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“Aprile è il mese più crudele”

Le Sacre du printemps di Igor Stravinskij


e il tramonto dell’Occidente

Il 29 maggio 1913, al Théâtre des Champs-Elysées di Parigi, andò in


scena per la prima volta Le Sacre du printemps, balletto in due quadri con la
musica di Igor Stravinskij e la coreografia di Vaslav Nijinski, stella dei
Ballets Russes di Sergej Diaghilev, a quel tempo vera e propria macchina
sforna-balletti che spesso scendeva nella “capitale del XIX secolo” (Walter
Benjamin) per presentare le sue nuove creazioni. Ma questa non è, o almeno
non vorrebbe essere, una celebrazione, anche se lo sembrerà in tutto e per
tutto, come tante altre nel corso di questo centenario (slide n. 2). In
circostanze come quella odierna, a me piace sempre citare una frase di Jean-
Luc Godard: nel 1995, invitato dal British Film Institute, come tanti suoi
colleghi di tutto il mondo, a girare un documentario sul centenario del
cinema (ciascun regista in merito alla storia della settima arte nel proprio
paese), Godard ci tenne innanzitutto a precisare che quello in questione non
era tanto il centenario del cinema quanto piuttosto “della prima proiezione
pubblica a pagamento”; e poi a domandarsi se “celebrare non vuol forse dire
dare troppa importanza a qualcosa a cui non si è dato il giusto
riconoscimento”. Così già dal titolo del suo lavoro egli mise in chiaro la sua
posizione anti-retorica – Due volte cinquant’anni di cinema francese –
confermata sulla pellicola, dove si vede Michel Piccoli mandato in giro ad
interrogare le gente comune su ciò che era rimasto del grande cinema
francese nella memoria indivuduale e collettiva: quasi nulla.
L’ambizione, o almeno la speranza, è allora diversa, così come auspicata
guarda caso da un altro intellettuale d’oltralpe, il filosofo Paul Ricoeur: ri-
memorare, riconnettere la memoria viva, non ritualmente ipocrita, formale,
a un evento perché esso ritorni a parlarci con tutta la sua forza; strappare la
scomoda pelle del “classico” a qualcosa che ha ancora oggi la virulenza di
un incendio, se la si vuole cogliere. Ma come si intuisce dal titolo di questa
mia proposta, Le Sacre du printemps1 è in qualche modo contestualizzato fra
altri eventi della cultura del tempo, se non proprio coevi di certo usciti da un

1
Userò il titolo originale francese non per pignoleria, ma perché la traduzione italiana
abitualmente usata, La sagra della primavera, è ridicola: anche se “ufficialmente” la prima
accezione di siginficato della parola “sagra” nel vocabolario italiano è tuttora quella di una
cerimonia di consacrazione solenne, è chiaro che essa evoca nel senso comune la fiera
paesana, della fragola dell’asparago o dello stridolo, fate voi; meglio sarebbe la versione in
inglese, The Rite of Spring, poiché quello è il soggetto del balletto, un ancestrale rito di
primavera, di tempi molto lontani nei quali in effetti il rapporto con la terra e con le stagioni
e con i frutti della terra e delle stagioni era sacro, e allora la parola “sagra” aveva davvero
un senso religioso. Il titolo russo letteralmente direbbe “la consacrazione della primavera”.
clima storico e culturale comune: prima di raccontarvi qualcosa di questo
capolavoro della musica, e della danza, moderne vorrei allora spiegarvi
qualcosa in merito.
La prima parte del titolo, “Aprile è il mese più crudele”, è l’incipit del
poemetto di Thomas S. Eliot The Waste Land (La terra desolata), pubblicato
per la prima volta nel 1922: dal Sacre lo separano quindi alcuni anni e,
soprattutto, la prima guerra mondiale; ma già nel 1919 Eliot accenna in una
lettera al progetto di “una lunga poesia che ho in mente da lungo tempo”, e
vi sono testi del 1914-1915 nei quali in effetti si ritrovano embrioni tematici
di quel che poi sarà quella “lunga poesia”. Eliot in questo testo si riallaccia
al motivo della terra desolata, ripescato dal ciclo dei racconti medievali sul
Graal, per farne una metafora della condizione invernale della civiltà sua
contemporanea: il mondo è “un mucchio di immagini frante, dove il sole
batte”, come secondo uno dei versi più celebri del poema, e dove la
primavera non è foriera di risveglio, ma di “crudeltà” e assenza di desiderio;
i simboli di fertilità e rinascita vengono rovesciati ironicamente, e al poeta
non resta che prenderne atto del paradosso con dolore, ma al tempo stesso
con la coscienza che il grigiore, la desolazione, le macerie sotto le quali
soffoca la tradizione di un’umanità e della sua cultura nascondono ancora i
puntelli che sembrano poter sorreggere le spoglie del passato. Eliot così
tesse un elogio funebre della civiltà, ma nello stesso momento ne rievoca,
anche se più in forma ironica o addirittura parodistica che non elegiaca, i
momenti gloriosi attraverso una rete intertestuale di citazioni disparate,
prese dalla letteratura di ogni epoca e impaginate come una sorta di “musica
di idee”. Dunque il tema centrale è il mito della terra desolata, una terra
malata e infeconda a causa della malattia e infecondità del suo regnante, che
potrebbe essere guarita attraverso la ricerca e la comprensione profonda del
significato del Graal, un oggetto (di solito un calice, anzi il calice che
avrebbe contenuto il sangue di Cristo morente, e che per traslato lo
rappresenta) ricco di qualità taumaturgiche e spirituali; a cavallo fra XII e
XIII secolo, una fioritura di poemi e di proto-romanzi, incernierata ai cicli
arturiani, racconta le vicende di eroi come Parsifal, Galaad, Lancillotto, alla
ricerca di questo oggetto in un cammino di purificazione individuale che
aprirà la strada a quella collettiva. Ma ci sono due letture fondamentali che
ispirano ad Eliot il modo per far interagire tutti i suoi riferimenti e per
cercare nella poesia una strategia se non salvifica almeno palliativa alla crisi
della civiltà. Una è From Ritual To Romance (1920) di Jessie L. Weston, in
cui viene ipotizzata un’analogia fra antichi culti misterici e riti pagani della
fertilità e le storie medievali del Graal: per cui queste sarebbero in definitiva
una rielaborazione in altissima letteratura e in forma cristianizzata di quel
che era rimasto nell’aria e nella memoria culturale appunto di quegli antichi
riti. Questo libro, oltre a fornire a Eliot lo scenario perfetto per allestire il
suo “cantiere”, gli suggerisce lo schema portante dell’allestimento: un
materiale culturale può viaggiare nel tempo e trasfigurarsi conservando però
la sua tensione simbolica; esso può essere strappato al suo contesto e mutato
in una nuova funzione cosi che, senza essere privato dei significati originari,
perda il suo dato di incompletezza e acquisti nuovi contenuti nel nuovo
contesto. Il frammento diventa un fattore di compresenza che permette di
uscire dalla storia ed entrare in una sospensione temporale del tutto affine a
quella di un mito (o quantomeno del rito che lo rimette in scena). Ecco il
“metodo mitico”, o intertestuale, una specie di raffinatissimo bricolage che
Eliot descrisse nel 1923, recensendo l’Ulysses di James Joyce – l’altra delle
due letture succitate - in questo modo: “Usando il mito [in questo caso
l’Odissea, n.d.r.], e operando un continuo parallelo fra contemporaneità e
antichità, Joyce instaura un metodo che altri potranno utilizzare dopo di lui
(…) È semplicemente un modo di controllare, ordinare, dare forma e
significato all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia
contemporanea (…) Invece di un metodo narrativo, noi possiamo ora usare
il metodo mitico. Io credo fermamente che sia un passo per rendere
accessibile all’arte il mondo moderno” (Ulysses, ordine e mito)2. Ciò che è
essenziale a questo punto è però trovare una struttura semantica peculiare
che permetta di omogeneizzare tra loro elementi eterogenei che, nel caso di
The Waste Land, arrivano davvero da tutte le parti: da Dante e da Chaucer,
da Shakespeare e da Baudelaire, dalla tragedia greca e da Ovidio e Virgilio,
dalla Bibbia e dalle Upanishad Vediche. La grandezza di The Waste Land,
non di rado liquidata tout court come un’opera omni-inclusiva, sta proprio
nella capacità del suo autore di creare un impercettibile codice di
assimilazione tra i vari frammenti, un’unità formale ricercata per analogie,
per riprese di motivi, per progressioni non logiche: sarà un caso che Eliot
abbia avuto modo di ascoltare, ed apprezzare, Le Sacre du printemps nel
periodo in cui andava maturando il disegno del Waste Land?3
Anche nella terza “sezione” del titolo è citato un prodotto della cultura di
quegli anni: in questo caso si tratta di un’opera di filosofia della storia, Il
tramonto dell’Occidente del tedesco Oswald Spengler, pubblicato in due
volumi fra il 1918 e il 1922, anche se la redazione del primo volume era già
completata nel 1913: siamo insomma in piena situazione. Spengler elaborò
2
Pubblicato in Dial, LXXV, 5 novembre 1923, in Thomes S. Eliot, Opere 1904-1939 (a cura
di Roberto Sanesi, Milano, Bompiani, 1992-2001.
3
Nel giugno 2009 il coreografo brasiliano Ismael Ivo ha presentato alla Biennale Danza di
Venezia The Waste Land. A choreographic essay inspired on the investigation of senses
and physical possession, sulla musica del Sacre du printemps di Stravinskij con l’aggiunta
di campionamenti e registrazioni di eventi naturali a cura del compositore tedesco Andreas
Bick: un’idea che parte dal Sacre per interrogare il nostro rapporto con l’ambiente, nella
quale sul piano sonoro il mondo barbarico e primitivo evocato da Stravinkij si trasforma in
una sorta di urlo di disperazione della terra, mentre su quello del movimento il tentativo è
cercare un “grado zero” mirato al recupero di una relazione corpo-terra e di una danza
riportata alla sua vocazione di forma simbolica di costruzione di senso. La domanda sullo
sfondo è: abbiamo mutato i tempi di fertilità della terra, alterato i cicli climatici che erano
necessari alla sua fertilità, siamo sicuri che arriverà la prossima primavera?
un corposo lavoro di studio comparativo delle civiltà sulla base di una tesi in
parte desunta da un’idea relativistica della storia; e in parte insufflata da uno
spirito di reazione alla dialettica incombente all’epoca fra il Positivismo, già
in crisi ma ancora determinato a farsi valere sul terreno della razionalità, del
dominio della tecnica e dell’economia, e il nichilismo che ne costituisce il
rovescio della medaglia (o, come sosteneva Nieztsche, l’inevitabile sbocco
dopo secoli di illusioni dovute alla “secolarizzazione” del senso estetico-
tragico del mondo e della vita sacrificato all’ottimismo utilitaristico della
società industriale e tecnologica). La tesi di Spengler, semplificando molto
per ovvie ragioni di concisione in questa sede, è la seguente: ogni civiltà che
si presenta nella storia del mondo segue una curva naturale, quasi biologica,
di sviluppo, ascesa e decadenza; il suo “destino” è quello di raggiungere un
plenum di di energia vitale e culturale, realizzare la propria maturità, quindi
accettare l’inesorabile declino, il “tramonto”. Tutte le civiltà, dice Spengler,
giungono al loro declino contemporaneamente, ovvero attraverso eventi
storici che occupano la stessa posizione nelle rispettive culture e assumono
quindi un’identica importanza: in buona sostanza, le strutture interne di ogni
civiltà e cultura si corrispondono morfologicamente; sulla base di queste
considerazioni, i segni dei tempi dimostrerebbero che la civiltà occidentale
avrebbe raggiunto il suo momento del declino, avrebbe compiuto il proprio
destino. Quella di Spengler è un’intepretazione simbolica della storia, dalla
quale scompare il principio di causa-effetto (“logica dello spazio”) in favore
del concetto già accennato di destino (“logica del tempo”), e che si libera di
ogni classica periodizzazione in ere ed evi, liberandosi al tempo stesso del
problema di un eventuale quadro di progresso unitario del genere umano in
sé. Per questo suo pensiero Spengler è stato spesso arruolato tra gli ideologi
colpevoli più o meno direttamente di aver aperto la strada a una visione anti-
storica della storia e alla strumentalizzazione di quel rapporto fra mito e
reazione politica da parte di una certa “cultura di destra” le cui tragiche e
aberranti azioni non avrebbero tardato a presentarsi. In qualche modo il
mondo di Spengler, come del resto quello del Waste Land di Eliot, sembra
incantato, non vi accade più nulla poiché è come se tutto fosse già previsto,
se non altro il fatto inestinguibile dell’arrivo della decadenza, del declino: in
questo accomunati Spengler ed Eliot “offrono al loro lettore la chance di
sentirsi partecipi (sic) del ritorno monumentale e impietrito dei secoli”,
immerso in un’aria gravida di destino, in un’esistenza satura di un’aura
simbolica e significante che sembrava irimediabilmente perduta: anche se il
prezzo è la perdita di libertà e di coscienza storica”4. Va detto che Spengler
non fu poi così apprezzato da quella “cultura di destra” i cui crimini avrebbe
avallato in anticipo: in Germania Il tramonto dell’Occidente ebbe all’inizio
un certo successo, ma rapidamente l’opinione pubblica si rivoltò di segno, i
4
Cfr. Franco Moretti, “Dalla terra desolata al paradiso artificiale”, in Calibano. Rivista
semestrale di ricerche sulla letteratura inglese e americana. 5. Il filo di Arianna. Elementi
mitici nella letteratura moderna, Roma, Savelli Editore, 1980, pag. 92.
filosofi “ufficiali” – compresi quelli Nazisti – lo accusarono di superficialità
e le scienze specialistiche di ciarlataneria; la tesi del tramonto in un’epoca di
crisi economica e sociale non era per niente gradita, e il suo estensore fu
considerato pessimista e reazionario. Va pure detto che in tempi abbastanza
recenti il suo pensiero è stato rivalutato, non tanto per quel che riguarda le
immancabili ed ignobili reviviscenze razziste e fascistoidi di cui tutti siamo
costretti ogni tanto ad appprendere notizie, quanto nella prospettiva di un
approccio simbolico alla realtà che gli uomini hanno sempre adoperato per
abitare e per configurare lo spazio e il tempo nei quali si sono trovati a
consumare l’esistenza: prospettiva che inquadra l’idea del tramonto
dell’occidente come tramonto della sua capacità di espressione simbolica.
Da questo punto di vista è importante sottolineare che Spengler non
collocava la sua visione in una rappresentazione in sé pessimistica: se una
cultura è consapevole che il momento storico che sta attraversando è quello
del suo tramonto, allora diventa capace di concentrare le proprie risorse di
azione creativa nell’istante presente, raccogliendo tutta l’eredità della
tradizione per polarizzarla verso il futuro, cioè nel tempo di una rinascita;
ogni cittadino del proprio tempo capisce così di “essere nella storia” col
preciso compito di contribuire, per così dire, ad apparecchiare il momento
del ritorno, della rinascita di una nuova civiltà, anche se non vi prenderà
parte. È chiaro che siamo su un crinale pericolosissimo, sul filo di
un’ambiguità di fatto, nel cono d’ombra di una sinistra mistica del sacrificio,
ma è in fondo la pericolosità del pensiero indomato che va per la sua strada:
e del resto pure Eliot ha corso il rischio di essere accusato come reazionario,
e non lo ha corso senza sue precise responsabilità intellettuali; ma noi qui
dobbiamo procedere col nostro discorso sul Sacre du printemps; come
vedremo alla fine, Stravinskij e gli altri autori del Sacre non avevano
probabilmente particolari intenti politici o sociologici quando si misero al
lavoro su quel balletto, ma alla luce dei fatti esso si è rivelato denso di
contenuti che vanno ben oltre le sue qualità artistiche.

