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FuturDalla
Parolibere, enarmonie, fisicofollie in Automobili di Lucio Dalla e Roberto Roversi

Questo piccolo saggio nasce da un’intuizione, che a sua volta sgorga da una circostanza del tutto
occasionale: un ascolto dell’album Automobili di Lucio Dalla (1976) probabilmente più attento del
solito durante un passaggio in macchina sulla porzione della strada provinciale che collega Cervia a
Forlì e che, appena fuori dalla cittadina costiera, passa all’interno dell’antica salina Camillona (il
dettaglio non è accessorio: tale luogo, del quale sono innamorato, mi ha fornito ispirazione diverse
volte). Che da quel disco possa affiorare qualche suggestione significativamente associabile alla più
importante avanguardia artistica italiana non è caso da far gridare al miracolo: basterebbero i pochi
minuti della prima traccia, Intervista con l’avvocato, per non parlare dei brani dedicati alla Mille
Miglia e a Tazio Nuvolari, o dei primi versi di Il motore del duemila che paiono voler evocare
deliberatamente l’infatuazione iconica di Marinetti & Co. per le moderne vetture, più belle “della
Vittoria di Samotracia” come sentenziava appunto il buon Filippo Tommaso. Da qui a pensare di
elevare la suggestione a materia per un trattato, per quanto modesto e succinto, ne passa; io ci ho
voluto provare.
Il proposito è in realtà assai semplice: studiare con cura l’album in questione (ma anche i due
precedenti, che hanno con esso una linea di continuità tematica imperniata sul lavoro a quattro mani
di Dalla con il poeta suo concittadino Roberto Roversi) per trovarvi dentro elementi riconducibili
tanto alla poetica quanto all’estetica Futuriste, in relazione sia alla parte testuale che a quella
musicale, che a quella performativa; elementi riconducibili non in senso generico ed epidermico,
ma con riferimenti precisi ai dettami e ai paradigmi delle tavole della legge del Futurismo, i celebri
manifesti (che secondo non pochi esegeti sarebbero le cose migliori prodotte dal movimento).
Il titolo è un gioco di parole, direi non irresistibile ma abbastanza centrato, basato su un modo di
firmarsi di una delle più brillanti menti Futuriste, Giacomo Balla, che siglava le proprie opere sia
col nome per esteso sia col solo cognome, sia con gli epiteti Balla Futurista o FuturBalla. Che Lucio
Dalla sia stato una mente brillante nel campo della musica pop, italiana e non solo, è fuor di dubbio;
come lo è il fatto che abbia saputo creare spesso proficue aperture della sua musica a intuizioni
intermediali, spolverandola con intelligenza con lo zucchero a velo delle proprie passioni per l’arte
e per il cinema. Non sarà stato propriamente un musicista d’avanguardia, ma i suoi bei esperimenti
li ha fatti – di sicuro nei dischi succitati, piuttosto eccentrici nel panorama della musica pop italiana
a essi contemporanea – e ha dimostrato per anni di saper guardare sempre avanti, non riposare sugli
allori, approfittare della sua celebrata “non specializzazione” per non avere pregiudizi (motivo per
cui da un certo momento in avanti diversi suoi lavori verranno considerati troppo di cassetta e non
all’altezza del passato) e tenere le orecchie sintonizzate su quel che la musica proponeva fuori dai
confini nazionali (in questo forse più scaltro dei Futuristi, i quali si appagarono talvolta – non
sempre e non tutti - delle proprie provocazioni distraendosi un po’ dai terremoti musicali che
scuotevano l’Europa degli anni Dieci e Venti del Novecento).
Grazie a quella che si può considerare a tutti gli effetti una trilogia, costituita dagli album Il
giorno aveva cinque teste (1973), Anidride solforosa (1975) e appunto Automobili (1976) – ma che
avrebbe potuto estendersi a ulteriori lavori se alcune frizioni già attive ma fino a un certo punto
relativamente controllate tra Dalla e Roversi non li avessero indotti a interrompere la collaborazione
– Lucio Dalla riuscì a emanciparsi da una forma di canzone ritenuta troppo conformista e limitativa,
benché gli avesse aperto le porte del successo (4/3/1943, Piazza Grande), e ad avviarsi verso una
ricerca personale che, in virtù di quanto assorbito dal rapporto con Roversi, darà subito frutti con il
primo LP scritto tutto da solo, musica e testi, Com’è profondo il mare (1977). Da lì in poi per il
cantautore bolognese le affermazioni non si contano, ma al tempo stesso è evidente come egli tenti
di mantenere fede al principio di non ripetersi uguale a se stesso, di non fare canzoni con la carta
carbone e di intravedere sempre la possibilità di spiazzare il pubblico, non per il gusto di farlo ma
per il desiderio sincero di offrire, e di offrirsi, cose nuove. Avrà modo di ribadire ogni tanto certe
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forme di funambolismo, che ben potrebbero rivendicare blasoni nella prassi artistica e comunicativa
Futurista, senza farsene risucchiare come vorrebbero imitatori da strapazzo che hanno continuato
per anni a basare le loro scimmiottature su atteggiamenti che, da anni, l’ autentico aveva dismesso.
Ma un immaginario FuturDalla, per quanto mi riguarda, è legato a quel periodo, a quella trilogia, a
Automobili in particolare: nelle prossime pagine cercherò di dimostrare perché.

Premessa.

È utile prima di inoltrarci nel discorso fare una premessa: il raffronto degli album succitati con il
movimento Futurista sarà come detto di natura poetica ed estetica, non riguarderà assunti ideologici
e politici. La cosa va detta poiché quei dischi, innanzitutto sul piano tematico, sono dischi “politici”,
nel loro intento di prendere posizione a proposito della presenza già molto ingombrante, all’epoca,
della cultura automobilistica, di un immaginario di riferimento e di considerevoli ricadute sociali e
ambientali: non si tratta di un punto di vista ecologista in senso stretto, l’orizzonte di Roberto
Roversi è assai più ampio e circostanziato, si estende alle pieghe e contropieghe disseminate dalla
mutazione antropologica degli anni del boom economico, e non può inoltre non tenere conto del
contesto storico in cui si trova coinvolto, quello degli “anni di piombo” e dell’anticamera temporale
al famigerato ’77 bolognese.
La qualità politica dei testi di Roversi peraltro si riverbera nel lavoro musicale di Dalla: più
sopra ho definito la trilogia Dalla-Roversi come eccentrica rispetto alla musica pop che si faceva in
Italia in quel tempo; sarebbe stato più opportuno dire rispetto alla coeva “musica leggera” italiana,
dacché allora da noi il concetto di pop, popular nell’accezione anglosassone, musicologicamente
parlando più esatto e pertinente, era assai poco – per non dire per nulla - in uso, e dacché l’ambito di
riferimento di Dalla era quello appunto della cosiddetta “musica leggera”. In realtà negli anni della
trilogia, anno più anno meno, nel nostro paese c’era molta musica eccentrica: c’era il progressive,
c’era la fucina padana dalla quale emersero i primi lavori di Eugenio Finardi, Alberto Camerini,
Ivan Cattaneo, c’erano gli Area e Demetrio Stratos, c’era il rock demenziale degli Skiantos o dei
Gaznevada, c’era la prima opera rock non in lingua inglese – Orfeo 9 di Tito Schipa Jr. -, c’erano i
dischi sperimentali di Franco Battiato, c’era l’etichetta discografica Cramps di Gianni Sassi che
pubblicava nello stesso catalogo Area e John Cage, Arti e Mestieri e Gruppo d’improvvisazione
Nuova Consonanza, Lucio Fabbri e David Tudor. Guardando a questo contesto, lontano dal palco di
San Remo, dagli studi di Canzonissima ma anche da molte fra le radio libere che cominciavano a
pullulare (che non erano certo tutte Radio Alice), la trilogia si presenta molto meno anomala, e anzi
potremmo dire che già vi si può cogliere una qual certa attenzione di Lucio Dalla per quella che una
nota definizione più o meno di quell’era chiamò “musica da non consumare” (Franco Bolelli). Poi
Dalla ci terrà a sottolineare il fatto che le proprietà intrinseche di quei dischi avevano aperto un
problema anche di come porgere le loro canzoni nei concerti, di come provare a tenere a distanza il
rischio di diventare una specie di “messia” (temine suo), inattaccabile sia dal pubblico diciamo
politicamente avvertito che da quello ordinario abituato a applaudire qualsiasi cosa purché
proveniente da un cantante di grido (poi in realtà le critiche ci saranno eccome però, dirà lui stesso,
piuttosto fini a se stesse).
A ogni modo, da un punto di vista ideologico, Automobili e la trilogia nel suo insieme non hanno
molto a che fare con l’entusiasmo Futurista per i motori, la velocità, il dinamismo, il pericolo, il
progresso, la vita frenetica della città e via dicendo: anzi, una delle questioni centrali che vi
vengono trattate riguarda niente meno che il destino dell’automobile, che nelle parole di Roversi è
considerata in crisi profonda e senza futuro (cfr. Intervista con l’avvocato). Vero è che nelle
canzoni dedicate alla Mille Miglia e a Nuvolari sembrano invece aleggiare una vera e propria epica
automobilistica e un’apologia della corsa, del coraggio e della follia dei grandi campioni (Nuvolari
in primis, ma non solo lui) al volante di macchine che paiono quasi mostri mitologici divoranti il
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paesaggio che attraversano; ma è chiaro che l’epica sconfina nella elegia per un tempo nel quale
certi uomini, al contrario di quanto talora auspicato dai Futuristi, ben lungi dal farsi travolgere o
addomesticare dalla potenza e dal fascino dei motori, erano capaci di ammaestrarli come appunto si
ammaestrerebbe una creatura selvaggia e imprevedibile.
Dunque, andiamo a incominciare.

L’incontro tra Lucio Dalla e Roberto Roversi.

Per certi versi è difficile capire come a qualcuno possa essere venuto in mente di suggerire a
Lucio Dalla di mettersi in contatto con Roberto Roversi, poeta e libraio suo concittadino, allorché
dopo il successo di 4/3/1943 al festival di San Remo del 1971 (terzo posto nella competizione, ma
in seguito eccellenti riscontri di vendita e non soltanto in Italia) e poi di altre canzoni quali Piazza
Grande o La casa in riva al mare egli vive una crisi di insofferenza e insoddisfazione proprio a
causa di quel tipo di successo che il pubblico gli tributa in modo immediato e, come si direbbe oggi,
di pancia. Dalla, fin dall’inizio della sua carriera aveva ambizioni un po’ al di là di quella di poter
vivere di musica e di canzoni: a metà degli anni Sessanta ad esempio è con Luigi Tenco, conosciuto
a Roma, e ad altri emergenti della scena musicale, firmatario di un manifesto programmatico per
una nuova canzone; e le sue prime proposte, che su un piano strettamente musicale potrebbero
rientrare nella cotê beat dell’epoca, si fanno tuttavia notare per la singolarità dell’interpretazione. A
ogni modo quel qualcuno c’è, il produttore discografico Renzo Cremonini, e Dalla, benché
consideri strana l’idea, la prende in considerazione. Come del resto lo stesso Roversi, il quale senza
battere ciglio comincia a buttare giù dei versi che colpiscono Dalla per la loro originalità e la loro
carica sperimentale, ma anche lo disorientano (stiamo pur sempre parlando della prospettiva di chi
poi quelle parole dovrà musicarle e cantarle); dirà il musicista che a levare il tappo delle perplessità
fu il verso “Nevica sulla mia mano” (La canzone d’Orlando).
Al principio degli anni Settanta Roversi ha da poco concluso quello che molti considerano uno
dei suoi risultati poetici più alti, al di là della bontà intrinseca dei testi soprattutto per la tenacia e
l’inflessibilità con cui è stato portato a compimento: si tratta della serie completa delle Descrizioni
in atto, quarantasei brani di cronaca e riflessione politica che rappresentano una chiave di lettura
nuova ma complementare rispetto alla sua opera poetica precedente, pubblicati come ciclostilati da
mandare a persone scelte e rifiutati a ogni circuito editoriale.
L’opera poetica precedente è soprattutto quella legata alla partecipazione, insieme a Pier Paolo
Pasolini e Francesco Leonetti (poi anche a Franco Fortini, Angelo Romanò e Gianni Scalia) alla
redazione della rivista Officina, negli anni dal 1955 al 1958 e poi per una breve ripresa nel 1959:
anche se a quella data Roversi aveva già pubblicato più raccolte a partire dalle Poesie del 1942. La
rivista assume una posizione polemica nei confronti della poesia novecentesca legata alla purezza
formale dell’Ermetismo, accampando la bontà di una tradizione diversa, più terragna. Negli anni di
Officina Roversi scrive i testi che, apparsi parzialmente già sulle sue pagine, confluiranno poi nel
poemetto Dopo Campoformio (1962): un lavoro che, secondo Giovanni Raboni, potrebbe essere
avvicinato ma non assimilato a forme di romanzo in versi coeve (ad esempio di Elio Pagliarani), e
che trova punti di contatto tematico e ideologico con il Pasolini di Le ceneri di Gramsci; benché
Roversi appaia più diretto, addirittura manicheo nel raffronto tra la città che avanza e le campagne
che vengono abbandonate, presidi e rifugio queste di una residua autenticità di gesti e sentimenti,
luogo di massima concentrazione dei simboli della deformazione capitalistica la prima (in realtà, a
quanto mi risulta, fu proprio Pasolini a essere fortemente criticato, e non da pochi, per la sua, vera o
presunta che fosse, acritica idealizzazione del mondo contadino).
Oltre l’esperienza di Officina la poetica di Roversi subisce una svolta, nelle citate Descrizioni in
atto: se in Dopo Campoformio agisce la dialettica tra un polo positivo e uno negativo, e nel suo
agire determina scarti tra immagini elegiache e immagini ipertese (Raboni), ora uno dei due poli è
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ormai scomparso e ciò induce per un verso a una maggiore compattezza e per un altro a una sorta di
convulsione nervosa dell’espressione e del suo lessico, monotoni e violenti allo stesso tempo.
Questo sul versante formale. Ma qui forma e metodo sono tra loro intrecciati, ed è lo stesso
Roversi a sottolineare la necessità di dover tenere insieme la deflagrazione del proprio furore civile
con la compensazione di una razionalità, in una sintesi da lui stesso definita come “il fuoco della
ragione (superstite)”. Egli ha già lanciato il gran rifiuto verso l’istituzionalità culturale con i suoi
ciclostilati delle Descrizioni in atto, ma l’ambito delle neo-.avanguardie assai attive in quegli anni
non è degnato di miglior considerazione: in quanto in esse Roversi avverte un negativismo troppo
semplicistico e chiari sintomi di auto-referenzialità, mentre lui sente la necessità che la coscienza,
per quanto lacerata, non perda mai la vigilanza, la propria presenza sul campo. Questa equidistanza
Roversi la paga col rischio di slittare verso una resa o, paradossalmente, di arroccarsi in una torre
d’avorio dalla quale contemplare i fatti con un’impazienza inconciliabile coi tempi dei processi
della politica. Le Descrizioni in atto sono state viste come un momento di soluzione della tensione
tra il “furore sovrappassionato” e la “ragione irrisolutiva” che Roversi travasa in una nuova formula
dove il furore sublima in irrinunciabilità della ricerca di una verità interiore profonda, e la ragione
diventa il raggio d’azione della cognizione più lucida possibile del senso doloroso dell’esperienza,
in un circolo di reciproca alimentazione (Giuseppe Zagarrio). Non perde forza, né la perderà in
seguito fino alle prove più recenti e ultime, la propensione al racconto, ma più che al racconto
spesso addirittura alla cronaca, come era del resto nelle Descrizioni in atto fin dal titolo.
Per quanto accettato di buon grado, in realtà il lavoro con Roversi per Dalla non sarà facile;
addirittura, dopo la realizzazione di Il giorno aveva cinque teste, egli avrà uno scontro sia con il
poeta che con Cremonini, entrerà in uno stato di malessere psicologico (in parte dovuto anche a seri
problemi di salute), fino a sospendere la registrazione di Anidride solforosa a metà del percorso, per
poi persuadersi fortunatamente a riprenderla. Sente rispetto a Roversi una distanza di carattere sia
comportamentale che metodologico: le due cose sono poi sovrapposte, in Roversi Dalla vede un
vero e proprio intellettuale capace di mettere un pensiero rigoroso e una fervente intransigenza
operativa al servizio della scrittura; per contro considera se stesso nientemeno che un “cialtrone”
avvezzo all’improvvisazione e a dare molta importanza al caso. Roversi ben comprende il talento
musicale e canoro di Dalla, colpito dalla sua sensibilità e versatilità: “Mi sono accorto della sua
capacità di cantare anche l’elenco del telefono”, dirà di quell’ “orgoglioso Fregoli della canzone” e
probabilmente l’aver da subito intuito queste capacità lo lascia libero di scrivere senza eccessive
preoccupazioni di natura eminentemente melodica; i suoi testi hanno trovato qualcuno che non si
limiterà a cantarli, a eseguirli in forma di canzoni, ma si sforzerà di rappresentarli (Dario Fo parlerà
di Dalla come di uno dei più grandi cantori, non cantanti, italiani, sottolineando la peculiarità del
termine). I suoi testi hanno trovato qualcuno in grado di esporli nella loro qualità di “parole che
diventano musica in e di parole, parole messe in azione” (Gianni Scalia); qualcuno che gli ha dato la
opportunità di usare la propria tempra di scrittore in un ambito inedito, cercando una propria strada
personale verso un’ipotesi di canzone civile; i suoi testi hanno trovato Lucio Dalla.
Alla fin fine Roversi non sarà soddisfatto dei risultati complessivi ottenuti dalla cooperazione
con Dalla, lamentandone una certa approssimazione e carenza di cura dei dettagli dovute alla fretta
di licenziare un prodotto, ritrovandoci il limite di una mancanza di “affanno artigianale” e di rabbia,
sentendo che quel prodotto doveva essere difeso e accompagnato con ben maggiore determinazione
pur non rinnegandone la finalità commerciale; arriverà, il poeta, a denunciare perfino l’ipocrisia dei
grandi concerti (era quella l’epoca delle esibizioni negli stadi) i quali, sotto l’apparenza di situazioni
ideali per l’ascolto e la partecipazione del pubblico alle proposte degli artisti, rischiavano piuttosto
di ripiombare nella condizione della distrazione di massa, del puro divertimento. Dalla da parte sua
si difenderà rimarcando il fatto che Roversi non fosse mai presente in sala di incisione per discutere
il lavoro in fieri, casomai poi pretendendo di rimettere mano a un brano già cantato e missato
soltanto perché la nota finale doveva essere tenuta più lunga (Ulisse coperto di sale). Anni dopo le
vicende della trilogia i due riannoderanno un rapporto che pareva incrinato rinnovando la stima
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reciproca e relegando le rispettive incomprensioni al momento particolare nel quale esse erano
sorte.

