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Vocazione e progetto

Storia ed attualità della critica d’arte

Introduzione

“Vocazione e progetto” vuole essere, in primo luogo, un contributo didattico e divulgativo che,

partendo dal mio percorso personale, possa indurre ad una più ampia e generale riflessione sul

ruolo e la funzione della critica d’arte nella società contemporanea. Queste considerazioni non

possono prescindere dall’esperienza soggettiva, sarebbe insincero e, d’altra parte, qualsiasi modello

di scrittura non può esulare dal riferimento alla memoria. Tuttavia è altrettanto vero, a mio parere,

che il vissuto di ognuno, oltre che dipendere dalle condizioni poste di base alla nostra esistenza, e

da noi non scelte, quali l’eredità familiare con conseguente rete di relazioni, in Italia così

importante, il luogo e, soprattutto, il tempo storico, non eludono l’essere esemplarmente “parte per

il tutto”, non sminuiscono l’importanza dei singoli “atti di parola”, che smuovono e movimentano

l’edificio complessivo della “lingua”, adattandola al mutamento dei tempi, e rendendola una

costruzione in cui passato e presente si sovrappongono contribuendo al delinearsi di ipotesi future, a

loro volta destinate a tramutarsi in momenti di nuovo presente in inquieto e costante movimento.

Tornando alla critica, ritengo che un buon punto di partenza, per indagare sull’autentico significato

e sulla storia di qualsiasi argomento, sia partire dalla sua etimologia. Il termine “critica” deriva

dalla radice greca “kritikè”, cioè “arte giudicatrice”, a sua volta composta da “tèkhnè”, che è

matrice della parola “arte”, dall’aggettivo “kritikòs” e questo dal verbo “krinò”, a sua volta

traducibile in “io giudico”. Capacità e coraggio di giudicare, quindi. E quanto coraggio ci sia nei

pensieri e nelle azioni di molta critica d’arte, soprattutto italiana, dell’ultima generazione è

argomento più volte dibattuto, nei testi che seguiranno. Il concetto di “giudizio “ è fortemente
esemplificativo, tuttavia, pur nella sua correttezza semantica, rischia di apparire eccessivamente

aspro, un po’ troppo categorico nei confronti di un’attività che di certo presenta degli aspetti di

progettualità “dolce”, dei momenti di autentica empatia con l’oggetto dell’analisi al punto da

costituirne, nei casi migliori, in cui la scrittura, intesa come atto creativo ed anche competitivo nei

riguardi dell’opera, ed il comportamento, nell’accezione di un vero e proprio atto performativo a

sua volta “artistico”, come nell’attività curatoriale, giungono ad essere momento costitutivo e

fondante dell’espressione artistica vista come globalità e non entità parcellizzata e relativa.

Tornando al sottoscritto, la fortuna di essere detentore della cattedra di “Storia e metodologia della

critica d’arte” presso la torinese Accademia Albertina, mi consente di approfondire, al di là di

quanto dovrebbe comunque essere nella norma, il fondamento stesso della mia esperienza umana e

professionale. Il motivo per cui, inizialmente non prevedendolo, mi sono trovato quasi

d’improvviso, calato in questo ruolo è certo l’imperscrutabilità del destino e la frequente

irrazionalità delle sue scelte, ma anche il fungere da pedina di una precisa evoluzione storica e

culturale iniziata molti secoli addietro. Adopero spesso, ed è cosa di questi tempi desueta, il termine

“vocazione” per indicare il mio approccio alle problematica dell’arte contemporanea. Credo infatti

che, pur nel clima di post modernità tuttora imperante, dove i presunti ritorni al “moderno” di cui

si dibatte sono nulla più che suggestivi moti oscillatori interni, e i cui effetti sono tali da determinare

un incremento per certi aspetti naturale delle professionalità legate all’intera gamma delle discipline

creative, l’esercizio della critica, oggi così inflazionato, non si possa solo ricondurre alla forzata

ricerca di nuovi sbocchi occupazionali, così frequente nella società occidentale in rapida mutazione,

od a mero calcolo di opportunità, ma, nei casi autentici, quindi migliori, non possa fare a meno di

appellarsi ancora ad un retaggio che qualcuno, in questo caso a torto, potrà, a piacimento, definire

tardo idealista o post romantico.Usando ancora il ricorso all’analisi etimologica riscontriamo come

“vocazione” derivi dal sostantivo latino “vocatio”, nome d’azione di “vocare”, ed il tutto si

riconduce a “vox”, cioè a “voce”.Quindi la vocazione è sostanzialmente una chiamata, per il

vocabolario addirittura quella rivolta dalla divinità ad un uomo, affinché con le opere e le azioni
compia la sua volontà. In un epoca laica e disincantata come la nostra non mi sognerei di attribuire

poteri così marcatamente taumaturgici alla funzione della critica, semmai rimarcare come essa non

vada drasticamente banalizzata e sminuita, come spesso, di recente, avviene. Quindi quando, nei

primi anni ’80, reduce, sebbene molto giovane e quindi testimone partecipe più che protagonista,

dalla partecipazione ai moti giovanili del ’77, mi aggiravo inquieto e curioso nel nuovo paesaggio

metropolitano che caratterizzava quella stagione inconsueta e particolare, in seguito eccessivamente

vilipesa ora tornata di moda, fu proprio una improvvisa ed insospettata spinta vocazionale ad

incanalare le mie energie mentali verso quelle che mi apparivano nuove e stimolanti forme

artistiche, in grado di contaminarsi con i ritmi e le visioni dei media, della musica, del fumetto,

della performance teatrale, a comporre una inedita sinestesia. Ma fu l’immediato, nel mio caso,

congiungersi della vocazione al progetto, e la consapevolezza mia personale verificata sul campo

ancor prima del giudizio di terzi, a convincermi della bontà della strada intrapresa e della

possibilità, percorrendola conscio delle insidie del cammino, di approdare ad una realizzazione delle

mie aspirazioni, meta raggiungibile anche abbinandola alla possibilità di rendere un servizio nei

confronti altrui. Come già citato in precedenza un certo modo di concepire la critica da parte mia e,

naturalmente, di altri, non sarebbe stato possibile se non a compimento di un lungo percorso storico,

dall’antichità classica ai giorni nostri, che è poi il tracciato lungo cui si dipana il mio corso di

“Storia della critica”, di cui tenterò un compendio in questo testo. Un cammino ampio ed articolato

che parte da molto lontano, dalle prime tracce documentabili di pensiero critico nella Grecia

classica, e si dipana lungo un percorso vettoriale cadenzato da frequenti digressioni, atte a

stigmatizzare la circolarità del pensiero e delle azioni che fanno la storia, per giungere fino ai giorni

nostri. Il motivo di una scelta di questo genere, che ho mantenuto costante sin dagli inizi della mia

esperienza di insegnamento accademico, ormai vent’anni fa, ed ha peraltro sempre riscontrato il

gradimento degli studenti, è dovuto ad una diffidenza nei confronti dei corsi monotematici, quelli

che affrontano, cioè, con prevalenza , specifici argomenti come, ad esempio, la critica

dell’Ottocento francese o quella contemporanea, in quanto non in grado di fornire una visione
storica compiuta dell’evoluzione di un fenomeno particolare come la critica d’arte che, per la sua

particolare natura di “creatività applicata”, rischierebbe di apparire come manifestazione astratta,

specie alla luce del ruolo assunto all’interno del sistema contemporaneo. Questo anche in

considerazione del fatto in base a cui l’agognato e sacrosanto ricongiungimento al livello

universitario, con la conseguente fuoriuscita dal precedente limbo dei non meglio definiti “istituti di

cultura superiore” è ancora, al momento della stesura di questo testo, in fase di attuazione. Quindi

ben venga, a mio avviso, un’impostazione che sia in grado di far cogliere la gradualità

dell’evoluzione della critica d’arte da esercizio cronachistico o speculativo “ a latere” dell’opera, a

specifica ed autonoma professione dotata di regole autonome, tali da porla come componente

integrativa e talvolta addirittura competitiva nei confronti di quest’ultima.

Questa è la seconda edizione del libro. Rispetto alla prima la differenza consiste in una maggiore

completezza riguardo figure importanti della critica involontariamente dimenticate, sia storiche che

contemporanee, ed in vari approfondimenti tematici e relativi a saggi importanti di recente

pubblicazione o ad eventi artistici d'attualità. Cambia anche la copertina. Se nel 2013 la scelta cadde

sulla “Città che sale” di Umberto Boccioni, simbolo della dimensione “esplosiva” della principale

tra le avanguardie storiche, della mia passione per il Futurismo e della folgorazione che ebbi quando

si imbattee nel mio sguardo durante una visita al MOMA nel 1987, questa volta muta il registro.

Piero Manzoni è un personaggio emblematico ed anticipatore della svolta concettuale che porterà

l'arte nel versante della smaterializzazione. Personalità intellettuale complessa e vitale morirà molto

giovane nel 1963. La sua “Merda d'artista” è stata una delle più azzeccate provocazioni relative al

nuovo ruolo dell'artista nella società dei consumi e dello spettacolo, tra sciamanesimo e “brand” di

successo, in grado di vantare un numero infinito di imitazioni, non sempre riuscite. Stante la

difficoltà di riprodurre la foto originale, ho optato per la versione e l'omaggio che ne ha fornito

l'artista torinese Gec, uno dei più valutati ed intelligenti autori della Street Art, ad indicare un ponte

ideale tra contemporaneità avanzata e post modernità.


Lionello Venturi e la “Storia della critica d’arte”.

Un supporto didattico di partenza ad oggi indispensabile, stante la sua unicità di narrazione storica

a 360 °, è costituito dal prezioso testo di Lionello Venturi, redatto in due edizioni datate 1936 e

1948, “Storia della critica d’arte”. Il Venturi era figlio del celebre Adolfo, uno dei più importanti

storici dell’arte del periodo a cavallo tra Otto e Novecento, di quella generazione, cioè, ancora

fortemente influenzata dall’impostazione cosiddetta “filologica”, basata principalmente su di una

attenta analisi delle fonti al fine di stabilire l’esatta attribuzione dell’opera, e non poteva essere

diversamente se si pensa all’immenso patrimonio artistico da analizzare e da inventariare all’epoca

in cui le condizioni storiche e sociali permisero il venire a galla delle prime autorevoli figure di

intellettuali dediti professionalmente allo studio della storia dell’arte, pressappoco a metà dell’ 800.

Venturi figlio, cresciuto all’interno della cerchia degli allievi di Benedetto Croce, si distingue come

uno degli storici più autorevoli del Novecento italiano per vari motivi. Innanzitutto la maggiore

ampiezza di vedute rispetto all’autorevole maestro, giustificabile, non dimentichiamo, anche dalla

specificità del suo interesse per l’arte confrontato all’eterodossia intellettuale del Croce, in

particolar modo per la volontà di collegare l’analisi dell’opera e del suo autore, pur sempre visti, in

ottemperanza al detto crociano, come unità singole ed irripetibili, al tessuto sociale dell’epoca in cui

trovarono collocazione, laddove per Croce, come è noto, qualsiasi tentativo di abbozzare una storia

degli stili che prescindesse dalla dimensione dell’individuo era nettamente sconfessata. Venturi

seppe quindi collegare la sua formazione idealistica, mai rinnegata, con teorie attente all’analisi non

solo contenutistica ma anche formale dell’opera, quali la pura visibilità e, soprattutto, il pensiero di

Heinrich Wolfflin, che, con le sue celebri coppie bipolari tra cui cito, tra le altre, le dicotomie

“chiuso – aperto”, “lineare - pittoresco”, darà corpo ad un metodo di interpretazione degli stili e

della loro collocazione su di un asse sincronico, che influenzerà le più avanzate riflessioni della

critica d’arte ancora fino ai giorni nostri. Sin dall’inizio della sua carriera il Venturi si rende conto
della necessità di unire, cosa che apparirà evidente nella “Storia”, la storia della critica e quella

dell’arte, viste come due lati speculari e necessari di un lungo percorso intellettuale. A partire dalle

prime opere, come la “Critica e l’arte di Leonardo da Vinci”, del 1919, dove si sottolineava la

necessità di non separare le idee dell’artista e quelle dello scienziato e, soprattutto, il “Gusto dei

Primitivi” del 1926, centrato su di una ardita comparazione tra i pittori italiani del Tre e

Quattrocento e gli Impressionisti, visti come “primitivi” di una nuova e moderna sensibilità, Venturi

pone la sua attenzione sul concetto di “gusto” come componente non eludibile per una corretta

interpretazione dell’opera, poiché in grado di influenzare l’artista al pari della sua psicologia ed

inclinazione personale. Quindi Venturi affermava la necessità di un’analisi che prescindesse dalle

categorie date una volta per tutte, fondamento di Croce, per calare l’opera all’interno del tempo in

cui era stata prodotta, con il conseguente correlato sociale e storico che costituisce parte

fondamentale del linguaggio, ferma restando l’irriducibilità del singolo autore a farsi celare dietro la

spessa coltre di un anonimato culturale di massa. Da qui la necessità di porre in essere una vera e

propria storia della critica che scorresse su binari paralleli e di frequente comunicanti con il tessuto,

pur sempre autonomo, della storia dell’arte. Come sostenuto da Giulio Carlo Argan in un parere a

sua volta citato da Nello Ponente nella prefazione al testo del Venturi “fare della critica l’oggetto

proprio del pensiero critico significava ammettere che l’opera d’arte non esiste, come valore,

se non nel giudizio che la riconosce tale : ma appunto, i procedimenti del giudizio, i modi di

compiere l’esperienza dell’opera d’arte e di giungere a porla come valore, apparivano, nella

prospettiva storica, quanto mai diversi e difficilmente riducibili ad unità”. L’intuizione del

Venturi, quindi, pur nei limiti storici del tempo in cui si manifesta, e considerata la vorticosa ed

imprevedibile accelerazione del sistema arte avvenuta dopo il ’68, con l’avvento graduale ed

inesorabile della società post industriale può ancora, al giorno d’oggi, costituire valido stimolo ed

esempio di un approccio corretto alle attuali, fluttuanti e sfuggenti problematiche. Tenendo come

valida traccia il testo del maestro torinese, di cui ho negli anni fornito agli studenti una sintesi

ragionata, prodotta nella convinzione che Venturi, pur nella sua indubbia levatura d’intellettuale,
era figlio di un’altra epoca, ed alcuni suoi giudizi, in specie su fenomeni quali Manierismo e

Neoclassicismo, appaiono alla nostra sensibilità di contemporanei superati, venati com’erano, nel

testo originale, da pregiudizi idealistici, pur comprensibili, e dalla dicotomia “arte” e “non arte”.

