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Questa terza e conclusiva silloge prende le mosse dall’esperimento immaginato nel 1752 da

Benjamin Franklin (a quanto pare però messo in pratica in Francia da L.G. Le Monnier, anche se
poi valse al suo ideatore una borsa di studio e un titolo onorifico): ovvero il celeberrimo lancio in
atmosfrea di un aquilone opportunamente equipaggiato per dimostrare la natura elettrica dei
fulmini, e la conseguente “invenzione” del parafulmine: ma si innerva in pari misura sull’aforisma
di Ettore Sottsass “L’arte è prendere il fulmine con una mano e tenerselo stretto” e sull’opera di
land art di Walter De Maria riprodotta qui sotto e alla quale è dedicato l’ultimo brano della silloge.
Quest’opera secondo me è sia la traduzione materiale della frase di Sottsass, che io considero una
sorta di apologia del coraggio che l’artista ha (o dovrebbe avere) di guardare scevro da protezioni il
potere abbagliante dell’intuizione, con tutti i rischi che ne conseguono, primo fra tutti quello di
commettere errori anche grossolani proprio a causa della visione compromessa dal bagliore; sia la
cornice metaforica di tutta quanta la raccolta nelle sue tre differenti declinazioni, che io mi permetto
di riassumere in questa proposizione senza dire null’altro: Lo scopo dell’arte è quello di inventare
la realtà.
Qui il controcanto è affidato a delle poesie “sparse”, senza una logica coerente fra loro, pur se
tutte sono in qualche modo legate al tema del fulmine: Il vecchio che correva dietro ai fulmini è la
versione italiana di una poesia in dialetto romagnolo di qualche anno fa – 2005 – la quale peraltro
era a sua volta la concretizzazione di uno spunto ancora più datato; Il domatore di comete ha
origine da un paio di versi di un testo dedicato al circo (anzi, ispirato da un quadro sul circo di
Georges Seraut), composto nel 2011 per i bambini di una terza elementare nell’ambito di un
progetto sul rapporto fra poesia e pittura.
I riferimenti al naturalismo visionario di Lucrezio e alla dialettica cosmica di Eraclito mi sono
venuti fuori quasi spontaneamente, ma in fine mi sembrano non peregrini: così come quello finale
ad Alighiero Boetti (che del resto era già emerso nella parte finale di Un nome ai confini del cielo).

Walter De Maria, The Lightning Field (New Mexico, 1973-1979, installazione permanente)
Al timone di tutto la folgore.

1.

Nel 1750 Benjamin Franklin


ebbe un’intuizione:
pensò all’elettricità come ad un fluido
imponderabile, e tuttavia presente
in ogni corpo, nella costituzione
stessa delle cose:
e si domandò se la corrente
non fosse che un trasloco di energia
fra cose e corpi, tale da rispondere
a un principio di conservazione
(come una bottiglia di Leida1 gli insegnò).
Ma la sua sete, la sua immaginazione,
fecero un passo oltre:
guardò e rimirò flussi e scintille
scaturiti da macchine ed ordigni
stipati in Gabinetti e baracconi,
le dieci e cento e mille
attrazioni elettriche
di scienza e fiera a braccetto,
e accompagnò i suoi occhi ora irrorati
al distretto dei cieli:
lassù agivano altre macchine
non meno formidabili – le nubi –
e lampi e folgori mirabili e paurosi
nei giochi della natura,
al pari affascinanti ed ineffabili
di quelli di dèi antichi capricciosi.

Il vecchio che correva dietro ai fulmini.

