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“Carla non fa nulla per convincerti che la sua arte è interessante. Ed il suo
lavoro è anche arricchito da questa infinita libertà”.
Paola Pivi
Trasparenze
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percorso le vie del colore, chi del colore conosce la jouissance, può trovare la
forza di decretarne l’assenza e sperimentarne l’azzeramento fino al nulla. Solo
dopo la ricchezza del colore vissuta negli anni Sessanta poteva per Carla
Accardi arrivare il momento di identificare superficie e supporto nella
trasparenza assoluta. Anche quando infatti, nella seconda metà degli anni
Sessanta, aveva cominciato a usare il sicofoil, Carla Accardi lo aveva
contrassegnato con gli splendenti colori che usava in quegli anni, cosa che
riprenderà a fare in seguito. Anche quando per la Triplice tenda (1969)
l’artista aveva usato quel materiale per costruire un ambiente più complesso
come organizzazione spaziale il colore era presente e, in un luogo edificato a
partire dalle misure del corpo (implicitamente e quasi segretamente, l’artista
ha sempre trasposto nel linguaggio una dimensione esistenziale), il colore
assunto era quello dell’incarnato: il rosa. “Era il colore del corpo, ma anche
quello del tramonto che vedevo dalla terrazza del mio studio, ogni sera alle
sette avevo un colore fantastico” (Carla Accardi in conversazione con chi
scrive, 1998). Da questa e da un’altra e successiva conversazione riportiamo
brani relativi a lavori realizzati con sicofoil: “CA- Poi ho fatto la Triplice
tenda (1969-71) ora al Beaubourg. /LC- Qual è la principale differenza tra
questa tenda più grande e articolata e la prima? /CA- Innanzi tutto in questo
caso ho usato un colore unico, un rosa particolare, e poi i segni non erano così
disegnati come quelli della prima, erano di tipo informale, incrociati, sempre
con doppio strato però, perché questo conferiva maggiore robustezza, una
maggiore presenza. /LC- Inoltre la Triplice tenda è più complessa come
organizzazione spaziale, configura tre ambienti. /CA- Il più grande è un
ottagono, poi un esagono e poi una cabina con le misure di una persona. /LC-
Dopo hai fatto quadri solo di sicofoil, dunque solo trasparenti. /CA-
Trasparenti e intrecciati con ritmo regolare. /LC- In un certo senso è
l’intreccio a prendere il posto del segno. /CA- Sì, per un maggiore
allontanamento dalla pittura. /LC- E’ un momento molto radicale, di
azzeramento. C’è comunque alla base un’idea forte: che la pittura sia fatta di
luce. In un procedimento mentale c’è una messa a nudo analitica degli
elementi strutturali del quadro. Più avanti la pittura si trasferisce sul
perimetro. /CA- Sì, quando ho dipinto sul telaio. /LC- Il colore riappare, sì,
ma ai bordi del quadro. C’è un altro lavoro d’ambiente molto importante,
l’Ambiente arancio (1967-8). /CA- Ho voluto riprodurre un brano di realtà, un
pezzo di spiaggia con un ombrellone e un materassino per terra. /LC- I colori
sono solari. Come mai hai pensato al mare, alla spiaggia? /CA- Non lo so, i
pensieri mi vengono come invenzioni, dalla fantasia, non sono provocati da
qualcosa. L’Ambiente arancio ora è al Museo di Strasburgo. /LC- In anni
recenti è stato esposto a Roma da Zerynthia, ma quando lo hai realizzato era
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stato fatto per un luogo preciso? /CA- Di solito non faccio le cose per un
posto, ma piuttosto perché penso di farle, poi trovo un luogo dove collocarle”
(Carla Accardi in conversazione con chi scrive, 2007). Un precedente
potrebbe essere una bellissima opera del 1966: Arancio-Arancio. A un certo
punto la trasparenza si torce, si ripiega su se stessa, si avvolge per configurare
una stratificazione racchiusa all’interno di un unico oggetto cilindrico:
nascono così i rotoli.
