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Cesare Iacono Isidoro

Il taccuino del vecchio


In copertina:

Claudio Parmiggiani
A lume spento
1986, calco in gesso, lampada a petrolio
Cesare Iacono Isidoro

Il taccuino del vecchio

S’incomincia per cantare


E si canta per finire.

È nato per cantare


Chi dall’amore muore.

È nato per amare


Chi per cantare muore.

Chi è nato per cantare


Anche morendo canta.

Giuseppe Ungaretti, Proverbi, Uno - Tre


The Beast In Me canta Johnny Cash
e la voce plana come una colomba
semplice tra l’astuzia dei serpenti
che si sono avvoltolati sopra l’erba
di una vita; ciò che un tempo fu la pietra
sempre pronta a scagliarsi dalla fromba
contro tutte le mura e tutti i venti
adesso sembra poco più di un ciottolo
bianco e liso al centro della toppa,
che un raggio di luce appena sfiora.
Sulla porta di un capanno una croce
di Santa Brigida ed un acchiappasogni
proteggono le dita inerpicate alla tastiera
della chitarra per scavarci note
e le peripezie di quella voce - la sera
si affaccia ormai alla notte - ora per ora
risalgono a loro volta i tubi di lava
del buio e del silenzio.
La stanchezza, i malanni, la zavorra
inevitabile del tempo affievoliscono
il respiro e il suo bagaglio di suono:
e lui che fa, abdica, desiste?
No, in nome del diritto di invecchiare,
non sereno (“è impossibile”) e non domo
tuttavia, si rimbocca le maniche,
cerca di distendere i dirupi inquieti
della sua faccia, scorda il triste
velario che ha già annebbiato gli occhi
e mormora tra sé e sé: “Quando la morte
busserà alla mia porta, la mia mano
sarà sul grilletto del fucile da caccia”.

Devo essere matto: il pomeriggio


di una domenica di luglio anziché
andarmene al mare o rilassarmi
sul balcone a sigari, poesia e caffè,
mi ritrovo su una strada del forese
di un borgo nei pressi di Ravenna
aggrappato a una recinzione, a bearmi
di un monumento di archeologia industriale:
sono a Mezzano, poco fuori dal paese,
davanti alla fornace della Ex Eridania
o meglio alle sue rovine. Forse vale
quel che il senso comune intimerebbe,
che in posti così si ha da venire
in un grigio giorno d’autunno,
nella pioggia bituminosa di un ottobre,
quando a nessuno verrebbe in mente, o quasi,
di benedire il mondo e il suo calore;
e forse invece la vedo giusta io,
da sempre un meticoloso alunno
delle pie ragioni della solitudine
che ha in serbo un’ultima goccia di splendore.

The beast in me
Is caged by frail and fragile bars
e già avvertire la presenza dell’errore
che s’agita come una fiera in gabbia
non è poco: “Verranno tempi migliori”
è un motto di famiglia giudizioso
di chi guarda al passato con chiarezza,
al futuro con fiducia, al presente con la rabbia
che ha messo il morso al muso del rancore.
Cinque accordi e la voce ceduta alla mitezza
perché la vita scorre sulla pelle
con parole solo ormai di gratitudine,
e suonare e cantare è come un abito
nero elegante, severo, combattente
poggiato su una poltrona per tramonti
da assaggiare sotto una pergola, piuttosto che
sul servo muto di qualche stupida abitudine.

Risalgo in auto, nel vano portaoggetti


ci sono i live di Folsom e San Quentin
del ’68 e del ’69; altro piglio, altra voce,
e un’icona che parla fuori dai denti
senza dire una parola in quella foto
famosa del give the bird* in piano medio.
Così ascolto Johnny Cash in grande spolvero

*
“Give the bird: to make a very impolite sign by raising your middle finger towards someone in order to show that you
are angry with them” (Urban Dictionary: a buon intenditor … ).
mentre lascio alle spalle questa cattedrale
protetta dai rampicanti e dal suo vuoto:
i ruderi non mi danno mai tedio
ma neanche vado in brodo di giuggiole
o intono osanna alla decadenza;
quel che oltrepassa il tempo è quel che è,
un segno né di smacco né di trionfo
pura fenomenologia di permanenza.
Come le balle di fieno accatastate
su un terreno adiacente al fabbricato
che in un impeto di pedanteria ho anche contato
e, salvo errori, fino a quattromila,
cento balle per otto per cinque fila a fila.

Has had to learn to live with pain


And how to shelter from the rain
dolore e pioggia sotto le capriate
di un’infanzia passata tra altre balle,
di cotone, e musica, musica dovunque:
nel campo strappando i fiocchi dagli steli
fino a riempire sacchi alti due metri,
la sera in coro sotto al portico di casa,
e gospel per accompagnare il sole
nel suo lento trascorrere dai cieli.
Johnny si domandò spesso se la gente
sotto ai ritmi spensierati o elegiaci
delle canzoni country ascoltasse le parole,
e se ascoltandole capisse fino in fondo
che in mezzo ai versi in rima c’era un mondo
greggio e schietto, duro ed incorrotto,
che da quel mondo era nata quella musica
e non avrebbe dovuto mai essere il contrario -
una musica che titilla una way of life.
Tra il podere e la foresta prospiciente,
un canto di madre e un ruggito di pantere,
le ombre inventate dalla luna più angoscianti
dello stesso buio, ecco stampato un sillabario
bastante al bambino agricoltore
indispensabile quando farà il cantante.

