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Richard Hamblyn, così questa seconda prende le mosse pure da un libro, Toccare le nuvole. Fra le Twin
Towers, i miei ricordi di funambolo di Philippe Petit (Milano, Ponte alle Grazie, 2003): il racconto che il
poliedrico personaggio francese ha fatto della sua impresa di camminare su un cavo di acciaio a 400 metri
dal suolo, tirato appunto fra le Torri Gemelle, nel 1974, poco dopo la loro inaugurazione. Così come là,
anche qui la narrazione è seguita per sommi capi, ma infine abbastanza fedelmente: ed anche qui, come là,
sono arrivato a pensare di alternare ai suoi punti chiave qualche sorta di divagazione per integrarne,
estenderne e charirne il senso, in merito al fatto piuttosto evidente che quel senso insiste su un ragionare
intorno alla scrittura (e all’arte più in generale). A indirizzare la scelta di cosa utilizzare allo scopo mi ha
sorretto il dato non eludibile che Petit non è stato (e non è) un equilibrista qualsiasi: il suo Trattato di
funambolismo (stesso editore, 1999) è in realtà una dissertazione sul vivere, e da molti passi di Toccare le
nuvole emerge una vera e propria filosofia del funambolismo e diverse considerazioni che si potrebbero
definire senza particolare difficoltà di carattere metafisico: una frase valga per tutte, “Il mio destino non mi
vede conquistare le più alte torri del mondo, ma piuttosto il vuoto che esse proteggono. Questo non si può
misurare”. Ecco allora come la scelta è caduta quasi da sola su Yves Klein, l’artista che ha fatto del vuoto
uno dei cardini del proprio lavoro. Emerge subito un punto in comune fra i due, da queste frasi: “Io sono uno
scrittore del cielo” (Petit); “Ho scritto il mio nome ai confini del cielo” (Klein). Entrambi hanno, ciascuno
nel proprio modo e nel proprio mestiere, cercato di fare un’opera d’arte prima di tutto della stessa vita. E si
incontrano in un punto insondabile ove mestiere, arte, poesia e filosofia sono raggrumati in qualcosa di
parimenti insondabile. Petit è un mostro del funambolismo, ma anche un vero e proprio artista concettuale,
nelle cui esibizioni il dato tecnico – per quanto impeccabile e sublime – svapora al cospetto di una sorta di
trascendenza; un artista che ascolta lo spazio nel suo momento di resto. Klein è stato un funambolo dell’arte,
nel senso che nelle sue opere molto spesso altamente concettuali e metafisiche ha però sempre messo in
gioco il corpo, la materia e gli elementi. Ed entrambi hanno fatto questo nel nome del vuoto, della natura
iniziatica e misterica che si incarna nell’assenza attraverso un’accurata e coraggiosa contemplazione, del
campo di energie e possibilità che vi si apre.
(Come si vedrà, i brani dispari seguono il racconto dell’avventura di Petit, quelli pari, affidati alla voce in
prima persona di Klein, il suo percorso artistico e intelletuale, appoggiati anche alla citazione di alcune
importanti opere, il cui elenco si trova alla fine del testo della silloge).
Philippe Petit fra le Twin Towers, Yves Klein, Salto nel vuoto – Uomo
World Trade Center, New York, nello spazio. Il pittore dello spazio si
7 agosto 1974 lancia nel vuoto (fotomontaggio da
(foto di Jean-Louis Blondeau) uno scatto di Harry Shunk, 1960)
Un nome ai confini del cielo.
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Nome comunemente dato ad una superficie non orientabile, un paradosso topologico nel quale è abolita la distinzione
fra interno ed esterno, descritto nel 1882 dal matematico tedesco Felix Klein (omonimia casuale, ma significativa, con
colui che parla in prima persona nei testi pari di questa silloge): sarebbe una bottiglia penetrata lateralmente dal proprio
collo curvato su se stesso, il quale poi finisce per raccordarsi ad un buco sul fondo; se una mosca si “infilasse” nella
bottiglia potrebbe pecorrerla senza alcun attraversamento, (qualcosa di simile accade anche nel più famoso nastro di
Möbius, ma in modo un po’ meno spettacolare).
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3
“Voglio morire, e voglio che si dica di me: Ha vissuto, perciò vive” (dal diario di Yves Klein, poco tempo prima della
scomparsa).
4
Phlippe Petit, Toccare le nuvole, pagg. 207-208.
dalle orecchie di un tamburo
di sangue mercuriale,
le voci del vento, del tuono, della pioggia
cantavano dal basso della terra
la voce della terra scrosciava dalle nubi;
ubi consistam d’entusiasmo
indifeso e invitto alla ragione,
respiri che intonavano un unisono
forse ancora un volta
nella festività di una stagione.