Un fulmine cos’è?Pura furia di luce


scagliata dal temporale?Catarro di rabbia
di arcaici irosi dèi fuori dal tempo?
Focoso scampanìo della natura
a memento della sua forza, del suo orgoglio?
Il vecchio sa soltanto che lì sotto
torna bambino, fra paura e meraviglia:
maldestro a ogni teoria di fuga –
ammesso sia possibile fuggire –
perché l’angoscia contiene già il sollievo,
1
La bottiglia di Leida è un contenitore di vetro coperto da un rivestimento metallico sia all’interno che all’esterno: il
rivestimento interno è collegato all’elettrodo di un generatore elettrostatico attraverso un conduttore mentre il vetro
funge da isolante; questa semplice struttura crea un campo elettrostatico che consente di immagazzinare energia. La
bottiglia deve il nome alla città in cui Peter von Musschenbroek, professore di fisica sperimentale presso la locale
università, scoprì casualmente le sue proprietà. Franklin ipotizzò per spiegarle il principio di conservazione della carica
elettrica: nei fenomeni di elettrizzazione non si ha creazione, ma trasferimento di carica elettrica da un corpo a un altro,
in modo che il bilancio complessivo della stessa resti costante nel tempo.
l’affanno è già consolazione
nel sorriso della madre, nella carezza
fresca del lenzuolo;
così che quando i tuoni in fitto stuolo
cominciano a andar via,
il rombo ritorna brontolìo,
al loro posto viene una malinconia.

Tra il bimbo che aspettava


i fulmini scoppiare nascondendosi
dietro al verde di una gelosia,
e questo vecchio matto che li insegue per i boschi
neanche fossero lepri,
c’è di mezzo una vita:
che l’ha istruito a fidarsi
di tramontane ed ombre di pagliai,
notti raccolte, fermenti di ginepri,
e poco dei suoi simili, uomini foschi
e donne cristalline.
Tutto comprende, ed ogni volta, quando arriva
sul limite dell’alito, del pneuma della luce,
che ricuce sempre ancora la ferita:
ottant’anni di spasmi, veleni, di fatiche
per mordere un fiotto di saliva.

2.

È così, si disse Benjamin: gli eventi


provocati nei laboratori da ingegni
e marchingegni
somigliano a quelli causati dalle nuvole
solcando l’atmosfera ed incontrandosi.
Somigliano la luce e gli accidenti sonori,
simile è l’odore
di zolfo bruciato che ne esala,
analoghe le forme disegnate nello spazio,
l’effetto esiziale su cose e creature,
il potere di fondere e infiammare,
smagnetizzare gli aghi delle bussole;
le premure indiscusse per le punte.
Le scintille nate dagli amplessi
a manovella
fra vetri e feltri2 nelle fabbriche
di nervose fantasmagorie
erano per Benjamin sorelle delle folgori:
genìe naturali e artificiali bell’ e pronte
per i consessi di un mondo fascinato,

2
Le macchine elettrostatiche a disco furono fra le più comuni: un disco, generalmente di vetro, imperniato su un asse
munito di manovella, poteva ruotando essere strofinato da una o più coppie di cuscinetti di cuoio imbottiti di crine o di
feltro; dei pettini permettevano di trasferire le cariche elettriche dal disco a un conduttore di ottone, avvicinando al
quale un elettrodo collegato a terra si poteva far scoccare una forte scintilla, che scaricava la macchina.
per nuovi sogni da coinvolgere.

Piccolo inventario dei fulmini ad uso dei poeti …

… i quali li amano quasi per urgenza,


perché ricordano loro con nettezza
la fatalità e la violenza
di ciò che dicono essere bellezza:
vita nome dell’arco, morte il frutto3
e la parola quel che li concilia
ritornando dall’erebo-stupore
col dono di sé stessa, mirabilia.
Fulmen, il fuoco e la potenza,
fulgor, splendore d’apparenza,
fulgus, baleno dell’essenza:
la bellezza è creatura che spaventa,
forte e inafferrabile, un poeta
non può fare altro che combattere
combattendo proprio ciò che inventa;
l’arco e la lira
un solo carattere.

3.