Senza contare lo stile colto e brillante, ma senz’altro aulico agli occhi di uno studente che, salvo

alcuni casi di seconde lauree, ha al suo attivo studi non particolarmente approfonditi di letteratura e

filologia italiana. Fermo restando il canovaccio venturiano , questa fondamentale traccia viene

integrata da intuizioni personali e da altri robusti apporti bibliografici, che subiscono periodici

aggiornamenti, per nella immutabilità sostanziale del progetto didattico. Ho ribadito prima

l’importanza, per me, di un percorso storico che parta dalle basi ed approdi alla contemporaneità,

occupandosi di tutto quanto, ed è molto, avviene nella fascia mediana. Da questo punto di vista il

mio è un cammino regolare, sebbene aperto a frequenti digressioni e diacronie, lo si potrebbe

definire di impronta aristotelica, quindi classica. Questo potrà stupire chi si aspetta dal sottoscritto,

se ne conosce la storia, un approccio rivolto esclusivamente alla contemporaneità più ristretta.

Questa è la mia specializzazione, lo scenario della mia formazione, quanto ritengo di poter

padroneggiare. Ciò non toglie che io sia assertore, nell’ambito di una didattica universitaria quale è

quella delle Accademie di Belle Arti, di un metodo di insegnamento in grado di fornire stimoli, che

lo studente liberamente approfondirà, estesi il più possibile, tali da prevedere, accanto ad una

puntuale analisi, il più possibile in presa diretta, della scena contemporanea, un rigoroso tirocinio

storico e filosofico, nel caso delle Accademie corroborato dall’unicità del lavoro nei laboratori.

Quindi dissento da chi, erto su pulpiti in apparenza autorevoli, sostiene la necessità di un

insegnamento rivolto solo ed esclusivamente verso l’attualità. Lo svecchiamento dei programmi, il

superamento di pastoie classiciste ed inattuali, non significa rinnegare quanto di positivo c’è nella

tradizione. Certo, il colpo di fulmine spesso avviene, come fu per il mio caso, a contatto con il

quotidiano, ma questo non significa non desiderare un approfondimento storico, esigenza viceversa

manifestata da molti studenti. Quindi, pur non essendo io come formazione né un filosofo né un

filologo dell’arte, mi avvalgo di elementi tratti dalla storia di queste due discipline per comporre il
mio puzzle didattico, ed anche l’impianto teorico della mia linea di osservatore dell’ attualità. Il mio

approccio è quindi quello di uno studioso della contemporaneità, appassionato e partecipe di

quest’ultima, impegnato ad analizzarla ed a conviverci, dotato di una discreta cultura umanistica di

base costantemente innervata ed aggiornata, che tenta di trasmettere agli studenti degli stimoli che

essi potranno, se lo riterranno opportuno, ulteriormente approfondire.

Le origini della critica d’arte nella teoria estetica antica, tardo


antica e medievale

L’esordio si colloca nell’epicentro del pensiero occidentale, in quella Grecia classica del III secolo

a.C. in cui la tradizione culturale dei secoli precedenti permette di operare delle prime valutazioni

di carattere estetico sugli scopi e la natura delle arti, in precedenza valutate unitariamente come

prodotto di ispirazione divina. La narrazione di Plinio il Vecchio, nella sua “Naturalis historia”,

riferisce dei primi giudizi critici sugli artisti greci , di cui ha indirettamente notizia dai trattati

attorno alla pittura ed alla scultura di Senocrate, scultore della scuola di Lisippo, e di Antigono di

Caristo, entrambi vissuti nella prima metà del terzo secolo. È singolare notare come, nel caso di

Plinio, “historia” sia da interpretarsi secondo il significato di “indagine”, una ricerca compiuta

attorno ai misteri dell’universo naturale per permettere all’uomo di erudirsi ed essere consapevole

della sua superiorità biologica. Quindi “natura” ed “arte” per la prima volta, si confrontano dando il

via ad un dibattito che sarà centrale almeno fino alla conclusione del XIX secolo. Senocrate poneva

in essere dei giudizi precisi in merito allo stile, alla tecnica ed alla capacità compositiva di una serie

di artisti a lui coetanei od antecedenti. Non vi era un tentativo di inquadramento dell’arte all’interno

di un sistema più articolato, non sarebbe stato possibile all’epoca, La novità rilevante, da un punto

di vista formale fu, da parte del mitizzato Senocrate, avere introdotto la pratica della “letteratura

artistica”. Con il procedimento retorico dell’”ecfrasi”, il linguaggio aspirava ad evocare la forza e


la suggestione delle immagini plastiche. Rivaleggiando creativamente con queste ed introducendo

quel rapporto di complicità tra arti visive e letteratura che tanta influenza avrà in seguito, dai poeti

toscani del Duecento e del Trecento compagni di strada degli artisti, Giotto in primo luogo, che

apriranno la strada al rinnovamento della pittura, per giungere alle “correspondances” di Baudelaire

e, nel nostro Novecento, alla celebrata capacità letteraria di Roberto Longhi, solo per citare alcuni

dei più indicativi esempi. Ma questo esordio della critica d’arte nel palcoscenico culturale è dovuto

alla grande maturazione artistica e filosofica della Grecia a seguito, soprattutto, delle speculazioni

di due capisaldi del pensiero occidentale come Platone ed Aristotele, la cui influenza sarà

determinante per tutti i successivi sviluppi della storia della cultura fino ai giorni nostri, a seconda

delle mutate condizioni epocali e conseguenti ciclici ricorsi. Quindi il primo ciclo delle lezioni è

dedicato ad un’analisi di quella che può essere definita “estetica antica”, intesa come rapporto e

corrispondenza tra filosofia del bello e filosofia dell’arte, dove mi avvalgo in particolare di un testo

molto ben strutturato di Gianni Carchia, studioso torinese precocemente scomparso. Nell’estetica

antica fondamentale è il concetto di circolarità della visione in cui il vedere è corrispondente

all’essere visti, in un approccio sostanzialmente narcisista, che è comunque intimamente

connaturato all’esperienza artistica e, per molti aspetti, anche a quella critica. Grande è la rilevanza

attribuita al senso della vista, esaltata come il più nobile ed acuto tra tutti, perchè solo con la

visione noi possiamo penetrare la intima essenza delle cose, e cogliere la differenza tra il sensibile e

l’intelligibile. Tutta l’estetica classica precedente all’irrompere sulla scena di Platone è inquadrabile

nel dualismo tra la componente orfico – apollinea, alla quale egli si rifà , vista come aspirazione

all’armonia ed alla suprema conciliazione, ad una concezione dell’arte come bellezza assoluta ed

inaccessibile se non alle anime superiori ed ispirate, ed una opposta di matrice dionisiaca, in cui si

ha consapevolezza della tragedia e fallacità dell’esistenza e l’unica consolazione possibile

all’ineluttabilità del fato è data dall’accendersi pieno di una sfrenata sensualità. L’estetica di Platone

si dà a partire dalla polemica che egli instaura contro il sofista Gorgia, sostenitore di un’arte di pura

fantasia. Il pensiero di Gorgia , contrariamente a quelli che saranno i capisaldi platonici, è


essenzialmente anti – pedagogico ed anti – comunitario, e si fonda sul potere magico e suggestivo

della parola vista in una dimensione demiurgica, in grado di scaricare sullo spettatore, totalmente

passivo, una tempesta incontrollabile di emozioni. Prendendo in prestito un brano del testo di

Carchia : “In quanto poetica dell’arte per l’arte, per così dire, la poetica gorgiana prescrive

una sorta di sonnambulismo della coscienza, suggestionata e come narcotizzata da una parola,

che è sempre insieme medicina e veleno, qualcosa come un sonnifero per la coscienza”. Il

riferimento è comunque prioritariamente rivolto verso il “logos”, nel caso di Gorgia visto come

simmetrico all’espressione musicale, suprema disciplina presso gli antichi, poiché, come sostiene

Aristotele, i suoi moti sono omologhi all’intima struttura dell’animo umano mentre le arti visive,

pittura e scultura, vengono inquadrate in una dimensione gerarchica inferiore, in quanto pura

“teknè”. Platone, in netta opposizione al sofismo gorgiano, riponeva nell’arte delle attese di

carattere eminentemente didattico e pedagogico, immaginandola come strumento atto ad educare la

gioventù al compimento di nobili e rette azioni , in ottemperanza alla coesione dell’edificio

comunitario della polis. Da qui la condanna della teknè come strumento fine a sé stesso,

sostanzialmente autoreferenziale, come si evince dalla serrata critica che egli conduce nei confronti

dei rapsodi omerici, cioè di quei cantori epici dediti professionalmente alla esegesi dei poemi

omerici. Questo perché costoro, fieri della loro alta e specifica specializzazione, farebbero venir

meno l’universalità dell’espressione artistica. La quale, per Platone, non ha tanto a che fare con il

razionale o l’irrazionale, quanto con l’ultrarazionale. Per quanto concerne il concetto di mimesi, di

cui Aristotele darà una interpretazione diversa, di carattere psicologico, Platone la sosterrà

unicamente in quanto “hermeneia”, cioè interpretazione. Il poeta si pone come tramite privilegiato

tra l’uomo e la divinità e parla in sua vece. Infatti per il filosofo ispirazione significa “entusiasmo”

che, tradotto da un punto di vista etimologico, diventa “essere nel dio”, cioè porsi al di là della

dimensione del contingente e del terreno, quindi della materia. In Platone è presente una sfiducia

nella percezione come attività dotata di intelligenza autonoma. I sensi sono fallaci, anche la vista

quindi lo è, a meno che non si sottoponga al superiore filtro mentale. Il pittore, e l’artista visivo in
generale, nei casi in cui Platone fa specifica menzione di queste arti meccaniche, deve quindi

riprodurre il reale in maniera rigorosamente oggettiva, mentre il poeta, od il musicista, deve

spersonalizzarsi per porsi in contatto diretto con il divino, con la Musa. Il concetto di bello ha

quindi senso se si pone in relazione con il bene, interpretazione che, in epoca tardo antica, sarà

ripresa da colui che venne considerato il più significativo continuatore del pensiero platonico, cioè

Plotino. Ma l’altro grande nume tutelare del pensiero occidentale è indubbiamente Aristotele, che

con il pensiero di Platone si confronta avvalorandone alcune tesi, particolarmente riguardo la

funzione pedagogica dell’arte, ma differenziandosi nettamente su altre. Il pensiero aristotelico è

maggiormente “secolarizzato”, e certo più vicino al nostro modo di pensare. Scrive Carchia :

“Rispetto alla costruzione platonica, Aristotele, trattando nell’ottavo libro della “Politica”

della “mousike” e del suo ruolo nell’educazione del cittadino, evidenzia soprattutto il

carattere di libertà e la dimensione emancipatrice insiti in una tale educazione. Mentre in

Platone viene sottolineato il carattere di disciplina, di regola, dell’educazione musicale,

Aristotele insiste su una nozione che è già affine a quella latina dell’”otium”. In effetti il

cittadino di Aristotele vive in una polis che ha già tratti ellenistici, in cui, più che l’elemento

della coesione sociale, si sottolinea la dimensione della libera espressione dell’individuo.

L’opposizione fondamentale è quella fra il carattere servile della pratica manuale ed il

carattere libero della “theoria”, alle quale, in ultima analisi, appartiene anche l’arte”. Ma il

dato saliente, per l’ambito dell’arte, in Aristotele, è dato dal concetto di mimesi, che differisce

totalmente dal pensiero platonico, ed introduce per la prima volta il grande tema del naturalismo.

Dal testo : “Proprio in quanto techne, per Aristotele, l’arte non sta più nella regione di una

mimesi insidiata dall’illusione e dall’inganno. In quanto mimesi, l’arte è qui realmente

produttiva, nel senso che mimesi significa ora operare come la natura, come la “pausi”.

Occorre, per chiarire questo punto, rifarsi brevemente alla concezione generale propria di

Aristotele, quanto al rapporto tra natura ed arte. Come risulta chiaro soprattutto dalle analisi

contenute nel libro secondo della “Fisica”, per Aristotele, l’arte umana è solo un caso
particolare di un’arte più generale e profonda, caratteristica della natura. L’elemento

fondamentale che accomuna arte e natura è la presenza, in entrambe, della dimensione della

potenza e della materia, il fatto cioè che esse non siano atto puro, ma siano processo,

svolgimento. La sola differenza, da questo punto di vista, è il fatto che, nell’arte, l’elemento

contingente (e, dunque, anche quello finalistico ), è più fortemente accentuato, perché la

materia ha in essa un’indipendenza incomparabilmente maggiore che nel prodotto naturale”

Come è noto ai più, per Aristotele il compendio artistico per eccellenza è la tragedia, allestita con

modalità che paiono preludere, per usare un linguaggio dell’oggi, ad un approccio scenico

multidisciplinare : “Dal punto di vista di una comprensione non emotiva, ma puramente

razionale, l’elemento essenziale della tragedia, in termini metafisici la sua sostanza, è

costituito dal “mythos”, vale a dire l’intreccio dell’azione. Si dà una connessione fra la

mimesi, nell’accezione descritta dal capitolo quarto della “poetica”, e il “mythos” : se la

mimesi è legata, fondamentalmente, al processo dell’apprendere come un ri-conoscere, il

“mythos” tragico, allo stesso modo, si contraddistingue per il fatto di individuare una trama,

un nesso di significato, entro la dispersività altrimenti caotica degli accadimenti mondani”.

L’intreccio e gli accadimenti dell’azione tragica, costruita rigorosamente attorno ad uno schema che

prevede un principio, una fase mediana ed un finale, hanno come effetto ultimo l’induzione alla

catarsi, alla liberazione emotiva che porta alla consapevolezza di poter modificare il proprio

destino. Da questo punto di vista Aristotele può a buona ragione essere definito, come acutamente

fatto notare da Maurizio Ferraris in un suo articolo apparso su “Repubblica”, un anticipatore delle

tematiche estetiche della “fiction” contemporanea, soprattutto in merito alla innovazione introdotta

dalla grandi serie televisive americane degli anni Zero. Oltre il fondamentale saggio di Carchia,

osservazioni interessanti sono poste in essere in un saggio di Tiziana Andina , docente di Filosofia

Teoretica presso l'Università di Torino, dal titolo “Filosofie dell'arte. Da Hegel a Danto”. In questo

volume la Andina si concentra su di una storia della filosofia dell'arte, disciplina che trova nel

Novecento il suo apogeo, ed ha nel critico statuinitense Artur Danto il suo esponente più
significativo, ma, come spesso avviene, trova nella classicità greca la sua origine. Nel primo

capitolo, initolato “Il Novecento e la lunga storia della teoria imitativa”, viene citato il celebre

dipinto di Magritte”Ceci n'est pas une pipe”, esempio emblematico per una teoria imitativa dell'arte

e per l'istituirsi di un suo parallelismo con il linguaggio. Si tratta, in entrambi i casi, di strutture

fisiche che veicolano dei significati. Dal testo, sempre in riferimento all'opera di Magritte che, come

è noto, rappresenta una pipa corredata da una didascalia : “ Come nota a giusto titolo Michel

Foucault la didascalia, parlando letteralmente, spiega una cosa vera, a cui però il più delle

volte non prestiamo l'attenzione dovuta. Evidentemente l'opera di Magritte “non” è una pipa

; per intenderci, Sherlock Holmes non potrebbe fumarla, perchè si tratta di un'opera e questa,

casomai, “rappresenta” la pipa. Potrebbe sembrare una questione banale, ma si tratta di un

punto di vista decisivo per comprendere la natura della domanda ontologica legata all'arte.