“Lasci che le spieghi. Ho fatto un sogno. Una fugace visione di un rito


pagano nel quale una giovane danza fino alla morte. Lei viene sacrificata al
dio della primavera, questo è il tema del balletto. La terribile bellezza della
natura che erompe dalla terra. Questo è quello che ho sentito, e questo ho
scritto”. Più o meno con queste parole Stravinskij espose a Diaghilev la sua
idea per la nuova produzione dei Ballets Russes: e l’impresario, nonostante
le perplessità suscitate dalla musica che il compositore gli suonava al piano,
evidentemente già così violenta o quantomeno veemente sui tasti da fargli
immaginare con inquietudine cosa sarebbe stata con l’orchestra (Diaghilev:
“Non crede, amico mio, che ci sia … un po’ troppo rumore?”. Stravinskij:
“Dove, esattamente,?”. “Diaghilev: “Forse, direi ... dall’inizio alla fine”),
non ci mise molto a farsi convincere e a impegnarsi a convincere a sua volta
Gabriel Astruc, il direttore del Théâtre des Champs-Elysées, a mettere in
scena il Sacre du Printemps.5 “Quadri della Russia pagana”, il sottotitolo del
balletto, chiarisce il contesto nel quale decisero di muoversi Stravinskij &
Co. “L’agricoltura rivela in modo più drammatico il mistero della
rigenerazione vegetale. Nel cerimoniale e nella tecnica agricola, l’uomo
interviene direttamente; la vita vegetale e il sacro della vegetazione non
sono per lui cosa esterna: egli vi partecipa, manipolandoli e scongiurandoli.
Per l’uomo «primitivo», l’agricoltura, come ogni altra attività essenziale,
non è una semplice tecnica profana. Essendo in relazione con la vita e
ricercando l’accrescimento prodigioso della vita presente nei semi, nei
solchi, nella pioggia e nei geni della vegetazione, l’agricoltura è anzitutto un
rituale”.6 Quete notazioni dello storico delle religioni Mircea Eliade (en
passant, anch’egli coinvolto in quella “cultura di destra” di cui parlavamo
prima) puntualizzano in sintesi, un’eccellente sintesi, l’antico bisogno
umano di ritualizzare pratiche come la coltivazione della terra, e di stabilire
rapporti precisi di magia simpatica fra i cicli della natura e quelli della vita
quotidiana, tra la sessualità e la fecondità della donna e la fertilità della
terra, tra la vita e la morte della vegetazione e la vita e la morte di coloro la
cui sopravvivenza dipende proprio da quella vegetazione. Anche se “Già
nell’antichità classica” – scrive Eliade – “il «sacrificio umano» in occasione
della mietitura era soltanto un vago ricordo di tempi antichi, superati da un
pezzo”, e non ne erano rimaste tracce che in forme drammatiche divenute
ormai prossime alla teatralizzazione; nel mondo moderno tali tracce saranno
ancora peggio dissimulate, come testimoniano certe manifestazioni alle
quali assistiamo senza sapere più nulla del loro vero significato (un esempio
potrebbe essere la Segavecchia di Forlimpopoli, per stare dalle nostre parti,
che è una triste dimostrazione dell’ultimo stadio a cui un rito può arrivare
dopo una serie di cadute, dalla religione alla festa, dalla festa al teatro, dal
teatro alla sagra paesana – sagra qui davvero però nel senso triviale della
parola).
Il libretto del balletto, diviso in due parti e in diversi blocchi, o episodi,
associa la dimensione festosa, gioiosa, legata al ritorno della primavera, a
quella appunto più drammatica, che volenti o nolenti è il clou della festa, al
sacrificio appunto di una “eletta”, una fanciulla scelta in virtù di un curioso
dispositivo nel quale l’impeto del gruppo e l’offerta di sé del singolo paiono
sfumarsi reciprocamente. Ha scritto Theodor Adorno, in un libro famigerato
sulla presunta dicotomia Stravinskij - Schönberg (che nel percorso della
musica moderna, per il filosofo e musicologo tedesco rappresentano senza
mezzi termini il primo la “restaurazione”, il secondo il “progresso”): “non si
giunge a nessuna antitesi estetica tra la vittima immolata e la tribù, ma

