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EMILIO ISGRO’.

TRAPPOLA INTELLETTUALE

Un mondo quadrato che non possiamo più racchiudere nel cavo delle nostre
mani.
I nomi dei luoghi cancellati, annullati, da un tratto di nero tranne per una
frase, semplice, storica, universale: Pacem in terris.
Poi le cancellature si fanno mobili, si animano, diventano piccoli animali,
formiche che camminano, che fuoriescono dalla geografia delle mappe e
vanno a posarsi sulle trasparenti pareti di un diafano cubo che racchiude il
cubo-mappa.
La trasparenza della scatola permette l’attraversamento dello sguardo e
l’amplificazione della forma volumetrica del cubo. Ma le formiche escono
anche da lì, proseguono la loro marcia e arrivano fin sulla base…
Anche su un’altra base fuoriescono insetti provenienti dall’interno di un
globo trasparente che ha al suo interno mappe quadrate sulle facce di un
cubo infilzato dall’asse terrestre e tenuto in inclinazione, in mobile,
instabile posa…

Il poeta e il giornalista

Alcune grandi mostre di Emilio Isgrò, nel 2013 alla Galleria nazionale
d’arte moderna di Roma (a cura di Angelandreina Rorro e Beatrice
Benedetti) e a Palazzo Reale, Gallerie d’Italia e Casa del Manzoni a Milano
(a cura di Marco Bazzini) hanno contribuito alla riscoperta di un grande
artista italiano e al tempo stesso alla confutazione di un luogo comune:
quello secondo cui la nostra arte contemporanea si esaurisce quasi del tutto
nella dialettica tra Arte Povera e Transavanguardia, due etichette in realtà
troppo strette anche per gli artisti in quei movimenti annoverati. L’arte
contemporanea italiana invece è variegata e portatrice di differenze. L’Italia
ha sempre compensato ogni debolezza economica con la ricchezza
culturale e artistica nelle sue molteplici forme che è stata la sua forza. La
declinazione di Isgrò è tra le più originali e interessanti.
Emilio Isgrò è nato nel 1937 a Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia. Tra le
sue prime letture c’è quella dei libretti d’opera (resterà sempre
appassionato di rappresentazioni teatrali e ne realizzerà alcune), legge
inoltre Flaubert, Pirandello, Montale (ma anche Salgari) e compra a rate le
opere di Brecht e Lorca. A un coetaneo che gli chiede “E tu, cosa fai?” a
otto anni risponde: “Il poeta”. Nel ’56 dopo il liceo classico si trasferisce a
Milano, teatro di fertili intrecci tra arte e letteratura (anche attraverso riviste
come il “Verri”) dove ha modo di frequentare alcuni degli scrittori da lui
ammirati come Eugenio Montale stesso, Ottiero Ottieri e Elio Pagliarani
che lo invita a collaborare alla terza pagina dell’ “Avanti”. Il direttore del
“Gazzettino” Giuseppe Longo lo chiama a Venezia come responsabile della
cultura del giornale. Lì, dove la cultura più cosmopolita si coniuga con
vivaci tradizioni locali (dove le forze autoctone, come scrive Isgrò, erano
“artisti e croupiers, letterati e camerieri”), frequenta poeti come Andrea
Zanzotto e Ezra Pound, pittori come Emilio Vedova, intervista Salvador
Dalì, Vittorio De Sica, il filosofo Ernst Bloch... e si distingue per
un’entusiastica recensione di Viridiana di Luis Bunuel che era stato
pesantemente attaccato dalla curia. Addirittura, l’intervista con il leader dei
fascisti inglesi Oswald Mosley gli procura una sfida a duello da parte del
nobile discendente di Dogi Alvise Loredan, che lo aveva introdotto,
probabilmente confidando in un ben diverso articolo. A venticinque anni
intervisterà persino il presidente americano John Kennedy che è stato
invitato a seguire nell’ultimo viaggio negli USA nel 1963 (Kennedy si
complimenta per la cravatta di via Montenapoleone)!
Il 1964 è un anno-chiave per la storia dell’arte contemporanea: una nutrita
pattuglia di artisti americani sbarca alla Biennale di Venezia, capitanata
dagli intelligenti mercanti Leo Castelli e Ileana Sonnabend, e Robert
Rauschenberg vince il premio. Questo, di fatto, sposta l’asse della
situazione artistica dall’Europa all’altra sponda dell’Oceano. Fabio Mauri
definirà la Biennale del ’64 una Pearl Harbour per l’arte italiana… E’ un
fatto epocale, non può essere un caso che l’anno successivo ( in alcuni
testi ho trovato la data 64 in altri 65 ??? ) Emilio Isgrò realizzi un’opera
emblematica come Jacqueline (indicata dalla freccia si china sul marito
morente). Si tratta in realtà di un rettangolo retinato su cui campeggia una
freccia. “Nasce Jacqueline, una risposta concettualmente ‘europea’
all’invasione mediatica della pop, alla cui gestazione non è chiaramente
estraneo l’incontro con Kennedy alla Casa Bianca. Ero molto giovane,
allora, e avevo già deciso di combattere contro le atomiche con i pugnali e
le spade”. Ma non sarà questa la sola risposta “militante” di Isgrò
all’egemonia culturale americana che si va affermando.

