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e fuori la finestra
l’insegna al neon di un cinema obsoleto
(l’Eldorado)
frigge come una zanzariera elettrica.
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e fuori la finestra
l’insegna del cinema Eldorado
da un bel po’ ha smesso di friggere e gettare,
sulla strada che ha il languore
di un circo prima o dopo lo spettacolo,
il suo rosso aranciato trepidante
di una stessa uguale spossatezza.
Tra le pareti dello studio, i libri, i dischi,
l’arredo e i relativi complementi,
e il vetro aperto entro gli infissi
che ha lasciato penetrare l’afa
e il tremolio del neon,
molte cose mi parlano di Thomas Alva
Edison, e Thomas Alva Edison mi parla
per voce del suo spirito;
senza bisogno di chiamate, tavolini,
tabelle alfabetiche con annessi bicchierini,
telefoni medianici, radio e magnetofoni,
ectoplasmi e apporti misteriosi,
voci, spifferi d’aria e note di violini,
scrittura automatica, glossolalia, xenoglossia,
sedute di canalizzazione;
Thomas Alva Edison mi parla
con le sue invenzioni, i suoi successi,
i – pochi – fallimenti, i suoi opportunismi,
i suoi furti, le sue contraddizioni;
e il silenzio di idee, oggetti, documenti
lucidati nei loro reliquiari
ma allevamenti di polvere e sudari
attorno ai quali un convitato di pietra
manovra in cerca di effrazione:
è proprio lui, il ragazzo intraprendente,
il venditore di caramelle, lo strillone,
il giornalista, il telegrafista, l’inventore,
il Mago di Menlo Park, il divo genio,
Thomas Alva Edison, il fantasma
dell’immaginazione.