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Il mostro malinconico

Appunti per un museo dell’adolescenza

La parola mantica evoca due suggestioni. Una è puramente fonetica:


mantica ↔ mantice, ovvero soffio, respiro, il mezzo di trasporto della voce,
ciò che permette alla voce di diventare epifania del pneuma. L’altra è
etimologica: mantica, ovvero mantiké téchne, arte divinatoria, un’arte che si
è espressa nel corso della sua lunga storia in molti modi, affidandosi spesso
a segnali e manifestazioni – provocati o meno – di varia natura, ma la cui
versione più intrigante è pur sempre quella dell’oracolo verbale, il responso
comunicato da formule misteriose e/o ambigue.
Questa vaga convergenza coagula in una goccia di immaginazione dove
si sente la voce volteggiare come un’aura sopra al pentolone dentro al quale
gorgoglia la ricetta del desiderio verso il futuro: due soli ingredienti,
angoscia e speranza (che del resto il vocabolo “desiderio” contiene già in sé,
entrambi: de-siderare, distogliere lo sguardo dagli astri per trarne auspici, in
origine; e soltanto in seguito volere, cercare fortemente qualcosa; magari
chiedendo aiuto proprio alle stelle, per quanto “cadenti” … ).
C’è un tempo nell’esistenza di ciascuno e ciascuna nel quale la voce
assurge a sintomo fatale di quel desiderio verso il futuro, quasi il rombo del
motore della vita che vi accelera incontro: perché essa, la voce, diventa una
delle manifestazioni traumatiche di un mostruoso mutamento, prodigio e
monito1, e quel tempo è, naturalmente, l’adolescenza. Brufoli, peli, pulsioni
sessuali, improvvisi aumenti di altezza, seni che crescono, mestruazioni: un
corpo che cambia e la voce che, salendo dalle sue viscere, fisiche e
psicologiche, sembra volerlo dire, prima ancora che attraverso le parole che
si stanno conquistando il proprio logos (uscendo dall’infanzia, ovvero
dall’età del non-saper-parlare) col subbuglio di una phoné alla ricerca del
suo assetto2.
Ma se vogliamo che, all’interno di Mantica, questo racconto ci venga
fatto ascoltare dal cinema, dobbiamo fare i conti con un problema: la figura
dell’adolescente nel cinema (ma, nei media in genere) è quasi sempre viziata
dagli stereotipi coi quali gli adulti amano vederla; vittima di regole e di
valori che ancora non può o non vuole accettare, nelle due complementari

