
quell’anno aveva già avuto la prima edizione con accluso il marinettiano Rapporto sulla vittoria del Futurismo a
Trieste, atto propagandistico che con le poesie non c’entrava un fico, e la seconda più sotto il controllo dell’autore. Il
libro in origine si doveva intitolare Sole mio: ma per chi aveva da poco gridato di voler uccidere il chiaro di luna la cosa
dovette sembrare inopportuna, se non come probabilmente era canzonatoria.

Saint-John Perse
Dicevi di volerti aprire nuove strade
verso parole non ancora udite
e le hai aperte a suon di lotta,
corpo a corpo col tempo immemorabile
di quando la poesia non si scriveva
e le parole erano gocce di rugiade
stillanti sulle lingue dei poeti:
se i tuoi versetti appaiono una vena
d’ombra nel magma della luce
è perché quella luce è l’insondabile,
ingannevole polso di una notte
che i poeti soli hanno voglia di esplorare.
Ma sulla tua barca d’esilio,
la tua pura lingua dell’esilio,
ti ci sei inoltrato fino al cuore,
al cuore della tenebra,
e l’anabasi era un insperato annuncio:
“Il remo è germogliato in mano al rematore”

26 settembre 2021

Saint-John Perse (Pointe-à-Pitre, 1887 – Hyères, 1975). Ecco un altro grande poeta incontrato grazie ai “saldi e
ribassi” librari: in questo caso con meno imbarazzo dato che, stando a un recente articolo di Pasquale Di Palmo, allo
scoccare del Nobel (1960) egli in Itala era sconosciuto perfino a molti addetti ai lavori; e le cose poi non sono andate
molto meglio, nonostante la stampa della sua intera opera poetica da parte di Lerici tra quello stesso anno e il 1969, e
qualche sporadica pubblicazione successiva. Eppure, quando Ungaretti tradusse il poema Anabasi nel 1931 qualcuno
dovrà essersi pure accorto quanto meno della originalità di questo poeta che ridava vigore alla forma del poema in prosa
con una visionarietà fra toni da sacra scrittura e rimbaudiane Illuminazioni. “Mi hanno chiamato l’Oscuro e abitavo lo
splendore”, scrisse Perse, secondo Di Palmo consapevole dello scarto tra la qualità della sua scrittura e la percezione
che un vasto pubblico poteva, può averne: una scrittura dalla presa certo non immediata, ma molto generosa con chi ha
il coraggio di abbandonarsi al suo flusso lasciando “all’àncora dettare la legge nell’egloga sottomarina”.

Vivian Lamarque

Nessun poeta, nessuno ti somiglia


per quella tua semplicità inquietante,
quel tuo scrivere col tono della fiaba
che, si sa, lieve è solo in apparenza
e quando la si lascia genuina, senza
cospargerla di inutile melassa
nasconde – e neanche tanto – dietro la levità
il morso della vita, la sua crudeltà.
E poi il potenziale lieto fine,
che nelle fiabe abbandona la carcassa
di tutte le avventure in un verdetto,
lasciato a penzolare come un filo
che potrebbe essere il capo a cui venire
o un polo d’alta tensione incustodito.
Le tue poesie guardano al dolore
della vita con lo sguardo dei bambini
e, dei bambini, il racconto porta
lo stupore, l’ingenuità, ma insieme anche
l’inspiegabile luccicanza, quella sorta
di sapienza innata che loro soltanto
posseggono senza rendersene conto.
Non è puerile la scrittura, lo è un pensiero
che sembra far scaturire le parole
dalla pietra serena dell’in-fans
con la forza della disperazione
- quieta disperazione – o viceversa
verso quella pare voler tornare.
Vivian, poeta Pollicino che semina sassolini
e infatti la strada non l’ha ancora persa.

27 settembre 2021

Vivian Lamarque (Tesero, 1946). Nel n. 30 (1978) de I Quaderni della Fenice, volumi che raccoglievano sillogi di più
poeti, ce n’è una di Vivian Lamarque che ho letto e riletto più volte soprattutto in virtù dei versi che essa aveva
prelevato da L’amore mio è buonissimo, una sezione del primo libro di Lamarque, Teresino, del 1972 (più avanti avrei
ampliato la conoscenza della sua produzione). In quei versi, utilizzando una strategia retorica che ricomparirà anche in
seguito con diverse sfumature, la poeta scrive come un’adulta che, quale ne sia il motivo, sente di dover dissimulare il
proprio dettato dietro la maschera di un linguaggio pressoché infantile, con effetti stranianti, talvolta su quel crinale che
divide la banalità del quotidiano dalle sue ricadute comiche e/o dolorose; una versificazione che non ha eguali, che
sembra il frutto di un innesto tra la raffinata semplicità di Sandro Penna e le più acute filastrocche di Gianni Rodari. Le
varie sezioni del succitato Teresino sono scandite da citazioni prelevate dal Pollicino di Charles Perrault, che iniziano
col primo abbandono dei bambini nella foresta e terminano coi sette fratellini che, sfuggiti all’Orco, corrono tutta la
notte senza sapere dove andare: la poeta-Petit Poucet si è salvata, ma la poesia è pur sempre una foresta …

Sandro Penna

È pressoché insopportabile il modo


in cui buttavi via leggendoli i tuoi versi
con una scabra timidezza che qualcuno
avrebbe potuto prendere per posa:
saltando apposta i più conosciuti,
sottolineando con cura le cesure
- e lamentando di come andavan persi
gli stacchi esatti degli enjambements
nei birignao dei fini dicitori –,
procurandoti di stabilire cosa
(non molto) casomai poteva dirsi bello;
davvero parsimonioso in te il rapsodo
all’obiettivo di Mario Schifano
nei pochi, commoventi passaggi
del suo film Umano non umano.
Nelle frasi quasi biascicate,
nella nenia della voce sottile
si può sentire la gravosa leggerezza
che la poesia dava alla tua vita:
io immagino una penna nervosa
acquietarsi sul foglio all’improvviso,
un istante di mondo accomiatarsi
dal suo dovere al tempo
e abbandonarsi a parole profumate
del profumo residuo del fiore reciso.
Quel profumo ritorna a inebriare
ritrovandosi con le tue poesie, ciliege
che si chiamano l’un l’altra, maturate
a un sole malinconico ma invitto.

1 ottobre 2021

Sandro Penna (Perugia, 1906 – Roma, 1977). Nel corso della presentazione di un volume di proprie poesie un mio
collega ne aveva lette alcune, una in particolare sui barconi dei migranti, che io nel corso del richiesto dialogo col
pubblico dissi essere scivolosamente contigue alla cronaca, scritte con le parole della cronaca e troppo a caldo rispetto
agli eventi che trattavano. Qualcuno si erse a suo difensore, asserendo che i poeti devono guardare alla realtà e non al
proprio ombelico: certo, ribattei io, ma da poeti, non da cronisti. Finita la diatriba, il moderatore della serata pensò bene
di fare i nomi di alcuni possibili numi tutelari del nostro, e tra questi quello di Sandro Penna. Io trasalii. Sandro Penna?
Ma cosa ha fatto Sandro Penna se non guardarsi l’ombelico per tutta la vita? L’ho detta un po’ tranchant, però … ci
sono pochi dubbi sul fatto che il poeta perugino sia stato, difficile dire fieramente data la ritrosia della persona (come si
vede nel film di Schifano), lontano e dalla realtà sociale e politica, e dai tumulti linguistici che agitavano la poesia
quanto meno nella seconda parte della sua carriera: fedele a quelle istantanee di misteriosa compresenza di dolcezza
panica e ombroso vizio di vivere che forgiano la materia dei suoi versi; e fedele a una lingua che, come scrisse Cesare
Garboli, guardava a Pascoli e D’Annunzio superandoli entrambi con la sua essenzialità e una concisione da falso
epigramma; in una dimensione temporale di eterno presente che si esprime in un’esattezza quasi da haiku, lo schema
poetico giapponese di tre versi nel quale, come intuì Roland Barthes, non v’è un pensiero ricco ridotto a una forma
breve, ma un evento breve che trova all’improvviso la sua forma esatta.

Nelly Sachs
Se è come hai detto, ossia che le parole
sono emerse dal silenzio del tuo corpo
il quale, gracile, ha dovuto abbandonare
la danza, e che a quel silenzio
musicale piegavano per superar se stesse;
e se è vero come hai detto, ossia che il tempo
a esse più propizio era la notte
ma che non volendo disturbare
il riposo della madre rigiravi
nella mente arresa al buio la messe
dei pensieri e scrivevi quel che ne restava
solamente al mattino; ecco che si spiega,
allora, come la poesia si aggira
nei tuoi versi a un fiato dalle tenebre
senza perdere l’equilibrio di un manège,
si spiega come la poesia arrischia
dappresso alle dimore della morte
senza rinunciare a proteggere
il suo passo di vita.
Ai poeti tutti, poi a ben pensarci,
lo stesso mandato tocca in sorte.

8 ottobre 2021

Nelly Sachs (Berlino, 1891 – Stoccolma, 1970). Nelly Sachs è stata più volte definita “la poetessa dell’Olocausto” ma
avendo evitato l’esperienza del campo, non essendo una sopravvissuta ma una scampata, il rapporto fra la tragedia e la
virtuale offerta di testimonianza della sua poesia fu piuttosto articolato, meno rettilineo rispetto a quello di un Paul
Celan (col quale tenne un significativo carteggio). Giorgio Agamben in Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il
testimone sottolineava la differenza tra i due lemmi latini testis – colui che si pone come terzo – e superstes – colui che
ha vissuto una cosa fino alla fine: Sachs, che riuscì a fuggire con la madre malata in Svezia grazie all’aiuto di Selma
Lagerlof, assistette alla persecuzione del popolo ebraico in qualità di testis, da esiliata, in estrema povertà e in
condizioni assai difficili. Olof Lagercrantz scrisse di lei che è come se avesse vissuto giorno dopo giorno l’ultimo
quarto d’ora prima della camera a gas. A ogni modo la sua poesia riesce a avere una caratura molto prossima a quella
della testimonianza: e con una sostanziale fiducia nella parola e nella sua potenzialità redimente, a differenza di Celan
sempre in precario equilibrio tra l’impeto del dire e la tentazione del silenzio. C’è un’immagine in una poesia di Sachs
che raffigura bene quella dimensione di prossimità nella distanza: “Questa notte / ho svoltato l’angolo / di un vicolo
buio / e la mia ombra mi è venuta in braccio”.

Bertolt Brecht

Immagino la tua testa appesa


- Oh Falada, da du hangest -
sotto una porta da cui ogni giorno passo
con quello sguardo sornione della foto
in cui ti cali gli occhiali sopra il naso
e gli occhi svegli e malinconici
guardano dritto nei miei come se il vaso
di Pandora della storia in quel momento
stesse per aprirsi un’altra volta,
in quel momento esatto come sempre
è stato e sarà, allorché obici
di sospetto, di prudenza s’alzano
e vorremmo s’alzassero di fronte
al nostro bisogno di qualsiasi quiete
purché quiete. Ma come nella fiaba antica
parole giuste non le ferma morte,
e come in quella tua breve poesia
la piccola radio non abbandonerà.
Il disincanto dei tuoi versi suona forte
e chiaro in quei lassi del tempo
in cui ci diciamo a voce fioca “Dai,
quello che è stato non dovrà essere più mai”.

17 ottobre 2021

Bertolt Brecht (Augusta, 1898 – Berlino, 1956). Non sono, ahimè, un frequentatore di teatro (né di cinema né di
auditorium) non perché non mi piacerebbe esserlo ma perché la mia vita quotidiana me lo rende difficile. Però, così ad
orecchio, e quindi posso sbagliare, mi pare che quella dei drammi di Brecht sia una presenza piuttosto rarefatta nelle
sale italiane; come se la loro tempra, e la loro tensione dialettica, fossero precipitate nel limbo del non abbastanza
moderno e non ancora abbastanza classico; oltre che del politicamente desueto. Credo che per la sua poesia le cose non
siano molto diverse: ancora capita di sentirne parlare come di un “poeta comunista”, e di considerare la sua produzione
in versi più dal lato dei contenuti che da quello formale, il che non dovrebbe mai accadere. Invece penso che Brecht sia
uno di quegli autori a cui tornare: io non sono un fan di ferro della sua poesia, ma quando la leggo sento scorrere sotto
le parole la falda dell’onestà e della tenacia intellettuali, e sopra di esse aleggiare i refoli dei ricorsi storici, che come
insegna il nostro presente ci mettono poco a diventare bufera.

Marianne Moore

Unicorni di mare e di terra fantastico,


e loro relativi leoni
e altri strani animali o ordinari
- pangolini e lumache,
balene e basilischi piumati –
uniti in un corteo metafisico
come effigi di antichi bestiari
davanti all’Orfeo con cappello
a tricorno fermarsi;
e fermarsi anche i sassi ed i fiumi
a ascoltare incantati l’incanto quadrato
dei tuoi versi di spietato controllo
e precisione crudele; e i tribuni
della “poesia per le masse”, al contrario,
darsela a gambe, tra le gambe la coda
dileguarsi a rotta di collo
per non essere neanche sfiorati
dalla tua perspicacia intangibile,
dalla giustezza delle visioni,
per non rischiare - sia mai – di apparire
rospi veri in giardini di immaginazione.

31 ottobre 2021

Marianne Moore (St. Louis, 1887 – New York, 1972). Come ho notato nei versi dedicati a Pasolini, egli definì
Marianne Moore “adorabile” pur non nascondendo che la squisitezza borghese della poeta americana, “una vera
signora” fosse il segno inequivocabile della sua appartenenza a una “razza oggettivamente (almeno per me) più odiosa”.
Questo nel 1974: l’anno prima era rimasto colpito dalla traduzione italiana del primo volume delle sue opere complete
al punto da annoverarlo tra le letture fondamentali della vita. Cosa aveva trovato Pasolini di così folgorante in quel
volume? Probabilmente quello che hanno trovato la maggior parte dei lettori di Marianne Moore: la qualità di una
formidabile precisione che elevava a vertici assoluti i principi dell’Imagismo, la devozione all’immagine concreta delle
cose, il loro trattamento diretto, l’uso di un linguaggio controllato e privo di fumosità. È emblematico in questo senso
un testo intitolato L’insidiosa modestia della corazza, dove Moore si prende gioco – seriamente – delle “armature
dorate e intarsiate” dei Cavalieri del Graal, che nella realtà vestivano sobrie tuniche: alla fine della poesia compare un
altro tipo di corazza, quella morale e spirituale, ed è a questa che attinge la virtù, sostanza che diventa forma. Secondo
Randall Jarrel, Marianne spesso rivelava attraverso le proprie creazioni il desiderio di indossare una lorica (non stupisca
il termine raro, che indica sì la corazza dei legionari romani, ma anche l’esoscheletro di alcuni animali microscopici: gli
animali sono uno dei soggetti ricorrenti di Moore) di integrità, di aristocratica integrità, e di ironica intelligenza: basta
vedere le foto di quando declamava le sue poesie col famigerato cappello a tricorno e mantello nero.

Gottfried Benn

Stan Brakhage fece un film


- The Act of Seeing with One’s Own Eyes -
girato in una sala d’autopsie
per insegnarci il potere dello sguardo
e la crudeltà insita nell’arte:
tu lo avevi preceduto di gran lunga
- sessant’anni – con sei poesie
scritte nelle sale di una morgue.
Dicesti poi di aver fatto fatica
a trarti fuori dallo squarto
che le tue parole infliggevano
su corpi di già dissezionati:
ma quell’atto di guardare con i propri
occhi non ti ha invero abbandonato
perché i tuoi versi sono incisioni
di bisturi sulla carne palpitante
ancorché fredda delle allucinazioni
alle quali un poeta è trascinato.
E se per Rimbaud ebbro era il battello
e i fiumi impassibili
per te al contrario ebbro era il flutto
e imperturbabile il naviglio:
indefesso traversare nella forma,
quintessenza di parole nel periglio
di guardare con i propri occhi
l’incessante lama che seziona tutto.

