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AUTOBIOGRAFIA SCIENTIFICA

di
Aldo Rossi
Introduzione:
Questa autobiografia sembra rappresentare un percorso a ritroso. In questo libro regnano, "un
discreto disordine", ricordi di luoghi e cose abbandonate, frammenti di oggetti, forme, luci, gesti,
sguardi, emergenze di letture, citazioni di testi e autori amati. Questa "autobiografia dei progetti
che si confonde con la storia personale" svela ciò che sta alle spalle di un'originale teoria
dell'architettura: la poetica di un grande autore, il percorso della sua educazione formale, che
procede dall'osservazione delle cose alla memoria delle cose. Ritornano, sospinti da un pensiero
analogico e meditante, ostinato e ripetitivo, i concetti fondamentali intorno a cui si è sviluppata la
ricerca di Aldo Rossi (lo spazio, il tempo, l'energia, la naturalezza, la morte) e, come un'ossessione, i
motivi che, quasi moduli elementari, ricorrono a contrassegnare le sue diverse opere: il mercato, il
teatro, la villa, la torre, il silos, il timpano, la banderuola... Lungo dieci anni, questo diario apre
squarci biografici e poetici in un particolare percorso di evoluzione artistica, da all'esposizione
della teoria architettonica, nella sua genesi, il fascino e la bellezza di un racconto.
Alcune annotazioni:
Aldo Rossi (1931-1997) ha insegnato nella Università di Milano, Zurigo, Venezia, Yale, Harvard e
Cranbrook. Ha progettato e realizzato importanti opere in Italia, Europa, Giappone e Stati Uniti.
Ha avuto importanti riconoscimenti.
Considerazioni sul libro da parte di Vera Rossi:
Lo considero come uno dei materiali + preziosi lasciati da mio padre. Vi è l‟intuizione che le cose, gli
oggetti, l‟architettura e l‟arte in generale rappresentano forme immobili ma contemporaneamente in
movimento, una sorta di limite tra il qua e un altrove al confine tra la vita e la morte. Partendo da
Max Planck e la sua Autobiografia scientifica, comincia a percorre a scacchiera tutti i personaggi e i
luoghi del suo mondo: Dante, Alberti, Stendhal ecc… La sua architettura è un‟entità fatta di
“frammenti ricomposti” (il vissuto e l‟immaginario si confondono nella sua architettura). Il termine
scientifico per mio padre, con una certa dose di ironia, si poteva estendere a tutto, esempio se
cucinava chiamava la sua cucina scientifica.