Nel 1752 Benjamin Franklin


si sentì pronto a dare fondamento
ai suoi pensieri, alle sue fantasie:
ormai sentiva l’aria popolata
dalle danze di ninfe esagitate,
ne vedeva le coreografie
con gli occhi infatuati
di un bimbo all’ascolto d’una fiaba.
Senza più titubanze progettò così
un esperimento
che gli avrebbe permesso di provare
la natura elettrica dei fulmini.
Con l’estate alle porte i temporali
non erano certo merce rara:
Benjamin, scrutando dalla finestra del suo studio
l’orizzonte
nell’attesa che vi entrassero
lenti e trionfali
cangianti cavolfiori di vapore
nunzi di qualche perturbazione
si mise a … costruire un aquilone.

Il domatore di comete.

3
Frammento di Eraclito - Diels-Kranz 22B48, Giorgio Colli 14 [A 8] - qui in una traduzione di Luciano Parinetto.
Maggio è il suo mese preferito:
il vento carezza la pelle e le visioni,
è un bus psichedelico
di echi e di profumi,
un esperanto sussurrato
fra la terra e il cielo.
Con parole segrete di vecchi
e di bambini
che intendono loro e solo loro
il domatore di comete
aduna un coro muto di farfalle,
offre ad una ad una
gocce di rugiada
fresca ancora d’inverno:
tira fuori un quaderno, recita cantilene,
ed è allora che un aquilone consumato
sale piano, e lui tiene e cede
matassa e farfalle, le parole e il vento,
e il silenzio del pomeriggio
diventa una musica rara
al confine fra canto ed incanto,
e migliaia di ali lentiggini
sullo spartito dell’aria.
Chi ha sentito ha sentito,
ed ha visto chi ha visto,
e chi c’era c’è stato, e chi no
s’è pentito: perché maggio ritorna
solamente fra un anno,
ma non c’è calendario o stagione
per quel certo aquilone.

4.

Sopra il bel tavolo di noce


liberato da libri, carte, suppellettili,
c’era spazio abbastanza:
sottovoce a sé stesso Benjamin pregava
che l’arte dei suoi sette anni –
quando si fabbricò il suo primo cervo
volante – non lo tradisse.
La canna di fiume aveva nervo
e cedevolezza al punto giusto:
ne ricavò i listelli necessari
e piegò a caldo quello corto,
li legò con cura e con ottimo spago
ed ecco fatta la struttura;
fissò al telaio il rombo di seta
tagliato a misura da sua moglie,
rinforzò il tutto con quadretti di tela
e applicò una funicella di canapa per briglia.
Frugale ma robusta, era pronta all’uso
la cometa di Ben: mancava tuttavia,
prima di affidarla all’avventura
del tanto sospirato temporale,
qualcosa ancora; una sottile punta di metallo
sulla cima
a fare da esca alle saette
e una chiave di ferro sulla fune
per smistare l’elettricità.

Il fulmine nella mano.

L’arte è afferrare un fulmine


e tenerselo stretto per un po’ 4,
avere il coraggio o l’incoscienza
di non chiudere gli occhi sul bagliore
lancinante dell’intuizione
e la fermezza sacra di un fabbro
primordiale
a mani nude sull’incandescenza:
la faccia tosta per andare dritti
pur con gli occhi quasi calcinati
fedeli al primo passo,
per curarsi le piaghe
col pharmakon dell’urlo senza chiasso.
Tutto col candore di un idiota
sopraffatto di sapienza
per trasformare una goccia di splendore
nella scienza perfetta di una ruota.

5.

Benjamin aspettava il temporale


con l’ansia di un contadino
che ha la terra riarsa
o di un cheraunomante5 a corto
di responsi: era attesa di sguardi, la sua,
di eccitazione e promesse,
un occhio di bambino sporto dal davanzale
come su un carosello,
un occhio di scienziato
non meno giocondo di quello,
e forse non meno innocente.
Tant’è: fece appena in tempo
a inumidire per bene e con pazienza
il filo dell’aquilone
(perché facesse da buon conduttore)
che le nubi oscurarono l’azzurro

4
“L’arte è prendere il fulmine con una mano e tenerselo stretto, mentre il design è una professione abbastanza razionale
o razionalizzabile” (Ettore Sottsass, fonte non repertia).
5
Colui che trae vaticini dall’osservazione e interpretazione dei fulmini (dal greco keraounós, fulmine, e mántis,
indovino).
e, poco dopo, una prima parola degli dèi
fu scritta e risuonò.6
Il bimbo prese per mano lo scienziato
e lo portò
nel mezzo della piccola bufera
a veleggiare.

