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Salva: “Guardare il paesaggio”

Dal momento che siamo qui a suggello, coronamento della mostra di Roberta Baldaro, ho deciso
di cominciare dal titolo, che è anche quello che lei ha dato al complesso dei suoi fotodisegni, Posto
nuovo, e che così lei stessa spiega:
“Sottraggo immagini dal mondo. Certo, sono fotografa, ma il mio è un furto che si sdebita con la
matita: è allora che restituisco la refurtiva, un posto nuovo, a conclusione o origine del paesaggio.
La fotografia non è la conclusione di un territorio, perimetro o consacrazione di un luogo scelto, la
fotografia è solo l’inizio: il disegno ne dilata lo spazio, trabocca oltre ciò che è inquadrato. Così la
veduta originale - fotografica - si estende in direzioni inaspettate - disegnate - con fioriture
spontanee. Fotografo il paesaggio e disegno ipotesi. E non si tratta di ricostruire scenari esclusi,
ma di inventare possibili traiettorie. La deriva è una possibilità di viaggio”.
Molto chiaro. Però a me ha suggestionato l’eventualità di considerare la parola “posto” nella sua
ambivalenza: posto, ovvero luogo, che diventa appunto nuovo rispetto alla sua apparente, ma
effettiva, realtà; e posto, participio passato del verbo porre, un verbo che mi dà la sensazione
icastica che il gesto artistico di Roberta sia assertivo, magari gentilmente assertivo, ma assertivo; e
aggiungerei niente affatto arbitrario, poiché Roberta mi ha detto di avere avuto talvolta qualche
imbarazzo al momento di scegliere in quale sezione presentare i fotodisegni a dei concorsi; dovesse
capitare che qualcuno storcesse il naso di fronte a foto contaminate da disegni: come se l’arte del
Ventesimo secolo non ci avesse abituati a qualsiasi tipo di ibridazione (mi sovviene di Lucio
Fontana che portò alla Biennale di Venezia, dove era stato invitato come scultore, i Concetti
Spaziali coi Buchi, e alle reprimende dei curatori che obiettavano “questa non è scultura”
rispondeva “Perché, secondo voi i buchi sono pittura?”): insomma, nei fotodisegni uno dei due
elementi sembra risultare superfluo, stare dove non dovrebbe stare.
Non ho usato l’aggettivo “superfluo” a caso: avrei potuto adoperare qualche presunto sinonimo,
inutile, accessorio, eccedente. Però io, che sono un grande estimatore dell’etimologia, spesso vado a
curiosare sul significato che le parole avevano in tempi che furono e che nel tempo si è modificato o
addirittura quasi perso: superfluo viene dal latino superfluus, derivato di superfluĕre che sì, dice di
un eccedere, traboccare (cfr. sopra il dettato di Roberta), ma da una composizione di super- e fluĕre,
alla lettera “scorrere sopra”: come il dirigibile della serie Volàno, gli ombrelli e le freccette di Per
un soffio, il blister vuoto delle aspirine in un pezzo di Incurante. Nelle combinazioni di paesaggi e
ipotesi di Roberta succede che qualcosa scorra al di sopra del soggetto primo che ha chiamato
l’inquadratura, al di fuori del dato fenomenologico, delle cose in se stesse: è qualcosa che ci proietta
nello spazio dell’immaginazione, o come dice Roberta della deriva (credo che anche questa parola,
deriva, non sia per nulla incidentale).
Dunque siamo qui a parlare di paesaggio, e si dà il caso che nel nostro paesaggio corrente ci sia
qualcosa che risponde a questa accezione di superfluo, scorre al di sopra, pressoché letteralmente,
un elemento del paesaggio cha non sta sempre lì, solido e impassibile come le montagne, ma va e
viene rispondendo a precise condizioni atmosferiche: le nuvole. Cito le nuvole in quanto io ci ho
lavorato proficuamente nel mio campo di pertinenza, che è quello della poesia, ma se non sbaglio
anche Roberta ha in mente di farci qualcosa. Tra l’altro per me le nuvole sono una metafora
bellissima e molto precisa del proceso di produzione artistica: la continua tensione tra forma e
modificazione che agisce nelle nuvole è la stessa alla quale sottosta un artista quando deve creare
un’opera. Come scrisse Wolfgang Goethe, “Quanto sia auspicabile per me il dar forma all’informe,
trovare una regola nell’infinito mutare delle figure, si deduce da tutti i miei sforzi in ambito
scientifico e artistico”: e lo scrisse in un trattato di meteorologia, lui che fu un grande ammiratore
del chimico inglese Luke Howard, colui che col suo Saggio sulle modificazioni delle nuvole nel
1802 ha gettato uno dei pilastri della meteorologia moderna.