Come nasce la cancellatura

La vera, radicale risposta sarà in un gesto semplice ed elementare che nasce


proprio in quel 1964: cancellare. E’ nello stesso ’64 infatti che Emilio Isgrò
realizza le prime Cancellature. Dichiara anche che “la parola è morta”:
Montale e i vecchi amici letterati gli tolgono il saluto. Descrive così
l’origine delle cancellature: “L’idea delle cancellature mi era venuta nel
1962, quando, facendo l’editing di un tormentato elzeviro di Giovanni
Comisso, mi accorsi che tutte le correzioni apportate al testo da me o dallo
stesso autore (in genere errori di battitura del segretario e contorsioni
sintattiche tipicamente comissiane) avevano creato un mare di cancellature
il cui peso era più forte delle parole”. Ma poi lo stesso Isgrò si incarica di
chiarire che “si tratta di una mezza bugia, perché erano anni che in realtà
avevo un dubbio di natura filosofico-antropologica sulla capacità della
parola umana di resistere all’urto della società mediatica che già si
profilava minacciosa. Da qui le mie prime poesie visive (dove l’immagine
era chiamata a rafforzare la parola) e le contemporanee cancellature (dove
la questione veniva drammatizzata con un gesto-segno fin troppo chiaro
anche per i non addetti ai lavori)”. Verranno così cancellati, nel corso degli
anni, l’Enciclopedia Treccani (esposta da Schwarz e accolta da insulti e
polemiche a non finire), la Costituzione Italiana (“non volevo cancellare il
nostro patto civile in un momento difficile per il Paese, quanto segnalare il
rischio che tale patto fosse cancellato da altri”), il Manifesto del Futurismo,
libri e giornali, poesie e partiture… E anche l’Inno d’Italia, “azione che si
carica di notevoli significati ideologici e civili” (Angelandreina Rorro). Le
cancellature in realtà più che annullare il segno lo evidenziano, lo
sottopongono al vaglio della critica e del dubbio, lo mettono in questione.
La cancellatura è contraddittoria, ha una pars destruens e una pars
construens, e le contraddizioni si sa, vanno vissute e devono imparare a
convivere. “La vita la si vive o la si cancella, per riaffermarla” (Clelia
Mangione). Più avanti dal tratto nero che copre la parola nascono piccoli
animali come api e formiche, piccoli insetti laboriosi e organizzati in
comunità, come dire che quel tratto è animato, ha una vita propria ed è
mobile, può spostarsi, il che conferisce anche all’opera di cancellatura un
valore instabile e reversibile (“Mi si è di fatto trasformata tra le mani…”).
Nel ‘68 Isgrò torna a Milano, assunto da Enzo Biagi a “Oggi” da cui si
dimetterà l’anno dopo per impegnarsi definitivamente nell’attività artistica.
Emilio Isgrò lavora a un progetto ambizioso: un film. “A differenza della
parola, coperta da tratti di cancellature operati con la penna, il film di Isgrò
prevedeva immagini parzialmente nascoste da un nero compatto, immagini
di cui si vedono pochi referenti superstiti, brandelli di teste, di capelli, di
piedi, un’attrice che sta per svestirsi, e nelle quali si intuiscono azioni di cui
non è più possibile afferrare il senso. Un film dell’ipotetico, in cui ogni
immagine, ogni storia, è da ritrovare, lasciando che riaffiori
dall’invisibilità cui è stata condannata” (la descrizione è di Roberto Andò).
Alla fine del ’69 però (e qui la ricostruzione è dello stesso Isgrò) “annuncio
in un’affollatissima conferenza stampa all’Hotel Sonesta di Milano, con
l’attrice Paola Pitagora al mio fianco, le imminenti riprese del film
cancellato ‘La jena più ne ha e più ne vuole’. Una pellicola tutta nera
inframmezzata da pochi fotogrammi. Do anche qualche particolare,
comunicando con enfasi ai giornalisti che Giuseppe Rotunno, il
leggendario direttore di fotografia prediletto da Visconti e da Fellini, sta
per mettere a punto la prima ‘macchina cancellatrice’ della storia del
cinema. La mattina delle riprese, però, un grave fatto di sangue scuote
Milano: la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, decine di morti e
feriti, con la città che piomba nel buio e le riprese rinviate a tempo
indeterminato. Il film, naturalmente, non si farà mai più, anch’esso
cancellato dal terribile ordigno”.

