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1.

È una notte di giugno, promette temporale


Dio solo sa quanto lo si aspetti,
lontano baluginano lampi
come ventagli di lucciole eccitate.
Nella stanza buia una lampada soltanto,
la fida Tolomeo,
contende all’aria un poco di energia
spandendo la sua luce calibrata
dal perfetto diffusore sopra i fogli
dove scrivo.
Sullo stereo Jan Spálený canta i versi
di Vitĕzlav Nezval

- Mi dissi dimentica già le ombre


sfogliando giornali vecchi di una settimana
scorsi il grande ritratto di Edison
che affogava nel fetore della nera stampa
c’era accanto la sua più nuova invenzione –

e fuori la finestra
l’insegna al neon di un cinema obsoleto
(l’Eldorado)
frigge come una zanzariera elettrica.

2.

Già, Edison: in pochi metri quadri


rappresi nelle ore umide e ferme
che colano sui fuochi di San Giovanni
oramai spenti
ci sono tredici anni della vita
di Thomas Alva Edison,
dal 1880 - fonografo e lampadina a bulbo -
al ’93 – apparato per mostrare foto
di oggetti in movimento,
ovvero Kinetoscope.
Certo: dentro la campana
di alluminio anodizzato non c’è un globo
dove s’innesca un sottile filo di carbonio
ma una fluorescente compatta classe A;
una puntina Stanton
percorre i solchi robusti di un vinile
originale di jazz cecoslovacco del 1978
e non un fragile strato di stagnola;
e le lettere scatolate fluorescenti
rosso aranciato appese al palazzo dirimpetto
sono un segno demodé ma non retrivo,
uno stigma rassicurante.
Il tempo corre, ma le spie
dei suoi trascorsi sono come fantasmi
di un futuro promesso redivivo.

3.

Dal 1870 lavorai


al progetto di un telefono spiritico;
ammesso che esistano personalità
in qualche altrove –
non c’è motivo di pensare che non sia così,
ma non affermo niente perché di fatto
non so niente –
bisognava dare loro un’opportunità
di mettersi in contatto
migliore dei metodi bislacchi
che si è stimato fossero efficaci;
perché dovrebbero sprecare il loro tempo
a muovere un legnetto triangolare, o un bicchierino
sopra una tavola alfabetica?
Ripeto: non so niente,
e d’altronde ho messo alla prova tante cose
che contavo vere per dopo poi ricredermi
e ho trovato sulla mia strada tanti errori
e non posso fidarmi di nient’altro
che di un principio di prudenza
e di una curiosità senza confini;
quello che dico è che la scienza
può arrivare ovunque meglio
di qualche trucco da vaudeville
o di ameni giochetti da salotto.
E il mio fu uno sguardo di scienziato
per il quale una sfida vale l’altra,
metapsichica compresa:
uno studioso non ha pregiudizi
anche se so che ci fu qualcuno
- il signor Harry Houdini ad esempio –
che giudicò i medium senza appello
ciarlatani o illusionisti in mala fede.
Non ho mai emesso alcun caveat
tantomeno depositato alcun brevetto
per lo spiritofono
ma solo perché non ho raggiunto
i risultati giusti,
e il cielo sa che non mi sono mai fermato
su un prodotto sufficiente
per andare sempre avanti dritto
fino a scovare l’eccellente.
Nel 1948, solo allora
sedici anni che ero deceduto,
fu trovato in mezzo ai miei diari
il memoriale Spiritismo
contenente fra l’altro alcune idee
per comunicare con i morti.

4.

In un angolo della scrivania


c’è poi un vecchio magnetofono,
un Philips modello K7 monoaurale
che era di mio padre
ancora funzionante e con la sua custodia
in similpelle nera, e il suo microfono,
e un pacchettino di audiocassette
che sono il magazzino del più classico
found footage casalingo.
Qui Edison non c’entra, almeno all’apparenza
se non fosse che quel registratore
come il suo fonografo
più che vera invenzione è l’assemblaggio
di tecniche precedenti migliorate.
Però, volendo, c’è anche altro
che imparenta la gemma di modernariato
al buon Thomas Alva: lui credeva
a qualche forma di vita oltre la morte
o, per meglio dire, che se ci fosse stata
si sarebbe potuto dialogare
con i suoi abitanti, parlare coi defunti,
o più propriamente intercettare
le loro voci indirizzate ai vivi.
Ma non, come si usava nella Belle Époque
della medianità, grazie a sistemi suggestivi
quali la planchette OUIJA,
bensì coi ritrovati più moderni della scienza:
così pensò di amplificare
proprio il suono del fonografo
immaginando richiami degli spiriti
accolti dentro al suo fruscio;
divenne il precursore inconsapevole
della psicofonia.

5.

Spiegò il dottor Konstantin Raudive:


“Si predispone il magnetofono
per la registrazione, cercando le migliori
condizioni ambientali e di abbattere
il più possibile le fonti di disturbo.
Si accendono l’apparecchio e il suo microfono.
Si dà annuncio della propria presenza:
«Salve, salve. Sono Tizio. Sarei molto felice
di conoscere benevoli enti invisibili
che volessero lasciare tracce sul mio nastro».
Si può proseguire chiamando i propri amici o conoscenti,
ponendo specifiche domande,
spiegando, indicando se si intendono orientare
i contatti su qualcosa di preciso
e se e cosa si desideri sapere.
Ogni seduta non superi i 15 minuti
poiché la sbobinatura esigerà
davvero molto tempo:
le voci catturate in questo modo
sono sovente flebili e confuse,
parlano spesso molto in fretta
e in lingue diverse
e non sempre sono intellegibili
se non filtrando voci e suoni provenuti
dal luogo ove si svolge la sessione.
Perciò, come già detto, bisogna limitare
al minimo ogni interferenza,
evitare chiacchiere superflue,
conservare un assetto d’ordine e armonia:
questo onde rendere udibile, chiaro,
verificabile, identificabile
all’orecchio umano quel che il nastro renderà
nonché localizzare ogni indizio.
Vi sono più categorie di voci:
categoria A, voci udibili e identificabili
da chiunque ad un normale ascolto
senza necessità di addestramento;
categoria B, voci rapide e sommesse,
tuttavia ben comprensibili a un orecchio
ormai allenato; categoria C, voci frammentate,
indistinte, avvertibili soltanto dagli esperti
o con l’aiuto di sussidi tecnici.
Sono queste ultime, le più sfuggenti
e ardue da decodificare, quelle maggiormente
interessanti, prodighe di preziose informazioni”.

6.

Forse se provassi io a manifestarmi


qualche mia parola cascherebbe
là in mezzo agli umani con il tono
chioccio ma, spererei, acconcio ,
degli aurorali vagiti un po’ malfermi
ma entusiasmanti della prima macchina parlante:
“Buon giorno signori … dunque, come va?”.
Perché il velo che separa i mondi paralleli
è tanto impenetrabile quanto transitorio
come quel foglio di stagnola che,
toccato da un semplice ago di metallo,
parlò e cantò. E io potrei ben ribadire
quel che tante volte, stanti i miei
1000 e passa brevetti, ho proferito:
la tecnica non bazzica miracoli,
ma per la scienza non c’è nulla
di davvero impossibile.
Bene: sarebbe questo il mio saluto.
Ma poi cosa dovrei annunciare?
Cosa, a questo mondo nuovo
che conosce mirabilie più inquietanti
e fascinose delle mie? (benché sia chiaro,
per un verso a me nulla di ciò che vedo
nulla o quasi sconvolge più di tanto).
Quando nel ’26 io fui invitato
a parlare alla radio non trovai
parole migliori di “Non so che dire.
È la prima volta che mi trovo
davanti a uno di ‘sti arnesi. Buona sera”.
Proprio come ora. O come, molto prima,
nel 1888, nel mio personale fonogramma
all’amico George Edward Gourand: “Mio caro amico,
questa è la mia prima lettera dettata
sul fonografo – l’unica peraltro in cui
sarà eternata la mia voce: non voglio
diventare un fenomeno a 5 cents
a ascolto”. Perciò, a chiunque sia là
in religiosa ricezione in questo istante
io dò il mio benvenuto: “Buona sera”.

7.

Il dottor Konstantin Raudive


archiviò circa 70.000 ‘prove’,
delle quali 30.000 attentamente esaminate
(come fece grosso modo Friedrich Jürgenson,
regista e artista russo, pioniere involontario
della psicofonia dal quale Raudive prese abbrivo);
elaborò anche tecniche diverse
combinando radio e magnetofono,
usando trasmettitori di frequenza
o apparati a diodo;
nel libro Breakthrough. An amazing Experiment
in Electronic Communication with the Dead
– corredato da un 45 giri con alcuni
esempi tratti dalle sperimentazioni:
fruscii, bisbigli, voci cavernose,
regesto degno di un B-movie dell’orrore
a detta non di scettici accaniti
ma di persone al fondo ben disposte -
si citano le intercettazioni
di personaggi di rilievo quali J.F. Kennedy,
Lenin, Winston Churchill, Hitler, Mussolini.
Forse Edison fu un tipo troppo cauto,
riservato, serio,
per prestarsi a quello che per lui
avrebbe avuto probabilmente il rilievo
di un freak show, giacché temeva già
l’effetto-circo
quando la sua voce fu impressa sul fonografo
o trasmessa in diretta dalla radio
essendo egli vivo e vegeto e famoso.
Non risulta in effetti si sia mai presentato
Thomas Alva in forma di spirito a onde corte
su 1 4 4 5 / 1 4 5 0 kiloherz -
le frequenze, secondo Friedrich Jürgenson,
più adatte(!?).
Bè, una radio in casa l’ho, anche quella
un reperto prezioso di memoria e di design,
la TS502 di Marco Zanuso e Richard Sapper.
Una curiosità: pare che gli spiriti ciarlieri
liberi da barriere spazio-temporali, psicologiche,
emotive e via dicendo a cui noi siamo assuefatti,
pur godendo di un colpo d’occhio superiore
non di meno non facciano prediche morali
limitandosi a donare il loro
sguardo privilegiato sulle cose
del mondo che hanno ormai lasciato.