Autobiografia Scientifica:
Considero il mio mestiere come una descrizione delle cose e di noi stessi. Ogni mio disegno o scritto
mi sembrava definitivo in un doppio senso: nel senso che concludeva la mia esperienza e nel senso
che poi non avrei avuto + nulla da dire. Ogni estate mi sembrava l‟ultima estate e questo senso di
fissità senza evoluzione può spiegare molti dei miei progetti, ma per capire l‟architettura o spiegarla
devo ripercorrere le cose o le impressioni, descrivere o cercare un modo di descrivere. In
architettura la ricerca è legata con ilmateriale e con l‟energia, senza questa osservazione non è
possibile comprendere qualsiasi costrizione né dal punto di vista statico né da quello compositivo.
La mia prima educazione non è stata di tipo figurativo, ho sempre pensato che un mestiere valga
l‟altro purché si abbia un fine preciso, avrei potuto fare qualsiasi cosa e infatti mi interessò
all‟architettura e così come la mia attività di architetto abbastanza tardi. Particolarmente attento e
colpito dalle forme, in gioventù ero particolarmente impressionato dai Sacri Monti, mi sembrava
certo che la storia sacra era completamente riassunta nella figura di gesso, nel gesto immobile,
nell‟espressione fermata nel tempo di una storia altrimenti impossibile da raccontare.
Ammiro l‟ostinazione dell‟Alberti, a Rimini e a Mantova, nel ripetere le forme e gli spazi di Roma,
come se esistesse una storia contemporanea. Vedendo Sant‟Andrea di Mantova (dell‟Alberti) ho
avuto la prima impressione del rapporta tra il tempo (nel doppio significato atmosferico e
cronologico) e l‟architettura, ritenendo che una forma precisa combatte il tempo fino a esserne
distrutta. L‟architettura era uno dei modi di sopravvivere che l‟umanità aveva ricercato; era un
modo di esprimere la sua fondamentale ricerca della felicità. Per questo sono colpito dai reperti
archeologici, dagli utensili, daiframmenti dove la pietra si confonde con l‟osso e viceversa. Questo
amore per il frammento e per la cosa che si lega a oggetti apparentemente insignificanti a cui
attribuiamo la stessa importanza che si attribuisce solitamente all‟arte.
Indubbiamente avevo un interesse per gli oggetti, gli utensili. Ad esempio quando era in cucina sul
lago di Como e disegnavo continuamente le caffettiere, pentole, bottiglie ecc. In particolare amavo
le caffettiere di colore blu, verdi, rosse per il loro volume bizzarro, talmente colpito da diventare in
futuro la riduzione di architetture fantastiche che avrei incontrato + tardi.
Il concetto di interno-esternomi è stato suggerito da San Carlo di Arona, un‟opera che ho disegnato
e studiato + volte, definendola un invenzione
meravigliosa. Lo paragono al cavallo omerico, il
pellegrino entra nel corpo del santo, come in
una torre o un carro governato da una tecnica
sapiente. Salita la scala esterna del piedistallo,
la rapida ascensione all‟interno del corpo rivela
la struttura muraria e le saldature delle grosse
lamiere. Infine la testa è un interno-esterno,
dagli occhi del santo il paesaggio del lago
acquista contorni infiniti (come osservatorio
celeste).
Questa impressione di interno-esterno mi diventerà + chiara in tempi successivi (ad esempio se
parliamo della caffettiera essa è anche legata all‟alimento e all‟oggetto dove si cuoce
l‟alimento).guardavo una strana fotografia: un volto dietro la grata di un castello o di un convento.
Dalla fotografia è difficile capire se noi guardiamo con gli occhi di colui che ci guarda o dalla parte
opposta, e ciò è possibile grazie alla grata. E poco dopo vado al convento de lasPelayas a Santiago de
Compostela e ho rivissuto lo stesso effetto della fotografia. La facciata delle Pelayasmi aveva colpito
a tal punto che alcuni miei amici catalani, in una pubblicazione, l‟avevano assunta come immagine
analogica del mio edificio al quartiere Gallaratese a Milano. Ma io ho potuto notare, all‟interno delle
celle, una luminosità che è in contraddizione con l‟aspetto carcerario delle facciate esterne.
Il
dimensionamento
di un tavolo, o di
una casa, è molto
importante, non,
come pensavano i
funzionalisti, per assolvere una determinata funzione ma per permettere + funzioni. (Per
permettere tutto ciò che nella vita è imprevedibile). Da qui col tempo ho riguardato l‟architettura
sempre di + come a ciò che permetteva lo svolgersi di una cosa. E proprio ciò mi ha portato ad
amare sempre di + il mio mestiere e nei miei ultimi progetti cerco solo di porre delle costruzioni che
favoriscano un evento. Questi progetti raggiungo un silenzio non purista come lo cercavo nei miei
primi disegni dove si preoccupava di luci, pareti, ombre, aperture. Ho capito che è impossibile
ripetere l‟atmosfera e che sono meglio le cose vissute e abbandonate.
Attraverso i disegni di Stendhal comparve in me una prima acquisizione dell‟architettura. Colpito
dai suoi disegni delle piante che sembravano una variazione grafica del manoscritto e in particolare
colpito dal fatto che la grafica sia una tecnica complessa tra la scrittura e il disegno e anche come le
piante prescindessero o ignorassero l‟aspetto dimensione e formale. Ritiengo che l‟archetto potesse
prevedere lo svolgersi della vita nella casa. I disegni di Stendhal mi hanno condotto probabilmente,
allo studio dei tipi di abitazione e del carattere fondativo della tipologia.
La questione dei frammenti per me è importante perché forse solo le distruzioni esprimono
completamente un fatto. Fotografie delle città durante la guerra, sezioni di appartamento, Delfi e
Olimpia questo poter usare pezzi di meccanismi il cui senso generale è in parte perduto mi ha
sempre interessato anche formalmente.
Voglio parlare di alcuni miei progetti che caratterizzaranno dei momenti della mia vita: sono
progetti molto conosciuti e ho sempre evitato di parlarne direttamente. Il primo è il progetto per il
cimitero di Modena e il secondo il progetto per una casa dello studente di Chieti. Il primo progetto
esprima,per il suo tema stesso, la liquidazione della giovinezza e dell‟interesse per la morte; il
secondo una ricerca di felicità come condizione di maturità. In entrambi i progetti non ho
rinunciato alla forma liturgia dell‟architettura, nel senso che non si deve dire molto di + di quello
che è stabilito, ma i risultati sono abbastanza diversi. Il primo progetto è legato a dei fatti e alla
conclusione della ricerca sulla forma osteologica dei frammenti, il secondo a una condizione di
felicità.
A metà del 1971 sulla strada di Istanbul, tra Belgrado e Zagara, Rossi ho avuto un grave incidente
d‟auto. E proprio da questo incidente che nasce il progetto per il cimitero di Modena. Dovendo
stare immobile nella stanza, l‟unica cosa che potevo fare era guardare al di fuori della finestra e
osservare il cielo e il verde. Stando immobile pensavo e non pensavo, e in qualche modo ciò mi
riportava al passato. Nell‟estate successiva all‟incidente nel mio studio non facevo che pensare al
dolore delle ossa e pensando al corpo come una serie di fratture da ricomporre. Identifico la morta
con la morfologia dello scheletro. Finito questo progetto ritorno a Istanbul sempre in automobile,
per me questi 2 viaggi sono come un proseguimento dello stesso progetto. Si tratta di un viaggio
interrotto. Ho risentito una grande passione per l‟architettura quando mi trovainella Moschea di
Bursa e riprovai quel sentimento d‟infanzia di essere invisibile, in certo senso quello di stare
dall‟altra parte dello spettacolo. E proprio per questo sentimento ritengo di non poterla vivere
completamente, pensando che l‟arte, a eccezione del teatro, non è mai un‟esperienza soddisfacente.
Il progetto di Modena è stato criticato con attacchi feroci. Quello che + mi colpiva era che i critici
ridussero il progetto a una sorta di esperimento neoilluminista; credo che lo facessero perché avevo
tradotto l‟opera di Boullèe e non per qualche intenzione critica. Infatti ora che lo vedo sorgere trovo
in questa grande casa dei morti ha quindi un tempo legato alla vita come, in fondo, tutte le
costruzioni. La sua forma ritorna in molti miei disegni con leggere variazioni, come variazioni ha
subito la costruzione; il motto del concorso era < L‟azzurro del cielo> e ora vedo questi grandi tetti
azzurri di lamiera. Le pareti rosa si sovrapponevano al laterizio emiliano del vecchio cimitero che
tramite la luce potevano apparire o bianche oppure rosa scuro. Il Po appare come la continuità della
morte (paesaggi caratterizzati dalla nebbia), lasciando solo segni, segnali, frammenti; ma sono
frammenti affettuosi. Se dovessi rifare questo progetto forse lo rifarei uguale, forse rifarei uguale
ogni progetto; ma è anche vero che tutto ciò che è successo è già storico ed è difficile pensare che le
cose potessero avvenire in un altro modo.
Nel 1960 circa avevo scritto L’architettura della città un libro fortunato, non avevo ancora 30 anni e
volevo scrivere un libro definitivo.
Il tempo dell‟architettura si propone come un tempo disastroso che si riprende le cose. Tutto ciò mi
porta al concetto di identità. E della perdita dell‟identità. È qualcosa di singolare, di tipico ma è
anche una scelta.
Nei miei disegni L’architecture assassinèe e Le cabine dell’Elba ho cercato di esprimere questi rapporti e
in altri ancora. Rivalutando le cabine, le piccole costruzioni in legno, le loro deformazioni: il mondo
del Sud dal Mediterraneo al Pacifico.
Ho sempre amato la tipologia del corral: la corte era la forma di vita delle casa vecchia di Milano.
Nelle vecchie case di Milano la vedevo, insieme al ballatoio che d'altronde è strettamente legata alla
corte, come una forma di vita fatta di intimità sofferte, di legami, di insofferenze; nell‟infanzia
borghese mi sentivo espulso da queste case ed entravo nei cortili con curiosità e
timore. La fantasia ricresceva nei corrales di Siviglia: in quelli + grandi e antichi,
in quelli dalla forma stretta e lunga con scale e terrazze che si incrociano) è
certo che vediamo dietro molte di queste costruzioni i segni dell‟antica miseria
che vogliamo capovolgere; ma dobbiamo anche cogliere le immagini + dense che
faranno la storia della città nuova. Per me il progetto di architettura s identifica
ora con queste cose: vi è una strada di Siviglia fatta di ballatoi sovrapposti, di
ponti aerei, di scale, di chiasso e di silenzio che mi sembra di ripetere in ogni
disegno. Qui la ricerca si è arrestata; l‟oggetto è l‟architettura ritrovata.
Credo sempre che nella vita, come in architettura, se cercavo una cosa non
cercavo solo quella; per questo in ogni ricerca vi è sempre un grado di
imprevedibilità, come un senso di fastidio nel concludere. Io amo
particolarmente i teatri vuoti, con poche luci accese; al massimo le prove parziali dove le voci
ripetono la stessa battuta, la spezzano, la riprendono, rimanendo al di qua dell‟azione. Anche nei
progetti la ripetizione, il collage, lo spostamento di un elemento da questa a quella composizione ci
pone sempre davanti a un progetto che vorremmo fare e che è anche memoria di un‟altra cosa. Per
questo le città, anche se durante i secoli, sono in realtà dei grandi accampamenti di vivi e di morti
dove restano alcuni come segnali, simboli, avvenimenti.
Guardando un rudere, anche nella città i contorni delle cose si sfumavano e si confondevano. Nel
silenzio esagerato di un‟estate in città coglievo la deformazione, non solo nostra, ma degli oggetti e
delle cose. Forse vi era un certo stordimento nel guardare le cose e tanto + erano precise tanto + si
offuscavano. Così si poteva tentare questo progetto: per esempio, una casa. Ammettevo che il
disordine delle cose, se limitato e in qualche modo onesto, rispondesse meglio al nostro stato
d‟animo. Ma detestavo il disordine affrettato che esprime come indifferenza all‟ordine, una specie di
ottusità morale, di benessere soddisfatto, di dimenticanza.
Forse l‟osservazione delle cose è stata la mia + importante educazione formale; poi l‟osservazione siè
tramutata in una memoria di queste cose. Ora mi sembra di vederle tutte disposte come utensili in
bella fila; allineate come in un dizionario. Ma questo elenco tra immaginazione e memoria non è
neutrale, esso ritorna sempre su alcuni oggetti e ne costituisce anche la deformazione o in qualche
modo l‟evoluzione. Credo che sia difficile per la critica, dall‟esterno, capire tutto questo.
Ho detto precedentemente che il progetto di Chieti era basato sulla felicità; in genere, dopo la
liquidazione della morte con il progetto di Modena, perseguitavo una rappresentazione formale
della felicità. Ora mi è chiaro che non vi è momento di completa felicità che non abbia in sé una
forma di idiozia, di stupidità autentica o riscoperta. Come il gioco di guardarsi negli occhi a chi ride
per primo. Forse proprio un verso liceale di Alceo mi aveva condotto all‟architettura. O conchiglia
marina/ figlia della pietra e del mare biancheggiante/ tu meravigli la mente dei fanciulli. La citazione è circa
questa e contiene i problemi della forma, della materia, della fantasia, cioè della meraviglia. Ho
sempre pensato che ridurre l‟originale dei materiali a qualche senso positivista costituisse
un‟alterazione sia della materia che della forma. Ho preso coscienza di questo nel progetto di Chieti
e nel disegno molto pubblicato, che poteri chiamare famoso, Le cabine dell‟Elba. Le cabine erano un
„architettura perfetta, ma anche si allineavano lungo la sabbia e strade bianche in mattine senza
tempo e sempre eguali. Posso ammettere che esse rappresentano qui un aspetto particolare della
forma e della felicità: giovinezza. Ma questa questione non è essenziale anche se è legata agli amori
delle stagioni marine. L‟albergo Sirena è fondamentale nella mia architettura al punto che qualcuno
potrà pensarlo come un‟invenzione, un mio progetto: potrei aggiungere che per la sua tipologia a
corte esso è anche un aspetto della mia analisi sui corpi di fabbrica. In realtà non è l‟aspetto
tipologico che ha influenzato la mia opera, ma certamente, dal punto di vista del meraviglioso, il suo
colore. L‟albergo Sirena era completamene tinto di verde, con un tipo di intonaco rustico. La
commistione di questo verde acido ed esasperato con le forme della villa piccolo borghese, non
priva di sottigliezza romantiche, offriva una versione del surrealismo tra il fascista e l‟idiota. Penso
che l‟architettura è anche un architettura dell‟interno, o meglio, dall‟interno; le persiane che filtrano
la luce del sole o la linea dell‟acqua costituiscono dall‟interno un‟altra facciata, insieme al colore e
alla forma dei corpi che dietro la persiana vivono, dormono ecc.
I confessionali sono delle piccole case all‟interno dell‟architettura e mostrano come il duomo o la
cattedrale della città antica fosse una parte coperta della città. Mercati, cattedrali, edifici pubblici
spiegano una storia + complessa della città e dell‟uomo. Le edicole di vendita all‟interno dei mercati
o i confessionali e le cappelle all‟interno delle cattedrali mostrano questo rapporto tra singolo e
universale, rendendoci il rapporto tra l‟interno e l‟esterno dell‟architettura. I mercato hanno sempre
avuto per me un fascino che solo in parte è legato all‟architettura; soprattutto quelli francesi, quelli
di Barcellona o quelli a Venezia sono gli esempi che ricordo maggiormente. Questa architettura
della strada e delle cose, delle persone e del cibo si è definita per sempre nella Vucciria di Palermo.
Appena penso ai mercati stabilisco un parallelo con il teatro e particolarmente con quello del
Settecento nel rapporto tra i palchi come luoghi isolati e lo spazio complessivo del teatro. Sono
sempre stato affascinato dal teatro anche se ne ho progettati solo 2: il progetto giovanile del teatro
Paganini in piazza della pilotta a Parmae nel 1979 il progetto per il Teatrino scientifico;
Quest‟ultimo progetto mi è particolarmente caro. Ho sempre pensato che il termine teatrino fosse +
complesso di teatro, questo non si riferisce solo alla misura ma al carattere di privato, di ripetitivo
di quando nel teatro è finzione (alcuni pensavano che il termine teatrino fosse una parola ironica o
infantile. Teatrino invece di teatro non è tanto ironico o infantile, anche se ironica e infanzia sono
strettamente legate al teatro, quanto un cratere singole e quasi segreto che accentua il teatrale. La
definizione di scientifico deriva da molteplici motivi: è certo un misto tra il Teatro anatomico di
Padova e il Teatro scientifico di Mantova e tra l‟uso della memoria dei teatrini a cui Goethe ha
affidato gli anni della giovinezza. Erano anche strutture semplici febbrile e incerta, il teatro
provvisorio, distrutto dall‟autunno. Questi luoghi o teatrini erano frammento e occasioni; forse non
prevedevano altre vicende e ogni commedia non aveva progresso.
È certo che il tempo che il teatro non coincide con il tempo misurato dagli orologi; anche i
sentimenti non hanno tempo e si ripetono sul palcoscenico ogni sera con impressionante
puntualità. Ma l‟azione non sarà mai estranea al clima del teatro o teatrino: e tutto questo è
riassunto in poche tavole di legno, un palco, luci improvvise e impreviste, gente. Il prestigio del
teatro. Negli ultimi progetti seguivo queste analogie sterminate: le case capanna della casa dello
studente di Chieti, i disegni delle cabine dell‟Elba, le Palme e le case di Siviglia erano i pezzi di un
sistema che doveva comporsi all‟interno del Teatrino scientifico. E nessun meccanismo sembra più
ripetitivo delle questioni tipologiche della casa, delle costruzioni civili, del teatro. Forse meglio di