Ho detto che un altro elemento del paesaggio, le montagne, se ne sta sempre lì, solido,
impassibile: sappiamo che non è del tutto vero, non starei a scomodare la fisica quantistica che mi
pare un po’ eccessivo se non ridicolo, tuttavia anche le montagne sopportano una tensione tra forma
e modificazione, certo con modalità e tempi formidabilmente diversi da quelli delle nuvole … A
questo proposito vorrei dire qualcosa su Paul Cézanne, che ha dipinto decine di volte la Montagna
di Sainte-Victoire, presso la sua Aix-en-Provence, disposto a divorarsi - “Gli occhi, me lo dice mia
moglie, mi escono dalla testa, tutti iniettati di sangue” confessava il pittore all’amico Joachim
Gasquet - nella convinzione che il fuoco che le rocce una volta erano continuasse a bruciare, e che
fosse possibile attraverso la pittura scoprire la materia allo stato primordiale, a uno stadio di
verginità del mondo, le cose non ancora ben definite mentre quasi stanno prendendo forma (una
pittura che a Wim Wenders ha fatto venire in mente i pixel, sbalordito dal fatto che ciò che oggi
chiunque può fare con la tecnica digitale Cézanne l’avesse fatto soltanto con “una matita e qualche
acquerello”). Cézanne si struggeva, instancabile “sur le motif”, con una devozione che infervorò
Rainer Maria Rilke (visitatore di una retrospettiva al Salon d’Automne del 1907 e lettore dei ricordi
cézanniani del pittore Emile Bernard) al punto da prenderla come modello per se stesso: e si
sorprendeva alquanto che coloro che abitavano sotto la montagna e quindi la conoscessero in ogni
dettaglio perché l’avevano sempre davanti, non riuscissero a guardarla se non come qualcosa di
ovvio (ancora una strizzata d’occhio all’etimologia; ovvio, “ciò che viene incontro”, e quindi non si
può evitare), come fosse “un quadro già appeso al muro”; tutti la ri-conoscevano, nessuno poteva
mai esserne la coscienza, ciò che invece Cézanne asseverava “Il paesaggio si pensa in me ed io ne
sono la coscienza”*.
Da questo che forse Gianni Rodari avrebbe considerato uno stimolante binomio fantastico, tra
nuvole e montagne, dedurrei la considerazione che nel nostro paesaggio quotidiano ci capita di
vedere cose che non ci sono, come ad esempio nel fenomeno della pareidolia, di cui le nuvole sono
tra le massime protagoniste, a causa del quale il cervello crea illusioni subcoscienti che inducono a
ricostruire forme riconoscibili dove non ci sono, la silhouette di un orso polare in un massiccio
candido cumulo, o il classico volto umano nelle ombre sulla superficie lunare: però non vediamo il
fuoco che brucia ancora nella montagna. Qualcuno avrà presenti le opere di Christo e Jeanne-
Claude, i celebri impacchettamenti, e avrà anche sentito dire che attraverso essi gli artisti ci hanno
fatto vedere ciò che non guardiamo proprio sottraendolo alla nostra vista: dichiarazione un po’
apodittica, e sulla quale ci sarebbe da discutere, ma che credo abbia un fondo di verità. A ogni
modo io concordo con Roberta sul fatto che il paesaggio è qualcosa di inafferrabile, potremmo
arrivare a dire che non esiste, che non è altro che una costruzione mentale e culturale. La domanda
è: a prescindere dalle maggiori o minori interferenze generate dalla natura del nostro sguardo, come
guardiamo il paesaggio? Le risposte, va da sé, potrebbero essere tante quanti sono gli sguardi che si
posano su un determinato paesaggio, pilotati da aspettative, pregiudizi, sentimenti: io ne butto sul

*
Mi piace qui ricordare un film che Jean-Marie Straub e Danièle Huillet hanno realizzato su Cézanne su committenza
del Musée d’Orsay – che poi però lo rifiutò – Cézanne. Conversation avec Joachim Gasquet, uscito comunque nel
1989: un film sperimentale e di purezza assoluta come tutti quelli della coppia di registi francesi, i quali del resto hanno
fatto del paesaggio e del modo di farlo esistere sullo schermo uno dei cardini della loro ricerca.