Platone ed Aristotele avrebbero sostenuto che l'opera imita la pipa...Entrambi sono

accomunati dall'idea che l'arte è in primo luogo mimesi, la differenza, casomai, è nelle

rispettive conclusioni : Platone ritiene che l'arte sia inutile e dannosa, mentra Aristotele le

accorda una finalità specifica”. Quindi citando la famosa metafora della casa, per Platone il

disegno di quest'ultima, per quanto icastico, detiene valore assai relativo se paragonato ad una casa

vera e propria, con tanto di tetto e fondamenta, ma anche quest'ultima non è altro che ricalco

dell'idea di casa, collocata in quella dimensione ultraterrana che è l'unica a contare davvero.

Aristotele influenza indubbiamente la lunga e significativa parentesi dell’ellenismo, e delle teorie

critiche ed estetiche che ivi si manifestano. “Dall'argomento Platone deriva due conseguenze ;:

a)le opere sono prodotti residuali, è più importante “saper condurre” eserciti di quanto non lo

sia “saper parlare” della conduzione di eserciti (dunque, per esempio, scrivere poemi epici, b)

gli artisti e le opere d'arte devono essere banditi dallo stato ideale” Platone era, in realtà,

perfettamente conscio della potenza degli atti artistici, soprattutto quelli centrati sull'oralità e la

rappresentazione. La diffidenza è giustificata dalla sua visione politica, contenuta nella

“Repubblica” che vedeva lo stato ideale governato dai filosofi, “... la filosofia può aspirare,
legittimamente, ad assumersi il compito di descrivere le strutture della realtà, e a guidarci

verso una loro comprensione ragionata. L'arte, invece, ha la possibilità di determinare le

azioni, e le azioni, lo sappiamo bene, hanno un impatto sul mondo....In altre parole, mentre un

buon esempio può spingere a compiere una azione valorosa, un cattivo esempio può

indirizzare a compiere azioni vili oppure malvage”. Con ciò si deduce una fiducia assai scarsa da

parte di Platone nei confronti del libero arbitrio umano, come se la rappresentazione teatrale di un

delitto, oppure la sua raffigurazione pittorica, potesse quasi conseguenzialmente indurci a compiere

la medesima azione. Viceversa Aristotele, pur avvalorando le tesi della teoria imitativa, in coerenza

con la sua impostazione filosofica, ritiene che l'arte sia dotata di leggi e di regole sue proprie. Non

siamo certo all'affermazione dell'autonomia dell'arte, ma si tratta di un sensibile passo in avanti :

“Quelle cose che ci fanno soffrire quando le vediamo nella realtà ci recano piacere se le

osserviamo in immagini che siano il più possibile fedeli, come i disegni delle bestie più sordide

o i cadaveri( Poetica, 4,2). La Andina si sofferma , poi, sulla modernità delle posizioni di

Aristotele e sull'influenza sulle successive correnti di pensiero e sul dibattito relativo alla

definizione dell'opera d'arte : “Vedremo nelle prossime pagine come queste idee seminali di

Aristotele abbiano dato corpo a due orientamenti teorici che toccano il problema della

definizione dal lato dell'esperienza estetica : il primo concerne la possibilità di elaborare una

definizione che si fondi sulle proprietà estetiche delle opere d'arte ; il secondo riguarda invece

la possibilità di articolare una definizione che si concentri sul legame emozionale che lega

opere e fruitore”. La differenza sostanziale tra estetica e filosofia dell'arte. Ritornando ad un asse

storico, l’ellenismo è la fase della prima sedimentazione dei valori culturali, il periodo in cui il mito

e la classicità si iscrivono in un universo secolarizzato. La dissoluzione della polis greca tra la morte

di Alessandro nel 323 a.C,. e la scomparsa del regno dei Lagidi in Egitto nel 30 a. C. , genera la sua

metamorfosi in ambito geografico allargato, quando i valori tradizionali della grecità si fondono e

si integrano all’interno di sistemi statali assai ampi e complessi, dove convivono popolazioni

variegate quanto ad usi, costumi, livelli di acculturazione, in quella che si può definire, per usare
terminologie attuali, una prima globalizzazione in cui, contrariamente ad oggi, si posero le basi per

una armonica convivenza di civiltà. La metafisica stoica ha mantenuto sostanzialmente intatta la

propria radice costitutiva per cinque secoli e, come ben rilevato da Carchia nel suo saggio, il suo

aspetto di maggiore rilevanza ed attualità è che essa non si muove più nella dimensione della forma

ma in quella dell’evento. Da questo punto di vista non si può non rilevare una significativa

convergenza con le esperienze dell’avanguardia del secondo Novecento, in particolar modo con

l’ambito della “performance”. Infatti la figura esemplare dell’ l’estetica stoica è quella del danzatore

, il cui agire si manifesta nel “qui ed ora” del presente, in un’eternità racchiusa nell’istante del suo

manifestarsi. Il danzatore, così come l’attore, coniuga la dimensione dell’azione, centrale nel

pensiero stoico, con quella dello spettacolo, in un divenire spontaneo ma non casuale perché fatto di

applicazione, regole, tirocinio. Lo scopo dell’arte non è visto quindi come qualcosa che sta

comunque “al di fuori”, ma come pratica auto fondante non priva, però, di una fondamentale

moralità dell’azione. Coerentemente con questo fine morale l’arte non conta in quanto prodotto,

manufatto magari fissato in una dimensione statica ed atemporale come nella visione platonica, ma

come continua processualità, ininterrotto divenire : la concretizzazione dell’idea e dell’azione in un

opera contiene i presupposti del suo superamento, alla stregua di un “work in progress”. La

rivalutazione della “technè” fu già operata da Aristotele, che la vedeva comunque confinata in un

ambito specialistico, non consono professionalmente alle classi dirigenti che dovevano altresì

coltivare, raggiunta la maturità e l’affermazione sociale ed economica, la dimensione dell’”otium”

visto come raggiungimento di uno stato di felicità tramite la liberazione dai vincoli materiali del

quotidiano e conseguente capacità di godere dei piaceri della sfera artistica, la musica in primo

luogo, per la sua struttura sintonica ai moti dell’anima. Certamente il concetto di mimesi viene dagli

stoici, e dagli ellenisti in genere viene portato a conseguenze radicali rispetto all’impostazione

originaria. Andando avanti nel tempo bisogna rimarcare come l’estetica del periodo ellenistico si

manifesta propensa a delineare un concetto di autonomia dell’arte estraneo alla dimensione classica

del mito, il quale viene iscritto in un orizzonte linguistico e decodificato, interpretato, secondo un
procedimento ermeneutico. Questo è senza dubbio il dato più rilevante per la storia della critica :

per la prima volta, nella storia della cultura occidentale, viene introdotto il concetto di citazione, e la

storia della cultura interrompe il suo percorso vettoriale per volgersi all’indietro verso le sue radici,

il suo passato. Al concetto di imitazione, caposaldo del pensiero aristotelico e vera antitesi rispetto

a quello platonico, un’imitazione vista come attività fondamentale per l’apprendimento, deriva

anche una rivalutazione della percezione come attività intelligente, subentra il più tornito concetto

di “emulazione”. Questa introduce l’importanza dell’interpretazione : di fronte alla grande lezione

del passato, un passato collocato in una dimensione auratica, nell’impossibilità di porre in essere, a

cospetto di tanta grandezza, significativi margini di innovazione, non rimane che attenersi ai

classici, cercando di trarre da essi valida lezione. È il trionfo, in età alessandrina, della retorica,

della capacità di stupire con il virtuosismo della parola, scritta o declamata, l’affermazione di una

concezione artistica vissuta come esaltazione della “technè”. E tutto ciò rimanda a quella che sarà,

molti secoli dopo, la stagione del Manierismo, la quale, a sua volta, fungerà da significativa pezza

d’appoggio per teorizzare ed organizzare la post modernità , cioè quel periodo che ha il suo esordio

dopo il 1975, con la citazione ed il “ritorno alla pittura”. Ma anche l’arte ellenistica, nelle sue

concrete espressioni, si manifesta come palesemente anticlassica e precorritrice della modernità : il

gruppo scultoreo del Laooconte, ad esempio, con la sua disposizione intrecciata ed ipotattica, non

può non far venire in mente la grande scultura barocca, ad esempio quella del Bernini. Nel

contempo si evidenziano elementi di novità nei termini di una più complessa ed articolata

complessità formale anche nella pittura dell’epoca, che si sviluppa soprattutto a livello di

decorazione parietale, mentre conosce una notevole diffusione la tecnica del mosaico. La crescente

secolarizzazione della società tardo ellenistica, l’esaltazione della dimensione individuale a scapito

di quella comunitaria tipica dell’antica polis greca, portano ad un trionfo del più esasperato e

raffinato formalismo e ad una netta prevalenza, nell’ambito di quelle che sono le categorie della

logistica aristotelica, della retorica, sulla base della divulgazione, operata da Orazio con la sua “Ars

poetica”, di quei capisaldi dell’estetica antica che furono la “Poetica” e la “Retorica”. Quindi il
“Logos”, la parola, non si pone più sotto l’esclusivo dominio dei componimenti poetici di ampio

respiro e, tantomeno, sotto l’egida ispiratrice di una dimensione sovrannaturale, ma concede invece

ampio spazio ai brani brevi ed al potere magico ed incantatore della parola declamata, in grado di

suscitare consenso ed ammirazione nei fruitori, con il tramite del “pathos”, categoria emotiva atta a

riscaldare gli animi, persuasi poi dal più mite e benevolo tratteggio dei valori morali dell’oratore

tipici dell’”ethos”. Ma il crollo dell’edificio classico, eroso e minato alle sue fondamenta, non era

destinato a durare in eterno. Osservando con attenzione l’evolversi fenomenologico della storia

della cultura, dove è naturalmente compresa l’arte, come elemento organico e non isolato, si nota un

ripresentarsi ciclico degli eventi, naturalmente con modi e maniere mutati, ed a diverse quote di

sorvolo, secondo uno schema che, non è, come molti credono, vettoriale, ma assomiglia semmai al

moto di un grafo spiraliforme. Nel primo secolo dopo Cristo, secondo stime attendibili, è collocato

temporalmente il trattato “Del sublime”, convenzionalmente attribuito allo Pseudo Longino, e molto

citato nei manuali di estetica, in particolare in quelli in cui appare più evidente la relazione

contenutistica con i temi della storia dell’arte. In un periodo storico in cui la tradizione classica si

disperde nei mille rivoli retorici della critica letteraria tardo antica lo Pseudo Longino, o chi per lui,

opera una significativa inversione di tendenza. Nel trattato non si sottovaluta l’importanza della

“technè” : i tempi dell’interdetto platonico sono ormai lontani. Quanto si sottolinea è che essa si

deve accompagnare, affinchè il progetto estetico sia compiuto, alla forza di un animo nobile ed

ispirato, in grado di suscitare passioni elevate e capace di volgere nuovamente uno sguardo

partecipe alla contemplazione dell’universo naturale. Anche la lezione dei grandi autori del passato,

di cui viene rivalutata la dimensione mitica ed esemplare, non può ridursi alla sola emulazione, al

ricalco dei canoni formali, ma andare oltre. Occorre, per lo Pseudo Longino, porsi in sintonia con i

classici, approdare ad una comunione spirituale con loro, e quindi ad una dimensione ermeneutica.

La teoria dello Pseudo Longino funge da battistrada ideologico ad un gigante come Plotino, con cui

abbiamo, nel secondo secolo dopo Cristo, una piena rivalutazione del pensiero greco dell’età

classica, con successivi ricorsi storici, come rilevato da Gianni Carchia, nella storia del pensiero
occidentale : dal neoplatonismo dell’umanesimo rinascimentale a Goethe, dall’idealismo tedesco a

Schopenhauer e a Bergson, tutte correnti e personalità caratterizzate dall’irrazionalismo che, col

tramite ultimo del filosofo francese, giungerà fino alla fase delle avanguardie storiche. Pur con una

prevalenza della filosofia platonica come fonte di ispirazione, nella teoria di Plotino si concretizza

un compendio ideale della classicità greca, con evidenti richiami ad Aristotele per quanto concerne

l’idea di forma, segno che anche la stagione ellenistica non è passata invano. La bellezza, secondo

Plotino, è strettamente correlata al bene. È l’eros, l’amore inteso come grazia ed ispirazione divina,

a rendere la Bellezza viva ed apprezzabile e non fallace ingannatrice dei sensi, riflessione in cui

appare evidente l’influsso platonico. Plotino condanna qualsiasi concezione rigida della bellezza,

che è luce e splendore, secondo la teoria dell’ “emanazione” divina, riscontrabile nelle religioni

orientali : non si deve dimenticare che Plotino è un grande mistico ma non è un autore cristiano. Dal

punto di vista della storia, ed anche di una anticipazione del concetto di autonomia dell’arte, appare

significativa la dicotomia instaurata tra materia e forma : la prima è bruttezza caratterizzata

dall’assenza di forma, entità non valutabile e non visibile, vuoto assoluto. La materia prende vita

solo in presenza della forma, e quest’ultima, emanazione del divino, assume corpo in virtù della

visione interiore che ne permette la percezione. Da questo assunto deriva il celebre brano, citato

anche dal Venturi, in cui l’artista, ispirato dalla comunione con il divino, dà vita al grezzo blocco di

marmo non tanto in virtù del primato manuale, ma di quello mentale, ispirato dall’alto, in una

dialettica circolare tra interno ed esterno che sarà uno dei temi fondanti l’interpretazione dell’arte,

della sua genesi e delle sue profonde motivazioni, in una logica che prefigura il concetto di

autonomia. Concetto di autonomia che, per quanto possa apparire paradossale, trova nella lunga

stagione storica cui filosoficamente Plotino fa da battistrada una più marcata esplicazione. Infatti è

lungo il crinale medievale che gli artisti si svincolano dal criterio mimetico di rappresentazione

della natura, in virtù di un’espressività prevalentemente aniconica. Il medioevo, almeno quello

storicamente accettato come tale, è collocato tra il V ed il XV secolo, anche se arguti studiosi come

Le Goff hanno, non senza ragione, sostenuto che esso dovrebbe comprendere nel suo interno tutto
quanto avviene almeno fino alla Rivoluzione Francese, l’evento che sancisce in maniera

inequivocabile il crollo dell’”ancien regime” . Quella medievale è una fase dove, soprattutto nei

primi secoli, la critica intesa non solo come teoria ma anche come cronaca dell’arte non compie

alcun passo in avanti : in quel periodo notiamo un proliferare di testi relativi all’ornato ed alla

decorazione, trattati di ottica, ma nulla che riguardi da vicino il concetto di arte e la vita del suoi

protagonisti. Ciò non significa che l’arte medievale non presenti aspetti di notevole interesse : la sua

estetica spiccatamente pre - moderna rivela, al contrario, insospettabili punti di tangenza con la

nostra post modernità. Questo per la già citata aniconicità delle opere, in cui la figura umana è posta

in primo piano, generalmente su sfondi oro dove è assente la profondità di campo prospettica, ed

anche, esempio più lampante, per una tecnica come il mosaico in cui il reticolo di tasselli presenta,

in termini di “bassa definizione” dell’immagine, degli evidenti punti di somiglianza con i pixel che

compongono l’icona computerizzata. Non dobbiamo poi dimenticare come, quanto meno per tutto il

periodo del cosiddetto Alto Medioevo, le testimonianze dirette sull’arte risentono del fatto che le

figure dei protagonisti siano ammantate dal più rigoroso anonimato. L’espressione artistica è vissuta

come espressione diretta della comunità di appartenenza, che, a sua volta, col tramite dell’”artifex”

,è rivolta verso l’adorazione della gloria del Signore. L’artista – artigiano è impegnato a forgiare la

materia, un materiale nettamente gregario rispetto alla prevalenza del mondo delle idee. La sua

funzione è limitata alla “bassa” didattica. Dice papa Gregorio Magno nel VII secolo che “la pittura

per gli analfabeti è ciò che la scrittura è per i letterati”. Questa visione, per certi aspetti

storicamente concreta, per altri marcatamente idealistica, della funzione comunitaria e spirituale

dell’arte, trovò in seguito larga eco nell’Ottocento all’interno delle varie correnti romantiche che si

opponevano all’alienazione introdotta dall’avvento della Rivoluzione Industriale denunciando, non

senza una certa dose di ragione alla luce delle esperienze dell’oggi, il rischio della serializzazione

della pratica dell’arte e della riduzione del manufatto artistico a “merce tra le merci”. Basti pensare

all’affermazione di John Ruskin a difesa dei Preraffaelliti accusati di eccessiva leziosità. Il grande

critico inglese sosteneva la religiosità della Confraternita Preraffaellita in quanto la loro “perdita di
tempo era una perdita del tempo”, un annullamento, uno sprofondare in una dimensione “altra”.