ogni tentativo di recupero, a partire dall‟antica Roma, è l‟invenzione del teatro come luogo
delimitato, le assi del palcoscenico, scenografiche che non vogliono + imitare nulla, le poltrone, i
palchi.
Certamente il teatro, come modo di vivere, era un‟abitazione. In Brasile, il teatro si distingue appena
per la chiarezza del timpano, per lievi accorgimenti della facciata, o si ritrova nelle cattedrali dove il
retablo (grande pale sull‟altare) è come una scena fisa attorno a cui si distinguono o si scavano
palchi.
L‟invenzione del Teatro scientifico, come ogni progetto teatrale, è quindi un‟imitazione e come ogni
buon progetto è preoccupato solo di essere un utensile, uno strumento, un luogo utile per l‟azione
decisiva che può accadere. Così esso è inscindibile dalla sue scene, daisuoi modelli, dall‟ esperienza
di ogni combinazione e il palcoscenico si riduce al tavolo da lavoro dell‟artigiano o dello scienziato;
è sperimentale, come è sperimentale la scienze, ma conferisce a ogni esperimento il proprio
prestigio. Al suo interno niente può essere casuale ma nemmeno nulla può essere risolto per
sempre. Persone, vicende, cose, frammenti, architettura hanno sempre un fatto che li precede o li
segue e si intersecano scambievolmente. Il teatro era anche una mia equivoca passione dove
l‟architettura era il fondale possibile. Ho sempre preferito i muratori, gli ingegneri, i costruttori che
davano una forma, che costruivano ciò che rendeva possibile una qualche azione.
Dopo i romani, il locus o luogo della villa è stato per sempre determinato da Palladio nel trattato e
nelle opere costruite: la desacralizzazione della forma del tempio religioso e la scelta del luogo sono
la sua + grande invenzione. Storicamente questa riduzione permette la villa romantica e piccolo
borghese; anche i palazzi trasformano i padiglioni dei giardini in ville, tale è il segreto di questa
costruzione: basti pensare alla villa padiglione di Schimkel nel parco di Charlottenburg. Sulla
scorta di questi concetti l‟architettura della villa era quella destinata a dissolversi e quasi
scomparire, quasi a non lasciar segno delle sue sempre + fantastiche tipologie. L‟idea del luogo
palladiano ha estraniato il luogo della villa dal suo contesto.
Quando traccio la linea di un corridoio ne vedo questo aspetto di sentiero e forse per questo il
progetto non andava oltre; era un percorso come attanagliato e circondato da fatti privati, occasioni
imprevedibili, amori, pentimenti. Anche immagini che non rimanevano impresse sulla lastra
fotografica e che si accumulavano nelle cose; per questo l‟interno è importante e dovete sempre
immaginare l‟effetto che produce una persona che esce da una stanza imprevista; e chiedervi se le
camere dovranno comunicare tra loro e questioni di questo tipo che si mescolano alla difesa
dall‟umidità, ai livelli delle acque, alla copertura e infine al buon stato della costruzione.
Il progetto insegue questa trama di nessi, di ricordi, di immagini pur sapendo che alla fine dovrà
definire questa o quella soluzione; dall‟altra parte l‟originale, vero o presunto, sarà un oggetto
oscurato che si identifica con la copia.
È difficile pensare senza qualche ossessione; è impossibile creare qualcosa di fantastico senza una
base rigida, incontrovertibile e appunto ripetitiva. Era questo il senso di molti progetti; e il mio
interesse per il mercato, per il teatro, per l‟ambizione.
Ho sempre imparato tardi a comprendere gli interni vittoriani, le mezze luci, la tenda scolorita,
l‟orrore dello spazio vuoto che deve essere colmato e sempre coperto e forse per questo non
raggiungevo nemmeno una logica che finisse il disegno. Non potevo aggrapparmi alla volgarità
dell‟albergo Sirena: perché ormai quell‟albergo era un monumento entro cui partecipavo a una
liturgia le amarezze e il conforto del rito. Se dovessi parlare dell‟architettura direi che è piuttosto un
rito che una creatività; perché conosco pienamente le amarezze e il confronto del rito. Il rito ci dà
un conforto della continuità, della ripetizione, ci costringe a dimenticanze oblique perché, non
potendosi evolvere, ogni cambiamento sarebbe la distruzione.
Amavo l‟assestamento del Pantheon descritto nei libri di statica; la crepa imprevista, un crollo
visibile ma contenuto, dà una forza immensa all‟architettura perché la sua bellezza non poteva
essere prevista. Tra le mie prime passioni per l‟architettura vi è certamente Alessandro Antonelli; di
lui ho sempre ammirato la coerenza ossessiva e la passione per la costruzione verticale. Egli portava
all‟estremo un sistema di costruzione tradizionale, le cupole in laterizio. Antonelli si opponeva a
rompere delle regole antiche quasi non potesse confrontarsi con le tecniche moderne per la loro
elementarità. Questa passione per la tecnica è molto importate nei miei progetti, o nel mio interesse
per l‟architettura. Credo che l‟edifico al quartiere Gallaratese a Milano sia importante soprattutto
per la semplicitàdella sua costruzione e che in questo senso venga ripetuto. Per lo stesso motivo ho
sempre amato SalavtorTarragò. In effetti ho imparato da Salvador la grandezza di Gaudì, ma mi
erano proprio le regole costruttive, la condizione fino all‟assurdo delle possibilità statiche, il bosco
di colonne del ParqueGuell dove gli elementi portanti si piegavano in base a leggi tatiche o surreali,
la mezcla straordinaria tra ingegneria e fantasia, tra autobiografia e religione che Salvadoe mi
descriveva nella limgua catalana. Certo, era la statica. Il Colosso di Rodi, l‟Empire State Buildinf, il
san Carlone, la mole Antonelliana, l‟Acquedotto di Cordoba. Forse mi sono interessato
all‟architettura per le mitiche leggende della muraglia cinese o per le tombe di Micene. Ma queste
costruzioni fatte con i corpi mi impressionavano; il copro dell‟uomo che rivedevo in era nei Sacri
Monti o nei sotterranei di Palermo o steso nelle chiese del Brasile.
In ogni progetto mi disgusta chi parla dell‟opera come liberazione: questo appartiene alla critica
superificiale e in qualche modo al concetto di arte.
Devo dire ancora alcune cose sul cimitero di Modena, la cui prima stesura, dovuta a un concorso,
risale al 1971. Allo stesso anno circa risalgono le prime note di questo scritto che raccolgo in piccoli
quaderni azzurri per compiti o annotazioni che si trovano in piccoli quaderni azzurri per compiti o
annotazioni e che si trovano solo in Svizzera; sono di un bell‟azzurro e li chiamo quaderni azzurri.
Nel progetto del cimitero di Modena, come ho detto, cercavo la liquidazione che questa non può
essere l‟impostazione migliore per la spiegazione di un progetto. Il concetto centrale di questo
progetto era forse quello di aver visto che le cose, gli oggetti, le costruzioni dei morti non sono
differenti da quelle dei vivi. In seguito il progetto si identifica con il percorso compiuto per recarsi
nel luogo, e poi nel cantiere; questi rapporti con i pochi luoghi dove ho costruito sono singolari.
Forse non ho mai compiuto viaggi nel senso turistico anche se gli scopi di un viaggio possono essere
molteplici e non solo al legati al lovoro.
Mentre seguivo le poche costruzioni realizzate amavo gli errori del cantiere, le piccole storture, i
cambiamenti a cui rimediare in modo imprevisto. Mi sembrano già la vita dell‟edificio ne sono
ammirato: credo che un ordine autentico sia disponibile a cambiamenti pratici e ammetta tutti i
guasti della debolezza umana. Per questo il mio impegno è sempre stato di un ordine diverso da
quello dei miei contemporanei o professori: così al politecnico credo di essere stato uno dei peggiori
allievi anche se oggi penso che le critiche che mi venivano rivolte sono tra i migliori complimenti
che abbia mai ricevuto. Il professor Sabbioni, che io stimavamo particolarmente, mi dissuadeva dal
fare architettura dicendomi che miei disegni sembreranno quelli dei muratori o capimastri di
campagna, che tiravano un sasso per indicare all‟incirca dove si doveva aprire una finestra. Questa
osservazione mi riempiva di gioia. E oggi cerco di recuperare quella felicità del disegno, che si
confondeva con la imperizia e la stupidità, che ha poi caratterizzato la mia opera.
Circa ventenne ero stato inviato in Unione Sovietica, delle Russia amavo tutto, le antiche città
come il realismo socialista, la gente e il paesaggio. L‟attenzione al realismo socialista mi è servita per
sbarazzarmi di tutta la cultura piccolo borghese dell‟architettura moderna. Vedevo mescolarsi il
sentimento con la volontà di costruzione di un mondo nuovo; ora molti mi chiedono cosa è stato
per me quel periodo e credo di dover dire soprattutto questo. Prendevo coscienza dell‟architettura
insieme all‟orgoglio popolare di chi mi mostrava scuole e case, agli studenti di Mosca, ai contadini
di Don. Non sono + tornato in Unione Sovietica ma sono orgoglioso di aver sempre difeso la grande
architettura del periodo stalinista che poteva trasformarsi in un‟importante alternativa per
l‟architettura moderna ed è stata abbandonata senza nessuna chiarezza. Questa mia difesa di questa
architettura mi ha sempre procurato polemiche ma non l‟ho mai abbandonata.
Ogni luogo è certamente singolare proprio nella misura in cui possiede sterminate affinità o
analogie con altri luoghi; anche il concetto di identità e quindi di straniero, di cui ho parlato, è
relativo. Ogni luogo si ricorda nella misura in cui diventa un luogo d‟affezione o nella misura in cui
siamo immedesimati.
A volte mi sembra che non vi sia molta differenza tra una piccola casa al centro di un villaggio
africano, o di un villaggio delle Alpi, e una sperduta tra grandi spazi d‟America. Esiste tutta una
terminologia tecnica per definire questa che chiamiamo piccola casa. Ma io l‟ho vista per la prima
volta nei disegni Le cabine dell‟Elba che risalgono credo al 1973. Le ho chiamate cabine perché lo
sono effettivamente nell‟uso e nel linguaggio parlato ma anche perché mi sembravano una
dimensione minima del vivere, un‟impressione dell‟estate e così in atri disegni le ho chiamate
Impressions d‟Afrique anche qui con riferimenti al mondo di Roussel, che all‟inizio ci dice “il teatro
era circondato da una capitale imponente formata da innumerevoli capanne”. Le capanne-cabine
erano quindi innumerevoli e questo mi ha fatto intravedere un tipo di città e di edificio, la massa del
teatro, circondato da innumerevoli capanne. Associavo nel 1976 il mio progetto per una Casa dello
studente di Chieti a quest‟idea. E l‟aspetto africano, mediterraneo, era dato da queste cabine come
dalle grandi palme che pesavano da anni. Così la piccola casa, capanna, cabina si confondeva e
deformava nel luogo e nelle persone e niente poteva sostituire o sottrarle questo carattere di
privato, quasi di singolo, di identificazione col corpo, con lo spogliarsi e il rivestirsi. La piccola casa
non è una riduzione dimensionale, in questo senso è il contrario della villa. La villa presuppone
interni come labirinti e giardini per piccoli che siano, e un luogo. Sono invece queste piccole case
come senza luogo perché i luogo è interno o si identifica con chi le abita per un tempo che sappiamo
breve ma non possiamo calcolare. Le cabine possiedono rigidamente quattro pareti e un timpano; vi
è nel timpano qualcosa che non è soltanto funzionale, come allo stesso modo esso presuppone una
bandiera e presuppone un colore. Il colore a strisce è una parte integrante, riconoscibile, forse la
parte + dichiaratamente architettonica. Come quindi separare le cabine da un altro suo senso: il
teatro? Da questi disegni nasceva il Teatrino scientifico del 1979 e proprio la sua funzione mi
spingeva a chiamarlo scientifico. Come chiamo scientifico il ripercorrere questi progetti; senza
sperare che dalle loro analisi provenga qualche indicazione di salvezza per me, per il mestiere, ma
solo per il progresso chi vi è in tute le analisi.
Uno dei miei progetti + cari è la casa a Borgo Ticinoi cui primi disegni sono del 1973. Il primo +
chiaro disegnato era solo un bosco con case su palafitte; ed era intitolato u Sulla strada di Varallo
Pombia con una data.
Mi appassionavano le affermazioni di Adolf Loos, una logica astorica dell‟architettura, disse:
“Quando nella foresta troviamo un tumulto lungo 6 piedi e largo 3, foggiato a piramide con la pala,
diventiamo seri e qualcosa dice in noi: qui è sepolto qualcuno. Quella è l‟architettura”. Loos aveva
fatto questa grande scoperta in architettura: identificarsi con la cosa attraverso l‟osservazione e la
descrizione. Senza cambiamenti, cedimenti o fine senza passione creativa o con un sentimento
raggelato dal tempo.
1979 vedo il primo braccio del cimitero di Modena riempirsi di morti, e questi morti con le loro foto
bianche e giallastre, i nomi, i fiori di plastica offerti dalla pietà familiare e civile danno l‟unico
significato del cimitero. Oppure dopo molte polemiche esso torna a essere la grande casa dei morti
dove l‟architettura è uno sfondo appena percepibile per lo specialista. L‟architettura per essere
grande deve venire dimentica o porre solo un‟immagine di riferimento che si confonde con i ricordi.
Dimenticare i grandi positivisti alla Viollet-le-Duc inseguivano nella storia, nella classificazione di
ogni parte percorrendo la demenziale ricerca della funzione perfetta. Eppure quando scrivevo
L‟architettura della città proprio a proposito di Viollet-le-Duc provavo una profonda ammirazione,
era come una partita, una sfida con la stori, una totale fiducia nel segno, un segno privo di dramma e
di colore non dissimile dai castelli di Ludwing. L‟architettura moderna ha trattato tutte queste cose
in un modo demenziale, cercando non solo quale purezza: ma era questa la nostra tradizione. In
relatà tutto era caduto così in basso da non poterlo recuperare. Non faccio i lcritico, ma credo che
dopo la casa di Schimkel a Charlottenburg si sia trattato solo di furbizia formali legate all‟industria;
se restano grandi architetti, sono soltanto quelli legati al popolo o alla nazione. Gaudì o Antonelli e
molti ingegneri di cui non consociamo il nome.
Il mio libro preferito era quello di Adolf Loos la cui lettura e il cui studio devo a quello che posso
anche chiamare il mio maestro, Ernesto N. Rogers. Devo senz‟altro a questo studio il profondo
disprezzo che ho sempre provato per il disegno industriale e per la confusione tra la funzione e la
forma. Altri testi che sono stati per me fondamentali di carattere per così dire architettonico, devo
parlare della traduzione di Etienne LoìuisBoulleè e dell‟introduzione a questo scritto; quando l‟ho
iniziata avevo 35 anni, in oltre riferito a ciò mi è stato detto che traduzione è poco fedele ma per me
è un complimento (è un invenzione). Boullèe afferma testualmente di aver scoperto l‟architettura
delle ombre quindi di aver scoperto l‟architettura della luce e a me mostrava chiaramente che luce e
ombra non sono che altri aspetti del tempo cronologico, la fusione di tempo, atmosferico e
cronologico, che mostrava l‟architettura e la consumano e ne danno un‟immagine breve eppure così
lunga.
Sono sempre stato affascinato dai musei: l‟ho capito lucidamente + tardi e cioè quando ho visto
chiaramente che ai musei mi annoiavo. Molti musei contemporanei sono delle truffe; spesse volte
essi tentano di distrarre il visitatore, di rendere l‟insieme grazioso, come si dice “uno spettacolo”.
Un concetto analogo è quello scenografico; una buona commedia non ha bisogno di scenografie o
d‟invenzioni teatrali, queste appartengono a un altro tipo di spettacolo che indubbiamente possiede
una serietà: ma non riguarda il teatro come non riguarda l‟architettura. Il teatro è molto simile
l‟architettura perché riguarda una vicenda: il suo inizio, il suo svolgimento e la sua conclusione.
Senza vicenda non vi è teatro e non vi è architettura; mi riferisco per esempio alla casta di legna su
cui viene bruciato il principe Amleto, o alla solitudine di zio Vania, o a due persone qualsiasi che si
parlano in una casa qualsiasi, con odio e amore, e certamente al tumulo. Se la vicenda è buona anche
la scena è buona, o dovrebbe esserlo. E credo che in questo senso la vita sia abbastanza buona; è il
mio realismo, anche se non so che tipo di realismo sia ma comunque è importante avere qualcosa da
dire.
Il mio rapporto con il realismo è stato abbastanza singolare. Se penso che il progetto per il
monumento della Resistenza a Cuneo, all‟incirca del 1960, è stato considerato un‟opera purista, e in
qualche modo lo è, mi sembra strano. In ogni modo esso è stato bocciato proprio per il uso purismo,
giudicato inattuale negli anni sessanta.
Ai miei insuccessi voglio solo accennarne e non parlarne. I miei progetti di concorso più belli sono
sempre stati regolarmente bocciati, sarebbe facile parlare di mancati appoggi di partito o di
amicizia, ma sarebbe falso. Nonostante il malcostume italiano i miei progetti sono sempre stati
eliminati per la loro incomprensibilità, o se volete per la loro bruttezza. Mi riferisco i progetti che
analizzerò più avanti a partire da Cuneo il progetto per il teatro Paganini di Parma il progetto per il
quartiere San Rocco a Monza,il concorso per il palazzo comunale di Scandicci, il concorso per il
palazzo comunale di Muggio, il concorso per il palazzo della Regione a Trieste e infine, per brevità,
quello della casa dello studente a Chieti del 1976. È ridicolo che questi stessi lavori costituiscono
poi modelli realizzati nella scuola e nella pratica così sono fiero di non aver speso costruito per
gente che non sa dove sia o con chi sia.