Futurismo Grande Madre?

Il critico musicale Paul Morley nel suo libro Metapop mette il Futurismo – prendendo come
riferimento l’anno di pubblicazione del manifesto fondativo, il 1909 – dentro l’inesauribile lista dei
fatti che avrebbero a suo dire costellato la nascita e lo sviluppo del pop “dal Big Bang a Kylie
Minogue”: ci mette anche, se serve dirlo, il Dadaismo. Ecco, quando si pensa a eventuali influenze
artistiche sulla cultura pop, specie nella declinazione musicale, ai più viene in mente probabilmente
proprio il Dadaismo, o quanto meno la sua versione più vulgata e tutto sommato edulcorata;
bisognerebbe parlare in realtà di Dadaismi, al plurale, riferendosi alla diaspora di fermenti che in
varie parti d’Europa si sono attivati a partire dal possibile, ma non poi così assodato, punctum
temporis della riunione del 1916 al Cabaret Voltaire di Zurigo, con annessa apertura casuale del
dizionario per scegliere il nome di quel movimento/non movimento che sarà appunto Dada.
Ma se allarghiamo l’orizzonte alla cultura pop in senso lato, e ai suoi rapporti con il consumo di
massa, ci rendiamo conto che Dada, la sua gentile anarchia (gentile, non perciò meno eversiva, si
intende), la sua indole bonaria anche quando toccata dalla disperazione per le circostanze storiche,
la ferrea volontà di non capitalizzare risultati e prodotti della propria ricerca, la giocosa distruzione
di aure dietro dissimulazioni e mimetismi, l’iconoclastia clownesca, non sono molto conciliabili con
le istanze economiche che hanno inesorabilmente cooptato la cultura pop; ne potremmo ritrovare lo
spirito semmai nell’underground, finché è riuscito a rimanere underground. Nel Futurismo invece ci
sono davvero i semi di molte pratiche che diverranno travi portanti della cultura pop, nella musica,
nel cinema, nella moda, nella pubblicità, nel design, nella televisione: si pensi alla pre-visione di
Fortunato Depero, che aveva ben veduto la strada delle arti decorative nel multiplo di qualità, nella
produzione seriale ma dosata, nell’edizione limitata, che farà la fortuna di tanti designer e delle loro
opere; si pensi a quanta grafica di matrice Futurista si vedrà nella cartellonistica pubblicitaria ancora
lustri dopo le sue invenzioni; a quanta arte contemporanea mainstream, battuta sul mercato a
centinaia di migliaia di euro, ha saputo con furbizia fare tesoro dell’enunciato sui materiali che
compare tra le Conclusioni del Manifesto tecnico della scultura futurista redatto da Umberto
Boccioni nel 1912; a quanta musica strettamente pop, dalla Exotica alle colonne sonore di Ennio
Morricone per i western di Sergio Leone, a quelle di Carl Stalling per i cartoons della Warner Bros,
ha recepito con acribia i suggerimenti di Luigi Russolo sul rumore; ancora, a quali suggestioni vitali
siano arrivate a una forma espressiva specifica come il videoclip dagli esperimenti di “musica
cromatica” dei fratelli Ginanni Corradini (in arte Ginna e Corra), anche se in questo caso i Futuristi
erano in ottima compagnia (basti ricordare Alexsandr Skrjabin). E del resto Marinetti fu un
eccellente stratega nel campo della comunicazione, a partire dall’idea di pubblicare il manifesto di
fondazione del Futurismo sul più importante quotidiano di Parigi dopo che la sua comparsa su un
paio di giornali italiani non ebbe l’esito sperato: secondo Davide Rondoni, egli fu addirittura il
primo ad applicare in Italia le tecniche della comunicazione di massa, per certi versi usando contro
la detestata società borghese strumenti che da essa erano stati inventati.
Da questo punto di vista le pagine che seguono non avrebbero nemmeno tanto senso di esistere,
se non dietro la giustificazione di un esercizio individuale fatto più per piacere – individuale – di
pensare e scrivere su qualcosa che ha attirato l’attenzione e ha fatto scattare una scintilla: Lucio
Dalla e i suoi dischi a quattro mani con Roberto Roversi stanno volenti o nolenti del tutto a loro
agio nel solco di una cultura pop (di ottima qualità, in questo caso) che il Futurismo ha ampiamente
contribuito a scavare e seminare, e continuato suo malgrado a irrorare per lungo tempo. Ora vedrò
di rintracciare indizi concreti a sostegno di tale asserzione, partendo da quanto i manifesti Futuristi
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(quello di fondazione, quelli “tecnici” dedicati alla letteratura, alla musica, alla cinematografia,
quello sul teatro di varietà) hanno dichiarato di voler fare per il rinnovamento delle arti.

Parolibere: liberare le parole dall’inanità ridicola della vecchia sintassi.

“In aeroplano, seduto sul cilindro della benzina, scaldato il ventre dalla testa dell’aviatore, io
sentii l’inanità ridicola della vecchia sintassi ereditata da Omero”: così inizia il Manifesto tecnico
della letteratura futurista, scritto da Filippo Tommaso Marinetti in persona nel 1912 - e non si può
dire che non sia un inizio smagliante - per entrare subito dopo in medias res specificando che così a
lui parlò “l’elica turbinante” e passando quindi a rubricare quanto “l’elica soggiunse” a proposito di
come distruggere la sintassi e sovvertire le parti del discorso per generare una nuova poesia fondata
su inedite composizioni tipografiche e su un’enunciazione fonosimbolica in grado di spiegare le ali
dell’immaginazione.
Certo, alcuni anni prima (1897) Stéphane Mallarmé aveva lanciato i suoi formidabili dadi (Un
coup de dés jamais n’abolira le hasard), un vero tiro da maestro nel tentativo di realizzare una
complicità tra valori sonori e forma del testo sulla pagina, fino a sgorgare di fatto in una sorta di
musica di parole: ma credo che non si possano non considerare comunque seminali le fantasie
Futuriste, le quali sfoceranno in tavole di parolibere a tutt’oggi godibilissime quando non proprio
belle tout court, che ancora dopo decenni verranno saccheggiate da sedicenti poeti visuali e sonori i
quali, lungi dall’avere il carisma per citare in modo dovuto gli antenati, e eventualmente secondo
l’aforisma di Thomas S. Eliot da loro rubare come devono i “poeti maturi”, non sapranno fare di
meglio che copiare da “poeti immaturi”, o da furbastri (provare a ascoltare i Poemi fonetici di
Mimmo Rotella, per esempio). C’è chi ha lamentato, e c’è chi continuerà a lamentare, non senza
qualche ragione, una certa seriosità dei poeti Futuristi (dico poeti, secondo me i letterati Futuristi
sono stati in buona sostanza poeti, anche i cosiddetti romanzi di Marinetti sono qualcosa di più
prossimo alla poesia che ad altro), un prendersi troppo sul serio: per quanto mi riguarda non penso
che un artista debba porsi certi problemi, e forse lo dico perché sono io il primo a prendermi molto
sul serio; ma scorrendo le pagine Futuriste non è che non si incontrino dimostrazioni di levità, e
benché possa sembrare scontato basterebbe fare il nome di Aldo Palazzeschi per avere la prova che
l’ambiente non era poi così refrattario all’ironia, e perfino all’auto-ironia.
Dunque, le parolibere. In Fondazione e Manifesto del Futurismo Marinetti aveva compilato
l’endecalogo del movimento, centrato sull’esaltazione del coraggio, dell’audacia, della ribellione, e
della nuova Musa la Velocità: e già qui la letteratura viene chiamata alle armi per esaltare, al posto
della “immobilità pensosa”, l’aggressività e l’insonnia della corsa, dello schiaffo e del pugno; così
“Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico
fervore degli elementi primordiali”. Dal “promontorio estremo dei secoli”, alla poesia non è più
lecito guardarsi alle spalle, ma anzi le è chiesta un’ardita protenzione verso il futuro a suon di
abolizioni da una parte (abolire gli aggettivi, gli avverbi, le congiunzioni, la punteggiatura, i tempi
verbali – usare il verbo all’infinito -, l’io dello scrittore), di innesto di nuovi artifici dall’altra
(sostantivi raddoppiati per analogia, costruzione di fitte reti di analogie, mescolanza indiscriminata
di alto e basso, nobile e grossolano, sostituzione della psicologia umana con “l’ossessione lirica
della materia”, uso serrato delle sinestesie), al fine di inventare “l’immaginazione senza fili” e a
costo di “uccidere dovunque la solennità”; essendo per questo disposti a “odiare l’intelligenza”,
perché nulla è più potente e libero della “divina intuizione”. Il manifesto termina con un assunto
ideologico che sembra quasi prefigurare il cyberpunk e i racconti di James Ballard, andando nello
spazio di poche righe ben oltre le suggestioni Romantiche sull’umanità artificiale, attraverso
l’evocazione di un regno meccanico pronto ad avvicendare quello animale, prodromo di una vittoria
sulla “ostilità apparentemente irriducibile che separa la nostra carne umana dal metallo dei motori”.
I Futuristi avevano molta più fiducia di quanta ne avrà Roversi quando scriverà per Dalla Il motore
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del duemila, dove si dice “Noi sappiamo tutto del motore / questo lucente motore del futuro / ma
non riusciamo a disegnare il cuore / di quel giovane uomo del futuro”, ma forzando un po’ la mano
potremmo vedere in questo atteggiamento una vaga coscienza neo-futuritsta. Per i Futuristi i motori,
delle auto come dei tram come degli aerei, insieme all’elettricità, erano materia vivente dell’energia
di un nuovo secolo che era appena entrato nella storia, i topoi dai quali poter guardare il mondo in
virtù delle prospettive inusitate che la scienza, la tecnica, e di conseguenza le arti, avevano scagliato
sulla umanità; Roversi interpreta il grigiore di un’epoca nella quale qualche mente illuminata aveva
già cominciato a intravedere il rischio che quell’umanità partita in quarta sessanta settanta anni
prima stesse correndo verso un vicolo cieco o peggio verso l’orlo di un burrone (è in quegli anni che
il Club di Roma comincia a diffondere i propri rapporti che letti oggi sembrano incredibili profezie
sociologiche, geopolitiche e soprattutto ecologiche, e in realtà erano proiezioni fondate su una
rigorosa analisi di dati), e il suo sguardo sulle automobili potrebbe benissimo essere paragonato a
quello dei Futuristi sulle vecchie sculture di marmo, le fiammanti Fiat 127 o le sportive X 1/9
disegnate da Bertone diventate come per Marinetti la Vittoria di Samotracia (anche perché nel
frattempo, cosa di cui i Futuristi sarebbero forse sdegnati, le auto sono finite nei musei come le
statue, a distanza di appena qualche sala … ).

Enarmonie: in ascolto di un universo sonoro incessantemente mobile.