*
“L'architecture, c'est ce qui fait les belles ruines”*
ha detto qualcuno, e io credo sia vero
davanti non solo a un tempio greco,
a una pieve romanica, a un villino liberty,
ma anche a fabbriche cadenti, diroccate
come questa. Qui c’è il tempo spietato
come un rullo compressore, ma anche l’eco
di un nobile inconscio attraversarlo;
qui c’è la stessa sobria possanza delle arcate
di un santuario o di una galleria urbana,
che non sussurra invocazioni o parlottii
da passage, però, bensì grida e sudore;
e qui c’è la celebrazione del remoto
che s’intreccia in un caduceo col furore
che quel remoto oramai ha travolto.
Troppo facile pensare a Johnny Cash,
mentre mi defilo con rispetto dall’immoto
torreggiare del moderno/antico opificio,
come al grande architetto che ha sul volto
la bellezza inesausta, predisposta un giorno,
di un castrum medievale, o di Phlebas il Fenicio?

And in the twinkling of an eye


Might have to be restrained
poiché sarebbe bello immaginare
di avere la chiave ben forgiata
- e magari una copia per prudenza –
per entrare a piacimento dentro l’anima,
o se si si preferisce la coscienza,
con lo stesso relativo agio che ci vuole
a scaldare le corde vocali per cantare.
E quando ci si accorgesse che non basta
davvero un batter d’occhio, e che il sole
tanto può incendiare quanto accende,
e che quella bestia dentro non ha un nome
che all’occorrenza sia possibile chiamare,
allora può capitare che un segnale

**
“L’architettura è ciò che fa le belle le rovine”, Auguste Perret. In realtà, stando ad alcune attestazioni (Daniela De
Mattia, Architettura antica e progetto, Gangemi Editore, 2012), questa sarebbe una reinterpretazione del critico d’arte
Bernard Champigneulle dell’aforisma del grande architetto francese che in origine reciterebbe “La bella architettura
rende belle le rovine”, in seguito ulteriormente “corretto” da un non meglio identificato Claude nella versione “Il grande
architetto è colui che prepara delle belle rovine”.
di deviazione sia scambiato
per uno di direzione obbligatoria.
Quando Johnny incontra sulla strada
una di quelle insegne fraudolente,
la più classica, quella per la rotatoria
senza inizio e senza fine della droga,
la prende: “Mi sono innamorato immantinente
degli effetti dell’anfetamina”,
e la medaglia non tarda a rovesciarsi
e a mostrare il lato oscuro della gloria.
Dopo anni il suo canto è una salmodia
- e sia detto senza enfasi o dileggio –
perché prega e ringrazia a modo suo
risoluta e serena nella sua monotonia:
quella scimmia lì ha avuto la peggio.

Forse non fu proprio un deus ex machina


ma Rick Rubin, disse Cash, “comparve”
nella sua vita, nel ’93, quasi dal nulla;
e chi era questo hippie fuori tempo
austero come un Bach e trasandato
come un Harry Partch, che si trastullava
con Red Hot Chili Peppers, Beastie Boys,
Slayer, Run DMC, e veniva ora a bussare
alla porta di un anziano country singer
che non riusciva a fare più passare
un singolo alla radio? Non un opportunista
che aveva fiutato chissà come e dove
l’occasione per rifare l’intonaco
a una celebrità in declino: “Sono serio,
non è per un nome in più in calce alla lista,
ho bisogno di te e con te voglio lavorare”.
Così Johnny, nulla da perdere e ancor meno
forse da guadagnare, attracca ad un salotto –
quello di casa Rubin – e per tre notti
non deve fare altro che suonare, cantare
ciò che vuole, senza tensioni e senza freno
diverso dalla sua voglia di fare. 33
canzoni, come i giri dell’album che verrà,
e poi avanti, a registrarne più di cento,
e Cash che non ricorda più l’età
perché all’improvviso s’era alzato un vento
che aveva scompaginato le sue carte.

And even somehow manage to vanish in the air


And that is when I must beware
il cuore d’ombra sembra addormentato
una volta per sempre, un’onda sonora
presa in trappola tra l’emozione e l’arte
è la ceralacca impressa all’attestato:
ma quell’onda sonora non sollevano
più venti di burrasca a 30 - 40 nodi*,
la voce di Cash è un’increspatura,
una perturbazione sfuggita allo spartito
che diventa un pugno di chiodi
piantati su un legno stagionato.
Quando c’erano Elvis Presley, Carl Perkins,
Jerry Lee Lewis, Johnny con e come loro
aveva aperto la gola e sciolti i fianchi
dei ragazzi; adesso che la patina sull’oro,
quell’oro impuro che è stato il rock’n’roll
e poi trent’anni di dischi e di concerti
tra alti e bassi, giorni impetuosi o stanchi
on the road, smorza il luccichio,
lui è ancora lì per chi ha i passi incerti,
gli occhi asciutti, è un po’ duro d’orecchi:
un vecchio che canta per i vecchi.