Il problema della misura è uno dei problemi fondamentali dell'architettura. Ho sempre associata la
Misura lineare un senso più complesso, in particolare lo strumento del metro. Senza questo metro
non vi architettura, esso è uno strumento è un apparecchio è un apparecchio in più preciso
apparecchio dell'architettura. Questo senso della misura della distanza mi ha fatto amare
particolarmente l'esame di topografia del professor Golinelli al Politecnico milanese.

Il triangolo chiuso era un'affermazione volontaristica di un geometria più complessa che D'altra
parte riuscendo inesprimibile poteva esprimere solo i dati più elementari. L‟unione di tecniche
diverse fino a una sorta di realizzazione-confusione mi ha sempre colpito; si tratta del limite tra
ordine e disordine e anche questo del limite, il muro, è un fatto matematico e murario.Il muro può
essere il segno grafico, la differenza tra la grafia e lo scritto, o le due cose insieme hanno un loro
contenuto. Forse l'esempio migliore è il disegno del Monte Carmelo di Juan de la Cruz Credo; credo
d‟averlo ridisegnato più volte per cercare di capirlo.
Negli ultimi anni che lavorava a Zurigo con il professor Hofer ero completamente occupato dal
castrumlunatum, una forma di castrum che il professor of Hofer aveva rinvenuto nella città romane
della Svizzera interna; tra queste solo Solothurn.Lo strumento del castrumlunatum doveva essere il
fondamento per un progetto sul centro storico della città che,partendo dalla tipologia Romana, ne
interpretasse lo sviluppo urbano. Era un progetto grandioso, dove si univa la passione per
l'archeologia e la conformazione della città con un apporto progettuale di tipo nuovo. Questo
unione non si è mai data completamente anche se gli sforzi compiuti dai nostri gruppi furono
notevoli.Io ero incantato da Soluthurn, dalle torri,dal fiume, dai ponti dai vecchi edifici di pietra
grigia.Seguivano la forma lunata nella fondamenta delle cose umide e gelide nel freddo
centroeuropeo, era la forma della luna che compariva sopra Soluthurn nelle notti fredde; vedo
questo rapporto centroeuropeo simile ai raccordi ai ricordi di Colmar e di Friburgo.
Ho sempre affermato che i luoghi sono più forti delle persone, la scena fissa è più forte della
vicenda. Questa è la base teorica non della mia architettura ma dell'architettura; In sostanza è una
possibilità di vivere. Paragonavo tutto questo al teatro, e le persone sono come gli attori quando
sono accese le luci del teatro, vi coinvolgono in una vicenda a cui potreste essere estranei e in cui
alla fine Sarete sempre estranei. Le Luci della ribalta, la musica non sono diverse da una temporale
d'estate da una conversazione, da un volto. Ma spesso il teatro è spento e la città, come grandi
teatri, vuoti. È anche commovente che ognuno viva una sua piccola parte, alla fine l'attore mediocre
o l'attrice sublime non potranno cambiare il corso degli eventi.Nei miei progetti ho sempre pensato
a queste cose è proprio costruttivamente alla contrapposizione tra ciò che è labile e ciò che è forte.
Intendo questo anche in senso statico di resistenza del materiale. Da parecchi anni mi è + facile
disegnare o meglio usare quella sorta di grafia tra il disegno e la scrittura, quella grafia di cui parlavo
prima. Qui ho cercato più volte di descrivere un progetto, una casa urbana, una stazione eccetera,
ma sempre arrestandomi a una dimensione non Chiara, intendono a una dimensione non
costruibile.Qui ho pensato di scegliere questi “alcuni” in senso molto stretto, nel senso di “progetti
d'affezione”. Per questo pensavo di iniziare l'elenco con “progetto di Villa con interno”. La natura di
questo progetto era legata alla sua storia e a fotografia di cose esistenti cui L'architetto si riferiva.
Ho fatto questo progetto nell'autunno del 78 credo che fosse uno dei migliori progetti.

In realtà questo progetto, come queste note, parla del dissolversi della disciplina. Appartiene forse
anche a questa coscienza che le grandi cose erano precluse e che la limitazione del mestiere una
forma di difesa. Altrimenti dovranno trascenderlo, Che non significa abbandonarlo, ma in epoca
moderna questo è avvenuto raramente, Forse in architettura con persone quali Gaudì. Il parco Guell
di Barcellona produce sempre in me questa sensazione di rompere le leggi della statica e del buon
senso e di creare quel bosco di colonne di cui parla Holderlin. Un bosco di colonne avrebbe potuto
averlo anche Boullèe, ma forse non con la stessa ostinazione.
Nei miei scritti cercavo di spiegare tutto questo con la teoria dell'abbandono.e solo quest'estate ho
visto per la prima volta dal vero l'abbazia di San Galgano in Toscana ed è forse l'esempio più
probante di un‟architettura tornata natura, dove l'abbandono è inizio del progettare, dove
l‟abbandono s'identifica con la speranza. Viaggi domestici e privati, pubblici o scientifici, nel senso
che oggi io trovo che tutto il passato il presente e ogni disegno volgano l‟affermazione o
osservazione più distratta. Ma è difficile paragonarmi con i miei contemporanei perché sempre più
avverto la differenza del luogo e del tempo. È stata questa la mia prima intuizione la città analoga
che si è sviluppata come teoria.
Credo che il luogo è il tempo siano la prima condizione dell'architettura, e quindi la più difficile. Mi
sono occupato della scrittura razionalista ma penso che forse quel tipo, o possiamo chiamarlo stile
d‟architettura, o è legato a un edificio infantile, a una villa di Varese o a un blocco residenziale a
Belo Horizonte.
Credo di aver elencato le poche opere costruite che mi coinvolgono come il Tempio Malatestiano di
Rimini o il santo Andrea di Mantova perché vi è in queste opere qualcosa che non può modificarsi e
che insieme riassume il teatro.