“Siamo dunque alla finestra di un manicomio glorioso, mentre dichiariamo, senza esitare, che il
contrappunto e la fuga, ancora oggi considerati il ramo più importante dell’insegnamento musicale,
non rappresentano altro che ruderi appartenenti alla storia della polifonia”. Secondo il linguaggio
musicale corrente, con il termine enarmonia si può intendere l’utilizzo di ornamenti nel primo canto
gregoriano; oppure l’equivoco fondato sulla scrittura diversa di accordi costituiti da suoni identici,
adottato talvolta in armonia per facilitare la modulazione da una tonalità a un’altra; o ancora, e
soprattutto, qualunque musica nella quale figurino intervalli acustici minori di un semitono. Ma per
Francesco Balilla Pratella, estensore del manifesto tecnico La musica futurista, l’aspetto veramente
rilevante del modo enarmonico, ciò per cui un retaggio del mondo musicale dell’antica Grecia viene
proclamato “quale progresso e quale vittoria dell’avvenire” per merito dei Futuristi, è il fatto che
esso, a differenza di altri modi che contemplano una quantità di suoni limitata ai semitoni, “oltre al
prestare alla nostra sensibilità rinnovata” un maggior numero di suoni determinabili e combinabili,
consente nuove e più svariate relazioni di accordi e di timbri. Il “manicomio glorioso” al quale
l’autore fa riferimento è in pratica la storia della musica, in seno alla quale ogni grande innovatore
ha dovuto pagare il fio di passare per matto, finendo poi magari per giudicare a sua volta matto
quello dopo di lui. Balilla Pratella, se così si può dire, sarebbe un po’ il musicista ”ufficiale” del
Futurismo, non per nulla il sottoscrittore del principale manifesto attinente: e nella sua attività ha
incarnato due impulsi apparentemente contrastanti ma entrambi presenti nella cultura musicale
dell’epoca, quello della ricerca, nello specifico una vera e propria battaglia per la liberazione dalle
pastoie “passatiste” stando al primo e definitivo comandamento Futurista, e quello dello studio
appassionato della musica popolare (Pratella, romagnolo di Lugo, fondò la Camerata Lughese dei
Canterini Romagnoli); interessante coesistenza di avanguardia e tradizione, che peraltro troverà una
soluzione parziale nel desiderio di rinnovare conservando un umanesimo, senza necessariamente
andare “contro natura”. Verrebbe naturale pensare a Béla Bartok, musicista e studioso nel quale
parimenti convivevano sperimentazione e passione per il folklore, se non che tra i due esiste – a
favore di Bartok - un enorme divario da entrambi i punti di vista. Peraltro Virgilio Mortari, un
compositore che come altri (Giacinto Scelsi o Alfredo Casella ad esempio) ha appena appoggiato i
piedi sui lidi Futuristi per poi prenderne le distanze, giudicava Pratella un buon compositore sì, ma
tradizionale, che con il Futurismo non aveva niente a che spartire.
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Ad ogni modo quando si dice “musica Futurista” non è a Pratella che la mente va d’istinto, o ad
altri musicisti quali Silvio Mix, Franco Casavola, Daniele Napoletano, bensì al pittore prestato alla
musica (anche musicista, ma dilettante) Luigi Russolo, colui che ha sfondato per sempre la parete
che aveva, da sempre, diviso i suoni dai rumori, colui che molto prima che John Cage sentenziasse
che un rumore dà fastidio soltanto se non lo si ascolta decise di aprire le maglie del pentagramma al
paesaggio sonoro della modernità, che non si poteva più raccontare soltanto attraverso i suoni
mediamente puri e armoniosi delle normali orchestre. Gli intonarumori, gli ordigni inventati da
Russolo per fabbricare rumori utilizzabili nella nuova musica, hanno trasmesso sparute tracce e
testimonianze: tra l’altro lo stesso Pratella non ne era eccitato più di tanto, e si decise senza troppa
convinzione a regalar loro un cameo nella partitura di L’aviatore Dro e pochissimo altro. Marinetti
poi, al di là delle abituali tonitruanti dichiarazioni, confinò l’Arte dei Rumori preconizzata da
Russolo in un distaccamento a parte, fuori dal contesto “nobile” della musica vera e propria. E
invece l’idea di pensare a un’arte dei rumori in quanto tale è talmente avanti che ancora oggi non si
ha il coraggio di prenderla di petto: se è vero che brani come Metal Machine Music di Lou Reed; o
come certe mostruose lasagne sonore – strati su strati di autentico frastuono – di Masami Akita in
arte Merzbow; o come Labyrinthitis di Jacob Kirkegaard (una “traccia generativa” costruita a
partire dai cosiddetti toni di Tartini, le vibrazioni delle membrane del nostro condotto uditivo); o
come I’m Sitting In A Room di Alvin Lucier (il rendering della progressiva degradazione sonora di
un testo letto dall’autore, che non fa altro che descrivere quello che sta facendo ovvero registrarsi
mentre legge e sovrapporre man mano ogni nuova registrazione fino a produrre un magma
indecifrabile) a cui Paul Morley – cfr. più sopra - ha dedicato pagine per spiegare che si tratta in
qualche modo di musica; se appunto è vero che davanti a opere come queste non si riesce a dire
altro che, in qualche modo, sono musica per quanto strana, bizzarra, estrema, inclassificabile.
Quello che resta e che conta è che grazie a Luigi Russolo, alle sue formulazioni in un libretto che
è diventato di culto, L’arte dei rumori appunto, il rumore è entrato a fare parte assolutamente non
marginale della musica del Novecento, dalle prime prove di musica concreta di Pierre Schaeffer alle
alchimie elettroniche degli studi di fonologia di Milano, Parigi, Colonia, dal free jazz al krautrock,
dalla competizione informale tra Sgt. Pepper dei Beatles e Pet Sounds dei Beach Boys al rap, dal
rigore industrial ai sobbalzi della batteria elettronica 808, fino a una intelligent techno come quella
di Dj Spooky, che tra l’altro al Futurismo ha dedicato un intero disco.

Fisicofollie: esaltare l’azione, la destrezza, l’autorità dell’istinto e dell’intuizione.

Essendo plateali in tutto, e credendo fermamente nel fatto che ogni cosa della vita che abbia un
valore sia già teatro di per sé, si potrebbe dire che i Futuristi non abbiano fatto altro che teatro nelle
varie coniugazioni della loro poetica: anche perché quando parlano di teatro essi parlano di qualsiasi
cosa purché non si tratti di prosa, tragedia, commedia, melodramma; essi parlano infatti di teatro di
varietà, di circo, clown, acrobazie, illusionismo, di arte meccanica, di stupore, di coinvolgimento
provocatorio del pubblico, in una sorta di equivalenza perfetta tra scena e spettacolo. Paolo Fossati
ha condensato forse meglio di chiunque lo zibaldone dello spettacolo Futurista nel titolo di un suo
studio, La realtà attrezzata.
Dunque le parole chiave del teatro Futurista sono: varietà, ovvero forma di spettacolo che rifiuta
“la riproduzione fotografica della nostra vita quotidiana”, la ricostruzione storica, la contemplazione
psicologica. Il varietà è pratico, dinamico, prestante, antiaccademico, ironico, elettrico, informale,
senza tradizione, ed è la sola tipologia di teatro nel quale il pubblico non “rimane statico come uno
stupido voyeur” ma partecipa all’azione. Stupore: il teatro deve adattarsi all’era dell’elettricità, non
può più essere quello “minuzioso lento analitico e diluito” dell’età della lampada a petrolio; deve
diventare il palcoscenico dell’esibizione di tutte le forme di talento capaci di generare meraviglia,
anzi il meraviglioso futurista, arrivare al pubblico con la debordante giocosità della trovata. Sintesi:
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il teatro “passatista” è per natura, come già detto sopra, lento e meditativo, usa “cento pagine dove
ne basterebbe una”; il teatro futurista deve essere al contrario veloce, dinamico, simultaneo, spinto
dalla rapidità dell’intuizione e non trascinato dal peso della tecnica. Una delle icone di questa
plausibile iniezione di vigore nel teatro è Fregoli, esplicitamente citato da Marinetti in Il teatro di
varietà: “simultaneità di velocità + trasformazioni (Es.: Fregoli)”.
Il primo capitolo del citato studio di Paolo Fossati ha il titolo di uno dei testi più famosi riservati
dai Futuristi, a firma di Marinetti, alle arti sceniche, La voluttà di essere fischiati: il teatro, essendo
arte, come qualsiasi arte deve passare all’azione, in uno scambio di vicendevole eccitazione con la
vita, che a sua volta deve imparare dall’arte a estetizzarsi. Il conto che l’artista, in questo caso
l’autore o il regista o anche l’attore teatrale, deve saldare è quello di una riconversione violenta del
rapporto con il pubblico: i Futuristi, dice Marinetti, insegnano agli artisti del teatro il disprezzo del
pubblico e l’orrore del successo immediato, l’unica loro preoccupazione dovrà essere quella di
lavorare per una “assoluta originalità novatrice”.

Plurisensibilità: velocizzare l’immaginazione creativa.

L’intestazione di questo paragrafo non compare nel sottotitolo del mio articolo, come quella dei
tre precedenti: in effetti al momento di progettarlo non avevo pensato di prendere in considerazione
anche il cinema, diciamo che mi sono in parte ricreduto strada facendo. Lucio Dalla notoriamente
era un cinefilo, se non sbaglio aveva anche una attrezzata sala di proiezione casalinga; e per quanto
concerne i Futuristi, parrebbe evidente che per loro il cinema dovette sembrare un sogno ad occhi
aperti, senonché nel manifesto La cinematografia futurista del 1916 (forse uno dei manifesti più
meditati, precisi e densi) si dice che se “A prima vista il cinematografo, nato da pochi anni, può
sembrare già futurista, cioè privo di passato e libero di tradizioni”, in realtà “sorgendo come un
teatro senza parole” esso del teatro avrebbe ereditato i peggiori difetti. Perciò, dal momento che per
i Futuristi stessi il cinema doveva considerarsi una “zona del teatro”, questo spettacolo ancora in
fasce avrebbe avuto già bisogno del loro implacabile bisturi per essere ancor prima di crescere
liberato da “tutte le più tradizionali spazzature del teatro letterario”.
Va detto che non tutti all’interno del movimento erano troppo sicuri dello statuto artistico del
cinema: soprattutto Umberto Boccioni era perplesso circa il fatto che il cinema, così come la stessa
fotografia, potessero infondere nell’arte un’idea di trasmissione di energia vitale (Giovanni Lista);
al contrario i firmatari del manifesto (Marinetti, Corra, Settimelli, Ginna, Balla e Chiti) erano certi
che esso sarebbe potuto diventare “un’arte eminentemente futurista e il mezzo d’espressione più
adatto alla plurisensibilità di un artista futurista”.
Di film espressamente Futuristi è rimasto veramente poco, e quanto sappiamo lo sappiamo per lo
più grazie alla documentazione scritta e iconografica di progetti redatti con cura e, è sempre Lista a
sostenerlo, testimoni di tutte le tendenze e le contraddizioni del movimento. Dal manifesto invece si
ricavano, com’è ovvio, quelle che avrebbero dovuto essere le linee guida del cinema Futurista, una
evoluzione della pittura innanzitutto, e in quanto tale liberato dalla tirannia della verosimiglianza
come ne era stata liberata la pittura vera e propria. I Futuristi in un certo senso precedono Lucio
Fontana nell’aspirazione a un’arte nuova, immensamente più vasta e più agile di tutte quelle
esistenti (però Fontana, teorizzando lo Spazialismo, considerava il cinema già vecchio quanto un
affresco del Trecento … ). Ma soprattutto vagheggiano di adoperare tutte le potenzialità del nuovo
mezzo per costruire visioni sinestetiche potenti e detournanti, cosa che del resto in quegli anni era
tema di ricerca ben frequentato anche altrove.
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E la canzone?

Il 1909, l’anno di fondazione del Futurismo, sta dentro a un periodo nel quale la canzone, così
come siamo abituati a considerarla - pur in tante diverse coniugazioni – tutt’oggi, viene codificata.
La parola “canzone” è in auge nel lessico italiano dalla metà del XIII secolo, e Dante nel De vulgari
eloquentia la qualifica come “null’altro se non opera compiuta di chi compone con arte parole
armonizzate per una modulazione” (definizione oltremodo esatta e estremamente attuale). Verso la
fine dell’800 inizia a predisporsi il terreno per la diffusione della canzone come prodotto culturale
di massa: si vendono in quantità considerevoli i fogli volanti con i testi; gli spettacoli di varietà, i
locali come i café-chantant, accolgono tipologie di brani di diversa inclinazione ma riconducibili
tutti in qualche modo al concetto di canzone (canti popolari, brani d’operetta, romanze da salotto,
parodie di arie d’opera); si consolidano ovunque generi urbani come la canzone napoletana, il fado,
il flamenco, il rebetico, il rai, il tango, il blues, il jazz. Dagli anni Dieci del ‘900 la diffusione su
larga scala dei media innesca un processo di trasformazione delle abitazioni private in, secondo una
felicissima formula di Peppino Ortoleva, “terminali per eccellenza della comunicazione”: pianole
meccaniche e relativi “software”, i rulli metallici incisi per pilotare i tasti, tecnologia relativamente
vecchia ma rilanciata appunto in chiave casalinga; fonografi, in origine pensati dal loro inventore
(sarebbe più giusto dire ultimo e definitivo perfezionatore) Thomas Alva Edison come dittafoni da
ufficio ma ben presto virati al più dilettevole utilizzo come riproduttori di musica, anch’essi coi loro
rulli, in questo caso di cera, quali contenitori del messaggio; e poi naturalmente grammofoni, i cui
supporti, i dischi pre-incisi, potevano essere riprodotti in migliaia di esemplari equivalenti e si
rivelarono perfetti per durata temporale e risposta sonora al formato canzone, al punto che da lì in
poi “canzone e disco si identificano” (Franco Fabbri).
Possiamo immaginare i Futuristi piuttosto a loro agio in questo crocevia di tecnologia e nuove
forme espressive, in questo ambito del progresso in cui le macchine comunicano direttamente con
gli esseri umani messaggi che sembrano fatti apposta per la velocità e la sintesi della vita moderna,
e in cui possono emergere figure di artisti eclettici e “sintetici”, magari anche un po’ esotici come si
conviene a un mondo nel quale le distanze si accorciano sempre più e le culture d’altrove possono
divenire spettacolo a tutti gli effetti nelle grandi esposizioni universali. Non è che abbiamo, anche in
questo caso, repertori propri, cose che potremmo presentare come canzoni specificamente Futuriste:
ci sono alcuni estrosi lieder scritti da Franco Casavola; ci sono alcune creazioni parolibere e/o
fonosimboliche – ad esempio Tipografia di Ardengo Soffici – che soltanto in tempi recenti sono
riemerse, anche incise discograficamente, per opera di meritori ricercatori come Daniele Lombardi
e cantanti ardite come Gabriella Bartolomei (ma a chiamarle canzoni ci vuole un po’ di fantasia); ci
sono stati artisti che per sensibilità e curiosità sono riusciti a avvicinare lo spirito Futurista e dai
Futuristi sono stati ammirati, vedi Ettore Petrolini le cui macchiette verranno additate dallo stesso
Marinetti come modelli di “puro umorismo futurista”; soprattutto c’è colui che Felice Liperi nella
sua Storia della canzone italiana ha etichettato come “un genio della canzone futurista”, Rodolfo
De Angelis, che insieme a Marinetti e Francesco Cangiullo ha avuto l’idea di dare vita al Teatro
della Sorpresa (anche se non è tra i firmatari dell’omonimo manifesto del 1921) e poi negli anni ’30
si è buttato a capofitto sulla composizione di canzoni (più di 300) piuttosto pirotecniche, alcune
delle quali ancora oggi molto famose (Ma cos’è questa crisi); tale riconoscimento critico ha avuto
fra l’altro un omaggio da parte di Elio (delle Storie Tese) nello spettacolo prodotto in occasione del
centenario del movimento, Fu…turisti nella cui prima parte è stata presentata una crestomazia delle
canzoni di De Angelis intervallate da letture di testi di Marinetti (una seconda parte invece era la
narrazione di una fantomatica spedizione Futurista a Marechiare per uccidere il chiaro di luna,
attraverso dieci brani originali composti da Nicola Campogrande su parole di Elio e Piero Bodrato).
Tutto questo, come già accennato, non è che si possa etichettare come qualcosa di esplicitamente
Futurista: del resto c’è chi sostiene che una musica Futurista in senso proprio non ci sia stata, e che
al di là delle ricerche sul rumore, sugli apporti onomatopeici e gestuali, e sulle possibilità offerte
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dall’improvvisazione (tuttavia restate in buona parte sul piano teorico), il Futurismo non abbia dato
contributi fondamentali alla musica del Novecento, dei cui sismi Marinetti e colleghi a malapena si
sarebbero resi conto; puntando tutto o quasi sul buon Pratella piuttosto che su un Casella, un
Malipiero o un Pizzetti (musicisti che infatti annusarono il Futurismo ma ne allontanarono in fretta).
Il citato Casavola dimostrerà anche un certo interesse per il jazz, annotando nel primo dei suoi
quattro manifesti, La musica Futurista del 1924, spunti piuttosto stimolanti su nuovi rapporti tra
ritmo, canto e armonia, sull’improvvisazione d’insieme, su una concezione dell’orchestra non per
famiglie di strumenti ma per unità diverse in carattere, timbro, espressione, sull’estemporaneità
quale elemento germinale della musica, elementi che egli rilevava appunto nelle jazz-band.

Roversi, Dalla e il dibattito sulla canzone politica.