Ai lavori realizzati in trasparenza si accompagna il tema dell’intreccio, nodo
architettonico alla base del costruire e dell’abitare. Ma viene un momento, a
metà degli anni Settanta, in cui il colore tace completamente ed è l’intreccio a
restare come unica forma di segno, “per un maggiore allontanamento dalla
pittura” come dice l’artista stessa. “A un certo punto il segno passò alla
scomparsa, come se si distruggesse e tu non potessi fare più niente” (Carla
Accardi in conversazione con chi scrive, 1998). Di questa radicale posizione
abbiamo esempi in Trasparente (1975) e Trasparente (1977).
La Piccola tenda, iniziata nel ’65 ed esposta per la prima volta alla galleria
Notizie di Luciano Pistoi a Torino, è un lavoro d’ambiente, intendendo la
costruzione di un oggetto praticabile che comprende architettura, scultura,
pittura. Ancora un dialogo: “L.C. Vorrei capire questo: qual è il punto di
passaggio che spinge proprio te, un'artista della pittura, a passare all'ambiente.
/C.A. Sai come? Sono passata a Ravenna e ho visto il Mausoleo di Galla
Placidia che è meraviglioso.../L.C. ...e hai capito che la pittura può essere uno
spazio. /C.A. Siccome gli architetti non ci davano da fare niente, perché c'era
questa influenza di Le Corbusier di non usare pittura nell'architettura che è
stata proprio una cosa tremenda... Allora io ho detto: ‘adesso me la faccio da
me’. /L.C. Ti è venuta quindi l'idea di farti la tua architettura. /C.A. Sai come
sono le piccole occasioni, mi mandarono in studio un quadrato di questo
materiale sicofoil, perché volevano un fazzoletto. /L.C. Quindi il nuovo
lavoro nasce anche dal materiale! C'era da immaginarselo! /C.A. Questo
fazzoletto non lo feci, non facevo nulla di artigianale, perché altrimenti il
lavoro poteva divenire attaccabile. Ma con quel materiale sono stata un'estate
a lavorare per terra e a dipingere a mano tutti questi pannelli con la
sovrapposizione del rosso e del verde, una cosa allucinante... /L.C. Non è
tanto grande la piccola tenda.../C.A. No, ci si entra però e ci si sta in piedi.
/L.C. La forma è quella di una casa, c'è l'idea dell'abitare. /C.A. E' la misura
del tempietto... Zorio disse a una ragazza: ‘Carla ha avuto un'influenza a
Torino’ e lei ci fece una tesi./L.C. Lo so, è Maria Sensi. /C.A. Poi esposi la
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tenda in Germania a Essen. /L.C. In una personale o in una collettiva? /C.A.
In una personale e poi da Beatrice Monti a Milano. /L.C. Sono le tre personali
del '66, alla galleria Notizie, alla galleria Thelen e alla galleria
dell'Ariete./C.A. E a Milano me la montò indovina chi? Luciano Fabro! La
esposi nelle tre personali di quell'anno perché la consideravo un lavoro
importante. Anna Piva, la moglie di Giulio Paolini la fotografò con me, Fabro
e sua moglie Carla davanti nella galleria di Luciano Pistoi. /L.C. La tenda
nasce dunque dall'idea di uno spazio colorato, dal rapporto interno-esterno
reso dalla trasparenza, dal desiderio di farsi una propria architettura, dunque
dal tema dell'abitare: c'è una soglia, un tetto a spioventi e anche l'idea del
tempio è connessa allo stesso tema, perché il tempio è la casa del dio. /C.A. E'
l'idea più semplice di fare una casa. /L.C. E' la forma con la quale i bambini
disegnano la loro prima casa” (Carla Accardi in conversazione con chi scrive,
1998).
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Ma quello che rende veramente il lavoro di Accardi precursore nei confronti
delle nuove generazioni è il rapporto con l’architettura, come ha notato Hans
Ulrich Obrist che vede l’influenza soprattutto nel modo di trattare “i materiali
e il colore su un terreno semiarchitettonico” e sul fatto che i lavori “si
concentrano sull’impatto visivo e oscillano costantemente tra arte, architettura
e design”. Particolarmente stimolanti appaiono le osservazioni di Obrist sul
rapporto con il design: “Quando nei primi anni sessanta Accardi decise di
lavorare con nuovi materiali, come la plastica e i colori fluorescenti, questi
erano considerati di cattivo gusto… Questa operazione di sfumatura dei
confini tra ‘arte alta’, cultura popolare e merci per il consumo di massa, era in
qualche modo simile all’approccio adottato dal design radicale italiano
dell’epoca, in cui venivano introdotti materiali nuovi come le superfici
laminate plastiche o aspetti come i colori vivaci e gli schemi geometrici ben
delineati” portando poi come esempio gli oggetti sperimentali (divani, tavoli,
sedie) di Cini Boeri.