The beast in me that everybody knows


They've seen him out dressed in my clothes
il cuore d’ombra sembra addormentato
senonché a qualcuno pare ancora di vederlo
forse perché vuole vederlo e non è rassegnato
all’idea che un uomo possa ritrovare
le briciole seminate sul sentiero
che nessuno uccello ha ancora divorato.
L’abito non fa il monaco, ma mettilo in testa
a chi discernerebbe il monaco anche nudo:
d’altra parte Johnny Cash l’ha scritto:

La velocità del vento di una burrasca in genere varia tra i 34 e i 40 nodi (63 - 75 km/h), e può produrre onde di altezza
**

media di circa 5,5 metri, con punta massime raramente superiori ai 7,5 metri.
“Indosserò la mia camicia nera,
infilerò la cintura nei passanti
dei miei pantaloni, anch’essi neri,
mi allaccerò le mie scarpe nere,
afferrerò la mia chitarra nera
e salirò sul palco per suonare
e cantare come ho fatto nella vita
su cento e cento palchi, per cento e cento sere”.
Forse davvero la bestia non riposa,
ancora vorrebbe ringhiare ed azzannare
ma quel nero alla fine l’ha stordita
perché è il nero di una notte oscura
che la luce che brucia dentro un cuore
può nonostante tutto illuminare.

E infatti: “Non mi vedrete mai vestito


di bianco. Mi piacerebbe, sì, indossare
tutti i colori dell’arcobaleno
e dire al mondo tiepido e avvilito
che va tutto bene, ma perché ingannare
qualcuno e me stesso prima ancora?
Ho buone spalle e mi posso caricare
con onestà di quello che va male,
e come un cavaliere battagliero
finché andrà meglio sarò l’Uomo in Nero”.
Simile alla divisa d’un fabbro, o un manovale
che forgi ferro o impasti calcestruzzo
perché Johnny ha cantato anche e soprattutto
per chi fatica a arrivare a fine mese,
e ha detestato il guaito salottiero
dei personaggi oberati dal successo:
“Ho sempre viaggiato in prima classe,
la mia stanchezza al netto delle spese
è pur sempre quella di chi ha scelto
una vita e non ne è stato oppresso”.

Musica e lavoro: quel nero si scolora


per diventare pagine, pentagrammi,
si fa sottile nel tratto di una penna
che vi semina su parole e note,
si rapprende in polivinilcloruro
su dischi di 30 centimetri e 180 grammi,
cola sulle poltrone in velluto di un teatro
o sui piedi di ghisa sotto al legno duro
e scrostato delle panche della mensa
di una prigione; e come la bruma
di un racconto gotico si spande
ma da tossina diventa ricompensa
quando tutto il dolore e il travaglio
si condensano nel lavoro della musica.
Allora una fabbrica, un’arena, una galera
nessun posto sarà mai abbastanza grande
per ottundere un suono, svigorire un cenno,
il polpastrello colpirà la corda come il maglio
del carpentiere lo scalpello, la voce
scivolerà come una pialla sulle assi,
l’arte darà il La, braccia e petto faranno
tutto il resto.

Non ho idea se una fornace industriale


fosse un posto dov’era possibile cantare:
non dico canticchiare fra sé e sé
per alleggerire un po’ lo sgobbo,
intendo il canto che accompagna il gesto,
che occorre a ritmare, armonizzare
il lavoro di più persone insieme,
il grido, l’onomatopea, il testo
scritti su quell’ancestrale gobbo
che è la sapienza del mestiere,
la miseria che fruttifica l’onore,
un dizionario d’atti che diventa danza.
Ma da dietro quelle ringhiere rimediate
di rete elettrosaldata ho indovinato
una memoria di terra che trascende
spazio e tempo, l’umo di un’erranza
che ha nutrito la zolla ed il mattone:
d’altronde sono un poeta che conosce
i calli alle mani, la schiena che si arrende
alla lombalgia, il ferreo incedere
delle otto ore, i versi che prorompono
in vacanza o sotto cassa integrazione.
*

God help the beast in me


The beast in me, è l’ultimo verso
di una canzone tra le tante
in cui Cash confessa la sua fede:
parole d’umiltà di un orgoglioso
che scaglia in macchina la smorfia del birbante
ma ringrazia la vita “per un paio
di scarpe comode, gli uccelli,
il primo raggio di sole, la compagna
che divide con me dimora e musica,
per essermi liberato dal gran guaio
delle droghe, per la gioia della campagna
davanti e intorno a casa, per sapere
scrivere, per non idolatrare il denaro,
per non essere tanto brutto dentro
da non poter stare su un palco e vedere
gente che gode delle mie canzoni”.
Il mare è lì perché si prenda il largo
e non è facile, in mare, scansare la tempesta,
né rientrare in porto quando il faro
sembra essersi spento; non si spengono
i fari, mai, la loro lanterna intermittente
è anzi talvolta tutto ciò che resta.

26 di giugno 1994, Pilton, Somerset,


Inghilterra: davanti a migliaia di persone,
parte un saluto “Hello, i’m Johnny Cash”;
al Glastonbury Festival of Contemporary
Performing Arts in mezzo a rock, pop
ed elettronica un vecchio leone
per un’ora sparge il suo ruggito fioco,
lo scotto di un carbone vivo
che non ha nulla da invidiare al fuoco;
“Quella sera avevo chiuso il cerchio”
disse Johnny “ero tornato alle sorgenti
della mia musica”, applaudito come un divo
ma fresco come un bimbo che ha tra i denti
un piccolo filo d’erba da soffiare
e il tamburo del sangue sotto al cielo.
5 luglio del 2003, Hiltons, Virginia,
The Carter Family Fold: si stende un velo,
mani invisibili protendono le chiare
trasparenti cortine della compassione,
davanti a due trecento fan di Old Time Music
parte un saluto “Hello, i’m Johnny Cash”;
il vecchio leone non si alza più da solo,
lo accompagnano dalla sedia a rotelle
a una poltrona, tira fuori un plettro
da una tasca come fosse un amuleto,
la mano che trema portando una bottiglia
alle labbra per bere un sorso d’acqua
sembra ancora sicura sul suo scettro,
il manico della chitarra, ci si stringe,
poi venticinque minuti di armistizio
col nemico che tiene a sé impaniati
la voce e il respiro là nella laringe
da qualche parte come in uno scantinato.
Quella sera si era chiuso il cerchio
per davvero, Johnny non l’avrebbe più spezzato.