Ho già qualificato fin dal principio i dischi della trilogia Dalla-Roversi come politici: ora, sulla
politicità dell’arte, e a maggior ragione sulla politicità di un’arte molto più compromessa di altre
con il mercato e il consumo di massa come lo è la canzone, ci sarebbe veramente troppo da dire, e i
rischi di scadere in luoghi comuni e trivialità, o al contrario di appuntare con troppa disinvoltura
medaglie sul petto di furbi e opportunisti (di cui da questo punto di vista la musica pop è stipata),
sono dietro l’angolo. Ma dato che le due persone di cui stiamo parlando non erano né furbi né
opportunisti, ma artisti seri e dediti al perseguimento di una qualità tanto estetica quanto etica del
proprio lavoro, sono rischi che ci si può prendere il lusso di correre.
Nella già citata Storia della canzone italiana si fissa nel 1958 l’anno in qualche modo ufficiale
dell’avvento nel mondo della musica italiana della canzone politica. Naturalmente la cosa si può
discutere, se consideriamo che alcuni dei suoi massimi protagonisti, dei quali parleremo fra poco,
nel proprio impegno di ricerca risaliranno fino alle tradizioni anarchica, socialista e giacobina del
nostro paese; ma altrettanto naturalmente è chiaro che l’avvento al quale si riferisce Felice Liperi ha
a che fare col mondo della musica non in senso lato, ma con quello della musica già confluita in
definitiva nella traiettoria di un mercato specifico, e di uno specifico immaginario collettivo;
insomma, nel 1958 la canzone politica irrompe tra i fiori e le rime “cuore/amore” di San Remo
(dove proprio in quell’anno si verifica la fatidica vittoria di Domenico Modugno con Nel blu
dipinto di blu), i fumi dei night club, lo choc degli “urlatori”, i primi vagiti del rock’n’roll
celentanesco.
Dunque, nel 1958, il 1 maggio, a un corteo della CGIL gli altoparlanti diffondono una canzone
intitolata Dove vola l’avvoltoio?, scritta da Italo Calvino e musicata da Sergio Liberovici: ovvero da
due degli animatori del collettivo Cantacronache, al quale partecipano scrittori come appunto
Calvino e Franco Fortini, musicisti ricercatori come Michele L. Straniero, cantanti e/o attori come
Duilio Del Prete, Fausto Amodei, Margot Galante Garrone, compositori d’area colta come Giacomo
Manzoni, Fiorenzo Carpi, Valentino Bucchi. Secondo Liperi questo esordio farebbe il paio con
l’exploit di Modugno a San Remo nell’avviare un sommovimento che arriverà a deflagrare nella
rivoluzione culturale del biennio 1966-68; se non altro perché quelli di Cantacronache sono partiti
da uno stato di insofferenza proprio verso le canzonette del festival nazionale, ripetitive nei testi e
banali nelle musiche. L’idea del gruppo è quella non tanto di negare a priori una possibile bontà
della canzone, quanto di recuperarla a una capacità narrativa e realistica avvilita dalle esigenze
commerciali ma ritracciabile nelle antiche canzoni popolari; e in questo modo riavvicinarla alla vita
vera per ridarle il fiato di un prodotto culturale che non sia soltanto d’evasione. L’esperienza del
collettivo durerà circa quattro anni e produrrà una serie di incisioni discografiche (per lo più 45 giri
e 7”, in seguito antologizzate in alcuni 33 giri) suddivise tra canzoni originali e ripresa della
tradizione popolare di matrice politica, sia italiana che internazionale. Poi un certo disagio per i
rapporti con il mondo discografico, e i mutamenti della scena musicale che in pochi anni vedrà il
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debutto di personalità anticonformiste capaci di mischiare un po’ le carte, come Giorgio Gaber o
Enzo Jannacci, sono i granelli di sabbia che inceppano l’ingranaggio.
Fausto Amodei e Michele Straniero continueranno la loro opera in un’altra formazione, il Nuovo
Canzoniere Italiano, che grazie all’apporto di altri artisti quali Giovanna Marini, Ivan Della Mea,
Gualtiero Bertelli darà vita ai leggendari Dischi Del Sole e ai due storici spettacoli Bella Ciao e Ci
ragiono e canto: qui il lavoro è centrato sul tentativo di saldare il folklore alle nuove realtà urbane,
di trovare grazie alla canzone una linea di continuità tra diverse forme di subalternità e di risvegliare
mediante la razionalizzazione del canto popolare lo spirito di classe. Anche in questo caso però la
mediazione discografica, la pretesa di un efficientismo aziendalistico per soddisfare il pubblico (gli
spettacoli del gruppo erano richiestissimi), nonché certe intrusioni della politica istituzionale, hanno
finito per intralciare lo spirito originario del progetto.
Queste esperienze costituiranno input importanti per la nascita di un nuovo cantautorato che di lì
a poco, subentrando alla generazione dei Bindi, Paoli, Endrigo, Tenco, Lauzi troverà una propria
strada guardando a riferimenti molto precisi e abbastanza diversi, dalla ballata folk statunitense alla
canzone d’autore francese, e appunto non ultimi ai cantori/ricercatori che avevano saputo saldare i
retaggi della tradizione a una necessità di vigorosa narrazione contemporanea: stiamo parlando dei
vari Francesco Guccini, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Roberto
Vecchioni, autori che prenderanno poi percorsi anche dissimili; Guccini coniugando in un lungo e
coerente curriculum forme popolari e contenuti colti (“son della razza mia il primo che ha studiato”,
cantava in L’avvelenata); De Andrè esplorando variegate ipotesi fino a incontrare i più speziati
sapori mediterranei e approdare alle vette assolute dei suoi ultimi dischi; De Gregori pagando cara
la hit parade dell’album Rimmel, la sua presunta virata a testi da “baci Perugina” (Giaime Pintor) e
le supposte strumentalizzazioni di temi politici per scopi veniali (per cui gli verrà intentato un
“processo” da alcuni collettivi studenteschi durante un concerto nel 1976 da cui si riprenderà a
fatica prima di ricominciare una carriera tranquilla benché con alcune punte luminosissime);
Venditti sfondando a colpi d’ariete con brani impegnati – Mio padre ha un buco in gola, Lilly – per
poi pian piano ripiegare sempre più sul racconto delle mille sfumature dell’insostenibile leggerezza
dell’essere (al romanzo di Kundera intitolerà un brano ad hoc); Vecchioni lavorando a un’idea di
canzone d’autore dove la politica sta più nel come e perché si dicono le cose che nelle cose che si
dicono. Un po’ più avanti ancora arriveranno Bennato o Finardi, e com’è noto sarà proprio il
cantautore napoletano a tagliare la testa al toro, in Sono solo canzonette, con ironia, al dilemma
della politicità nella canzone pop: non può essere una mera questione di identificazione di parte, se
non addirittura di partito, un artista non deve sottoscrivere una tessera ma piuttosto poter (e saper)
conservare sempre la propria libertà intellettuale, pagandone semmai le conseguenze (intellettuali);
men che meno, naturalmente, un artista deve pensare che un’adesione dichiarata possa diventare il
viatico della propria fortuna.
Dalla, come accennato all’inizio, è un caso un po’ a parte, interessato fin dagli esordi a trovare
nella canzone idee innovative, viene dal jazz e nei suoi primi dischi canta qualcosa a metà tra il beat
e il soul, e potremmo dire che la visione di un connubio apprezzabile tra canzone e politica gli
arriva proprio dall’incontro con Roversi. Nel libro Il futuro dell’automobile, dell’anidride solforosa
e di altre cose, che contiene fra l’altro il disegno originario di quel che avrebbe dovuto essere
l’album uscito poi decurtato col titolo Automobili, si trovano un’ampia introduzione di Roversi e un
contributo autobiografico di Dalla – entrambi postumi all’esperienza di lavoro comune – attraverso
i quali è possibile risalire a come i due sarebbero potuti entrare in un virtuale dibattito sulla canzone
politica nel tempo in cui hanno realizzato la loro trilogia.
Direi che per cominciare vale la pena di sottolineare un punto in comune, ovvero il pensiero che
una canzone, qualunque siano la sua natura e il suo obiettivo, nel modo di produzione capitalistico è
comunque politica, volente o nolente anche il brano più insignificante butta il suo peso sui piatti
della bilancia del consumo culturale; una canzone può essere fatta per concentrare l’attenzione su
un certo tema o problema, così come per distrarre l’attenzione da qualunque tema o problema degni
di attenzione, musica “gastronomica” per dirla con Umberto Eco o “da rincretinimento” per dirla
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con Luigi Nono, ma comunque non sarà mai neutra. È un pensiero assodato, dopo che da alcuni
anni a questa parte la popular music è diventata oggetto di studio approfondito sia sul piano
sociologico che su quello musicologico, ma credo non guasti ripeterlo.
Peraltro è proprio da qui che parte il lungo ragionamento di Roversi, che bolla un’affermazione
di Gianni Borgna, circa il fatto che la società dei consumi nasconderebbe dietro la sua scorza
luccicante un vuoto, come un’ovvietà e una leggerezza le quali impediscono di vedere l’arrogante
salute e la pienezza di organizzazione scientifica con le quali il potere – anche grazie alle seduzioni
solo apparentemente innocenti di certa cultura di massa - si gestisce. Siamo negli anni ’70 e alcuni
osservatori (ancora Borgna e Simone Dessì: la fonte è un libro coevo a Il futuro dell’automobile,
C’era una volta una gatta. I cantautori degli anni ’60) rilevano le differenze della canzone d’autore
rispetto al decennio precedente soprattutto nel fatto che gli autori dei ’60 erano cantori di minoranze
e avanguardie di orientamenti ancora sotterranei, mentre quelli dei ’70 sarebbero stati dei semplici
documentatori dello stato delle cose, dei fotografi del presente; inoltre la canzone politica, di cui si
sono viste le magnifiche sorti e progressive nei paragrafi precedenti, nei ’70 sarebbe entrata in una
decadenza irreversibile che forse soltanto l’avanzare di un rinnovato interesse al folk - vengono
ricordati ad esempi il Gruppo Operaio di Pomigliano d’Arco e le Nacchere Rosse - avrebbe potuto
mitigare (ma pochi anni prima, in un libretto del 1973 per la precisione, l’antropologo Luigi Maria
Lombardi Satriani aveva subodorato su quell’avanzare già gli artigli voraci di un vero e proprio
folkmarket). Insomma, da una parte l’industria culturale con tutta la sua forza e le sue astuzie,
dall’altra alternative che non riescono a tradursi in reale opposizione, e che inoltre sono sempre a un
passo dall’essere attirate nell’orbita del mainstream, o occupate e presidiate dal potere, accortosi
dell’economicità di, come dire, una sorta di bonifica dell’avanguardia e delle sue sperimentazioni
indipendenti, per assumerle dentro ai propri schemi.
Parrebbe non esserci spazio per una canzone diversa: ma, dice Roversi, è lì che deve innestarsi
l’inquietudine di una ricerca tempestiva e immaginativa, la ricerca di un linguaggio mai cantato e di
suoni mai uditi, come un ricominciare a cantare da capo. Mentre Dalla – primo motivo di rottura –
avrebbe preferito proseguire puntando su un “grottesco” inconcludente ma a quanto pare adatto a un
pubblico che si accontenta di qualche illusione. Allora la decadenza potrebbe essere non tanto della
canzone politica ma della canzone tout court, specchio di una società nella quale sono saltati i nodi
residui della propria stessa disposizione politica, la struttura che legava un certo assetto politico al
valore contrattuale della sua opposizione, ormai troppo istituzionalizzata: pensare il nuovo nella
canzone sarebbe così un tassello del pensare il nuovo in assoluto. Ecco perché Roversi propone a
Dalla di cantare versi dettati direttamente dallo sdegno per le cose che accadono, “per non lasciarmi
insabbiare. Ma la sabbia non è andata giù e ci siamo salutati”.
Se esiste un problema degli anni ’70, osserva Roversi, viene precisamente dal fatto che sono
saltati i punti di riferimento; nel decennio precedente si è dimostrata possibile la coesistenza della
musica più sbracata e disimpegnata con una canzone di ricerca quale quella di un Tenco, e con
quella politica strictu sensu di un Ivan Della Mea; adesso che sembra si possa fare tutto, pare però
che tutto sia già stato fatto e diventi impossibile fare senza ripetere. Ma, ancora, è nel territorio di
tale disinganno che bisogna cercare spazi vergini, è lì che fermenta una quantità di contraddizioni
che devono essere catalogate e ricapitolate con nuovi strumenti di analisi, e anche con nuovi modi
di fare canzoni. Altro motivo di dissidio con Dalla: Roversi pretende un’organizzazione del lavoro,
una lucida programmazione, ma dice di ottenere poco o nulla, riferendosi in particolar modo all’LP
Automobili - che infatti disconosce, o più precisamente firma con uno pseudonimo – uscito come
una porzione stravolta dello spettacolo Il futuro dell’automobile del quale avrebbe dovuto essere
un’emanazione discografica in tutto e per tutto (Dalla invece accetterà la situazione pur di fare il
disco, e pur nella consapevolezza del tradimento delle aspettative).
Quindi, per concludere, se il vuoto c’è ed è “spaventevole”, e se la militanza politica di sinistra,
il PCI, si è troppo avvicinata alla gestione del potere, ciò non significa che chiunque lo voglia non
possa fare uno sforzo di analisi e agire di conseguenza, compresi coloro che fanno canzoni. Bisogna
chiedersi, che cosa cantare? domanda che, dice Roversi, assillava Dalla; si possono cantare i valori
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della prossima rivolta delle idee, senza rassegnarsi alla felicità programmata da qualcuno per noi,
accettando la quale non si farebbe altro che vendersi come servi.
Veniamo a Dalla. Come ho detto prima, si può sostenere con buona probabilità di essere nel
giusto che il cantautore bolognese abbia avuto sentore di legami tutt’altro che peregrini tra canzone
e politica per merito di Roversi: si è accorto subito, sin da Il giorno aveva cinque teste, e di questo
si può essere sicuri perché lo ha detto egli stesso, che il nuovo collaboratore non aveva avuto alcuna
difficoltà a tradurre nei testi per le canzoni la vis civile di quelli delle sue poesie. Questo da una
parte lo conquista, e da un’altra pone problemi relativi al come cantare quei testi e a come darli in
pasto al pubblico. Il primo problema lo risolve bene, anche se poi sappiamo che Roversi avrà più
volte da ridire su dettagli esecutivi, e che Dalla troverà la cosa irritante perché il poeta non va in
sala di incisione a fare osservazioni in corso d’opera, ma pretende di dettare legge quasi sempre a
cose fatte: a lui, e a tutti coloro che si interessano di canzone dall’esterno, senza aver mai assistito
alla realizzazione concreta di un disco, Dalla fa presente sia le difficoltà di natura squisitamente
tecnica sia le conseguenze a livello di politica industriale; anche, se non soprattutto, quando si tratta
di mettere in musica testi bellissimi e profondi come quelli di Roversi (la cui risposta, credo, era che
anche fare un libro è difficilissimo, ma lui non per questo domandava agli editori – quando ce li
aveva, aggiungo io – di andare nel suo studio a rendersene conto).
Per quanto concerne l’altro problema, le cose sono più complicate. La promozione del primo LP
passa per situazioni piuttosto periferiche, e piuttosto individuate dal punto di vista politico: Dalla
rammenta il circuito di Lotta Continua (movimento di cui peraltro Roversi dirigerà il giornale),
oppure due giorni presso una comune di Bologna, e esprime senza mezzi termini la sensazione di
perdere progressivamente la propria capacità peculiare di stare sul palco e di tenere il pubblico sotto
controllo, ma non come si potrebbe pensare a cagione di un innalzamento del livello critico e delle
possibilità di dibattito, piuttosto di un loro abbassamento; come se l’identificazione politica forte
rendesse inutile un contraddittorio perché si suppone che chi sta cantando sia della compagine. E se
critiche arrivano, dice Dalla, sembrano troppo compiaciute e autoreferenziali. A ogni modo resta il
fastidio di sentirsi chiedere di cantare l’Internazionale o di dover dimostrare che si sta adoperando
la canzone come una molotov (e non casomai il contrario, come cantava Demetrio Stratos nel 1975
in Gioia e rivoluzione, “il mio mitra è un contrabbasso”), il disagio di sentire le proprie canzoni
assimilate alle canzoni di lotta più tipiche, a Contessa di Paolo Pietrangeli per dirne una, canzoni
che si accontentano dei contenuti e badano poco alla struttura formale: e comunque a Lucio non va
di essere arruolato né di essere strumentalizzato, non concepisce l’obbligatorietà né l’urgenza di
doversi piegare a uno “sposalizio completo”.
Così dopo Il giorno aveva cinque teste il tutto si scarica come un temporale nei rapporti tra Dalla
e Roversi, e anche Cremonini, al punto che il cantautore va in tilt e interrompe i lavori in corso per
la registrazione di Anidride solforosa. Poi più o meno le cose si riaccomodano e il secondo disco va
in porto, peraltro ottenendo nel corso del tour un ottimo riscontro (“abbiamo riempito tutto quello
che si poteva riempire”) forse anche per la coincidenza del pari favore del pubblico di De Gregori
per Pablo che Dalla gli ha confezionato: ma quei consensi, e soprattutto la loro sovrapposizione
nella risposta del pubblico, Dalla non li accetta, non gli interessa il boom da palasport.
Resta la soddisfazione per Automobili, il tronco di trilogia per cui Dalla va più orgoglioso, un
disco per il quale ha dovuto combattere sia con la RCA per farlo, sia con Roversi per le divergenze
operative che per certi versi si acuiscono, e sempre per le solite ragioni; al poeta non interessano le
questioni tecniche conseguenti alle sue esigenze artistiche, “Ma lui aveva il tempo per meditarle, io
avevo poco tempo per realizzarle”. Infine Dalla è convinto del risultato ottenuto, è convinto anche
di poter vendere, nonostante la piena coscienza di averlo licenziato “mozzo”, di aver accettato un
compromesso – inaccettabile per Roversi – pur di farlo uscire; crede che se pochi hanno potuto
capire l’ipotesi fondante del discorso, tutti hanno però capito che era un discorso probante e l’amore
che ci stava dietro.
Possiamo forse sintetizzare dicendo che Roversi pretendeva un po’ troppo da canzoni che, bene
o male, stavano completamente dentro a un sistema di mercato così come chi le doveva cantare:
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quei dischi non si potevano fare come le sue Descrizioni in atto – oggi magari li si potrebbe anche
fare – e del resto è difficile immaginare che un intellettuale a tutto tondo come lui (poeta ma anche
giornalista e libraio) non fosse a conoscenza del fatto che operazioni compiute con tutte le carte in
regola come quelle a cui abbiamo fatto riferimento (innanzitutto i Cantacronache, per cui scriveva
anche Franco Fortini che contemporaneamente lavorava con Roversi alla redazione di Officina … )
non avevano ottenuto i risultati sperati; e io aggiungerei, con il massimo rispetto per tutti coloro che
lavorarono con passione e onestà encomiabili, che dal punto di vista estetico quei risultati non sono
all’altezza della loro portata etica, e nemmeno delle canzoni popolari alle quali guardavano più o
meno come a dei modelli (tranchant: io i loro LP li ho ascoltati, li conservo devotamente nella mia
discoteca – benché nel triste formato CD poiché non ha mai avuto un giradischi decente - ma non
posso dire esattamente che mi piacciano, e non riescono a commuovermi come se ascolto Giovanna
Daffini o uno sconosciuto contadino registrato sul campo dagli archeologi del canto popolare). Ma
d’altra parte, come notava Gianni Scalia (ricordate? un altro collega di redazione a Officina),
Roversi non era incline a farsi contagiare dalle utopie né abbagliare dagli equivoci di una canzone
politica spesso al confine con una “politica musicata” di rimbalzo, bruciata dal proprio stesso
moralismo. Per quanto riguarda Dalla, lo si può magari accusare di aver ceduto a una forma di
realpolitik, ma nella sua posizione probabilmente ha fatto meglio che ha potuto: per quanto mi
riguarda ha fatto di sicuro tre ottimi dischi.