1 novembre 2021

Gottfried Benn (Mansfeld, 1886 – Berlino, 1956). Mi tocca rifarmi ancora a Pasolini: egli sottolineava del poeta
tedesco il nazismo non diretto – “era nazista perché la sua cultura era la cultura dalla quale per degenerazione era nato il
nazismo” (ma in realtà una breve adesione formale ci fu) – e il fatto che la sua poesia sia una specie di specchio del suo
fare poetico. “Sono uno di coloro che non amano Benn”, scriveva, ma non riuscendo onestamente a stroncarlo si
accontentò di cercare di “coglierlo in contraddizione”, non senza ammettere la qualità delle sue poesie (“tutte
bellissime, alcune stupende”). Io non ho potuto fare a meno di paragonare Morgue, una raccolta di sei testi scritti da
Benn nel 1912, con il film di Brakhage: come il regista statunitense usò la macchina da presa quale bisturi per affondare
la visione nel corpo del cinema, così Benn usò la parola per sezionare il corpo della poesia, della poesia lirica coi suoi
cliché, aggiornando di mezzo secolo la temperie del disgusto baudelairiano di Una carogna (o, più prosaicamente,
approfittando dei propri studi in medicina). Ma anche superata la agghiacciante ricognizione autoptica, Benn non uscirà
dal laboratorio: la sua poesia, a proposito di Baudelaire, è ben sintonizzata sull’idea che la fantasia sia la più scientifica
delle facoltà.

Cesare Pavese

Che lavorare stanca lo so fin troppo bene,


anzi il lavoro da anni, tanti anni
è diventato – non vorrei esagerare,
non esagero – una pena.
La poesia, che al lavoro strappo
come foglie da piante,
strappo dolente e necessario,
sarebbe forse perciò liberazione?
No, certo che no, del resto se lo fosse
noi poeti dovremmo vergognarci avanti
alla sua crudele resistenza,
lei che attraversa i secoli asciutta
come i mari del sud il tuo cugino.
Poi tu stesso l’hai detto lampante:
non è a buon mercato la gioia
che dà comporre, e la vita si vendica,
e si vendica bene; perciò i grandi poeti
come i grandi amanti hanno i coglioni.
Non ti sei fatto illusioni, il poeta
è un mestiere e la poesia stessa un lavoro,
energia impiegata a un fine preciso,
carbone e vapore, non filo di seta.
Ma chi direbbe, tra il beccheggio
di quei versi trovati, quei racconti
di poesia “mugolata”, che dietro
c’è una pagina scritta, cancellata,
riscritta e ricancellata, c’è il salire
inesorabile della rupe, la tua vigna tra i monti?

13 novembre 2021

Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 1908 – Torino, 1950). È piuttosto impressionante vedere il pezzetto del
manoscritto di I mari del Sud riprodotto sulla quarta di copertina di Poesie edite e inedite (Einaudi, 1962): sembra una
“cancellatura” di Emilio Isgrò, qualche parola salva qua e là - il primo verso tutto – e il resto una teoria di espunzioni;
al confronto quello de La terra desolata di Eliot su cui intervenne Pound quasi impallidisce. Anche alla luce di ciò
verrebbe da domandarsi che cosa intendesse di preciso Pavese quando sosteneva di aver trovato il suo verso scopertosi
un giorno a “mugolare certa tiritera di parole secondo una cadenza enfatica” come era solito fare da bambino leggendo.
Ma direi che entrambe le cose convergono sull’idea che Pavese aveva del fare poesia: un mestiere per il quale “ci vuole
il meglio: i coglioni duri. Che si chiama altresì l’occhio olimpico”, dove conta molto più della preoccupazione del
comporre quella di cosa fare di ciò che si è composto, e dove è necessaria una certa ironia per distaccarsi dal “germe
mitico” che il poeta deve portare a evidenza per trasformarlo in un oggetto di compiutezza fantastica e poi “abituarsi a
non crederci più”. Forse non a caso il primo frutto maturo di questo mestiere si intitolò Lavorare stanca, ne verrebbe
sillogisticamente che secondo Pavese la poesia stanca. Ed è vero, cari poeti: per scrivere, come ha detto Stephen King,
“è opportuno costruire la propria cassetta degli attrezzi e poi sviluppare i muscoli necessari a portarla con sé”.

Konstantinos Kavafis

Mi piacerebbe se fra cent’anni qualcheduno


si ricordasse di me, come di te, quale un poeta
più interessato a scrivere buona poesia
per sé e per i migliori amici
che non a pubblicarne purchessia;
o come uno capace di vedere
la storia brulicare negli uffici
quotidiani dietro la vetrina
di un caffè, la memoria in burrasca
nelle iridi pacate di un barbiere
in tempi in cui non è più vela issata
ma sudario lasciato sopra il ponte
aggredita dal sale infido e infecondo
di un’infida e infeconda nostalgia.
Mi piacerebbe consacrare la poesia
(e un po’ l’ho fatto) al nostro mare,
copiosa fonte ma quasi disseccata
di meraviglie in disperato viaggio
tra gli occhi di Alexandros,
l’occhio nero dello sperar, più vano,
l’occhio azzurro del desiar, più forte.
Mi piacerebbe se in pochi sapienti tocchi
sapessi come sapevi fare tempo,
fermo l’inservibile trionfo della morte
tra le icone di un mosaico bizantino
nel passo elegante e musicale
di una danza antica e eterna.
Mi piacerebbe, Kavafis Costantino.

14 novembre 2021

Konstantinos Kavafis (Alessandria d’Egitto, 1863 – Alessandria d’Egitto, 1933). Quando si fa il nome di Kavafis ai
più vengono alla mente Itaca o Aspettando i barbari per la loro fatale “attualità”, l’una che parla del viaggio più
importante della meta e l’altra che invita a non temere il diverso; e così i loro pur memorabili versi vengono declassati a
poco più di slogan. Ed è triste questo destino, per un poeta che risulta essere tra i più amati, letti, tradotti e studiati nel
mondo; un poeta al quale interessava molto poco la pubblicazione delle proprie poesie, e che nei loro confronti era
feroce, tanto da averne ridotto il canone accreditato, se non sbaglio, a circa 250. A me piace molto il fatto che il mio
libro di Kavafis (Mondadori, 1961) sia l’antologia curata da Filippo Maria Pontani, questa raccolta il cui indice pullula
di riferimenti al mondo classico, nel quale tuttavia il grande poeta greco sembrava muoversi con lo stesso passo felpato
del flâneur che scruta attimi di quotidianità dal tavolino di un caffè, dal banco di un mercato: “La genialità di Kavafis”,
scrisse Montale che lo considerava “un vero alessandrino” alieno a ogni studiato neoclassicismo “consiste nell’essersi
accorto che l’Elleno di allora corrispondeva all’homo europaeus di oggi; e nell’essere riuscito a immergerci in quel
mondo come se fosse il nostro”.

Eugenio Montale
Ho sceso anch’io un milione – quasi – di scale
dando il braccio alla mia Drusilla;
e dando il braccio alla tua poesia
ho sceso l’erto crinale
della musica e dell’esattezza:
parole precise ed inquiete,
di quaresima, o di carnevale,
parole di terra e di mare,
di profumi e di sfiori,
parole dal becco affilato
su ossi di seppia,
parole frondose di bosco
e asciutte di steppa
di un poeta che sento sodale.
Parole di Eugenio Montale.

15 novembre 2021

Eugenio Montale (Genova, 1896 – Milano, 1981). Io come poeta cerco quasi sempre tra le prime cose la musicalità,
che, sottinteso, nella poesia può avere un’infinità di declinazioni diverse. Vi ho accennato a come Amelia Rosselli abbia
fatto tesoro nella sua indagine intorno a nuovi possibili spazi metrici di una musica scoscesa come quella che usciva dai
laboratori della Neue Musik di Darmstadt; Montale, nell’epoca degli Ossi di seppia, pare avesse teso l’orecchio
soprattutto a Debussy, alla ricerca di una forma anti-retorica – al prezzo, consapevole, di cascare in una retorica di
ritorno. Ma il poeta ligure amava anche il melodramma, anzi ha “rischiato” di diventare un discreto baritono, se non
fosse che non si sentiva portato per il tipo di vita di un cantante professionista: è passato con una certa nonchalance
dalla lirica (opera) alla lirica (poesia), ma alla prima ha continuato a dedicarsi per alcuni anni come giornalista. Da
giornalista batteva alla macchina da scrivere con un dito solo, tuttavia con una certa efficienza; chissà se quel dito
apparteneva al braccio che ha dato alla compagna Drusilla per scendere “almeno un milione di scale”: comunque sia,
quel verso è uno dei suoi più belli.

Sylvia Plath – Ted Hughes

Comincio da due foto. Ted, la prima


è di te, mezzo volto in penombra
e l’altro mezzo in luce
come la tua vita e la poesia
spaccate tra senso di colpa
e desiderio di indulgenza,
due vanesse delle ortiche che hanno perso
la sapienza di incontrarsi in volo.
Nella seconda, Sylvia,
anch’essa tra crepuscolo e bagliore,
la chiostra dei tuoi denti è manifesta
dietro labbra socchiuse irresolute
se riserrarsi, e gli occhi limpidi
sembrano domandare cosa resta
capace a addormentare i demoni
e a rialzare una volta ancora Lady Lazarus
se non la poesia, ma presentendo
che un giorno neanche lei forse saprà più.
Le due foto un po’ si rassomigliano,
hanno lo stesso taglio: ed è un taglio
la tua bocca chiusa, Ted, una sutura
quale per anni ha sigillato
le parole in un giaciglio di paura
e di espiazione. A questi due orli,
a queste vostre bocche ciglio
della battaglia tra il silenzio e la parola,
offro un pensiero, un ex voto quasi:
quella battaglia dopo tutto è anche la mia.

27 novembre 2021

Sylvia Plath (Boston, 1932 – Londra, 1963) – Ted Hughes (Mytholmroyd, 1930 – Londra, 1998). Due vite intrecciate
dalla poesia e soprattutto da una tragedia che ha finito per ammantare tutto di risvolti spesso al limite del gossip, la
poeta depressa, il poeta infedele. Maria Grazia Calandrone, in un ritratto di Plath dove immagina di parlare per sua
stessa voce, invita a evitare queste sovrapposizioni e suggerisce che Sylvia avrebbe voluto essere ricordata soltanto per
le sue parole, che in fondo erano l’unico luogo dove si sentisse veramente a casa, e di lasciar perdere la etichetta di
“poesia confessionale” alla quale fu appiccicata insieme ad Anne Sexton: in effetti, se proprio volessimo leggere delle
confessioni, potremmo rivolgerci ai diari, e cercare nella poesia la sua voce autentica; ciò che fece deliberatamente
Giovanni Giudici traducendo i suoi versi come “un classico remoto”. Ted Hughes ha dovuto pagare un prezzo altissimo
per la sua, effettiva, infedeltà, dato che come Sylvia la donna con cui la tradì a sua volta si uccise portando con sé la
figlioletta avuta da lui. Hughes, considerato uno dei massimi poeti inglesi del ‘900, prima che la sua vita sprofondasse
aveva avuto il tempo di consolidare la propria statura di poeta, ma anche di scrittore in senso più ampio. Dopo, come in
un patetico tentativo di espiazione, si dedicherà moltissimo alla cura delle opere di Sylvia, dalla quale si congedò l’anno
stesso della propria morte con la raccolta Birthday Letters.

Wystan Hugh Auden

Iosif Brodskij raccontò di averti visto


alla mensa di Oxford sgomitato
dagli studenti come nulla fosse:
qualcosa di non così imprevisto
ma dalla quale egli dedusse
che un certo “tema” non era mai cambiato,
ossia che il mondo non ha obbligo
alcuno verso i poeti, soprattutto
verso quelli anziani. E tu anziano
lo eri, e il tuo volto era un intrico di rughe
come forse solo il volto di un poeta
o di un marinaio sanno esserlo.
Io allora ero un bambino, la poesia
mi entrava nella vita con il Pianto antico
di Carducci a memoria per la scuola:
ti ho conosciuto cinquant’anni dopo,
sapevo il nome e non la somma parola
sotto la quale compariva a firma,
il racconto di quell’età dell’ansia
in cui “la crepa nella tazza apre
un sentiero nella terra dei morti”.
Mi sono ritrovato, Wystan, al punto giusto
in cui Tom Eliot aveva catturato
la voce del tuono nel suo incerto “Shantih”:
tu ne hai sentito l’eco assunto
da una tempesta nuova, irati flutti,
e l’asma di una storia estenuata,
lo sbotto del suo Angelo ormai stufo
di farsi trascinare dal progresso
che ammucchia le rovine sue fumanti.
In quel poema, anzi in quell’egloga barocca,
i tuoi nottambuli à la Hopper
non parlano di denti da rifare,
nervi a pezzi, «Giag Giag» a orecchie sporche
incuranti dell’ “HURRY UP PLEASE” stanco che rintocca
il barista: disquisiscono
sull’abisso del mondo, sulle forche
strette che sono i valichi del tempo
quando il suo scandalo sbatacchia alla porta.
E io penso, non posso non pensare,
a come dopo oltre settant’anni
leggere quel tuo dono di poesia
sia ancora navigare in avanscorta.

18 dicembre 2021

Wystan Hugh Auden (York, 1907 – Vienna, 1973). Io non so se ho visto giusto nello stabilire un punto di contatto,
anzi di continuità, fra La terra desolata e L’età dell’ansia: so soltanto che leggendo quella “egloga barocca” mi sono
sentito arrivare quasi subito l’eco del poemetto di Eliot, quella sensazione di un discorso sul presente che si nutre di “un
altro tempo” (titolo della raccolta forse più nota di Auden), il tempo sospeso nel quale il presente, anche il presente più
ordinario, è investito contemporaneamente dall’onda della storia e da quella del mito (so che si tratta di suggestioni un
po’ demodé e sdrucciolevoli, ma tant’è). Auden è un poeta che ho conosciuto da poco: Guido Ceronetti sosteneva che il
XX secolo avesse contribuito alla “scorta di farmaco di Poesia” con “una trentina di nomi di ogni luogo da ritrovare”, io
ritengo che siano un po’ di più, e Auden direi che rientra nel novero. Non è stato soltanto un grande poeta, ma anche
“una brava persona” come diceva Groucho Marx di Eliot (fra l’altro c’è chi ha considerato quello tra Eliot, americano
sbarcato in Inghilterra, e Auden, britannico sbarcato in America, uno scambio equo): Brodskij ebbe per lui quasi una
devozione su entrambi i versanti, ritenendosi degno di rischiare un fallimento se riferito ai suoi parametri piuttosto che
godere di un successo alla luce di parametri altrui.

Rabindranath Tagore

Ti ho cercato finalmente per sopire


un mio radicato pregiudizio
che molto però aiuta a tener vivo,
comprese le tue traduzioni dei tuoi inni
in inglese, il declamato sposalizio
con – Premio Nobel dixit – la letteratura Occidentale:
che la tua poesia fosse una marmellata
pre-New Age spalmata troppo e male
anche se certo non per colpa tua.
E dai e dai forse ho capito, Rabindranath,
il tuo sguardo mistico sul mondo
che fa di ogni cosa e sfumatura
un luogo di incontro col divino,
o propriamente il luogo, migrabondo,
dove il divino si mostra senza data.
L’ho capito leggendo e ancora meglio
ascoltandoti cantare i tuoi versi
con voce limpida frangibile
diffusa da vecchi grammofoni manuali,
una polvere di poesia sopra il fruscio;
parole non destinate a volumetti
ben stampati sui tavolini di signore
o agli studenti dell’università
ma a essere canterellate dai viandanti
e avvistate da lettori del futuro
che possano trovare nei banchetti
frugali del loro pane quotidiano
del tuo pane il medesimo sapore.
Ho capito, perché anche io sono un poeta
che stende la mano a mendicare
solo per godere il privilegio
di ritrovarsi a essere lui il primo a dare
il proprio acino di grano, un suo verso,
alla signoria del tempo, all’universo.