Anche di recente alcune teorie critiche hanno posto l’accento sulla rivalutazione della dimensione

comunitaria, intesa come annullamento delle singole personalità dietro “marchi” anonimi, e vista

come strumento di guerriglia e disturbo all’interno dell’apparato comunicativo globalizzato della

contemporaneità avanzata, aspetti su cui tornerò più avanti. Se è sostanzialmente nullo il progresso

della critica, intesa anche solo nella formula convenzionale della cronaca, così non è per l’estetica e

la speculazione filosofica. Agostino, contrariamente a Plotino, sostiene la trascendenza divina

rispetto al mondo e autorizza, da un punto di vista estetico, il “brutto”, in opposizione alla

tradizione classica greca di matrice platonica, perché esso è elemento del creato, legittimato dalla

sofferenza del Cristo sulla croce . Molti secoli dopo Tommaso d’Aquino, colui che codificò

l’aristotelismo facendone la struttura portante non solo della religione ma dell’intero edificio

culturale occidentale, in omaggio all’importanza che nel pensiero del filosofo greco ebbe il concetto

di imitazione, concede piena liceità alla fantasia, necessaria per la rappresentazione anche dell’

inesistente. Dice Tommaso D'Aquino : “Il bello ed il bene si identificano nel soggetto, perchè si

fondano sulla medesima realtà, cioè sulla forma, e per questo ciò che è buono è lodato come

bello”. Riporto alcune coniderazioni tratte dall'intervento dello storico dell'arte Rodolfo Papa sul

tema “Bellezza ed arte alla luce di San Tommaso”, svoltosi presso l'Abbazia di Fossanova nel

maggio 2006 : “L'arte, dunque, implica un “fare” (facere), diverso dall' “agire” (agere), in

quanto transitivamente rivolto verso gli oggetti esterni. Per certi versi, le arti figurative

rappresentano l'arte per eccellenza in quanto l'oggetto esterno (l'opera d'arte) qualifica il loro

“facere” come essenzialmente produttivo, poietico. L'arte è sempre un'azione transitiva,

finalizzata a qualcosa che non coincide con il soggetto che fa arte. L'arte, soprattutto, implica

una “ratio”, una “recta ratio”. In altri luoghi S. Tommaso usa l'espressione “ordinatio

rationis”, ovvero ordinamento della ragione, in ogni modo l'arte viene riconosciuta entro un

dominio razionale, peculiarmente umano. L'arte è un prodotto dello spirito, è un fare

razionale, sia essa arte liberale o arte meccanica. Questa razionalità consente all'artista di
imprimere una forma nella materia. A questo può essere sinteticamente ricondotta l'azione

creatrice dell'artista : a un sapere informare, in certo modo, la materia. Ciò implica, a mio

avviso, una seria considerazione della “pre-meditazione” del fare artistico che non è mai, o

mai dovrebbe essere, un pasticciare con la materia senza progettualità, senza finalità, senza

cultura”. Tutto ciò riporta a quella che fu l’arte principale del Medioevo, cioè l’architettura, ed

alla nuova fase che esordisce a partire dal 1100. Precedentemente all’anno Mille le creazioni

artistiche degne di maggior rilievo, come le cattedrali, si edificano grazie allo sforzo collettivo di

una molteplicità di artigiani ed artisti che agiscono in virtù di quel vincolo comunitario che di fatto

oscurava il valore e, soprattutto, la nomea del singolo. L’ingresso nel nuovo millennio segna una

graduale inversione di tendenza : basti pensare, per restare in Italia, alla fama che circonda già in

vita Lanfranco e Wiligelmo, rispettivamente architetto e scultore della cattedrale di Modena. Nel

Trecento assistiamo alla promozione soprattutto di architetti e scultori, coloro che forgiano la

materia, secondo la teoria plotiniana, i primi artisti a cercare di fuoriuscire dal ghetto delle “arti

meccaniche” in virtù del ruolo di coordinamento operativo che li contraddistingue nell’attività di

costruzione degli edifici commissionati dai potenti dell’epoca, cimento che li avvicina, anche se

ancora non li sovrappone, ai maestri delle arti liberali e delle nascenti facoltà universitarie.

L’architettura, dicevo prima, arte aniconica per eccellenza, simboleggia l’estetica del Medioevo e

ne sintetizza l’essenza nell’edificio religioso : la chiesa romanica prima, la cattedrale gotica poi. E

sarà la disputa tra cluniacensi, sostenitori di una decorazione ricca di oro ed orpelli avente lo scopo

di celebrare in questo modo la grandezza divina, e cistercensi, fautori di un rigore ed ascetismo di

comportamenti che trovasse immediata omologia in un architettura lineare e rigorosa, a dare il via

ad una fase di rinascenza artistica che genererà a sua volta la ripresa di una scrittura sull’arte

nuovamente vicina ad una critica di essa, il tutto in parallelo ai movimenti di contestazione religiosa

alla secolarizzazione ed al potere della Chiesa come il francescanesimo da cui si genereranno i

primi semi di quella che sarà poi la Riforma Protestante, fenomeno fondamentale per comprendere

gli sviluppi non solo della storia europea ma anche dell’arte, in termini estetici ma anche e
soprattutto istituzionali. La scrittura sull’arte riprende quindi a contatto con la rinascenza politica,

culturale e religiosa dell’Italia. A Firenze i grandi poeti e letterati, dalla seconda metà del Duecento

a tutto il Trecento, decantano le lodi dei loro colleghi artisti. Dante, Boccaccio e Petrarca si

affiancano a Cimabue, Giotto, Simone Martini, e agli artisti toscani del loro tempo, ponendo in

comunione letteratura ed arti visive,con la pittura vista come esercizio illusionistico ma anche

spirituale. In quell’epoca si ricerca una nuova verginità espressiva , mentre la novità formale più

rilevante sarà il ritorno della composizione, ed un primo abbozzo di prospettiva, intesa nel senso

della profondità spaziale. Alla fine del 1300 il pittore toscano Cennino Cennini, allievo di Agnolo

Gaddi, figlio di Taddeo a sua volta seguace di Giotto, pubblica il “Libro dell’Arte”, testo che segna

il ritorno sulla scena della saggistica critica. Oltre alle consuete disquisizioni tecniche ed

all’osservazione significativa sulla capacità dell’artista non di copiare ma di reinventare la natura, la

novità di questo testo sta nello sguardo che il Cennini getta all’interno della vita e della disciplina

delle botteghe , che con il loro apparire manifestano l’insorgenza del primo embrione di un “sistema

dell’arte”.

Il Rinascimento e la stagione moderna

Gli accadimenti prima citati fanno da viatico all’ingresso nel Quattrocento, il secolo del

Rinascimento e dell’avvio di quella che culturologicamente si definisce stagione “moderna”. Questo

periodo , per lungo tempo considerato, dagli storici dell’arte tra metà Ottocento e primo Novecento,

l’unica fase aurea, di vera ed indiscutibile grandezza, dell’arte italiana, dal punto di vista della

storia della critica si caratterizza per la presenza di artisti in grado di produrre teorie di assoluta

rilevanza. L’esordio della modernità, di una stagione che, dalla metà del Quattrocento, affronterà un

lungo cammino fino alla metà dell’Ottocento, ed ancora affiancherà il cammino dell’esordiente

stagione contemporanea almeno fino agli anni ’60 del secolo scorso, deve molto a Leon Battista
Alberti. Pittore, architetto, filosofo e precursore dell’estetica, Alberti è il prototipo dell’intellettuale

rinascimentale, poliedrico ed aperto al mondo, mosso dal desiderio, di comprenderlo, spiegarne le

leggi e dominarlo, quasi come un nuovo Dio in terra, essendo dall’Altissimo stato creato a sua

immagine e somiglianza. Per fare ciò l’artista non doveva agire a caso ma, novello scienziato,

dotarsi di regole. Con le regole da Alberti suggerite la pittura privilegia la visione plastica, esalta il

chiaroscuro e l’ombra, rigetta l’uso dello sfondo in oro, simbolo della stagione medievale e della

sua visione ultraterrena, perché in antitesi con un concetto di riproduzione naturalistica e

“scientifica”. Nel 1435 Alberti, dando alle stampe il suo “Trattato della pittura”, dà veste e forma

alla prospettiva rinascimentale, una tipologia di inquadramento dello spazio la cui valenza non è

solo tecnica ma fortemente culturale e riassuntiva della sensibilità globale di un periodo storico,

come venne acutamente notato da Erwin Panofsky nel saggio del 1927 “La prospettiva come forma

simbolica”. Siamo agli esordi della stagione moderna e, come venne poi spiegato da uno dei più

insigni teorici della comunicazione ,il canadese Marshall MacLuhan , negli anni Sessanta del secolo

scorso, la prospettiva andava posta in stretta omologia con un’altra invenzione quasi coeva,

appartenente non già al mondo delle idee ma a quello delle applicazioni pratiche di queste ultime,

senza le quali il mondo sarebbe un meccanismo inerte, la cultura materiale e tecnologica, in questo

caso rappresentata dalla stampa a caratteri mobili di Gutenberg, apparsa attorno al 1450. Non si può

non notare, dal punto di vista della teoria della percezione, come il metodo prospettico sia del tutto

conforme alle modalità con le quali noi leggiamo , investendo la pagina stampata con una visione

monoculare che ne rispetta la morfologia rigorosamente quadrangolare. L’importanza della stampa

per il progresso della comunicazione, e per l’acculturamento graduale della civiltà occidentale, è

talmente evidente da far apparire superfluo il menzionarlo. Ma altri eventi di grande portata

avvengono in quegli anni e nei decenni successivi, quindi in un lasso di tempo breve se riportato ai

ritmi di mutazione storica e culturale dell’antichità e del Medioevo. Nel 1453 abbiamo la definitiva

caduta di Costantinopoli, la “nuova Roma”, con il baricentro dell’Oriente che si sposta su Mosca, la

“terza Roma”, destinata a ricoprire un ruolo crescente fino alla rivoluzione d’Ottobre, e nel 1492,
con la scoperta attribuita a Cristoforo Colombo, abbiamo il primo manifestarsi sulla scena di quella

che sarà destinata a diventare la potenza egemone dello scenario mondiale, uno dei luoghi di traino

del dettato della modernità inteso come incessante progresso tecnico e giuridico e, al nostro

presente, il capofila di un sistema dell’arte sempre più complesso, gli Stati Uniti d’America.

Dal punto di vista della storia della critica, la personalità più rilevante opererà a stagione

rinascimentale ormai ampiamente conclusa, nel pieno della temperie manierista. Giorgio Vasari è sì

pittore ed architetto di non trascurabile rilievo, ma è soprattutto uomo di cultura eclettica,

principalmente letteraria e generalmente erudita. In due stesure, la prima nel 1550, la seconda nel

1568, Vasari pubblica la sua più celebre opera, le “Vite de ’ più eccellenti architetti, scultori e

pittori”. Questo ampio saggio è da considerarsi il primo vero testo di critica d’arte dato alle stampe,

laddove per critica si intende l’attenzione al dato cronologico, alla contemporaneità dei processi in

atto, all’interpretazione del dato formale in chiave storica e psicologica. Ad onta del titolo che non

si discosta da quello convenzionale di molti saggi precedenti e successivi, il testo di Vasari è

rivoluzionario per due motivi. Innanzitutto la messe di dati biografici e storici contenuti, frutto di

autentica passione e capacità documentaria, costituirà un insostituibile punto di riferimento per i

pionieri della critica d’arte ottocentesca, impegnati nel difficile lavoro filologico dell’attribuzione.