Automobili: un disco frenato in corsa?

Si è già detto, di come avrebbe dovuto essere veramente il terzo LP della coppia Dalla/Roversi
noi abbiamo nozione grazie a una pubblicazione di una storica collana di tascabili dell’editore
Savelli, collana la cui intestazione la dice lunga: La chitarra il pianoforte e il potere; è un libro che
oggi viene venduto a prezzi quasi d’antiquariato (circa 50 euro, meno della metà nel caso si tratti di
copie in condizioni non buone, per non dire proprio rovinate), e che del resto già a suo tempo non
costava mica poco – 2.000 lire nel 1977 – se teniamo conto che si tratta di un’edizione di 160
pagine in brossura di quelle che come l’apri la prima volta rischi di deflorare subito la rilegatura a
colla. Io me lo sono procurato in biblioteca, anche se il pensierino di comprarlo l’ho fatto. Questo
volume contiene il progetto integrale del lavoro, che era di undici dodici canzoni – poi dimezzate -
riunite sotto il titolo Il futuro dell’automobile - poi diventato un più anodino Automobili – disposte
secondo l’idea di Roversi che era quella di fare uno spettacolo cantato che potesse raccontare in
forma di poemetto, o quantomeno di suite, e non di semplice sequenza di brani, una parte di storia
del ventesimo secolo italiano attraverso un’oggetto che vi ha avuto nel bene e nel male un ruolo
centrale, appunto l’auto. Questo spettacolo, che girò per le piazze italiane, approdò anche alla RAI,
spalmato in una serie di sei trasmissioni, presumibilmente sforbiciate, all’interno delle quali tra
compartecipazioni illustri (da Dario Fo a Paolo Conte, da Roberto Benigni a Cochi e Renato, da
Edoardo Bennato a Antonello Venditti) compaiono estratti dallo spettacolo e anche dai due dischi
dalla/roversiani precedentemente incisi.
Nei miei primissimi appunti di ideazione di questo saggio, che risalgono a più di tre anni fa, a
proposito di Automobili decantavo le virtù di un’epoca nella quale si potevano fare 33 giri con solo
sei canzoni e che duravano mezz’ora, rispetto all’horror vacui di oggi dove si sente il bisogno di
allungare il brodo di tanti CD con roba di cui si farebbe benissimo a meno (e poi fra quarant’anni
cosa ci sarà da ripescare negli scrigni del mai registrato?); ero evidentemente ignaro della storia di
questo disco. Poi qualche anno fa un cofanetto comprendente l’intera trilogia insieme a un pamphlet
sulla sua storia è stato arricchito con un album di inediti che ha permesso di ascoltare ciò che da
quel menù originario era stato espunto: che preso così, fuori tempo e fuori contesto, potrebbe anche
sembrare non così irresistibile e non così indispensabile, ma appunto bisognerebbe riportare il tutto
a com’era stato concepito negli anni in cui fu concepito, per coglierne appieno il senso. Il futuro
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dell’automobile perciò avrebbe dovuto essere un vero e proprio concept album (benché a Roversi
l’aspetto discografico interessasse fino a un certo punto) basato sulla struttura di quello spettacolo
cantato che molti ebbero modo allora di vedere nei concerti, potendo così apprezzare la capacità di
Dalla di mettere in moto le parole del poeta “come uno schema nel senso ginnastico, coreografico, e
plastico e sonoro” (Gianni Scalia), di rappresentarle più che cantarle, come sosteneva Dario Fo, di
darne manifestazione al di là della mera proposta di ascolto; motivo per il quale Giovanna Marini
sottolineava di Dalla l’essere più musicista e showman che cantante, in grado di coniugare la
relativa consonanza e melodicità delle sue musiche con un uso dissonante e dissacrante della voce, e
di tenere insieme queste due cose apparentemente contrastanti non per il gusto di stravaganze e
virtuosismi gratuiti ma proprio per dare alla canzone ciò che a una canzone più si domanda, ovvero
di essere comunicativa, magari anche per via di stupore, di modi d’esecuzione che non lasciano
respiro al pubblico, però appunto non per il futile piacere di strafare e/o sbalordire. E questa
possibilità che, già in parte da sole e poi a maggior ragione quando messe in dote al funambolismo
vocale di Dalla, le parole di Roversi siano parole in azione, letteratura in movimento che si stacca
dalla pagina, è molto Futurista, benché tesa a assumere un punto di vista problematico sul “fervore
notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche” (Fondazione e Manifesto
del Futurismo) piuttosto che esaltarne senza se e senza ma una presunta veemente bellezza.
Ecco, in queste ultime considerazioni abbiamo già avuto modo di trovare contatti con qualche
dettame e con qualche granello di prassi Futurista: e il primo brano di Automobili, che è Intervista
con l’Avvocato, un brano di poco più di due minuti nella traccia in vinile che avrebbe dovuto essere
molto più lungo nell’originale e chiudere l’opera anziché aprirla, ci introduce a essi molto bene. Il
pezzo è la messa in scena di un’immaginaria intervista sostenuta da un giornalista del Manchester
Guardian con Gianni Agnelli: sul libro Il futuro dell’automobile, che al suo cuore antologizza
sessanta canzoni di Lucio Dalla (dal primo LP, 1999, fino a quello che alla data di pubblicazione
del volume era l’ultimo, Com’è profondo il mare), il suo testo è corredato da alcune brevi “note di
regia”, intercalari che descrivono banali dettagli della situazione. Nell’album di inediti in dote al
suddetto cofanetto celebrativo della trilogia (che prende il titolo dal verso che convinse Dalla a
mettersi in società con Roversi, Nevica sulla mia mano) il brano appare in una versione dal vivo
della durata di quasi nove minuti: secondo una ricostruzione sommaria dei palinsesti delle puntate
del programma Tv ispirato allo spettacolo, reperita casualmente in internet, è possibile che si tratti
della stessa interpretazione che sta dentro la quinta trasmissione, dov’è eseguita dopo I muri del
Ventuno, una delle tracce cassate da Automobili che parla del primo grande sciopero FIAT.
La struttura del pezzo su disco è molto semplice: due strofe, una di quattro e una di nove versi,
cantate dal giornalista che si presenta e fa una prima domanda all’Avvocato, e altre due strofe di
quattro e otto versi nelle quali l’intervistatore incalza e chiude il discorso sull’inarrestabile crollo
dell’industria delle automobili che “saranno sempre più rare / e finiranno per scomparire / come
lampare sul mare”, sono separate da una cesura molto netta che consiste nella risposta di Agnelli.
Nella versione registrata sul bonus di inediti del cofanetto, dopo un’introduzione parlata in cui Dalla
sottolinea come la famiglia Agnelli tramite l’industria dell’auto sia legata da ben tre generazioni
all’economia e alla società italiane, e avverte il pubblico di fare attenzione tanto alle domande poste
dal giornalista ben informato e puntuale quanto soprattutto alle risposte perfette e piene di cultura e
di charme dell’Avvocato, ci sono più strofe cantate dal giornalista e più risposte dell’Avvocato, e
tuttavia anche questa resa non corrisponde alla redazione originaria di Roversi (stando al libro, ma
anche al sito del poeta che mette a disposizione di tutti le sue opere). Ma qui dobbiamo dire in cosa
consistono le cosiddette “risposte”, siano queste la sola superstite nella traccia del disco ufficiale, le
tre della lezione live recuperata o le quattro previste da Roversi, che nel proprio testo in realtà non
mette una sola parola in bocca ad Agnelli, ma quando tocca a lui parlare scrive “30 secondi di
risposta” e di seguito una delle “note di regia” di cui sopra; quello che presumibilmente dice lo si
capisce in realtà dalle repliche del giornalista. Quindi sul piano della risoluzione formale della cosa
è a Dalla che è toccato trovare un espediente: e lui l’ha trovato in un’improvvisazione onomatopeica
che avrebbe suscitato l’ ammirazione dei Futuristi. Bisogna dire che, mentre nel live Dalla opta per
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qualcosa che sta tra uno scat e un grammelot (si sentono diversi suoni e forse anche qualche parola
vera e propria che parodiano l’inglese “perfetto” di Agnelli), e il cantante si prende la libertà di dare
al tutto una qualità che potremmo definire senza dubbi istrionica, ricca di quegli ammiccamenti che
saranno sfruttati fino alla noia da frotte di pedanti emuli di Gigi Sabani; in Automobili siamo sul
piano di un’onomatopea pura, molto più nervosa e molto più musicale rispetto all’altra, qualcosa
che oltre alle idee Futuriste può anche ricordare esperimenti Dadaisti come la celebre Ur-sonate di
Kurt Schwitters (che è una vera partitura scritta per suoni vari prodotti soltanto dalla voce); e io non
dimenticherei che nel 1966 Cathy Berberian, soprano sottratta alla lirica in virtù della sua indoma
curiosità che la induceva a fare recital nei quali cantare “da Monteverdi ai Beatles”, ha prodotto un
disco, Stripsody, nel quale interpretava un testo di Umberto Eco fatto soltanto con i sigh sniff pow
slam ugh thud e via dicendo delle nuvolette messi in spartito da Eugenio Carmi; guarda caso, lo
stesso anno di uno dei primissimi 45 giri di Dalla che si chiamava Paff … bum, mentre in Terra di
Gaibola del 1970 ci sarà il brano Fumetto dedicato agli eroi delle strips (se non ricordo male
assunto dalla RAI come sigla per un programma di cartoni animati).
Questa performance ha dei precedenti nei due primi LP della trilogia: diversi in Il giorno aveva
cinque teste, in particolare Pezzo zero (sottotitolato “canto in scat”, ma si tratta di grammelot, un
inglese maccheronico) che direi non va oltre il divertissement, ma soprattutto La borsa valori in
Anidride solforosa che è invece una genialata irresistibile, fatta peraltro quasi soltanto di parole di
senso compiuto pur se piegate al potere delle loro sonorità; Roversi si diceva convinto che Lucio
potesse cantare anche l’elenco del telefono, e per averne la dimostrazione gli ha messo davanti un
vero listino di borsa, e ne è sortita una chicca che non si può descrivere, va solo ascoltata, perché
ancora una volta Dalla non è che si limiti a accettare una prova muscolare per fare vedere quanto è
ganzo, ma scandisce il testo e al tempo stesso lo scandaglia cercando di tradurre nel dinamismo
della sua eterodossa declamazione le convulsioni e l’isteria proverbiali dell’ambiente. Non si può
non pensare alla tavola parolibera Sensibilità numerica pubblicata da Marinetti nel 1919, o alla già
riferita Tipografia di Ardengo Soffici (e alle loro brillanti esecuzioni da parte di cantanti come Ana
Spasic o Gabriella Bartolomei), soprattutto a La passeggiata di Aldo Palazzeschi (1910) poesia
composta da una elencazione post-flâneuristica di reclame e insegne di negozi; e a quanto ha detto
Daniele Lombardi di questa tecnica di creazione Futurista che ha aperto alla voce la strada di una
liberazione come puro suono attraverso tipologie assolutamente informali di scrittura in uno spazio
a N dimensioni dal quale emana la possibilità, e l’urgenza al tempo stesso, di interpretazioni mobili
e sinottiche: roba che precede di decenni le improvvisazioni su schemi e tanta poesia sonora degli
anni ’50 e ’60, e che in ambito pop, almeno in Italia, è stata recepita oltre che da Dalla forse
soltanto da Demetrio Stratos (in declinazioni tuttavia assai differenti).
Va detto che, ferma restando la massima comprensione per l’indignazione di Roversi nel vedersi
fatto a pezzi e gravemente alterato il proprio testo, il brano così com’è in Automobili possiede una
indiscutibile, icastica efficacia; e si potrebbe volendo definirlo un buon esempio di “sintesi” quale la
pensavano i Futuristi, ad esempio in ambito teatrale sostenendo che si poteva benissimo scrivere
una pagina dove i drammaturghi “passatisti” ne scrivevano cento; ma forse si esagererebbe. La
suddetta cesura fra le strofe cantate, e cantate con climax a salire della voce in tonalità e in intensità
verso dopo verso, e la risposta dell’Avvocato – nei cui 20 secondi è come se Dalla avesse distillato
gran parte delle trovate usate nelle esibizioni dal vivo – è anche musicale; l’improvvisazione vocale
si presenta di fatto come un brevissimo pezzo sperimentale a sé stante, in antitesi col tempo di
marcetta suonato dal pianoforte durante le strofe, benché costellato da arpeggi dissonanti. Dalla ha
ricordato come per Mille Miglia e Nuvolari Roversi gli avesse chiesto una musica “nazional-
popolare”, il che in effetti sarà ed è anche in questa overture del disco. Una cosa del genere, se qui
può interessare, la pensava Paolo Conte quando compose una delle canzoni italiane più amate di
sempre, Azzurro (che tutti conoscono nella versione portata al successo da Adriano Celentano nel
1968, ma pochi in quella cantata e suonata al piano da Conte stesso, incisa soltanto molti anni
dopo): “Quando uscì Azzurro ci fu una levata di scudi perché andava controcorrente rispetto ai ritmi
dell’epoca. Sogghignarono in molti, ma io me ne infischiavo perché avevo applicato a quella
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canzone degli echi poetici che fanno parte della nostra sensibilità. Tutte le mie canzoni nascono con
questo spirito: scrivere una musica fuori moda, un po’ segreta, che vada a cercare in fondo a noi le
risonanze della nostra identità”. Il pubblico diede ragione a questa scelta, gongolava poi Conte,
forse però perché lo stile canoro di Celentano era in sintonia con quegli echi e quelle risonanze:
quando l’autore si è deciso a incidere il pezzo la sua espressione è stata molto diversa, detournante,
speziata di aromi jazz e sostenuta da quella raucedine da night che connota tante sue esecuzioni.
Dalla personifica quella coesistenza tra sperimentazione e strapaese biasimata o riconosciuta, a
seconda dei pareri, a Pratella, soprattutto in Nuvolari, con il suo modo canoro sbrigliato disteso su
coretti alla Trio Lescano (o forse alle Sorelle Bandiera, che proprio nel 1976 esordivano in
televisione all’Altra domenica di Renzo Arbore).
E sul detournement vocale, come sottolineava Giovanna Marini, gioca spesso Dalla, e di sicuro
nell’accoppiata Mille Miglia / Nuvolari, che è tale in Automobili mentre nel progetto di Roversi si
sarebbe trattato di un trittico, Mille Miglia - prima / Nuvolari / Mille Miglia del ’47; nel disco i due
brani sulla leggendaria corsa automobilistica sono stati accorpati, facendo vedere ancora una volta i
sorci verdi a Roversi il cui piano prevedeva che al racconto della gara del 1930, la prima vinta da
Nuvolari, seguisse l’omaggio diretto al pilota mantovano e quindi la vera e propria epopea
nell’epopea che fu la corsa del 1947; il crescendo drammatico e in evoluzione del testo, pensato per
questa sequenzialità, si va perdendo ovviamente nella diversa disposizione, non di meno le due
canzoni restano due piccoli capolavori.
Quella della Mille Miglia è una vicenda perfetta per inquadrare il passaggio dell’automobile da
oggetto destinato a pochi privilegiati, la cui funzione sportiva per un verso naturalmente lo mitizza
ma per altri versi comincia a renderlo anche un po’ più familiare (e in questo la gara escogitata da
quattro appassionati di Brescia nel 1927 ebbe un ruolo centrale, facendo sfrecciare le macchine per
le strade di mezza Italia, da Brescia a Roma e ritorno seguendo percorsi che si inoltravano fin nelle
remote campagne per unire città con città) e l’apertura del mercato alla classe media grazie al boom
economico; la successione pensata da Roversi è pensata in quest’ottica di passaggio, con la gara del
1930 tutta in chiave progressista e leggendaria (“L’automobile è passata per le strade di mezza Italia
come un dominatore di tempo e di spazio”, scriveva il Corriere della Sera a proposito della prima
edizione della coppa, nel 1927), di un progresso che galoppa rapido (e sempre più rapido: in dieci
anni raddoppia la velocità delle auto, qualcuno dirà che le impervietà della Mille Miglia hanno
insegnato agli italiani a fare le macchine) ma con l’uomo saldo al volante; poi il profilo del pilota-
centauro per eccellenza, Nuvolari (che era stato infatti anche motociclista), una specie di Laocoonte
aggrovigliato alla sua vettura (così ne parlava Gianluca Favetto in una puntata della rubrica di RAI
Radio 3 Wikiradio dedicata alla prima edizione della corsa), che insieme a Campari, Pintacuda,
Varzi ha incarnato questo momento eroico, peraltro coincidente con il secondo periodo Futurista,
quello a ragione o a torto ritenuto fascista; infine l’edizione del 1947, quella della ripresa (nel 1938
la gara era stata sospesa per un gravissimo incidente), che perfora un paesaggio con le ferite della
guerra ancora aperte (“l’Italia aveva il cuore smozzicato”, “Macerie della guerra / l’Italia a pezzi
rovesciati in terra”, scrive Roversi) e amalgama nella sua divorante e spossante tempra l’ancóra
viva costernazione di uno sguardo rivolto al passato con la speranza emergente di quello rivolto al
futuro.
Potremmo partire proprio dalla descrizione di Nuvolari per trovare nei versi del poeta parole che
sembrano prese direttamente dai testi Futuristi, con i tratti somatici ferini del pilota (“le mani come
artigli”, lo “sguardo di un falco per i figli”, “bruno di colore”, la maschera tagliente”) quasi plasmati
sul grido di battaglia di Marinetti nel manifesto fondativo, “Il fiuto, il fiuto solo, basta alle belve!”;
e la vettura anch’essa paragonata a un animale, “il motore è feroce / mentre taglia ruggendo la
pianura”, e poi “aperta come un delfino arpionato”, stilemi che ritroviamo pari pari nel testo primo
del Futurismo laddove Marinetti esalta l’essere finito con l’auto in un fossato, ne esce “cencio sozzo
e puzzolente (…) col volto coperto della buona melma delle officine” (come i piloti della Mille
Miglia, Biondetti che arriva al traguardo “sporco come un cane”) e attende all’aiuto di qualcuno che
si prodiga per ripescare la macchina “simile ad un gran pescecane arenato”. E dopo passare alla
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narrazione delle fasi della corsa per vedere le auto che “Su Radicofani sembravano saette / per le
stanze di un castello antico: / trecento curve che la morte strina / e gomme roventi, puzzo di
benzina”, o che “Partono a notte fonda / coi fari accesi sull’onda / dei pioppi della Lombardia / e li
strappano via”, o ancora “gli alberi della strada / strisciano sulla biada / sui muri cocci di bottiglia /
si sciolgono come poltiglia”; più o meno le stesse – anzi gli stessi, al maschile - automobili che
dopo la febbrile notte di veglia con cui si apre Fondazione e Manifesto del Futurismo superano d’un
balzo “la mitologia e l’ideale mistico” per sfrecciare “schiacciando sulle soglie delle case i cani da
guardia che si arrotondavano, sotto i nostri pneumatici scottanti, come solini sotto il ferro da stirare”
in un paesaggio urbano di “arsenali e cantieri notturni incendiati da violente lune elettriche” come
all’inizio di Mille Miglia Roversi mostra il sole che “si spaccava / contro il ferro dei gasometri / e
dall’alto lasciava / una riga rossa di sangue”. Inutile dire che non si tratta di scopiazzature né di una
sorta di plagio consapevole: siamo sul piano dell’esatta reminiscenza di eventi sportivi che hanno la
portata colma dell’epica, e dell’opportuno utilizzo di un’adeguata retorica su quell’epica calibrata, e
casomai di rimandi molto attinenti all’arte figurativa Futurista, ai bellissimi dipinti cinetici nei quali
il movimento esplode sulla tela tra scintille cubiste e panneggi barocchi, o alla scultura di Roberto
Marcello Baldessari Auto + corsa + città e al quadro di Achille Funi Il motociclista + città opere
nelle quali al passaggio dei veicoli le case si piegano come fuscelli, o agli stessi manifesti della
Mille Miglia del 1928 e 1929 firmati da Fortunato Depero. A proposito di retorica va detto che
Dalla è esemplare in un’esecuzione che salda molto bene la cantabilità di quelli che comunque
restano appigli melodici, nonostante la mancanza di un vero e proprio impianto metrico, al vigore di
un’enfasi che spesso rasenta la comunicativa dei radiocronisti dell’epoca, facilitato in questo
dall’uso che Roversi fa dell’allitterazione (“gli alberi della strada / strisciano sulla biada”, “sbanda
striscia è schiacciato”) e delle risorse fonosimboliche delle parole più in generale. Se guardiamo al
piglio di Dalla sulla copertina di Anidride solforosa, disegnata da Enrico Manelli (nella discografia
di Dalla ci sono altre copertine d’artista, 12000 lune di Milo Manara, Henna di Mimmo Paladino),
lo si può benissimo immaginare, sostituendo l’indecifrabile abbigliamento che vi indossa con
cappotto e bombetta, tra Luigi Russolo, Carlo Carrà, Filippo Tommaso Marinetti, Umberto
Boccioni e Gino Severini nella storica foto del 1912 che è diventata un po’ l’icona del movimento
(e che, a proposito di rapporti tra Futurismo e cultura pop, è stata più volte ripresa e trasfigurata da
Mario Schifano in una serie di opere realizzate a partire dal 1965 e per tutti gli anni ’70 con
tecniche diverse, dallo smalto all’acrilico, intitolate Futurismo rivisitato), o colto nel bel mezzo di
una delle turbolente serate Futuriste; stesso discorso per le immagini tratte da Il futuro
dell’automobile televisivo, di brani eseguiti in studio o “recitati” in videoclip appositamente
realizzati.
Più sopra ho scritto che la narrazione della Mille Miglia ci fa “vedere” delle cose: il testo di
queste canzoni è molto cinetico e sembra rispondere ad alcuni requisiti che il Futurismo chiedeva al
cinema, in particolare di diventare “antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico,
parolibero”. In effetti la scansione testuale di Roversi riesce a coniugare una successione narrativa
normale, che segue una regolare cronologia, con stacchi di montaggio prettamente cinematografici
molto prossimi al flash-back o al fast-forward senza che però venga eclissata la linea temporale
principale: tecnica che del resto la poesia del ‘900 al cinema aveva già ampiamente estorto, basti
pensare a La terra desolata di T.S. Eliot o ad alcune notissime canzoni di Bob Dylan.
La traccia successiva di Automobili è L’ingorgo, mentre ne Il futuro dell’automobile in mezzo ci
sarebbero state altre due canzoni, Statale Adriatica, chilometro 220 e La signora di Bologna, che ci
avrebbero proiettato con un bel salto dall’era automobilistica intrepida e elitaria a quella quotidiana
e di massa, allorché gli incidenti scatenano la curiosità, magari morbosa, di un attimo e poi tutto
ricomincia come se niente fosse e perfino le avventure galanti (o forse soltanto l’incontro con una
prostituta) hanno in sorte di sfinire nel mesto oblio dei non-luoghi stradali: “L’età dell’automobile /
gettona tutti i miti / nei chioschi di benzina” (La signora di Bologna; nella quale qualcuno ha visto
una specie di allegoria dell’automobile). È l’era della morte automobilistica che, in un volumetto
edito dallo stesso Savelli di Il futuro dell’automobile più o meno negli stessi anni (Luoghi e oggetti
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della morte, silloge di saggi di vari autori fra i quali Jean Baudrillard e Michel de Certeau, introdotti
e tradotti da Gabriella Caramore, 1979), e precisamente in una conclusiva conversazione socio-
filosofica a sei voci, viene associata da François Barré alla sfera del tempo libero; “La morte
automobilistica, è essenzialmente, la morte del week-end”, una morte del resto molto pop che
comincia a dispensare attraverso le serigrafie di Andy Warhol – che restano ancora tutto sommato
nell’ethos del memento mori – quel sex-appeal dell’inorganico che un trentennio dopo lambirà con
Crash (il film che nel 1996 David Cronenberg gira a partire dal romanzo di James Ballard che però,
notare bene, è del 1973), secondo un’acuta sentenza di Gianni Canova, “la fine dell’universo
antropocentrico”, il sogno dei Futuristi diventato incubo. Va detto che la stessa Mille Miglia, la cui
sospensione fra il 1938 e il 1947 come abbiamo visto fu dovuta a un gravissimo incidente che
provocò vittime fra il pubblico, pagherà un ulteriore tributo di vite nel 1957 (due anni dopo la
catastrofica tragedia della 24 Ore di Le Mans) e da quel momento nel nostro paese verranno proibite
tutte le competizioni automobilistiche su strada aperta; dal 1980 la Mille Miglia esiste nella forma
della rievocazione storica, praticamente un museo viaggiante.