Un orologio

La passione civile, sempre incarnata nel linguaggio artistico, resterà un filo


conduttore nel lavoro di Isgrò come in L’ora italiana (1986) dove il famoso
orologio sopravvissuto alla strage della stazione di Bologna viene replicato
in venti orologi che battono ore diverse: l’artista racconta che l’opera a
ogni esposizione ha suscitato la commozione del pubblico. Alle 10,25 del 2
agosto 1980 quell’orologio, “dal quadrante banale, ma che pare listato a
lutto” (Maria Vittoria Marini Clarelli) ha smesso di battere. Ferruccio De
Bortoli ha accostato a questa un’altra ora, di quelle che non
dimenticheremo mai, le 16,37 del 12 dicembre del ’69, ora della bomba alla
Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano.
D’altra parte lo stesso De Bortoli ha evidenziato l’analogia tra gli omissis
che hanno caratterizzato la storia italiana e i tratti neri delle cancellature di
Isgrò…
All’Università Bocconi di Milano nel 2011 esegue la Cancellazione del
debito pubblico. Severino Salvemini e Andrea Manzitti avevano chiesto a
Isgrò un progetto per gli studenti della Bocconi. “In un primo tempo avevo
pensato alla cancellazione del Capitale di Marx, ma mi pareva piuttosto
banale. Così come non mi convinceva l’idea di cancellare uno di quei
classici del neoliberismo (Milton Friedman, ad esempio) che hanno portato
il mondo al disastro. Finché, alla millesima telefonata di Manzitti, non
sapendo più cosa rispondere, me l’ero cavata con una battuta: ‘Ma sì,
cancellerò il debito pubblico’. Era solo una battuta, ma a quella ho dovuto
impiccarmi. Perché intanto Salvemini aveva informato Mario Monti (allora
presidente della Bocconi) e questi, contentissimo, aveva dato la sua
immediata disponibilità a inaugurare lui stesso l’opera: un po’ per
esorcismo nei confronti del debito, un po’ per semplice scaramanzia, visto
che di lì a poco avrebbe dovuto affrontare il problema nel suo ruolo di
presidente del consiglio: non più come metafora d’arte, ma come dura,
implacabile realtà di governo”. Al di là dell’aneddoto raccontato con il
consueto stile brillante, è evidente che Isgrò è andato ancora una volta, e
tempestivamente, al cuore del problema, toccando un nervo scoperto e
additando un aggrovigliato nodo della vicenda italiana. “Ma disobbedire
alla storia non è il solo modo per immaginarne un’altra?” si chiede Sergio
Troisi. E infatti è Isgrò stesso a vestire i panni di Garibaldi per “cancellare”
il suo “Obbedisco” e pronunciare il suo: “Disobbedisco a tutto”.