I cambiamenti sono interni allo stesso destino delle cose poiché nell'evoluzione vi è una singola
fissità. Sono certo che ho sempre voluto descrivere i miei progetti; non so se la descrizione avviene
meglio dopo o prima del fatto. È come nella testimonianza, un delitto o un amore. Un progetto è
una vocazione o un amore, dei due casi è una costruzione.
Questa autobiografia dei miei progetti è l'unico modo in cui posso parlare dei miei progetti, anche
se nessuno delle due cose conta. Significa forse dimenticare l'architettura e forse l'avevo già
dimenticata Quando ho parlato della città analoga o ogni volta che ho ripetuto in questo scritto che
ogni esperienza mi sembrava definitiva e mi ero difficile concludere un prima è un dopo.
Anche se ho sempre affermato che ogni cosa è uno svolgimento, o il contrario, e in effetti se vedo
sorgere dell'acqua in questi giorni della laguna Veneziana questo teatro posto su una zattera rivedo
il cubo di Modena o di Cuneo. È certo che nelle vicende di un artista o di un tecnico le cose
cambiano come cambiamo noi stessi. Ma cosa significa questo cambiamento? Ho sempre
considerato il cambiamento la caratteristica dei cretini, al di fuori della moda. Un modo di non
consistenza: come di chi si definisce moderno o contemporaneo. Amavo La scienza, la ripetizione è
come tutto questo finisse nell'esclusione: così come amavo La stupidità, intelligenza dell'Osteria, in
niente di una notte allegra alla meditazione stolta; era ancora l'azzurro Sirena o verde di un
viaggiatore di commercio o di un ragazzo di fronte all'altra subita del restauro. Se uscite da una
normativa e da una costruzione delle cose è certamente difficile procedere, per questo per molti
anni mi sono attenuto alla disciplina, ai trattati, alle regole e non per conformismo o bisogno
d‟ordine, Anzi se dovessi fare un quadro psicologico trovo che tutto questo è più forte adesso, ma
perché vedevo i limite spesso solo stupidi di chi usciva da quest'ordine. Una libertà che però mi
stacca completamente da quello dei miei contemporanei perché la massima Libertà mi porta a
continuare ad amare l'ordine, o un disordine discreto e sempre motivato. Era la costruzione
interrotta, il palazzo abbandonato, il villaggio lasciato sui monti e il materiale che si deforma va nel
tempo; il non senso originario ma anche acquistato dalla Favorita di Mantova insieme a piccoli
artifici, restauri. Nel progetto per il centro direzionale di Firenze ponevo nella piazze statue rifatte
come il Davide di Alabastro, destinate al turismo.
Certamente non è trasmissibile se non per qualche carattere o avvenimento privato; Ma d'altra
parte l'avvenimento si trasmette nell'opera. Forse sono la peggiore accademia è indifferente agli
avvenimenti della vita: solo che alcuni li sanno esprimere, altri no. Quello che più mi sorprende in
architettura, come in altre tecniche, è la vita del progetto: in questo caso della costruzione, anche se
esiste una vita del progetto scritto o disegnato.
Tra la casa dell'infanzia e della morte, la casa dello spettacolo e del lavoro sta la casa della vita
quotidiana che gli architetti hanno chiamato con tanti nomi; la residenza, l'abitare, il vivere
eccetera come se il vivere si svolgesse in un solo luogo. Mi è difficile esprimere questo concetto che
mi ha portato all'idea di “progetto di villa come con interno”.
Quest‟idea del non compiuto dell'abbandono mi seguiva da ogni parte ma in modo totalmente
diverso da quello sostenuto da parte dell'arte moderna; nell'abbandono via un elemento di destino,
storico o meno, e un grado di equilibrio. Lo ritrovavo nella stessa definizione del Duomo come “la
fabbrica del dom, e qui fabbrica a mio avviso non tanto nel senso classico,albertiano, ma nel senso di
cosa che si sta facendo o che si fa puramente senza un fine immediato.
Mi piace capire la struttura a grandi linee e pensare poi come queste linee si possono incrociare.
Non è diverso dalla vita è dalle relazioni; il nucleo di un fatto è sempre abbastanza semplice e anzi
più semplice più è destinato a scontrarsi con gli eventi che esso produce. Ancora oggi sono più
interessato a un qualsiasi libro di medicina che è un testo di psicologia, soprattutto di quella
psicologia letteraria che è stata di moda negli ultimi anni.
Non esiste uno specifico senza memoria, è una memoria che non provenga da un momento
specifico; e solo questo unione perfetta la conoscenza della propria individualità e del contrario
(Self e non Self). La memoria si costruiva sopra il proprio specifico, e ciò che si costruiva era difeso
o no ma poteva riconoscere la struttura estranee. Era questo rapporto dell'uomo con la città con la
costruzione del suo microclima, con la propria specialità.
Ma ora parlo di Venezia perché è l'occasione del mio ultimo progetto: il teatro galleggiante della
Biennale del 1979-80 amo molto quest'opera e anche di essa potrei dire che esprime un momento di
felicità; forse è che tutte le opere, in quanto esprimono un momento del fare, appartengono a quella
strana sfera che chiamiamo felicità. Vorrei notare che quest'opera mi ha colpito nella sua vita; cioè
nella sua formazione e nel suo stare nella città e rispetto allo spettacolo. Stando il teatro sull'acqua
si vedeva dalla finestra il paesaggio dei vaporetti e delle navi Come se fosse un'altra nave e queste
altre navi entravano nell' immagine del teatro costituendo La vera scena fissa e mobile. Nel suo
scritto su questa costruzione Manfredo Tafuri ha detto - riprendendo una mia osservazione sull'
influenza dell'architettura della lighthouse sulle coste del Maine- che il faro, ma più propriamente
qui visto come casa della luce, è fatto per osservare ma anche per essere osservato. E questa
osservazione apparentemente lineare mi ha dato l'interpretazione di molte architetture; tutte le
torri erano fatte per osservare ma ancora di più per essere osservate. I miei disegni intitolati La
finestra del poeta a N.Y., dove si dilata va la biblioteca della scuola di Fagnano Olona, erano questo
osservare dall‟interno di un paesaggio dove si può anche e non necessariamente essere osservati. E
quale luogo migliore di un faro, di una casa della luce, letteralmente lighthouse, situata sul mare, tra
il mare e la terra in una zona liminare, spiaggia, roccia, cielo e nuvole. Ma inside e outside sono
anche il senso del teatro e la conchiglia americana ritrova per me nelle sue parole l'altro senso della
conchiglia marina di Alceo che mi aveva spinto all'architettura: < figlia/ della pietra del mare
biancheggiante/ tu meravigli la mente dei Fanciulli>. Da qui ho imparato l‟architettura e ho
imparato i disegni cercando i nessi della vita dell'uomo. Oltre L'analogia vedevo sempre più
chiaramente quanto la bellezza fosse il luogo dell'incontro tra sostanza e significati diversi. Nulla
può essere bello, una persona, una cosa, una città che significa solo se stessa, anzi il proprio uso.
Anche il teatro mi sembrava in un luogo dove finisce l‟architettura e comincia il mondo
dell'immaginazione o anche delle insensato; così guardavo le figure misteriose di verderame che
portano e giocano con la palla d'oro. Così la facciata che forse più mi piace, quella di Santa Clara a
Santiago de Compostela, contiene la piccola statua della santa nel muro di pietra scura solcata dal
verde, tinto dal verde come un verderame che colasse quasi disinfettante anomalo di una crepa
interna. a questo verde si contrappone il ferro, color freddo, della copertura del Teatro: il metallo si
vedeva nel grigio della laguna e sopra di esso stava la sfera e il cigolio lento della bandierina
Metallica, era un cigolio quasi astratto o come quello delle navi ferme nei porti.
L‟essere una maga e come nave subire quei movimenti della laguna, leggere oscillazioni, il salire e
scendere, così che nelle ultime gallerie alcuni potevano provare una leggere nausea. Ho tagliato
queste finestre secondo il piano della laguna, quello della Giudecca e quello del cielo. Il faro,
lighthouse, la casa della luce sono costruzioni del mate e nel mare. La torre del Teatro poteva essere
un faro o un orologio, il campanile minareto o la torre del Cremlino; le analogie sono sterminate e
vengono poste a confronto in questa città analoga per eccellenza. Ora, nel Teatro veneziano, il
prestigio è dato da una insolita mescolanza di tipologie; l‟anti Teatro e la galleria, il percorso visibile
della scale, un palcoscenico dove la scena centrale è una piccola finestra da cui si vede il canale della
Giudecca. Ma questo piccolo palcoscenico è un Lugo singolare dice l‟attore è chiuso tra il pubblico
L. Tony Vidler mi ha dato il libro di Frances Yates Theatre ok tre World con la bella dedica < for A.
from tre theater of the memory to the theater of science>. È vero che il Teatro scientifico era il teatro
della memoria ma perché intendeva teatro come memoria, come ripetizione perché tutto questo era
il suo prestigio. Ora è certo il Teatro veneziano più vicino al Teatro anatomico di Padova come
appunto al Globe Theatre shakespeariano (e il Globe Theatre era appunto < il Teatro del Mondo>,
come, riprendendo la tradizione veneziana, è stato chiamato questo mio progetto). Mi interessa
come il Teatro anatomico è il Globe Theatre centrassero la figura umana come in realtà piccoli
anfiteatri: perché il teatro romano aveva una scena è una scena fissa. Questa scena fissa era pari al
retablo della chiesa spagnola, e il retablo è la scena della azione liturgica. Ma nel teatro Veneziano
questo impianto si differenzia per il fatto che il palcoscenico è un corridoio che unisce un porta e
una finestra; Esso a piano terra non possiede una centralità, la centralità e data dal giro delle gallerie
e dal crescendo del tetto a cuspide. Questo crescere interno mi piaceva per costruire una struttura
che svincolasse elementi e giunti comuni, da costruzione provvisoria, da questo loro aspetto
appunto provvisorio; così gli sbalzi i tubi è giunti di ottone, come dorati, si ispessiscono e si
sovrappongono e creano uno scheletro, una macchina un congegno non più riconoscibile o non
riferibile a un'impalcatura. Sembra che ferro e legno siano due strutture parallele; era almeno questo
che pensavo ricordando le sezioni a cipolla delle cupole bizantine e dei torricini o minareti dove
l'interno e l'esterno sono due architetture complementari ma non necessariamente uniche. Le
lamiere di queste torri e cupole; il ferro, rame, il piombo, la pietra stessa; i pinnacoli del Duomo di
Modena in pietra che pesano sulla costruzione sbilenca, il verderame che cola sulle pietre bianche
dall'immense cupole: ma soprattutto quelle punte dei campanili gotici appuntite fino all'assurdo e
verdi nel bianco del cielo. Le studiavo dalla finestra del mio studio al Politecnico di Zurigo,
soprattutto la punta della Frauenkirche.
In antiche incisioni si vede la Limmat che attraversa Zurigo popolata di mulini di legno tutti
sormontati da punte di acciaio o ferro nero, o verdi di verderame. Questa città gotica non poteva
essere diversa da quella Venezia del Carpaccio nell'interno e nell‟ esterno.