19 dicembre 2021

Rabindranath Tagore (Calcutta, 1861 – Calcutta, 1941). Nella mia lunga carriera di lettore mi è capitato talvolta di
nutrire incomprensibili pregiudizi nei confronti di qualche scrittore, forse più che pregiudizi diffidenza: Tagore è tra
questi, e la sua assunzione obtorto collo nella percezione occidentale di un certo Oriente credo sia stata la causa del
caso; ma non voglio giustificarmi, mi assumo le mie responsabilità, chiedo venia della mia pigrizia mentale. Poi un
giorno dagli scaffali di un mercatino dell’usato un’edizione di rimando delle Poesie d’amore stampate da Guanda nel
1996 mi è come volata in mano, un gesto assoluto come quando uno decide di smettere di fumare su due piedi; e lo
stesso giorno, poco più tardi, ho visto in una libreria una riproposizione assai a buon mercato di Gitanjali; il fantasma di
Tagore si era auto-convocato, e l’imprevista seduta medianica mi era costata appena euro 10,45. Devo dire che le poesie
d’amore non mi hanno sconvolto, al contrario “l’offerta di canti” mi ha toccato, anche in virtù di ciò che ne scrisse W.B.
Yeats, in particolare circa il fatto che quei canti effettivamente venivano cantati in tutta l’India, e che Tagore stesso li
cantava, avendone anche composto la parte musicale: un trovatore del XX secolo il cui oggetto d’amore è Dio. Beh,
come si dice, non è mai troppo tardi.

Elsa Morante

La faccenda del mondo salvato


dai ragazzini mi rammenta un poco
quell’altra, quella per cui a redimerlo
ci avrebbe pensato la bellezza:
pie illusioni apotropaiche
di fronte a un mondo il cui gioco
preferito sembrerebbe invece
quello di alzare sempre più la posta
in vista di un finale di partita.
Però l’occhio di un poeta oltre la pece
del puro presente e del futuro vago
guarda le cose, se vuole, con la crosta
delle lacrime smerigliata in lente:
e allora illudere non è ingannar se stesso
o altri, bensì stare al gioco della vita
con l’istinto prodigo e allegro di un bambino
e la lucidità di un guerrigliero.
Il mondo continuerà imperterrito
la corsa al massacro, folle e fiero
della propria follia; ma gli F.P.
- peraltro sempre più sparuti –
batteranno le sue strade con leggero
passo di gioia e di rivoluzione,
le migliori menti di una generazione
prima di impazzire avranno tempo
di scorgere il lampo di una redenzione
baluginare dentro i cristallini,
la storia arrestarsi un istante imbarazzata
dall’ipotesi – per quanto inverosimile –
che il mondo, ‘sto strepitante carrozzone,
possa restare intrappolato
in un merletto di bellezza
o bloccato sul corso principale
da uno stuolo di guitti saltellanti
sull’asfalto, da una festa di campane,
salvato o meno (importa poi?) da ragazzini.

24 dicembre 2021

Elsa Morante (Roma, 1912 – Roma, 1985). L’autrice di uno dei cento migliori libri di tutti i tempi ( La storia secondo
una valutazione del “Norwegian Book Club”), una delle figure intellettuali più significative del ‘900 italiano, messa qui
tra i poeti, essendo stata la poesia non certo la sua attività più fruttifera? Il fatto è che Il mondo salvato dai ragazzini e
altri poemi è un libro epocale, e in questo caso la definizione non è un’iperbole. Per Goffredo Fofi ha anticipato,
invocato, precorso il ’68; per certi versi in quel libro c’è ciò che il ’68 non è riuscito a fare, per le sue ingenuità e per le
sue velleità: c’è la sorte dei Felici Pochi che anche a prezzo della sconfitta hanno comunque affermato la libertà del loro
spirito; e c’è il tradimento di quelli che sono passati dalla parte degli Infelici Molti – o già c’erano facendo gli indiani - ,
coloro che si sono ri-adattati al potere tradendo la causa della propria felicità e dei valori della propria libertà di spirito,
della bellezza che è tutt’uno con l’etica (queste cose Morante scriverà nel 1970, due anni dopo Il mondo salvato dai
ragazzini, in Piccolo manifesto dei comunisti (senza classe né partito) che è una specie di sua appendice). La raccolta di
poemi, a sua volta manifesto, ma anche memoriale-commedia-tragedia-romanzo-documentario a colori secondo
l’autrice, è una fiaba dionisiaca (le fiabe sono state le prime cose scritte da Elsa da bambina) che avrebbe subito la
fascinosa influenza di Allen Ginsberg, di cui Morante amava molto Urlo, ma somiglia forse più per quanto diversissima
a Paterson di W.C. Williams, e usa la pagina come meglio occorre attingendo alle sperimentazioni delle avanguardie
storiche ma probabilmente anche a quelle della contemporanea Poesia Visiva. La sua audacia è tuttora integra, tanto che
qualcuno ha ben pensato di anestetizzarla: qualche anno fa i miei conterranei del Teatro delle Albe hanno proposto una
lettura scenica de La canzone degli F.P. e degli I.M., risibile; ci sarebbero voluti quelli del Living Theatre, che tra
l’altro quando uscì il libro erano in Italia, anche se l’anno dopo furono cacciati.

Vittorio Sereni

Mi è capitato di ascoltarti leggere


La spiaggia – “Premesso che non sono
un fine dicitore” – e ho ritrovato
nella voce l’autorità della persona
che come ha detto qualcuno era un dono
misto a fraternità verso l’amico
e a discrezione verso l’interlocutore
d’occasione. Lo stesso nelle lettere
agli amici di Cesenatico, di Sul porto,
lo stesso nelle poesie e nel tenore
di parole essenziali ma protese
su un banco di stiramento fino al grado
estremo del loro poter dire.
Nelle tue foto è sempre quello sguardo
di chi osserva a un tempo altri e sé
e sta domandando a tutti i volti
che possano di passare il guado
di quelle parole, in cui la storia
è sgocciolata sugli strumenti umani
e la tragedia non smette di aggirarsi
negli immediati dintorni, là dov’è
il vero accesso sul profondo.
Le stesse foto, tutte in bianco e nero,
adombrano la tua luce sul mondo,
una luce incostante, intermittente,
un alfabeto Morse breviloquente
forse ma indimenticabile,
l’alfabeto di una stella variabile.

25 dicembre 2021

Vittorio Sereni (Luino, 1913 – Milano, 1983). Nel tempo in cui Vittorio Sereni frequentava Cesenatico, dove vivo, fine
anni Settanta – primi anni Ottanta del ‘900, io avevo più o meno vent’anni e scrivevo poesie da poco, e in questa
cittadina in realtà venni a abitare nel 1983 quando il poeta lombardo purtroppo terminò il proprio percorso di
“approssimazione alla vita” (Giulia Raboni a proposito di Stella variabile). Camminando sul porto canale e passando
davanti a una vetrina dietro la quale in quegli anni c’era un bar dove i poeti cesenaticensi responsabili della rivista Sul
porto, Ferruccio Benzoni e Stefano Simoncelli, si trovavano coi loro illustri ospiti (Sereni, Giovanni Raboni, Franco
Fortini), magari sedersi su una panchina a sfogliare il piccolo libro che raccoglie il carteggio di Sereni con loro (San
Marco dei Giustiniani, 2004) mi fa pensare al caso di essere nato nel 1962: tre quattro anni prima e forse avrei potuto
essere anch’io della compagnia. Ci pensate? Avere a che fare a quattr’occhi con un maestro di poesia così sobria e pura,
con un vocabolario parco ma che alle parole chiede il massimo della loro forza comunicativa, con un poeta che con sole
quattro raccolte e forse poco più di duecento testi (escluse le traduzioni) ha dato così tanto: magari non sarei lo stesso
poeta che sono, magari dato quello che scrivevo all’epoca mi sarebbe perfino passata la voglia di diventarlo. Fortuna o
sfortuna?

Ignazio Buttitta

In terza di copertina un’etichetta


riporta la cifra di euro 3
- libro acquistato a un mercatino,
a suo tempo, 1977, il vero costo
era 3.000 lire (12 euro d’ora).
Sul risguardo davanti, scritta a mano
c’è una dedica: “A Guidi ca nna lotta
ci metti u focu du so cori”.
Sul piatto anteriore in cartoncino
350 g/m2, in italiano
il titolo Io faccio il poeta e l’autore
di sanguigne poesie in siciliano
Ignazio Buttitta, e “prefazione di Leonardo Sciascia”.
Ho un piccolo tesoro sottomano,
insomma, di quelli che qualcuno lascia
come un messaggio in bottiglia alla corrente
necessitato, distratto, o indifferente:
ma in questo caso forse senza errore
o trasmutando l’errore in una erranza,
se è vero com’è vero che la poesia
tua è senz’altro più di piazza che di stanza.
Ma ciò che mi colpisce più di tutto
è il senso di quella intestazione:
non “Io sono un poeta” ma “Io faccio
il poeta”, come dire, più che scriverla
la poesia si mette, si colloca, si posa
e l’arte è arte di braccia oltre che voce,
è arma, articolazione, spalla:
scrivere, dire, cantare la poesia
per gli uomini e le donne, ragione
dell’esistere, quella per cui
si vola sul fiume d’aquile che è vivere
e dopo l’ultimo volo verso il mare
sul mare si riposa, si sta a galla.

1 gennaio 2022

Ignazio Buttitta (Bagheria, 1899 – Bagheria, 1997). Anche Buttitta è un poeta entrato nella mia libreria un po’ di
sghimbescio; è proprio la dedica scritta di suo pugno di cui parlo nei versi che mi ha stuzzicato, e commosso, e spinto a
comperare il libro: essa, che in realtà è più lunga, racconta di un tempo, 1981, nel quale il poeta siciliano già vecchio
(scusate se uso questo parola, la preferisco di gran lunga all’ipocrita “anziano”) se ne andava ancora in giro per circoli
culturali – o sezioni di partito – a recitare le sue poesie, o quantomeno ne era ospite. Nella antologia Poeti dialettali del
novecento, un’antologia ormai datata (1987: ma non credo abbia bisogno di aggiornamenti di peso, la grande stagione
dei dialettali è finita), curata da Franco Brevini per Einaudi, Buttitta non figura; di lui lo stesso Brevini parla nel saggio,
sempre einaudiano, di pochi anni dopo, Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo, come di un poeta
popolare e squisitamente orale, la cui opera apparterrebbe “più alla storia del costume che a quella della poesia” e il cui
“tono profetico e tribunizio, la retorica populista, la magniloquenza riescono alla pubblica recitazione assai meno
intollerabili che alla lettura sulla pagina” (corsivo mio”). Il vento era girato, del dialetto ormai si erano impossessati i
poeti laureati – alcuni peraltro bravissimi – e a uno come Buttitta non restava che recitare, più che i propri versi, il
proprio personaggio di pittoresco cantastorie fuori dal tempo. I tre versi finali sono una citazione del poeta, da
un’intervista credo televisiva.

Callimaco

Sarà vero che le Muse sono sfilate via


una per una a testa bassa, esonerate
dal un “bel combattente” che la poesia
non chiedeva più di cavare al mito,
alla voce pulsante e eterna del cosmo,
al mistero di un dono, ma al forbito
lavorio di intelligenza e cura?
Sarà vero che la poesia iniziò a morire
allora, e a esistere della sua stessa agonia
nel peso esatto di ogni parola,
nel tono composto di ogni sfumatura?
Sarà vero che Apollonio Rodio
svolgendo i rotoli delle Argonautiche
ebbe in stizza se non quasi in odio
il tuo essere parco di scrittura,
e con parola di invidia chiese a Apollo
se un cantore non dovesse essere degno
di un vasto fiume, se non pur del mare ?
E che Febo scostandola col piede
rispose che al mare un vasto fiume
non porta solo le sue acque
ma anche sporcizia e fango mollo
e dunque è meglio essere un ruscello
sottile forse ma lindo da putredine?.
Vero o meno, dove dobbiamo guardare noi poeti:
alla eminente bellezza, a Berenice
rimasta senza chioma, o a quella chioma,
quel grumo di esili stelle
che conta di sé nel freddo cielo,
che nonostante tutto canta, dice?

2 gennaio 2022

Callimaco (305 a.C. – 240 a.C.). Con Callimaco inizia il “tramonto delle muse” (Salvatore Lo Bue), l’era del poeta
scrivente, e il declino dei grandi racconti epici orali, l’era dell’eleganza formale e della necessità di possedere la techne,
il mestiere. L’era in cui il poeta “moderno” si può permettere perfino di irridere chi, come Apollonio Rodio (che
peraltro di Callimaco era stato allievo!), ancora si ostina a mettere in fila migliaia e migliaia di versi i quali, sì, hanno il
respiro del mare o del grande fiume, ma ne conservano anche i detriti, la sporcizia; non potranno mai avere nel loro
complesso la purezza della “cristallina gocciola che sgorga da sacra polla”, ciò che l’architetto di versi cerca con cura,
come un’ape il polline fiore a fiore, e distilla sul papiro parola per parola. A dire il vero Callimaco un poema lo scrisse,
Aitia, in realtà una vasta sequenza di elegie, che guarda caso però è andata in gran parte perduta, a parte alcuni
frammenti e l’aition famoso sulla chioma di Berenice pervenutoci grazie alla traduzione latina di Catullo. Ma quivi,
ancora più sfrontatamente, egli si rivolge alle Muse, incontrate sul Monte Elicona, là dove un tempo esse “a Esiodo
insegnarono un canto bello” (Teogonia) come alle impiegate di un I.A.T., ponendo loro domande di varia natura.
Eppure senza la sua “spiccata intelligenza letteraria” (Anthony William Bulloch) “lo sviluppo della letteratura greco-
latina (il che implica «europea»)” non sarebbe stato lo stesso, o non sarebbe stato affatto.

Derek Walcott

Dal tuo angolo di mondo


hai disegnato la mappa al nuovo mondo
e hai raccontato la storia del mondo:
come dicevi, “sono nessuno, o sono una nazione
e la mia nazione è l’immaginazione”,
quella di un provinciale vagabondo
tra la Grecia antica e l’Africa nera,
che infatti ha traslocato nelle Antille
il verbo moltiplicatore di Omero.
Eri “solamente un negro rosso che ama il mare”
ma sapevi bene che il mare è sconfinato
come potrebbe esserlo la poesia
e che a entrambi si può dare un termine
soltanto imparando a navigare;
e che se per solcare le onde è bene armare
di tutto punto la barca, o il bastimento,
per largare su pagine di liriche o poemi
è altrettanto opportuno avere il vento
confidente e conoscere il sestante
(le misure di Milton, l’esattezza di Pope,
gli Elisabettiani e i loro schemi
erano fra i tuoi miti consigli).
Ecco, ecco dov’è la luce del tuo faro,
dove hai gettato la tua àncora errante:
in quel preciso spazio sconfinato
che un poeta sa colmare coi suoi versi
quando può dire “sono una nazione”
perché lo ius soli è certificato
dall’anagrafe dell’immaginazione.