Il seme del linguaggio

Il suo paese lo chiama per un’opera che tenti un’inversione di marcia della
condizione di quella terra siciliana affidandosi all’arte e lui pensa a un
elemento minimo, comune e povero, il Seme d’arancia nel 1998. La
scultura viene realizzata “ingrandendo fino a sette metri un seme che in una
bellissima foto di Ferdinando Scianna Isgrò esamina con l’ausilio di una
lente. Anche se il procedimento (il trucco, tante volte) del fuori scala è stato
usato spesso in particolare dalla scultura pop, intenzione e metodologia
sono, qui, differenti, quasi opposti. Non soltanto perché l’ingrandimento
non riguarda un manufatto industriale, l’epifania ludica di una merce ma, al
contrario, un elemento del ciclo della natura e della cultura che su quel
ciclo ha fondato parte della sua ricchezza e identità; ma anche perché
quell’ingrandimento, in modo parallelo ai dettagli fotografici degli anni
settanta, ‘contiene tutti i modelli’, anziché ipostatizzarne soltanto uno”
scrive Sergio Troisi che prosegue “Destinato, nel tempo, a cancellarsi nel
frutto, il seme è così un’allusione al processo di morte e rinascita, alla fusis
dei filosofi greci, ai nutrimenti della cultura, così come alla corruzione e
alla trasformazione della realtà naturale alludono gli insetti che popolano
l’opera di Isgrò già nella Biografia di uno scarafaggio (1980), passando per
le farfalle del Prologo degli Evangelisti (1985), sino alle api e alle formiche
che si posano sui libri o sciamano sulle pagine come precedentemente
crome e semiminime sugli spartiti aperti sui leggi dei pianoforti”. L’arancia
è il tipico prodotto dell’agricoltura siciliana, destinato ai commerci e agli
scambi. E’ l’oro alimentato dal sole di Sicilia. Il seme ingigantito mette in
relazione arte, lavoro e crescita economica. Il seme è vita e linguaggio.
Aldo Nove, dopo aver ricordato che, come diceva William S. Burroughs il
linguaggio è un virus scrive che l’artista ha riconsegnato il linguaggio alla
natura, “quella natura che Isgrò, siciliano e mediterraneo, ma tanto, ma
veramente, è arrivato a portare in giro per l’Europa nella sua forma più
simbolicamente pura, il seme”. All’iperbole del seme in scultura infatti si
affianca infatti il viaggio di un gigantesco Tir con la scritta Questo veicolo
trasporta un seme d’arancia. Come nei contrasti dimensionali
dell’architettura del gotico internazionale l’infinitamente grande è accostato
all’infinitamente piccolo. In un certo senso il seme sembra concretizzare
quel “ritorno allo stato di natura del linguaggio” di cui aveva parlato Pierre
Restany (ripreso da Davide Bondi). Ma il seme è, anche, un elemento di
disturbo, qualcosa che viene espulso dal nostro corpo nel corso del
processo della nutrizione, come ogni segno di Isgrò è un segno di disturbo,
un dito nell’occhio che non ci permette stato di quiete e di requie. Dopo
varie vicissitudini (e dopo che il Seme dell’Altissimo è stato presentato
all’ingresso dell’EXPO milanese) l’opera tornerà al suo posto (
controllare ): un segno di fiducia nel futuro del Mediterraneo.