Questi progetti e costruzioni mi sembra ora si compongono nelle stagioni e nell'età della vita; la
casa dei morti e quella dell'infanzia, il teatro o la casa della rappresentazione. Ma tutti questi sono
dei temi o peggio delle funzioni ma le forme in cui si manifesta la vita e quindi la morte. Potrei
parlare ancora di altri progetti a cui ho solo accennato, a progetti come il San Rocco e l'unità
residenziale al quartiere Gallaratese a Milano. Il primo è del 1966, il secondo dei 1969-70. Del primo
ho accennato solo all'impianto del reticolo romano e al successivo sfalsamento di questo, come una
crepa nello specchio dovuta a un incidente. Del secondo accennato alla semplicità, nel senso di un
rigore ingegneresco, e alla dimensione.Ho accennato ai corales di Siviglia, alle Corti di Milano, alla
stessa Corte dell'albergo Serena. E i ballatoi, le gallerie, i corridoi come l'impressione letteraria e
vera di conventi, di scuole, di caserme. Insomma queste forme dell'abitazione -insieme a quelli della
villa- si sono depositate nella storia dell'uomo fino ad appartenere tanto l'architettura quanto
all'antropologia; è difficile pensare ad altre forme, ad altre rappresentazioni geometriche, proprio
perché non abbiamo la soluzione.

Qui l‟analogia si presenta in modo molto diverso dalle definizione che ho scritto altrove data da
Jung: essa si riferisce a cose di cui semplicemente già conosciamo il risultato, così come le curve di
livello sono riferite alla vita concreta anche se impenetrabile di un anonimo cartografo. Questo è un
senso dell'opera che mi ha sempre particolarmente interessato e che forse dà un senso a queste mie
note; come l'errore della misura di cui ho parlato a proposito della topografia, l‟analogia come
acquisizione di qualcosa di cui è noto solo risultato. O meglio di ogni processo mi sembra che sia
noto solo un risultato, e per processo intendo anche ogni progetto. Così descriverlo prima è come
fornire il filo di una vicenda senza risultato. Dimentico spesso le voci e sovrappongo altre persone
ha gli stessi fondi, agli stessi luoghi, non del tutto inconsciamente, ma perché penso che sia
necessario essere disattenti a molte cose. L‟autobiografia dell‟opera è certamente solo nell‟opera
stressa ma il descriverla è un modo di trasmettere non diverso dal progettare o dal costruire; negli
ultimi anni ho letto norme cose sulla mia opera- speso le più strane e diverse- e non posso dire come
spesso si dice di aver sempre imparato qualcosa. Ho imparato solo che note motivazioni sono valide
anche se non coincidono con quanto l‟autore pensava. Io penso sempre in qualche modo a un luogo.
Certamente in ogni luogo si riassumono molte cose, il luogo si presenta come un risultato, e quindi
non meritiamo se osserviamo stupiti il panorama dal terrazzo, l‟acqua che scorre tutte queste cose
che chiamiamo l‟amore. Ogni mio progetto non si scosta dal passato forse perché non ho mai
espresso tutta la gioia dell‟avventura che un progetto, un oggetto, un viaggio, una persona poteva
possedere per me. Non so quando questo sia allegro o malinconico ma mi sembra una condizione e
per vivere o per lavorare nel proprio mestiere. Senza il desiderio può darsi che non resti la certezza
o che la stessa fantasia sia mercificata.
L‟unica esperienza nel campo del cinema, l'avevo iniziata con la Triennale di Milano del 1973; il film
aveva il titolo del più bel saggio di architettura Ornamento e Delitto ed era collage di opera
d'architettura e pezzi di film nel tentativo di immettere il discorso dell‟architettura nella vita e nello
stesso tempo vederlo come sfondo della vicenda dell'uomo: dalle città, dai palazzi passavamo a
brani di Visconti, di Fellini, di altri autori. Venezia, e il problema dei centri storici, acquistavano più
significato come sfondo dell‟impossibile amore descritto dai Visconti in Senso; mi ricordo una
Trieste bianca e disperata che solo la vicenda di Senilità di Svevo rendeva chiara anche nel suo
aspetto architettonico. Abbiamo poi girato la parte finale del cortometraggio nella periferia
milanese all'alba e credevo veramente di andare oltre l'architettura o di spiegarla meglio. Cadeva
anche il discorso della tecnica: e ora la realizzazione di questo cortometraggio penso possa essere il
proseguimento di tante cose che vado cercando in architettura. Era questo anche l'amore per il
Teatro veneziano; e il suo essere un'opera anomale, nel presentarsi con la stessa impotenza e
fragilità di una macchina. Ora mi viene in mente come alcuni critici abbiano spesso parlato delle
mie opere come scenografiche, e io rispondevo che erano scenografiche come scenografiche come
scenografico era Palladio, Schinkel, Borromini, tutta l'architettura. Non intendo qui defendermi da
qualche accusa, ma non ho mai capito come potesse esistere accuse tanto diverse come l'aspetto
scenografico e una specie di povertà dei mezzi espressivi di cui pure veniva accusato. Ma questo ha
ora per me è poca importanza; credo che sia chiaro che considero possibile ogni tecnica e al limite
di poter chiamare questa tecnica come stile. Considerare una tecnica superiore all'altra o più
propria è un segno della demenza dell'architettura contemporanea e della mentalità illuministica
della cultura dei Politecnici che si è trasmessa tale quale nel Movimento Moderno in architettura.
Devo dire che rispetto all'architettura moderna ho sempre avuto un atteggiamento ambiguo mio
malgrado: l‟ho studiata profondamente, soprattutto in rapporto alla città, e in tale senso anche
vedendo recentemente grandi quartieri operai di Berlino, soprattutto Berlin-Britz, o di Francoforte,
ho provato una grande ammirazione per la costruzione di queste nuove città. Ma, come ho già
detto, ho sempre rifiutato tutto l'aspetto moralistico è piccolo borghese di architettura moderna.
Questo mi è stato chiaro fin dall'inizio dei miei studi, con la mia ammirazione per l'architettura
sovietica e penso che l'abbandono di questa architettura chiamata stalinista, che posso accettare
per pura denominazione cronologica, sia stato un grave atto di debolezza culturale e politica da
parte di questo grande paese, e non abbia avuto nulla a che fare con questioni economiche
costruttive. Piuttosto una capitalizzazione della la cultura dell'architettura moderna di cui oggi
vediamo il completo fallimento non sono in Europa ma in tutti gli stati del mondo. Amavo e mi
considero ancora allievo di pochi architetti moderni principalmente di Adolf Loss e di Mies van der
Rohe; Sono gli architetti che più hanno stabilito un filo di continuità con la loro storia e quindi con
la storia dell‟uomo. Per demolire la cultura funzionalista nel mio libro L‟architettura della città mi
sono servito di essi in modo onesto, cioè fidandomi per quello che hanno detto. Qui conta anche la
questione della “personalità” ma è certo che è molto importante che Adolf Loss non si sia
rappresentato solo nella sua architettura e che Ornamento e Delitto resti il titolo più bello di un
trattato d'architettura perché si parla solo lateralmente l'architettura. D'altra parte Mis van der
Rohe è l'unico che abbia saputo fare dell‟architetture dei mobili indipendenti dal tempo e dalla
funzione. Non voglio qui tornare su altre questioni relative alla funzione: è evidente che ogni cosa
ha una sua funzione a cui deve rispondere ma la cosa non finisce lì perché le funzioni variano nel
tempo. È sempre stata questa una mia affermazione di carattere scientifico che ho tratto dalla storia
della città e dalla storia della vita dell'uomo: la trasformazione di un palazzo, di un anfiteatro, di un
convento, di una casa e dei loro diversi contesti. Mi sono sempre riferito a questo parlando dei miei
monumenti perché ho visto palazzi antichi abitati da molte famiglie, conventi trasformati in scuole,
anfiteatri trasformati in campi da pallone e questo è sempre avvenuto meglio dove non è
intervenuto l'architetto né qualche sagace amministratore.

È come il concetto di sacralità dell'architettura; una torre non è un simbolo di potenza o religioso.
Pensa al faro e i grandi camini conici del castello di Sintra in Portogallo, ai silos e alle ciminiere.
Queste ultime sono le architetture più bel del nostro tempo anche se non è vero che non ripetono
modelli d‟architettura; questa è un‟altra sciocchezza della critica moderna o modernista. In questo
senso pochi europei, anche qui si esclude Adolf Loos, hanno capito la bellezza della città americana
e, nel senso di cui dicevi prima, segnatamente l bellezza di New York.