I hear the train a comin’


It’s rollin’ round the bend
canta Johhny Cash, ed io la curva
la sto facendo qui sotto al semaforo
per immettermi sulla 16 Adriatica,
è giunta l’ora di levar le tende.
In dieci minuti potrei essere a Ravenna,
farmi in centro una deriva epigrafica
fra i tesori di architettura bizantina:
tanto per rinsaldare il paradosso
di un termine di paragone solo
per edifici separati da un confine
di mille e passa anni, archeologia,
discorso sull’antico. Perché io non posso,
o non riesco, fare a meno di pensare
allo splendore di Sant’Apollinare
più o meno intatto dal 505 e all’incuria
di un fabbricato eretto ben quattordici
secoli dopo, quasi il vecchio non possa meritare
lo stesso riguardo del vetusto.
Eppure il controsenso ha i suoi argomenti:
l’officina cadente è l’appassita rosa
sfuggita alle cure ambigue e alla furia
di aggiustare a ogni costo, l’urlo muto
della fine dove la fine non si sa più cosa
sia, o meglio saperlo non si vorrebbe mai,
il monito di Victor Hugo “Guerra al restauro!”;
incongruenza di memoria, io ti saluto.

Si può dire: ci sono luce e ombra


come due sostanze separate:
ombra che si spande sopra il mondo
e ne contamina le cose generate
fino ad asservirle al suo dominio,
fino a diventare essa stessa una materia
mostruosa che fa negare il mondo,
una coltre di inesorabile abominio;
luce che sorvola la miseria
di questo mondo oscuro, come un nembo
presente e lontano di presagio,
una voce mormorante di suffragio.
Si può dire: ci sono luce e ombra
ma l’ombra non è che il sangue della luce
e la luce è il resto di una stella morta:
chi abita là abita il mistero
dello stupore al mondo, nella bellezza
sua e nello spavento, chi dimora
in quella piega di tenebra è la scolta
disarmata nel tramonto dell’aurora.

The Beast in Me
(Nick Lowe, 1994)
The beast in me
Is caged by frail and fragile bars
Restless by day
And by night rants and rages at the stars
God help the beast in me

The beast in me
Has had to learn to live with pain
And how to shelter from the rain
And in the twinkling of an eye
Might have to be restrained
God help the beast in me

Sometimes it tries to kid me


That it's just a teddy bear
And even somehow manage to vanish in the air
And that is when I must beware
Of the beast in me that everybody knows
They've seen him out dressed in my clothes
Patently unclear
If it's New York or New Year
God help the beast in me
The beast in me

La bestia in me.

La bestia che c’è dentro di me


È tenuta a freno da legami troppo fragili
Irrequieta di giorno
Di notte inveisce e si infuria contro le stelle
Dio aiuti la bestia dentro di me.

La bestia dentro di me
Ha dovuto imparare a convivere con il dolore
E come ripararsi dalla pioggia
E in un batter d’occhio
Si potrebbe controllare
Dio aiuti la bestia dentro di me.

Qualche volta
Prova a imbrogliarmi dicendo che è solo un orsacchiotto
O che è svanita chissà come nell’aria
Ed è proprio allora che io devo guardarmi maggiormente
Dalla bestia che c’è dentro di me
Quella che tutti conoscono
L’hanno vista in giro con indosso i miei vestiti
Non si sa bene
Se a New York o New Year
Dio aiuti la bestia che c’è dentro di me. La bestia in me.