Ma soprattutto Vasari sarà capace di anticipare gli esiti più avanzati della critica del primo, ma

anche del secondo Novecento, suddividendo l’arte a lui precedente e coeva tramite il celebre

metodo classificatorio delle “tre maniere”. Nella seconda edizione delle “Vite” l’autore individua la

“prima maniera” come riferita alla rinascenza pittorica tra Due e Trecento, quindi Cimabue, Giotto,

i Senesi, stigmatizzando la ripresa di una figurazione intrisa di spiritualità dopo l’eccesso di ornato e

decorazione del Basso Medioevo. La seconda maniera è quella caratterizzata da un primo utilizzo

della prospettiva. Ma si tratta di un prospettiva non scientifica, legata all’Umanesimo, quindi al

rifiorire degli studi classici e del culto dell’antico. La concezione di fondo è antropocentrica, vede la
figura umana rigorosamente al centro della composizione. I piani visivi si alternano secondo uno

schema rigorosamente matematico, con l’artista in grado di disporre tutti gli elementi della visione

con un metodo di cui detiene assoluta padronanza. La seconda maniera scorre lungo l’asse

temporale del Quattrocento percorrendolo quasi per intero, seguendo il ritmo di tre ondate

generazionali. La prima, quella dei nati attorno al 1400 come il Masaccio, Beato Angelico, Paolo

Uccello ; la seconda comprendente la fascia di nati tra 1420 e 1430, cioè Piero della Francesca,

Antonello da Messina e Andrea Mantegna, mentre la terza copre il periodo tra 1440 e 1460. In

quest’ambito, dove figurano anche il Perugino ed il Pinturicchio, artisti come Signorelli e,

soprattutto, Botticelli, sembrano quasi arrestare la corsa verso una piena applicazione del metodo

prospettico, accentuando l’attenzione all’anatomia umana, allentando la visione in profondità,

costellando la composizione di simbologie colte, filosofiche, letterarie, astrologiche e riferite alla

committenza, con un stile ermetico che farà la fortuna della critica iconologica di Warburg. La

“terza maniera” sarà introdotta da un geniale fuori quota, nato nel 1452, che avrebbe quindi dovuto

dipingere come Botticelli, ma è invece da lui molto distante, quanto ad iconografia e motivazioni. Si

tratta, come è facile intuire, di Leonardo Da Vinci ,che saprà precorrere il cammino della modernità

gettandone le basi anche da un punto di vita empirico, nonché teorico. Per lui la pittura non è puro

esercizio di stile, aspirazione al bello, ma rigoroso tirocinio concettuale al quale l’artista approda

con l’esperienza “madre di ogni certezza”. La pittura è, in buona sostanza, “scienza in atto” e

Leonardo si definisce, per prendere le distanze dai canoni dell’Umanesimo neoplatonico “omo

sanza lettere”, tant’è che apprese il latino solo in età avanzata. Le osservazioni di Leonardo, che

darà quindi anche lui il suo contributo alla storia della critica, la critica fatta dagli artisti, saranno

raccolte in un volume di manoscritti dal suo esecutore testamentario Francesco Melzi, con il titolo

generico di “Trattato della pittura”. Qui abbiamo la codificazione dell’utilizzo letterale ed ortodosso

della prospettiva; lo sfumato, il chiaroscuro, la diluizione della figura umana nell’ambiente, un

liquido senso di profondità spaziale. Leonardo è un anticipatore, come lo sarà Cezanne quattro

secoli dopo, la sua lezione sarà ripresa, e diventerà patrimonio comune, tramite artisti che
rappresentano l’essenza del classico come Raffaello, Giorgione, Tiziano, Andrea del Sarto,

Sebastiano del Piombo.

Il Manierismo e la stagione Barocca

La figura del Vasari ci porta dritti al cuore di quello che è stato,uno dei più intriganti e controversi

ambiti della storia dell’arte e della cultura così come della storia della critica, il Manierismo.

Inquadrabile storicamente lungo tutto il crinale cinquecentesco il Manierismo è tuttavia

difficilmente collocabile all’interno di schemi rigorosi. Fu il collezionista e scrittore d’arte francese

Roland Frèart de Chambray a coniare , nel 1662, questo termine, a cui per lungo tempo, a torto, fu

assegnata una etimologia negativa sinonimo di categoria deleteria del gusto. In realtà il Manierismo

fu a tutti gli effetti il primo momento davvero “concettuale” della storia dell’arte e della cultura, il

luogo in cui la citazione assume spessore di simbolo culturale e sintesi di un’epoca, secondo solo ai

fenomeni linguistici relativi alla lunga stagione ellenistica. Se si vuole tentare una delimitazione

temporale del Manierismo, esso si può collocare in quel lasso di tempo che passa tra la morte di

Raffaello (1520), il dilagare della Riforma protestante (1517), l’elezione di Carlo V ad imperatore

(1521) ed il consolidamento dell’ortodossia religiosa e delle istituzioni politiche internazionali

avvenuto attorno al 1600. Comunemente si dice del Manierismo che è stato la fase in cui gli artisti,

soprattutto fiorentini, Venezia era un’isola felice in quegli anni, a seguito del crollo dell’edificio

politico rinascimentale, e ad un’ esistenza fattasi d’improvviso sofferta ed avventurosa, si rendono

conto di trovarsi in una congiuntura in cui non è più possibile innovare, ed allora preferiscono

rivolgersi alle forme già predisposte dei grandi maestri del recente passato quattrocentesco. Tutto

vero, ma il Manierismo non è stato solo questo. Innanzitutto il concetto di maniera è correlato al

problema della mimesi, che era stato risolto nel Quattrocento da Leon Battista Alberti col metodo

illusionistico della prospettiva nel segno dell’equilibrio umanistico e matematico tra soggetto ed

oggetto, arte e natura. Il Cinquecento fu un secolo irrequieto e tragico, era difficile ipotizzare il

mantenimento del quieto ordine rinascimentale in una fase storica caratterizzata da invasioni
straniere, peste e scismi, che mutavano la mappa dell’Italia e dell’Europa. La Maniera si pone in

atteggiamento antitetico alla natura, non si concentra più sul problema della sua rappresentazione

oggettiva, per dirla con il Vasari : “La maniera venne poi la più bella dell’avere messo in uso il

frequente ritrarre le cose più belle, e da quel più bello o mani e teste o corpi o gambe

aggiungerle insieme e fare una figura di tutte quelle bellezze che più si poteva, e metterla in

uso in ogni opera per tutte le figure; che per questo si dice essere bella maniera”. La Maniera è

trascinata in un movimento pendolare che dall’imitazione si dirige verso la creazione, attraversando

tutte le tonalità di uno spettro semantico che inizia con la tecnica individuale e si conclude con il

genio divino. Si propone un dualismo tra idea icastica e concezione fantastica dell’arte. In questo

secondo ambito si colloca la teoria critica del pittore e scrittore d’arte, milanese e cieco, Giovan

Paolo Lomazzo (1538-1600) che nel 1591 pubblica “L’Idea del tempio della pittura”. Lomazzo

sostiene l’idea di un’arte ideale, frutto della sintesi del lavoro di sette “artisti governatori”, tra cui

Michelangelo per il disegno, Tiziano per il colore, Raffaello per la proporzione e l’armonia, e

Correggio per il chiaroscuro. Lomazzo è un tenace sostenitore della fantasia e dell’invenzione,

elemento peculiare del Manierismo, ed inverte la relazione arte-natura in una visione della pittura

come fonte unica della conoscenza. La Natura, fatta uscire dalla porta sarà destinata a rientrare

dalla finestra ; prova ne è l’ossessione cinquecentesca per giardini e fontane, oppure l’attrazione per

la Filosofia naturale e l’astrologia, come nel caso del Parmigianino pittore manierista divenuto

alchimista. Le Vite del Vasari e l’Idea del Lomazzo, insieme ad altri contributi come il “Dialogo di

pittura” di Paolo Pino (1548) , e “L’Aretino” di Lodovico Dolce (1557), segnano l’identità del

Manierismo come di un gioco continuo di attrazione e repulsione tra opposti, quali arte-natura,

imitazione-creazione, teso all’interrogare, porre in discussione, smontare e ricomporre, l’edificio

concettuale ed estetico del Rinascimento classico. Altra caratteristica manierista quella della

migrazione, dell’itineranza e della fuga da una società tumultuosa che non fornisce più certezze

politiche, e tanto meno relative ad una committenza nel recente passato assicurata, destino che

accomuna molti dei più significativi artisti quali Pontormo, Benvenuto Cellini, Giulio Romano,
Sebastiano del Piombo, Perino del Vaga, Rosso Fiorentino. Il Manierismo, proprio per il suo

carattere sfuggente e non facilmente definibile, sarà destinato a dotare i posteri di una eredità che si

spinge fino agli ultimi decenni del Novecento ed ancora, per molti aspetti, ai giorni nostri. In

definitiva si può affermare che lo spirito manierista attraversa la stagione barocca, il Neo

classicismo, l’Ottocento nell’accezione del Simbolismo, il Novecento della post modernità. Achille

Bonito Oliva con il suo “L’ideologia del traditore” (1976), centra sul Manierismo e la sua eredità il

contributo più originale della sua teoria critica, che fungerà da solida base d’appoggio per

l’invenzione della Transavanguardia. Senza il Manierismo non si possono spiegare molti delicati

passaggi epocali dei secoli successivi ma, soprattutto, non si può comprendere appieno lo spirito

del Barocco. L’artista simbolo del Seicento, Caravaggio, come opportunamente sottolinea Venturi,

non può più avere fede nella verità scientifica del suo lavoro, perché il Manierismo aveva posto

nella nuda evidenza la natura dell’arte come artificio, come costruzione soprattutto mentale e

consapevole esercizio di stile. Nel Seicento il concetto di autonomia dell’arte compie dei

significativi passi in avanti. L’intero secolo, ed il Barocco in tutte le sue varianti formali,

naturalismo di Caravaggio, classicismo di Poussin, stile “barocco ristretto” di Bernini e Piero da

Cortona, è caratterizzato dalla presenza costante di forme “aperte”, da una visione cosmologica

dell’immagine, evidenziata dalla profondità di campo, dalla dinamicità dell’insieme, dal tumulto

narrativo che si varrà di una composizione “ipotattica”, ben evidenziata nelle opere del Bernini, la

cui assonanza con la scultura ellenistica è stata da me precedentemente evidenziata. Il Seicento è il

secolo anticlassico per eccellenza, se per classicità si intende l’aurea e simmetrica disposizione

formale del primo Quattrocento. Siamo invece in presenza del trionfo della prospettiva aerea di

Leonardo, quindi nella fase del pieno sviluppo della “terza maniera” vasariana. Non a caso questo

secolo segna la fondazione della scienza moderna. Sulla scia di Copernico, Keplero e Galileo

gettano le basi uno dell’astronomia, l’altro della fisica contemporanea, sebbene queste rigide

demarcazioni siano contestate da molti autorevoli storici della scienza. Dopo avere camminato per

lungo tempo affiancate, ed avere conosciuto nel Rinascimento il culmine dell’idillio, arte e scienza
iniziano a separare i loro destini. Tuttavia gli effetti più evidenti di questa separazione saranno

visibili nel secolo successivo ,e soprattutto nell’ Ottocento positivista. Un saggio di Erwin Panofsky

del 1948, intitolato “ Galileo as a Critic of the Arts”, illustra le predilezioni di Galileo riguardo la

letteratura e le arti visive, evidenziando l’analogia tra le sue concezioni estetiche e scientifiche e

dimostrando che la storia del pensiero scientifico, come diventerà poi del tutto chiaro nel corso del

Novecento, deve tenere conto di fattori che vanno al di là della logica. Anche la critica d’arte nel

Seicento conosce un significativo sviluppo nei termini di un appassionato dibattito intellettuale.

Dibattito che si sviluppa soprattutto sull’asse Roma – Parigi. A Roma si segnala la figura dell’abate

Giovan Pietro Bellori, definito dalle cronache con il significativo attributo di “scrittore d’arte”, alla

cui figura, in relazione al clima culturale della Roma barocca, è stata dedicata una ampia rassegna

non molti anni fa. La sua opera principale è quella titolata “Vite de’pittori, scultori e architetti

moderni” (1672), pubblicata con una prefazione siglata “Idea della pittura, scultura ed architettura”.

Come sottolineato dal Venturi, Bellori poneva al centro delle sue riflessioni estetiche il concetto di

“eclettismo”, in polemica con i Manieristi accusati di non ispirarsi alla natura per comporre le loro

opere. L’eclettismo è un termine importante nella storia dell’arte e della critica, specie nel nostro

clima di avanzata postmodernità, caratterizzato da un evidente pluralismo stilistico, come ebbi

modo di teorizzare con una catalogo ed una mostra datati biennio 1992/93. Da un punto di vista

etimologico eclettico deriva dalla radice greca “eklekticòs”, “che sceglie”, mentre lo Zingarelli lo

definisce di pari la dottrina che unisce sistemi filosofici che si prestano ad essere tra loro conciliati,

o la tendenza ad ispirarsi a diverse fonti culturali. Il Bellori è il cantore della via di mezzo ;

combatte il naturalismo caravaggesco perché troppo indulgente nei confronti dei gusti popolari,

teatrale ed eccessivo, ma si pone anche in polemica con il grande rivale del Caravaggio, il Cavalier

d’Arpino, accusato di manierismo. Il suo ideale è rappresentato dalla cerchia dei Carracci, in

particolare da Annibale, per la loro capacità, “eclettica”, di conciliare natura e cultura, ed al

presente dal “pittore filosofo” Nicolas Poussin, di cui fu amico personale, in grado di incarnare un

ideale di bellezza classicista centrato sul culto degli antichi, e su quello del Raffaello precedente gli
affreschi delle Stanze Vaticane. Contraltare della linea di Bellori, ed incline al sostegno di un’arte

non cerebrale ed algida, ma instillata di sentimento, è la teoria che si sviluppa a partire dalle tesi

proposte da un altro scrittore d’arte, il veneziano Marco Boschini. Con la sua “Carta del navegar

pittoresco” (1660), scritta seguendo un originale schema di quartine rimate in dialetto veneziano,

Boschini dichiara la sua predilezione per il passionale colorismo e la gioia di vivere emanante dalla

pittura veneziana, posizione che lo porta ad esprimere pareri favorevoli sulla grande arte barocca

europea di Rubens e di Velàzquez, all’epoca poco compresi in Italia. La teoria del Boschini viene

ripresa ed amplificata, nell’ambiente dell’Accademia di Francia, da Roger De Piles, che elabora la

tesi secondo cui solo il genio, la personalità di superiore sensibilità, può elevarsi sugli altri con la

luce del suo spirito, e dichiara come il disegno, prediletto dai classicisti, precede il colore nella

pittura, ma solo il secondo può donarle la vita.