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diverso colore, li arrotolavo e stavano senza altro sostegno, con naturalezza. Il
Cilindrocono è un pensiero geometrico, l’incrocio di due forme geometriche,
il cilindro e il cono. Il Paravento è la ripetizione di un ritmo, con due strati di
segni, grigio più scuro e grigio più chiaro. /LC- Secondo me nel Paravento
c’è già in nuce l’idea della Casa-Labirinto, l’idea cioè di piani che si
dispongono nello spazio e che si predispongono all’abitare dell’uomo. L’idea
dell’abitare è già presente nelle due tende…/CA- Nella Casa-Labirinto si
entra da una parte, c’è una divisione, si esce dall’altra. C’è un ritmo
simmetrico. Ha molti vuoti trasparenti e pochi spazi con i segni grigi. /LC- E’
molto rarefatta. /CA- Molto minimale” (Carla Accardi in conversazione con
chi scrive, 2007). Nel 1972, nello stesso periodo del Paravento, è stato
realizzato Segni grigi.
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conversazione con chi scrive, 2007). Questi oggetti-ambienti
dunque disegnano un dentro e un fuori, un interno e un esterno al
tempo stesso, come anche e soprattutto l’Ambiente arancio.
Come il ‘ 53 era stato un anno cruciale, di crisi e di rinascita per il gesto forte
e radicale di mettersi a lavorare a terra, atto rigenerante che porta
all’invenzione del segno, nel 1965 un’altra svolta la porta a creare la Piccola
tenda, l’opera che rende abitabile la pittura. Questa casa di luce, segno, colore
è resa possibile anche dall’uso del materiale che l’Accardi userà molto nel
decennio successivo, il sicofoil, che possiede come caratteristica strutturale la
trasparenza.
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ai bordi del quadro e come segno stesso nella zona centrale. In altri casi è
attraversata da un contrasto di luce e ombra, altre volte appare come
slittamento del segno, un’esitazione sul confine, un paradosso visivo:
un’ombra trasparente laddove l’ombra segnala pesantezza e opacità del corpo.
E ancora: le diverse zone di colore sovrappongono un’altra e diversa
conformazione dell’immagine generando un doppio registro di
rappresentazione. Nei lavori degli anni Novanta la tela grezza forma un
interstizio, un sentiero del vuoto intorno alle forme che sembrano galleggiare
secondo un ritmo organico.
Si dividono invano è il titolo sia di un grande bassorilievo alto due metri e
mezzo (2006, voluto al museo di Herford dal direttore Jan Hoet nel 2007) che
si sviluppa per dodici metri sulla parete bianca, sia del bozzetto che lo
prepara. I giganteschi segni si ripetono con “uno spostamento lieve”, come
dice l’artista. E’ dipinto a smalto su legno, tutto nello stesso grigio. Ha legami
con altre due opere, nate ambedue da una commissione architettonica, una
lontana e l’altra vicina nel tempo: il bassorilievo bianco su bianco realizzato
in un hotel di Tangeri su richiesta dell’architetto de Mazières, un architetto
francese che lavorava a Rabat e la vetrata per la chiesa del Santo Volto di
Piero Sartogo a Roma che separa, ma unisce, l’ambiente della sacrestia dalla
chiesa. La tecnica è serigrafia su una pellicola di plastica trasparente, tra due
lastre di vetro. “Ho pensato una vetrata completamente astratta. Non mi
interessa la rappresentazione della divinità. Ho scelto di usare il bianco sul
trasparente perché volevo fare una cosa molto rarefatta, di grande leggerezza.