Questo poemetto dedicato a Johnny Cash è il terzo di una quadrilogia nella quale è stato
preceduto da omologhi ispirati a Billie Holiday, il primo, e Édith Piaf, il secondo, e sarà seguito
dall’ultimo presumibilmente consacrato a Tim Buckley. La scelta degli artisti è stata
sostanzialmente estemporanea, fra l’altro per quanto riguarda Piaf e Cash nemmeno dettata da un
trasporto particolare per la loro musica (che è venuto semmai in corso d’opera, anche se il rispettivo
indiscutibile valore era comunque riconosciuto anche prima), che ho sempre avuto invece per gli
altri due. Un istintivo criterio generale mi ha suggerito sin da subito di far trainare la scrittura da
una canzone per ogni interprete, una sola e non tra le più famose, non tra quelle conosciute da
chiunque abbia in casa radio e TV, a prescindere dalla frequentazione dell’interprete stesso: per
intenderci, non The Man I Love per Billie Holiday o La vie en rose per Édith Piaf. Un secondo
parametro chiesto ai brani è che da essi possa emergere una certa qual condizione di fatica e
prostrazione degli esecutori; perché la mia idea è di far capire come il talento, la dignità, la
passione, l’amore per la musica (e per il pubblico) abbiano loro permesso di generare qualcosa di
ammirevole anche in quella condizione (gli artisti sono stati “fotografati” alla fine delle loro carriere
e vite più o meno tormentate). Per Billie Holiday è stato agevole concretizzare il proposito
attingendo alla sua ultima produzione discografica, universalmente riconosciuta quale testimonianza
al tempo stesso impietosa e commovente di quanto sopra. Non altrettanto per Édith Piaf: per quanto
mi è stato possibile capire dai dischi, anche dal vivo, e dai filmati dei concerti, nonostante le assai
precarie condizioni di salute La Môme ha sempre cantato benissimo anche nelle sue ultime prove.
Quando sarà il momento di Tim Buckley la cosa sarà di fatto impossibile, dato che egli è morto ad
appena 28 anni, nel pieno delle sue strabilianti qualità vocali, benché negli ultimi dischi, per lo più
considerati mediocri e astrusi, spinte verso un vero o presunto istrionismo.
Il lavoro su Johnny Cash è stato complesso. “The Man in Black” ha avuto un grande successo a
partire dalla fine degli anni ’50 e fasi alterne nei decenni ’60 e ‘70, nella cerchia della musica
country (anche se il suo è uno di quei casi nei quali la circoscrizione di genere lascia un po’ il tempo
che trova), per quasi eclissarsi nel decennio successivo (pur senza smettere mai di fare dischi e
concerti) e risorgere in maniera clamorosa a partire dal 1994 con la pubblicazione del primo di una
serie di album registrati su sollecitazione del produttore Rick Rubin (fino a quel momento di solito
impegnato in ambiti molto diversi, dall’hip hop all’heavy metal all’alt rock) che sono in pratica un
excursus nella storia della musica, country e non solo, americana e non solo, spesso da solo con la
sua voce e la sua chitarra, eseguendo pezzi suoi, e pezzi altrui da egli amati o in qualche caso
proposti da Rubin. Non sto qui a raccontare le vicende di questi album – chiunque può
documentarsi senza problemi su libri e in rete -, quello che importa qui è che, stanti le prerogative di
questi miei poemetti, è stato un invito a nozze rivolgermi ad essi per la scelta del brano-guida di Il
taccuino del vecchio. Me li sono riascoltati tutti, e con piacere perché sono davvero belli, fino a fare
una prima scrematura di dodici unità prese equamente da ciascun volume della serie (sono sei, dei
quali due usciti postumi, più un cofanetto intermedio di tre CD contenenti una crestomazia di
canzoni dai primi quattro e una sessantina di brani inediti incisi nel corso delle medesime sessioni,
ai quali però non mi sono rivolto). Alla fine ho dovuto scegliere. Sarebbe stato molto facile puntare
su Hurt, una tra le cover più insospettabili tra quelle realizzate da Cash in questi LP (sta nel quarto
della serie, The Man Comes Around), una canzone di Trent Reznor sul potere autodistruttivo della
droga, dove quel suddetto stato di stanchezza, ma di onorevole stanchezza, è patente, anche in virtù
di un buon videoclip nel quale Cash canta accompagnandosi con la sua chitarra nera, qualche
accordo di pianoforte e un volto scolpito nella pietra, circondato da immagini di se stesso giovane,
da simboli di vanitas e memento mori e – questo forse un po’ sopra le righe – il racconto per flash
della crocifissione di Cristo (un video che avrebbe commosso Reznor fino alle lacrime ). Oppure
sulla tracklist, omonima, del medesimo disco, un pezzo composto da Cash qualche tempo prima ma
rielaborato per l’occasione, ispirato dalla sua religiosità (egli era un convinto e accurato lettore della
Bibbia) e ricco infatti di riferimenti in tema, specie all’Apocalisse (pare fra l’altro che questa sia
stata una delle ultime canzoni messe in traccia prima della scomparsa).
Alla fine l’opzione è caduta su The Beast In Me, firmata dal musicista e produttore Nick Lowe
(fra l’altro genero di Cash), che compare nel primo disco della serie, così come nel contemporaneo
album The Impossible Bird dello stesso Lowe. In principio la considerazione per questo brano si era
arenata alle “primarie”, dopo le quali era stato rapidamente escluso dalla rosa dei candidati. Poi ho
capito che invece esso era perfetto, forse fin troppo perfetto, in virtù del testo che racconta in modo
semplice e accorato la lotta per tentare di tenere a bada i propri demoni interiori, lotta che ha
impegnato Cash per quasi tutta la sua esistenza: come ha detto la figlia Tara, “Era bravo a parlare
dell’oscurità che aveva in sé, ed è questo che lo rendeva un grande artista”.

Questo bellissimo monumento di archeologia industriale si trova a circa undici chilometri da