Il Settecento ed il concetto di autonomia dell’arte

Siamo ormai all’alba del Settecento, secolo ambivalente e fondamentale sia in termini teorici, con la

definitiva elaborazione del concetto di autonomia dell’arte, sia dal punto di vista di una concreta

anticipazione della contemporaneità. Uno dei tratti distintivi dell’estetica settecentesca è la

riscoperta dei valori classici, che trova nella rivalutazione del Bello il suo principio unificante. Nella

prima metà del secolo questa riscoperta, che troverà piena diffusione e generale consenso dopo il

1750, viaggerà in parallelo con l’esasperazione dei valori formali secenteschi, sfociante in uno stile

che verrà definito tardo barocco o rococò. Mentre nel primo ambito abbiamo la presenza di

personalità artistiche di notevole rilievo, basti pensare al Tiepolo ed al Guardi in Italia , a Wautteau,

Chardin e Fragonard in Francia, a Hogarth, Reynolds e Gainsborough in Inghilterra, il rococò fu un

correttivo del barocco applicato alla scultura e, soprattutto, alle arti applicate e alla decorazione. Ciò

lo porto ad essere investito da un giudizio vagamente spregiativo e riferito agli eccessi di sfarzo di

quell’aristocrazia, in particolare francese, che di lì a poco avrebbe conosciuto una rovinosa crisi.
Ma, nella prima parte del Settecento, abbiamo consistenti ed oggettivi indizi di quello che sarebbe

stato il divenire del secolo. Un filosofo inglese, Anthony Shaftesbury, nell’arco della sua breve

esistenza, a cavallo tra fine Seicento e primo Settecento, introdusse alcuni dei valori fondanti del

neoclassicismo nella sua teoria, sostenendo la presenza di Dio nel mondo e nella natura, secondo un

superiore ideale di bellezza e di armonia, tesi che riprende i valori della tradizione neoplatonica e

del pensiero plotiniano, che concepisce l’arte come attività libera, intuitiva e creativa, riflesso della

vita spirituale e della comunione con la sfera celeste. Queste intuizioni rappresentano il dettato

dell’esperienza neoclassica ; una fase dell’arte, del pensiero e del costume a lungo sottovalutata ,

ma riletta in tempi recenti, al punto di rinvenire vari punti di contatto con la condizione

contemporanea e postmoderna. Il punto di partenza della riscoperta del classico nella storia

dell’arte e della critica è indubbiamente riflesso nel pensiero e nell’azione di Johann Winckelmann (

1717 – 1768), considerato unanimemente il fondatore dell’archeologia moderna. Questa sua innata

passione, perseguita con rigore e metodo, ebbe certamente una forte influenza nell’elaborazione del

suo pensiero teorico sull’arte, esplicitato con maggiore evidenza nella “Storia dell’arte

nell’antichità” del 1764. La bellezza, secondo Winckelmann, non è riconducibile ad alcun dato reale

visibile. Il suo pensiero è nettamente antirealista, le immagini delle opere da noi fruite sono astratte

dalla natura e dal corpo umano, e ne mostrano la dimensione simbolica ed intelligibile. Quindi, in

coerenza con il suo spirito teso alla riscoperta dell’antico, l’arte ideale, modello per quella nuova, è

quella greca della scultura, per le sue caratteristiche di ritmo, proporzione ed armonia, dove il corpo

diviene simbolo di una umanità priva di passioni. In questa luce diviene paradossale il fatto, assai

noto, che solo agli inizi dell’Ottocento l’archeologia permise la visione di alcuni originali

capolavori ellenici, per cui Winckelmann, con la passione ed il pensiero, riuscì a pronunciarsi in una

sorta di profezia sull’arte greca. Nel corso del Settecento si sancisce in maniera definitiva il

concetto di autonomia dell’arte, per approdare al quale tappe fondamentali erano state la stagione

manierista ed il Barocco, ed il metodo tramite cui essa viene analizzata e spiegata è definito

“estetica”. Ciò avviene per merito del saggio omonimo del tedesco Baumgarten, pubblicato nel
1750. L’estetica è senza dubbio, in una accezione “alta”, la filosofia dell’arte, così come

l'epistemologia è la filosofia della scienza, l'etica la filosofia della morale, l'ontologia la filosofia

dell'essere. Ma il suo significato reale è più complesso ed ambiguo, come ci fa notare Renato Barilli

nel saggio intitolato “Corso di estetica”. Barilli spiega che, se ad un campione di persone dotate di

cultura medio – bassa, cioè la maggioranza della popolazione, si chiedesse cosa gli fa pensare il

termine “estetica”, senza dubbio in maggioranza risponderebbero citando l’estetista od il salone di

bellezza. Si potrebbe quindi pensare ad una risposta ingenua ma in realtà non è così. Questo perché

la radice etimologica del termine “estetica” deriva dal greco “aisth”, che indica il sentire non con la

mente ma con l’intero apparato sensoriale. Quindi comprende anche l’appagamento fisico, la cura

del corpo, da qui la liceità nell’indicare come “estetico” il trattamento ricevuto nel salone di

bellezza. L’estetica, inoltre, non comprende solo il lavoro di chi produce oggetti, opere,

componimenti poetici o letterari, ma anche il giudizio, quindi l’appagamento sensoriale, di coloro

che ne fruiscono. Bisogna notare la sostanziale differenza dalla radice di arte, la più volte citata

“teknè”, che indicava soprattutto il rapporto fisico con la materia da plasmare. Questo perché si

entra in una stagione in cui l’arte inizia ad assumere una dimensione sempre più elevata e spirituale,

che conoscerà una accelerazione graduale fino all’ingresso nel clima della contemporaneità

compiuta. Non a caso nell’ambito delle avanguardie più radicali e decise ad avvalersi di mezzi extra

– artistici, si arriverà ad adoperare il termine “operatore estetico”, al posto di quello classico di

artista, considerato ormai desueto ad indicare una figura decisamente più complessa ed articolata

rispetto al passato, dando quindi ragione all’originaria intuizione di Baumgarten. Questi ha il merito

di avere consorziato categorie logistiche fino ad allora non comunicanti, quali quelle già introdotte

da Aristotele relativamente alle “arti liberali”, da lui ripartite nei due ambiti della “poetica”,

comprendente i poemi ed i componimenti lungh,i e della “retorica”, dominio dello stile e

dell’ornato, ed in generale dei componimenti brevi e virtuosi. Poetica e Retorica si relazionano con

l’ars e la teknè, intese nell’accezione di pittura e scultura, sullo sfondo dell’importanza concessa

all’atto della fruizione, intesa come godimento del Bello tramite la rete dell’apparato sensoriale. Ma
il Settecento è importante poiché segna l’avvento, nella Francia dei Salons, di una nuova attitudine;

scrivere e commentare in presa diretta l’evoluzione artistica di quello che all’epoca si manifestava

come contemporaneo. Filosofi, scrittori, poeti, iniziano a confrontarsi con i segni di un mondo,

quello delle arti visive, in rapida evoluzione , parallela alla mutazione altrettanto inarrestabile della

società occidentale, che di lì a poco conoscerà gli effetti della Rivoluzione, il crollo dell’ancien

regime e l’ingresso nella nuova civiltà industriale. Nel corso di due secoli, Settecento ed Ottocento,

gli intellettuali più sensibili ed avveduti rispondono prontamente con la scrittura alle mutazioni

iconografiche di pittura e scultura, che gradualmente si sottraggono alla dittatura del racconto

mitologico, religioso, storico e letterario, contribuendo alla costruzione della nuova immagine

contemporanea che, dopo il traghettamento simbolista, approderà alla stagione delle avanguardie

storiche. Capofila di questa tendenza è Diderot, simbolo dell’Illuminismo ed autore

dell’Enciclopedia, che si occuperà dei Salons per un lungo periodo, esteso dal 1759 al 1781.

L’inclinazione di Diderot si spinge verso un eclettismo del gusto, che gli permetterà di apprezzare e

difendere sia gli aspetti romantici di un arte centrata sull’istinto e sul colore, sia il rigore di coloro

che auspicano il ritorno alla nitidezza del classico ed alla severità del mondo antico, non tanto nella

dimensione rigorosamente filologica ed erudita propugnata dal Winckelmann, quanto in quella che

sarà propria in seguito di David, anticipando concettualmente l’ideologia neo – romana dei futuri

giacobini, opposta alla frivolezza del rococò. Il passaggio tra Settecento ed Ottocento è importante

anche perché in esso si possono scorgere, a patto che l’occhio sia attento e la mente duttile, vari

indizi anticipanti di un secolo l’avvento della stagione contemporanea. Questa tesi è stata sostenuta

con particolare vigore da Renato Barilli in molti suoi scritti ed in particolare con l’ampio saggio

“L’alba del contemporaneo”. La tesi di Barilli, in sintesi, sostiene l’esistenza di una sfasatura

cronologica rispetto alla fatidica data del 1789, generalmente presa come confine, dai manuali di

storia, per indicare il trapasso tra stagione moderna e contemporanea. Questa considerazioni

valgono in dimensione culturologica, beninteso, poiché sulla successione moderno –

contemporaneo, in arte particolarmente, esistono posizioni diverse ; ad esempio molti recenti saggi
di estetica e filosofia dell’arte impiegano il termine “arte moderna”, per la fase che va dalle

avanguardie storiche al Concettuale, poi si entrerebbe nella post – modernità, altri ancora con il

termine “moderno” indicano un plesso storico la cui origine è sita nel Romanticismo e l’ epilogo

collocato negli anni tra il ’30 ed il ’40 del Novecento. Per quanto mi riguarda ho sempre sposato la

tesi di una modernità collocata tra metà ‘400 e metà ‘800, di una contemporaneità situata da allora

fino al 1975, di una post modernità dal 1975 al 2000, mentre per l’oggi si potrebbe parlare di “neo

contemporaneità”, ma è argomento su cui entrerò nel merito più avanti. Tornando al precedente

argomento, in sintonia con la tesi introdotta da Marshall McLuhan negli anni ’60, con saggi quali

“La Galassia Gutemberg”, e “Gli strumenti del comunicare”, sugli agganci omologici tra gli strati

ideali e quelli materiali della cultura, sul finire del Settecento la nuova tecnologia elettromagnetica,

che caratterizzerà l’esordio e lo sviluppo della contemporaneità, non è ancora nota quanto ad

applicazioni pratiche, che si concretizzeranno nel decennio 1860 – 1870, ma è in pieno sviluppo per

quanto concerne la ricerca di laboratorio, come testimoniato dall’ingegnoso operare dei nostri Luigi

Galvani ed Alessandro Volta. In parallelo agiscono in sintonia tutta una serie di operatori culturali

tra loro estranei quanto a provenienza geografica, fortuna personale, tecnica adoperata, accomunati

solo dalla data di nascita posizionata attorno al 1750, in virtù di quel fenomeno generazionale detto

polingenesi. Questi artisti sono, tra gli altri, il visionario William Blake, oggi riconosciuto come

l’indiscusso anticipatore delle correnti psichedeliche dell’underground europeo ed americano, che

non fu solo pittore ma anche incisore e disegnatore, l’inglese John Flaxman, lo svizzero Johann

Fussli, lo spagnolo Goya. Tutti questi artisti appiattiscono la composizione in una dimensione

sequenziale e paratattica, le figure si posizionano in primo piano e spesso appaiono come squassate

ed attraversate da misteriose correnti energetiche , scarso è il senso di profondità spaziale. Nel caso

di Blake e Goya, sebbene con modalità molto diverse, è forte l’attenzione verso l’inconscio e la vita

interiore, come se le risorse irrazionali della spiritualità e del sentimento dovessero avere la meglio

sul raziocinio dell’epoca dei Lumi. Possono rinvenirsi dei significativi contributi in tale senso anche

in protagonisti di altre discipline ; ad esempio nel Goethe, che fu anche lui raffinato scrittore d’arte,
delle “Affinità elettive”, manifesto del libero ed incontrollabile dispiegarsi delle passioni, oppure,

un po’ più avanti nel tempo, il Schopenhauer de “Il mondo come volontà e rappresentazione”, in cui

si sviluppa l’antinomia tra lo spirito cartesiano “moderno” ed un nuovo energetico vitalismo. Tutti

temi che troveranno vasta eco esattamente un secolo dopo, ad esempio con la psicanalisi di

Sigmund Freud, ed il pensiero di Henry Bergson, in particolare quello sviluppato nel saggio

“L’evoluzione creatrice”, dove si insiste sul concetto di “spirito vitale”, che esalta il dinamismo e

l’intuizione e polemizza con la tradizionale concezione analitica dello spazio e del tempo, e sarà

destinato a fornire un consistente supporto alle successive avanguardie storiche, in particolar modo

il Futurismo. La Rivoluzione Francese sarà il macroevento destinato a far mutare di segno la

situazione globale con modalità radicali. Essa rappresenta il compimento di un processo iniziato

secoli prima, la cui genesi si intravede addirittura nell’Italia dei Comuni. L’Ancien Regime, quel

blocco assolutista basato sulla predominanza dell’aristocrazia e del clero, e sulla trasmissione

ereditaria delle cariche, conosce il suo crollo con l’avvento al potere di una classe sociale

apparentemente nuova, la borghesia, in realtà apparsa sulla scena secoli prima ed insinuatasi

caparbiamente tra le pieghe dell'oligarchia dominante , fino a condizionarne molte scelte grazie al

predominio, gradualmente acquisito, del prestito del denaro necessario per guerre ed opere

pubbliche ed artistiche, e della circolazione di beni di consumo ed informazioni, che dal ‘400 in poi

conosce una graduale ed inesorabile accelerazione. È il trionfo dell’individualismo, affermatosi

grazie all’invenzione della stampa, strumento che, tra l’altro, ha permesso una ampia diffusione dei

testi sacri, un tempo appannaggio di “elites” estremamente ristrette. La Riforma Protestante ne sarà

la diretta e più eclatante conseguenza. L’etica protestante, come giustamente sottolineato da Max

Weber, gioca un ruolo fondamentale nell’avvento della società industriale e capitalista, e,

conseguentemente, nel costituirsi del moderno sistema dell’arte.