5
La citazione è tratta da un bel TV movie su Le Sacre du printemps e la sua prima, prodotto
dalla BBC (Riot at the Rite, 2005, sceneggiatura di Kevin Elyot, regia di Andy Wilson) e
sarà un po’ romanzata, ma mi è sembrata molto efficace.
6
Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni (1948), Torino, Bollati Boringhieri, 1976
e 1999, pag. 301.
piuttosto la danza di quella porta a compimento la sua identificazione non
osteggiata e diretta con questa”.7 Come abbiamo visto, Stravinskij ascrive a
un proprio sogno l’idea del Sacre, e non c’è motivo di metterne in dubbio la
parola: ma sembra che egli abbia sempre fatto un po’ fatica a riconoscere
fino in fondo, pur non negandolo mai, il contributo fondamentale di Nikolaj
Roerich, scenografo dei Ballets Russes, che per il Sacre ufficialmente si
occupò di disegnare i fondali e i costumi. Costui era un appassionato esperto
di antica cultura russa, e anche se a distanza di tempo non risulta semplice
stabilire chi davvero abbia “scritto” l’impianto per il coreodramma (ne
esistono quattro versioni, due di Stravinskij e due di Roerich, e vi sono
alcuni documenti di natura epistolare che dimostrano un va e vieni di
pensieri e interpellanze fra i due protagonisti8), l’ipotesi più accreditata è
che la competenza di Roerich sia stata imprescindibile. Addirittura, secondo
lo storico dell’arte Kenneth Archer - coprotagonista del recupero del lavoro
di Nijinskij, ma di questo parleremo dopo – che ha ripercorso la vicenda con
l’aiuto del figlio di Roerich, questi sarebbe stato il primo ad aver avuto
l’idea: Diaghilev gli mandò uno Stravinskij in cerca di ispirazione per un
nuovo incarico dopo l’ultimazione de L’uccello di fuoco, e fra i progetti del
pittore il musicista ebbe modo di mettere gli occhi su un abbozzo per un
“grande sacrificio”.9 In definitiva non si può che considerare il Sacre come
una vera e propria opera collettiva, dove la musica di Stravinskij (la cui
composizione era ultimata già al principio del 1912), la coreografia di
Nijinskij (che coi Ballets Russes aveva creato la sua prima danza pure nel
’12 sull’Après-midi d’un faune di Claude Debussy e che si ritrovò tra capo e
collo a dover lavorare contemporaneamente al Sacre e ad un altro balletto,
Jeux, sempre su musica di Debussy, poiché Michel Fokine, primo
coreografo dei Ballets, aveva abbandonato la compagnia a causa di dissapori
con Diaghilev), le scene e i costumi – e come abbiamo visto anche le
“consulenze” etnografiche – di Roerich, senza dimenticare l’apporto di
Marie Rambert (danzatrice, insegnante e coreografa, che Diaghilev pensò
bene di affiancare a Nijinskij per aiutarlo nell’analisi, specie sul piano
ritmico, della partitura di Stravinkij, ma che sembra abbia avuto un ruolo
significativo anche come mediatrice fra l’intransigenza del coreografo e lo
7
Theodor W. Adorno, Filosofia della musica moderna (1949), Torino, Einaudi, 2002, pag.
153.
8
Lo studioso Richard Taruskin, docente di musicologia presso la University of California
di Berkeley, ha dedicato un ponderoso libro alle influenze della cultura popolare russa, e
del suo recupero nel contesto in cui agì Stravinskij nella prima parte della sua carriera, sullo
stile stravinskijano di quel momento: la sezione del libro riservata al Sacre du printemps è
stata tradotta in Italia per i tipi della Ricordi e grazie alla collaborazione dell’Accademia
Nazionale di Santa Cecilia; qui Taruskin ha ben documentato l’iter complesso e intricato
dell’ideazione e della stesura dello scenario e degli abbozzi iniziali del balletto, e dalla sua
ricostruzione si può appunto dedurre che l’apporto di Roerich fu determinante.
9
Ada D’Adamo, Danzare il rito. Le Sacre du Printemps attraverso il Novecento, Roma,
Bulzoni Editore, 1999, pag. 27.
9
sgomento dei danzatori di fronte ai passi della sua coreografia: ma di questo
riparleremo). Dato che la musica è ciò che è nato prima, e che è riuscito a
staccarsi dal resto per viaggiare in parte per conto proprio lungo tutto il XX
secolo, è plausibile cominciare da questa il racconto del Sacre che è in
fondo lo scopo primo di questa occasione: ma non si può, come aperitivo,
evitare di sottolineare che Le Sacre du printemps è stato, al suo debutto, uno
dei più clamorosi scandali che la storia del teatro moderno abbia registrato;
Alessandro Zignani, in un suo gustosissimo libro, ne riassume la cronaca
così: “Cominciò il vecchio Saint-Saëns: quando il fagotto intonò il tema
lirico ‘impiccato’ nel registro acuto con cui comincia l’opera, chiese a
Ravel, il suo vicino di posto: «Dimmi, caro collega, che strumento sarebbe
mai quello?». E Ravel, già pregustando la sua reazione: «Un fagotto,
maestro»10; al che Saint-Saëns si alzò, ed uscì dalla sala. Presto si scatenò un
putiferio. Nella confusione più totale, Nijinskij era salito su di una seggiola,
e da lì gridava ai ballerini gli schemi dei passi. La principessa di Polignac
ruppe il suo ventaglio contro la sbarra di ottone dei pachi, urlando che
facessero silenzio, perché non sentiva. Si venne alle mani. Ravel e Debussy
si dimostrarono ottimi peso-mosca. Di lì a un quarto d’ora, arrivò la polizia,
e lo spettacolo ebbe fine”.11 Le Sacre du printemps ebbe assai poche
repliche, e finì prestissimo fuori dal repertorio, anche se qualche anno dopo,
nel 1920, Diaghilev decise di riproporlo affidandone il remake a Léonide
Massine: con un riciclo del materiale scenico di Roerich, Massine creò
qualcosa di sostanzialmente diverso da Nijinskij, che fu da qualcuno meglio
apprezzato in quanto ritenuto più aderente a un’idea di danza pura e più
attento alla partitura, da qualcun altro meno poiché più freddo e privo del
pathos nijinskiano, oltre che poco concentrato sul significato del libretto.
Curiosamente lo stesso Stravinskij, che sembrava aver apprezzato il lavoro
di Nijinskij, vedendo la coreografia di Massine la ritenne migliore, finendo
quasi per addebitare all’originale un’eccessiva audacia, e con un pizzico di
malizia la responsabilità dello scalpore e dell’insuccesso. Resta da dire che,
a parziale conferma di questa tesi, ci sarebbe il fatto che nel 1914, sempre a
Parigi, una versione del Sacre in forma di concerto scatenò una vera
ovazione fra il pubblico.
Le Sacre du printemps ha avuto in sorte di essere analizzato con estrema
cura, fin nei minimi dettagli della sua costruzione e della sua concezione: ci
sono almeno due testi capitali che bisogna citare a questo proposito, e sono
entrambi il frutto della passione di due colleghi di Stravinskij: uno è Roman
Vlad, che oltre ad aver licenziato un libro sull’intera opera di Stravinskij, ha
studiato a fondo il Sacre in Architettura di un capolavoro; l’altro è Pierre
Boulez, autore di un’analisi molto famosa, anche per la particolarità di