L‟America è certamente una pagina importante dell‟autobiografia dei miei progetti anche se vi sono
giusto piuttosto tardi; ma il tempo ha delle strane preparazioni. Anche se la mia prima educazione è
stata influenzata dalla cultura americana questo è avvenuto attraverso il cinema e la letteratura; gli
oggetti e le cose americane non erano <objects of affection>; mi riferisco particolarmente alla cultura
nordamericana poiché quella latinoamericana è stata per me invece sempre fonte di invenzione
fantastica; anche perché mi consideravo con orgoglio e presunzione un ispanista. Mi sono smette
attenuto allo studio e all‟esperienza diretta; forse anche per questo non ho perso completamente i
miei legami con la Lombardia e riesco, per così dire, a impastare sensazioni antiche con impressioni
nuove. Comunque avevo capito che la critica ufficiale d‟architettura non aveva capito l‟America o,
quel che era peggio, non l‟avevo guardata: era solo preoccupata di vedere la trasformazione o
l‟applicazione dell‟architettura del Movimento Moderno degli Stati Uniti; questo appartenga anche
a un vago antifascismo, a una ricerca della città moderna e tante delle cose di cui la cultura
socialdemocratica ha sempre cercato esempi senza mai trovarli. È invece noto che in nessun luogo
l‟architettura moderna è fallita come negli Stati Uniti; se vi è da studiare un trapianto e una
trasformazione questa va ricercata nella grande architettura parigina Beaux- Arts, nell‟architettura
accademica tedesca e, naturalmente, negli aspetti più profondi della città e della campagna inglese.
New York è una città di pietra e monumenti come io non pensavo potesse esistere e mi sono reso
conto come il progetto per il concorso del Chicago Tribune di Adolf Loss era l‟interpretazione
dell‟America e non certo, come lo si è voluto descrivere, un divertissement viennese, era la sintesi
della stravolgimento operativo in America dalla quantità e dall‟applicazione dello stile in un nuovo
quadro. Se dovessi parlare ora del mio lavoro o della mia < formazione> americana uscirei troppo
dall‟autobiografia scientifica delle mie opere per entrare in un‟autobiografia personale o in una
geografia della mia esperienza; cosa che mi allontana dell‟interesse principale di questo libro. Devo
solo dire che in questo paese le analogie, i riferimenti, o chiamatele osservazioni, hanno prodotto in
me ha grande voglia creativa e anche, di nuovo, un notevole interesse per l‟architettura.
Queste esperienze, ripeto come la permanenza in Argentina è in Brasile, mentre da un lato hanno
distolto sempre di più la mia applicazione all'architettura dall'altro lato hanno come precisato gli
oggetti, le forme, la creazione. Mi capita di arrivare al silenzio in modo del tutto diverso da quello
giovanile che nasceva dal purismo: ora il silenzio mi sembra l'immagine esatta o la sovrapposizione
che si annulla. Perché anche le cose sono destinate a passare. E la questione della qualità con cui
esse passano e quindi del modo con cui noi passiamo in esse. Con questo autografia scientifica dei
progetti non ho rinunciato a scrivere un trattato; Anche perché l'ordine tradizionale del trattato
sarebbe oggi inevitabilmente un catalogo. E io spesso guardo con attenzione questi cataloghi ma
essi non mi coinvolgono. Gli antichi, al contrario, misuravano nel trattato questione di qualità; e
non sono solo semplici autobiografie l'architettura delle ombre di Boullèe e la ricerca del luogo o
locus del Palladio. Ma è sempre il luogo, quindi la luce e il tempo è l'immaginazione, che ricorrono i
trattatisti come ciò che può modificare e infine confermare l'architettura. Ecco dunque da cui
l'analisi degli edifici: gli edifici sono tante occasioni che quasi sempre si allontanano dalla prima
radio ma è chiaro che senza di questa non vi può essere cambiamento. Come misurare la quantità e
la qualità dello strapiombo della camera di cui ho parlato in questo libro? Come misurare gli edifici
se un anfiteatro può diventare una città e un teatro una casa? così racconto qui di alcuni miei
progetti, anche ripetendo ciò che ho scritto precedentemente perché non sembra che vi sia un
divario tra l‟annotazione personale e la descrizione, tra autobiografia e la tecnica, tra ciò che
potrebbe essere e non è. Da ogni progetto potremmo dire come di un amore incompiuto: adesso
sarebbe più bello. E vi è in questo da parte di ogni artista autentico la voglia di rifare, e non di rifare
per cambiare (che è proprio delle persone più superficiale), ma di rifare per una strana profondità
del sentimento delle cose, per vedere quali azioni si svolge nello stesso contesto o come viceversa
questo, con lievi alterazioni, modifichi l'azione. Quando ho detto del teatro, e dirò ancora, o dello
specchio; o come quando fotografate la stessa fotografia perché nessuna tecnica perfetta toglierà
cambiamenti dell‟obiettivo e della luce, e infine anche solo perché sarà un oggetto diverso. Certo, un
oggetto diverso. È questa forse la geografia dell'edificio che qui voglio vedere nell'architettura, ma
anche nell'abbandono dell‟architettura. Avrei potuto indifferentemente intitolare questo libro
Dimenticare L‟ architettura perché posso parlare di una scuola, di un cimitero, di un teatro ma è più
preciso dire la vita, la morte, immaginazione.

Ancora pensavo che l'ultimo progetto, come l'ultima città conosciuta, come l'ultima relazione
umana, fosse la ricerca della felicità, identificando poi la felicità come una sorta di pace, e poteva
essere una felicità di inquietudine ardita ma sempre definitiva. Per questo ogni presa di coscienza
delle cose si confondeva con il gusto di poterla abbandonare, di una sorta di libertà che sta nell'
esperienza, come un passaggio obbligato perché le cose avessero la loro misura. Ogni cosa è soltanto
la premessa di ciò che vogliamo fare. Così consideravo tutte questo guardando dal terrazzo
Veneziano la figura della fortuna; e pensavo sì e ancora alla macchina dell'architettura ma la
macchina dell‟architettura era in realtà la macchina del tempo. Nel tempo e nel luogo avevo trovato
l'analogia dell'architettura, quella che avevo chiamato <la scena fissa della vicenda dell'uomo>. E
anche questo ha centrato il mio interesse sul teatro e sul luogo del teatro; amavo la scena fissa del
teatro di Orange, perché la scena in qualche modo non poteva che essere fissa.
Ho visto in Puglia, vicino a Lucera, un grande cratere praticamente inaccessibile dove sono scavate
grotte lungo le pareti verticali, un anfiteatro sinistro bruciato dal sole e insieme freddo; ero questo
luogo di anacoreti, di briganti, di meretricio, di perdidos e ancora produce questa strana
impressione. Vedevo una città antica alternativa storia civile.

Questa commissione del tempo e dello spazio mi ha avvicinato al concetto di analogia, di


definizione che si avvicinava alla cosa rimandandosi l'uno all'altra. Credo che la matematica sola
possa offrire non so se la certezza ma una appagamento alla conoscenza, una forma di piacere in se
stesso, più forte e più staccato di quello della bellezza del momento. Al di fuori di questo trovavo
disordine. Come nel disegnare il triangolo avevo sempre pensato alla difficoltà del chiudere una
triangolazione ma anche alla ricchezza implica nell'errore. Amo l'inizio e la fine delle cose: ma forse
soprattutto le cose che si spezzano e si ricompongono, le operazioni archeologiche e quelle
chirurgiche. Molte volte nel corso della vita sono stato in ospedale per fratture o altri incidenti alle
ossa e questo mi ha dato un senso e una conoscenza dell'ingegneria del corpo che è altrimenti
impensabile. Forse l'unico difetto della fine, come dell'inizio, è quello di essere in parte intermedio;
cioè di essere prevedibile. E la cosa più prevedibile è appunto la morte.
Così, con occhio archeologico e chirurgico, ho imparato a guardare la città. Detestavo l'estetismo
modernista come quello di ogni revival formalista. Per questo ho detto che l'esperienza
dell'architettura Sovietica mi era servita a spezzare via ogni retaggio piccolo-borghese
dell'architettura moderna. Restavano alcuni grandi architetti, come Adolf Loos e Mies van der a
Rohe che sostanzialmente erano passati sopra le illusioni socialdemocratiche. Oggi guardo copie
dei miei progetti che sono, come dire? Ben accolte e questo provoca in me uno speciale interesse,
ben diverso dallo sdegno della famosa frase di Picasso che suona all'incirca “si lavora per anni per
fare una cosa, e viene un altro e la fa carina”. Dovrei parlare della natura di questo interesse
giudizio, di quello che viene chiamato plagio o semplicemente copia della mia opera. Non me ne
importa più di tanto ma certamente esso è interno all'opera. Esiste una copia di ciò che è più
personale, ma questo, se è fatto dai migliori è una prova di affetto ed è un‟autentica testimonianza.
In ogni caso, a dispetto dei critici, io giudico positivamente e con amore ogni imitazione di ciò che
posso chiamare la mia architettura e credo di non aver più nulla da dire su questo argomento. Non
ho più nulla da dire Perché esso è, per così dire, incontrollabile: il fenomeno della trasmissione del
pensiero, di quella che chiamiamo esperienza, dello stesso modo delle forme, non è legato a un
programma o una moda e forse nemmeno a una scuola. per questo nella scuola ho sempre cercato di
fornire degli elementi in genere di indicare un tipo di lavoro successivamente chiaro è quasi
riduttivo e non di fornire dei modelli ma una tecnica da un lato e un invito a un allargamento del
sapere dell'altro; analizzare i nessi che legano la formazione generale e personale e la tecnica mi è
sempre parso meccanico così come i nessi tra autobiografia come storia civile che si sovrappongono
e si confondono : forse vale una descrizione parallela come ho cercato di fare in questo libro. D'altra
parte alcuni degli autori qui citati, siano essi architetti o no, siano Loos o Conrad, sono entrambi
nella mia mente quasi possedendola e queste particolari affinità o scelte, ciò che Baudaire chiamava
“correspondances” sono parte della propria formazione e del proprio modo di essere. Pensavo, in
questo libro, di analizzare i miei progetti e i miei scritto, il mio lavoro, in sequenza continua;
comprendendoli, spiegando e nello stesso tempo riprogettando. Ma ancora ho visto come,
scrivendo di tutto questo, si crei un altro progetto che ha in sé qualcosa di imprevedibile e di
imprevisto; ho detto che ho sempre amato le cose che si concludono e che ogni esperienza mi è
sempre parsa conclusiva, il fare qualcosa che esaurisce per sempre la capacità creativa. Ma, come
sempre, questa possibilità mi sfugge anche se la possibilità di una autobiografia o di una
sistematizzazione della propria formazione poteva essere l‟occasione decisiva. Altri ricordi, altri
motivi sono emersi modificando il progetto originale che pure mi era molto caro. Ma anche qui amo
un discreto disordine. Così è forse semplicemente la storia di un progetto e come ogni progetto
deve in qualche modo concludersi, anche solo per poter essere ripetuto con piccole variazioni o
spostamenti, o anche per non essere assimilato a nuovi progetti, nuovi luoghi e nuove tecniche, altre
forme di vita che sempre intravediamo.

L’ideologia nella formadi Vincent Scully

Non si tratta di un libro lineare: non parte da un punto preciso per arrivare da qualche parte. Ha un
andamento circolare. Così tutto ciò che contiene è simile a un sogno, che cambia pur essendo
statico, girando attorno a ossessivi punti fissi. Alla fine c'è solo la luce, che rivela gli oggetti; e ogni
oggetto, dalla torre alla caffettiera, ha un‟essenza identica agli altri, ugualmente importante. Rossi
ha spalancato una finestra su un nuovo modo di vedere le cose. Tra le cose non ci sono nessi
predeterminati, una gerarchia. Ogni cosa viene vista come per la prima volta, magari collegata ad
altre in modo del tutto nuovo. In tutto il testo Rossi è assolutamente chiaro su questo tema
fondamentale della memoria. Le sue forme sono poche proprio perché non sono inventate ma
ricordate. Derivano dalla sua esperienza delle cose nella vita di tutti i giorni. Per questo scrivere
“L'osservazione delle cose è stata la mia più importante educazione formale; poi L'osservazione si è
tramutata in una memoria di queste cose”. La memoria attua quindi un processo di distillazione; le
cose osservate vengono da lui effettivamente idealizzate tramite questo processo, “platonizzante” in
forme durature. Ma per definizione queste forme derivano originariamente dalla cultura in cui
Rossi è cresciuto. In primo luogo c'è l'Italia settentrionale assieme a una componente andalusa, che
riflette l‟amore speciale che Rossi nutriva per la Spagna del sud, influenzato anche da intellettuali
contemporanei e dal “materiale” americano. E se tutte queste mormorò e trovano uno spazio
speciale in una qualche dimensione tra il pensiero e la realizzazione, è grazie al talento di Rossi
come disegnatore. I suoi disegni sono spesso vero e propri quadri, con una forte presenza
dell‟ambiente e una grande atmosfera, inondati dal colore degli acquerelli e da una luce spesso
malinconica. Esplorano i misturi della memoria, esattamente come quelli di De Chirico.
Curiosamente, possiedono, in parte, anche quell'attenzione per le rovine, o ameno per il frammento.
I disegni sono prima di tutto spaziali: creano volumi architettonici e ambienti urbani. Non si tratta
di studi astratti, ma della registrazione dei visioni. Qui l‟insistenza di Rossi sul ruolo
dell‟architettura come palcoscenico delle azioni umane determina una certa aspettativa: gli spazi
sono gravidi di possibilità, profondamente evocativi di presenze ancora nascoste ma in procinto di
entrare in scena, grandiose e malinconiche come attori tragici del teatro classico. I disegni, quindi,
non sono schematici: creano l‟illusione di ambienti destinati a essere popolati che, dopotutto, è
proprio ciò di cui si occupa l‟architettura. Le forme rievocate che si trovano nei disegni sono tutte
fondamenta strutturali: non esibizionistiche come molte delle forme dell‟ultimo modernismo, ma
aderenti ai modelli strutturali primari di una tradizione vernacolare che è sia contadina che
industriale è sempre legata al passato classico: il muro in mattoni con il vuoto delle finestre, la
colonna e l‟architrave imponenti, la struttura in legno, le forme del timpano, la torre cilindrica, lo
spazio cubico. Tutto ciò fa sì che il linguaggio di Rossi non sia mai astratto, ma sempre italiano.