8 gennaio 2022
Derek Walcott (Castries, 1930 – Cap Estate, 2017). Da una periferia del mondo, i Caraibi, da un luogo dove “il sole,
stanco dell’impero, tramonta”, è arrivata, e non poteva che arrivare da lì o da un altro posto come quello, la voce di un
poeta che ha fissato la propria dimora nella nazione dell’immaginazione. Attenzione: qui bisogna avere le idee chiare
sull’immaginazione, che non è l’attività del semplice fantasticare. Forse meglio di chiunque ce le può chiarire S.T.
Coleridge laddove distingue fancy, puro accostamento di immagini per associazioni di idee non coagulate in una visione
coerente, e imagination, generazione di immagini plasmate in un tutto organico in grado di produrre illuminazioni.
L’immaginazione che Walcott rivendicava come sua nazione, luogo della propria generazione, è esattamente questa: e
dalle sue coste, più che come un bastimento, è salpato come una “balena”, assorbendo la sapienza della poesia
universale come il cetaceo assorbirebbe il plancton (Iosif Brodskij), ed è arrivato alle fonti di quella poesia: “Alla fine
di questa frase arriverà la pioggia / all’orlo della pioggia, una vela (…) Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la
pioggia / e pizzica il primo verso dell’Odissea” (Mappa del nuovo mondo). Quell’uomo, dopo aver “pizzicato” il suo
primo verso l’Odissea l’ha riscritta (Omeros, 1990): come diceva Odysseas Elytīs il viaggio di Odisseo “non finisce
mai. Ed è felice”.

Giuseppe Gioachino Belli

Ho un ricordo TV di Paolo Panelli


che declamava la chiusa del sonetto
287, La bbona famjja,
e allora Giuseppe Gioachino Belli
credo sapessi chi fosse a malapena.
Ora ho in libreria un florilegio
della editio maior dei Sonetti
poiché nel tempo ho acquisito piena
nozione della tua importanza,
del tuo essere un poeta egregio
degno dei migliori d’Ottocento
e di aver inventato un vero idioma
ché della plebe di Roma papalina
restasse un sagace monumento,
che ora è un tesoro di poesia tout court
(e pensare che dubitavi a pubblicare).
Sono sincero, ho letto poco e male
i tuoi versi da mangiapreti, comico e pornografo
- ciò che vorrebbe una vulgata angusta –
non per cattiva volontà, per imperizia:
l’occhio scorre come il pennino di un sismografo
la traccia del tuo scrivere cromatico
e mi partecipa “Non ce la puoi fare”
perché la lingua tua, non italiana
e nemmeno romana, romanesca,
è un saliscendi di toni e semitoni
che non si può altro che recitare,
richiamare, dire ad alta voce.
C’ho provato, “Vuoi che non riesca
a trovare prima o poi la chiave?”,
ho cercato di convincermi, ma niente,
ho continuato a scivolà sull’ojjo
e a sbatte er grugno contra a li cancelletti:
mejjo sta a sentì Giggi Proietti …

9 gennaio 2022

Giuseppe Gioachino Belli (Roma, 1791 – Roma, 1863). Oltre che un’impresa letteraria, così come l’ho descritta nei
versi, leggere Belli è un’impresa anche economica: già il suddetto florilegio, 535 sonetti racchiusi in un Meridiano
Mondadori, domanda un esborso di euro 80,00; un’edizione integrale – 2279 sonetti - e critica, pubblicata da Einaudi
nel 2018 in quattro volumi, ne pretende 240; paradossalmente, almeno per me, ci si potrebbe procurare la editio maior,
allestita sempre da Mondadori nel 1952, nel mercato dell’usato per cifre che variano dai circa 25 ai circa 50 euro, se si è
disposti a passar sopra ai classici vizi che possono declassare un libro vecchio, le pagine ingiallite, qualche macchia etc.
Potrebbe sembrare un po’ volgare fare i conti in tasca agli editori del Belli, far la figura di “Quer vecchio che vvenneva
ar zor Balestra / le mmànnole dell’ossi de li frutti” (L’avaro): anche perché, a dirla tutta, Mondadori ha editato il
Meridiano anche nel formato “Collezione” venduto in edicola a euro 12,90, molto meno pregevole dal punto di vista
della fattura (ad esempio rilegato a colla e non a cucitura) ma identico nei contenuti (e io c’ho questo … ); però non di
sole parole vive l’homo legens, ma di ogni boccone di pane che entra nella propria bocca. Ad ogni modo, letti tutti o
letti in parte, letti in edizione di lusso o in paperback, letti facilmente o con qualche complicazione, i Sonetti del Belli
sono un capolavoro.

Anna Achmatova

Lo sapevi da sempre, la condanna era


dissipare, non serbare: e lo stormo bianco
dei tuoi versi non ha mai smesso di volare,
dalla bellezza della rosa in quanto tale
fino a veder cadere i petali uno a uno
lasciando il calice nudo a traboccare
gocce del dolore del mondo, innumerate.
La storia prima si è incuneata
in un crepaccio della vita, e poi alla fine
l’ha spaccata: un poema senza eroe
impastato strofa a strofa con calcina
mischiata con una rena memore
ancora dell’orma di Virgilio e Dante,
è la malta che ha rinzaffato la fessura.
Non è poi la poesia anche una malta
che tiene insieme il tempo e la memoria
contro l’oblio, l’indifferenza, la paura?

10 gennaio 2022

Anna Achmatova (Bolscioj Fontàn, 1889 – Mosca, 1966). C’è un libro, un bel libro, di Donatella Bisutti che si intitola
La poesia salva la vita, ed è rivolto più che a chi ama la poesia a chi, per i più vari motivi, ne diffida: questo titolo credo
echeggi volutamente ciò che chiunque avrà almeno una volta sentito dire da qualcuno: “Il rock’n’roll mi ha salvato la
vita”, Wim Wenders per dirne uno famoso, perché è stato pubblicato in un’epoca, 1992, in cui la poesia muoveva dei
passi decisi per diventare a suo modo pop (lo aveva già fatto prima, ma con esiti controproducenti). Ecco, la domanda
se la poesia possa salvare la vita, per quanto ovviamente retorica, viene da farsela nel caso di poeti quali Anna
Achmatova, che ha attraversato una vita di drammi e tragedie, nonché umiliazioni tipo sentirsi dire dallo Stato che la
sua poesia era un esempio di “pessimismo nevrotico”, oppure dover scrivere versi in lode di Stalin, il capo di quello
stesso Stato che l’aveva mortificata, nella speranza di salvare la vita del figlio. E la domanda si rispecchia nel proprio
rovescio: è forse Anna ad aver salvato la poesia, portandola come una fiammella protetta soltanto dal cavo delle mani in
mezzo al vento della storia? La risposta a entrambe le domande è sospesa nell’incipit di una lirica de Lo stormo bianco,
il suo terzo libro: “Ho davanti la via isoscele / della sera”.

Giosuè Carducci

Giosuè Carducci versus Giovanni Pascoli


come Beatles versus Rolling Stones?
Battuta da liceale, certo, eppure …
L’inno A Satana, debite proporzioni
dovute e fatte, non è Sympathy for the Devil
scritta un secolo prima, e di censure
pensate o agite bersaglio almeno al pari?
E tu, vate della Terza Italia,
non hai forse fatto “Il Sessantotto”,
sospeso dall’insegnare per l’allure
mazziniana, mangiapreti, giacobina
delle tue idee di quel momento?
Per contro l’allievo romagnolo
non è con le sue fini Myricae
già un quasi precursore macartniano?
Insomma, a toccare il fondo al paradosso,
di qua un Orfeo rock che ha ormai lasciato
indietro alla sua sorte l’Euridice
pronto a spostare i sassi a suon di metri
barbari, di là un Apollo pop
che intona i versi al canto degli uccelli
e di intime melodie di cetra.
Ma se oggi Beggars Banquet e The White Album
godono più o meno della stessa fama
la tua poesia è in fondo alla hit parade
presieduta in testa dal rivale:
uomo e poeta del tuo tempo
le Odi barbare e le Rime nuove
senza colpa sono invecchiate male,
non si insegnano più nemmeno a scuola;
i nitriti della cavallina storna
dritti all’iPod dalla pianola ...

17 gennaio 2022

Giosuè Carducci (Valdicastello, 1835 – Bologna, 1907). Per molto tempo sono stato un rollingstoniano, poi un bel
giorno ho capito che Jagger & Co. non facevano altro che suonare ottimo rock, mentre i Beatles inventavano mondi, e
ho passato la sponda. Sono sempre stato un pascoliano, e lo sono tuttora, ma da qualche tempo ho molto rivalutato
Carducci, e ho provato a tuffarmi nella sua rudezza artigianale e nel suo lavorio smisurato: davvero un poeta rock, nel
senso positivo e anche negativo del termine, e davvero un rollingstoniano, nel senso di aver lavorato all’edificazione
degli stereotipi cresciutigli addosso e intorno, come i vecchi Stones si sono auto-reclusi nei loro. Per quanto riguarda il
pop, ahimè, Carducci alla fine c’è comunque cascato ingloriosamente dentro: ricordate San Martino trasformata in
canzoncina dance da Fiorello?

Alessandro Manzoni

Quando io nella notte dei tempi


stampai uno smilzo libretto
siglato con Cognome e Nome
mi fu riferito un aneddoto
stando al quale qualcuno ti disse
di aver visto una pubblicazione
firmata Manzoni Alessandro
e tu, “Non ho affatto nozione
di scrittori chiamati così”;
e questa fu una grande lezione.
Sto scrivendo questi miei versi
modesti ma pieni di ammirazione
con una stilografica rossa
ispirata al tuo venerando
magistero, in parte alla passione
risorgimentale, in parte al dominio
illuministico della ragione:
E ho davanti il tuo arco di vita
in tre immagini cardinali:
il ritratto di anonimo inglese,
occhi supini al cielo e annuvolati
di quando avevi vent’anni e scrivevi
In morte di Carlo Imbonati;
l’icona di Hayez del ‘41
del grande scrittore stimato
coi Promessi sposi alle spalle
e l’evidenza che non indarno
avevi sciacquato quei tuoi panni in Arno;
una foto di Giulio Rossi
di un vecchio ormai logorato
con una mano dentro al paltò
appoggiata sull’ernia iatale
(forse inconscia rimemorazione
di quel vezzo dell’uom fatale?).
L’arco stesso, forzando un po’,
che ha segnato la tua poesia,
dalla quête di una metrica inquieta
in vece di un endecasillabo
invadente ma un po’ in asfissia
al graal ritrovato nel canto
di “Quel ramo del lago di Como”
che per molti rilascia più incanto
di Adelchi, Odi, Inni e Carmagnola.
Ma io ho un’annosa antologia
con le liriche e le tragedie
e ogni tanto leggendo mi sento
di risarcire Il cinque Maggio
vilipeso sui banchi di scuola.

30 gennaio 2022

Alessandro Manzoni (Milano, 1785 – Milano, 1873). Dunque, io non posso onestamente dire di amare la poesia di
Manzoni, inni sacri, odi, e men che meno le tragedie; a differenza della prosa, ché I promessi sposi penso sia dal punto
di vista della lingua e del fraseggio una delle più belle letture che si possa fare. Ma sento doveroso, in quanto poeta
italiano, nutrire il più alto rispetto per i suoi versi. Non si tratta, come scherzo in chiusa della mia poesia, di “risarcire Il
cinque Maggio / vilipeso sui banchi i scuola”, sui quali effettivamente – credo sia stato in prima o seconda superiore -
composi un’ignobile parodia dell’ode napoleonica: si tratta proprio di rispetto, nel senso di saper mantenere una giusta
distanza, nel senso di guardarsi indietro. Sono abbastanza grande di età e esperto in poesia, le due cose è ovvio sono
complementari, per capire che l’umiltà è una grande dote per chi scrive: non l’umiltà falsa di chi si sottovaluta di fronte
a chicchessia per vedersi ricambiate le smancerie (questi finti umili s’intendono sempre tra di loro, non litigano mai),
ma l’umiltà vera di chi, stimando con dignità il proprio valore, sa bene che esso si è potuto costruire sulle spalle dei
predecessori, e non necessariamente solo i giganti. Ah, la storia della stilografica è vera.

Li Po
Leggo e cerco di immaginarmi
gli ideogrammi che mi danzano innanzi
e che danzasse il tuo stesso pennello
mentre componevi poesie,
e te che danzi sulla traiettoria
quieta a apatica del Tao-te-ching
e il tuo corpo pure è ideogramma
che dice il vino, l’amicizia, l’amore,
la bellezza della natura e la vittoria
della molle ma tenace acqua
invincibile nella sua fralezza.
Se la tua, la vostra, poesia T’ang
ha i colori di una pittura e il tenore
rigoglioso della musica e il canto
aveva forse ragione Pound col suo rango
di traduttore-traditore a invocare
una danza ulteriore, della mente
tra parole estatiche, melodiose:
forse, Li Po, rideresti sotterra
- Bukowski dixit - se potessi
vedere i tuoi versi armoniosi
muoversi per i nostri occhi,
venire a noi come ninfe-spose.

13 febbraio 2022

Li Po (Suyab, 701 – Fiume Azzurro, 762). Li Po è stato uno dei massimi poeti non soltanto della dinastia T’ang, ma
secondo qualcuno addirittura dell’intera poesia cinese. Ora, se è vero, come almeno in parte è certo vero, che la poesia
tradotta perde molto per quanto il traduttore si sforzi (e sappiamo che ci sono diverse scuole di pensiero sull’arte del
tradurre), cosa dire di una resa in italiano, o in qualsiasi altra lingua alfabetica, di un poeta cinese, per il quale il suono e
il senso di ogni parola sono fusi col segno? Come si fa a entrare veramente dentro una poesia che, a suo modo, è anche
disegno, se non pittura? Per quanto mi riguarda, punto sulla fiducia, e sull’immaginazione che si arrampica su per tutti
quegli appigli offerti dagli ideogrammi come su una scala, dalla cui cima poi mi tuffo in una piccola bacinella come gli
acrobati dei cartoni animati. La citazione da Bukowski è dalla poesia Splash, il cui testo cerca di convincere il lettore
che ciò che sta leggendo è molto di più che una poesia: è una sfida alla morte con l’orecchio teso a una musica che
trasforma il lettore stesso in musica “che romba, romba, romba”. È un tuffo – splash! – nelle acque profonde della
poesia, che possono contenersi anche in una bacinella, o in una brocca di quel vino tanto volentieri cantato da Li Po.

Jules Laforgue

Nella tua foto, “la più bella e famosa”


con lo “sguardo pensoso e melanconico”
io ci vedrei un necroforo gentile
- d’altra parte non fa rima con morgue
il tuo elegante patronimico Laforgue? –
ma anche un illusionista ipotonico
che rimugina il proprio abracadabra.
Così mi sovviene dell’Entr’acte
di Francis Picabia e René Claire,
col suo rocambolesco funerale
e il mago che esce fuori dalla bara
caduta dal carro in libera fuga
e con una nonchalance micidiale
fa sparire gli astanti del corteo
uno per uno, sé compreso.
Se al tuo tempo ci fosse stato il cinema
forse avresti fatto un film di tale
inesorabile esattezza ed ironia,
teneramente eretico, insolente
come una danse macabre medioevale,
uno schiaffo che ha ben poco da invidiare
alla verve dei tuoi complaintes in poesia.
Se Ezra Pound non ti avesse ammirato,
se Eliot non ti avesse rubacchiato,
Carmelo Bene fatto l’Hamlet suite
collage-hommage da tutta la tua arte
saresti ancora là nel limbo ingrato
dei cosiddetti poeti minori:
e, quella foto, solamente un franco,
ennesimo, intenso, ben fatto ritratto
del poeta quale artista saltimbanco.