1
Mostro, dal latino, attraverso monstrum - appunto prodigio, segno divino – è legato al
verbo monere, da cui anche monito: secondo alcuni c’è a monte l’episodio celeberrimo
delle oche che salvarono il Campidoglio col loro avvertimento, il loro strepito ammonitore,
che si tradusse poi in epiteto della dea Giunone (ammonitrice) alla quale esse erano sacrate.
2
Mi è d’obbligo ricordare che la parola “mostro” riferita all’adolescente io l’ho sentita per
la prima volta dalla bocca di Claudia Castellucci: quando, nei primi anni Novanta del ‘900,
la Scuola Teatrica della Discesa venne investita “da un evento che si vuole vedere (…) la
visita e poi il ricevimento di persone adolescenti”.
versioni passiva/attiva, consenziente/dissenziente; individuo che comincia a
sperimentare il dramma di dover diventare “persona” (nell’accezione
junghiana: “il sistema di adattamento o la maniera con cui abbiamo contatto
col mondo (…) ciò che in realtà uno non è, ma ciò che egli e gli altri
credono che egli sia”) in un magma ingovernabile di inquietudine e di
ingenuità, di genio e sregolatezza, di noia e trasgressione. Niente di campato
in aria, certo, perché gli stereotipi hanno sempre il loro retroterra di verità.
La questione però è che a queste condizioni l’adolescente diventa un
fenomeno da baraccone, il mostro diventa un freak, e le ribalte mediatiche
finiscono per somigliare troppo al dime museum inventato da P.T. Barnum;
che infatti secondo lo scrittore e critico statunitense Leslie Fiedler è stato
uno tra “gli uomini che più contribuirono a plasmare l’immaginazione del
primo pubblico di massa”.
È proprio da un passo di Fiedler che deriva indirettamente il titolo di
questa proposta, un passo che tenta di descrivere che cosa accade a colui che
decide di entrare in un dime museum (attrazione che dimessamente resisteva
ancora forse in qualche luna park fino agli anni Settanta del secolo scorso, e
che oggi, in modi più soft o addirittura glamour – e perciò del tutto privi di
fascinazione – si è trasferita sugli schermi Tv nei vari “show dei record”) e
si trova faccia a faccia con “il silenzio dei freaks tradotto in una forma
iconico-verbale immutabile e convenzionale come un mosaico bizantino”:
un passo che, domandando al lettore un po’ di pazienza, vale la pena di
riferire quasi per intero: “Ancora oggi, se l’imbonimento funziona, se siamo
fortunati, o imbottiti dalla droga o ubriachi o beatamente semplici, noi
vediamo ciò che ci aspettiamo di vedere; non un povero disgraziato che
incarna approssimativamente il mito dal quale prende nome la propria
afflizione, ma il mito stesso (…) Se invece l’imbonimento non funziona o
s’interrompe (…) alzando gli occhi, vediamo ostilità e noia negli sguardi di
coloro che credevamo stessero lì per farsi guardare. È a questo punto che,
dietro la maschera delle parole e della musica, udiamo il silenzio dei freaks”
(Leslie Fiedler, Freaks. Miti e immagini dell’io segreto [1978], Milano, Il
Saggiatore, 2009, pag. 296). Non è forse la stessa cosa con l’adolescenza?
Se l’imbonimento mediatico (del quale fa parte, se serve dirlo, anche il
cicaleccio dei vari psicologi a gettone in tour negli studi televisivi) intorno a
questa sorta di oggetto intenzionale non opera a dovere, crolla il mito e resta
il silenzio.
Ed è in questo silenzio di smascheramento che si apre lo spazio per la
contemplazione di una condizione essenziale del tempo dell’adolescenza, la
malinconia; che di solito invece resta nascosta perché appare come un ospite
clandestino in un essere che dovrebbe, per definizione, sentirsi proteso con
tutta la sua vitalità verso il futuro. Ma, come abbiamo visto, il futuro è
inquadrato nella cornice ambigua del desiderio, e allora più che lanciato
come un astronauta verso splendori cosmici l’adolescente si sentirà piuttosto
“sparato” contro l’oscurità come un uomo-proiettile; ancora, un fenomeno.
L’indecifrabilità del tempo, sospeso fra un passato breve eppure densissimo
e un futuro incommensurabile ma disabitato; la confusione di sentimenti che
ingaggiano battaglie furiose sul campo dell’alfabetizzazione affettiva; l’eros
che scompagina i fogli del diario mentre ancora si scrivono; l’identità che
cerca di rompere il bozzolo e ancora non sa aprire le ali: e, là fuori, l’arena
che reclama nuovi gladiatori, cattivi e addomesticati come si conviene. La
malinconia è la casa sull’albero – per citare uno dei film presentati – dove il
tumulto si placa e dove può prendere corpo una paradossale nostalgia del
presente; paradossale, giacché non si può tornare in un tempo che non si è
ancora abbandonato. Ma è proprio questo il punto: la certezza che un giorno
si dovrà rimpiangere qualcosa di questo tempo che ora appare così
drammatico, e una inusitata “luccicanza” 3 che permette, inconsciamente, di
presentire cosa e forse anche quando lo si rimpiangerà. Il museo, non più
padiglione delle meraviglie, non più piazza dei miracoli, è ora luogo
appartato dove la voce dell’adolescente può tornare mantice (respiro) e
mantica (profezia): un luogo davvero “sacro alle Muse”, ovvero al pensiero,
alla memoria (e all’oblio), al canto.