piatto una secondo me piuttosto plausibile e generalizzata, non esattamente lusinghiera, quindi
proverò a azzardare un paio di antidoti.
Andy Warhol usava dire di essere “nella superficie dei miei quadri, dei miei film e di me stesso.
Non c’è niente dietro la superficie”. Ecco, io vorrei dire che spesso noi guardiamo il paesaggio allo
stesso modo, come se non ci fosse niente dietro la sua superficie, e oserei anche affermare che la
sovrabbondanza di immagini nelle quali siamo immersi, e la leggerezza con la quale per lo più le
gestiamo (non la leggerezza “pensosa” di Italo Calvino, ma proprio la leggerezza della noncuranza),
si riflettono negativamente sulla qualità del contributo personale nostro alla qualità complessiva del
paeaggio. Tutti siamo bravi a indignarci dello “assalto alla bellezze d’Italia” (è questo il sottotitolo
di Vandali, un pamphlet nel quale Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo nel 2011 hanno messo in fila
una serie di sconcezze subite dal nostro paesaggio), ma poi alla resa dei conti ci arrendiamo al loro
consumo: i borghi, i centri storici, i siti archeologici, i parchi naturali, stanno diventando come i
nonluoghi codificati da Marc Augé nel 1992, spazi lavorati dalla merce, da quella merce peculiare
che è il turismo, e per questo al tempo stesso “luoghi di nessuno, come una camera d’albergo vuota
che aspetta il cliente”, come invece disse Gianni Celati nel suo intervento a un convegno del 2006
promosso dall’Assessorato alla Cultura e al Paesaggio della provincia di Reggio Emilia, intitolato
con candida imperturbabilità, o ironia involontaria, Il paesaggio come capitale.
Il primo antidoto che io suggerisco viene da quello che prima ho detto essere mio campo di
pertinenza, la poesia, ciò per cui probabilmente sono stato convocato: non credo che Roberta mi
abbia chiamato in quanto, poiché lavoro come operaio magazziniere presso una rivendita di
materiali per l’edilizia, contribuisco quotidianamente a una tensione tra forma e modificazione del
patrimonio architettonico, e quindi paesaggistico … Ma il poeta di cui vorrei parlate non sono io,
bensì un grandissimo poeta italiano, Andrea Zanzotto, la cui prima raccolta di liriche, pubblicata nel
1951, pensate che coincidenza, porta il titolo Dietro il paesaggio. Stefano Dal Bianco, a sua volta
poeta ma anche ricercatore e critico, curatore dell’Oscar Mondadori che raccoglie tutte le poesie di
Zanzotto (a dire la verità quasi tutte, mancano per esempio gli haiku), e co-curatore del Meridiano a
Zanzotto dedicato, ha rilevato un movimento che procede dall’essere “schiacciato sul paesaggio”
all’accettare “il proprio inglobamento” in esso (diventarne la coscienza come Cézanne?). Di una
puntata di un antico programma culturale della RAI intitolato Io e … , che era curato dalla storica
dell’arte Anna Zanoli (che tra l’altro era nata a Cesena), 35 episodi nei quali un protagonista della
cultura contemporanea era invitato a raccontare il proprio rapporto con un’opera d’arte prediletta,
siamo nel marzo del 1974, fu protagonista Zanzotto: che però non scelse propriamente un’opera
d’arte, bensì il cosiddetto Quartier del Piave, un pianoro delimitato a sud dal fiume Piave e a nord
dai rilievi collinari che caratterizzano l’alta Marca Trevigiana, comprendente diversi comuni fra i
quali Pieve di Soligo dove Zanzotto è nato. Ripreso mentre camminava in questo territorio egli
mostrava come manufatti puramente funzionali, come un mulino ad acqua, e altri più artistici,
antiche abbazie, avessero la proprietà di integrarsi perfettamente nell’ambiente naturale, e di
accordarsi tra loro, “piccole opere dolcemente artigianali” e prodotti dell’alta cultura universale, e
che dunque in un certo senso arte e artigianato fossero tutt’uno, opere e giorni diceva citando
evidentemente Esiodo, l’idea che il lavoro necessiti all’uomo per sfamarsi ma anche per vivere
secondo giustizia, così che l’intero paesaggio diventava opera d’arte. Poi non mancava di
sottolineare come tutto ciò fosse stato dimenticato nella modernità, quanto “mai come oggi l’uomo
si è staccato dalla natura” al punto che “non ci sono parole sufficienti per parlare della devastazione
del paesaggio”.