Come un suono che non disturba nessuno” (Carla Accardi in conversazione
con chi scrive, 2007). L’assoluta astrazione è indizio del fatto che all’artista
interessa non l’aspetto particolare, iconografico, di una religione, ma quello
più universale della spiritualità. Un’opera affine formalmente alla vetrata è
Bianco (1976, vernice su sicofoil). Ci sono anche oggetti trasparenti più
recenti, in perspex, che possiamo avvicinare a questa vetrata. Innanzi tutto
quelli detti Ombrellini (creati, da disegni nati nel ’71, per la piattaforma
WOOLWAYS a Parigi nel ’99, progetto di U.R. di Fabrice Hybert,
Cittadellarte di Michelangelo Pistoletto e Zerynthia). E poi l’Armadio inutile
(2001), l’oggetto con segni d’argento e una sorta di ventola in cui la
trasparenza riguarda tanto il supporto che il segno e che è in effetti la più
simile alla vetrata (2003). E’ interessante notare che la trasparenza è sempre
legata all’idea di mobilità.
Si dividono invano
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Si dividono invano è sì il titolo del bassorilievo e del relativo bozzetto, ma
può indicare in un certo senso il destino di tutti i variegati segni che abitano le
opere di Accardi. Si dividono invano, perché destinati a cercarsi, a rincorrersi,
ad aggregarsi, a riunificarsi in famiglie per quanto litigiose o allargate,
famiglie di segni legati sempre da attrazione reciproca, animati da movimento
virtuale, calamitati da magnetismo, come si vede nel video girato da
Francesca Ravello. Il verbo coniugato in modo impersonale dei titoli
suggerisce universalità, mistero e un’eco di poesia.
Nell’allestimento della mostra Smarrire i fili della voce alla Fondazione
Menegaz di Castelbasso nel… l’Onda è la forma stessa della liquidità (2008-
9), dialoga con un’altra se stessa fatta d’ombra e riflessa sul pavimento; i
piccoli sicofoil luccicano come gemme incastonate negli antichi muri che
inglobano legni o che lasciano aggettare elementi architettonici; i tre leggeri
Ombrellini (1999), fragili e delicati, in posizione precaria, in bilico, recano in
sé l’idea potenziale del movimento. Posti sul vetro che ci lascia intravedere le
fondamenta antiche vi si riflettono moltiplicandone la trasparenza. La
relazione tra oggetti e superfici rivela come i quadri stessi di Carla Accardi
siano in perpetuo dialogo con l’ambiente. C’è un’opera che forse più di ogni
altra mostra in sé il passaggio dal quadro all’oggetto all’ambiente: è la
Catasta (1979).
Dopo aver azzerato il colore e fatto il vuoto nei sicofoil completamente
trasparenti, animati solo dall’intreccio, Accardi volta di nuovo pagina, non
può più ricominciare a dipingere sulla tela. E infatti il colore a un certo punto
ritorna, ma proprio là dove non ce lo aspettiamo, ai bordi del quadro. Nella
mostra da Paola Betti a Milano (1978) il colore torna sul telaio. “Per questo
lavoro ho usato otto grandi telai a forma di triangoli retti (misure: cm.
280x220x180). Li ho liberati dalle traverse perché fossero leggeri come vele,
poi li ho dipinti con delle prime mani di colori densi e delle velature
successive molto diluite (colori della natura, azzurri o blu su gialli acidi o
caldi, che diventassero verdi teneri o chiassosi, e gialli su rossi forti e bruciati
che diventassero aranci chiari e lucenti). Infine li ho ricoperti con fogli di
sicofoil trasparente al posto della tela” scrive l’artista nel giornalino della
Samangallery, la galleria genovese diretta da Ida Gianelli (che nel ’94 curerà
con Giorgio Verzotti la mostra al Castello di Rivoli che riproporrà queste
opere). La vita è simbolo: dimenticare, mettersi in salvo è il titolo della
mostra che allude a quella pratica dell’antimemoria messa continuamente in
atto da Accardi nel suo lavoro. La salvezza è nel dimenticare, vera parola
chiave dell’opera di Carla Accardi. L’interferenza continua, ma tutta risolta
sul piano del linguaggio, tra arte e vita era stata rilevata nell’unica recensione
alla mostra (“La Repubblica”, 19 marzo 1978) da Germano Celant che
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evidenziava la “costruzione diaristica” dell’opera della Accardi, tesa a
definire un territorio, stabile e precario (il nomadismo della tenda e
dell’ombrellone con giaciglio), su cui scrivere una storia personale tracciando
segni privati. Carla Accardi però ci ha già avvertito che biografia e
simbologia sono da dimenticare.