Ravenna, nella frazione di Mezzano, accanto a uno zuccherificio per la cui edificazione del resto fu
appositamente approntato: si tratta infatti di una fornace, che a partire poi dagli anni Trenta del
Novecento divenne una fabbrica di ceramiche. Si erge in piena campagna con le sue imponenti
dimensioni – 90 metri di lunghezza, 21 di larghezza, 15 di altezza – e le sue facciate di mattoni a
vista. I lati mostrano l’elegante per quanto sobria architettura di venti campate con più livelli di
finestrature scandite da lesene e ampie arcate al pian terreno. All’interno è conservata la grande
fornace ellittica inserita in una struttura di pilastri che dividono lo spazio in cinque navate. È
scomparsa invece la ciminiera che forava il colmo di copertura in prossimità del lucernaio
sommitale a due falde. Al centro di una delle facciate laterali c’è una sopraelevazione: è il fronte del
corpo ascensore utilizzato per agevolare i collegamenti verticali all’interno dell’opificio (Viaggio
nell’archeologia industriale della provincia di Ravenna, a cura di Italo Zannier, Longo Editore,
Ravenna, 1996).
Suppongo che la possibile associazione mentale tra questo oggetto, un rudere, e la senilità di
Johnny Cash possa sembrare quanto meno poco elegante. In realtà l’associazione non esiste e la
fornace di Mezzano non è altro che il luogo nel quale potenzialmente è scattata la scintilla creativa
per il poemetto, come lo erano le Saline di Cervia per Billie Holiday e la Pineta di Bassona per
Édith Piaf. Questa di immaginare un luogo particolare nel quale il pensiero si è incanalato, nel corso
delle proprie libere derive, verso un’idea poetica è infatti uno degli escamotage concettuali di questa
serie di brevi opere poetiche.

Qualche nota.
Riporto qui alcune precisazioni su cose e persone e opere citate nel testo, e assolvo i miei debiti
nei confronti di prestiti diretti o indiretti incastonati nei versi. Le notizie sono riferite seguendo il
loro ordine di apparizione nel testo stesso.
I virgolettati nei quali idealmente è Johnny Cash a parlare in prima persona, e i numerosi
aneddoti riportati, sono dovuti all’autobiografia, Johnny Cash, L’autobiografia, che in Italia è stata
pubblicata da Baldini&Castoldi (Milano, 2012); sia gli uni che gli altri sono stati più o meno
parafrasati in funzione di una ottimale collocazione nella struttura testuale, che com’è mio costume
non segue una metrica rigorosa ma tuttavia risponde a una certa musicalità e ritmicità. In verità il
primo libro a cui mi sono rivolto è stato un volume della serie TXT delle edizioni Arcana (Roma,
2010), Walter e Francesco Binaghi, Johnny Cash. The Man in Black. Testi commentati, che è in
ogni caso una sintesi biografica cronologicamente tracciata attraverso appunto i testi di alcune delle
più celebri o significative canzoni di Cash, dove di commento in realtà c’è assai poco. A suo tempo
mi sono diligentemente guardato Walk The Line (in Italia, Quando l’amore brucia l’anima), il film
girato nel 2005 da James Mangold, con un bravo Joaquin Phoenix nei panni di Cash, ma non mi è
servito a molto perché è focalizzato solo sugli anni in cui Cash ha conosciuto June Carter prima di
sposarla, e termina nel momento in cui la sposa.
Il mio interesse per l’archeologia industriale risale a quasi trent’anni fa, e è dovuto a un libro di
Kenneth Hudson, Archeologia dell’industria (1976) pubblicato in Italia nel 1979 da Newton
Compton, Roma, in una collana denominata “Civiltà scomparse” e diretta dall’ archeologo, storico e
orientalista Sabatino Moscati, divenuto anche familiare volto televisivo per la sua partecipazione al
famoso Almanacco del giorno dopo di RAI 1 con la rubrica Le pietre raccontano. Mi incuriosì
molto quel volumetto, all’epoca questa disciplina era da noi ancora piuttosto ignota, come si deduce
dalla presentazione del saggio da parte dello stesso Moscati che la inquadrava come un passo verso
nuove frontiere. Il mio interesse è rimasto nel tempo, al punto che la mia biblioteca in materia si è
arricchita e ancora oggi guardo con un atteggiamento che spesso è molto più che semplice curiosità
ai reperti architettonici di storia dell’industria che mi capita di incontrare sulla mia strada; poco
dopo il mio coup de foudre, tra il 1991 e il 1992, ho anche scritto una raccolta di poesie a tema.
In un passo dell’autobiografia Cash accenna a una Croce di Santa Brigida – un antico simbolo
pagano irlandese poi transitato nel mondo cristiano - e ad un acchiappasogni indiano quali personali
talismani, non “sulla porta di un capanno”1 bensì sul suo autobus, la sua casa viaggiante.
“da sempre un meticoloso alunno / delle pie ragioni della solitudine / che ha in serbo un’ultima
goccia di splendore”: chiaro richiamo a Álvaro Mutis, Programma per una poesia – I viaggi (in
Summa di Maqroll il gabbiere, Torino, Einaudi, 1993), già notoriamente citato da Fabrizio De
Andrè in Smisurata preghiera (nell’ultimo album, Anime salve).
A proposito del “give the bird” – in calce ai versi ho messo ironicamente una delucidazione in
inglese, presa da un “dizionario urbano” reperito in internet, ma credo si sia capito che si tratta del
gesto del dito medio – nel booklet del CD Johnny Cash at San Quentin è riportata una nota nella
quale lo stesso Cash racconta di una fastidiosa presenza sul palco di alcuni operatori televisivi che
quasi gli impedivano di vedere il pubblico, e di come dopo aver inutilmente chiesto al microfono di
togliersi di lì egli abbia cercato di convincerli mandandoli affa senza mezzi termini. Gli album