8.

STRANI RUMORI VI TURBANO NEL CUORE


DELLA NOTTE? SIETE INQUIETI, SPAVENTATI
ADDIRITTURA, SE DOVETE SCENDERE IN CANTINA?
AVETE MAI VISTO, O CREDETE DI AVER VISTO,
O HANNO VISTO I VOSTRI FAMILIARI
SPIRITI, FANTASMI, FIGURE MISTERIOSE?
AFFIDATEVI A GHOSTARK, IL PIÙ MODERNO
PRATICO DETECTOR DI ENTITÀ ANOMALE.
DOTATO DI SENSORI PROGRAMMATI
DA ESPERTI DI ELECTRONIC VOICE PHENOMENA,
DI TERMOMETRO E DI RILEVATORE
DI CAMPI ELETTROMAGNETICI
PER LA SCANSIONE ACCURATA DELL’AMBIENTE,
L’APPARECCHIO È CAPACE DI FORNIRE
SU UN APPOSITO FUNZIONALE DISPLAY A LED
UN COMPLETO QUADRO INDICATORE
DELLA POSSIBILE ESISTENZA DI ENTITÀ
SOPRANNATURALI IN CASA VOSTRA.

9.

Sia chiaro: io affrontai lo spiritismo


come ho affrontato qualsiasi altro
problema, ovvero col mio metodo;
rigorosa applicazione di ciò che qualcheduno
avrebbe un giorno definito
come la sintesi perfetta
tra una poiesis divina e l’umile
techne di un adepto (io, più prosaicamente:
uno per cento ispirazione, traspirazione, sudore
tutto il resto). Perciò: documentazione,
lettura di quanto più possibile
c’era sull’argomento, cauta rimozione
di tutto il già fatto fosse riuscito o meno,
e via al banco di prova; decine e decine
di foglietti gialli con appunti
destinati ai miei vari assistenti
in base alle diverse competenze ,
focus serale sui loro rapporti
e esperimenti, esperimenti, esperimenti.
Tutto questo per poter trovare
l’anello di congiunzione tra: il mito –
da Ulisse che scende all’Ade e interroga Tiresia
e Saul che evoca Samuele grazie alla maga Endor
fino alle fate di Cottingley menate sotto al naso
del povero Sir Arthur Conan-Doyle -;
le visioni di Emanuel Swedenborg, Andrew Jackson Davis,
Madame Blavatksy; il contegno logico
di Michael Faraday, Dmitrij Mendeleev,William Crookes,
Cesare Lombroso, Camille Flammarion;
e tutta la grande sagra di impostori
più o meno geniali, più o meno mascalzoni
che tra XIX e XX secolo ha battuto
le strade d’America e d’Europa
(le Fox, sorelle, i Davenport, fratelli,
il ‘dottor’ Henry Slade, William Mumler
e le sue foto medianiche, Eusapia Palladino
e gli ectoplasmi, Florence Cook e il fantasma
a tutto tondo Katie King).

10.

Sul numero di ottobre del 1933


la rivista Modern Mechanix and Inventions
pubblica un articolo illustrato, non firmato
intitolato “Edison Own Secret”:
esso racconta, come una fiaba d’oggi
o la puntata di un romanzo d’appendice,
di un certo esperimento realizzato
lo stesso mese, ma di tredici anni prima,
in una notte fosca e tempestosa
nei laboratori di West Orange.
In una grande sala scura, tra vetri da chimica,
generatori e apparecchiature varie,
Edison ha allestito un efficiente
dispositivo foto-elettrico:
un sottile fascio luminoso proiettato
da una potente lampada
attraversa il buio e va a colpire
la superficie attiva, appunto, della cellula
alimentata da una debole corrente.
Qualunque oggetto, non importa
quanto leggero, minuto, trasparente,
interrompendo il fascio attiverà
il sensore ottico e con esso
la lancetta di un misuratore.
Thomas ha ospiti nel suo gabinetto
quella notte alcuni spiritisti:
appena tutto è pronto invita i medium
a evocare una o due anime
e chiedere loro di oltrepassare il fascio;
il suo sguardo bracca la lancetta
ad ogni appello, e passano ore ansiose
in questo modo: il vento soffia tenace
intorno all’edificio, i sensitivi insistono,
ma le entità non sono intenzionate
a lasciare la loro dimora eterna,
l’occhio della cellula è inerte come un sasso.
La frustrazione per il fiasco è tale
che Edison non farà mai trapelare
nulla del suo tentativo, le sue convinzioni
sui regni della trascendenza
resteranno poche dichiarazioni, e moderate,
per il mondo comunque avido di credere
in qualcosa di più dell’immanenza.
Egli è pur sempre un realista e il test
ha dimostrato quel che egli forse ha paventato;
il silenzio spietato, quantomeno impassibile,
di coloro di cui non nega a priori l’esistenza
ma che per indole deve conoscere in essenza.

11.

-Le nostre vite sono senza ritorno


agonizziamo nei rottami delle illuminazioni
come l’effimera e come i fulmini dei tuoni
già si librano le luci tra le foglie degli alberi
già freme nella neve il filo elettrico
già si avvicina il tempo delle passeggiate luminose
già cercheranno le anime sotto i raggi rontgen
come gli ittiosauri sotto il neogene
già si avvicina all’alba la lancetta d’oro
già siamo testimoni della cinematografia
già per noi schiacceranno gli interruttori
le spettrali ombre del giocatore d’azzardo
già risuonano i gridi e gli applausi
già Edison s’inchina ai suoi ospiti –

Forse Vitĕzlav Nezval capiva ogni cosa già nel ‘27:


il tempo non è altro che il tempo
anche per i portenti, anche Thomas Edison
era un essere umano; meglio ancora,
anche Thomas Edison era parte del tempo
in cui un uomo non è altro che umano
anche se può sgobbare tre giorni
senza un’ora di sonno e sostentarsi
con un po’ sardine e di spinaci, e un bicchiere
di latte ogni due ore; anche Thomas Edison
infine è pur passato, per quanto saldo e intrepido,
tra le macine del grande mulino
con le sue mille e passa invenzioni
che oramai sono avanzi d’autore.
La sua anima forse s’è impigliata
nella tela ragna di luci che ha irretito
un pianeta intero, e la vede l’astronauta
dimenarsi là in mezzo sbigottita;
la sua voce disciolta in un rullo di cera
riverbera stranita come il volto
lustro e giallastro dell’effigie
accanto a quella di Gustav Eiffel
nell’ufficio ricostruito sulla Torre;
le sue foto sì, quelle, apparizioni
che però non sanno volare
né penetrare nei muri, né battere colpi,
né prodursi in apporti;
e vivificate in qualche film di repertorio
preservato come una tempera di Zuan Bellin
sembrano stordite, in ogni modo,
come le facce nelle foto più vetuste
sui grandi sepolcri di famiglia.
Charles Baudelaire lo ha visto nei passages
di Parigi brulicante, dove in pieno giorno
gli spettri adescano i passanti;
Guillaume Apollinaire lo ha visto, su una strada
tra i direttori, gli operai e le belle dattilografe
tra le sirene gementi del mattino e la campana
che abbaia rabbiosa mezzogiorno;
Edgar Allan Poe lo ha visto all’imbrunire, tra la calca
ispessita dei pedoni in strada, il mareggiare
in tumulto delle loro teste, occupati
in nient’altro che a farsi largo nella ressa;
Ezra Pound lo ha visto, alla stazione della metro,
un petalo tra la folla su un ramo umido e nero;
Thomas Eliot lo ha visto, sotto la nebbia bruna
di un’alba d’inverno, tra la moltitudine sopra il London Bridge;
Dino Campana lo ha visto, quando la nube si fermò nei cieli,
a Genova, sotto un ignoto turbine di suono,
e tra le stanze e i corridoi del Regio Manicomio di Castelpulci -
là per meglio dire ha visto sé, elettrico e medianico,
intento sotto alias Dino Edison a inventare
macchine ‘suggestive e introspettive’;
Vitĕzlav Nezval lo ha visto, sfogliando giornali vecchi,
ritratto accanto alla sua ultima invenzione,
l’anima triste già dopo la festa, nello studio
vuoto ormai degli ospiti;
nessuno lo ha visto mai annegare, una volta, almeno una
nel brodo, nel brodo slavato, nella sciacquatura dei piatti,
arrendersi una volta, almeno una, alla delusione.

12.