10
Secondo il ricordo di Roman Vlad, fu Alfredo Casella a dare l’informazione sul fagotto a
Saint-Saëns.
11
Alessandro Zignani, Manuale di sopravvivenza per il musicista classico, Varese,
Zecchini Editore, 2006, pag. 227.
essere incentrata in gran parte sugli aspetti ritmici del Sacre, scelta del resto
pienamente giustificata data la loro importanza. Sia Vlad che Boulez hanno
sottolineato degli aspetti che hanno fatto del Sacre prima una leggenda
dell’avanguardia e poi, come ho accennato all’inizio di questo scritto, un
pezzo immortale senza quasi più bisogno di essere discusso. Vlad ha messo
il dito nella piaga del luogo comune che vide – e vede tuttora – il tempo del
Sacre come quello nel quale Stravinskij passò come l’anarchico sovvertitore
di tutti i più inveterati canoni estetici e grammaticali, per poi divenire, anche
a causa della vulgata adorniana, musicista neoclassico, se non reazionario,
per eccellenza.12 Invece Boulez nota che, nonostante i frequenti cambi di
passo che Stravinskij ha attuato nella sua carrriera (una specie di Picasso
della musica), “Sembra sempre più evidente che (…) non vi sia autore dal
nome legato più stretto a una sola opera, diciamo a un’unica serie di opere.
Stravinsky è innanzitutto Le sacre; Pétrouchka, Renard, Noces e Chant du
rossignol formano una costellazione di cui non si nega l’importanza ma il
loro polo d’attrazione rimane sempre questo Sacre, ieri scandaloso, oggi
pretesto di quali disegni animati!”. 13 Il problema è che i saggi di questi due
compositori sono davvero per addetti ai lavori, pieni di ragguagli tecnici che
danno un po’ per sottinteso che chi li legge conosca la musica e li possa
capire. Ma io non la conosco, intendo tecnicamente, e anche se la conoscessi
non potrei rivolgermi, usando le analisi di Vlad e Boulez, che ad altrettanti
esperti: invece qui l’idea è quella di trasmette il frutto di un interesse per la
musica, e per l’arte più in generale, a gente comune come me che con me
voglia condividerla non accontentandosi, per così dire, di quel che passa il
convento. Così ho deciso di farmi aiutare, per semplificare un poco le
questioni senza però ridurle troppo all’osso, da alcuni mediatori: spero che il
risultato sia soddisfsacente.
Il musicista e musicologo Michele Dall’Ongaro, uno di questi mediatori,
che ha dedicato un paio di puntate della rubrica di Radio 3 Lezioni di
musica al Sacre, ha usato come rampa di decollo per la sua ricognizione tre
piccoli pezzi composti da Stravinkij nel 1914, ovvero l’anno successivo il
Sacre, tre Pezzi per quartetto d’archi – e non comunemente “quartetti
d’archi” - che complesivamente durano pochi minuti. Spiega Roman Vlad
che questa titolazione non è dovuta ad una “sofistica sottigliezza
terminologica, ma ha una sua profonda ragione” nella situazione storica in
cui la musica europea si trovava in quegli anni. Nel quartetto d’archi, come
nella sinfonia, nel poema sinfonico, la musica nasce dallo sviluppo e dal
rapporto dialettico dei temi e dei loro piani tonali, dall’alternanza e dalle
12
Roman Vlad, Strawinsky, Torino, Einaudi, 1958 e 1973, pag. 51.
13
Pierre Boulez, “Stravinsky rimane”, in Note di apprendistato, Torino, Einaudi, 1968, pag.
73. Il riferimento ai “disegni animati” riguarda l’utilizzo del Sacre du printemps fatto da
Walt Disney in Fantasia, nell’episodio che racconta la costituzione del nostro pianeta e,
soprattutto, la vita e poi l’estinzione dei dinosauri: Stravinskij, che ebbe modo di vistare gli
studi di Disney durante la lavorazione dell’episodio, lo giudicò poi come una “irresistibile
imbecillità”.
variazioni disposte in successione temporale a costruire l’ossatura formale
ma anche concettuale; Stravinskij, come anche compositori coevi quali
Anton Webern, cominciano ad elaborare sovrapposizioni politonali e
poliarmoniche basate non più su quel tipo di successione nel tempo, ma su
una giustapposizione spaziale; la forma specifica perde la sua ragion
d’essere storica, e la parola “quartetto” non può più essere adoperata per
individuarla come tale, ma solo per precisare un determinato complesso
strumentale.14 Questi quartetti per archi di Stravinskij durano
complessivamente pochi minuti, quello che vi faccio sentire a titolo
d’esempio meno di un minuto (esempio audio n. 1): che c’è di tanto
significativo in questo frammento da far dire a Dall’Ongaro che esso è una
specie di piccolo bignami del Sacre? C’è il fatto che le voci dei quattro
componenti – i due violini, la viola e il violoncello – sono congelate in una
figura che non cambia mai fino alla fine, né dal punto di vista della melodia,
né da quelli del timbro e del ritmo; ognuna va per la sua strada senza
incrociarsi con le altre, senza interagire, rompendo completamente lo
schema dialettico al quale accennevo prima, sul quale era fondata la musica
classica. È qualcosa che spezza il punto di vista, la prospettiva, un po’ come
sta accadendo negli stessi anni anche nelle altre espressioni d’arte. Abbiamo
già visto che con Joyce ed Eliot prende forma un metodo di scrittura alieno
dalla sicurezza della grande tradizione narrativa, che chiede al lettore di
imparare a orientarsi in un mondo di citazioni, di riferimenti, di rivolgimenti
parodistici, disposti in un certo senso anche qui su un piano che non è più
temporale ma spaziale. Ma il paragone fra la musica del Sacre du printemps
ed altri linguaggi artistici più efficace, è quello con la pittura. Se Claude
Debussy aveva transitato la musica fra XIX e XX secolo accogliendo nelle
sue sonorità magmatiche le suggestioni dell’Impressionismo, il Sacre fa sua
la rottura dello spazio prospettico rinascimentale operata dal Cubismo: con
Les Demoiselles d’Avignon (1906-1907) Pablo Picasso comincia il processo
di trasudazione delle forme nello spazio che condurrà alla sintesi Cubista: il
Cubismo analitico di Picasso e Georges Braque (le cui opere canoniche sono
degli anni ’10, ’11, ’12, slide n. 3) frantuma la visione per smarrire lo
spettatore di fronte a una pittura che appiattisce sulla bidimensionalità,
ricostruendoli su un unico piano, i vari punti di vista che coinvolgono gli
oggetti. Bene: nella musica del Sacre, come abbiamo sentito distillato nel
piccolo brano per quartetto d’archi, ma moltiplicato alla ennesima potenza
dalla generosità dell’organico orchestrale (100 elementi), come sentiamo
invece in questo breve estratto dal preludio della prima parte (esempio
audio n. 2), accade più o meno la stessa cosa; l’ascoltatore perde la bussola,
non ha appigli sicuri per orientare e indirizzare il proprio ascolto. C’è chi ha
paragonato l’esperienza del Sacre a quella di una sagra – in questo caso la
parola è usata proprio nel senso comune di fiera, di mercato - dove
l’orecchio è catturato da una serie di stimoli sostanzialmente incoerenti tra
14
Roman Vlad, Strawinsky, cit., pag. 76.
di loro, ma tutti comunque degni di nota. E degno di nota, nella succitata
presunta opposizione fra la musica di Stravinskij e quella di Schönberg, è il
fatto che il primo restò molto colpito, per non dire scioccato, dal Pierrrot
lunaire, alle cui prove il collega tedesco lo aveva invitato: una delle
caratteristiche primarie della allucinata raccolta di lieder è, guarda caso, la
frantumazione della prospettiva narrativa in punti di vista diversi, in voci
differenti.
Questo della rottura degli schemi formali, di un’architettura inusitata, è
un primo aspetto importante della novità del Sacre: un altro aspetto decisivo
è quello delle relazioni fra i suoi temi e la muisca folkloristica russa. È una
questione un po’ delicata, perché anche qui Stravinskij ha sempre cercato
quanto meno di minimizzare, ma ci sono molti elementi che sconfessano il
suo atteggiamento; un elemento piuttosto incontestabile, ad esempio, è il
reperimento di una raccolta di canti lituani pubblicata in Russia da un
sacerdote musicista nel 1904 che, anche messi a confronto con i quaderni di
schizzi musicali preparatori di Stravinskij, trovano riporti a volte quasi
letterali in motivi melodici del Sacre (ancora il lavoro di Taruskin – cfr.
nota 7 – è prezioso al proposito). Forse anche per questo fattore la presenza
di Roerich fu rilevante, vista la pertinenza dei prelievi dalle fonti popolari ai
contenuti tematici del balletto (le melodie popolari identificate nel Sacre,
precisa Taruskin, appartengono per lo più a categorie di canti cerimoniali e
in modo particolare stagionali, quindi chiaramente legati allo scenario del
balletto). Ma già dal suo maestro Nicolaj Rimskij-Korsakov, Stravinskij
aveva potuto imparare quale prezioso materiale risiedesse in quelle fonti, sia
dal punto di vista strettamente musicale che su un piano più idelologico (e
qui si può misurare la vicinanza di Stravinskij con ambienti neonazionalisti
della Russia di primo Novecento, ai quali parteciparono poeti come Andrey
Beliy e Alexander Blok, e ai quali era vicino anche Roerich, il cui intento
era quello di riportare in auge la cultura primordiale del popolo, spontanea e
vitale, contro il materialismo di quella moderna, artificiosa e razionalistica.
Peraltro Stravinskij si era occupato, già prima del Sacre, di musicare alcuni
componimenti poetici in tema). Quel che Stravinskij trova nei canti popolari
è prima di tutto la loro qualità melodica: si tratta di solito di linee piuttosto
scarne, che non si aprono a una cantabilità di ampio respiro – l’idea classica
della melodia -, spesso fatte di gruppetti di poche o pochissime note,
strutturate in ostinato. Grezzo, ma a suo modo impeccabile, questo materiale
offre a Stravinskij un senso di primitivismo e la possibilità di organizzare
l’architettura musicale sulla dimensione che più gli interessa, quella ritmica,
proprio perché questi semplici motivi ritornano su sé stessi (e lui li fa
ritornare anche in un altro senso, ovvero li riprende in momenti diversi della
partitura, però con diversi trattamenti timbrici e ritmici).
C’è ancora un altro elemento riguardante i temi e motivi tratti più o meno
direttamente dal repertorio folkloristico: l’organizzazione dei suoni in scale
diverse da quelle predominanti nella musica occidentale (o comunque nella
musica occidentale delll’epoca), la diatonica di sette suoni e la cromatica di
dodici suoni, nei modi maggiore e minore. L’interesse di Stravinskij va in
particolare alle scale ottatoniche, costruite in base all’uso dei tetracordi: i
tetracordi, che conosciamo già dalla teoria musicale dell’antica Grecia, sono
successioni di quattro note la cui prima ed ultima si trovano alla distanza di
una quarta giusta e le due intermedie si possono collocare entro un’ampia
gamma di scelte dando così vita a numerosi tipi diversi di tetracordi. Non
solo: se un teatracordo si somma a sé stesso, si ottiene una scala di otto
suoni, appunto ottatonica, che si differenzia dalle scale tonali tradizionali
per la successione alternativa di toni e semitoni (o viceversa). Per non
scendere troppo nel tecnico, cosa che mi farebbe letteralmente naufragare, il
risultato è che un tema suonato su una scala ottatonica ha un sapore
particolare, un senso quasi di tensione (esempio audio n. 3), ed ancora più
particolare sarà quindi il tessuto armonico di una composizione orchestrata
sulla teoria tetracordale. Stravinskij non fu certo il solo a rivolgersi a questo
tipo di organizzazione dei suoni, che anzi nel primo Novecento attrasse altri
compositori intenti ad emanciparsi dai limiti, veri o presunti, del sistema
tonale senza però cadere nelle spire dell’ostico atonalismo che assumerà la
forma della dodecafonia con Schönberg: e del resto lo aveva imparato da
Aleksandr Skrjabin come da Rimskij-Korsakov. Ma egli seppe farne un uso
potremmo dire strategico, sia nell’ambito squisitamente tecnico della
composizione del Sacre, sia in senso più ampio realizzando “una sintesi
estremamente originale ed approfondita fra le tradizioni folcloriche e gli
orientamenti modernistici della musica colta russa”.15 Fra l’altro, secondo
Roman Vlad, l’accordo con cui si apre il balletto vero e proprio – ovvero il
suo primo blocco, Gli Áuguri primaverili, subito dopo il preludio – è un
accordo integrale diatonico, ovvero contiene tutte le sette note della scala
diatonica, ed è quindi come se con esso Stravinskij abbia voluto sottolineare
la saturazione e la conclusione di un enorme processo di creazione nello
spazio sonoro armonico tradizionale, e il suo passaggio critico a un’epoca di
nuove concezioni.16 Due casi di quel senso di tensione al quale accennavo
sono questi, tratti dalle Danze primaverili nella prima parte e dal preludio
della seconda parte (esempi audio nn. 4 e 5), dove possiamo ascoltare dei
passaggi al limite della dissonanza: ma ce ne sono altri nella partitura; e
questo nonostante, come ha notato Boulez, il linguaggio di Stravinskij, pur
riuscendo qua e là a creare questo stato di tensione, non si discosti troppo
dalla tonalità classica; “Stravinsky fornisce a tutto il vocabolario sonoro una
soluzione con delle complessità innestate sulla vecchia organizzazione; per
questo il suo gesto può prendere un aspetto di timidezza o di dirottamento,