19 febbraio 2022

Jules Laforgue (Montevideo, 1860 – Parigi, 1887). Anche a una rapida scorsa delle pagine dedicate alla letteratura
critica in Jules Laforgue, Le poesie (BUR, 1986) si può avvertire la complessità di questo poeta che è piombato come
una meteora sulla fine del XIX secolo e ha lasciato un’impronta destinata a segnare profondamente la poesia di quello
successivo. Inevitabilmente sulla copertina di quel volume c’è un Pierrot, che è diventato quasi l’ipostasi della sua
poesia, mentre in realtà non ce n’è una migliore della foto citata nei versi: l’icona del dandy scettico, annoiato e ironico
che sembra presagire il disincanto benjaminiano sul fulgore della “Parigi capitale del XIX secolo”, ormai diventata una
fantasmagoria. Quando Laforgue muore, è ancora un bimbetto quell’Apollinaire che nel 1913 tornerà a celebrare,
benché a modo proprio, quella fantasmagoria, con la Torre Eiffel che “pascola” il gregge dei ponti - le automobili - e il
cielo che si anima idealmente degli uccelli esotici arrivati con la Grande Esposizione Universale. Ma nel frattempo già
Thomas Eliot aveva scoperto il genio di quel poeta che avrebbe voluto “dissanguare il silenzio” di domeniche indolenti,
nelle quali non c’è “niente da fare sulla Terra!”, e presto farà tesoro – benché a modo proprio - della sua invenzione di
trascinare dentro la poesia la prosaicità e il grigiore della vita quotidiana: e la folla di dinamici direttori, operai e belle
stenodattilografe che vivificavano le belle strade di Parigi (Apollinaire, Zona) diventerà un corteo di anime dantesche
che attraversano il London Bridge nella nebbia marrone di un’alba invernale (Eliot, La terra desolata).

Filippo Tommaso Marinetti

Ogni poeta quando scrive ha i suoi riti,


le sue abitudini, i suoi vezzi:
mi diverto a figurarmi i tuoi,
Filippo Tommaso Marinetti, alle prese
coi manifesti, coi poemi paroliberi,
con quella brama di materia ribollente
che diventano le liriche distese
sui fili dell’immaginazione senza fili,
al sole di una ansia incipiente
di comporre e di lasciare segni
prima che il furore venga spento
dal crudele estintore dell’anagrafe.
E ti vedo, Empedocle incendiario,
volare sulla bocca del vulcano
per strappare alla lava dieci, cento,
mille grumi di peso, odore, il meccano
di una poesia tratta alla forgia,
e poi i fogli sfilati via dall’agrafe
uno per uno e dati in sorte
al cristallo celere del vento.

22 febbraio 2022

Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto, 1876 – Bellagio, 1944). Io sono un fan del Futurismo, lo sono da
sempre, lo ero anche in tempi non sospetti, molto prima della sua rivalutazione, come spesso accade alle rivalutazioni
finanche eccessiva, specie nel 2009 anno di celebrazione del centenario del Manifesto, peraltro così stonata rispetto al
pensiero dei Futuristi, e di Marinetti in particolare che al suo movimento diede più o meno dieci anni di tempo acché
morisse prima di arrugginire. Sono un fan della loro genialità e sbruffoneria, capacità di folgoranti intuizioni e
incapacità di portarle a pieno compimento, generosità istintiva e ingenuità compulsiva; della loro arroganza incendiaria
che non ha mai acceso un cerino davanti ai musei, consapevole che prima o poi nei musei ci sarebbe finito anche il
Futurismo. Marinetti, è quasi superfluo dirlo, ha catalizzato tutte le contraddizioni che sono state la forza e la debolezza
del Futurismo. Non è certo stato, tra i poeti della sua composita compagnia di varietà, il migliore, basta confrontarlo col
geniale Palazzeschi che con le armi del Futurismo già ne faceva parodie, o con l’originalissimo outsider Gian Pietro
Lucini; anche perché il suo retaggio tardo-simbolista francese tardò un po’ a farsi da parte. Ma alcune delle sue tavole
parolibere, delle sue sintesi radiofoniche, alcune pagine dei suoi cosiddetti romanzi, destano ancora sorpresa, e brillano
al confronto con molte trovate della poesia visiva arrivata decenni dopo.
William Butler Yeats

Quando cammino per Ravenna


non riesco a non pensare che i miei passi
potrebbero ricalcare quelli illustri
di certi poeti che ho ammirato
che in queste strade hanno transitato:
da George Byron a Alexandr Blok,
da Oscar Wilde a Thomas Stearns Eliot
per non dire del grande padre Dante.
Ma il pensiero va soprattutto a te
che avrai visto nelle sue cattedrali
le stesse fiamme generate da una fiamma,
lo stesso perno di un vorticoso fuoco
che emanava dalle facce di un bisante
e dalla foglia d’oro dei mosaici
della città verso cui facesti vela
un giorno per placare almeno un poco
la miseria dell’età sopravanzante.
Ma come dici in quella poesia,
Sailing to Byzantium, pure l’anima
può esultare a ogni sussulto
del logoro abito mortale
e il poeta come un cigno scivolare
sopra le acque gelide col cuore
ancora giovane. Hai perciò affidato
le ultime volontà a uomini eretti
che come i cigni risalgano i rivi
fino a dove la polla scaturisce:
vorrei esserci, io, fra i benedetti
a raccogliere la tua eredità
di orgoglio e di fierezza franchi,
tra i poeti che pur vecchi nel corpo
davanti a un foglio immacolato
fino all’ultimo non saranno stanchi.

23 febbraio 2022

William Butler Yeats (Dublino, 1865 – Roquebrune-Cap-Martin, 1939). Una puntata del programma RAI “Incontri” –
siamo negli anni ’60 del ‘900 – racconta Ezra Pound (fra l’altro contiene la conversazione che egli tenne con Pier Paolo
Pasolini a Venezia nel 1968): a un certo punto Arnoldo Foà, che legge passi di Pound e notizie che lo riguardano, cita
una sua frase: “Tanto difficile Yeats. Il bello è tanto difficile”. Beh, detto da Pound … Proprio questa frase mi ha fatto
ripensare in particolare a Yeats tra i poeti illustri che hanno camminato per le strade di Ravenna, una città dove io mi
reco spesso per loisir: perché non finisco mai di stupirmi di quanta bellezza sopravvive in tale città, e soprattutto di
quanto essa possa apparire semplice allo sguardo dell’abitudine. E invece no: l’abitudine si ritrae imbarazzata, e la
meraviglia ogni volta si rinnova, e non sono necessari gli splendidi mosaici bizantini che decorano le basiliche, bastano
gli austeri campanili al loro esterno. Semplici. Ma il bello, che a volte sembra semplice, come certe poesie di Yeats, non
lo è mai. Ha ragione Pound, il bello è difficile, tanto difficile: e la difficoltà non sta nell’eventuale oscurità di certi
passaggi, di certi simboli, la difficoltà vera sta nell’essere degni del bello che ci arriva in dono dai secoli, o dai decenni,
nell’avere un autentico senso di Gratitudine agli istruttori sconosciuti (titolo di una breve lirica di Yeats), o conosciuti,
alle “azioni che essi intrapresero / condussero a compimento”, perché “Tutte le cose sono sospese / come una goccia di
rugiada / su un filo d’erba”. Facile, difficile? Decidete voi.

Vincenzo Cardarelli

Tutti abbiamo amato quei gabbiani


e i loro nidi sconosciuti:
e io ti immaginavo un gabbiano,
uno di loro, in perpetuo volo,
quando da ragazzino ricopiavo
i tuoi versi su un quaderno, in biblioteca.
Un giorno avrei immaginato che il gabbano,
quello che indossavi anche d’estate
durante la precoce senescenza
accettata senza batter ciglio,
si aprisse per lasciar volare via
la tua anima per un ultimo volteggio
ad acciuffare un’ultima poesia
com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo,
tra una battuta ciangottata e uno sbadiglio
dispensati da un tavolo all’aperto
di qualche caffè di Via Veneto.
La poesia ha illuminato quel parcheggio
tra l’essere e il passare – la tua vita –
di bruzzolo e di sole meridiano:
hai chiamato la morte come amica
e poi morivi, vivendo, per la noia
fino a perdere, per la noia, l’uzzolo
di abdicare al mondo per davvero;
anche perché, dicesti, non è mica
sufficiente morire, i morti hanno
nel loro fango ancora da soffrire.
Resta quella poesia precisa e tersa
di soliloquio con la tua solitudine
che si sfronda d’ogni vanità:
dopo tutto è servito a qualchecosa
essere un cinico che ha fede in quel che fa.

24 febbraio 2022

Vincenzo Cardarelli (Corneto Tarquinia, 1887 – Roma, 1959). Cardarelli era un cinico un po’ particolare in quanto,
benché il suo modus vivendi avesse indubbiamente alcune delle caratteristiche tipiche dell’antica scuola filosofica greca,
come l’autonomia spirituale o il dispregio del desiderio, il suo randagismo praticato sui tavolini del Caffè Strega
sorseggiando Campari parrebbe un po’ fuori contesto. “Il più grande poeta morente”, stando a una battuta di Ennio
Flaiano dovuta al cappotto perenne di Cardarelli, e degna delle battute impietose che spesso uscivano dalla bocca dello
stesso Cardarelli, per me non è stato un grande poeta: io sono un instancabile patrocinante del senso della misura, della
necessità di distinguere l’immenso dal grande, il grande dal bravo, il bravo dal mediocre e via dicendo. Per me
Cardarelli è stato un bravo poeta: Gabbiani studiata a scuola mi fece venire voglia di andare in biblioteca a ricopiare a
mano altre sue poesie, e probabilmente il mio apprendistato equamente suddiviso tra maldestri tentativi di ambientarmi
con strutture classiche come il madrigale o il sonetto e un po’ meno goffi esperimenti col verso libero, della sua poesia
ha fatto tesoro. Grande o bravo, resta che rileggerlo ogni tanto fa sempre bene.

Vicente Aleixandre

È come in un sogno surrealista:


il tuo verso che avvampa mentre scrivi,
il pennino inseguito dalla fiamma
delle parole appena le hai tracciate,
la calligrafia trasformata in una pista
di brace, miccia che scivola via
dando corpo acceso a quel tuo carme
“perché voglio morire o vivere nel fuoco,
perché quest’aria è l’alito rovente
che se m’accosto brucia e dora le mie labbra”.
Ma alla fine, come in una magia,
al posto di una pagina strinata
o di una scia di cenere ardente,
c’è, è lì, intatta e fresca la poesia
che man mano morendo poi è rinata
da quella cenere come una fenice.
Un sogno. Però è vero ciò che dice:
il poeta è un essere incosciente
in bilico tra consumazione e dono,
non può risparmiare il suo valore
e la poesia non è altro che potlatch,
un rito di distruzione, o amore.

25 febbraio 2022
Vicente Aleixandre (Siviglia, 1898 – Madrid, 1984). Di Aleixandre posseggo due raccolte, La distruzione o amore che
è del 1935, e Poesie della consumazione che è del 1968: in mezzo ci sarebbe anche uno di quei florilegi dei premi
Nobel di cui ho già detto altrove, che pesca un po’ qua un po’ là dalla sua produzione. Tra le due raccolte passano
quindi oltre trent’anni, durante i quali la sua poesia si evolve, oltrepassa le più o meno suffragate appartenenze a
qualche -ismo, il Surrealismo in ispecie, ma soprattutto fa i conti col passare del tempo: se La distruzione o amore è
un’apologia della vita, pur nel suo intrecciarsi con la morte e nel suo spendersi verso di essa, Poesie della consumazione
è un faccia a faccia con la morte pur se la vita non vuole smettere di pulsare. Ma “consumazione” è una parola che
siamo abituati a adoperare avendo dimenticato la sua origine etimologia, cum summa, che dice il portare qualcosa a
compimento e perfezione. Quello di Aleixandre, lui lo dice già coi titoli dei libri ma è poi quello che offrono tutti i veri
poeti, è un dono perfetto che, come nel rito del potlach che vigeva tra numerose popolazioni native della costa Nord-
Ovest del continente americano, comporta l’obbligazione morale di essere ricambiato quanto meno alla pari: e in questo
rito il dono di solito era talmente sfarzoso da umiliare il donatario e dissestare il donatore (ho un po’ esagerato?).

Giuseppe Conte

Ci fu un tempo nel dominio di poesia


in cui fazioni scendevano per strada
per disputarsi con grinta ed acribia
scettro, palma, lauro e così via:
“Specchio, specchio delle nostre brame
chi sono i veri poeti del reame?”
si chiedevano ognora quello e questo
perseguitati dalla vexata quaestio.
Chi diceva: “Andiamo alla parola
come andremmo a una innamorata:
non vorremmo che si facesse bella
per noi, sensuale, agghindata?”;
e chi invece: “Staniamo la parola
come una strega sotto inquisizione:
non vorremmo torchiarla, torturarla,
strapparle la pelle, gli occhi, il magone?”.
È là, tra il fumo delle barricate,
che fu lanciato come un razzo
cinese, come un fuoco artificiale,
un libro che da subito qualcuno
ebbe l’ardire di chiamare epocale,
un libro dal titolo suadente, L’Oceano e il Ragazzo.
Sono trascorsi eoni da quel tempo
e i poeti hanno infranto ogni specchio,
non sentono voglia più di litigare,
nemmeno di discutere; la formula
è “ciascuno faccia un po’ come gli pare”.
E in tanto ecumenismo la poesia
va avanti, ormai sgombro l’orizzonte
d’ogni ostacolo e di ogni ostilità,
di vera passione, di vera ospitalità;
nessun ragazzo ascolta più l’oceano
né tantomeno ne insegue più la voce,
di questa pace asfittica e atroce
che ne pensi tu, Giuseppe Conte?

26 febbraio 2022

Giuseppe Conte (Porto Maurizio, 1945). Quando uscì L’Oceano e il Ragazzo, definito hic et nunc da diversi
osservatori come uno dei libri di poesia più importanti usciti negli ultimi anni (era il 1983), ci si trovava davvero in una
fase di grande dibattitto e perfino conflitto tra correnti poetiche di impianto assai diverso: ne diede conto un’antologia
oggi forse dimenticata ma all’epoca preziosa (di certo preziosa per me), Poesia italiana oggi, a cura di Mario Lunetta
per i tipi di Newton Compton (Roma, 1981; come si vede la raccolta in questione non era ancora stata pubblicata ma
l’esordio poetico di Conte era già conclamato). Le correnti alle quali mi riferisco in particolare erano definite in quel
volume “Tra intimismo e parola innamorata” e “La tensione delle strutture”; Conte era incluso, se serve dirlo, nella
prima. Quel libro ha innamorato anche me, al punto che poi ho seguito l’autore per un paio di raccolte successive,
probabilmente meno epocali: ma questo qui non importa, importa invece che il poeta ligure abbia sempre conservato un
principio di etica poetica secondo me inossidabile, che anzi oggi, nell’era dei “poeti del vissuto”, è ancora più valido di
allora; il principio che il poeta deve essere un intellettuale, che non si può credere onestamente a una “poesia sorgiva”,
che la poesia deve trovare le ragioni della propria legittimità.