Rifiuta la posizione “moderna” con grande disprezzo. Non sono i “codici culturali” a spingerlo e a
giurarlo, ma una facoltà più antica, una facoltà che può essere correttamente identificata con
Mbemosine (la memoria), la dea darà ai classici che occupavano di estetica.Dato che i meccanismi
di tale processo sono una questione misteriosa, Mnemosine è divina e non deve essere preso alla
leggera. In principio Rossi cerca di tenerla alla larga, dice, “ho iniziato queste note più di 10 anni fa e
cerco di concluderle ora perché non diventino delle memorie”. “Ogni state mi sembrava l'ultima
estate e questo senso di fissità senza evoluzione può spiegare molti dei miei progetti”. Ma
continuando a leggere, le barriere fra Rossi e le sue memorie progressivamente svaniscono. Le
memorie sono un oceano di forme rievocate: alla fine affluiscono tutte quante disponendosi
classicamente per essere da lui usate. “Ora mi sembra di vederle tutte (le cose che ho osservato)
disposte come utensili in bella fila; allineate come in un erbario, in un elenco, in un dizionario. Ma
questo elenco tra immaginazione e memoria non è neutrale, esso ritorna sempre su alcuni oggetti e
ne costituisce anche la deformazione o in qualche modo l'evoluzione”.
E aggiunge “credo che sia difficile per la critica, dall‟esterno, capire tutto questo”. Ma proprio in
questo modo Rossi sta condividendo i moti della propria mente.
Rossi ha fiducia nelle sue forme, si schiera dalla loro parte.
A dire il vero, riguardo al modernismo egli è più duro di molti critici postmoderni, che ormai
tendono a vederlo semplicemente come un atro stile. Rossi lo vede come un nemico spregevole:
ipocrita, sentimentale, moralizzante, ricco di giustificazioni “piccoli-borghesi”. I suoi progetti e gli
edifici, pertanto, sono intesi “non, come pensavano i funzionalisti, per assolvere una determinata
funzione ma per permettere più funzioni. Infine per permettere tutto ciò che belle vita è
imprevedibile”.

Così la forma, poiché non segue la funzione, bensì una logica diversa da quella dettata dalla ragione
umana, può riscattare la ragione stessa e la vita da questa guidata. Per Rossi, però, il riscatto
avviene attraverso la sua stessa limitazione. Come abbiamo notato, le forme di Rossi sono poche e
sono state selezionate con cura tra le sue memorie: si sono auto-selezionate, si potrebbe dire,
attraverso la loro persistenza nella memoria stessa. Questa è un'altra ragione della loro natura
onirica, poiché ognuno di esse rappresenta indirettamente tante cose: Ogni timpano, ogni colonna,
ogni torre, santo e bandiera. Per poter far questo esse devono essere geometricamente semplificate,
devono davvero dare l'impressione di essere astratte pur in realtà non essendo affatto. A partire da
questo, come abbiamo visto, le forme di Rossi creano “un Italia di sogno” che non ha pari dai tempi
di De Chirico. L‟architettura moderna col fascismo ha perso. Rossi invece si riprende la città. Può
farlo perché lo sa fare meglio degli architetti fascisti. Riconquista la tradizione in modo più vitale,
perché opera attraverso la memoria invece che attraverso l'ideologia. Una di quelle memorie è la
memoria della stessa architettura moderna, attraverso e oltre la quale Rossi vede in realtà il passato
classico. Quel passato, un tempo apparentemente superato, viene così percepito come nuovo e
rivitalizzato.
Lo spirito del Fascismo aleggia tra le colonne del progetto per il quartiere Gallaratese, ma è solo uno
dei fantasmi che vi si aggirano.In aggiunta dietro i pilastri ci sono tutti gli architetti classici da Le
Corbusier a Ledoux e Iktinos. Lì c‟è tutta l'Italia nella sua grandeur pubblica e nella sua povertà
privata, e con la sua indomita postura retorica. Un americano non può mancare di indovinarvi
anche la presenza si Louis Kahn. Il suo maestro disegni della sala ipostila di Karnak sembra quasi
un prototipo delle colossali colonne di Rossi. Rimangono semplici entità visive, apparizioni che si
fanno avanti tra i pilastri piatti. In ogni caso, il colonnato del quartiere Gallaratese è lo spazio del
sogno per eccellenza.
Lo stesso vale per il cimitero di Modena, dove il desiderio è un desiderio di morte, il freudiano terzo:
così bello appare, così imprevedibile nella sua promessa.La sua esperienza Modena, concepita a
partire dal dolore per delle sue fratture subite; egli ci racconta di come avesse riflettuto a lungo sul
problema mentre giaceva in un letto d'ospedale molto lontano, nei Balcani, e avesse poi iniziato a
costruire Modena una struttura fatta di ossa, una città di ossa, costituita con le ossa e ospitante
ossa. Questo approccio alla morte fu la fine della sua giovinezza, ci dice, ma subito dopo venne
quella “felicità”, e quell‟ “idiozia” di gioia di vivere di cui abbiamo parlato prima. Di per sé un rito di
passaggio, il progetto di Modena metti insieme un assemblaggio di memoria più ricco di qualunque
altro lavoro di Rossi. È il progetto più romantico-classico. C‟è Boullèe, che Rossi ha tradotto e
amato. Ed è anche più surrealista. De Chirico, che raramente egli nomina, contribuisce sicuramente
a far forma a questo sogno. Quella che per l‟Italia era la casa della vita, lo splendido pazzo, diventa
la sua casa delle morte, senza tetto né infissi né solai interni. Spogliata di ogni cosa ad eccezione del
suo scheletro in muratura, che richiama quello del movimento fascista alla civiltà italiana dell‟Eur di
Roma. Ma soprattutto, viene completamente ignorato il vetro usato dal Movimento Moderno, così
come la sua canonica leggerezza, la tensione delle superfici e i piani fluttuanti.
Qui l‟esistenza di Rossi riguardo all'importanza del teatro per il suo lavoro sembra particolarmente
rilevante. Ci mostra che l'architettura, che egli considera primariamente uno scenario per le azioni
umane, può creare un teatro anche per la morte. Persino l‟immobilità dei morti viene messa in scena,
e quindi umanizzata, dalla sua arte. Non c'è da meravigliarsi che i progetti di Rossi riguardanti
Modena, che come tendono ad essere più colorati, affollati e tumultuosi del progetto vero e proprio,
siano fra i suoi più monumentali e ossessivi. Rossi sogna la città senza tempo, dimora dei morti,
perché la città è il luogo in cui viventi di solito vengono più intimamente a contatto con gli antenati
che hanno dato forma la città prima di loro.
In uno dei disegni più completi basati su Modena, Rossi ci mostra tutte queste forme monumentali,
ma nell‟angolo in basso a sinistra della composizione disegna una sequenza di altro tipo. Si tratta di
una serie di piccole case con timpani frontali dalle punte svettanti. Qui entra in gioco il ricordo di
Rossi delle cabine sulla spiaggia dell‟Elba. Le disegna come piccole forme guizzanti, con i timpani
forati da finestre circolari, come eco vernacolari del grande oculo di Alberti a Mantova, la cui
immagine Rossi inserisce anche in questo libro. In seguito il timpano, forma reminiscente allo
stesso tempo della costruzione vernacolare e del tempio classico con frontone, compare come
triangolo platonico nel monumento di Rossi ai partigiani di Segrate.
Vernacolari sono anche gli infissi a crociera per le finestre quadrate che Rossi arriva usare in modo
quasi esclusivo, come nella scuola di Fagnano Olona e nel Teatro del Mondo di Venezia. Lo stesso
tipo di finestra è stato un elemento essenziale anche nel lavoro di Robert Venturi per esempio nelle
case Trubek. In entrambi i casi, quello dell‟italiano è quello dell‟americano, si tratta di un elemento
vernacolare che è stato poi distillato in una forma quadrata di un incantevole potere figurativo: la
finestra come vuoto, barriera, occhio.
Ma nessuno è paragonabile a Rossi per il tipo di sentimento che egli sembra in grado di incarnare
nelle sue forme. Il Teatro del Mondo ne è il miglior esempio fino ai giorni nostri, sebbene il portale
medievale teatral-monumentale per la Biennale del 1980 non gli sia secondo di molto. Per il Teatro
del Mondo il processo inizia ancora una volta con la memoria. Il battistero di Firenze viene qui
tramutato in una torre, primitiva al punto di risultare commovente, ricoperta in legno da qualcuno
a cui quel materiale suggerisce una sorgente di forza se non proprio naturale, sicuramente arcaica.
All‟interno, una struttura tubolare d'acciaio, come la memoria dello scheletro di un pilastro,
incornicia un alto spazio verticale simile a quello di una chiesa russa, una derisione allungata del
Globe di Shakespeare, il “mondo”, l‟ambiente teatrale per eccellenza. Galleggiando sulla
zattera,l‟alta torre si alza e si abbassa con la marea, con il suo scheletro d‟acciaio che si muove sentir
l‟involucro di legno: l‟interno edificio alto e stretto, dell‟equilibrio precario, come un uccello. È
anch‟esso una creatura, dai quadrati occhi a crociera, ma è anche Firenze che va a far visita a
Venezia, il Battisteri con la sua acqua santa che ora galleggia sul mare.
Questa forma suscitano tutte una sorta di sentimento familiare, perché sembrano metterci di fronte
a un modo di essere autentico, al di fuori delle mode, e persino chiamare in questione il concerto di
stile molto più di quanto abbia mai fatto lo “stile Internazionale”. Si tratta di forma che sembrano
essere, come sperava Rossi, “senza evoluzione”. Semplicemente esitino, come se fossero sempre
esistite. Rossi dichiara ripetutamente, in questo testo, che vuole che i suoi edifici siano “muti”. Per
descriverli usa la parola tedesca sprachlos. E senza parole esami emergono, veicoli del ricordo,
toccando corse di un‟emozione fisica che trascende il regno del linguaggio. Senza parole noi
apriamo loro il cuore ed essi custodiscono i nostri sogni.

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