Per tornare a Roversi, Dalla e a L’ingorgo, direi che possiamo restare seduti sulla poltrona della
sala cinematografica sulla quale ci siamo accomodati: qui la “macchina da presa” evoca un altro
degli auspici Futuristi per la settima arte, quello della possibilità di costruire simultaneità e/o
compenetrazione di tempi e luoghi diversi (il che del resto avevamo visto anche nei brani di prima),
cosa che non appartiene necessariamente al cinema d’avanguardia e all’atto concreto di dare “nello
stesso istante-quadro 2 o 3 visioni differenti l’una accanto all’altra”, poiché nel cinema esiste grazie
al montaggio l’opportunità di ingenerare tale simultaneità direttamente nella visione e nella mente
di chi guarda (poi come sappiamo l’uso dello split screen offrirà “nello stesso istante-quadro 2 o 3
visioni differenti l’una accanto all’altra” proprio a partire dalla messa in scena della musica con il
Woodstock di Michael Wadleigh, 1970). Così nel testo di L’ingorgo abbiamo lo spostamento
continuo dell’inquadratura da primi e primissimi piani, fin dentro gli abitacoli delle auto in coda, a
campi lunghissimi sulle “centomila auto imbottigliate / nella corsia nord e sud verso Parigi”, e
l’effetto paradossale di questa mobilità dello sguardo è di rendere ancora più palpabile il senso di
impotenza degli automobilisti imprigionati nel disastroso ristagno, con la Coca-Cola “razionata a
gocce / due gocce solo per le labbra rotte” (un’istantanea questa folgorante). L’effetto contrasto
rispetto ai saettanti bolidi della Mille Miglia è ovviamente voluto (e in Automobili l’adiacenza dei
brani lo amplifica: quindi ancora una volta un tradimento del palinsesto di Roversi si gira quasi in
un potenziale vantaggio), anche perché pure qui le macchine hanno il loro bravo corrispettivo
zoologico: prima nel “gatto che si morde la coda” quando per un momento “con uno strappo la fila
si snoda” e poi quando alla fine “centomila bisonti scatenati / verso Parigi stretta in una morsa”
cominciano a muoversi. La contraddizione temporale è ribadita dal sospetto che il passato abbia
consumato tutto il possibile futuro dell’automobile mentre nel presente quel futuro si configura
sinistramente congestionato. Del resto, stiamo percorrendo la strada del cinema, e allora possiamo
ricordare che se L’ingorgo di Roversi/Dalla si ispira a un fatto di cronaca, a uno dei primi gravi
collassi della rete viaria parigina, il cinema vero su questo tema aveva già lavorato: nel 1967 Jean-
Luc Godard con Week-end inscenava l’inesorabile schiavitù al mito del progresso e dell’automobile
raccontando un fine settimana di follie, stradali e non, ma che trovano sulla strada una ribalta
preferenziale; dodici anni dopo, nel 1979, Luigi Comencini ne L’ingorgo la mette su un “tono quasi
millenaristico” (Gian Piero Brunetta) laddove al collega d’oltralpe (comunque echeggiato, insieme
al Fellini di Roma) interessava insistere sulla sua già collaudata opera di dissacrazione della società
borghese di cui anzi il film qualcuno (Fernaldo Di Giammatteo) considera una summa, almeno fino
a quel momento (entrambe le pellicole dovranno penso qualcosa al racconto di Julio Cortázar
L’autostrada del sud del 1966).
Anche a Il motore del Duemila è toccata una dislocazione rispetto alla concatenazione dei brani
immaginata da Roversi, insieme all’altra canzone che con essa è andata a completare la truppa delle
sopravvissute in Automobili, ovvero Due ragazzi: né più né meno invertite di posizione, l’ultima
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citata, la quale avrebbe dovuto precedere quella che insieme a Nuvolari è stata la hit dell’album, è
diventata invece l’ultima traccia. C’è chi ha sostenuto che questa sia stata un’ulteriore concessione
alla casa discografica, mettere in coda un brano quasi da happy-ending per attutire il senso di
infausto o quantomeno confuso presagio circa il futuro dell’automobile che esala da Il motore del
Duemila; io non ne sarei troppo convinto, ma questo lo vedremo dopo. Per adesso concentriamoci
appunto su Il motore del Duemila, brano del quale corre rilevare subito il fatto, per qualcuno
sorprendente, del suo apprezzamento tra il pubblico, data la struttura atipica – nessuna divisione in
strofe e refrain, strofe peraltro asimmetriche con versi irregolari, accompagnamento musicale cupo;
forse però bisogna un tantino sfatare questa idea che il pubblico di Dalla fosse lì ad aspettare roba
orecchiabile e consolante, specie tenendo conto di quanto il cantautore con la complicità del poeta
aveva già esternato, sia sul piano dei contenuti che su quello delle forme.
Per quanto riguarda il nostro discorso, questa canzone potrebbe essere candidata a rappresentare
al meglio un contatto significativo, ma al tempo stesso problematico, con il Futurismo. Lasciamo da
parte la musica, che è secondo me assolutamente in linea con quanto ci si poteva aspettare nel 1976
da un artista che aveva deciso di abbandonare il sentiero della “canzonetta” senza perciò avvicinare
territori troppo reconditi; qualcosa che sta non dico proprio a metà ma più o meno in mezzo tra il
calderone progressive, in quel momento ancora vivo e vegeto, e la canzone d’autore di stampo più
rock che stava emergendo. Del resto finora di agganci davvero pertinenti con il Futurismo musicale
ne abbiamo visti ben pochi, e non senza ragione se andiamo a rileggere il paragrafo a esso dedicato
per ribadire che alla musica del Novecento il Futurismo ha dato ben poco al di là del molto legato
all’emancipazione del rumore (che nella trilogia Dalla/Roversi fa i suoi bei camei come in tanta
altra musica pop coeva, salvo il fatto che al posto dei pittoreschi intonarumori - o degli object
trouvée di George Martin per il Sgt. Peppers dei Beatles - si poteva far tutto con gli ormai sdoganati
sintetizzatori); per quanto concerne le “enarmonie”, così come abbiamo veduto intenderle Pratella,
inutile ricordare che a inizio Novecento i veri passi avanti in materia di rapporti tonali li stavano
facendo Schöenberg, Berg, Webern con la dodecafonia o Stravinskij che usava nel Sacre du
printemps le scale ottatoniche (del resto già adocchiate da Rimskij-Korsakov); e se Franco Casavola
era attratto dal jazz (cfr. pag. 10), cosa dovremmo dire allora dello stesso Stravinskij, di Ravel,
Shostakovich, Debussy, Milhaud, Kurt Weill? Nella prima strofa Roversi descrive un motore che,
da un lato i Futuristi avrebbero probabilmente preferito, così infatuati dai progressi tecnologici e
affascinati dal meccanico in quanto tale, così “bello e lucente, veloce e silenzioso, delicato, di
metallo prezioso, scarico calibrato, odore che non inquina”, a quelli montati sulle auto della loro
epoca, non poi così veloci ma, in compenso, ben rumorosi, fumosi e puzzolenti; e per altri versi sa
già troppo di utopia, e non solo se guardiamo ai primi decenni del secolo ma anche agli anni in cui
quel testo è stato scritto.
Ecco, in realtà la parola “utopia” non è una parola che si senta affine al lessico Futurista: troppo
lontana da un presente che, sì, è tutto proiettato verso il futuro, ma con il passo dell’azione diretta e
immediata, più che con quello del progetto meditato. Marinetti congetturava la creazione di un
uomo meccanico “dalle parti cambiabili” e propugnava l’impegno alla preparazione dell’inevitabile
e imminente identificazione di quest’uomo col motore e dell’egemonia della meccanica su ogni
settore della cultura; e questo, va detto, in un tempo nel quale non era certamente molto diffuso un
atteggiamento positivo verso la scienza e la tecnica in un’Italia immersa nell’idealismo di matrice
crociana e gentiliana, in un Positivismo di rimando, nella netta separazione tra cultura scientifica e
cultura umanistica (a totale vantaggio, si sa, della seconda), in un’acuta diffidenza verso la tecnica
vista come minacciosa potenza in grado di condizionare il naturale destino del mondo man mano
rosicchiandosi i propri spazi di potere; insomma, nella permanenza di una tradizione umanistica
antiscientifica, a sua volta calata in una condizione di arretratezza industriale e di lentezza della
modernizzazione, oltre che di una distanza tra ricerca scientifica – vissuta ancora in chiave di pura
sperimentazione accademica – e mondo produttivo. Il Futurismo nacque in tale contesto storico, e
se è senz’altro apprezzabile il tentativo di convogliare la propria energia e determinazione, pur con
limiti e fraintendimenti, verso una comprensione dei nuovi scenari tecnici e industriali e delle
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possibilità inedite che essi offrivano all’arte, è però anche vero che fu non poco travisato il pieno
significato dello sviluppo tecnologico, visto in una prospettiva troppo mitica e redentiva (rasente il
feticismo, o l’idolatria se stiamo a testi quali Manifesto dell’idolo meccanico di Fillia, 1925, o Per
una società di protezione delle macchine di Fedele Azari, 1927). La tecnofilia Futurista, frutto della
seduzione dei nuovi oggetti e comportamenti che la modernità immetteva nella vita quotidiana
(peraltro di un’elite, certo non di una popolazione in buona parte ancora contadina e analfabeta,
lontanissima dal poter godere di privilegi quali elettricità, telefono, e men che meno automobili), fu
poco concentrata sui veri presupposti e esiti della scienza contemporanea; l’estetica della bellezza
meccanica era depurata da tutte le inquietudini e gli atteggiamenti problematici che un’arte davvero
moderna avrebbe dovuto contemplare. Fu soltanto con il secondo Futurismo che qualcuno, Enrico
Prampolini ad esempio, si pose il problema, e magari l’obiettivo, di pensare al superamento della
civiltà meccanica verso quella più prettamente tecnica, verso un nuovo umanesimo scientifico; e
saranno ancora più tardi gli scrittori della neoavanguardia ad assumere – anche in questo caso non
senza aporie – uno sguardo autenticamente critico su un rinnovato rapporto tra uomo e tecnologia,
quelli del Gruppo ’63, ma anche battitori liberi quali Italo Calvino o Primo Levi, o l’Elio Vittorini
estensore di Le due tensioni, appunti non necessariamente destinati alle stampe ma che poi furono
raccolti e pubblicati postumi nel 1967 in forma di schede sui rapporti fra una tradizione letteraria di
ritorno e “un’avanguardia che si vergogna del proprio nome” ricche di riferimenti socio-economici
(questa sintetica descrizione del brodo di coltura del Futurismo è ampiamente debitrice del
paragrafo “Tecnologia e Novecento” dell’e-book Manifesti Futuristi. Scienza Macchine Natura di
Pier Luigi Albini, 2003, liberamente consultabile e scaricabile da internet).
Nel testo di Roversi tutta l’euforia tecnologica, in fondo non tanto diversa negli anni Settanta da
quella Futurista, concentrata nella prima strofa, nelle due successive si scontra con un dato di per sé
disarmante: è giusto pensare al motore del futuro, ma forse sarebbe già bene chiedersi come dovrà
essere l’uomo che in quel futuro sarà chiamato a maneggiare macchine tanto progredite; per assurdo
sembra a portata di mano la fattibilità di un motore il cui scarico potrà essere respirato dai bambini
(ricordate il Beppe Grillo ante-M5S che negli anni Novanta portava sul palco l’auto col motore a
idrogeno e faceva fare al sindaco di Milano l’aerosol da un tubo innestato sulla marmitta?), ma non
altrettanto la capacità di “disegnare il cuore” dei giovani uomini del futuro; quasi un’inversione
della profezia di Intervista con l’Avvocato, dove nell’eventualità della scomparsa delle auto pareva
di poter quasi leggere tra le righe il riscatto dell’uomo dalla coercizione sociale ed economica delle
macchine, un Futurismo alla rovescia, con l’uomo che stacca il cordone ombelicale da quella madre
esosa che si è rivelata la macchina in generale, e l’automobile in particolare.
La prima parte di Due ragazzi è spiazzante, una sorta di filastrocca febbrile, ancora una volta le
parole lanciate da un’interpretazione concitata, ancora una volta un plausibile stilema da canzonetta
(più o meno in quegli anni Orietta Berti cantava Fin che la barca va o Tipitipiti … ) che viene
forzato a una funzione espressionistica: poi la seconda parte diventa canzone, allorché l’obiettivo
zuma e la giraffa cala sull’abitacolo dell’auto in demolizione al margine di un campo dove il
ragazzo e la ragazza protagonisti “fitti fitti fanno conversazione”, e il discorso diretto prende il
posto del racconto fino alla penultima strofa (anche qui il concetto di strofa è abbastanza aleatorio,
sono stanze a numero di versi variabile) allorquando glielo riconsegna. Perché più sopra ho detto di
non essere troppo convinto del lieto fine di questo brano, che poi idealmente potrebbe estendersi
all’intero discorso del disco? È vero, in situazione abbiamo due giovani (anche se a un certo punto il
ragazzo dice di essere vecchio poiché ha già vent’anni: bè, i Futuristi si ritenevano anziani a trenta,
stando al manifesto fondativo, e si dichiaravano desiderosi di essere gettati, a quaranta, nel cestino
da altri meno stagionati) che parlano di sé con l’ingenuità del sentirsi adulti - però è anche vero che
allora molti a vent’anni adulti di fatto lo erano - elevando la sciatteria del frangente alla più ovvia
epifania di poesia del quotidiano: l’ombra della sera porta “una neve verde” e sull’auto scalcinata
“scoppiano tre stelle all’improvviso”, quando i due ragazzi smettono di parlare e cominciano a fare
l’amore. Ma questa automobile malconcia e abbandonata non sembra fare il paio con “lo stecco di
legno sull’onda” di Intervista con l’Avvocato? E come può l’immagine di due ragazzi in intimità
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dentro a questa macchina espulsa dal suo naturale habitat cittadino, fatto di code, smog, rumori ma,
a modo suo, anche di vitalità, essere soltanto un “fiero sberleffo alla civiltà dell’autovettura” e in
quanto tale conferire all’album “un odore senza dubbio più rassicurante ma inevitabilmente meno
intenso” (Matteo Totaro) di quello che gli avrebbe dato Il motore del Duemila? E non piuttosto un
monito non meno amaro dell’apocalisse consumistica del finale di Zabriskie Point o delle carcasse
d’auto che popolano come scheletri di animali in via di estinzione la saga di Mad Max, dove ci si
scanna per una tanica di benzina? Mario Sironi, un grandissimo pittore che col Futurismo ha
trafficato per poi prendere una via del tutto personale, quando Giacomo Balla camuffava la velocità
delle auto e la grinta delle luci dei loro fari in (s)composizioni quasi cubiste inserendovi perfino
delle specie di ideogrammi sinestetici del rumore, raffigurava camion parcheggiati in periferia quasi
in simbiosi con gli edifici ma fermi e muti e macchine scrostate: un po’ come Aldo Palazzeschi che
in pieno visibilio Futurista aveva già sfilacciato la fibra delle parolibere coi colpi di tosse della sua
Fontana malata.