L’Ottocento : la critica diventa mestiere intellettuale nell’
epilogo della stagione moderna

All’alba dell’Ottocento la società europea si è svincolata, secondo il parere degli ottimisti, dalle

tenebre e dall’oscurità del mondo medievale. Sono proprio gli artisti, e molti loro sodali critici ante

litteram, a storcere il naso di fronte a questa nuova situazione. Eppure, dopo un decorso

plurisecolare, le arti visive si erano affrancate dalla limitante appartenenza alla sfera delle arti

meccaniche, per collocarsi definitivamente tra quelle liberali; l’artista non era più il rude

manipolatore della materia e l’arte diventava attività preziosa ed elitaria, anche perché gli artigiani,

in precedenza i principali produttori di beni di consumo, sono costretti ad arruolarsi in massa nelle

nascenti industrie, e l’artigianato assurge lentamente al rango di “arte applicata” . Tuttavia molti

avvertono il pericolo di una spersonalizzazione del fare artistico. Il timore diffuso è che l’arte

divenga, e per certi aspetti questo inevitabilmente accadrà, una “merce tra le merci”. Inoltre, se la

Rivoluzione Industriale da un lato inizia a risolvere i problemi legati al puro sostentamento,

riducendo il rischio di penurie alimentari e carestie, dall’altro determina fenomeni di notevole

sofferenza sociale. I ritmi della catena di montaggio sono alienanti, le campagne si svuotano,

nascono le periferie urbane, all’inizio veri e propri ghetti, in particolare nel paese capofila del

processo di industrializzazione, la Gran Bretagna. Le radici del movimento romantico in arte

partono da questo antagonismo, dal rivendicare il privilegio dell’antica teknè e l’artigiana lentezza

della pratica artistica. L'Ottocento è un secolo caratterizzato dall'apparizione sulla scena di

numerose “morti” simboliche. Si va dalla “morte dell'arte”, alla “morte di Dio”, per approdare

addirittura alla “morte dell'uomo”. Il progresso tecnico e la più razionale organizzazione sociale,

che si ispira alla disciplina militaresca per le scuole, le prigioni e le fabbriche, fa crollare antiche

certezze. Come il mito classico dell'arte portatrice di verità, ed il rapporto tra arte e natura,
soppiantati dall'imporsi imperioso della tecnica. Da ciò deriverà il paradosso della “morte dell'arte”,

teorizzata dal filosofo idealista Georg Hegel, sui cui tornerò ampiamente nel penultimo capitolo

“Verso e dentro il nuovo millennio”, analizzando i contenuti di un saggio del docente di Estetica

Federico Vercellone dal titolo “Dopo la morte dell'arte”, in cui si verifica l'attualità delle tesi

hegeliane nello scenario della contemporaneità avanzata. Il primo, e certo il più coerente dei

movimenti romantici , è quello Nazareno, nato in Germania su impulso artistico e teorico di Franz

Pforr e Friedrich Overbeck. I Nazareni contestano integralmente l’alienazione della nascente civiltà

industriale e l’ipocrisia borghese , nonché l’assenza di tensione spirituale nell’arte, predicando e

praticando un ritorno ai valori evangelici e la distanza da qualsiasi tentazione mondana. Movimento

interessante non tanto per gli esiti artistici, che si inseriscono nella tradizione della pittura istoriata

ottocentesca con riferimento ad episodi del repertorio sacro, quanto per l’anticipazione di tematiche

contestatarie che ritroveremo un secolo dopo, nei gruppi spontanei giovanili di Europa ed America

tra gli anni ’50 e ’70. I Nazareni danno il via anche all’interessante fenomeno, concettualmente

parlando, di riscoperta e rivalutazione del Medioevo, che attraverserà tutto il corso dell’Ottocento,

partendo da Inghilterra, Francia e Germania, per approdare da ultimo in Italia, nazione in cui la

rivoluzione industriale matura più lentamente, conoscendo una accelerazione significativa dopo il

raggiungimento dell’unità nazionale. Ma sono i Salons francesi a gettare le basi di un nuovo sistema

dell’arte. L’artista può ora avvalersi di un’aura di cui prima era solo parzialmente detentore. Egli è

l’eroe romantico che si oppone alle convenzioni della società borghese, ma di pari perde la

committenza garantita in passato dalle commissioni dell’aristocrazia e del clero, e si trova a

competere con i suoi simili in una nuova arena, dove gli arbitri sono nuovi soggetti come il

collezionista borghese, per il quale l’opera è un feticcio in grado di accrescerne il prestigio sociale,

la carta stampata, e a breve , il mercante. L’esercizio critico inizia a detenere un ruolo importante

come contributo all’analisi ed alla prassi del contemporaneo e, in mancanza di professionisti del

settore, la supplenza è esercitata con profitto dai letterati. I Salons parigini e, più in generale,

l’opinione pubblica sull’arte, vedono crearsi due fazioni ; la prima di nostalgici di un certo
neoclassicismo incarnato da colui che venne considerato l’erede di David, soprattutto in relazione

alla sua ultima fase di lavoro, cioè l’algido Ingres. Questa linea porterà al fenomeno dei cosiddetti

artisti pompiers, a lungo vituperati ma talvolta in grado di produrre opere di un certo interesse,

capaci di anticipare la sfida al kitsch tipica di parte della nostra arte contemporanea, come

testimoniato dalla collezione d’arte francese del Museo d’Orsay. L’altro nucleo sosterrà una linea

che genericamente potremmo definire d’avanguardia, della quale i principali alfieri saranno

all’inizio Geuricault, autore della celeberrima “Zattera della Medusa” custodita al Louvre, opera di

straordinarie dimensioni e di vibrante teatrale intensità, tale da rinverdire i fasti del barocco, sulla

cui scia si pone Delacroix, il cui stile si sintonizza sulle antenne del tardo barocco primo

settecentesco, tra evocazione storica, letteratura e suggestioni orientaliste, spingendo il pedale

dell’acceleratore sulla strada di un ritorno in forze della modernità in arte, da un punto di vista

spaziale più che iconografico, fenomeno che, passando attraverso le scuole del paesaggismo e del

realismo raggiungerà il suo apice con la stagione dell’Impressionismo. Ma è tutto un clima a

cambiare, la metropoli affascina e sgomenta al tempo stesso con il suo sfavillio di luci e colori, con

la vita frenetica e febbrile. L’arte entra in una nuova e dinamica stagione e Parigi è la sua capitale,

ruolo che manterrà fino a tutta la prima metà del Novecento e parte della seconda, fino agli anni

Cinquanta. I letterati, spiriti sensibili e lungimiranti, ne cantano l’epopea, ne irridono i vizi, vedono

nell’arte e negli artisti un approdo verso il futuro, e con loro stabiliscono rapporti di amicizia,

complicità ed anche competizione. Dopo il battistrada Stendhal, un periodo fecondo è quello che

scorre tra il 1831 ed il 1845, in cui l’artista diventa soggetto prediletto della narrazione. Ad esempio

con due celebri racconti di Balzac, “Il capolavoro sconosciuto” del 1831, ripubblicato nel 1837, e

“Pierre Grassou” stampato nel 1844, con “Feder” di Stendhal dello stesso anno, e “Chien –

Caillou” di Champfleury del 1845, anno in cui Baudelaire inizia ad occuparsi dei Salons, attività

che lo vedrà impegnato con grandi esiti fino al 1863. In Balzac le metafore di cui si avvale nei suoi

racconti servono a comprendere, in senso poetico, l’intuizione dei letterati sulla prossimità di una

svolta radicale per l’arte, poiché l’iconografia tradizionale non si presenta più adatta a rappresentare
i frenetici e radicali mutamenti di un secolo di progresso quale fu, tra luci ed ombre, l’Ottocento, e

sono anche, per lui e per gli altri scrittori, l’occasione di una nuova finestra aperta sulla società, in

cui l’artista è protagonista, tra arrivismo e compromesso con il nuovo mercato e il nobile ed elitario

sogno bohèmien. Prima ho menzionato la prima parte dell’800, a seguito della Rivoluzione

Industriale, come data d’avvento di un inedito sistema dell’arte. Bisogna precisare come questa

nuova condizione sociale abbia conosciuto una ascesa graduale. I Salons francesi sono stati

un’innovazione per due motivi ; la prima, già citata, risiede nel fatto che per la prima volta, con

cadenza biennale, veniva esposta, in contenitori laici e non sacri, la produzione artistica

contemporanea ponendola al giudizio di un pubblico per l’epoca il più ampio possibile, il ceto

borghese emergente, consentendo quindi la formulazione del giudizio critico in presa diretta, che

tuttavia esprimeva pareri di natura squisitamente intellettuale e legati al concetto di gusto,

legittimato da Baumgarten e da Kant, non intervenendo su aspetti quali l’allestimento e la selezione

degli artisti, che rimaneva un problema di esclusiva competenza di questi ultimi, in questo caso al

più esprimendo garbate proteste per l’esclusione di autori non conformi ai canoni ufficiali. Canoni

che prevedevano, pur nella novità costituita dall’interesse dello Stato per l’arte, da allora peculiarità

francese e nord europea, una centralità assoluta spettante all’Acadèmie des Beaux Arts e ai suoi

membri, cioè gli insegnanti della scuola ed il direttore dell’Accademia di Francia a Roma. Le scelte

dell’Accademia , fondata da Colbert nel 1648 e potenziata in maniera determinante da Napoleone, i

cui insegnanti scelgono le opere da fare acquistare ai musei e selezionano i partecipanti ai Salons,

saranno influenzate da Ingres per un lungo periodo, dal 1825 al 1867. Quindi anche il nascente

mercato, con cui la critica non potrà fare a meno in futuro di confrontarsi, per contestarlo, sposarne

le scelte od assumere una posizione intermedia ed equilibrata, è sostanzialmente basato su un

criterio protezionista statale, poiché l’alta borghesia che acquistava le opere lo faceva all’interno del

Salon , o tramite i pochi courtiers e mercanti impegnati a trattare la produzione “ufficiale”. La scena

sarà destinata a mutare in seguito all’opposizione di molti artisti, importanti e non, allo stato delle

cose, ed al loro costituirsi in gruppi organizzati, il tutto a seguito della protesta di Gustave Courbet
del 1855, anno dell’Esposizione Universale, quando l’artista, per contestare la sua esclusione dalla

mostra organizzata per l’occasione, espose proprio di fronte alle sede la sua grande tela “Lo studio”.

Le polemiche che inevitabilmente si accesero portarono l’Accademia ad istituire nel 1863 il Salon

des Rèfusès, dove venivano allestite le opere escluse dalla selezione ufficiale. Essendo la scelta

sempre strettamente istituzionale, si trattava di un’operazione critica ottenuta per sottrazione di

valore, come avvenne in seguito, con modalità ben più drammatiche, per la mostra nazista sull’

“Arte Degenerata” del 1937. Ovviamente al Salon des Rèfusès molti artisti, per non danneggiare la

propria immagine, rifiutarono di esporre. Vi fu però l’importante eccezione di Eduard Manet che,

pur avendo in precedenza partecipato al Salon ufficiale, accettò di partecipare nel 1863 per poter

esporre la scandalosa tela “ Le dèjeuner sur l’herbe”, suscitando l’ammirazione dell’avanguardia e

gettando le basi per le nuove aggregazioni di artisti indipendenti. Saranno gli Impressionisti, ultima

propaggine della modernità dal punto di vista formale, sebbene con uno stile in netta rottura con la

tradizione, ma assolutamente contemporanei per il resto, a fungere da catalizzatori delle nuove

energie artistiche ed organizzative. Su loro spinta nascerà nel 1884 il Salon des Indèpendants, che

farà da battistrada alle successive Secessioni di Vienna e Monaco, mostra autogestita senza premi

né giuria, da cui germinerà, nel 1903, il Salon d’Automne, che fornirà una veste più organizzata e

qualitativa a questo genere di manifestazioni. Per la prima volta gli artisti si pongono dei problemi

di stretta natura curatoriale, come il rapporto tra opera, ambiente espositivo ed illuminazione, dal

momento che i Salons classici esponevano i lavori senza criterio logico, talvolta neppure

affiggendole alle pareti. L’ impegno degli Impressionisti e dei critici loro sodali, tra cui Castagnary,

Duranty, Chesnau, ed Emile Zola, supportati dalle singolare figura di un critico mercante come Paul

Durand Ruel ,gettarono le basi per l’approdo ad una vera e propria situazione di mercato

internazionale, con sedi aperte da Durand Ruel non solo a Parigi, ma anche a Londra e New York.

Un mercato davvero contemporaneo nelle modalità, basato sull’individuazione dei talenti

emergenti, e sulla loro promozione e difesa operata in esclusiva, al fine di creare una nuova figura

di collezionista, aperto alla novità e non più schiavo del formalismo e della tradizione. Ma ora
necessita fare un passo indietro. Infatti non si può prescindere, parlando della critica d’arte

ottocentesca, dalla figura di Charles Baudelaire, la cui attività in questo settore da molti non è

ritenuta inferiore alla sua celebre ed innovativa attività di poeta e di tramite tra romanticismo e

simbolismo, nel suo caso non si può quindi parlare di un letterato prestato all’arte. Baudelaire è

inserito in pieno in uno scenario, quello parigino, che rivendica il primato francese sull’arte

moderna, dove l’ammirazione per l’Italia che aveva caratterizzato il Sei e Settecento si tramuta

nell’orgoglio di avere ereditato e metabolizzato quella importante eredità. Baudelaire lavora per i

Salons dal 1845 al 1863 (morirà nel 1867) anno in cui terrà a Bruxelles una conferenza sul suo

prediletto Delacroix, scomparso l’anno precedente. Il pensiero critico di Baudelaire, in parallelo alla

sua attività squisitamente letteraria, rappresenta una sorta di trait d’union tra lo spirito romantico,

che tende ad opporsi all’alienazione del contemporaneo con il rimpianto della grande tradizione del

passato, ed un nuovo stato d’animo che cova tra le ceneri, quello simbolista destinato a sfociare

nello spirito delle avanguardie storiche, che vede nella trasformazione del mondo urbano e

moderno e nelle sue inedite componenti ; grandi masse in movimento, giornalismo, pubblicità,

grandi magazzini, luci, maestose opere pubbliche ed imponenti ristrutturazioni, una nuova

avventura del genere umano foriera di nuovi orizzonti. L’autore che meglio di altri sa incarnare

questo ideale è Delacroix, definito già nel Salon del 1845 come “genio malato di genio”. Questa

predilezione è da ascriversi nel filone della critica francese aperto da Diderot, che vede

gradualmente spegnersi l’interesse per l’imitazione della natura e dell’iconografia in generale,

anche quella di impronta realista, a favore della forma e dell’espressione pittorica. Baudelaire

individua tutto ciò nell’opera di Delacroix, quale sia il repertorio da quest’ultimo prescelto, poiché

il grande pittore interpreta mirabilmente il concetto di “surnaturalismo”. La novità dell’opera di

Delacroix sta in un colore acceso e vibrante, in composizioni dinamiche dove il disegno corre dietro

al ritmo fluente della forma, in un mondo poetico pervaso da inquietudini letterarie, passioni,

interrogazioni metafisiche. Delacroix è un uomo del suo tempo, che non raggiunge il torbido e

radicale irrazionalismo di Goya, ponendosi a metà tra lo spirito dei lumi e la civiltà moderna.
L’esatta portata del termine “surnaturalismo” o “antphysis”, è indicata da Baudelaire, nel 1855, nel

confronto istituito tra l’opera dei due grandi rivali : Ingres ,di cui pure rinviene una bizzarra

anomalia rispetto alla tradizione neoclassica, e Delacroix. Per Baudelaire è necessario andare oltre

sia il dato naturalista che quello realista, incarnato dalla calda e concreta pittura di Courbet ; il vero

è oggetto non tanto di raffigurazione quanto di trasfigurazione. Altra predilezione di Baudelaire

quella per i disegnatori ed acquafortisti, francesi e stranieri, che si cimentano nella caricatura,

poiché il riso “è nell’uomo conseguenza dell’idea della propria superiorità, a un tempo segno

di una grandezza infinita e di una miseria infinita, miseria infinita in rapporto all’Essere

assoluto di cui possiede il concetto, grandezza infinita in rapporto agli animali. Dal continuo

scontro di questi due infiniti promana il riso”. I caricaturisti sono idonei, con il loro stile schietto

ed arguto, ad esprimere il tumulto ed a irridere i vizi della moderna civiltà. Nota è l’avversione di

Baudelaire nei confronti della scultura, di cui critica la staticità formale e materialità, nelle quali la

vede relegata, lontana dalle infinite possibilità espressive della pittura. Al tempo stesso egli critica

la fotografia, di cui peraltro potrà vedere solo la fase iniziale, condannandone il verismo e il vezzo

di scimmiottare la pittura accademica. La sintonia e la curiosità intercorsa nell’ultima fase della sua

breve esistenza per l’opera di Manet fa intuire quale sarebbe stato con ogni probabilità il suo

rapporto con gli Impressionisti, della cui venuta può considerarsi a tutti gli effetti un inconsapevole

anticipatore. Un altro personaggio di grosso calibro nell’ambito della critica d’arte ottocentesca è

l’inglese John Ruskin (1819 – 1900). Contrariamente a Baudelaire Ruskin, oltre ad essere uomo di

vasta cultura ed interessi come il francese, si forma agli studi d’arte, e la sua conoscenza del

Medioevo è quella di un raffinato filologo. Ma Ruskin, in questo caso al pari di Baudelaire, è

importante per avere anticipato caratteristiche salienti della critica d’arte contemporanea ,in specie

per il rapporto intenso dal punto di vista esistenziale che egli intraprende con gli artisti prediletti.