La pittura cancella la scrittura

Mai per un multiplo Emilio Isgrò ha moltiplicato un’opera, il multiplo


nasce sempre in autonomia, è, a tutti gli effetti, opera autonoma.
Insieme agli altri multipli di Isgrò ( controllare ), Semi di vetro, Semi di
ceramica, i Mappamondi, la Bottiglia, alla Triennale vengono esposti due
multipli appositamente realizzati, Mondo quadro e Mondo di vetro.
Mondo quadro è un mappamondo quadrato grigio e bianco dove i
continenti emergono su fondo grigio in una scatola di plexiglass. Mondo di
vetro mima il globo terracqueo. I nomi dei continenti sono cancellati con il
nero e lo spazio viene acceso dal fatto che insieme alle cancellature ci sono
formiche che si muovono e saltano nella capsula. Il nome Oceano Pacifico
è sostituito dalla dicitura Pacem in terris che allude all’ultima Enciclica di
Giovanni XXIII dell’11 aprile del 1963 che invita tutti gli uomini di buona
volontà a cercare ciò che unisce, non ciò che divide. Appello inascoltato a
giudicare dalle troppe guerre del mondo contemporaneo… La scritta
Pacem in terris lega ambedue le opere. Nel cubo con le immagini le
cancellature sono impastate con le formiche. E’ la formica infatti a
cancellare la cancellatura. Così assistiamo al rutilare febbrile delle
immagini all’interno del cubo. Così si ottiene un effetto meno lineare che
accede a una dimensione pittorica. Queste opere sono infatti vicine ai lavori
che presentano una maggiore pittoricità. Nelle opere su carta fotografica
del ’62-’63-’64 non c’era manualità, mentre dal ’64 le cancellature saranno
manuali. “Sono stato chiamato in causa dal concettuale che ancora quasi
non c’era. Io agivo all’interno della poesia visiva, della quale ero il teorico
più feroce. Come tutti quelli che facevano la poesia visiva , non ero amato
dalla critica. I concettuali non riconoscevano il debito”.
Gli antichi trattati definivano l’emblema come mistura mistica di parole e
di cose. La poesia visiva, cioè l’insegna sotto cui Isgrò inizia l’avventura
nelle arti visive (con compagni di strada come Franco Vaccari, Lamberto
Pignotti e Eugenio Miccini) si è incaricata di traghettare quell’alta
tradizione culturale dal Rinascimento all’arte contemporanea. Ma Isgrò
sembra azzerare anche questo, rompendo definitivamente la logica delle
avanguardie storiche: “Vanificare in una sola volta i vecchi codici della
comunicazione umana: principalmente l’immagine e la parola. Per questo
l’era digitale non mi ha trovato spiazzato”. Questo fatto rende sicuramente
l’opera di Isgrò pienamente contemporanea.
“La cancellatura, contrariamente a quanto si pensa, è essa stessa il risultato.
Ho capito da giovane che la cancellatura aveva diverse possibilità. C’è una
mano che agisce, questo a me non è mai dispiaciuto. Non essendo la mia
opera finalizzata a effetti pittorici, consideravo un risultato straordinario
ottenerli ugualmente!”.
Ma come è possibile parlare di pittoricità per le cancellature?
Marco Bazzini scrive: “Eppure la cancellatura con le sue macchie nere
sulla griglia della pagina è un qualcosa in più del semplice gesto astratto.
E’ un gesto che porta in sé anche una pittoricità, basta saperla cogliere”. E
già Renato Barilli aveva scritto: “Le cancellazioni venivano effettuate con
morbide e sinuose macchie d’inchiostro: come neve soffice che cancella sì i
lineamenti di ciò su cui si posa, ma non del tutto”. L’effetto pittorico è
evidente.
La macchia da nera si trasforma in bianca per la cancellazione del testo su
cui si fonda tutta la nostra letteratura: la Divina Commedia. E anche questa
trasformazione conduce in direzione pittorica. “Basta cancellare
l’immagine con una mano di bianco perché essa riveli all’improvviso
insospettabili, inediti percorsi visivi e mentali”.