Ma coi ‘fantasmi’ poi ci ho trafficato,


anche se non in virtù di spiritofoni
o trappole di luce. Nel 1878 Eadweard Muybridge
brevettò un apparato per fotografie istantanee
di un oggetto in movimento
col quale aveva realizzato bellissimi clichés
come quelli, memorabili, dei cavalli al galoppo;
nel 1882 Étienne-Jules Marey sparava
a uccelli in volo con il suo fucile
cronofotografico; nel 1892 Georges Demenÿ
scriverà: “Quanti sarebbero felici se potessero
rivedere i propri cari ormai scomparsi
non più nei tratti irrigiditi di una foto
ma, col giro di una manovella,
come fossero vivi; un phonoscope al posto
dell’album di famiglia, un larario laico e tecnologico”.
Già nel 1793 il fantasmagoreuta Philidor
a Parigi prometteva: “Farò venire avanti a voi
gli illustri morti, coloro la cui memoria
vi è preziosa e l’immagine presente,
senza gli inganni e le menzogne dei furfanti,
senza le panacee dei ciarlatani,
mercé la grande scienza dell’ottica
e il puro balsamo dell’intelligenza”.
Una notte, a West Orange, c’è chi dice
io invitassi dei medium, che evocassero
qualche spirito disposto a accondiscendere
al gioco mondano di farsi immortalare
- piace il calembour? Son sempre stato
un tipo arguto e spiritoso –
da una foto-cellula; lascio chi voglia ponderare
se ciò possa essere o no vero,
non mi sono comunque mai nascosto
che il naturalismo dei fisiologi,
l’ingegno e l’istinto dei fotografi,
la metafisica di certi grandi artisti
potessero amalgamarsi in un’idea
come in un grande becher ben pulito
per offrire al mondo una ‘pasticca’,
un nickel di immortalità.
Però, oplà, il mio funambolismo
mi ha fatto volteggiare sulla corda
di una Gesamkunstwerk tutta americana:
perché, mi sono chiesto, sì d’accordo
costruiamo una macchina che possa
registrare e far vedere immagini animate
- è di questo che si sta parlando, i miei ‘fantasmi’
erano le figure intrappolate
come automi a comando nel kinetoscope -
ma per poi farne cosa?
Le soluzioni ai problemi tecnico-scientifici
nati intorno ai sogni secolari degli icononauti
(i lanternisti, i pittori di diorami e panorami,
i fantasmagoreuti, i creatori di fantastici giocattoli
come il fenachistoscopio, lo zootropio , il praxinoscopio)
a un certo momento erano mature, non a caso
intorno al 1895 i brevetti in materia
furono decine; si trattava di capire
però appunto cosa farne e, soprattutto,
come farli rendere. Io, Thomas Alva Edison,
investii ben 100.000 dollari nelle mie ricerche
ed erano ricerche su scala industriale;
può sembrare un po’ poco elegante,
detto così fuori dai denti, ma tant’è:
da esse qualchecosa la gente, me per primo,
ci doveva ricavare...
e i miei film da ‘buco della serratura’
devo ammettere ottennero lo scopo.
Tra il dondolio incessante della culla
e il mistico gioco delle ombre
ho trovato l’attimo propizio
per aprire un varco sottilissimo
- una fessura di spessore utile a accettare
una moneta da cinque centesimi –
e al tempo stesso scenari sconfinati,
i nuovi lucernai dell’infinito.

13.

Non fu certo deluso, Thomas Edison,


dal combinato disposto kinetografo + kinetoscopio
che dall’input primo di un ‘fonografo ottico’
fu sviluppato insieme a William K. L. Dickson
forse anche dopo aver visto i sortilegi
di Eadweard Muybridge, nel 1889
all’Expo Universale di Parigi.
Si dice che quando Antoine Lumière
- padre di Louis e Auguste -
vide il kinetoscopio in una fiera
pensò “Bello, ma bisogna tirare fuori
da quella scatola le immagini animate”:
è un fatto che l’annus mirabilis, il 1895,
fu una specie di maelstrom, risucchiando
decine di inventori nel suo gorgo
pronti a infondere la vita a figure
irrigidite nel prodigio della persistenza
retinica; qualcuno ebbe il suo quarto d’ora
di gloria, come i fratelli Skladanowski,
di altri resta il nome tra le crepe
degli armadi negli archivi degli uffici
brevetti e i denti del pettine
di chi voglia passare la storia a contrappelo.
Sul fotofinish i Lumière si aggiudicarono
l’alloro, forti di perspicacia e opportunismo
magistrali; nel 1896 la loro scia
era la coda di una cometa iridescente
di sempre nuove richieste di licenze
per macchine da presa, per lo più
varianti senza troppa verve almanaccate
intorno ai congegni avvalorati dal talento
dei Demenÿ, dei Marey, di Emil Reynaud,
dei fratelli Lumière: e degli Edison
(decine di apparecchi diversi registrati
in Europa, 109 inventariati nel 1898
nei soli Stati Uniti!).

- Migliaia di mele caddero sul naso del globo


e soltanto Newton ha saputo approfittare del suo bernoccolo
migliaia di uomini hanno avuto l’epilessia
e soltanto san Paolo vide i sacramenti
un migliaio di sordi vaga senza nome
e soltanto in uno di loro trovammo Beethoven
migliaia di pazzi già si trascinano verso l’oltremare
e soltanto Nerone seppe incendiare Roma
migliaia di invenzioni ci arrivano in un anno
soltanto in una di loro c’era già quella di Edison -

Il cinematografo s’era emancipato


una volta per sempre dalla ‘scatola’
per incarnare i propri simulacri
sul candore degli schermi.
Thomas Alva non se ne era preoccupato
più di tanto: dal 1888 diramava
al mondo la promessa di un congegno
capace di dare vita e voce ai più illustri
cantanti, attori, personaggi, e perpetuarli.
- Now I’ve got it! – esclamò il 28 maggio
del 1891, quando pensò di armonizzare
immagini proiettate con suoni registrati
su un fonografo, facendo lavorare due apparati
simultaneamente; l’Eureka! fu però
un po’ troppo avventato, in verità
non era affatto soddisfatto dell’effetto,
di più, si era in qualche modo persuaso
che i film proiettati avrebbero annientato
la ‘gallina dalle uova d’oro’, i Moving Pictures
dispensati dal visore del kinetoscopio,
quel cinema da voyeurs impenitenti.

14.

Quei ‘fantasmi’ li richiamavo in vita


dentro Black Maria, un capannone di legno
interamente catramato dalla forma
un po’ bizzarra, vagamente somigliante ai cellulari
della polizia – da cui l’appellativo, benché noi
l’avessimo tecnicamente battezzato
Edificio Fotografico Girevole -
dotato di un ampio lucernario
e in grado di captare sempre al meglio
la luce solare ruotando sul suo asse;
il primo teatro di posa della storia.
Lì col kinetografo a motore fissavo
le immagini sulle effimere pellicole
dell’epoca, e con un fonografo
registravo voci e acustica; sarebbe bastato poi
sincronizzare il fonografo medesimo
col kinetoscopio per avere un film sonoro,
ma credo si sappia come andò a finire.
Il muscoloso atleta Eugene Sandow,
i contorsionisti George Laymand e Edna Bertholdi,
il domatore Harry Welton, la danzatrice spagnola
Carmencita, la troupe di Buffalo Bill,
incontri di box (spesso illegali … ), gatti pugilatori,
duelli di coltello, fumerie d’oppio,
l’esecuzione di Mary Queen of Scots
(decapitazione fittizia messa in scena
con un trucco meno audace di quelli
adoperati sulle piazze dei mercati
dai saltimbanchi medievali, del quale però
farà man bassa Georges Méliès
- lo stop-and-go della macchina da presa –
per i suoi inganni senza doppiofondo);
insomma un Circo Barnum imballato
prêt-à-porter per i Penny Arcades,
i casotti delle fiere, i padiglioni
delle esposizioni universali.
Nel 1894 avevo in giro 25 macchine
e un dipartimento predisposto a programmarne
l’adeguato sfruttamento commerciale:
qualcuno disse, e dirà, che ho sbagliato mira
e che aver rinunciato al cinema sul serio
- “Non è nemmeno il caso di pensare
a organizzare delle proiezioni tipo quelle
con la lanterna magica” – è un sintomo
che il mio leggendario fiuto non era
poi così infallibile; vabbè, i fatti
hanno screditato i miei pronostici
(ammesso che fossero poi tali)
ma vi pregherei di rammentare
“Il cinema è un’invenzione senza alcun futuro”,
le parole con cui Auguste Lumière
firmava il R.I.P. per il cinematografo
che aveva appena emesso il primo
suo grido e respiro.

15.

Il cinematografo s’era emancipato


una volta per sempre dalla ‘scatola’,
dunque, a Edison piacendo, ma agli inizi
del ‘900 e per qualche tempo
non ancora dal cordone ombelicale
che lo legava a pratiche un po’ dubbie,
ai misteri imperscrutabili dell’ottica,
ai fumi della ciarlataneria che alcuni secoli
di traffici misteriosi con le immagini
non avevano tuttora diradato:
uscendo dai capannoni delle sagre
e dai cerchi dei treppi rastrellati
davanti ai loro baracconi semoventi
dai ‘cinematografisti’ itineranti,
per entrare in edifici costruiti apposta
o ricavati sventrando vecchi Café-Chantant,
le visioni prodotte dalla luce
pagavano il fio al buio delle sale,
le moderne caverne di Platone
messaggere di ombre conturbanti.
Il nuovo rito sfondava lo steccato
del luna-park a invadere le vene palpitanti
della città nervosa:
la piazza non ne era più il grembo, il giorno
non ne era più la dinamo,
lo spazio e il tempo sembravano gusci d’uovo
frantumati dai rostri di pulcini
meccanici e magnetici.
Il cinema con i suoi ‘fantasmi’
si materializzava come l’ectoplasma
stesso della luce artificiale:
chi, se non ancora Edison, ne era l’emissario?

16.