La pubblicazione di Automobili provocò tra Dalla e Roversi una separazione consensuale non
priva di livori, che soltanto anni dopo poté essere ricomposta con una nuova collaborazione (non
così importante come quella della trilogia), con la ricementazione di una stima reciproca (in verità
mai venuta meno), e con un mutuo riconoscimento di ragioni. Ora, sappiamo che la proposta di
inediti, remix, rarità, cose rimaste nei cassetti ha generato un mercato quasi a sé, un mercato sicuro
di avere un bacino potenziale minimo tra i fans più sfegatati e i collezionisti più scrupolosi degli
artisti coinvolti: non stiamo qui a discutere la bontà di operazioni di paleografia discografica che
possono essere fatte con le migliori intenzioni o con i più biechi opportunismi, con un certo rigore
scientifico o in modo poco più che dilettantesco. Faccio solo due esempi nei quali lo spettro di ciò
che è uscito postumo, quando l’artista non aveva più mezzi per esprimere assenso o dissenso,
secondo me è andato da un estremo all’altro: Jimi Hendrix e Fabrizio De Andrè. Il cofanetto Nevica
sulla mia mano. La trilogia, la storia, canzoni inedite e manoscritti (Pesaro, RCA Records Label,
2013) ha visto la luce quando entrambi gli autori del materiale contenutovi erano scomparsi: io non
ho interesse a pronunciarmi sulla qualità di questa operazione, che naturalmente è stata presentata
con tutti i crismi del tributo voluto e dovuto, come si fa sempre in questi casi, e con tutta la relativa
solennità (peraltro alle spalle, per così dire, di due persone non proprio amanti della prosopopea,
l’uno che si autodefiniva come abbiamo visto un cialtrone e che era risaputamente tra le persone più
alla mano che si potevano incontrare a Bologna, l’altro riservato e ousider quasi per antonomasia).
Quello che mi sentirei di dire è che, avendo da sempre padroneggiato il disco così come è uscito, la
conoscenza del come avrebbe potuto uscire avvenuta quasi quarant’anni dopo non mi ha
infiammato. Non ho potuto non domandarmi che cosa avrebbe comportato, per il pubblico di Dalla,
per la RCA, per il mondo della musica italiana, per gli estimatori di Roversi, la pubblicazione
dell’LP nella versione che uno dei suoi autori pretendeva e l’altro, se non ci fossero stati ostacoli,
avrebbe accettato (dal momento che cantava dal vivo a quanto pare volentieri tutti i brani che poi
sono stati esclusi dall’imprimatur). Ma d’altra parte non ho potuto non pensare che tutto sarebbe
stato da relativizzare, e che la storia non si fa con i sé e con i ma, nemmeno la storia minima di un
decennio di musica “leggera”: forse Il futuro dell’automobile avrebbe avuto un impatto più forte di
Automobili, e forse invece Automobili con la sua “epitome” più o meno appropriata è andato a
toccare corde che la più ampia opera di partenza avrebbe fatto più fatica a raggiungere. Questo non
lo sapremo mai, sappiamo che le canzoni che all’epoca non furono incluse nel disco ci dicono
qualcosa di quell’epoca, e sappiamo che non avrebbero cambiato il mondo se tutti quelli che
comprarono un certo disco ce le avessero trovare sopra, come non hanno cambiato il mondo
centinaia di onestissime canzoni di lotta più o meno belle e migliaia di bellissime canzoni di svago
più o meno oneste.
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Il giorno aveva cinque teste e Anidride solforosa: i battistrada.