Rafael Alberti

A Roma, amata benché pericolosa


per i viandanti, nella palazzina
dove hai abitato, come si usa fare
per la pigrizia degli immemori
e le fregole dei gitanti incolti,
avrebbero apposto un’iscrizione
“Qui visse il poeta” – solita manfrina –
se qualche co-residente cavilloso
e probabilmente un po’ seccato
non avesse negato il nullaosta
additandoti incorreggibile moroso
e sventolando i ratei irrisolti
del tuo dovuto in spese al condominio.
Alberti, grande poeta irriguardoso
del dover corrispondere ascensore,
pulizia scale, luce e tutto il resto,
ancora stretto nel conturbante minio
del garofano in metamorfosi d’amore,
ancora arso del ghiaccio della spada
che quel garofano ha quasi reciso:
carte di versi struggenti, fiammeggianti,
non estinguono i titoli in protesto …

6 marzo 2022

Rafael Alberti (El Puerto de Santa María, 1902 – Cadice, 1999). La faccenda delle spese di condominio non saldate
l’ha raccontata di recente Miguel Gotor (RAI Radio 3, rubrica Farheneit del 3 marzo 2022) il quale, occupandosi in
qualità di assessore alla cultura di Roma Capitale di alcune questioni toponomastiche, è incappato in questo bizzarro
retroscena, peraltro a quanto pare non unico né raro. Alberti a Roma era arrivato nel 1963, dopo un esilio in Argentina
durato già 24 anni, un esilio dalla sua Spagna che toglieva di mezzo i poeti come mosche: l’anno dopo cominciò a
scrivere Roma, pericolo per i viandanti, mentre nel 1972 un comitato cittadino che si occupa dal 1967 di questioni
sociali e tutela del patrimonio culturale gli conferì l’annuale Premio Simpatia, destinato a coloro che si distinguono a
vario titolo in questi campi. Quel signore col volto scultoreo incorniciato da una bianca capigliatura alla Leo Ferré,
autore di parole ardenti e sensuali, quel marinaio in terra, forse la lista degli oneri abitativi la scambiava per un
volantino pubblicitario e la riciclava per scriverci dietro delle poesie?

Elizabeth Bishop

In certe rubriche tipo “Un poeta al giorno”


compari sempre con le stesse due poesie,
Insonnia e/o L’arte di perdere,
e devo dire che in esse mi ritrovo
tuo insospettabile fratello:
non a caso sto gettando questi versi
quando ancora il crepuscolo dell’alba
non si intravede oltre le gelosie
e già da un’ora non ho retto il fardello,
nel letto, dei dolori d’anima e di ossa.
Tu dicevi all’amica Marianne Moore
di come ti aggrediva la vitalba
della pigrizia, e anziché scrivere
così sprecavi tempo, e che sentivi
di aver scritto più poesia non scrivendola
che sì: in quell’arte di perdere,
dal più piccolo oggetto ai continenti,
c’era spazio anche per il tempo.
Io per me direi fuori dai denti
che la poesia è dépense per definizione,
che non si fa altro che per perdere
- quanto meno di vista – quell’avere
indefinito e ambiguo di attimi o ere
che la nascita ci affida in dotazione.
Poi io e te sappiamo bene
che è facile imparare a perdere
qualunque cosa, qualunque tranne una:
la vita di una persona amata,
una figlia, una compagna. La Luna
allora “nello specchio del comò
guarda milioni di miglia lontano”
e la notte è un’altra cosa nella lista
delle cose che sgocciolano via
dal nostro tempo, dalla nostra vita,
per ritrovarsi nella poesia.

12 marzo 2002

Elizaberth Bishop (Worcester, 1911 – Boston, 1979). Mi piace molto la definizione che di Bishop diede Marianne
Moore, della quale fu grande amica – almeno fino a quando Marianne non pretese di mettere mano a una poesia di
Elizabeth: arcaicamente nuova. Perché Elizabeth amava forme chiuse, regolari, rime, ma il suo modo di esporre i
contenuti era una ventata d’aria fresca perfino nell’ambito del modernismo. Insieme a Moore, Harold Bloom l’ha posta
ai piani più alti del canone novecentesco americano, mentre un altro suo grande amico, Robert Lowell, la chiamava
“musa infallibile”. Poeta misurata nella produzione – quattro raccolte, poche decine di poesie – come confessò a Moore
in una lettera pensava di averne scritte più non scrivendone. Io non sono misurato, anzi sono perfino smisurato, ma pure
penso di avere scritto molte poesie soltanto nella mia mente: del resto accade a qualsiasi poeta. Forse sarebbe stato
meglio se lei ne avesse vergata qualcuna in più, e io qualcuna in meno? Per fortuna, o sfortuna, non abbiamo un
contatore incorporato che ci sorveglia, noi poeti, siamo liberi di controllarci o delirare a nostro piacimento.

Fernando Pessoa

Devo essere franco, ancora non riesco


a decidere se sia del tutto vero,
come pare, che a leggere i tuoi versi
si possa distinguere quelli di Pessoa
da quelli di Reis, de Campos o Caeiro,
ciascuno col suo stile e il suo sviluppo,
l’uno drammatico, l’altro disciplinato,
l’altro ancora avvinto, emozionato:
forse è a causa della traduzione,
una maschera calata sulle maschere
che già di tuo hai pensato di indossare;
forse è una mia goffa incomprensione,
quel tuo vivere una vita da travet
e quel tuo scrivere come una messinscena
degna di un gran teatro del mondo
in cui incarnavi ogni dramática pessoa.
Ma devo dire che, ortonimo o eteronimi,
gli autori dei tuoi poemi, odi, poesie
di certo non mai sono anonimi
(nel senso di scialbi, senza nerbo)
e per me tu sei di quei poeti
che sempre instillano un che di gratitudine.
Se poi dovessi proprio scegliere
- di grazia, preferirei di no –
il luogotenente che più mi commuove
è Bernardo Soares, compositore
di quel plasma di frammenti dileguanti
che hai detto un libro di inquietudine:
mi sento tuo compagno disertore
di tanta finta convivialità,
tra sguardi teneri e paternalisti
che gli uomini comuni hanno di norma
per i poeti e per gli artisti
poggiati al parco sopra una panchina;
ti siedo accanto alla taverna, qua,
a fare la calza con intenzioni altrui
ma liberi nel pensiero: scriviamo qualcosa,
chiacchieriamo, beviamo una bottiglia,
facciamo – perché no? - una fumatina.

23 aprile 2022

Fernando Pessoa (Lisbona, 1888 – Lisbona, 1935. Fernando Pessoa, ovvero nomen omen, oppure abile e eccedente
gioco di prosopopee rubato all’anagrafe: pessoa infatti in portoghese significa “persona”, e persona sappiamo che
etimologicamente rimanda alla maschera teatrale. Dunque, la poesia dei vari enti convocati da Fernando a firmare per
lui è una sorta di gran teatro del mondo nel quale, non tanto ogni persona interpreta un ruolo, quanto diversi ruoli
interpretano un individuo: ancora l’etimologia – compagna di viaggio adorabile - mi viene in soccorso dicendomi che
una delle possibili origine di “interpretare” concerne il concetto di far conoscere, mentre per “individuo” credo non ci
sia bisogno di spiegazioni. Secondo questa esegesi, dunque, gli alter ego di Pessoa gli sarebbero serviti per costruire la
sua identità, e non per nasconderne qualcosa all’esterno; e non è l’uno, nessuno e centomila di Pirandello che s’accorge
con angoscia delle discrepanze tra il proprio io e la percezione che ne hanno gli altri, è il bluff di un poeta che dice agli
altri “e mo vi frego io”. Ma che bella fregatura, la poesia di Pessoa & Co.

Giovanni Raboni

Una mia amica lesse alcune mie poesie


poi mi disse “Se ci fosse ancora
Vittorio Sereni, se ci fosse Giovanni … ”:
a me sembrò più che un complimento, quasi un serto
l’idea che i miei versi potessero essere buoni
al punto da meritare l’interesse
di poeti come Sereni e Raboni,
di quelli che un volume è sempre aperto
o ha un segnalibro che si sposta
qua e là tra pagine-stazioni
nella mia biblioteca di poesia.
Come hai insegnato c’è una riconoscenza
per i poeti amati, o meno amati purché forti,
che ai poeti è incollata come un’ombra,
quella che Harold Bloom chiamò apophrades
e tu, forse meglio, immaginavi
la comunione dei vivi con i morti:
non si smette mai di essere grati
a chi ci ha preceduti sul sentiero
della poesia lasciando sassolini
bianchi sotto la luce della luna
perché potessimo non perderci (una
di queste intelligenze, Thomas Eliot,
l’abbiamo seguita entrambi con sincero
sentimento del suo essere il progresso
di conoscenza dei suoi successori,
come egli stesso sosteneva).
Così ho sfiorato la possibile fortuna
- mancata per un pugnetto d’anni -
di conoscerti quand’eri ancora vivo;
ma posso sempre darti del tu, comunque,
chiamarti tra le pagine, Giovanni,
perché i ciottoli della tua poesia
un poeta se li ritrova ovunque.

25 aprile 2022

Giovanni Raboni (Milano, 1932 – Fontanellato, 2004). Giovanni Raboni è stato un altro poeta che ho conosciuto
colpevolmente tardi, ci sono arrivato dopo una “lunga, lentissima rincorsa”, come dice l’incipit di una sua poesia. Che
peraltro è una poesia, anzi una breve prosa poetica della sequenza “Piccola passeggiata trionfale” nella raccolta Ogni
terzo pensiero, molto indicativa del rapporto col tempo e con il senso dell’esperienza di cui Raboni ha fatto una sorta di
basso continuo del proprio percorso (del resto non sarà un caso che abbia tradotto Alla ricerca del tempo perduto), e che
ha spiegato con chiarezza lui stesso in una intervista: alla base c’è l’idea che la poesia sia il frutto di un intreccio tra un
impulso a conservare l’esperienza e un altro impulso immediatamente successivo a sublimarla fino al punto da farla
quasi scomparire. “Ci ho messo quasi sessant’anni per passare da una parte all’altra del corso, trentadue, mese più mese
meno, per coprire la distanza fra il quintetto in sol minore con due viole e il quintetto in do maggiore con due
violoncelli (…) come tenendo il fiato” (credo si stia parlando di Mozart e Schubert: a proposito di tempo, io Proust non
l’ho ancora letto, e a proposito di sessant’anni li ho appena compiuti; devo fare una botta di conti).

Diego Valeri

Non sempre è un luogo comune quello che


dice “fare le cose semplici è difficile”
- purché non si scambi semplice con facile:
facile è qualcosa che si fa, semplice
è qualcosa che si piega –
e la tua poesia Diego Valeri è qua
a congiungere l’Alfa con l’Omega:
il vento che aleggia continuo sui tuoi versi
infiltrati tra le calli di Venezia
è andato man mano ad asciugarli
come la mano di una grazia timida
che agisca senza mai farsi vedere.
Andrea Zanzotto capì bene quel che lega
il respiro di quel vento “sempre in fuga”
al canto delle tue parole, trasparente
come la luce che trema sui mosaici
bizantini e sulle briccole con stessa,
altrettanto trepida, acribia.
Molti hanno visto in questa poesia
tale luce quasi succhiata dai pittori
amati, Saetti, Tancredi, Semeghini;
nessuno, credo, ha fatto il nome
di quello che a me pare il più presente
con le sue quasi impalpabili “Venezie”
a quella luce, a quel vento quasi come
sul punto del loro evaporare,
ossia Virgilio Guidi. Non fa niente,
ut pictura poësis stavolta
non è tanto per dire, la si sente
la luce nelle strofe, il vento
lo si vede.

14 maggio 2022
Diego Valeri (Piove di Sacco, 1887 – Roma, 1976). Se provate a digitare sul motore di ricerca di Google “Diego
Valeri” alla categoria “Immagini” quelle che vengono fuori sono equamente divise tra le foto del poeta, pressoché tutte
da anziano, pressoché tutte con una faccia da professore del liceo (che del resto è stato), e quelle di un omonimo odierno
calciatore argentino: gli algoritmi sono potenti e solerti, ma ancora decisamente stupidi. Molti anni fa sono riuscito a
mettermi in casa, mercé una fornitissima libreria di remainder (che purtroppo non esiste più), una discreta serie di Oscar
Mondadori Poesia, tutti degli anni ’70 del ‘900, grazie alla quale ora mi ritrovo sugli scaffali antologie di poeti italiani
abbastanza negletti, come Piero Bigongiari, Carlo Betocchi, Bartolo Cattafi, Raffaele Carrieri, Libero De Libero. E
Diego Valeri. Ogni tanto qualcuno viene “ripescato” dal limbo e “rilanciato”, ma siamo al limite del benjaminiano
spazzolare la storia contropelo. Ho detto limbo non a caso: Valeri è un poeta colpevole del solo peccato originale –
l’essere appunto poeta – e di aver scritto quasi deliberatamente nell’alveo di un’aurea mediocritas; così ora è confinato
nel limbo anche in senso dantesco, nel limitare dell’inferno dell’oblio. Ed è un peccato.

Patrizia Valduga

Mi sei sempre sembrata


una specie di Menade acquietata,
arrivata troppo tardi per fare a pezzi Orfeo
accontentatasi di ricomporre le sue membra
(come Ezra Pound fece con Osiride).
Ma qualche goccia del sangue del cantore
deve esserti finita nelle vene,
e nei polmoni il fiato del tragos
quando Raboni traduceva Antigone.
Sangue e fiato riversi in quell’ardore
compresso quando leggi inni di Manzoni,
quartine di Omar Khayyàm in farsi
e le tue stesse poesie, in scena o obscene.
La tua voce bassa e arrochita,
la pronuncia sul filo del sospiro
credo vengano dritte dalla penna
che solca sulla carta il capogiro,
non conclamato ma incombente,
nel punto tra la sobrietà e l’ebrezza
che possiede i poeti, solo lui vita.

15 maggio 2022

Patrizia Valduga (Castelfranco Veneto, 1953). È abbastanza facile cadere nella tentazione di pensare che Patrizia
Valduga si sia costruita un personaggio perfettamente calzante per i suoi versi nei quali si intrecciano esemplarmente
eros e, se non proprio thanatos, un suo parente molto prossimo; ma sarebbe ovviamente anche alquanto arbitrario. A
ogni modo se così fosse, per quanto mi riguarda, sarebbe una poseur troppo simpatica, col suo soggolo per nascondere
un collo di 170 anni sopra un volto di 70 – come ha detto nel corso di un colloquio in streaming da casa sua nel maggio
2021, seduta davanti alla lavatrice, “senza vino” –, la sua indoma passione per il poeta ottocentesco Giovanni Prati
“assassinato da quel porco di Carducci che ha preso il suo posto in cattedra e poi lo ha seppellito” (idem) e la sua
inarrestabile verve di “distributore automatico di citazioni” (idem). Del resto, sempre in occasione di quel colloquio, al
quale è stata invitata dall’Accademia Nazionale di Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, ha decisamente rimandato al
mittente l’idea di recitare le sue poesie, sostenendo con forza di limitarsi a leggerle, benché dalla propria mente. Mi
sento compartecipe alla sua altera rivendicazione del culto per la lingua, per la disciplina della metrica, per poeti come
D’Annunzio, e quindi faccio mia la sua invocazione da Corsia degli incurabili del 1996: “vogliono assassinare
l’italiano! / Lo vogliono svilire, impallidire, / con lo iènchi filmesco sottomano, / con mille sfregi al giorno e mille
offese … / a poco a poco lo fanno morire …” oggi che non sono soltanto “giornalisti di ventura” e “critici cialtroni e
botteganti” a compiere tale delitto, ma ahimè anche molti poeti. Il riferimento a Raboni è dovuto al fatto che Valduga è
stata sua compagna..