Si dice ‘cinema’ e si pensa ‘luce’


e allora forse era destino
che l’augurale nome dei fratelli Franchi
dovesse mettere al bando altre decine
di firme di artefici e inventori:
in un certo senso, me compreso.
Ma del cinema che ne sarebbe stato
senza la luce, senza quella luce,
il bagliore pulito e inodore
dell’elettricità? Gli ordigni escogitati
da tutti quegli estrosi (fossero essi
tecnici, scienziati, artigiani,
o come in qualche caso veri e propri arruffoni)
non avrebbero potuto funzionare
senza l’energia della corrente.
E allora quella pagina dell’USPO
del 27 gennaio dell’80
recante il numero 223,898
e l’intestazione Electric-Lamp
canta quasi come un incunabolo
le laudi di un neo-rinascimento:
non solo un globo di vetro sottovuoto
con dentro un sottile filo di carbonio
in grado di offrire un’alta resistenza
se attraversato da un flusso di particelle cariche ,
un corpo incandescente predisposto
a fornire un’eccellente radiazione,
non solo un elemento tecnico neutrale,
insomma, ma una forma simbolica
proprio quale fu per la pittura
nel Vecchio Continente l’incredibile
ideazione del punto di fuga;
un nuovo sguardo, inaudito, sopra il mondo,
una rivoluzione del tempo e dello spazio.
Ma i Moving Pictures erano ancora ‘fuori fuoco’
quando nel 1878 ebbi occasione
di passaggio alla Pennsylvania University
di vedere la lampada ad arco
(peraltro in seguito assai usata,
per decenni, nei proiettori filmici):
io là osservai un dispositivo
per l’illuminazione urbana artificiale
porgere una luce troppo intensa, instabile
e abbagliante, difficile da utilizzare
in serie e, quindi, da spartire
casa per casa come da sessant’anni
si faceva con le lanterne a gas.
Ora il mito racconta di me e dei miei assistenti
seduti in cerchio attorno ad un oggetto
piccolo e frangibile, di guardia ore e ore
al filamento acceso - lana carbonizzata
infusa di corrente – come fossimo stati
gli avventori di una famigerata villa
sul lago di Ginevra nella notte
dell’estate del 1816 in cui nacque,
davanti a un camino entro il gioco
di scambiarsi storie di fantasmi,
uno dei più importanti ghotic novel
(un’avventura, si sa, piuttosto elettrica .. );
ma noi non eravamo il ‘paio sciolto’
Mary Godwin Wollstonecraft-Percy Shelley
in compagnia di Byron e Polidori,
quello non era un vespro tempestoso
nell’abisso dell’ ‘anno senza estate’,
noi eravamo gli apostoli mondani
di riti assai poco trascendenti
e di ere in cui nessun Prometeo
sarebbe più stato incatenato.
17.

- una volta avete scorto in Pennsylvania


la notte e la lampada ad arco da Baker
avete provato la tristezza
come un acrobata che attraversò la corda
come una madre che partorì il bambino
come il pescatore che tirò la rete gonfia
come l’amante dopo la dolce voluttà
come l’incedere dei cavalieri dopo la battaglia
come la campagna nell’ultimo giorno della vendemmia
come la stella che si spegne all’alba
come l’uomo che in un attimo perse la sua ombra

Con la lampadina a incandescenza


(certo, oltre che col microfono, il fonografo,
il kinetoscopio) Edison fu protagonista
di una rivoluzione tecnologica inaudita:
di una talea tra la poesia – l’One’s-Self I Sing
di Walt Whitman -, lo spettacolo al suo
massimo grado di clamore – i fenomeni di
Phineas Taylor Barnum – e la scienza
chiamata a fare i conti con l’industria;
Edison innestò il bottone del talento ideativo
tra le righe dei listini di mercato,
l’arbusto della cultura di massa era ormai nato.
Perché la lampadina non fu “la lampadina”
ma la soglia su un mondo immaginato
che qualcuno ormai doveva immaginare:
Thomas Alva, acceso il filamento,
sapeva già dove orientare
il cannocchiale verso il nuovo firmamento.
Lui è divenuto una vedette, la lampadina un mito,
e le due icone sovrapposte
hanno finito per nascondere
il fatto davvero sostanziale:
che egli, per quanto geniale e intraprendente,
non fu quel demiurgo creatore
che la leggenda tende a tramandare,
piuttosto un eccellente ordinatore
di pratiche scientifiche, di tecniche,
di organizzazione di risorse e propaganda;
soltanto che nei ‘titoli di coda’
non figurano i nomi di decine, centinaia
di ‘maestranze’ che di fatto hanno permesso
di ottenere volta a volta i risultati.
Il Nuovo Mondo necessitava meno
di scienziati alla Newton, alla Keplero,
e molto più di macchinatori,
meno di accademie e più di mecenati
disinteressatamente interessati:
il fuilleton sulle notti al capezzale
della fibra arroventata misurandone
la durata a sigari e caffè
fu molto suggestivo e funzionale,
dato in pasto ad una stampa ghiotta
(del resto, lo si sa, le prime orme
Edison le pose proprio sulla carta di un giornale),
la realtà era un po’ meno affettata;
Menlo Park non era un gabinetto
per le chine dei figurinai, ma una catena
una vera catena di montaggio
che sfornava, più che utopie, oggetti
- benché spesso araldi di visioni –
preordinati per i fascicoli brevetti
e gli stand degli Expo Universali.

18.

La lampadina in sé, alla fin fine, era solo un corno


del problema – certo, non facile: dovetti
provare decine di diversi materiali
per trovare quello ottimo allo scopo
(che sopportasse la temperatura, non si
disintegrasse od ossidasse, che offrisse
la superficie radiante minima possibile),
peli di barba, gusci di noci di cocco, trucioli di cedro,
tela di sacco, carta da disegno, carta comune,
carta velina, celluloide, fino all’immaginifico
bambù strappato a un ventaglio giapponese.
Ma quella luce infine funzionante
non fu per me che un cancello svèlto
sul ciglio di una prateria vastissima
da dissodare ex novo, ossia:
bisognava capire come progettare
una rete di distribuzione collegata
a fonti diverse, così da poter escludere
a priori interruzioni, guasti, contrattempi;
lampade che oltre a lavorare potessero
fare concorrenza ai lumi a gas;
contatori del consumo di corrente, interruttori
per i vari apparecchi, fili conduttori
adatti a conservare sempre e ovunque la giusta tensione;
adeguate dotazioni per la sicurezza.
Naturalmente, centrali di produzione elettrica
efficienti. Dallo studiolo di un colletto bianco
al salone delle feste di un albergo,
dal bugigattolo di una stiratrice
ai lampioni delle gallerie urbane,
tutto a portata di dito. E portafoglio.
Ma se la lampadina ha continuato a lucere
nelle teche dei musei, nelle pagine dei libri,
irradiare di sé come l’acciarino magico
di una certa fiaba,
simbolo mai spento dell’idea
di un’energia eclettica e pulita;
tutto il resto – che è poi quello che conta -,
la reinvenzione del tempo e dello spazio
cittadini, e perché no dei cittadini stessi,
sta a galla a malapena in una pozza
chissà come non ancora prosciugata
sul macadam asciutto della storia,
come un’immaginetta nella tasca,
un succedaneo in fondo alla memoria.

19.

Luce elettrica e cinema, i pennelli


che hanno tracciato psicogeografie
nelle città, le nuove mappe dei tragitti
nel tempo e nello spazio urbani,
i nuovi atlanti della flânerie.
Non era solo tecnica, e non era solo scena
di uno spettacolo ormai libero dai muri
dei salotti e delle sale dei teatri,
e dai pali fioriti nelle piazze;
era la notte che diventava giorno,
era la strada che si apriva
in mille nuove direzioni,
era il cuore metropolitano che esplodeva
quando lo spazio diventava tempo
sull’incastellatura del futuro.
Le lampade istigavano la notte
a ripudiare il buio, gli schermi
fomentavano gli sguardi a trasalire,
il Mondo Nuovo scassava le sue arche
sparpagliando radiazioni e immagini
che un profluvio di occhi inebriati
braccava come il chiarore le falene.
Non c’è privativa a comprovarlo:
ma Thomas Alva Edison ha creato
il mostro più formidabile dai tempi
delle Metamorfosi di Ovidio, un prodigio
da far impallidire qualunque teratologo;
un Argo panopte con milioni di pupille
a guardia di se stesse, metà aperte
sui tesori dell’immaginazione,
metà chiuse senza neanche accorgersene
davanti alla loro inumazione
negli empori dell’immaginario.

20.

Sono tra coloro che hanno acceso


gli occhi dell’America; sono quello
che avrebbe spento la gola e il petto alla nazione,
secondo il dubbio di John Philip Sousa?
Nel 1879, l’8 giugno, feci visita
alla redazione di Scientific America
con un grosso pacco sotto al braccio:
chiesi udienza al direttore Beach
- che non tardò a ricevermi –
e aprii l’involto sulla sua scrivania;
c’era dentro un cilindro montato
su un albero filettato in modo da potersi
muovere lateralmente nei due sensi
grazie a una manovella; sopra il cilindro,
un imbuto con in fondo una membrana
elastica recante una punta a stilo,
attorno al cilindro avvolto un foglio
di stagnola, sul quale la punta
a pressione variabile poggiava;
ruotando il cilindro con regolarità
e parlando a un tempo nell’imbuto,
la membrana trasferiva la sua vibrazione
allo stilo incidendo sullo strato di stagno
una traccia sonora; riportando la punta
indietro, un’altra rotazione del cilindro
avrebbe riprodotto quella traccia.
Misi in moto il phonograph davanti a Beach:
- Buon giorno, signore. Ecco a lei
l’ultimo prodigio della tecnica,
il mio nome è speaking machine.
Dunque, come va? –
Senza attendere che il mio interlocutore
potesse esprimere a parole
lo stupore che gli stralunava il viso,
cambiai la stagnola sul cilindro
e attivai di nuovo l’apparecchio
cantando Mary Had a Little Lamb
dentro la tromba; la strofetta infantile
ne riuscì un po’ malconcia ma lampante.
Beach dovette essere felice
di vivere in piena era industriale
perché, come scrisse Harpers Weekly,
“Se i giorni della fede nella stregoneria
non fossero passati ormai da tempo
i cacciatori di maghe e fattucchiere,
che figurarono copiosi negli inizi
della storia americana, troverebbero
facilmente qui e ora di che agire”.