Come abbiamo visto, indipendentemente dalle loro prime intenzioni (dopo l’incontro promosso
da Renzo Cremonini, Roversi né più né meno consegna alcuni testi a Dalla, stando a quanto detto
da quest’ultimo), questi due album sono unanimemente ritenuti i primi due vertici di un triangolo di
fatto completato da Automobili: in ogni caso non c’è dubbio che L’auto targata TO o L’operaio
Girolamo (da Il giorno aveva cinque teste), racconti sull’emigrazione dal sud Italia verso il nord
industrializzato o l’estero, o Grippaggio dallo stesso album, di cui Due ragazzi (in Automobili)
parrebbe quasi un prequel, l’inquinamento, le atmosfere metropolitane di Anidride solforosa e Mela
di scarto e le storie di vittime dell’alienazione di Non era più lui o Un mazzo di fiori (in Anidride
solforosa), i focus sul gravame della storia di Passato e presente e Le parole incrociate (uno per
LP) finiscono per tendere un legame di congruenza fra i tre lavori, per esserne come dei battistrada,
o per usare un’altra metafora pertinente l’occasione per scaldare i motori. Possiamo, per quanto ci
riguarda, trovare dei rimandi all’interno dell’intera trilogia in tema Futurismo?
Diciamo subito che lo stile canoro adottato da Dalla, la capacità di rappresentare il testo più che
limitarsi a renderlo in note, la prerogativa di essere più cantore che cantante, la tensione dell’enfasi
sempre tenuta sul filo, l’orgoglioso “fregolismo” rilevato da Roversi, tutto ciò in questi 33 giri vale
sempre: Lucio non perde occasione – purché plausibile – per adeguare il suo tono volta a volta a
quelle che percepisce come esigenze espressive, ovvero a usare la sua tavolozza di volumi, timbri,
coloriture, sfumature, anche alcuni stilemi e trucchetti, mai gratuitamente; si potrà discutere ogni
trovata, ci mancherebbe, ma non credo si possano negare la convinzione di adoperarsi per il bene
delle canzoni e l’onestà del trovatore.
La seconda traccia di Il giorno aveva cinque teste, Alla fermata del tram, è secondo me uno dei
brani migliori in assoluto della trilogia. Se vogliamo essere pignoli i primi veicoli a essere nominati
nel manifesto fondativo del Futurismo non sono le automobili ma proprio “gli enormi tramvai a due
piani, che passano sobbalzando, risplendenti di luci multicolori”: e qui, benché con un salto di quasi
settant’anni, sono ancora i tram a darsi come emblemi della vita urbana, certo con una prospettiva
tutt’altro che euforica, anzi piuttosto cupa laddove “sembra che tutto / proceda a dovere (…) ma è
solo perché camminano i tram” (in questi versi, non so perché, a me pare affiorare una sorta di acida
reminiscenza dell’adagio secondo il quale quando c’era Mussolini i treni arrivavano in orario, che
io ho sentito in bocca a mio padre, che fascista lo era, quando ero bambino, quindi più o meno nel
tempo della trilogia). In questo pezzo il vocalizzo onomatopeico entra subito all’inizio, poi ogni
tanto torna come una forma di interpunzione, e poi si scatena nella parte finale in cui scompaiono le
parole: si tratta di suoni che riproducono freneticamente lo sferragliare del tram, mentre poi il testo
è come se sgorgasse da questi suoni; il canto è sopra le righe, monocorde e martellante, sviluppato
su un’unica cellula melodica sempre uguale, così come del resto la musica altrettanto martellante e
ossessiva. Possiamo notare - lo ricordava il critico musicale berlinese Fred K. Prieberg nel suo
classico studio Musica ex machina - che a partire dagli anni Venti (e con un contributo suggestivo
di spessore dal Futurismo) la musica prende costante ispirazione dalle macchine; il treno di Pacific
231 di Arthur Honegger (1924) non è che la punta di diamante – brano notissimo e vero capolavoro
– di un catalogo del quale vale ricordare le Machines agricoles di Darius Milhaud (1919) come
l’aeroplano dell’Aviatore Dro del nostro Pratella (1920), Promenade per pianoforte di Francis
Poulenc (a piedi e in auto, in aereo, autobus, treno, 1921) come il visionario Ballet mécanique di
Georges Antheil (1927), fino alla Rotativa (1930) di Giacinto Scelsi, che come abbiamo visto il
Futurismo lo ha lambito.
Lo scat ritorna in chiusura di Il coyote, il cui testo guarda alla questione dell’immaginazione al
potere e dell’immaginazione del potere in un’ottica molto interessante: sì, l’immaginazione va bene,
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purché non si limiti a coniare slogan e a lanciarli attaccati a dei sassi per farli arrivare meglio ma
sappia tenere conto delle leggi della sopravvivenza (la fantasia furba e concreta del coyote vince
quella pulita e svagata della stella; il potere va combattuto, però bisogna attrezzarsi a dovere); ma
non è più che ornamento. Grippaggio come accennato sembra molto vicina a Due ragazzi; qui c’è
un’auto che viene abbandonata, poiché in panne appunto, per andare a cercare un telefono, non un’
auto trovata incustodita che diventa un improvvisato “salottino” per chiacchierare e amoreggiare;
ma il paesaggio è pur sempre quello della desolazione ai margini della città, anche se qui è spinto
verso una visione quasi catastrofica. La forma del brano è quella della suite, che tanto piaceva al più
volte citato rock progressivo.
Di La borsa valori (che è in Anidrire solforosa) si è già detto, le intestazioni dei titoli azionari, le
percentuali in discesa o salita delle quotazioni, qualche interiezione (ahi, vendo, compro, butto,
prendo) diventano a tutti gli effetti una partitura sonora scattante sovrapposta a un sottofondo
musicale da spot pubblicitario. Invece tornando alla track-list di Il giorno aveva cinque teste non si
può non ricordare, nella chiave di lettura di queste pagine, È lì in quanto potrebbe essere il frutto di
un progetto di “sintesi radiofonica” Futurista. I Futuristi erano molto attratti dal mezzo radiofonico
che consideravano superiore al teatro - che secondo loro aveva già “ucciso” - e al cinema sonoro (lo
scritto dedicato alla radia è del 1933) “agonizzante di sentimentalismo rancido (…) di luminosità
riflessa inferiore alla luminosità autonoma della radiotelevisione”: verrebbe da pensare a che dieta
filmica limitata avessero i nostri Futuristi, in quegli anni in cui la settima arte ha già sfornato alcune
eccellenti opere dal punto di vista del suono nonostante l’appena avvenuto avvento della tecnica
relativa (qualche esempio? Sotto i tetti di Parigi di René Clair,1930, M il mostro di Düsseldorf di
Fritz Lang, 1931, Le luci della città di Charlie Chaplin, 1931, per non dire delle scatenate colonne
sonore dei film di animazione, ad esempio quelle già ricordate di Carl Stalling per la Warner Bros),
ma la cosa qui non è utile. A ogni modo la radio è vista dai Futuristi anch’essa come strumento di
sintesi, come un’arte nuova che comincia proprio dove finiscono il teatro, il cinema, la narrazione
radunati e compendiati in nome dell’abolizione dello spazio. Bisogna dire che questo è l’ulteriore
caso in cui il Futurismo faticherà a tradurre in prassi congruente le proprie intuizioni teoriche; negli
stessi anni, 1936 per la precisione, Rudolf Arnheim studierà il medium in modo molto più analitico
e approfondito, certo approfittando delle proprie competenze di teorico della percezione, fino a
comporre quasi un manuale di scrittura radiofonica basata su precisi principi di trattamento del
suono (direzione, distanza, simultaneità) destinati non tanto a supplire alla mancanza di un supporto
di immagini ma a farne quasi un punto di forza. È lì comincia con una parte recitata su un fruscio e
qualche accordo di pianoforte, una recitazione straniata e sciatta che introduce la parte cantata, che
sarebbe ciò che un uomo racconta a un intervistatore televisivo del ritrovamento di un cadavere; il
tutto somiglia molto a quello che, allora meno oggi a badilate quotidiane, sentiamo in Tv proposto
da cronisti non molto più professionali della caricatura fatta da Dalla; non sfigurerebbe tra le
pochissime sintesi radiofoniche marinettiane di cui abbiamo testimonianza registrata.
L’ultimo solco di Anidride solforosa, diciamo l’ideale passaggio di consegne verso Automobili, è
Le parole incrociate: Roversi rievoca alcune vicende dell’Italia post-unitaria come fossero quesiti
enigmistici, le strofe cominciano con una domanda, una domanda vera con punto interrogativo e
non implicita nella canonica “definizione” del cruciverba, e vanno avanti con l’ideale soluzione,
non una sola parola ma una brevissima esposizione di fatti passati che servono però a interpretare
anche il presente, a ribadire la continuità della storia come nelle ultime parole del testo: “Un filo
rosso lega tutte queste vicende / Attenzione / dentro ci siamo tutti, è il potere che offende”. Ora, il
dato interessante è che nel manoscritto originale della canzone Roversi aveva inserito prima di ogni
strofa le coordinate orizzontali e verticali, scrivendo una specie di, almeno parziale, poesia visiva.
Non so, non ho trovato riferimenti in proposito, se ai Futuristi interessasse l’enigmistica: quello che
si sa è che il primo cruciverba della storia, cruciverba in senso moderno lasciando stare antefatti
storici o archeologici (i quadrati magici, il celeberrimo SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS e
simili) fu pubblicato su un supplemento domenicale del New York World nel 1913; all’epoca in
Italia quando si parlava di enigmistica ci si riferiva ancora e soltanto a quella cosiddetta classica,
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quella ritenuta – in buona parte ancora oggi – aristocratica dei rebus, delle sciarade, degli enigmi
propriamente detti etc, di contro a quella cosiddetta popolare, dei cruciverba appunto, che da noi
arrivarono nel 1925. Comunque l’idea di Roversi non è molto distante dai presupposti delle parole
in libertà, da qualche elemento capace di scardinare sul piano visivo la struttura del significante per
acuire il peso del significato.

L’O di Giotto: Com’è profondo il mare.

Per quel che possono contare gli addentellati biografici, dopo il distacco da Roversi Dalla patisce
anche la scomparsa della madre e, come ha scritto Fabrizio Pezzoli in una scheda sull’album Lucio
Dalla del 1979, si ritrova a dover quasi ripensare la propria vita, oltre che la propria musica. E dal
suo rifugio marino presso le Tremiti comincia a partorire intuizioni e appunti che, agglomerati dalle
lezioni imparate da Roversi (“Per partenogenesi, per osmosi, tirandomi da lontano delle freccine
con la cerbottana … Ho capito soprattutto l’organizzazione del pensiero della canzone, la parola, il
senso, il segno, la forza e soprattutto la pietà per tutti quelli che devono ascoltare le tue canzoni”),
confluiranno in Com’è profondo il mare, considerato da qualcuno il capolavoro del cantautore
bolognese. La cosa è opinabile, tenendo conto di una discografia corposa e composita, ma non
infondata; indiscutibile invece il fatto che questo disco coincida con una crisi, nel senso etimologico
della parola, un punto di osservazione privilegiato dal quale potere, ma anche dovere, operare una
scelta definitiva, un punto di non ritorno. Se la title-track può essere avvicinata a Il motore del
duemila per senso di sospensione, per inquietudine del tessuto musicale (nonostante, o forse anche a
causa de, l’inciso fischiettato che ha imparato perfino la casalinga di Voghera), Corso Buenos Aires
ha tutta l’andatura dei brani più “Futuristi” dei dischi precedenti, incalzante, irriverente, davvero
parolibero, e Disperato Erotico Stomp si fa beffe, dichiaratamente, di un presunto moralismo della
sinistra (probabilmente nell’aver voluto “sprecare” un tema allora ancora socialmente sentito come
il sesso buttandolo in un vaniloquio che di erotico non ha nulla, ma in definitiva ha ben poco anche
di osceno a dispetto delle “parolacce” e dei siparietti para-pornografici). D’altra parte le altre
canzoni virano decisamente verso una forma-ballata che recupera in toto l’immediatezza e la
cantabilità che lo sperimentalismo della trilogia aveva sacrificato; è un po’ un ritorno a baita, anche
se il tutto è più maturo dei vecchi successi sanremesi, ed è allo stesso tempo un balzo verso il futuro
prossimo. Così se per i tre dischi roversiani si parla di trilogia, per Com’è profondo il mare e i due
album successivi si è azzardata l’ipotesi quanto meno di un trittico.
Lucio Dalla (1979) e Dalla (1980), con in mezzo la trionfale tournee di Banana Republic con De
Gregori (e Ron e gli Stadio), riconciliano completamente Lucio col grande pubblico, incastonando
nel repertorio della canzone italiana brani quali L’anno che verrà, Anna e Marco, L’ultima luna,
Stella di mare, Futura, Balla ballerino, autentici evergreen. La trilogia rimane una luce fredda e
affilata nella storia di Dalla e della pop music italiana, una luce che oggi pochi vedono e ancora
meno meritano: canticchiare Caruso o Attenti al lupo costa meno fatica.

Conclusioni: il Futur(ism)o è anteriore.

Su un canale privato che si occupa esclusivamente di televendite, durante la notte e fino alle otto
di mattina ormai da anni va in onda a ciclo continuo una rubrica dedicata al design, saranno una
ventina di puntate di mezz’ora ciascuna con dentro alcuni servizi di pochi minuti, io le ho viste tutte
più volte e alcune, quelle migliori e quelle più buffe (il mondo del design è pieno di gente in gamba
ma anche di balordi) le so a memoria: in una di queste si racconta uno dei tanti eventi coi quali nel
2009 si è celebrato a Milano il centenario del Futurismo: Luci Futuriste + Il suono della guerra dei
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suoni, una sorta di light-show apparecchiato dallo studio CastagnaRavelli (illuminotecnica, video
installazioni urbane, organizzazione di spettacoli, mostre, allestimenti) con musiche di AGON, che
una notizia del Comune di Milano descriveva come “un’esplosione di proiezioni, musica, live
painting, colori, luci, effetti sonori e testi recitati da attori” che avrebbe trasformato il set prescelto,
la facciate di Palazzo Reale, in “campo di battaglia futurista”. Da quello che ho potuto intuire dal
mini reportage con intervista a Paolo Castagna, a me la cosa è parsa più che altro un tourbillon di
lettering digitale che i Futuristi avrebbero irriso, con una punta di indignazione credo, nel vedere
tanta tecnologia messa al servizio di tanto poca immaginazione, le parole in libertà imbrigliate
dentro i mille o millanta patterns di un software manovrato da qualcuno che il Futurismo lo ha
studiato sul Bignami. E questo senza tenere conto che ai Futuristi le celebrazioni sarebbero in teoria
andate comunque di traverso, visto che auspicavano di essere cestinati a quarant’anni dai più
giovani e avevano fatto appello a tutti gli “allegri incendiari” che dessero fuoco a biblioteche e
musei. D’altra parte poi nei musei e nelle biblioteche ci sono finiti pure loro, a dispetto di intenti
massimalisti e proclami roventi, per nostra fortuna potremmo dire, ma per loro onta; così come ci
sono finiti i Dadaisti, che predisponevano esposizioni in cui si invitava il pubblico a distruggere le
opere, come ci sono finiti tutti i movimenti artistici e culturali più radicali. Una volta Carmelo Bene,
a qualcuno che gli cianciava di avanguardie storiche, puntualizzò “le avanguardie sono storiche”. È
l’eterno problema del nostro sistema culturale, quello di dover a tutti i costi classificare ogni cosa,
storicizzarla, e infine volente o nolente renderla innocua; così si possono anche tessere con relativa
semplicità i fili che collegherebbero tra loro espressioni e prodotti culturali lontani nel tempo – e
talvolta nello spazio – e stabilire comode catene di relazioni, influenze, retaggi, eredità, genealogie
di padri e figli: per esempio, secondo Paolo Castagna, era importante officiare il Futurismo anche in
merito all’influsso che esso avrebbe esercitato sul Dadaismo, sul Surrealismo, su happening e arti
performative, perché “viene tutto da lì” (cioè dal Futurismo: su happening e performance possiamo
in parte essere d’accordo, ma sul fatto che Tristan Tzara o Kurt Schwitters, Salvador Dalì o André
Breton abbiano preso da Marinetti, Balla, Depero etc. io avrei più di un dubbio).
Come ho asserito fin dall’inizio, questo mio tentativo di trovare ascendenze Futuriste in Lucio
Dalla e Roberto Roversi si potrebbe considerare non più che un divertimento. L’idea per uno studio
su questo tema mi è venuta nell’aprile del 2015, e le due paginette di appunti redatte allora hanno
sonnecchiato per questi anni in un volume dei miei scartafacci; nel frattempo dentro una carpetta ho
cominciato a raccogliere titoli di libri, notizie, schemi per una possibile struttura del testo, tutto però
senza l’accuratezza con cui ho sempre affrontato i miei scritti di carattere saggistico, libri, articoli o
conferenze che fossero, come se fin dal principio inconsciamente avessi avvertito una specie di
frivolezza intrinseca nel proposito. D’altra parte, e anche questo l’ho già detto, sarebbe difficile non
trovare qualche anche minima, marginale, cercata o scovata, pregnante o rabberciata, traccia delle
folgorazioni, dei presentimenti, delle sensazioni (e pure delle ingenuità, delle vanaglorie, delle
esaltazioni) Futuriste nella cultura pop di tutto il Novecento. Visto da una parte o dall’altra, questo
mio lavoretto somiglierebbe insomma al classico atto dello sfondare una porta aperta: non a caso è
stato elaborato in un momento difficile della mia vita, quando stanchezza, stress e preoccupazioni –
e l’ennesimo tentativo di qualcuno di seminare zizzania nella mia famiglia – si sono coagulati in
una incolpevole pigrizia davanti alla pagina bianca che ho saputo superare, almeno per ora, soltanto
in virtù della suddetta frivolezza di queste 27 pagine.
Forse esistono due modi per ri-memorare, più che per celebrare, il Futurismo: uno è quello di cui
si è fatto attore Elio (cfr. pag. 10), ovvero inventare una forma di parodia (ir)riverente, giocare ad
armi pari con l’originale con l’invenzione poetica di una spedizione per uccidere il chiaro di luna,
non una presa in giro delle ambizioni Futuriste piuttosto un ambire loro (cioè un girarci intorno) con
coscienza di causa; l’altro è quello di fregarsene completamente, fare finta di non sapere nemmeno
che sia esistito un movimento culturale chiamato Futurismo, nel momento esatto in cui si fa man
bassa di alcune sue scoperte, rivelazioni e promesse, che è forse ciò che è accaduto in Automobili. Il
Futur(ism)o è anteriore, quando tu verrai lui sarà già uscito.1
1
Esempio di frase contenente le due forme di tempo verbale futuro, semplice e anteriore, tratta da una grammatica.
28

Bibliografia.

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