15
Richard Taruskin, Le Sacre du printemps. Le tradizioni russe, la sintesi di Stravinsky
(1996), BMG Ricordi, 2002, pag. 115.
16
Roman Vlad, Igor Stravinskij: La sagra della primavera. RAI Radio 3, Radio 3 Suite.
Speciale Lezioni di musica, 24 aprile 2013.
ora che si conoscono le esperienze fatte a Vienna nella stessa epoca” 17 (il
riferimento è a Schönberg e alle sue ricerche sull’atonalità).
E ora il terzo principio costitutivo, e peculiare, del Sacre du printemps, il
suo punto di forza: il ritmo. Bisogna dire che sulla questione del ritmo non è
che siano proprio tutti d’accordo al cento per cento: capolavoro di scansioni
asimmetriche e di arditissime polimetrie, che per Leonard Bernstein diventa
un regesto di ritmi africani e addirittura evoca una sorta di “jazz preistorico,
elefantino, antico e molto russo” ricordando tuttavia in qualche passaggio
più aereo nientemeno che Duke Ellington18; ma, per contro, “Stravinskij
possiede a un grado minore il senso dello sviluppo, vale a dire del fenomeno
sonoro in rinnovamento costante. Si può forse pensare che questa sia una
debolezza – e in effetti lo è; mi sarà permesso pensare che si tratta, qui, di
uno dei principali punti di partenza di quella forza ritmica che doveva
spiegare per far fronte alla difficoltà di scrivere? Non credo che sia molto
paradossale affermare che con queste coagulazioni orizzontali o verticali,
con questi materiali semplici e facilmente maneggevoli, si poteva tentare un
esperienza ritmica molto più acuta”, scrive Pierre Boulez, che pure dopo la
sua accurata analisi non manca di lodare un potenziale di novità non ancora
esaurito dopo quarant’anni (Stravinsky rimane è stato pubblicato nel 1953,
anche se redatto già due anni prima), sebbene limitato al piano unico del
ritmo19; o “l’apparato del Sacre vorrebbe evocare i ritmi complessi e al
tempo stesso severamente disciplinati di certi riti primitivi (…) Non solo
manca la flessibilità espressiva e soggettiva del tempo musicale, che
Strawinsky ha costantemente irrigidito a cominciare dal Sacre, ma mancano
anche tutte le relazioni ritmiche connesse con la costruzione, con la
compagine compositiva interiore e col «ritmo complessivo» di tutta la
forma”.20 Queste considerazioni, che non mi permetto certo di discutere sul
piano tecnico, sembrano tuttavia non tenere nel giusto conto l’intenzione di
Stravinskij di comporre una musica deliberatamente aggressiva, selvaggia,
di ricreare l’intensità della “violenta primavera russa, che sembra iniziare in
un’ora ed è come se la terra intera si spezzasse”, magari pronto per ottenere
il risultato desiderato a sacrificare qualche finezza, sia questa lo sviluppo del
“fenomeno sonoro in rinnovamento costante” o “la flessibilità espressiva e
soggettiva del tempo musicale” accusati da Boulez e Adorno. Ad ogni modo
Stravinskij ricorre nel Sacre a una serie di accorgimenti ritmici che, intanto,