21.

1877: Edison lavora sul telegrafo


per sviluppare l’idea che Leon Scott
de Martinville – un pittore francese –
aveva avuto ben vent’anni prima:
attaccare una pergamena, con infisso
al centro un aculeo di metallo,
alla base stretta di un cornetto acustico,
montare il tutto su un cilindro
avvolto di carta trattata al nerofumo;
ruotando il cilindro e parlando nel cornetto
la punta smossa dalle vibrazioni
lasciava traccia sopra il nerofumo,
riportando la punta al punto
di partenza,
e facendo girare il cilindro un’altra volta
si sarebbe potuto riascoltare
il suono depositato nella striscia,
imperfetto e tuttavia fedele.
Thomas mirava a uno strumento
che potesse tradurre i punti-linee Morse
in segni su una banda di carta
per trasmetterli da un ufficio all’altro
automaticamente: e, se due più due fa quattro,
ovvero se la carta ripeteva a modo un click,
perché non avrebbe saputo far lo stesso
con le ondulazioni di un diaframma?
(lasciamo stare qui il busillis
se e quanto Edison approfittasse a scrocco
dei predecessori, il phonoautografo di Scott,
ma anche il tonografo inventato addirittura prima,
nel 1841, dall’economista e patriota italiano
Luca Samuele Cagnazzi, più semplice ancora).
Era autunno allorché il nostro predispose
lo schizzo del congegno per John Krusei,
l’aiutante incaricato di foggiarlo:
e fu per guadagnarsi la scommessa
di una scatola di sigari (25 al giorno ne fumava!)
dal devoto ma scettico assistente
che Thomas cantò i versi della nota
Mary Had a Little Lamb nella campana ;
ignaro vaticinio, dato che
il marchingegno destinato dall’autore a dettar lettere
finì per dettare il ritmo al nuovo secolo,
il XX, sulle note di tango, ragtime, jazz
motivetti di vaudeville e arie d’opera.
Nel 1906 consolle di mogano
a 200 dollari il pezzo cominciarono
a sostituire nei salotti borghesi
le pianole meccaniche, nel ‘13
lo stesso Thomas Alva – si era ormai
nell’era del grammofono – allestiva
soirée per comparare ensemble da camera
e dischi impegnati sugli stessi brani.
Forse l’auditorio senza mura
non aveva “contratto il petto alla nazione”,
forse suoni dal futuro imprevedibile
avevano trovato il loro ‘erbario’,
il loro cassetto nel theatrum mundi,
forse le case della gente
stavano diventando gli estuari
dei fiumi sterminati della musica.

22.

Nel 1880 un delegato, Du Moncet,


presentò all’Académie Française
il mio fonografo; un membro un po’ retrivo
saltò su e lo prese inveendo per la gola:
“Miserabili! Credete per davvero
che un ventriloquo possa abbindolarci?”
e ripeté il concetto mesi dopo
“è impossibile accettare il postulato
che una materia inerte possa fare
il lavoro della fonte della voce;
il fonografo è un’illusione acustica”.
Se non fu zuppa, così, fu pan bagnato:
chi quella nera, chi quella bianca,
si evocava la magia in barba agli effetti
della più pura ricerca tecnologica.
Sta a vedere che chi volle inventare
per me l’epiteto ‘Mago di Menlo Park’
- e fu proprio in virtù della macchina
parlante – sotto sotto ci infrontava?
A ogni modo non va dimenticato
che l’800, dopo un inizio un po’ in sordina
a causa dell’incursione di portenti
spesso estorti proprio agli scienziati
(la fantasmagoria, gli automi, mesmerismi
e magnetismi - veri o fraudolenti -, gli animali
sapienti), fu il secolo in cui l’illusionismo
diventò davvero un’arte; e più di un mago
chiese all’elettricità l’ispirazione:
Philippe e Döbler accendevano
duecento candele con un colpo solo di pistola,
Henri Robin disseminava il palco
di rocchetti di Ruhmkorff e tubi Geissler,
Walford ‘Doctor’ Bodie – The Electrical Wizard -
si faceva passare da 30.000 volt
(sfruttando elettricità statica e amperaggio
a bassa frequenza; negli USA ‘The Iron Lady’
aveva debuttato poco prima … ).
Ma se è di Ottocento che parliamo
e di prestigi d’epoca, c’era Robert-Houdin
che trafficava con le scienze e con le macchine
- figlio d’orologiaio, orologiaio, marito
della figlia di un orologiaio – almeno quanto
con le carte e i conigli nei cappelli;
e il suo Albero d’Arance, la Patisserie du Palais Royal,
il trapezista Antonio Diavolo, non dico
avrei voluto farli io, ma certo non si può
non ammirarli dal punto di vista
di tecnica e ragione. Viceversa:
non era un prestigiatore l’ingegner
Nikola Tesla, famigerato mio rivale
secondo la vulgata, né uno strambo fantasista,
eppure sfogliando il dossier delle ricerche
sull’alterazione di gravità e materia,
del tempo e dello spazio, sul teletrasporto,
un suo profilo non sfigurerebbe
nell’History of Magic and Magicians
di H. J. Burlingame …

23.

Gli hanno dato anche del ciarlatano


al povero Thomas Alva
a causa del fonografo, quasi fosse
una versione anodina e poco sexy
dei crani parlanti di Bacone, Athanasius Kircher,
Alberto Magno, o dell’automa scacchista
di Von Kempelen evocato da E.T.A. Hoffmann,
smascherato da Edgar Allan Poe,
che il correlativo di Edison nell’Eva futura
di Villiers de l’Isle-Adam ha in laboratorio
tra reliquie di androidi e ipotesi
diverse di vita artificiale,
una specie di dime museum dei falsi Adami.
Del resto l’elettricità faceva gola
agli impostori dello spiritismo
come ai più onesti intrattenitori,
a grandi illusionisti e a umili tricksters
girovaghi: e flussi e scintille sfolgorarono
nelle pagine di romanzi e di novelle,
sulle tavole dei palchi dei teatri,
per tutto l’Ottocento.
Ma se il canonico avversario nella ‘guerra
delle correnti’ - continua versus alternata –
Nikola Tesla ha trovato un cameo in un film
che narra le vicende di due prestigiatori
fin de siecle antagonisti (più o meno come i due scienziati),
attraversando tempeste elettriche fittizie
nel suo studio e costruendo per uno dei due maghi
una macchina per il teletrasporto; non si potrebbe,
forzando un po’ la mano, ammantare Thomas Alva
di qualche alone del mistero
che lui ha sempre scansato fermamente?
Qui dietro, nella mia biblioteca, non mancano
i vademecum di esperimenti per teenager;
ancora adesso, in onore alla ‘scienza dilettevole’
che imperversava a cavallo dei due secoli,
sono, più che illustrati, messi in scena,
non sconfessano l’antica parentela
tra scienza e prestidigitazione.
Edison & Co. hanno aperto, volenti o meno,
sentieri inaspettati all’immaginazione.

24.

Col signor Tesla ho diviso l’onere e l’onore


di essere stati gli ‘inventori del domani’,
noi due così diversi ma, in qualche fascio recondito
della radice della nostra intelligenza,
pure così uguali:
diversi nel venerare il totem dell’elettricità,
la corrente continua io lui quella alternata,
uguali nella caparbia e fedeltà alla propria idea
(ero convinto la sua fosse sbagliata, non di meno
lo feci lavorare per me riconoscendo
indubbi il suo talento e la sua abnegazione;
un po’ meno il suo sense of humour,
credeva gli dessi per davvero 50.000 dollari
per qualche miglioria alla mia dinamo,
ben fatta ma attuabile da chiunque altro
prestasse opera nelle officine a Menlo Park);
diversi nel rincorrere le avventure della scienza,
io con un occhio sempre attento al conto in banca
- le ricerche costano e per andare avanti
devono fruttare; e poi che male c’è
se uno scienziato lavora, come tutti,
anche per guadagnare? -,
lui con poco fiuto per i dollari
e tanta audacia generosa nel cercare
di convincere le forze naturali a dispiegarsi
per le esigenze umane;
io mastino astuto, un Odisseo capace a scantonare
i canti di tutte le Sirene, lui poeta sciamano,
un Orfeo assetato di educare
ogni fiera, ogni vento, ogni roccia, ogni singola
oscillazione dell’impeto del mare.
George Westinghouse diede retta a lui
quando volle entrare nel mercato
dell’energia elettrica; scherzi del destino,
lo fece solo perché, in qualche modo,
il genio serbo-croato trovò come produrla
a minor costo – quindi alla fin fine,
anche se di sghimbescio, i fatti rivelarono
che io non avevo tutti i torti …

25.