Da allora il paesaggio italiano, o meglio il suo progressivo sgretolamento sia fisico che morale,
si può dire sia stato il fulcro dell’intera poetica zanzottiana, e non solo nell’opera in versi ma anche
in divesi scritti in prosa. Matteo Giancotti, curatore di un’antologia di tali scritti (Luoghi e paesaggi,
Bompiani, 2013), sottolinea il disincanto di Zanzotto, che ha osservato il paesaggio vivere, animarsi
e addirittura “splendere” di un lavoro umano mosso da un antropocentrismo giusto che il paesaggio
ha saputo usare, abitare, anche plasmare e addomesticare a proprio vantaggio ma senza peccare di
hybris, tenendo sotto controllo il proprio essere deinos, il meraviglioso e terribile umano status che
apre il primo stasimo dell’Antigone di Sofocle; un paesaggio pronto a ricevere questo lavoro, quasi
predestinato a riceverlo. Vorrei anche citare un passo di un testo attribuito con molti dubbi a
Friedrich Hölderlin, un poeta che Zanzotto ha precocemente conosciuto e assiduamente frequentato,
e che anzi secondo uno studio su Hölderlin e Zanzotto pubblicato da Sara Bubola (laureatasi con
Luigi Reitani, che di Hölderlin è stato uno dei massimi esperti nel nostro paese e ha atteso in modo
superbo ai due Meridiani hölderiniani) sarebbe tanto presente nell’opera zanzottiana da costituirne
un elemento di coesione: “Pieno di merito, ma poeticamente abita l’uomo su questa terra” (un passo
complesso e ambiguo, a lungo studiato da Martin Heidegger, altro grande appassionato di
Hölderlin). Ma questo antropocentrismo giusto in seguito si è spostato verso l’ingiusto, il puro
utilitarismo, un rullo compressore sulla geografia umanistica del paesaggio; paesaggio non usato ma
abusato, non abitato ma invaso, non plasmato ma sfruttato e sfregiato. Per dirla con Claude Lévi
Strauss, l’uomo è passato dall’esssere nella natura all’essere nei confronti della natura.
Dovremmo imparare a guardare allora dietro il paesaggio, a non fermarci sulla sua superficie, a
recuperare il senso profondo della storia, della memoria e dell’identità che ne sono l’intreccio e il
telaio al tempo stesso, a riconquistare come anni fa auspicava lo psicanalista e sociologo Luigi Zoja
l’indissolubilità tra giustizia e bellezza che fu degli antichi greci; o più in generale quelli che
l’urbanista Anna Marson ha definito gli “archetipi di territorio”, ciò che a dispetto di ogni umana
trasformazione del paesaggio ha superato la vita di generazioni e le vicende storiche contingenti
resistendo nel tempo e configurandosi come ciò che dà il senso dell’abitare uno spazio e non
semplicemente di occuparlo. Possiamo anche permetterci di avere o non avere uno sguardo
individuale sul paesaggio, uno sguardo estetico che esiga o meno una propria agnizione, ma non
possiamo permetterci di sottrarci a uno sguardo etico.