17
Pierre Boulez, “Stravinsky rimane”, cit., pag. 75.
18
Lo si ascolta in un documentario sulle prove di Le Sacre du printemps con un’orchestra
di giovani a Salzau (1988). In verità Stravinskij, appena sbarcato negli USA, nel 1939
(diverrà cittadino americano nel 1945), non tarderà a correre al Cotton Club ad ascoltare
“quelle magnifiche sinfonie jazz di Ellington”, il quale per contro sarà avvicinato a
Stravinskij e a Ravel per un pezzo del 1929, Hot and Hothered: il compositore russo aveva
scritto Ragtime per undici strumenti nel 1918, Piano Rag Music nel 1919, e nel 1945 vorrà
dedicare alla orchestra di Woody Herman Ebony Concerto.
19
Pierre Boulez. “Stravinsky rimane”, cit., pag. 75 e 130.
20
Theodor W. Adorno, Filosofia della musica moderna, cit., pag. 149.
conferiscono agli strumenti a percussione un’importanza e una visibilità fino
al quel momento sconosciute: si potrebbe dire che in alcuni momenti anche
ad altri strumenti viene sollecitata una sorta di vocazione percussiva (vedi
ad esempio gli archi). Bernstein percepiva nei ritmi del Sacre suggestioni
africane, ma gli strani accenti e le asimmetrie che vi si ascoltano hanno
radici ben piantate, ancora una volta, nel folclore russo-slavo, e, ancora una
volta, la mediazione di Rimskij-Korsakov è palese, lui che cercava senza
successo di trascrivere le filastrocche che gli cantava la tata, metricamente
accessibili solo alla etnomusicologia che Béla Bartók stava “inventando”
proprio in quegli anni (e il musicista ungherese disse del Sacre che era il più
bel saggio di etnomusicologia mai concepito … ).
Uno degli espedienti più incisivi è quello di innestare su una scansione
ritmica regolare alcuni accenti spostati, come sentiamo in questi due esempi
all’inizio rispettivamente dell’episodio degli Áuguri primaverili e di quello
della Danza della terra, al principio e alla fine della prima parte del balletto
(esempi audio nn. 6 e 7): questi accenti spostati, ma anche rinforzati dal
punto di vista timbrico, colgono di sorpresa l’ascoltatore, creano dei lampi
sonori, degli strappi, delle intersezecazioni spaziali (Leonard Bernstein, ai
ragazzi che diresse in un’esecuzione del Sacre nel 1988 – cfr. nota 15 – per
queste battute consigliava di fidarsi più del proprio istinto che della sua
guida: questo getta una luce sulla difficoltà del pezzo, del quale il musicista
statunitense ricordava come esso fosse considerato pressocché ineseguibile
non soltanto al suo esordio, ma ancora fino agli anni Venti e Trenta. A
conferma di questa difficoltà c’è anche un ricordo di Romand Vlad, che
arrivato in Italia dalla nativa Romania nel 1938 per studiare con Alfredo
Casella, fu invitato dal maestro ad assitere ad un’esecuzione del Sacre
diretta da Bernardino Molinari, ma non integrale: l’orchestra non era in
grado di suonare tutta la composizione di Stravinskij. Peraltro per la prima
rappresentazione italiana bisognerà aspettare il 1941, con la messa in scena
coreografata da Aurelio Miloss).
Un altro “trucco” ritmico spaesante usato da Stravinskij appare nel Rito
delle tribù rivali, il quinto episodio della prima parte: qui possiamo notare
due tracce suonate in tempi musicali diversi che scorrono insieme, ognuna
sul suo binario e alla sua velocità (esempio audio n. 8). Apro una parentesi
“pop”: questo frammento ha un pathos che si potrebbe trovare pari pari in
tanti dischi di gruppi industrial, una branca della musica rock sperimentale
degli anni Ottanta, non solo ma soprattutto degli anni Ottanta (se ne avete
occasione, provate ad ascoltare certi pezzi degli inglesi Test Dept. o dei
tedeschi Einstürzende Neubauten); esperimenti sulla combinazione di
diverse velocità di scorrimento saranno uno dei cólti divertimenti di Frank
Zappa - che non a caso di Stravinskij era un grande fan – anche se lui li farà
con operazioni di postproduzione in sala di missaggio; quella di gruppi di
strumenti che suonano nello stesso tempo cose diverse, in condizioni di
assoluta libertà improvvisativa ma certo non di anarchia, sarà l’idea portante
di Free Jazz di Ornette Coleman (1961); e, poiché è venuto fuori il rapporto
fra Stravinskij e il mondo dei cartoons – peraltro non limitato a Fantasia di
Disney, vedi nota 11 -, i più grandi autori di musica per il cinema di
animazione, da Carl Stalling a Scott Bradley a Normand Roger, da
Stravinskij hanno imparato moltissimo sul piano della concezione ritmica e
timbrica. Non si tratta di fare del banale profetismo, di appioppare a
Stravinskij la capacità di aver pensato nel 1913 la musica di decenni dopo,
ma di sottolineare come ha detto Michele Dall’Ongaro che “Il Sacre non
soltanto affonda le sue radici nella musica che gli sta intorno e che lo
precede, ma ha lanciato verso il futuro ami ai quali tanti hanno abboccato”:
“Perché mai tutti pensiamo che il punk sia nato nella seconda metà degli
anni Settanta quando già la Sagra della primavera di Stravinky si era
presentata alle platee con le stesse intenzioni e nelle stesse vesti – e con
risultati anche più deflagranti – già nel 1913 …”21; chiusa la parentesi.
“Uno degli effetti più spettacolari” – dice Dall’Ongaro – “è quello della
scansione dei bit (…) invece che una scansione sempre uguale dall’inizio
alla fine, ci sono delle cose che fanno venire i capelli bianchi a chi deve
suonare”: e a chi deve danzare, come sperimentarono sulla loro pelle tutti i
ballerini di Nijinskij, e in modo particolare Maria Piltz che sosteneva il
ruolo dell’Eletta, la fanciulla protagonista del sacrificio che danza fino alla
morte; i due esempi che seguono (esempi audio nn. 9 e 10) provengono
dalla seconda parte del balletto (episodi della Glorificazione dell’Eletta e
appunto della Danza sacrificale) e ci fanno da ponte per trasbordare il
nostro discorso dalla musica alla danza.

Dal punto di vista della danza, Le Sacre du printemps è prima di tutto un


racconto, la storia entusiamante di un vero e proprio recupero archeologico
e paleografico del balletto. Come abbiamo già visto, lo scandalo provocato
dal Sacre lo fece uscire ben presto dal repertorio (ebbe credo soltanto sei o
sette repliche), nonostante il remake di Léonide Massine (che però, ho già
detto anche questo, era un’altra cosa); dopo di che comincia la serie delle
reinterpretazioni, dei lavori di più o meno grandi coreografi che si sono
voluti cimentare con la musica di Stravinskij (e la maggior parte dei grandi
lo ha fatto) considerandola una sfida tanto impervia quanto stimolante; ha
scritto Romand Vlad, riguardo alle presunte colpe addebitate a Nijinskij per
l’inadeguatezza e/o la sconvenienza della sua coreografia, “Fatto sta che la
potenza di questa musica è tale che nessuna realizzazione scenica riuscirà
mai ad adeguarsi ad essa e sembrerà sempre insufficiente. In realtà la
musica della Sagra trascende di gran lunga il suo iniziale assunto scenico” 22