“AVREI VOLUTO ILLUMINARE IL PIANETA


INTERO, SULLA TERRA C’È ELETTRICITÀ
BASTANTE A CREARE UN ALTRO SOLE,
LA LUCE SI VEDREBBE DALLO SPAZIO
COME NOI VEDIAMO GLI ANELLI DI SATURNO.
D’ALTRONDE TUTTO È ELETTRICITÀ,
E TUTTO È LUCE, QUELLA LUCE
CHE STA PRIMA DI NOI, DI TUTTO, DAL PRINCIPIO,
FONTE INESAURIBILE DI OGNI FORMA
DI MATERIA CHE COLMA L’UNIVERSO.
A COLORADO SPRING HO IRRORATO DI LUCE
LA TERRA, NEL MIO LABORATORIO DI NEW YORK
HO GIOCATO CON UN GLOBO DI FUOCO
TRA LE MANI COME CON CARTE, FOULARD E SIGARETTE
FANNO I PRESTIGIATORI, IL MIO CORPO UN PARAFOUDRE
PER SCARICHE DI DUE MILIONI DI VOLTAGGIO.
FIN DA BAMBINO A SMILJAN, IN CROAZIA,
ERO ESALTATO DA FULMINI ABBAGLIANTI,
LI CHIAMAVO PER NOME, SAZIAVANO
I MIEI SENSI FINO A QUANDO IL PENSIERO
DELLA LUCE DIVENTAVA IL SESTO SENSO;
STUDENTE AL POLITECNICO DI GRAZ
INCONTRAI LA MIA MUSA, L’ELETTRICITÀ,
E D’ISTINTO COMPRESI CHE IL FUTURO
APPARTENEVA A UN DEMONE ALL’EPOCA NEGLETTO
- LA CORRENTE ALTERNATA - E NELLA TESTA
INFURIAVA LA DANZA DI UN MAGNETE,
E IL DELIRIO DI IDEE A FLUSSO INCESSANTE
E UNA FELICITÀ CHE NON AVEVO MAI PROVATO.
LA STORIA È NOTA: ANDAI DA THOMAS EDISON
CON UNA LETTERA DI RACCOMANDAZIONE,
MI PRESE PER MATTO MA MI ASSUNSE
PROMETTENDO 50.000 DOLLARI DI PREMIO
PER PERFEZIONARE LA SUA DINAMO
A CORRENTE CONTINUA, CHE IN UN ANNO
DI DURO LAVORO MIGLIORAI SENSIBILMENTE.
NON VIDI MAI QUEI SOLDI – LEI NON CAPISCE, CARO MIO,
IL SENSO DELL’UMORISMO AMERICANO … -
MA LA VOCE SI SPARSE, EBBI FINANZIATORI,
FONDAI UNA MIA AZIENDA (AHIMÈ PER COSTRUIRE,
QUESTO CERCAVANO GLI SPONSOR, NUOVE LAMPADE
PER STRADE ED OPIFICI), DOVETTI RESISTERE
E LAVORARE SÌ, SULLE STRADE, COME MANOVALE;
MA IL CAPOSQUADRA MI PRESENTÒ AL DIRETTORE
DELLA WESTERN UNION TELEGRAPH COMPANY,
COL QUALE MISI SU UN LABORATORIO
DEGNO DI QUESTO NOME. LA ‘GUERRA DELLE CORRENTI’
AVEVA INIZIO (MIO MALGRADO) E IO NE USCII
VINCITORE E PERDENTE: VINSI QUANDO IL MAGNATE
GEORGE WESTINGHOUSE SI INTROMISE NEL MERCATO
DELL’ENERGIA E EBBE FEDE NELL’ALTERNATA
(DI GRAN LUNGA PIÙ CONCORRENZIALE, E PIÙ SICURA),
VINSI A DISPETTO DI DIFFAMAZIONI
E ENTRATE A GAMBA TESA DELL’EDISON FURIOSO,
VINSI FINO A ESPUGNARE IL BANDO MILIONARIO
PER L’EXPO DI CHICAGO DEL ’93;
FU ALLORA CHE INCOMINCIÒ LA MIA ‘SCONFITTA’,
QUANDO ACCOLSI UN COMPENSO FORFETTARIO
IN VECE DI UNA PERCENTUALE SUI MOTORI
ELETTRICI VENDUTI; FU VERO DANNO?
NON VOGLIO SEMBRARE UN MISTICO: IL DENARO
NON ERA PER ME POI COSÌ IMPORTANTE,
LE STESSE RETI ELETTRICHE NON ERANO
CHE UN SEMPLICE GRADINO; FORSE È VERO
CHE IN QUELLE RETI HO INTRAPPOLATO
LA LUCE STRAPPATA AL CUORE DELLA TERRA
E IL FUOCO RAPITO AI MARGINI DEL CIELO,
MA IO AVREI VOLUTO SPRIGIONARE
L’ENERGIA DELLA MUSICA DI BACH,
DEGLI AFFRESCHI DI MICHELANGELO,
DEI VERSI DEI POETI, LE SAETTE
NON SONO CHE GIOCATTOLI SUBLIMI.
ACCETTAI LA MEDAGLIA EDISON PER PURA CORTESIA,
UN’ONORIFICENZA BEN BEFFARDA;
SONO MORTO POVERO IN UNA CAMERA
D’ALBERGO; IL MIO NOME È
NIKOLA TESLA”.

26.

Scrisse Charles Baudelaire: “Poesia e progresso


sono due esseri ambiziosi che si odiano
di un odio istintivo, e. allorché s’incontrano
sulla stessa strada, bisogna che l’uno
si sottometta all’altro”; Tesla al contrario
era convinto che scienza e poesia
fossero occhi gemelli attraverso i quali
contemplare e capire la natura
(non per nulla declamava a memoria
versi del Faust di Wolfgang Goethe);
un po’ più presso a noi Henri Langlois,
il drago custode della Cinémathèque Français,
diceva, parlando della luce ‘stereoscopica’
dei film dei suoi amatissimi Lumière:
“Adesso si fa differenza fra arte e scienza,
ma io rispondo che Picasso è uno scienziato
tanto quanto Einstein è un artista.
L’arte abbraccia la realtà e il suo divenire
esattamente come fa la scienza”.
E, a proposito di stereoscopia,
proprio Baudelaire, moderno per antonomasia,
se la prese con un oggetto che al suo tempo
fu un talismano di modernità,
il visore binoculare per immagini
che si chiamò appunto stereoscopio:
già scettico sulla fotografia in sé
- qualora colpevole di istigare il popolo
a idee e idolatrie sull’arte emulatrice
della realtà, e al disgusto conseguente della storia
e della pittura – vide in quell’apparecchietto
apparentemente così innocuo una tonnara
per “migliaia di occhi avidi” di chinarsi
sui suoi fori, “come sui lucernari dell’infinito”.
Dall’altra parte dell’oceano il medico
e poeta Oliver Wendell Holmes
perfezionava una versione del gingillo
e raccoglieva le sue immagini col culto
di un amatore di ex voto e di santini;
poi, negli stessi anni del francese,
abbeverava il pennino al calamaio
per inneggiare alla fotografia come al dio Apollo
dell’era industriale;
a chiunque era possibile sbucciare
la pelle del mondo, a chiunque era possibile
viaggiare le contrade del mondo,
il vecchio flâneur, teste diretto della strada,
si ritirava dietro le persiane,
la luce dell’esperienza scivolava
nell’ombra dei salotti, l’euforia ipnotica
della quête non consumava più le suole
né l’immaginazione.
Ecco, l’agnello sacrificale per Baudelaire,
la “regina delle facoltà”, della sfera dell’anima
che la fotografia aveva impunemente
profanato: che sarà mai un guerriero
senza immaginazione, se non tutt’al più
un ottimo soldato? Che sarà mai un poeta
senza immaginazione, se non tutt’al più
un buon versificatore? Che sarà mai
un diplomatico senza immaginazione
se non un esperto di storia di trattati
che non può calibrare all’avvenire?
Che sarà mai uno scienziato senza
immaginazione
se non uno che ha imparato ferree leggi
che sono il fondamento delle cose
ma non saprà mai quali altre leggi
restano ancora da scoprire?

27.