Gerard Manley Hopkins

Gerard Manley Hopkins, questo nome


che mi sembra di un avventuriero,
di un ramponiere degno della Pequod,
dell’autore del Manoscritto nella bottiglia,
il misterioso poeta gesuita
amato da Montale, Eliot, Pound,
questo nome finalmente vedo scritto
(ma immagino impresso con stampiglia)
sulla copertina di un volume:
e così – finalmente – si è arricchita
la mia biblioteca di poesia
dei tuoi canti d’onda e di conchiglia,
del tuo manierismo appassionato
che qualcuno vorrebbe un goticume
e invece è il bel tesoro esaltato
di una bellezza che erompe dallo squarcio
come l’essere più intenso e periglioso
(Rilke, nato quando tu eri trentenne,
l’avrebbe chiamata l’angelo, a Duino):
neologismi, allitterazioni, assonanze, rime interne
che posso godere poco o nulla
visto che sono un ignorante marcio
in lingua inglese (e non mi consola
che Beppe Fenoglio si sia arreso,
benché buon traduttore, al Naufragio della Deutschland);
ma anche nel mio idioma, in quel “miraggio
di senso” che ha “fissato” chi ti ha reso
ancora una volta ai fans italiani,
i tuoi versi-marosi, i tuoi inscape e instress,
saranno per me da qui in poi lanterne.
15 maggio 2022

Gerard Manley Hopkins (Stratford, 1844 – Dublino, 1889). Neanche a farlo apposta, proprio non lo ricordavo, in
Prima antologia di Patrizia Valduga, che mette insieme Donna di dolori, Carteggio e Corsia degli incurabili, e
precisamente in esergo a Donna di dolori, c’è un passo da Hopkins, questo poeta formidabile che io non avrei
conosciuto se non per la trovata di Einaudi di pubblicare nel 2022 un’antologia della sua poesia; o meglio, della sua
poesia dal 1875 in poi, poiché in quell’anno Hopkins “aveva rotto il ghiaccio con le muse” (Viola Papetti) dopo un
silenzio che durava dal 1867 quando aveva deciso di distruggere la sua produzione in versi precedente. Le suggestioni
marine che ho tratto dal nome hanno una loro corrispondenza nel fatto che quel ghiaccio Hopkins lo ruppe scrivendo un
testo sul naufragio della Deutschland, una nave tedesca battente bandiera inglese, presso le foci del Tamigi. Questo
testo è un poema visionario che quasi rievoca William Blake, ma anticipa una forma di scrittura che persino decenni
dopo, quando uscirono i primi Cantos di Pound e La terra desolata di Eliot – che non per nulla amavano Hopkins – era
ancora giovane.

Teocrito

Il mio incontro con te è dovuto a un caso


di quelli che da un lato mi fan lieti
e da un altro però anche sdegnato:
un’edizione degli Idilli Zanichelli,
collana dei “Poeti greci
tradotti da Ettore Romagnoli”,
stampata nel ‘925 e numerata
che l’autore delle versioni ha autografato
con bella calligrafia; tomo pagato
in cumulo con altri pochi euro
come capita ormai troppo spesso
sui banchetti di certi libraioli.
Il volume ingiallito con le pagine
rifilate alla buona sa di fieno
- suggestione? -, polveraccio, terra,
quella terra con cui la Musa tua
immemore di dèi, di eroi, di guerra,
coprì le orme dei sandali di Omero
e rimpastò il nerofumo degli inchiostri.
E qui scatta una strana antinomia:
poiché il canto delle opere e dei giorni
nasceva più che ai piedi degli ulivi
in seno a biblioteche, chiostri,
tra colleghi aedi e libri (Romagnoli),
in un circolo vizioso di poesia
compiaciuta della propria bella forma.
Ma tu, diceva l’Ettore grecista,
scantonavi, tu eri diverso,
in un mondo di cornacchie sperso,
verace usignolo: e un tuo εἰδύλλιον
più che un bozzetto, un quadretto,
è un’immagine viva, vibrazione
di cosmo anche in una sola foglia.
E se lo diceva lui, chi sono io
per non fare un salto tra i filari,
aggirarmici più che di buona voglia?

22 maggio 2022

Teocrito (Siracusa, ca. 300 a.C. – Siracusa, ca. 250 a.C.). C’è un vecchio libro di Lugi Maria Lombardi Satriani,
Folklore & profitto. Tecniche di distruzione di una cultura, pubblicato nel 1973, che cerca di dimostrare come
un’apparente “uscita dal ghetto” di alcuni prodotti della cultura popolare, la musica soprattutto, fosse il frutto di uno
specifico interesse a un tempo sociale e commerciale, un tentativo deliberato di acculturazione, di assorbimento nel
mainstream delle espressioni culturali del “mondo subalterno”. E cosa c’entra, direte, questo con l’inventore della
poesia bucolica? Una certa visione ottocentesca di Teocrito e dei suoi sodali poeti pastorali li immaginava andarsene in
giro per le campagne per allontanarsi dalla fredda vita cittadina e per soffiare ai villici lo spirito di Pan. Si coglie il
paragone? Fatto sta che da queste vere o presunte scorribande – decisamente presunte secondo Ettore Romagnoli, che
individuava nella biblioteca il vero habitat dei versificatori alessandrini – qualcosa di nuovo venne fuori, una poesia che
tentava di cristallizzare la periferica arcadia in forme eleganti e idealizzate. In realtà, sosteneva Romagnoli, quei poeti
stavano inventando le consorterie della società letteraria. Tuttavia Teocrito, pur degno compagno della cricca, era
un’eccezione, non era uno dei “cartofilaci distillatori di libri” ma un vero poeta. E, appunto, se lo diceva Romagnoli …

Gertrude Stein

Leggo i tuoi versi e non capisco un tubo


e allora mi sovviene quel che chiese
un vero o presunto detrattore
“Ma lei perché non scrive come parla?”
e la risposta al fulmicotone
“E lei perché non legge come scrivo?”
e poi ciò che il tuo amico Matisse
disse di certi quadri di Georges Braque
“fatti in piccoli cubi”: l’eone
del modernismo era scoppiato
e il mondo pareva senza direzione
se non quella di un folle entusiasmo.
Così riprendo in mano Sacred Emily
- ma Emily era Amélie, la santa moglie
del Polo Nord dell’arte moderna -
e indago le parole spasmo a spasmo,
tirate come muscoli e rimesse
l’una accanto all’altra, cubo a cubo:
comincio a vedere le sfaccettature,
la prospettiva di un caleidoscopio,
le note acrobate di un altro Sacre
(quello du printemps di Igor Stravinskij)
e, chissà, un po’ di luce in fondo al tubo …

22 maggio 2022

Gertrude Stein (Allegheny, 1874 – Neuilly-sur-Seine, 1946). Anche qui voglio partire da un esempio moderno: nel
1975 Lou Reed fece uscire un LP, Metal Machine Music, le cui due facciate sono entrambe occupate da circa mezz’ora
di puro feedback elettronico proveniente da una chitarra elettrica distorta e da una serie di altri marchingegni elencati in
copertina: la maggior parte di chi lo ascoltò, compresi i critici musicali (ma escluso Lester Bangs), lo considerò una
colossale presa per il culo; il condottiero dei Velvet Underground e l’autore di Berlin ci era o ci faceva? Ecco, quando
ho cominciato a leggere un’antologia di poesie di Gertrude Stein che avevo acquistato per pura curiosità mi feci la
stessa domanda, e devo confessare che nonostante lo spiraglio apertomi di cui dicono gli ultimi versi me la faccio
ancora: mettiamo pure che la traduzione non sia in grado di rendere i numerosi giochi fono-simbolici dell’originale, ma
non basta. Se Matisse, il Polo Nord dell’arte moderna (quello Sud era Picasso, Stein dixit) definì i quadri di Braque
“fatti in piccoli cubi”, io definirei la poesia di Stein fatta di un groviglio di tubi, che oltretutto si compenetrano l’uno
nell’altro, una smisurata bottiglia di Klein disegnata con una mano da Escher e con l’altra da H. R. Giger dove si entra e
si esce continuamente senza sapere mai se si è dentro o si è fuori.

Dylan Thomas

A vent’anni sembravi una rock-star,


a trenta – quando in pratica lo eri –
ne sembravi quasi il padre:
c’era quel tarlo a divorarti, la poesia,
e il whisky non era forse che un Giuda
che ti pagavi con i readings affinché
un giorno magari ti portasse via,
lui in persona, senza venderti a volgari masnadieri.
Ma poi sei uno di quei magneti
che attirano la leggenda come polvere
di ferro, e chiunque preferisce
sottoscrivere il R.I.P. per un attacco
di delirium tremens da alcolismo
piuttosto che per una probabile iniezione
di morfina per tenerti quieto
dopo diciotto bicchieri di elisir.
Ma giochiamo ancora al maledettismo
o ci interessano la parola e la visione,
ovvero i poli della calamita
tra i quali si scatena la corrente
dei tuoi versi organici e sublimi?
Ci interessano le ciance sulla vita
scialacquata o la prua veemente
che nel Prologo sembra inaugurare
il navigare necesse est di una crociera
in marosi e bonacce memorandi,
sullo scafo di versi tanto artificiosi
battente una bandiera tanto vera?

27 maggio 2022

Dylan Thomas (Swansea, 1914 – New York, 1953). Giorgio Melchiori in un suo saggio incluse Thomas tra alcuni
“funamboli” della letteratura inglese dell’arco di tempo che va da Joyce ai “giovani arrabbiati” degli anni ’50. Perché
funamboli? Perché hanno vissuto in un’epoca, il cui fulcro si colloca tra le due guerre mondiali, di instabilità, di
tumulto, “di ansia, per dirla con Auden”, e hanno dovuto come i funamboli procedere in precario equilibrio passo dopo
passo, sospesi nel vuoto. Dylan Thomas ha incarnato perfettamente questa figura con la sua poesia visionaria, e essa
stessa funambolica nel tentativo di “concludere al momento giusto una pace temporanea con le mie immagini (…) il
flusso dei contrasti” a rischio di traboccare “oltre le malferme barriere”. Sarebbe fin troppo facile estendere questa
descrizione alla sua stessa vita, ma come dico nei versi forse è giunta l’ora di imparare a dividere l’opera di un artista
dalla sua vita, per quanto suggestiva.
Arakawa Yōji

Ti scrivo, Arakawa Yōji, questa lettera


in via del tutto immaginaria
(se volessi potrei forse raggiungerti
ma non è questo il mio vero obiettivo)
e non so se e quali parole siano giuste
per farti partecipe dell’aria
di fraternità e riconoscenza
che sento … per la tua poesia?
Non tanto, anche se quel poco
che ho potuto leggere mi garba:
piuttosto per la rettitudine
che ti guida nell’essere poeta
- se è vero ciò che se ne dice
e non ho motivo di credere altrimenti -,
per come senza indugi hai fatto barba
e capelli a certi tuoi colleghi
ficcatisi nella contingenza
peggio che aragoste in una nassa
(per esempio dopo il terremoto
del 2011 sversando “uno scolo
di poesie flosce, indefinibili
se non come un chiacchiericcio”);
o per non battere in frotta la grancassa
di chi lamenta indifferenza alla poesia
asserendo anzi che sia un bene
che pochi ne leggano, pochi
magari buoni affinché non bava
sia a cui agganciare ami,
semmai l’esatto guizzo di una carpa.
Quindi onore a te, Yōji Arakawa.

28 maggio 2022

Arakawa Yōji (Mikunichō, 1949). Ho mandato un’epistola a questo poeta giapponese, del quale ho letto soltanto tre
dico tre poesie contenute all’interno di una antologia dei poeti del Sol Levante pubblicata da Einaudi nel 2020, per le
due cose che ha detto come sopra riportate, che sottoscrivo al centodieci per cento. Intellettuale controcorrente, e per
questo nel suo paese al “centro di un fuoco incrociato di critiche e insulti” – testuali parole di un suo collega messo
come lui – come lo sarebbe uno che dicesse le stesse cose qui da noi. Allora, ora che la mia voce su queste pagine
diviene pubblica, ne approfitto per ribadire: i poeti non devono planare come sciacalli sugli eventi della cronaca, men
che meno se tragici, per darsi arie da engagé; passerà il tempo, gli eventi si sedimenteranno, e a mente fredda si
potranno anche scriverci su delle poesie; i poeti non devono fare le marchette pur di avere un pubblico adorante al quale
autografare i loro libri; i lettori di poesia devono essere pochi ma buoni, una selezione destinata a migliorare anche la
qualità della poesia stessa. È chiaro?

Vladimír Holan

Non so se ammirare o biasimare


d’essere diventato un certosino
della poesia nella Grande Chartreuse
della tua casa – anzi, della tua cucina:
si sta meglio in cucina, hai scritto,
c’è caldo, cuoci qualcosa, bevi vino -;
l’emarginazione cercata è la più facile
tecnica di fuga, anche se, ammetto,
sembra tanto nobile. Eppure
smonto dal pulpito interdetto
quando imparo che sull’isola di Kampa
la tua clausura era quella di un Giacobbe
in lotta ogni notte col divino
corpo della parola, e che la vampa
della poesia, ogni notte, ti lasciava
sul bordo dell’aurora come in fronte
al muro che ti chiudeva il mondo
al cieco sguardo dell’abitudine
per aprirlo alla visione, al rovescio
dell’arazzo. Forse così la solitudine
somigliava davvero a un monachesimo,
e la tua rinuncia a un sacrificio:
potrei dire, non ammiro, ma comprendo
rimuginando certi tuoi versi scabri
da quel pulpito, e man mano che scendo.

3 giugno 2022

Vladimír Holan (Praga, 1905 – Praga, 1980). Il suo editore disse che Holan nacque poeta, non lo diventò per sua
scelta: vabbè, sono di quelle cose che si dicono, fanno sempre un certo effetto. Però poi una scelta la fece, quella di
restare poeta quando, nel 1948, il Partito Comunista cecoslovacco impose un divieto di pubblicazione per le sue opere:
a quel punto decise che la sua già innata predisposizione alla solitudine quale aura di silenzio necessaria alla creazione
si doveva estremizzare in una scelta di vita, e si ritirò praticamente dal mondo. Ma non appunto dalla scrittura: dov’era
comparsa l’inquietante rima agorafobia-poesia. Nel 1963 fu riabilitato, e allora vai con pubblicazioni, successo,
traduzioni: le code di paglia quando cambia il vento non tardano a dimenarsi, e i loro portatori a mettersi in fila per fare
il figurone di chi pone rimedi alle ingiurie della storia.

Dario Bellezza

“Ma non saprai giammai perché sorrido”:


l’enigma che Chimera lasciò in dono
a Gabriele D’Annunzio/Andrea Sperelli
tu l’hai ripreso pari pari
in una poesia di Invettive e licenze;
e hai scatenato il rimprovero o il perdono
di chi ti ha visto come l’ultimo maudit
molto fuori tempo massimo, tra i fari
annebbiati di una Roma immaginaria
e immaginata, del resto a suo modo vera.
Ma avevi l’eredità severa
di un nome e un cognome inesorabili:
Dario, “che possiede ciò che è buono”,
e Bellezza: e sotto il loro peso, sì,
molto hai corteggiato la finzione
e perfino una finzione di te stesso
dietro la maschera del peccato,
del senso di colpa per il sesso,
della solitudine e dell’irrequietezza.
La poesia fu rifugio o, addirittura,
elevazione di robuste, spesse mura?
Chimera non si ferma mai davanti a nulla,
figuriamoci davanti a un poeta
e alla sua impacciata sofferenza,
un poeta che portava gli “onerifici”
nome e cognome di Dario Bellezza.

4 giugno 2022

Dario Bellezza (Roma, 1944 – Roma, 1996). Ogni tanto da qualche parte emergono frammenti video del festival dei
poeti che si tenne a Castelporziano nel 1979: in uno di questi frammenti c’è Dario Bellezza che tenta di leggere i propri
versi tra le esternazioni della “ragazza cioè” – una che era salita sul palco con indosso solamente una t-shirt, e nelle sue
farneticazioni sul diritto di comunicare una parola su tre era appunto il leggendario “cioè” dei giovani di quell’epoca – e
l’annuncio che per chi voleva mangiare era pronto il minestrone “gratis”; poi deve anche fare i conti con una parte di
pubblico che grida “nudo, nudo”, finché al posto suo non si spoglia un altro frequentatore abusivo della ribalta. Dario
Bellezza, che soltanto pochi anni prima era stato definito da Pasolini il miglior poeta della nuova generazione, era già
scivolato in una specie di parodia di se stesso, e forse citava D’Annunzio nell’illusione che uno scrittore potesse ancora
produrre e controllare a piacimento una propria immagine pubblica. Qualche anno più tardi, nel corso di una famosa lite
televisiva, Aldo Busi cercherà di spiegargli che era ancora possibile, ma a un prezzo che l’introverso Dario certo non
sarebbe stato disposto a pagare (avete presente, no, Aldo Busi?).