21
Stefano Isidoro Bianchi, “Musica da consumare”, in Rock e altre contaminazioni. 600
album fondamentali per comprendere l’evoluzione e la storia del rock e delle molte altre
contaminazioni dalle qualiha attinto e alle quali ha dato vita (a cura di Stefano Isidoro
Bianchi), Camucia (AR), Tuttle Edizioni, 2003, pag. 7.
22
Roman Vlad, Strawinsky, cit., pag. 54
(e, si potrebbe aggiungere, la sua concezione sembra contenere una qualità
gestuale che rende l’esecuzione dell’orchestra già qualcosa di coreografico e
di spettacolare, cosa che vale sicuramente per altre partiture sinfoniche, ma
che qui è oltre l’evidenza). Dunque il prototipo di Le sacre du printemps
pareva destinato a rimanere congelato nella vicenda dello scalpore che
aveva scatenato la sua première: senonché negli anni Settanta la coreografa
e storica della danza statunitense Millicent Hodson ha iniziato una serie di
ricerche, con l’aiuto dello storico dell’arte Kenneth Archer, che man mano
si sono tradotte in un vero e proprio progetto di ricostruzione di quel
prototipo. Nel 1987 il Joffrey Ballet di Los Angeles ha rimesso in scena
dopo quasi 75 anni dal suo famigerato debutto Le Sacre du printemps di
Vaslav Nijinskij. O no?
Se la musica di Stravinskij è arrivata fino a noi, esecuzione dopo
esecuzione, e comunque scritta sugli spartiti23, la parte coreografica del
Sacre “esuberata” dai repertori, e mancando all’epoca per la danza precise
tecniche di notazione, è stata di fatto consegnata all’oblìo; ne sarà certo
perdurata memoria in chi ebbe l’occasione di vederla dal vivo, e sono
rimasti alcuni documenti a partire dai quali è cominciato il lavoro di ricerca
e di recupero di Hodson e Archer (fra parentesi, il buon esito di questa
lodevole iniziativa ha convinto i due a dare vita a una sorta di “Società
Recupero Balletti” che ha ormai al suo attivo diversi altri salvataggi). Questi
documenti sono, prima di tutto, di natura iconografica, come vi mostro in
questa serie di diapositive (slides nn. 4-12): vi sono i bozzetti di Roerich per
le scenografie (in realtà si tratta di semplici fondali) e i costumi, costumi
stessi che si sono conservati, alcuni disegni presi in diretta da artisti come la
pittrice Valentine Gross o il vignettista e illustratore Emmanuel Barcet,
qualche “foto di scena”; un po’ pochino. Ma per fortuna i nostri ricercatori
hanno potuto contare sulla voce di una teste più che diretta, nientemeno
quella di Marie Rambert, colei che Diaghilev decise di affiancare a Nijinskij
per aiutarlo a districarsi nella infernale partitura di Stravinskij, colei che fu
soprannominata dai danzatori “Ritmichka” e le cui collaborazioni alle prove
presero ad essere indicate dal corpo di ballo come “lezioni di aritmetica”,
colei che oltre all’impagabile apporto tecnico riuscì anche a fare da
cuscinetto tra il nervosissimo Nijinskij e i ballerini perplessi, risentiti, sfiniti
dalle difficoltà. Purtroppo la Rambert, scomparsa nel 1982, non ha fatto in
tempo a godere dei frutti del suo preziosissimo aiuto. 24 Secondo il parere
dello storico della danza Alberto Testa, il lavoro di Millecent Hodson e
23
Per quanto, dice Roman Vlad, tuttora pieni di errori e lacune, mancando un’edizione
critica e a causa del fatto che Stravinskij continuò a rimaneggiare il Sacre – soprattutto il
finale, del quale esistono quattro o cinque diverse versioni – per tutta la vita.
24
Nijinskij nel 1919, prima che gli fosse diagnosticata una schizofrenia che trasformò la sua
vita in un andirivieni fra ospedali psichiatrici che durò fino alla morte (1950), scrisse un
diario nel quale è dato ampio spazio alle sue vicende private (tanto che esso fu più volte
pubblicato in forma censurata dalla moglie, prima di uscire in versione integrale – in Italia
per Adelphi, vedi bibliografia), ma pochissimo a quelle artistiche.
Kenneth Archer riesce a restituire il clima, il pathos dell’originale ed anche
l’aderenza della parte coreutica alla musica: il resto è una questione di
dettagli e di cultura del corpo, la sensibilità e il rapporto con il proprio corpo
di un danzatore degli anni Ottanta essendo sicuramente diversi da quelli di
un danzatore dei primi decenni del secolo.
Nijinskij, come abbiamo visto, non era alla sua prima prova coreografica
per i Ballets Russes quando dovette affrontare il Sacre; anche nelle sue due
altre creazioni, L’Aprés-midi d’un faune e Jeux, aveva un po’ sparigliato le
carte muovendo verso una liberazione dallo stretto accademismo – del resto
già propugnata dal coreografo ufficiale di Diaghilev, Fokine. In particolare
nel Faune Nijinskij elaborò un impianto geometrico ispirato ai bassorilievi e
alle pitture vascolari dell’antica Grecia (il balletto era tratto dalla egloga di
Stéphane Mallarmé), “un’opera tutta spigoli ma anche condotta su uno
schema scultoreo abbastanza originale ed audace”25, forse influenzato dalle
teorie teatrali di Vsevolod Mejerhol’d, che in quegli anni proponeva in
opposizione al teatro naturalista una sintesi centrata sul movimento degli
attori, un’idea di bellezza e musicalità plastica suscitata in parte proprio
dalla figuralità delle pitture vascolari, dei bassorilievi e degli affreschi
antichi, con un occhio ai trattati sulla danza del Quattrocento italiano
(incrocio piuttosto interessante … ). Ma nel Sacre il vocabolario della danza
letteralmente esplode. Nijinskij si concentra prima di tutto sulla Danza
dell’Eletta, cioè comincia dalla fine: imposta una posizione di base per la
solista che poi estenderà a tutto quanto il balletto: “I piedi erano rivolti in
dentro, le ginocchia erano piegate e si toccavano l’un l’altra, la testa era
inclinata di lato, la rotazione del busto dava alle spalle una posizione
asimmetrica, il torace era curvo e il petto infossato, le dita delle mani erano
serrate l’una contro l’altra o chiuse a pugno e le braccia erano spesso tenute
davanti al petto”.26 Nijinskij doveva esporre ai ballerini le movenze, i passi e
i gesti in modo del tutto empirico, non avendo questi nessun rapporto con la
terminologia convenzionale della danza accademica; era qualcosa che egli
stava inventando sul momento, e la sola condotta possibile di fatto era
quella di mostrare ai danzatori quel che si doveva fare e domandare loro di
imitarlo alla perfezione. I danzatori erano sfibrati da un sistema di lavoro
inusitato; Stravinskij, quando presenziava al lavoro di Nijinskij, era
scandalizzato dalla sua – presunta – ignoranza della tecnica musicale, e
quando si provava a rallentare un po’ la velocità di esecuzione per aiutare la
compagnia a prendere confidenza con la sua complessa macchina ritmica, si
sedeva al pianoforte e la aumentava, sparando come un invasato una sorta di
“terapia d’urto”; Nijinskij pensava che il compositore, anziché pretendere di
dargli lezioni di musica, avrebbe fatto cosa assai più utile agevolando la
comprensione di quella musica, cioè a penetrare l’intimo della partitura del
Sacre. Comunque sia, in capo a qualcosa come 120 prove, la coreografia fu
25
Alberto Testa, Storia della danza e del balletto, Roma, Gremese Editore, 1988, pag. 95.
26
Ada D’Adamo, Danzare il rito, cit., pag. 47.
pronta: Nijinskij aveva tradotto i ritmi barbarici della musica di Stravinskij e
le suggestioni ancestrali della scrittura concettuale e scenica di Roerich in
uno schiaffo alla concezione corrente della danza; la postura imposta ai
danzatori, lungi dall’aprire i loro corpi alla più ampia gamma di movimenti
e all’eleganza dello slancio, ne comprimeva il baricentro costringendoli
quasi a ripiegarsi su sé stessi: “Il riusltato finale conferisce al corpo un
aspetto di chiusura su sé stesso, quasi di mortificazione”.27
Ora vorrei mostrarvi, a titolo d’esempio, l’inizio e la fine del balletto (per
chi fosse interessato, questo si può vedere integralmente senza problemi
perfino su youtube, e io lo consiglio vivamente): vorrei anche pregarvi di
mettervi nei panni del pubblico del 1913, un pubblico educato agli spettacoli
moderni, originali e innovativi, ma a modo loro pur sempre “classici” dei
Ballets Russes, un pubblico che aveva visto Nijinskij dar prova della sua
leggendaria eleganza ed elevazione nelle coreografie di Fokine, e nella sua
stessa creazione, l’Après-midi d’un faune soltanto un anno prima; questo
pubblico, che già durante il preludio musicale aveva cominciato ad esibire le
proprie perplessità (Stravinskij se ne andò quasi subito dietro le quinte ad
assistere alla costernazione del povero Nijinskij, in piedi sulla famosa sedia
a urlare il conteggio dei passi ai ballerini), che al sollevarsi del sipario si
trovò ad assistere a quanto segue (esempio video n. 1); mentre alla fine, in
barba a ogni regola di esibizione del virtuosismo dell’étoile, fu bombardato
dalla performance di Maria Piltz (esempio video n. 2), una lunga e disperata
sequenza di movimenti strappati davvero a qualche ipotetica antica opera
figurativa, eppure intonati al tempo presente più di quanto non si sia
pensato, e come invece intuì il giornalista e critico musicale statunitense
Paul Rosenfeld collegando il Sacre all’opera che Stravinkij aveva realizzato
per Diaghilev nel 1911, Petruška: “Benché nella Sagra non compaia nessun
automa e la partitura non abbia i movimenti iterativi dell’opera precedente,
anche qui un’atmosfera cupa e feroce ci cala in un ordine meccanicistico
delle cose”.28
Con questa citazione esco dalla analisi estetica del Sacre du printemps e
mi avvio a concludere il mio intervento tornando all’inizio, per incastonare
quest’opera d’arte nel clima culturale, sociale e politico della sua epoca, ma
anche per proiettarla nella nostra epoca, ove si manifesta la sua straordinaria
attualità.