Il secondo antidoto viene invece dal campo di pertinenza di Roberta, dalle arti visive e dalla
fotografia (però mi è d’obbligo ricordare che Roberta è anche valente poeta, mentre io non sono
nemmeno pessimo fotografo), da Marina Ballo Charmet, e da un suo progetto del 1993-1994
intitolato Con la coda dell’occhio (ricorderei en passant che Marina è figlia di un importante storico
dell’arte, Guido Ballo, che ha lavorato sul tema del “come guardare” – nel suo caso le opere d’arte –
e ci ha lasciato tra l’altro un eccellente libro di divulgazione, alta divulgazione, significativamente
intestato Occhio critico). Il tema è più o meno lo stesso, il fatto di guardare alle cose distrattamente,
o con un’attenzione condizionata da prevenzioni, negative o positive esse siano. Però in questo caso
il “sempre visto” al quale si interessa l’autrice non è il monumento, ma ciò che rimane sulla soglia
della percezione, ai margini, fuori-fuoco: ciò che viene di solito visto appunto con la coda
dell’occhio. Marina fotografa “gli angoli dei marciapiedi, i balconi anneriti di anonimi condomini,
un selciato, dettagli di volti senza identità, dettagli colti in momenti di luce incerta - albe,
crepuscoli, foschie”: “il rimosso della città”, sintetizza lei. L’interessante di questo progetto è la
proposta di incorporare all’immagine proprio la distrazione, la dispersione, di chiedere all’occhio –
come ha osservato Stefano Chiodi - “di interrogare la propria stessa egemonia, di forzarsi al proprio
impensato, di diventare veicolo di un modo del pensiero che non rappresenta nulla ma si impone
anzitutto come esperienza fenomenologica dell’incontro imprevedibile con l’esterno, con l’alieno,
con il non interamente conoscibile”. È qualcosa che se vogliamo ha anche dei precedenti, certe foto
di canali di scolo di André Kertész per esempio, la serie di Steve McQueen Barrage, dedicata agli
strofinacci che gli stradini parigini dispongono davanti alle buchette dei canali di scolo stessi per
convogliare le acque nella fognatura, che Georges Didi-Huberman ha catalogato tra le possibili
figure della ninfa moderna e del “panneggio caduto”. È qualcosa che di recente lo scrittore Silvio
Perrella ha realizzato in forma di parole in Petraio, un libro fatto di vere e proprie istantanee verbali
prese nel quartiere di Napoli chiamato appunto così, sottratte ai banditori turistici che in quel
quartiere hanno trovato modo di piazzare un appropriato brand, un “itinerario alternativo e
affascinante, fatto di scalini, rampe, discese, inaspettate oasi di pace e panorami inusuali”. Pronto
per essere serigrafato come la lattine della minestra Campbell.
Vorrei avviarmi alla conclusione con una vera e propria provocazione: quella di abbandonare un
po’ la retorica della salvaguardia del paesaggio, non perché non sia giusto che il paesaggio vada
salvaguardato, ma perché la retorica finisce per cristallizzarsi e fare rientrare dalla finestra quel che
pretendeva di aver fatto uscire dalla porta: la negligenza, il disinteresse, la sufficienza, poiché fa
dare per scontato che qualcuno compia ciò che si deve compiere, incaricato, deputato, pagato per
compierlo. Abbandonare questo mainstream enfatrico e consolatorio per aprirsi alle sollecitazioni
psicogeografiche del paesaggio, per offrirsi alla possibilità della deriva. Chiedere allo sguardo di
“interrogare la propria stessa egemonia” e rinunciare alle proprie sicurezze (del resto così aleatorie).
Rinnegare la intoccabile cuspide tutela-museificazione-consumo, anzi profanarla: “tutto oggi può
diventare Museo” – scriveva nel 2005 Giorgio Agamben in un libretto intitolato giustappunto
Profanazioni – “perché questo termine nomina semplicemente l’esposizione di una impossibilità di
usare, abitare, di fare esperienza” (a proposito di esperienza ricordo che il filosofo romano, nel
lontano 1978, nelle prime pagine di Infanzia e storia, aveva stigmatizzato proprio la fotografia
quale deliberata rinuncia all’esperienza di certi luoghi in situ per accontentarsi di un suo differito
surrogato; ed era l’epoca delle discrete Polaroid, non quella dei petulanti selfie); come vale per ogni
merce il paesaggio, per quanto salvaguardato e museificato – e non di rado salvaguardato proprio
allo scopo di venire mercificato - viene scisso in valore d’uso e valore di scambio e “dislocato in
una sfera separata in cui ogni uso diventa durevolmente impossibile”, quella appunto del consumo.