Aveva intuito bene Villiers de l’Isle-Adam


nel suo romanzo L’Eve future, scritto nel 1880/86,
pubblicato nel’89, l’anno che a Parigi visitai
la Grande Esposizione Universale organizzata
per i cent’anni della Rivoluzione: in quelle pagine,
protagonista artefice della costruzione
di un’andreide (androide donna) rivoluzionaria
- la cui descrizione era un sagace sunto
di fisica, anatomia, meccanica, e metafisica
degna del Traité de sensations del Condillac –
io Thomas Alva Edison ero fatto interprete
di un suggestivo monologo di ‘lamentazioni’,
che provo ora a riassumere:
“Come arrivo tardi nell’umanità, avrei voluto essere
tra i primi nati della nostra specie …
quante parole ne varietur sarebbero oggi incise
su fogli di fonografo, le frasi di uomini (e di dèi)
più importanti consegnate a archivi imperituri,
e idem varrebbe per rumori e suoni
come quelli delle Trombe di Gerico o dei gridi
del Toro di Falaride. Mi hanno preso in giro
all’apparizione del congegno, hanno detto
«è un trucco … è un gioco da bambini»,
ingiurie e facezie indispensabili per animi
e intelligenze prese alla sprovvista; al loro posto
avrei però deplorato difetti ben più gravi,
l’imperizia a catturare il fragore
della Caduta dell’Impero Romano,
il timbro della voce della coscienza …
Vado troppo lontano? Per lo meno
ambirei a forgiare uno strumento che ripeta
parole non ancora pronunciate, o che risponda
«Grazie!» ad un «Buon giorno», o che dica
«Salute!» a chi sternuta. Ma fa nulla:
riderò, lo so, per ultimo, ed intanto
smercerò qualche milione di fonografi
già vecchi a chi crede di evangelizzarsi
inchinandovisi come all’ultimo miracolo”.
Aveva capito bene lo scrittore nei cui occhi
Verlaine vedeva un fuoco d’artificio, un incendio,
una serie di lampi, e addirittura il sole,
afflitto che Parigi non gli cadesse ai piedi
nel 1888 (seconda edizione de Les Poètes maudits);
aveva capito che la scienza
non è soltanto un rullo compressore
indefesso sul lavoro per l’approntamento
della massicciata del futuro,
aveva visto la prospettiva capovolta
che a quel futuro chiedeva nostalgia,
e nell’andreide il dubbio se rimettere
l’etica nel corpo della tecnica,
bellezza e senso della temperanza,
e gratitudine.
Hadaly – era questo il nome del perfetto
simulacro – sembrava proprio il simbolo
della fiducia in un progresso materiale
che spezzava le catene di Prometeo
ormai incurante del senso del suo dono;
che scienza e etica sono due mani destre.
Alla fine del racconto una tempesta in mare
dD
distrugge l’andreide, e un quarto di secolo è bastato
perché il traslato fosse già nel limbo
delle visioni appannate troppo in fretta:
nel 1912 col Titanic non era una nave che affondava,
ma l’idea stessa del progresso, o meglio
della sua idolatria. La tecnica è come un labirinto,
il filo dell’esperienza guida le invenzioni
ma chi ha costruito il labirinto
dovrebbe ricordarsi di sapere
che è sempre necessario, il filo.
28.

- ancora vedersi sempre davanti la propria ombra


ancora scomporre gli elementi con gli acidi
ancora di nuovo in brandelli la pelle delle mani
ancora trovare un congegno per le strade verso l’oltretomba
ancora cantare e non avere mai pace
ancora l’ago magnetico per lo spirito umano
ancora dimenticare tutto ciò che strazia
tristezza e angoscia della vita e della morte –

Edison, le mani in pasta nella cala


dove si prepara il varo della specola
meccanica da cui guardare il mondo
nel momento stesso in cui lo si ricalca,
amministratore delegato dell’arsenale
del feticismo del dominio e del possesso
solvibili a comode rate;
dal 1877 – invenzione del primo fonografo –
al 1927 – il suo giubileo, allorché Thomas
rifà la filastrocca
Mary had a little lamb
It's fleece was white as snow
Everywhere the child went
The lamb, the lamb was sure to go
sotto la luce assiderata della fama,
cinquant’anni per spargere il futuro
insieme alla polvere di stelle
del divo che l’ha disseminato;
e allorché Vitĕzlav Nezval intravede
dietro il sipario di velluto, nell’entr’acte,
l’ombra di un giocatore d’azzardo armeggiare
con gli arnesi di un prestigiatore.
Cinquant’anni che il carro di Febo
illumina giorno e notte, stagioni
conglomerate l’una dentro l’altra
irradiate dal ‘chiuso fulgore di un cuore elettrico
sul promontorio estremo dei secoli’;
ma in sottofondo un cigolio di ruote
con i mozzi lasciati troppo asciutti.
Nel 1888 Heinrich Rudolf Hertz scatena
onde elettromagnetiche col suo oscillatore;
nel 1895 Louis e Auguste Lumière dispongono
la prima proiezione pubblica a pagamento
del cinematografo; nel 1898 Valdemar Poulsen
brevetta il telegrafono, un primo registratore
a magnetismo; nel 1900 il telegrafo
ha connesso ormai tutto il mondo
industrializzato; Guglielmo Marconi
un anno dopo trasmette S in codice Morse
tra le due sponde dell’Atlantico;
nel 1902 la musica s’addentra nelle case
grazie a fonografi e cilindri;
nel 1905 Albert Einstein formula
la Teoria della Relatività ristretta;
nel 1909 a Parigi Filippo Tommaso Marinetti
dà alle stampe il Manifesto del Futurismo;
nel 1910 la ‘stella randagia, l’astro disperso’,
la Cometa di Halley, accarezza la Terra
con la coda (Edison produce il primo film
su Frankenstein. E l’auto elettrica);
nel 1911 Igor Stravinskij idea Petruška
e due anni dopo Le sacre du printemps
(come altri musicisti ha le orecchie tese
al crepitio dei tempi; fra i due balletti,
nel ’12, il boato del Titanic che va a sbattere sull’iceberg,
mentre Edison tenta la via del film sonoro
sincronizzando il kinetoscopio col fonografo);
nel 1918 Oswald Spengler pubblica
la prima parte de Il tramonto dell’Occidente
(l’opera completa in due volumi giungerà nel ’23);
nel 1920 Karel Čapek scrive il dramma
R.U.R. – Rossumovi univerzâlní roboti
- dove una parola ceca, robota, lavoro forzato,
diventa sinonimo globale di ente inanimato
ed inorganico – e Max Wolf immortala in foto
la Via Lattea; nel 1922 vedono l’alba
due opere-mito, Ulysses di James Joyce e
The Waste Land di Thomas Eliot;
nel 1925 Niels Bohr, Werner Heisenberg e Pascual Jordan
gettano i fondamenti della meccanica
quantistica; lo stesso Heisenberg poi nel ‘27
introduce il principio di indeterminazione,
mentre Nezval segue lo spirito di Edison
per le vie di Praga, sotto gli asterischi della notte,
sotto le eterne traiettorie delle stelle, per

- ancora dimenticare tutto ciò che strazia


tristezza e angoscia della vita e della morte –

29.

“Ho un bel daffare a puntellare


rovine su rovine con i miei frammenti,
a riordinare e dare senso allo scenario
caotico e stordito del mio tempo
in cui è ormai inutile proiettare l’ombra
consolante dei propri desideri
sul tappeto steso dalle orme
dei passanti sui marciapiedi nerofumo
- occhi fissi ai piedi – lungo le strade
di città irreali; le rovine, è un gioco da ragazzi,
tornano su da sole riavvolgendo
rullini di nitrato di cellulosa:
Démolition d’un mur (pur droit),
Démolition d’un mur (à l’envers)
- catalogogue Lumière, nombre 40 -.
Adesso i desideri li scagliano le macchine,
una per tutte il cinematografo
con la sua musica continua e scapestrata
e la sua azione talmente forsennata
che il cervello non riesce a starle dietro,
ridotto a ingurgitare senza dare
nulla in cambio, fino all’indifferenza,
all’apatia. A Los Angeles nel 1902
un teatro per la prima volta
spense i riflettori per accendere
soltanto i proiettori; qui in Europa
succede al café-chantant, e al music-hall
come io stesso ho paventato in un articolo
sull’attrice Marie Lloyd: quando ogni teatro
verrà avvicendato da cento cinematografi,
quando ogni strumento musicale
sarà sostituito da cento grammofoni,
quando ogni cavallo sarà stato rimpiazzato
da cento utilitarie, quando un congegno elettrico
avrà permesso a ogni bambino
di ascoltare prima di dormire le sue favole
da un altoparlante, quando la scienza applicata
avrà costruito ogni cosa per rendere la vita
sempre più interessante,
a quel punto non ci si dovrà sorprendere
se la gente del mondo moderno
seguirà il destino dei Melanesiani
‘civilizzati’ a forza, studiati dal professor William Halse Rivers:
perdere interesse per la vita, incamminarsi
sulla via di estinguersi per noia.
Sarà questo il modo in cui il mondo
finisce? Non già con uno schianto
ma con un piagnisteo?
Io, Thomas Eliot, lo domando a te
ipocrita lettore, mio simile e fratello”.

30.

L’uomo ha l’istinto di inventare


e quello di scoprire, che sono in realtà
un’essenza sola perché, spesso, invenzione
non è altro che destarsi su una strada
pressoché tracciata, al momento
e sul passaggio giusti (non per nulla
si chiamano ‘pietre miliari’
le grandi conquiste della scienza,
della tecnica, dell’arte, della filosofia,
degli studi sociali). L’uomo ha questo istinto
e in nessun modo lo si può fermare,
è così da centinaia di migliaia d’anni
e sarà così finché alla nostra specie
il pianeta accorderà il privilegio
di restare e di proliferare.
Ma è un’indole inguaribile e ambigua,
come raccontano miti ben famosi
e secoli di storia comprovata:
qualunque artefice (scienziato, pittore, poeta,
musicista, pensatore, e via dicendo)
sa di maneggiare il fulmine ogni volta
che si mette al lavoro, una vampa impietosa
inebriante, munifica ed ingorda,
sa che calore e luce schiudono una soglia
che non è eccessivo dire perigliosa.
Ogni invenzione è un’arma a doppio taglio,
un frutto che alleva nella polpa
la semenza di due insidie:
una è quella, appunto, dell’ambivalenza,
l’estro è un laboratorio ACME
dal quale nessuna creazione esce innocua
e ogni cosa può costruire e abbattere
(e pensate a Leonardo, a come una stessa mente
ha progettato meraviglie idrauliche
capaci di sollevare popoli
e automi bellici congrui ad annientarli);
l’altra - parrebbe meno spinosa, non lo è -
è quella dell’obsolescenza,
la valentia creativa è un demone famelico
che si nutre in gran parte di se stesso
e ogni opera appena concepita
comincia a scavarsi già la fossa
(o, per essere un po’ meno lugubri,
si prenota già la teca in un museo).
Come tutti anch’io sono caduto
inevitabilmente in questi agguati:
ho permesso alla gente di viaggiare,
di comunicare, divertirsi,
alleviare le proprie fatiche,
e ho aiutato il mio paese a combattere
una guerra atroce e mostruosa;
ho prodotto oggetti ultramoderni
che io stesso ho più volte ammodernato,
prodigi tecnici che hanno disperso polvere
ridotto poi a commemorarli
come cimeli di un antiquariato
sui quali quella polvere è tornata
ad adagiarsi.
La strada per l’inferno è lastricata
di ottime intenzioni, non è detto
che il paradiso sia una targa in laude
dedicata quando si è ancora vivi,
trasformati in reliquie in carne e ossa
quando il sangue irrora il corpo ancora,
in genî della lampada (che, danno oltre la beffa,
come si sa era ad olio … ).