P.S. L’età dei protagonisti dei film presentati gravità intorno agli undici-
tredici anni: non saremmo quindi propriamente nel regno dell’adolescenza,
ma in quello della pre-adolescenza, come si usa dire spesso oggi, o, come si
usava in altre epoche, della puerizia. Ha senso questo scrupolo tassonomico
in tempi che chiamano “ragazzo” una persona da quando ha sei anni (fatevi
un giro in qualche scuola elementare e ascoltate mestri e maestre chiamare a
raccolta gli alunni) a quando ne ha quaranta?4 Mentre, per contro, le scienze
del marketing e del merchandising segmentano i loro target oramai anno per
anno? Non lo so. Quello che so, o almeno credo di sapere, è che in questa
3
La prima citazione, quella della “casa sull’albero”, riporta a Stand by me – Ricordo di
un’estate, che Rob Reiner ha tratto da un racconto di Stephen King; la seconda, quella della
“luccicanza”, si riferisce alle qualità telepatiche del piccolo Danny, protagonista di un altro
famoso romanzo di King, The Shining (e dell’altrettanto famoso film di Stanley Kubrick).
4
“Sono un ragazzo di quarant’anni – scrive Giancarlo da Torino nel febbraio del ’93 alla
rubrica Questioni di cuore che Natalia Aspesi tiene sul ‘Venerdì’ de La Repubblica”: in un
libro del 1999 l’antropologo Massimo Canevacci riportava alcuni esempi di rimozione del
concetto di “classe di età” riconducibili, a suo dire, a una vera e propria rivoluzione nella
percezione dell’orizzonte generazionale; positiva, perché consentirebbe alle persone di
sottrarsi alla “ossessione filosofica e demografica del controllo” che riduce “l’età a ciclo. Il
giovane a tasso demografico. La natura a riepilogo” (Massimo Canevacci, Culutre
eXtreme. Mutazioni giovanili tra i corpi delle metropoli, Roma, Meltemi, 1999, pagg. 29 e
37). Può essere interessante - per me è stata una vera sorpresa – scoprire che in un testo
medievale, il Grand propriétaire de toutes choses, l’adolescenza, sulla base anche di fonti
preesistenti, considerata di norma entro i vent’uno o vent’otto anni, viene legittimamente
estesa “fino a trenta e anche a trentacinque anni”, anche se “la crescenza è già terminata
prima dei trenta o trentacinque anni, e anche dei vent’otto” (Philippe Ariès, Padri e figli
nell’Europa medievale e moderna [1960], Bari, Laterza, 1994 – prima edizione 1968, pag.
18).
fase “avventizia” dell’adolescenza la malinconia e la nostalgia del presente
che ho cercato di illustrare sono più evidenti. E credo anche di sapere che la
memoria adulta, la nostalgia a quel punto del tutto ragionevole, va più
volentieri proprio a quegli anni: dove le azioni cominciano a esibire, come
dire, il segno del volere essere autori della propria messa in scena, ma
possono ancora giustificarsi per la loro eventuale insensatezza; dove le follie
si fanno ancora con il passo incauto ed entusiasta dell’esploratore5, come è
per i ragazzi di Stand by me. Le bravate di dopo, quelle dell’adolescenza
piena, si scordano di buon grado, quasi fossero un pedaggio dovuto
nell’anticamera della maturità: queste, di prima, si tengono con tenerezza,
atti ormai non più infantili ma che dell’infanzia non hanno perduto del tutto
l’ingenuità, il coraggio, la generosità che presto saranno rimpiazzate dalla
frivolezza, incoscienza, dissipatezza (ancora in Stand by me, i ragazzi
appena più grandi dei protagonisti, che hanno appunto dissipato sia la
disperazione dei “ribelli senza causa” di Nicholas Ray - Gioventù bruciata -
sia la goliardia struggente dei liceali di George Lucas – American Graffiti -
e si presentano come dei puri idioti).

5
Folle da follis = soffietto, pallone, mantice … tutto si tiene …

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