Il parafulmine e il sismografo.

Preferì essere un parafulmine


piuttosto che un sismografo7,
attirare su sé strali di bellezza
piuttosto che avvisare il mondo
del suo arrivo,
bruciare nel silenzio splendente
di una fine feconda
e non rassegnare la paura
paziente del ricominciamento:
un angelo che canta per sparire
senza cenere di consolazione né semente
di alcuna profezia.

6.

Scoccò qualche fulmine


e non accadde nulla, se non che
frammenti di canapa pendenti dalla fune
si drizzarono davanti ai sensi attenti
di Benjamin: il bimbo
suggerì allo scienziato
di allungare un dito per toccarli;
ogni pezzetto fu attirato
come un chiodo da una calamita.
I due occhi, ingenuità e sapienza,
l’occhio aperto della suggestione
e quello dilatato della scienza,
non ebbero bisogno di pensare
che quel dito doveva ora sfiorare
la chiave di ferro: una scintilla e un urto
mutarono in sorriso la sorpresa
e una fitta rovente in fresca gioia.
Un semplice aquilone: poca spesa
e ora Benjamin sapeva
quel che delle nubi sospettava.

La bellezza è come un fulmine.

6
Secondo il Popol Vuh, raccolta di miti e leggende dei gruppi etnici che abitavano il regno maya guatemalteco di
Quiché, il lampo e il fulmine costituiscono la parola scitta, il tuono quella parlata, della divinità.
7
“Preferisco essere un parafulmine piuttosto che un sismografo” (Ken Kesey, fonte non reperita).
In mezzo al deserto del New Mexico
su un appezzamento di un chilometro quadrato
quattrocento pali di metallo sono infissi
nel terreno: è Lightning Field
di Walter De Maria. Dal 1979,
ogni volta che scoppia un temporale
lo spazio si gremisce di corallo lattescente:
i pali sintonizzano il silenzio della terra
con le voci scure dei cumulonembi
in concerti sublimi di arte folgorale.
La bellezza qui non è immanente –
neppure trascendente
è uno spirito latente
che aspetta di essere evocato,
materializzato
come un ectoplasma. Eppure
ciascun fulmine, fulmine rimane:
così è al tempo stesso geroglifico
di una scrittura liminale
e fatto fisico, manifestazione
comune a qualunque temporale.
L’arte non è riproduzione,
non imita o scimmiotta la realtà,
non compete con lei: si fa chiamare
e sfidando il pericolo, la dissipazione
- o anche il senso del ridicolo –
si consacra a un’unica ragione;
inventa nuvole, il vuoto, inventa fulmini,
inventa quello che già esiste.
Ma mette al mondo il mondo:
è una bellezza ononima8, insiste
dove chiunque ha visto già ogni cosa,
è un acrobata folle e migrabondo.

8
Ononimo è un neologismo coniato da Alighiero Boetti nel 1975, coniugando il senso di “omonimo” – che ha lo stesso
nome – ed “anonimo” – che ha nessun nome –, per focalizzare la sua riflessione sull’identità “volontariamente dissolta e
costantemente ricostituita, al plurale”: la parola è stata usata per descrivere alcuni lavori nei quali l’artista non metteva
mano affidandone la realizzazione materiale ad altre mani; fra questi anche Mettere al mondo il mondo (1972-1973), un
pannello interamente riempito con tratti di penna biro da due persone (un uomo e una donna), lasciando però scoperte
alcune virgole la cui disposizione nasconde un messaggio da decifrare, partendo dalla prima virgola in alto e
assegnando a ciascuna la lettera dell’alfabeto corrispondente in asse.

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