Agamben non ne fa esplicitamente il nome, ma sta pensando, è chiaro, a Guy Debord, quando
qualche paragrafo prima scrive “Se, come è stato suggerito, chiamiamo spettacolo la fase estrema
del capitalismo che stiamo vivendo, in cui ogni cosa è esibita nella sua separazione da sé, allora
spettacolo e consumo sono le due facce di un’unica impossibilità di usare”; e se questo assunto
viene da ciò che Debord lanciava come un sasso nella prima tesi de La società dello spettacolo
(tutta la vita si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli, tutto ciò che era
direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione), può essere interessante notare come il
filosofo francese declinava il concetto nella 35 a tesi, quella che apre la terza parte del libro, “La
merce come spettacolo”: tutto ciò che nell’attività umana esisteva allo stato fluido (il corsivo è di
Debord stesso), lo spettacolo lo riprende in sé per possederlo allo stato coagulato: il superfluo, cari
noi, deve quagliare, con tanti saluti a Eraclito. La qualità del nostro sguardo può aiutare a usare il
paesaggio senza abusarlo, a abitarlo senza invaderlo, a non consumarlo? Non lo so. Tuttavia forse
invece di continuare a ripeterci di salvaguardare il paesaggio, come un mantra, come un
comandamento catechistico - “ricordati di salvaguardare il paesaggio” come “ricordati di santificare
le feste”? -, spezziamo il verbo per ricomporre la frase: salva “guardare il paesaggio”, a suggerirci
l’imperativo di liberare lo sguardo da vane tentazioni, e poi salviamo questo imperativo, mettiamolo
davvero in memoria, copiamolo sull’hard disk. Ho detto al principio che considero il gesto artistico
di Roberta assertivo; ora vorrei contemplare i fotodisegni come un esempio di profanazione di tale
perverso intreccio di spettacolo e consumo che cattura il paesaggio come qualsiasi altra cosa;
intreccio al quale come ben sappiamo la fotografia può dare il suo contributo, sia deliberato nel caso
si tratti di fotografia funzionale, pubblicitaria, ma anche riflesso, involontario, nel caso si tratti di
fotografia d’arte o documentaria, che pur spinta dalle migliori intenzioni non può avere il controllo
assoluto sul loro risultato. I suoi disegni profanano l’hortus conclusus fotografico del paesaggio, dal
quale spodestano lo spettro dello spettacolo, e con esso quello del consumo, evocando al contempo
il fantasma dell’immaginazione; un’immaginazione di forgia antica, l’immaginazione dei maghi
scienziati del Rinascimento, l’immaginazione che mediando tra i sensi e l’intelletto diviene forma di
conoscenza; invita a superare la dimensione immediata dello stupore infantile, che lascia a bocca
aperta e senza parole, verso quella, mediata appunto dall’intelletto, della meraviglia, che sta negli
occhi e nell’anima prima che nell’oggetto, e riconquista la parola, e desidera la capacità di intus
legere, vedere dentro alle cose, dietro, ai bordi. Quella del rapporto umano col paesaggio è, credo
che l’abbiamo capito, la storia di un rapporto con le sue immagini, le immagini preesistenti sancite e
quelle prodotte delle nostre percezioni e dai nostri ricordi. Le immagini, torno a citare Agamben per
un altro suo breve ma denso scritto, Ninfe, sono come gli esseri elementali di Paracelso, che
rendono possibili le leggi della natura ma per essere veramente vivi hanno bisogno che qualcuno li
assuma, si unisca a loro; tale unione comporta un rischio, bisogna stare attenti a non farsene
dominare, e soprattutto bisogna prendere su di sé la piena responsabilità di ciò che si domanda loro,
nel bene e nel male. È ciò che dovremmo imparare a fare noi con le immagini, comprese quelle del
paesaggio.

1 febbraio – 5 marzo 2023

Bibliografia

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