27
Ada D’Adamo, ibidem, pag. 49.
28
Paul Rosenfeld, Discoveries of a Music Critic (1936): io ho tratto la citazione da Evan
Einsenberg, L’angelo con il fonografo. Musica, dischi e cultura da Aristotele a Zappa,
Torino, Instar Libri, 1997, pag. 316. Petrušhka è ambientato nel mondo delle marionette, in
quegli anni peraltro molto corteggiato sul piano della riflessione teorica teatrale: un nome
per tutti, quello di Edward Gordon Craig, che nel 1908 pubblicò il famoso testo L’attore e
la super-marionetta, nel quale si auspica una liberazione del corpo dai suoi limiti grazie a
una specie di sintesi fra la mediazione della maschera del teatro antico e la flessibilità, la
grazia scevra da affettazioni e psicologismi dei pupazzi di legno (già incensata da Heinrich
von Kleist in un testo altrettanto celebre, Sul teatro di marionette, un secolo prima)
Anche Theodor Adorno, parlando di Le sacre du printemps nel suo libro
Filosofia della musica moderna, metteva a fuoco il punto di contatto con
Petruška, anche se in termini molto più polemici: “Nonostante tutto il
contrasto stilistico tra il primo balletto, ammannito gastronomicamente, e
l’altro, così tumultuoso, entrambi hanno in comune il nucleo, il sacrificio
antiumanistico alla collettività: sacrificio senza tragicità, immolato non
all’immagine nascente dell’uomo, ma alla cieca convalida di una condizione
che la vittima stessa riconosce, sia con l’autoderisione che con
l’autoestinzione. Questo motivo, che determina totalmente la condotta della
musica, lascia l’involucro giocoso del Petruška per presentarsi nel Sacre
con una gravità sanguinosa. Appartiene agli anni in cui si incominciavano a
chiamare «primitivi» i selvaggi, alla sfera di Fraser (sic) e di Lévy-Brhul, e
anche a quella del Totem e Tabù”.29 E Roman Vlad, a sua volta riprenderà la
medesima osservazione: “In Petruška il tragico simbolo dell’annichilimento
dei valori individuali nella società di massa era attutito dall’apparenza di
giuoco. Qui esso si presenta nel modo più diretto e con sanguinosa crudeltà.
A rendere più tragica l’abolizione del soggetto davanti alla collettività è il
motivo del volontario autoannientamento, della autoestinzione”. 30 Tutti e
due questi autorevoli commentatori del Sacre vi rilevano una qualità quasi
profetica, nel presentire e nel far risuonare lo strepito della guerra incipiente,
anche se per Adorno resta una sorta di distacco autocontemplativo, mentre,
secondo Vlad, Stravinskij e Roerich avrebbero davvero come sentito l’alito
di una barbarie che stava per “mettere tra parentesi” millenni di una civiltà
eretta sui fondamenti dell’antichità classica e del Cristianesimo; paradosso,
giacché questa barbarie veniva propiziata dal progresso della fase estrema di
quella civiltà, quella consacrata alla ragione, alla tecnologia. Dunque niente
di strano se, per stigmatizzare l’avvento della nuova barbarie, gli autori del
Sacre pensarono di far ricorso al linguaggio di un’evocazione archeologica e
mitica. Insomma, il Sacre sembra veramente partecipare di quel “ritorno
monumentale e impietrito dei secoli” – o per dirla più acidamente con le
parole di Adorno di una spinta a “fuggire nel fantasma della natura” dove “i
nervi estetici vibrano dal desiderio di regredire all’età della pietra” – che era
implicito nella poesia di Eliot o nella filosofia della storia di Spengler; come
a dire, barbarie per barbarie, coltivare almeno l’illusione di non essere
sopraffatti dai mostri generati, non dal sonno, dall’insonnia semmai, della
ragione. Un’opera d’arte non è mai fine a sé stessa, e men che meno lo sarà
un’opera come il Sacre nata in un’epoca di transizione, con gli ultimi
bagliori della Belle Epoque (di solito considerata chiusa nel 1914, allo
scoppio della Grande Guerra) sfumati nelle prime euforie di una nuova età
che moltiplica le vie di fuga dello sguardo e del pensiero, euforie genuine e
vitalissime ma ancora confuse, come registrerà la loro avanguardia artistica
29
Theodor Adorno, Filosofia della musica moderna, cit., pag.g. 141-142.
30
Romand Vlad, Strawinsky, cit., pag. 54.
per antonomasia, il Futurismo. Gli uomini forgiano lo spazio e il tempo che
abitano soprattutto attraverso le loro espressioni artistiche, capaci di dare
una forma simbolica all’informe che li circonda: per questo Spengler
denunciava i limiti della ricerca storica concentrata sulle relazioni di causa-
effetto come l’abbaglio scientifico di un mondo condannato al nichilismo e,
quindi, a un declino privo di possibilità di riscatto; al contrario, auspicava
un rapporto di stretta collaborazione fra storia ed estetica, in quanto il
destino di una civiltà è visibile soprattutto nelle sue opere, ovvero nella sua
capacità di articolare le forme simboliche del proprio abitare il mondo.31
Ecco peché Le sacre du printemps è un’opera che può ancora dirci molto sul
proprio tempo, ma anche sul nostro presente. Nella nota 3 di questo scritto
ho ricordato il lavoro del coreografo brasiliano Ismael Ivo, che ha fuso
insieme Le sacre du printemps con The Waste Land di Eliot sotto l’ombra di
una domanda tanto inquietante quanto ovvia, in virtù del progressivo
danneggimento al quale sottoponiamo il nostro pianeta rischiando di farlo
diventare proprio una gigantesca “terra desolata”: siamo sicuri che arriverà
la prossima primavera? Di fronte alla pletora di sempre nuove coreografie
ispirate dalla musica di Stravinskij, fra le quali quelle di mostri sacri come
Maurice Béjart (1959: “una Primavera senza sacrificio”), Pina Bausch
(1975: coscienza di una “vittima ribelle”), Martha Graham (1984: un “rito
sciamanico”)32; per non dire di alcune versioni quanto meno pittoresche, può
sorgere il dubbio che il vizio della “interpretazione” – ovviamente in sé del
31
Stefano Zecchi, L’artista armato. Contro i crimini della modernità, Milano, Mondadori,
1998, pag. 92.
32
I virgolettati sono i titoli dati da Ada D’Adamo ai capitoli del suo libro citato, Danzare il
rito, dedicati alle opere in questione. Vorrei spendere qui una parola di stima per il lavoro
di Pina Bausch, fra quelli di cui ho preso visione il più convincente. Come abbiamo visto
Ada D’Adamo si rifersice all’Eletta come ad una “vittima ribelle”, e l’interpretazione del
Sacre di Pina Bausch in chiave “femminista” in effetti ricorre: ma per me è quasi una
banalizzazione. L’intero balletto assegna alle donne una serie di movimenti nei quali si
esprime la forza del legame con la terra, la coscienza dell’essere contenitore della fecondità,
e il tutto assume un carattere di potente ambivalenza; come nelle eroine tragiche del teatro
greco, o nella sterile Yerma di Federico Garcia Lorca, agisce nel corpo e nell’intelligenza di
queste donne la consapevolezza di abitare senza appello il confine tra paura ed orgoglio, tra
sudditanza ed emancipazione (l’emancipazione simbolica di uno sguardo, di un gesto, di
una voce), e, per quel che riguarda la fecondità, tra dono e condanna. C’è qui un pathos
mediterraneo che fa pensare alle considerazioni di Ernesto De Martino sul rito del
tarantismo, del quale vide le ultimissime manifestazioni nella sua celebre ricerca degli anni
Cinquanta: “La terra del rimorso è, in senso stretto, la Puglia in quanto area elettiva del
tarantismo, cioè di un fenomeno storico-religioso nato nel Medioevo e protrattosi sino al
‘700 e oltre (…) In un senso più ampio la terra del rimorso, cioè la terra del cattivo passato
che ritorna e rigurgita e opprime col suo rigurgito, è l’Italia meridionale, o più esattamente
le campagne di quel che fu l’antico Regno di Napoli, di quel Regno che stretto fra lo Stato
pontificio e il mare suggerì a un suo re l’immagine di una terra protetta dalla storia”
(Ernesto De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud
(1961), Milano, Il Saggiatore, 2008, pag. 35). Ecco, questa “immagine di una terra protetta
dalla storia” potrebbe essere una chiave per entrare nella forza espressiva del Sacre e delle
altre opere che qui vi sono state accomunate.
tutto legittimo, nel campo dell’arte – abbia preso il sopravvento sulla
capacità di ascoltare un’opera avvinghiata al proprio tempo, ma capace di
oltrepassarlo sulla spinta della forza originaria; dicevo, di fronte a questo,
l’idea di Ismael Ivo appare quasi come un atto di umiltà dichiarata e di
deliberato ripiegamento in difesa, e al medesimo momento un abbeverarsi
alla fonte. Un gesto che trasforma Le Sacre du printemps in quel che
probabilmente, nel bene e nel male, è, come in fondo è anche The Waste
Land, una sorta di mito moderno; quel che lo stesso Roerich in fondo
voleva, se è vero che pensava al balletto non come alla rappresentazione di
un rito ma a un rito vero e proprio, la riproduzione di un evento antico che
facesse a meno del ricorso a un soggetto drammatico normalmente inteso.
Accanto a questa waste land prossima ventura, chiamo a suggellare una
volta di più il valore odierno del Sacre una sua ri-memorazione freschissima
di debutto, che fra l’altro è stata creata da un artista di teatro che ho l’onore
di conoscere di persona, Romeo Castellucci. In questo caso la tesi di Roman
Vlad che nessuna messa in scena è all’altezza della musica di Stravinskij è
stata presa alla lettera: non ci sono danzatori nel Sacre di Castellucci, ma
una danza di polvere, polvere di ossa per la precisione, che si ricava dagli
scheletri degli animali uccisi per essere utilizzata come ingrediente nella
produzione di tinture, oppure come fertilizzante. Ecco una cosa che sarebbe
stata benissimo tra i versi del Waste Land, laddove Eliot mette in parodia gli
antichi simboli della fertilità per raccontare la sterilità del suo tempo come
meglio non potrebbe; ecco un bel segno della perdita di capacità simboliche
dell’uomo moderno, la scomparsa del sacrificio, un’asettica impalpabile
polvere bianca al posto del sangue e del suo colore e del suo odore irritanti.
Una scomparsa soltanto apparente, giacchè il sacrificio “cruento” (anche
artistico: il “Teatro delle Orge e dei Misteri” di Hermann Nitsch, con
l’uccisione e lo scuoiamento di animali) è profilatticamente confinato nelle
grandi fabbriche del macello, lontano dal campo visivo, uditivo e olfattivo: i
simboli vengono polverizzati, non resta che la loro traccia di assenza, come
in certe opere di Claudio Parmiggiani (slide n. 13), e una nebbia instabile e
indecifrabile al di sotto della quale, forse, davvero, si sta consumando il
tramonto dell’Occidente.

5 aprile – 10 maggio 2013

Nota.

Appena ho cominciato lo studio per approntare questa conferenza mi sono imbattuto in


quella che non esito a chiamare la giungla delle traslitterazioni, mi riferisco, è chiaro, ai
nomi russi: per ciascun nome ne ho scelta una, direi quasi a simpatia, e sono andato avanti
con quella; naturalmente ho conservato le trascrizioni osservate dai vari autori nel caso di
citazioni letterali dai loro testi.
Bibliografia.

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Roman Vlad, Strawinsky, Torino, Einaudi, 1973 (nuova edizione, prima
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Alessandro Zignani, Manuale di sopravvivenza per il musicista classico,
Varese, Zecchini Editore, 2006

Filmografia.

Carte blanche á Angelin Preljocaj. Le Sacre du printemps


Produzione: ARTE France –La Maison de la Danse de Lyon – Les Films
Pénélope
Regia: Denis Caïozzi
Col., 46 minuti ca., 2004

Igor Stravinsky. Le Sacre du printemps (1913). London Symphony


Orchestra, conductor Pierre Boulez
Produzione: RM Arts Production, in associazione con Media Investiment
Club (Media Programme of the European Communitie) – NOS – Alte Oper
Frankfurt
Col., 46 min. ca., 1993

Le grands ballets revisités. Le Sacre du printemps – Danse Sacre: Vaslav


Nijinski – Millicent Hodson – Pina Bausch – Angelin Preljocaj – Tero
Saarinen
Produzione: ARTE France – Telmondis
Col., 26 minuti ca.

Leonard Bernstein a Salzau. Prove d’orchestra: La sagra della primavera


di Stravinskij
Produzione: Unitel
Col., 56 min. ca., 1988

Le Sacre du printemps. Ein ballet von Maurice Béjart


Produzione: Artium Summa, Brüssel – Zweiten Deutschen Fernsehen –
Österreichichen Rundfunk Fernsehen
Col., 33 min. ca., 1970

Le Sacre du printemps. Festival “Les nuits blanches de Saint-


Pétersbourg”. Orchestre et Ballet du Théâtre Mariinsky, direction
artistique et musicale Valery Gergiev
Produzione: Bel Air Media – ARTE France – Teatro Mariinsky
Regia: Denis Caïozzi
Col., 42 min. ca., 2008

Le Sacre du printemps. Tanztheater Wuppertal, coreografia di Pina Bausch


Produzione: ZDF
Regia: Pit Weyrich
Col., 35 min. ca., 1978

Riot at the Rite


Produzione: BBC
Regia: Andy Wilson
Col., 90 min. ca., 2005

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