La cancellatura è un’icona potente

Prosegue Isgrò: “Potevo essere un concettuale puro, ma non amo l’algidità


e trovo noiosa la tautologia. E’ finito il tempo delle polemiche, quando
c’era la polemica io ho fatto le Storie rosse e la Jacqueline. Ho sempre
avuto interesse per la realtà in cui viviamo. Non consideravo l’arte come
qualcosa fuori dal mondo, ma qualcosa fatto per entrarci dentro. La
Jacqueline è negazione e reazione agli americani, una risposta europea alla
Pop, è nata nel ’65 sul tavolo di redazione al ‘Gazzettino’. Avevo
incontrato e intervistato Kennedy, ho conosciuto quel mondo da vicino. Un
sentimento oscuro rischiava di diventare risentimento. Pensavo di dover
prendere la realtà di lato o di sponda. Se anche l’arte doveva essere
comunicazione non poteva essere mimesi”. E in effetti la Pop art sembrava
essere una forma di mimesi, quasi che gli artisti avessero abdicato al
proprio ruolo. “Non credo che la Jacqueline sia stata capita
immediatamente. Si parlava di assenza, di vuoto Zen, mentre era la
cancellazione di un’icona, irresistibile, prepotente. Ricordo le discussioni
con Filiberto Menna al Traghetto di Venezia. L’operazione era troppo
carica e ribollente per una lettura minimalista, occorreva dotarsi di altri
strumenti. Mi dotai di tutti gli strumenti, anche pittorici, e imparai il
mestiere”. D’altra parte nel momento stesso in cui si riproduce
un’immagine ci si confronta, inevitabilmente, con la storia della pittura.
“La cancellatura è un’icona potente. Nella cancellatura ho introiettato tutte
le contraddizioni. Se riusciamo a confutare la Pop criticamente, poniamo le
basi anche per arginare Jeff Koons. Il caso ultimo di vittoria legale su
Roger Waters, ex leader dei Pink Floyd, per la copertina con le cancellature
del cd Is This the Life We Really Want?, dimostra che ho vinto, ma vinto
nel sociale. Sapevo che i mercanti non mi avrebbero sostenuto, non ero
cretino (ma avevo in Scilla una compagna coraggiosa). Ho giocato carte di
tipo sociale. Con la mostra al Pecci (a cura di Marco Bazzini e Achille
Bonito Oliva, 2008) si comincia a capire il senso del lavoro: la cancellatura
è l’altra parte della scrittura”. Isgro’ pensa che il mercato non abbia colto
subito il senso della mostra del Pecci, ma probabilmente questo è avvenuto
a causa della crisi economica allora appena iniziata. “La cancellatura è
diversa perché essa stessa non si fa ignorare. Si autopromuove”. Per questo
la cancellatura ha una potente ricaduta nel sociale. “Potrei riuscire a dare un
grande calore sociale alla cancellatura. Sono in grado di farlo, di dare alla
Pop la risposta che non sono riuscito a dare allora. Spero che la vicenda di
Waters serva da segnale”. Bazzini non ha dubbi, è perentorio: “Come a
Fontana appartiene il taglio e a Duchamp il ready made, a Isgrò appartiene
la cancellatura”.
Emilio Isgrò ha affrontato artisticamente il tema oggi scottante della
comunicazione. Era in possesso di due requisiti necessari per questo: la
formazione e il percorso. Potenziare l’aspetto iconico della cancellatura, ma
senza fare concessioni di nessun tipo: questo è l’obiettivo di Isgrò.
Il mappamondo di vetro allude alla fragilità generale di tutti noi, formiche
che passeggiano sulla sfera. Mondo quadro è così perché non c’è più la
felicità e la facilità della sfera che si poteva racchiudere in una mano.
Questa mostra dei multipli Isgrò la pensa come fondamenta per un’arte
civile. L’idea di multiplo ha in sé quella di valore civile. “Lo faccio come
opera autonoma, che non può essere fatta in altro modo che con un
multiplo. Sono attratto dall’idea di fare un’opera moltiplicata. Non è mai un
pezzo unico riprodotto. La cancellatura ha una virtù: può essere
stupefacente, produce sconcerto. Avrebbero potuto essere scambiate per un
gesto dada, invece l’operazione distruttiva coincide con il suo ricostruirsi”.
Così la negatività del mondo si ribalta nella positività del linguaggio.

Laura Cherubini

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