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Benjamin Franklin (a quanto pare però messo in pratica in Francia da L.G. Le Monnier, anche se
poi valse al suo ideatore una borsa di studio e un titolo onorifico): ovvero il celeberrimo lancio in
atmosfrea di un aquilone opportunamente equipaggiato per dimostrare la natura elettrica dei
fulmini, e la conseguente “invenzione” del parafulmine: ma si innerva in pari misura sull’aforisma
di Ettore Sottsass “L’arte è prendere il fulmine con una mano e tenerselo stretto” e sull’opera di
land art di Walter De Maria riprodotta qui sotto e alla quale è dedicato l’ultimo brano della silloge.
Quest’opera secondo me è sia la traduzione materiale della frase di Sottsass, che io considero una
sorta di apologia del coraggio che l’artista ha (o dovrebbe avere) di guardare scevro da protezioni il
potere abbagliante dell’intuizione, con tutti i rischi che ne conseguono, primo fra tutti quello di
commettere errori anche grossolani proprio a causa della visione compromessa dal bagliore; sia la
cornice metaforica di tutta quanta la raccolta nelle sue tre differenti declinazioni, che io mi permetto
di riassumere in questa proposizione senza dire null’altro: Lo scopo dell’arte è quello di inventare
la realtà.
Qui il controcanto è affidato a delle poesie “sparse”, senza una logica coerente fra loro, pur se
tutte sono in qualche modo legate al tema del fulmine: Il vecchio che correva dietro ai fulmini è la
versione italiana di una poesia in dialetto romagnolo di qualche anno fa – 2005 – la quale peraltro
era a sua volta la concretizzazione di uno spunto ancora più datato; Il domatore di comete ha
origine da un paio di versi di un testo dedicato al circo (anzi, ispirato da un quadro sul circo di
Georges Seraut), composto nel 2011 per i bambini di una terza elementare nell’ambito di un
progetto sul rapporto fra poesia e pittura.
I riferimenti al naturalismo visionario di Lucrezio e alla dialettica cosmica di Eraclito mi sono
venuti fuori quasi spontaneamente, ma in fine mi sembrano non peregrini: così come quello finale
ad Alighiero Boetti (che del resto era già emerso nella parte finale di Un nome ai confini del cielo).
Walter De Maria, The Lightning Field (New Mexico, 1973-1979, installazione permanente)
Al timone di tutto la folgore.
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Le macchine elettrostatiche a disco furono fra le più comuni: un disco, generalmente di vetro, imperniato su un asse
munito di manovella, poteva ruotando essere strofinato da una o più coppie di cuscinetti di cuoio imbottiti di crine o di
feltro; dei pettini permettevano di trasferire le cariche elettriche dal disco a un conduttore di ottone, avvicinando al
quale un elettrodo collegato a terra si poteva far scoccare una forte scintilla, che scaricava la macchina.
per nuovi sogni da coinvolgere.
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Il domatore di comete.
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Frammento di Eraclito - Diels-Kranz 22B48, Giorgio Colli 14 [A 8] - qui in una traduzione di Luciano Parinetto.
Maggio è il suo mese preferito:
il vento carezza la pelle e le visioni,
è un bus psichedelico
di echi e di profumi,
un esperanto sussurrato
fra la terra e il cielo.
Con parole segrete di vecchi
e di bambini
che intendono loro e solo loro
il domatore di comete
aduna un coro muto di farfalle,
offre ad una ad una
gocce di rugiada
fresca ancora d’inverno:
tira fuori un quaderno, recita cantilene,
ed è allora che un aquilone consumato
sale piano, e lui tiene e cede
matassa e farfalle, le parole e il vento,
e il silenzio del pomeriggio
diventa una musica rara
al confine fra canto ed incanto,
e migliaia di ali lentiggini
sullo spartito dell’aria.
Chi ha sentito ha sentito,
ed ha visto chi ha visto,
e chi c’era c’è stato, e chi no
s’è pentito: perché maggio ritorna
solamente fra un anno,
ma non c’è calendario o stagione
per quel certo aquilone.
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“L’arte è prendere il fulmine con una mano e tenerselo stretto, mentre il design è una professione abbastanza razionale
o razionalizzabile” (Ettore Sottsass, fonte non repertia).
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Colui che trae vaticini dall’osservazione e interpretazione dei fulmini (dal greco keraounós, fulmine, e mántis,
indovino).
e, poco dopo, una prima parola degli dèi
fu scritta e risuonò.6
Il bimbo prese per mano lo scienziato
e lo portò
nel mezzo della piccola bufera
a veleggiare.
Il parafulmine e il sismografo.
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Secondo il Popol Vuh, raccolta di miti e leggende dei gruppi etnici che abitavano il regno maya guatemalteco di
Quiché, il lampo e il fulmine costituiscono la parola scitta, il tuono quella parlata, della divinità.
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“Preferisco essere un parafulmine piuttosto che un sismografo” (Ken Kesey, fonte non reperita).
In mezzo al deserto del New Mexico
su un appezzamento di un chilometro quadrato
quattrocento pali di metallo sono infissi
nel terreno: è Lightning Field
di Walter De Maria. Dal 1979,
ogni volta che scoppia un temporale
lo spazio si gremisce di corallo lattescente:
i pali sintonizzano il silenzio della terra
con le voci scure dei cumulonembi
in concerti sublimi di arte folgorale.
La bellezza qui non è immanente –
neppure trascendente
è uno spirito latente
che aspetta di essere evocato,
materializzato
come un ectoplasma. Eppure
ciascun fulmine, fulmine rimane:
così è al tempo stesso geroglifico
di una scrittura liminale
e fatto fisico, manifestazione
comune a qualunque temporale.
L’arte non è riproduzione,
non imita o scimmiotta la realtà,
non compete con lei: si fa chiamare
e sfidando il pericolo, la dissipazione
- o anche il senso del ridicolo –
si consacra a un’unica ragione;
inventa nuvole, il vuoto, inventa fulmini,
inventa quello che già esiste.
Ma mette al mondo il mondo:
è una bellezza ononima8, insiste
dove chiunque ha visto già ogni cosa,
è un acrobata folle e migrabondo.
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Ononimo è un neologismo coniato da Alighiero Boetti nel 1975, coniugando il senso di “omonimo” – che ha lo stesso
nome – ed “anonimo” – che ha nessun nome –, per focalizzare la sua riflessione sull’identità “volontariamente dissolta e
costantemente ricostituita, al plurale”: la parola è stata usata per descrivere alcuni lavori nei quali l’artista non metteva
mano affidandone la realizzazione materiale ad altre mani; fra questi anche Mettere al mondo il mondo (1972-1973), un
pannello interamente riempito con tratti di penna biro da due persone (un uomo e una donna), lasciando però scoperte
alcune virgole la cui disposizione nasconde un messaggio da decifrare, partendo dalla prima virgola in alto e
assegnando a ciascuna la lettera dell’alfabeto corrispondente in asse.