31.

Non si può certo pensare che Edison


fosse un tipo ingenuo, tantomeno sprovveduto,
un’anima candida, che non sapesse più che bene
che le sue invenzioni di successo
avrebbero prima o poi preso una china
inesorabile in quel mondo progressista,
liberale, tecnologico, metropolitano
- e volendo potremmo dire già ‘globale’ –
che lui tra altri andava edificando;
quella della consacrazione, preludio tonitruante
alla beatificazione del museo
(o al mercimonio profano delle aste
antiquarie); e che lui stesso avrebbe seguito
una ventura non dissimile, canonizzato in vita
e poi transverberato dalle frecce
dell’iconografia divulgativa
di enciclopedie, biografie, cartoline, figurine

- Il mondo gioca col vostro timpano


siete divenuto zampillo elettrico
fotomotori di uccelli meccanici
se ne vanno verso le stelle da dove vi ritornano
come dall’uccellatore all’angolo della periferia
annunciando la vostra gloria dai cartelli –

perché il mondo si ubriaca di presagi


e poi impacchetta le sibille,
lancia bolentini alle galassie
e appiccica le stelle alle veline
dei cioccolatini, teme le comete
che poi servono a fare la réclame
dei fiammiferi svedesi. E salvaguarda
tutto ciò che sa dovrà scordare
perché, invecchiato, non lo si può più
- o non si vuole più - adoperare
altro che abusandone nei templi
della memoria per procura,
giustappunto nei musei.
Edison, eroe tra eroi della modernità,
posa accanto alla sua ultima invenzione
- un telefono in linea con l’Averno
progettato e mai realizzato –
per una Polaroid psicocinetica
come quelle di Ted Serios
(un fattorino ubriacone di Chicago
che negli anni Sessanta del secolo breve,
stagione di paranormale comparabile
agli anni d’oro dello spiritismo,
riusciva a impressionare una pellicola
con ‘la forza del pensiero’ – in realtà nascondendo
dentro un tubo di cartone, che serviva
a ‘agevolare la concentrazione’
appoggiato sopra l’obiettivo,
al momento opportuno un semplice
ma ingegnoso gimmick, che più di un
prestigiatore ha smascherato).
Edison, che ha abitato le pagine brillanti
di Villiers de l’Isle-Adam
come il genio di una scienza futuristica
peraltro memore del Tempo dei Maghi
(le grandi menti Rinascimentali, Giordano Bruno,
Paracelso, Giambattista Della Porta, Robert Fludd)
e avrebbe anche potuto dimorare in un favola
come tipo di genio di tutt’altra schiatta … ,
ora è a pensione in una casa degli spiriti,
idolo di un immaginario ingrato,
fantasma dell’immaginazione.

32.

Ho preso la luce in una sfera di vetro,


la voce e il suono su un foglietto
di stagnola, il movimento, la bíos,
dentro un film di nitrocellulosa:
mi hanno chiamato ‘mago’ un po’ per celia
e un po’, del resto, per ammirazione
i più senza sapere che il nomignolo
non era privo del suo fondamento;
la scienza era ‘magia’ nel Rinascimento
del Vecchio Continente, quando il Nuovo
non aveva coscienza del suo proprio esistere,
ma in molte epoche seguenti
quanta scienza ha corso il rischio
di passare per stregoneria?
Di una cosa però sono sicuro:
per quante risorse di natura ho imprigionato
così tante energie ho sprigionato,
e la prima energia su tutte quella incorporea
delle idee.
Le mie invenzioni, insieme ad altre e insieme
alla forza trainante di arte, musica, poesia,
hanno sguinzagliato per le arterie urbane
i detectives della modernità, i filosofi
di quell’immensa merce
che era tutta intera la città:
protagonisti dei propri desideri, padroni
del tempo e dello spazio (rallentato l’uno,
l’altro sterminato), chimere di fantasia esaltata
con gambe da fondisti, sguardi panoramici,
orecchie radar, mite intelligenza
- ma insaziabile.
È per questi cittadini del futuro
camminato con passo di deriva
attraverso i passages del presente
che, volente o meno, ho scanalato
la soglia tra due secoli;
un passage più clamoroso d’altri.
Ma una specie di sogno, o incubo,
ho visto incombermi addosso da tre schermi
come nel Napoléon di Abel Gance
(1927, l’anno in cui poeta Ceco
che - calembour – aveva vista lunga,
mi dedicò versi struggenti):
su uno schermo Menlo Park rifatto
pari pari a Dearborn, Michigan, da Henry Ford
dentro ai 12 acri del Villaggio Greenfield
e all’istituto che prese poi il mio nome;
su un altro quei voyeurs erranti
diventati volti disillusi, tra la folla
stipata in una stazione della Metro,
petali su un ramo umido e nero;
sul terzo quelle città impastate
di miraggi elettrici, pulsanti, scintillanti
straripate in megalopoli
dove il sortilegio s’era fuso con informi
prosopopee urbanistiche, e tutto sembrava disegnato
da un Giambattista Piranesi dispettoso,
distopico e confuso.
La mia luce, benché aggiogata a un filamento,
ha spanto per i centri cittadini
- e le periferie - la curiosità operosa
di pattuglie di viandanti del piacere;
in quella cupa visione enormi trappole,
molto più grandi dei grandi magazzini,
delle sale da concerto, dei teatri d’opera,
dei signorili cinema Art Decó,
spalmavano sfolgorii cerulei svigoriti
ma ipnotici per frotte di persone
incuranti di essere individui, anonimi solitari
tra la folla che si faceva strada
in un’effervescenza pasturata,
in una transumanza di noia inconfessata,
all’ombra di un totem, l’ectoplasma
della felicità.
Ho sentito il bisbiglio delle ombre
e lo sbigottimento di anime irrequiete
più in un breve assalto di allucinazioni
che in tutti i miei fallaci tentativi
di comunicare con i morti:
e ho saputo di essere io, morto,
a pensione in una casa degli spiriti,
l’idolo di un immaginario ingrato,
il fantasma dell’immaginazione.

33.

È quasi l’alba di una notte estiva


che un temporale invocato ha disertato,
null’altro che baluginii lontani
e neanche un brontolio di contentino.
Nella stanza la fida Tolomeo,
accesa per ore, chiederebbe se potesse
una tregua più che sacrosanta
(i poeti si preoccupano poco di bollette,
risparmio energetico e surriscaldamento planetario,
se di mezzo c’è la poesia).
Sullo stereo Jan Spálený, lui, riposa
dopo aver cantato ben tre volte
i versi di Vitĕzlav Nezval

- Ma c’era qualcosa di opprimente che straziava


tristezza lamento e angoscia della vita e della morte
(…)
le stelle non deviarono dalle eterne traiettorie
guardate come vivono serenamente migliaia di uomini
no questo non è lavoro neppure energia
questa è un’avventura come sul mare
a chiudersi in un laboratorio
guardate come vivono serenamente migliaia di uomini
no questo non è lavoro questa è alchimia -

e fuori la finestra
l’insegna del cinema Eldorado
da un bel po’ ha smesso di friggere e gettare,
sulla strada che ha il languore
di un circo prima o dopo lo spettacolo,
il suo rosso aranciato trepidante
di una stessa uguale spossatezza.
Tra le pareti dello studio, i libri, i dischi,
l’arredo e i relativi complementi,
e il vetro aperto entro gli infissi
che ha lasciato penetrare l’afa
e il tremolio del neon,
molte cose mi parlano di Thomas Alva
Edison, e Thomas Alva Edison mi parla
per voce del suo spirito;
senza bisogno di chiamate, tavolini,
tabelle alfabetiche con annessi bicchierini,
telefoni medianici, radio e magnetofoni,
ectoplasmi e apporti misteriosi,
voci, spifferi d’aria e note di violini,
scrittura automatica, glossolalia, xenoglossia,
sedute di canalizzazione;
Thomas Alva Edison mi parla
con le sue invenzioni, i suoi successi,
i – pochi – fallimenti, i suoi opportunismi,
i suoi furti, le sue contraddizioni;
e il silenzio di idee, oggetti, documenti
lucidati nei loro reliquiari
ma allevamenti di polvere e sudari
attorno ai quali un convitato di pietra
manovra in cerca di effrazione:
è proprio lui, il ragazzo intraprendente,
il venditore di caramelle, lo strillone,
il giornalista, il telegrafista, l’inventore,
il Mago di Menlo Park, il divo genio,
Thomas Alva Edison, il fantasma
dell’immaginazione.

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