1
Riferimento questo, peraltro anacronistico, a registrazioni che Cash fece appunto in un casotto opportunamente
attrezzato presso la sua casa con l’aiuto del figlio John per il terzo volume della serie American Recordings, a causa
delle sopravvenute precarie condizioni di salute che gli rendevano difficile il viaggiare.
registrati dal vivo nelle carceri di Folsom e San Quentin, rispettivamente nel gennaio 1968 e nel
febbraio del 1969, ventiseiesimo e ventinovesimo nella enorme discografia di Cash, restano tra le
sue incisioni più note e celebrate.
Sull’aforisma di Auguste Perret, che conoscevo perché riportato in una vecchia intervista dal
designer, architetto e urbanista Vico Magistretti, non ho trovato precisazioni migliori di quelle che
ho indicato in nota, in verità piuttosto approssimative dal momento che vengono da un libro
specialistico. Vabbè.
Il richiamo a Phlebas il Fenicio, l’ennesimo omaggio a Thomas Eliot della mia carriera di poeta,
qui ha soltanto, unito a quello al castrum medievale, il senso di una generica bellezza austera e
ancestrale.
“quella scimmia lì ha avuto la peggio”, intendendo il fatto di liberarsi dalle droghe, è un prestito
dal titolo di un romanzo di William Burroughs, Junkie del 1953, che in Italia è stato tradotto con
l’intera locuzione, La scimmia sulla schiena, usata dall’autore per indicare gli effetti collaterali
dell’astinenza da droghe pesanti, eroina e morfina; qui venga preso come licenza poetica in quanto
Cash ha abusato nella sua vita di anfetamine e antidolorifici, ma non di altre droghe.
Le modalità dell’incontro con Rick Rubin potrebbero sembrare abbastanza favolose, ma sono
diffusamente documentate, da entrambe le parti e da tutti i terzi che a vario titolo vi sono entrati a
partecipare.
Nell’autobiografia Cash a un certo punto parla delle tre domande che gli vengono fatte più
spesso: perché è stato in prigione (mai stato in prigione se non per singole notti in seguito a qualche
intemperanza), come nascono le canzoni (non esiste una formula precisa, dipende caso per caso) e
soprattutto perché si veste sempre di nero: “Quando cantavo vestito di nero lo facevo per i poveri e i
dimenticati dalla società (…) per i carcerati che hanno da tempo pagato per i loro crimini ma sono
costretti alla reclusione perché capri espiatori della società, per gli anziani soli e i malati (…) in
segno di lutto per tutte quelle centinaia di giovani che ogni settimana morivano in Vietnam” (la
canzone “sigla” di Cash dove tutto questo è esemplificato, The Man In Black, è del 1971); “perché è
il nero di una notte oscura / che la luce che brucia dentro un cuore / può nonostante tutto illuminare”
è uno spudorato plagio dalla Canzone di Juan de Cruz “Nella notte propizia, / in segreto – nessuno
mi vedeva / né io guardavo cosa alcuna – senz’altra luce o guida / che quella che mi bruciava nel
cuore”.
Il blocco di versi dedicato al rapporto tra musica e lavoro è ispirato a un capitolo di un mio libro
inedito, Inesausta sorpresa (la musica è una), scritto tra il 2007 e il 2009, che a sua volta deve
molto nella sua impostazione concettuale a un articolo di Jean Molino per il VI volume, “Musica e
cultura”, della Enciclopedia della musica diretta da Jean-Jacques Nattiez (Torino-Milano, Einaudi-
Il Sole 24 Ore, 2006), intitolato appunto “Musica e lavoro”. Invece per la questione dei canti di
lavoro, e dei relativi gesti, nel blocco successivo, cfr. le belle osservazioni di Dario Fo nel suo
classico Manuale minimo dell’attore (Torino, Einaudi, 1987), in particolare pagg. 42 – 46.
L’esibizione di Cash al Festival di Glanstonbury del 1994 avvenne il 26 giugno, l’ultimo dei tre
giorni della kermesse, all’interno di un gruppo di artisti comprendente tra gli altri Blur,
Chumbawamba, Oasis, Peter Gabriel, Radiohead, Spiritualized, Stereolab (e nei giorni precedenti
Tricky, Transglobal Underground, Orbital, Paul Weller, Nick Cave & The Bad Seed, Orbital,
Natacha Atlas, Elvis Costello & The Attraction, Björk, US3, Tool, Rage Against The Machine,
giusto per avere un’idea). Cash aveva suonato il 22 e 23 in Olanda e Danimarca e il 29 e 30 sarà a
Parigi e Rotterdam, ma per l’ora circa di concerto sul palco di Pilton, dove presenta un set di 18
brani, sembra in ottima forma anche se la voce ogni tanto si incrina (da internet è stato rimosso
ovunque un video del concerto per violazione di diritti, ma si trova ancora una traccia audio).
L’esibizione al Carter Family Fold, una sala concerti affiliata al Carter Family Memorial Music
Center (l’organizzazione no profit della famiglia Carter, alla quale ovviamente Cash era legato e
non solo per il felice matrimonio con June, che si occupa di promuovere la Old Time Music, il
country più classico) risale al 5, come si legge dappertutto, o al 7, come si legge invece nei titoli di
testa di un video che la documenta, luglio del 2003, e risulta essere l’ultima di Cash prima della
morte, avvenuta appena due mesi dopo, il 12 settembre. Qui Cash canta accompagnandosi con la
chitarra acustica e con il supporto di altri due musicisti alla chitarra elettrica e al basso, per circa 25
minuti, un corpus di sette brani. Assistere al video che è stato girato in quell’occasione, in modo