Nella mostra dell’anno successivo nella stessa galleria vengono esposti nuovi
lavori della stessa tipologia, ma di dimensioni minori, mantenendo la libera
disposizione spaziale. Si tratta sempre di sicofoil su legno, anche in questo
caso dipinto, ma non con il segno caratteristico di Accardi (quel segno nato
nel 1954, dopo quell’ “anno di crisi”, il 1953, che però è anche di crescita, di
nascita al nuovo, con una decisa presa di posizione: mettersi a lavorare a
terra). Nel ’79 invece i perimetri colorati sono dipinti per contatto attraverso
l’impronta di un cartone ondulato. Un rigatino fitto di colori variegati segna i
confini del campo diafano dell’assenza (anche per questo quasi sempre sono
abolite le traverse). In altri lavori coevi il procedimento operativo combina
impronte e strofinature, oppure si serve di gocciolature e macchie. Tutti gli
altri lavori di questa “famiglia” rispettano tali caratteristiche, unitamente a
quella per cui il telaio è colorato su tutte le sue facce (a volte i colori caldi
sono disposti sopra e i freddi sotto) come a sottolineare il suo valore di
struttura.
La connotazione fondamentale resta quella di un’estrema leggerezza, non a
caso Accardi aveva paragonato i grandi triangoli a vele, collegate all’aria,
all’acqua, gli elementi della trasparenza, tendenti nel loro stato fluido ed
etereo alla massima mobilità e inconsistenza. Un altro elemento che ha un
valore fondamentale nel lavoro di Accardi è estremamente mobile e per
eccellenza immateriale: la luce. Il senso dei quadri trasparenti sembra essere
proprio quello di tendere alla pura luminosità tanto è vero che alcuni oggetti
realizzati con l’architetto Marta Lonzi (sorella dell’altra Carla, Carla Lonzi,
con cui Accardi fonda il gruppo Rivolta femminile, prima che le loro strade si
dividano), i rotoli in materiale plastico, possono trasformarsi in fonti
luminose. Lo stesso uso dell’oro contribuisce a evidenziare il valore della luce
in Due ori (1968) e in Segni oro (1967-76).
Abbiamo parlato dunque del telaio dipinto, ma proprio a causa del materiale
usato e della sottrazione delle traverse per alleggerire ulteriormente l’opera, il
telaio si trova a coincidere con la cornice. L’identificazione telaio-cornice
comporta l’identificazione della parte apparentemente più decorativa del
quadro con la struttura del quadro stesso, fatto logico, in un lavoro come
quello di Carla Accardi che ha sempre fuso i due aspetti in una sintesi di alto
livello. Nella storia dell’arte la cornice è l’elemento tradizionalmente
considerato più decorativo, ma è stato invece considerato campo di
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sperimentazione dalle avanguardie storiche (futurismo, dadaismo,
surrealismo), forse proprio per quel suo sottolineare che il quadro è materia
separata dalla realtà. La cornice è confine tra opera e mondo e diviene per
l’artista zona di particolare interesse.
A questi temi e lavori appena descritti si collegano due opere capitali di Carla
Accardi che vivono però nella dimensione dell’orizzontalità e nascono a
contatto con la terra. Con le traverse tolte ai telai dei grandi triangoli Accardi
realizza un lavoro denominato Aethos Prometheus (1978-80), una stella
caduta, ma ricomposta in maniera originale. La stella è venuta dal cielo e, pur
spezzata in frammenti, partecipa della natura eterea dell’elemento aria, ma la
sua adesione alla terra, il contatto con la natura le conferisce energia e il
colore ne restituisce l’unità. In sicofoil, con ai bordi i telai dipinti, sono invece
i quadri che costituiscono gli elementi della Catasta del 1979. La catasta
trasparente di Accardi trae forza dalla posizione legata alla terra. A mio parere
queste due opere hanno origine da quell’episodio lontano nel tempo, eppure
sempre vivo nel lavoro di Carla Accardi: “Il 1953 è stato per me un anno di
crisi interiore, esistenziale. Lavoravo poco e male. Ma a un certo punto ebbi
una specie di vera ispirazione… Mi sono chiusa nello studio e mi sono messa
lavorare su fogli appoggiati per terra. E’ un episodio che ricordo come uno dei
momenti veramente straordinari che ho vissuto”.