Octavio Paz

Da uno che ha maneggiato l’apparenza


nuda dell’alchimia nell’arte di Duchamp,
contemplato le insidie della fede
nella poesia di Juana Inés de la Cruz
e si è addentrato nel labirinto della solitudine
della coscienza culturale messicana
non sorprende il canto intestato al fuoco
di ogni giorno, al vento cardinale,
alla doppia fiamma di erotismo e amore,
fino al bersaglio di bianco bagliore
della pagina, magnetico e accecante.
Chi cerca nella poesia una veniale
farmacopea, l’urto di un poco
medicamento che plachi la febbre
cerchi altrove: la tua Octavio Paz
è una pietra di sole su cui il verso
arde fino a diventare luce,
fino a condensare l’universo
nella festa incerta, esplosa di un istante.
5 giugno 2022

Octavio Paz (Città del Messico, 1914 – Città del Messico, 1998). In questa poesia ci sono parecchi riferimenti a titoli di
opere di Octavio Paz, sia di poesia che di saggistica. Se uno non li conosce, non è facile tirare a indovinare quali siano
quelli delle une e delle altre: ditemi se “le insidie della fede” non potrebbe essere un ottimo titolo per una silloge di
versi, anziché del bellissimo saggio su Suor Juana Inés de la Cruz, gerolamina del ‘600 e poeta tra i massimi del
manierismo spagnolo; lo stesso per “apparenza nuda” che raccoglie due scritti sull’opera di Duchamp, o “il labirinto
della solitudine” che ragiona intorno all’identità messicana. Del resto è opinione corrente che l’autore delle coltissime
ed eleganti prose, e quello di una poesia capace di muoversi nel tempo - e nello spazio – tra ricalibrate ascendenze di
quello stesso manierismo e invenzioni tipografico-impaginative come quelle del poema Bianco, un vero e proprio libro
d’artista, abbia sempre mantenuto tra i propri campi di interesse una fervida comunicazione, un’osmosi di temi e
linguaggio. Una frase di Paz sulla poesia di Juana Inés de la Cruz si potrebbe adattare bene al suo autore: “Poesia
intellettuale? Meglio: poesia dell’intelletto di fronte al cosmo”.

Juan Ramón Jiménez

Ogni poeta nella vita prima o poi


almeno una volta è toccato dalla grazia,
più d’una volta i più fortunati
le cui mani si aprono a contare
con gratitudine le fauste occasioni;
poi ci sono quelli che il destino
- come altro vorremmo chiamarlo, noi
poeti, se non così, ovvero qualcosa
che ferma, fissa stabilmente –
fa si che quel santo favore
sia una mano, appoggiata sulla spalla
ad libitum, di un genio protettore.
Io ho questo libro squisito di Passigli,
uno di quelli di cui non ci si sazia
e diverrà una delocazione,
ombra di polvere sopra il comodino
presenza della sua assenza quando un giorno
si riporrà finalmente in libreria:
un libro salubre, La stagione totale,
collina meridiana della tua poesia.
Ecco, senza angustiarmi troppo per il prima
e per il dopo che il poggio ideale
dividerebbe come spartiacque
salgo e scendo lungo i suoi versanti,
entro e esco dalle sue canzoni
e ogni volta il dubbio è meglio sciolto:
quando le hai scritte la grazia era con te,
qualcuno o qualcosa accanto giacque
a guidarti la penna alla bellezza.
Del resto lo sentivi, se ammettevi
fin dal principio “Non protendo in fuori
più le mani. L’infinito è chiuso in me.
Io sono l’orizzonte raccolto”.

6 giugno 2022

Juan Ramón Jiménez (Moguer, 1881 – San Juan, 1958). Stavolta comincerei dal libro, dall’oggetto-libro, un volume
della collana “Passigli Poesia. Testi scelti da Mario Luzi”, che ho definito “squisito”: un libro molto sobrio all’aspetto,
ma che suscita tenendolo tra le mani quel senso di proporzioni esatte che, per chi ama i libri da ogni punto di vista, fa la
differenza (d’altronde l’aggettivo “squisito” rimanda etimologicamente – ma è una fissazione questa etimologia,
penserete: si, lo è – al cercare, anzi al cercare diligentemente). Quindi passerei alla “grazia”, parola dalle insidiose
oscillazioni di senso, in uno spettro che va dalla potenza dell’accezione religiosa all’affettazione del “grazioso” del falso
galateo. Ma qui la cosa è piuttosto semplice: grazia come qualità di colui che è grato, ossia che canta inni di lode a
quella particolare disposizione d’animo che, qualsiasi ne sia l’origine, gli permette di fare qualcosa nel migliore dei
modi di cui è capace. Nella sua poesia Jiménez cerca di esprimere un senso di plenitudine, la percezione dell’essere uno
con se stesso e con la totalità della sostanza umana; ne La stagione totale fin dal titolo. Così la grazia che si riceve, da
dovunque venga, la si restituisce: grazia e gratitudine sono una cosa sola: “giacché per lei siamo venuti, / senza lei non
possiamo / essere né non essere”.
Álvaro Mutis

Piuttosto ambizioso il programma, debbo dire,


di essere questo gabbiere universale
che salva barche dal perdersi a terra
ancorate non ai docks ma al tempo
e non al tempo che piano piano sale
dal fondo del mare e della storia
e incrosta gli scafi e avvolge la memoria
di umili e forti valve di conchiglia,
ma al tempo che diventa sale
e la memoria conserva come acciughe
strappate dalle reti all’alalunga.
È la poesia che issa le vele
al levante dell’immaginazione
e esse diventano schermi di visione
che hanno la febbre degli occhi di Campana,
il silenzio delle pietre di Eliot,
le urla spezzate – Conrad – dal tifone.
E io non so se ho visto giusto, Álvaro,
vedendo queste voci di sirena
alzarsi dalle terre calde, dalle grotte,
dall’impassibile avidità del fiume in piena
per annunciare gli elementi del disastro.
È il vento che volta a suo criterio
le pagine del libro e mi conduce
nel canto come tra le banchine di una darsena
e le dimesse rimesse del suo squero,
sotto la luce gelida di un astro
che piove sul poeta, sul nocchiero.

11 giugno 2022

Álvaro Mutis (Bogotà, 1923 – Città del Messico, 2013). Chi ha sentito per la prima volta il nome di Álvaro Mutis
quando Fabrizio De André disse di essersi ispirato a lui per la canzone Smisurata preghiera alzi la mano. Io l’ho alzata:
del resto egli stesso non lo conosceva fino a quando un suo amico non gli regalò La neve dell’ammiraglio, e da quel
romanzo partì per “divorare tutti gli altri suoi scritti”. Il mondo è pieno di poeti, e spesso i migliori restano in disparte,
perché spesso i migliori sono anche i più schivi. Ma, come si dice, meglio tardi che mai: e anzi, quando una scoperta è
tardiva forse è perché così doveva essere. Peraltro io questo nome fascinoso, Álvaro (viene nientemeno che dal visigoto
e pare significhi “chi si sa difendere da tutti” o anche “difensore di molti”) ho continuato a tenerlo in stand by per
parecchio tempo dopo averne avuto notizia da De André: solo di recente mi sono procurato Summa di Maqroll il
gabbiere, e in effetti più che pensare “peccato non essermi deciso prima” ho pensato proprio che fosse arrivato il
momento opportuno. “le acciughe strappate dalle reti all’alalunga” è un piccolo gesto di riconoscenza per chi mi ha
aperto la porta a questo poeta smisurato e esatto al tempo stesso (De André, Le acciughe fanno il pallone).

Boris Pasternak

Per Carmelo Bene sei stato uno dei quattro


possibili modi per morire in versi,
tu che forse eri morto già più volte,
ogni volta che si spezzava un ramo giovane
dalla quercia in fiamme della poesia
in un tramortito inizio secolo
(Chlebnikov, Esenin, Majakowskij, Blok).
Ecco così il fragore d’acque
che inonda il tuo fragile Eden
e le gocce che disegnano corone
di suono intrecciate l’una all’altra,
parole libere come forme e colori
su una tela cubo-futurista
o note su uno spartito skrjabiniano
o fotogrammi in un montaggio ejzenšteiniano.
Ho ascoltato la tua voce paziente
recitare Noch’, ormai anziano
disincantato maestro, “gentilmente
invitato” a rifiutare il Nobel:
cercando non certo la balistica
di quei freschi suoni brulicanti,
casomai la fiammella resistente
della candela all’ultimo moccolo
che illumina le tenebre quel poco,
le tenebre delle melodie, e si finisce
di vivere di versi, di litigare
con il sole, quel poco che la poesia
pur avendo dato tanto non lenisce,
e si finisce di vivere di versi. E si finisce.

19 giugno 2022

Boris Pasternak (Mosca, 1890 – Peredelkino, 1960). La voce di Pasternak che recita Notte (registrata nel 1958) e una
delle sue più celebri foto (scattata nel 1959) si fondono in un file multimediale di rara malinconia e forza commotiva:
nello scatto il poeta è decisamente “in posa”, eppure la bellezza dell’uomo e il suo sguardo che scansa l’obiettivo
puntando leggermente alla sua sinistra, di quegli sguardi persi e concentrati a un tempo, lo rendono in qualche modo
naturale; e sembra che Pasternak si stia ascoltando mentre recita quei versi, con sotto il fruscio della puntina che
percorre il microsolco e le parole melodiose che sfarfallano intorno come neve. Troppo patetico? Può darsi. Non mi
succede spesso, ma a volte mi succede. Questa è una di quelle volte, pensando a questo poeta che, forse per il fatto di
essere anche musicista, ha saputo comporre l’eccitazione del cubofuturismo in melodie fonetiche nelle quali, come
scriveva Angelo Maria Ripellino, le parole sembra “sentano il bisogno di sostenersi a vicenda”. E poi, per colpa di un
solo, dannato romanzo, ha dovuto appoggiare la penna sulla squallida carta di un telegramma per declinare l’invito a
ritirare il Nobel per la letteratura per “motivi di ostilità del suo paese”. Quel paese che si laverà la coscienza
dedicandogli trent’anni dopo un francobollo.

Calderón de la Barca

Che significa quando si dice che noi siamo


della stessa sostanza di cui sono
fatti i sogni, e che un sonno circonda
la nostra breve vita? A farla corta:
di che sostanza sono fatti i sogni
se questa può avvinghiarsi come un’onda
all’esistenza e offrirci in dono
- o non offrirci affatto – l’illusione
di poter entrare e uscire dalla porta
custode della realtà a nostro arbitrio?
Se sostanza è quello che soggiace
all’apparenza, La vita è sogno
parrebbe davvero un gran suggello
al prodigio di un centro ormai smarrito
in mezzo ai due fuochi dell’ellisse audace
tra i quali oscilla l’ansietà barocca.
Ma il tuo dramma è vigoroso e bello
e ci interroga come l’abisso di Velásquez,
lo sguardo della menina, della nana,
e ci chiede di aspettare con pazienza
l’arrivo della colomba imprigionata
che è uscita dalla tua bocca, tana
di versi adamantini e martellanti,
nel nostro tempo di aria grigia e torrida
non meno ansioso e sconcertato,
agitato nel suo caos frattale,
quando “vita” e “sogno” non sono più sostanza
per la penna di poeti e poesia
poiché è diventato così facile
farsela con una realtà virtuale.

25 giugno 2022

Calderón de la Barca (Madrid, 1600 – Madrid, 1681). Oggi che i versi dalla Tempesta di Shakespeare non li ruba un
Thomas Eliot ma i copywriter (le parole di Prospero per uno spot dell’Alfa Romeo Giulietta del 2010), oggi che
L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud fa a gara come gioco da salotto con la Smorfia Napoletana, oggi che la
realtà aumentata promette di trasformare i sogni in vita, ha ancora senso scervellarsi con la meditazione sul rapporto tra
realtà e illusione? No: la realtà è diventata, tra le grinfie dell’informazione perenne, Argo dai cento occhi che non dorme
mai, perché cinquanta restano comunque aperti; e l’illusione non è quella di vivere, è quella di rincorrere il tempo,
attenti non a capitare nell’eventuale cono d’ombra dei cinquanta occhi chiusi, ma a cercare sempre l’occhio di bue dei
cinquanta aperti. (S)finita la questione metafisica, resta lo stupore per la poesia: e almeno da questo punto di vista, per il
tempo che si può passare in compagnia dei versi di Calderón la vita è sogno.

Antonin Artaud

Poiché il poeta è un essere intermedio


tra la fiera e l’angelo
la poesia dev’essere un ruggito
che viaggia su di un respiro angelico.
E poiché forse tu eri un angelo
che cercava di liberarsi dell’umano
intrappolato nel corpo di una fiera,
e fieramente un giorno hai urlato “Ho finito,
ho chiuso i conti con Dio e il suo giudizio”
la poesia si è impastata col ruggito
e coi segni del condannato dal suo rogo.
La cenere della sigaretta in quella foto
in copertina di Il teatro e il suo doppio
ha sparso cenere, residuo del supplizio,
per anni, fissata a poster sopra un muro
del mio studiolo, è stata un logo
- nel senso di ambito, spazio; e di parola.
Devo dire, questa poesia io la capisco
o piuttosto, meglio, la comprendo;
e se è vero che un angelo può causare
l’atto del comprendere in un altro
anche solo parlando in se stesso
mi immagino sulla scrivania, sotto la foto,
e il tuo sguardo in tralice sommesso
che mi fa comprendere, mi illumina.
Ma si dà il caso che io angelo non sia,
nemmeno fiera, ma un banale uomo
benché in combutta con la poesia,
così risolvo che le tue parole
masticate fino a restare senza denti
sono esse stesse l’angelo e la fiera,
consumati dalla fiamma fanno segni
e il bagliore arde nella sera
di ogni tempo, sempre lo farà:
certi poeti bruciano in perpetuo,
i suicidati della società.

25 giugno 2022

Antonin Artaud (Marsiglia, 1896 – Ivry-sur-Seine, 1948). Ho aperto la mia galleria di offerte con Andrea Zanzotto, un
vero Faro di Alessandria della poesia, una luce di ragione e intelligenza che molti cosiddetti “poeti del vissuto” (oggi
come oggi tanto tanto trendy) dovrebbero guardare a occhi sbarrati e bere come acqua di fonte, come del resto ho fatto
io. La chiudo con Antonin Artaud, sorgente di una luce molto diversa, una luce di follia (e intelligenza) che molti poeti
pseudo-taoisti e pseudo-zen (oggi come oggi pure essi tanto tanto trendy) dovrebbero guardare a occhi altrettanto
sbarrati per cogliervi i segni che come “condannati al rogo” fanno “attraverso le fiamme” gli artisti che vogliano essere
degni di “dare un nome alle ombre e guidarle” (i virgolettati sono dello stesso Artaud, dalla prefazione a Il teatro e il
suo doppio). Ho creato un ponte senza volerlo, poiché dimentico del fatto che lo stesso Zanzotto scrisse nel 1968 un
testo, “Da Artaud: combustioni e residui”, raccolto poi nell’antologia Scritti sulla letteratura (Milano, Mondadori,
2001). Artaud in verità non l’ho mai considerato particolarmente in quanto poeta, ma è pur vero che compose Per farla
finita col giudizio di dio su invito della Radiodiffusion Français per un programma dedicato a La voce dei poeti: pur se
considerava quest’opera, più che una sorta di poema, come il primo compiuto prodotto del suo ideale teatro della
crudeltà.

Potrebbero piacerti anche