piuttosto amatoriale, procura non so se più indignazione o tristezza: Cash è ormai un relitto, e lo
sforzo impietoso che gli costa cantare è impietosamente lampante: la videocamera riprende quasi
sempre soltanto lui e per tutta la durata del concerto sembra che la cosa stia avvenendo per un
manipolo di pochi intimi; soltanto alla fine viene allargata l’inquadratura e si scopre, al momento di
un’inevitabile standing ovation, che la sala è occupata probabilmente da qualche centinaio di
persone. Sembra che Cash abbia desiderato questa esibizione, ben intuendo che sarebbe stata
l’ultima, e abbia scelto il posto ideale per dare l’estremo saluto al pubblico: ciò non impedisce che
quel che si vede tolga il fiato ma non per ammirazione, e che la dovuta compassione lasci un gusto
davvero amaro.
Anche l’elegia delle rovine è un tema che mi frequenta da molto tempo, più o meno lo stesso
dell’archeologia industriale: Le rovine, le loro risposte è il titolo di un’altra piccola silloge di poesie
che ho messo insieme nel 1992, e raccoglie impressioni e meditazioni in versi relative alla visita
materiale, in situ, di alcune vestigia più o meno famose, più o meno agibili, della Romagna. Allora,
senza conoscere gli scritti di Victor Hugo, avevo elaborato una mia teoria sull’inopportunità del
restauro ad ogni costo e sul fatto che spesso i ruderi, più che testimoniare lo sfacelo del trascorrere
del tempo, raccontano il loro orgoglioso passare e resistere nel tempo; in realtà lo scrittore francese
più che col restauro in sé ce l’aveva con la furia dei “picconi demolitori” disposta a sacrificare
all’economia urbanistica moderna e alla damnatio memoriae di matrice napoleonica le
testimonianze dell’antichità, ma nei suoi articoli si parla anche del “vandalismo” che “ha intonacato
Notre Dame” o “ritoccato le torri del palazzo di giustizia”; in effetti Guerre aux démolisseurs !
Victor Hugo et la défense du patrimoine è il titolo di una mostra tenuta nel 2018 a Besançon presso
la casa dello scrittore e i locali del Museo del Tempo e del relativo catalogo (Silvana Editoriale), e
Guerra ai demolitori! l’editore Stampa Alternativa nel 1993 aveva chiamato uno dei suoi volumetti
Millelire con i testi di Hugo. A questi si riferisce l’autrice di Le rovine abitate. Invenzione e morte
in luoghi di memoria (Firenze, Alinea Editrice, 2000) attribuendo loro una coscienza civile ante
litteram in materia di conservazione del patrimonio, nel valutare il fatto che ci sono memorie
necessarie, che non tutto si può o si deve ricostruire, e soprattutto che bisogna riflettere sulle rovine
scevri da una “ottusa elusione della fine”; è qui che l’invocazione di Hugo diventa “guerra ai
restauratori”.
L’ultimo blocco di versi, come in tutti i poemetti della Quadrilogia, è una sorta di esegesi
dell’opera d’arte che campeggia in copertina. Sulle prime avevo scelto una “delocazione” di
Claudio Parmiggiani, una delle sue “impronte” di fumo e fuliggine su tavola, nello specifico di una
clessidra; mi pareva (e tutto sommato mi pare ancora … ) una bella rappresentazione dell’idea che il
trascorrere del tempo possa, pur nella sua inesorabilità, lasciare un calco di leggerezza, luminosità e
forma se la vita, anche con tutte le sue antinomie e incongruenze, è stata vissuta degnamente.
Curiosando in rete per documentarmi meglio ho incocciato su un paio di conversazioni e su un
articolo di Massimo Recalcati sull’artista di Luzzara che mi hanno convinto a cambiare opzione: la
scultura Senza titolo, citazione sottotraccia di Il canto d’amore del 1914 di Giorgio De Chirico, è
una delle migliori epifanie realizzate da Parmiggiani della sua concezione del rapporto tra luce e
ombra, non sostanze separate in contrasto tra loro ma piuttosto interdipendenti; secondo le parole
dell’autore che ho trascritto in corsivo, l’ombra è “sangue della luce” e la luce può provenire anche
da “una stella morta”, come nella scultura in effetti sembra che avvenga in quanto non esiste fonte
visibile per la luce che irrora il volto, un pigmento puro nato da nulla sul volto stesso.
Da questo punto di vista prende una sfumatura interessante anche il titolo del poemetto che, sarà
superfluo dirlo ma lo dico lo stesso, è rubato di sana pianta all’omonima plaquette di Giuseppe
Ungaretti, composta tra il 1952 e il 1960. Io ho scelto questo titolo all’inizio per pura suggestione,
la suggestione diciamo un po’ rozzamente del “colpo di coda” dell’artista in età avanzata, poi però
mi sono trovato sulla via avalli indiretti: come ad esempio quello di un breve spunto di Giorgio
Caproni che si conclude riferendo l’ultimo verso del Cantetto senza parole (una delle poesie del
Taccuino), “la luce torna al giorno”, alla grandezza senile del poeta grazie alla quale “la poesia
torna alla poesia” (lo scritto fu pubblicato nel gennaio 1961 sulla rivista Il Punto); oppure quello del
poeta Philippe Jaccottet, traduttore francese di Ungaretti, che considerava la sua poesia come una
continua variazione su un unico tema, “la luce di questo mondo” (Europe, novembre – dicembre
2008).

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