La Catasta mostra in sé l’intero percorso da terra alla parete e di nuovo a
terra. Basata sull’identità telaio-cornice riassume le vicissitudini del telaio
dipinto, della pittura sospinta ai margini, dei colori sul confine, fino alla
disarticolazione del telaio e alla sua ricomposizione nella cornice. Con i suoi
bordi dipinti e il vuoto sicofoil al centro coniuga il colore e l’azzeramento, la
fattura manuale e materiale e l’aspetto mentale, le due polarità nella dialettica
tra le quali si dipana l’opera di Accardi. E’ sintesi perfetta della relazione tra
quadro/oggetto/spazio, relazione latente, ma presente in ogni opera di
Accardi, dai quadri all’Armadio inutile, dalle opere abitabili alle carte e
perfino ai disegni. “L.C. Io per esempio ho sempre pensato, credo anche di
averlo scritto, che quel lavoro che hai fatto a terra… che si chiama Aethos
Prometheus, fosse collegato con questa tensione del dipingere a terra, con
un'energia che dalla terra proviene. /C.A. Aethos Prometheus è un lavoro del
periodo in cui facevo cose con i legni dipinti, è del '78-80. /L.C. Sì, è un
lavoro di molti anni dopo, ma, nella mia mente, l'ho sempre pensato
idealmente prossimo a quella rigenerazione che è nata dal contatto con la terra
durante la crisi del '53. /C.A. Non puoi neanche immaginarlo.../L.C. ...senza
quel precedente. Fa parte di quel filone di opere che hanno il proprio
presupposto nell'operazione di dipingere a terra.” (Carla Accardi in
conversazione con chi scrive, 1998).
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“Accardi è senza dubbio un’artista degli artisti, per qualsiasi generazione di
artisti” ha scritto Obrist che infatti, con la cocuratrice Laurence Bossé e la
direttrice Suzanne Paget, in occasione della personale al Musée d’Art
Moderne di Parigi nel 2002, ha chiesto un contributo al catalogo ad artisti
come Fabrice Hybert, Bertrand Lavier, Paola Pivi, Franz West e Grazia
Toderi. Essere “artista degli artisti” è molto importante. Gli artisti sanno
riconoscersi tra loro e non ce ne sono stati molti amati come Carla Accardi. E
aggiungo che raccoglie la stima di tanti curatori giovani, anche questo un
banco di prova difficile e significativo.
Dimenticare per mettersi in salvo è la sana pratica dell’oblio o
dell’antimemoria messa in atto da Carla Accardi: ogni opera è nuova perché
l’artista parte sempre daccapo, non dà mai nulla per scontato. Tanto è vero
che Carla ha dichiarato in un’intervista (a Delphine Borione) di non amare il
museo, un luogo dove l’arte si conserva e non si fa. Quando arriva a Firenze
giovanissima dalla Sicilia trova la città d’arte più famosa del mondo troppo
poco contemporanea e se ne va, non senza aver messo a profitto il soggiorno
studiando i colori del Beato Angelico più astratto, quello dell’Armadio degli
Argenti. Ma mai nessuna citazione o nostalgia, nessun compiacimento per la
memoria storica e per la tradizione artistica. Penso ancora a Carla come alla
più giovane delle mie amiche, la più vitale, la più curiosa, con la più grande
energia. Non c’è nulla nel suo lavoro che sia proiettato verso il passato (che
sia remoto o prossimo), nulla di anacronistico, nulla di datato, mai. La
sensazione di estrema freschezza che ognuno può provare osservando
un’opera di Carla Accardi deriva proprio da questo azzerare tutto: sempre
davanti all’ultima opera come se fosse la prima.
Laura Cherubini
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