Per Ruskin, in sintonia con lo spirito del Romanticismo, il sentimento religioso scopre l’essenza

dell’arte nella comunione mistica con la natura. Nel 1836, a soli diciassette anni, un giovanissimo

ed ardito Ruskin scende in campo nientemeno che a difesa del mostro sacro Turner, accusato di
rappresentazione poco verosimile della natura in merito alle opere prodotte negli ultimi anni, grandi

anticipatrici di contemporaneità. Dopo una iniziale diffidenza Turner entrerà in confidenza con il

giovane critico, facendolo divenire suo esecutore testamentario. Ma il sodalizio artistico a cui

Ruskin legherà il suo nome in maniera indissolubile è la Confraternita dei Preraffaeliti, il più

importante movimento a cavallo tra Romanticismo e Simbolismo. Il gruppo composto da Hunt,

Millais, Rossetti, Collins e Burne – Jones è oggetto di una serrata difesa da parte di Ruskin,

coronata dalla pubblicazione di una serie di articoli apparsi sul Times tra il 13 ed il 30 maggio 1851.

L’arte dei Preraffaelliti è vista da Turner come sacrificio e miracolo, in alternativa alla retorica del

“grand style” di Joshua Reynolds. La minuziosità estrema, l’ornamento, la decorazione ed i temi

prescelti dalla pittura preraffaellita sono un dono a Dio, cosi come la perdita di tempo, relativa

all’estrema precisione compositiva, diviene “perdita del tempo”, ingresso in una dimensione

spirituale ed atemporale. Ruskin concepisce l’arte come estesa a trecentosessanta gradi, un Giano

bifronte che scruta il passato ed intuisce il futuro per meglio calarsi nella dimensione del presente.

Turner si pone diametralmente ed armonicamente all’opposto dei Preraffaelliti . L’affinamento

dello stile e la piena consapevolezza di sé lo fanno giungere allo “smemoramento dell’io”,

permettendogli di approdare ad una dimensione di totale padronanza espressiva, tale da portarlo a

dipingere in una condizione di assoluta libertà, che gli permette di cogliere le linee forza del

paesaggio. Dopo il 1860, sulla base del suo collante etico – religioso, Ruskin diviene economista e

riformatore sociale. Egli è tra coloro che contestano l’economia politica classica, in quanto nemici

della disumanità del capitalismo dell’800, ed in particolare il suo pensiero critica l’economia

politica poiché riduce il singolo nelle vesti di un astratto “uomo economico”. In sintonia con i molti

sostenitori del valori comunitari Ruskin individua nel Medioevo una fase storica ideale , poiché il

lavoro si scambiava con altro lavoro. Per il critico e storico inglese il limite del Rinascimento è il

non avere compreso la differenza tra arte e scienza, ponendo le basi per l’alienazione della

modernità, dove il lavoro è sterile e ripetitivo ed i rapporti umani sono ridotti a merce di scambio.

Dopo avere parlato di Ruskin diventa consequenziale un cenno alla figura di Oscar Wilde (1854-
1900). Il giovane Wilde fu infatti allievo e sodale di Ruskin ad Oxford, e di lui condivise le

posizioni avverse all’alienazione industriale e favorevoli ad una rivalutazione del lavoro manuale ed

artigianale. Wilde fu personaggio complesso e controverso, dall’indubbio fascino e carisma

intellettuale. Le molte letture che di lui si sono date non hanno, specie all’inizio, dato sufficiente

importanza alla sua peculiarità, per buona parte ancora inedita allora, di primo autore – protagonista

di un’epoca che si affacciava alla contemporaneità ; d’altra parte non erano ancora apparse sulla

scena personalità come D’Annunzio, Marinetti, Apolinnaire, e poi ancora Hemingway, Pasolini,

Mishima e vari altri. Wilde fu autentico precursore dei tempi nuovi, fu esteta, polemista,

drammaturgo, narratore e conversatore piacevole, e seppe anche dare, alla sua maniera, un

contributo alla storia della critica d’arte. Questo avviene, oltre alla varie citazioni ed aforismi della

sua monumentale opera, nel dialogo “Il critico come artista” dove Wilde sostiene come sia il critico

il vero artista poiché , occupandosi di arte, si intrattiene con materiale già raffinato ed elevato dalla

banalità del quotidiano, ed è quindi in grado di indicare la via ideale. Tra le varie considerazioni

contenute nel dialogo, costellato da una innumerevole serie di citazioni, sul rapporto tra arte, vita e

letteratura Wilde , celandosi dietro il personaggio di Gilbert, insiste sull’importanza che ebbero i

Greci per la definizione del concetto e della pratica della critica d’arte. Questo perché gli ellenici

inventarono lo spirito critico, che esercitarono su questioni di mito e di scienza, di etica e

metafisica, di politica e di religione, quindi anche di arte, concentrandosi sulla critica del

linguaggio, che è lo strumento principale di cui le arti si servono. Wilde poi si addentra sulla

funzione creativa del linguaggio, citando il Ruskin esegeta di Turner, in grado di dare ulteriore

senso e rilevanza all’opera, anticipando gli esiti della più raffinata critica letteraria del Novecento,

ad esempio quella di Roberto Longhi, ed anche quelli della critica militante italiana della parte

finale del secolo, prima che, nel nostro paese, argomento oggetto di futura trattazione, questo

esercizio intellettuale si riducesse a ripetitiva pratica curatoriale. Attorno alla meta dell’Ottocento

insorgono le condizioni determinate, come più volte menzionato, dalla Rivoluzione Industriale e dai

mutamenti che essa genera nell’assetto sociale e nel sistema dell’arte, tali per cui taluni uomini di
cultura, periti nell’arte e particolarmente nel disegno, decidono di dedicare le proprie energie in

maniera esclusiva nei confronti della storia dell’arte ; nascono così il metodo filologico e la

cosiddetta “critica dei conoscitori”. Tale critica, come sottolineato da Lionello Venturi, si basava da

un lato sull’analisi delle fonti letterarie tradizionali, ad esempio le “Vite” del Vasari, e sui

documenti d’archivio, con un lavoro centrato sulla loro conferma o confutazione. Questo però non

era sufficiente ; era necessario inventariare un immenso patrimonio culturale. Per fare questo i

filologi dell’arte adottarono una tecnica di catalogazione fondata su componenti come il contenuto

dell’opera , inteso come tema trattato da cui derivò la disciplina iconografica, la tecnica e lo stile

inteso come l’insieme delle convenzioni figurative. La doverosa razionalità di questo tipo di

indagini le incanalò naturalmente nell’ambito della filosofia positivista, predominante nella seconda

metà del secolo. Principale esponente di questa tendenza e delle sue implicazioni nel mondo

dell’arte lo storico e filosofo francese Hyppolite Taine (1828 – 1893), che fu tra l’altro docente di

Estetica e Storia dell’Arte alla Scuola delle Belle Arti di Parigi. Taine fu uno studioso acuto della

psicologia. Partendo, come molti all’epoca, dall’idealismo hegeliano, tentò di abbinarlo al

positivismo evoluzionistico, per dare vita ad una singolare sintesi. In ambito estetico la sua opera

principale è la “Filosofia dell’arte” (1865). In questo saggio Taine sottolinea la non casualità

dell’opera d’arte, che veniva così sottratta al dominio metafisico per essere condotta verso quello

della psicologia e della teoria della percezione. L’opera diveniva evento storico, prodotto quindi di

cause determinate come il clima, la situazione economico – geografica, e la vita sociale e politica. Il

merito di Taine e della estetica positivista è senz’altro quello di avere fornito dignità storica e

scientifica alla critica, anche se il problema filosofico dell’essenza dell’opera d’arte veniva

eccessivamente trascurato. Nell’ambito della critica filologica l’Italia vanta due esponenti di primo

piano ed autentici precursori di una nuova metodologia di lavoro. Si tratta di Giovan Battista

Cavalcaselle (1819 – 1897), importante soprattutto per le sue proposte rispetto ai sistemi di

conservazione e restauro, all’allestimento dei musei, alla riforma dell’insegnamento accademico.

Giovanni Morelli (1816 – 1891) fu un personaggio singolare, conoscitore e collezionista, studiò e


lavorò in Svizzera e Germania . Valente disegnatore elaborò un metodo comparativo fondamentale,

ad esempio, per distinguere il lavoro dei capiscuola da quello degli epigoni, fondato

sull’identificazione dei “motivi sigla”, cioè di aspetti apparentemente trascurabili della

composizione come capelli, unghie, orecchie, tali da permettere il riconoscimento della mano

dell’artista.

Il metodo filologico ed altri aspetti dello studio della Storia


dell’Arte tra primo e secondo Novecento

Molteplici sono i contributi che l’Italia fornisce in merito a questo rinnovato fiorire di studi sulla

storia dell’arte, tra la seconda metà dell’Ottocento ed i primi decenni del secolo successivo.

Innanzitutto con la forte personalità di Adolfo Venturi (1856 – 1941), storico e funzionario delle

Belle Arti, ch,e ponendosi inizialmente nella scia di Cavalcaselle e Morelli, seppe in seguito

emanciparsi dal metodo positivista, centrando la sua attenzione sulla individualità degli artisti e la

lettura dei valori formali dell’opera. La sua attenzione si concentrò soprattutto sulla fase storica tra

il Medioevo ed il Rinascimento. Secondo Venturi la suddivisione regionale dell’arte italiana è

costituita da tessere autonome inserite in un contesto nazionale unitario. Fu importante da parte sua

l’aver compreso l’importanza della diffusione a mezzo stampa delle ricerche di storia dell’arte, che

fino ad allora erano confinate sulle pagine di riviste di cultura generale. Nel 1888 Venturi dà alle

stampe l’”Archivio Storico dell’Arte”, che nel 1898 cambierà titolo e diverrà semplicemente

“L’Arte”. Nel 1930 il testimone passerà nelle mani del figlio Lionello. Di grande rilievo l’impresa

della “Storia dell’Arte Italiana”, pubblicata in 25 volumi tra il 1901 ed il 1940. Tra i migliori allievi

del Venturi va citato Pietro Toesca (1877 – 1962), il cui contributo principale si indirizza verso gli

studi relativi alla pittura lombarda, alla miniatura, e soprattutto all’arte medievale nel suo

complesso, analizzata con assoluto rigore filologico, estraneo alla moda culturale romantica del
revival gotico. Bernard Berenson ( 1865 – 1959), fu uno storico e critico d’arte statunitense di

origine lituana che si stabilì in seguito a Settignano, provincia di Firenze. Personalità raffinata e

colta, con forti influenze di cultura letteraria anglosassone, compì degli approfonditi studi sul

Rinascimento, considerato a lungo, non solo da lui, l’ unica epoca aurea dell’arte mondiale. La sua

specializzazione nel campo filologico non gli impedirà di portare avanti importanti riflessioni sullo

studio della forma, in quegli anni ancora poco praticato. Berenson divide gli elementi costitutivi

dell’opera in decorativi, riferiti ai valori tattili, al movimento, alla composizione spaziale, al colore

ed al tono, finalizzati al raggiungimento dell’illusione naturalistica della tridimensione ed

illustrativi, cioè riguardanti l’iconografia e l’ideologia dell’opera, in poche parole il suo contenuto .

I valori decorativi si manifestano come eterni, quelli illustrativi sono figli del tempo in cui l’opera è

creata e del vissuto personale dell’artista. La personalità di Roberto Longhi (1890- 1970), ha

segnato una intera generazione di storici dell’arte , con ripercussioni manifestatisi ancora in tempi a

noi vicini, anticipando anche quei caratteri di forte individualismo e di colta eccentricità che spesso

hanno caratterizzato la critica d’arte italiana. Allievo di Adolfo Venturi e Pietro Toesca, quindi nella

scia di illustri maestri, Longhi è andato oltre i limiti della filologia positivista ma anche di qualsiasi

tentazione filosofica della storia dell’arte, nell’accezione del metodo crociano, ponendosi semmai

vicino agli esiti della “pura visibilità”. Il metodo critico di Longhi ha costituito un assoluto unicum,

centrato su varie personalissime componenti, come la sua capacità di “penetrare” l’opera con

l’occhio del fine conoscitore, e un grande virtuosismo di scrittore, in grado di permettergli una vera

e propria competizione con l’autore tramite il procedimento retorico dell’ecfrasi. L’acume

longhiano ha gettato luce su numerose “province” pittoriche dell’arte italiana, dalla pittura

veneziana alla lombarda, per passare a quella che definirà “L’Officina Ferrarese”. Ma, soprattutto,

Longhi sarà in grado di recuperare alla storia dell’arte italiana il Seicento e la stagione del Barocco,

con una attenta ed illuminante analisi del fenomeno caratterizzato dal Caravaggio e dalla sua

successiva scuola. Va inoltre sottolineato l’avvicinamento giovanile del Longhi all’avanguardia

futurista, fatto del tutto inedito per uno storico dell’arte di quell’epoca, maturato nel periodo della
sua collaborazione alla “Voce” di Giuseppe Prezzolini. Questa adesione va interpretata alla luce

della sua opposizione al simbolismo tardo ottocentesco, ed a qualsiasi visione statica della forma

artistica, in nome di quel trascendentalismo fisico che lo portò ad esaltare il Barocco. Gettando

doverosamente lo sguardo al di là dei nostri confini, sebbene in maniera inevitabilmente non

esaustiva, si debbono menzionare due personalità di rilievo quali Aby Warburg ed Erwin Panofsky,

collocabili nel ruolo di maestro e discepolo prediletto. Con Warburg ( Amburgo 1866 – 1929) ,le

questioni relative ai fenomeni artistici iniziano ad essere affrontate non solo con un approccio

formalista, ma anche contenutistico ed iconografico. Il metodo iconologico adopera tutti i dati

figurativi per costruire una immensa ed ambiziosa storia della cultura, una scienza dell’uomo che

sviluppa una analisi soprattutto antropologica e psicologica. I suoi studi si concentrano sul

Rinascimento, un periodo decisamente idoneo per l’applicazione della sua metodologia, in

particolare quello fiorentino. Nei saggi dedicati a Botticelli i modelli figurativi ed i simboli delle

opere sono strumenti idonei per svelare molti aspetti di quel complesso mondo culturale e politico .

Nei vari studi, raccolti in un unico volume dal titolo “La rinascita del paganesimo antico” del 1932,

si documenta il tentativo di Warburg, teso ad individuare i molti collegamenti tra l’antico e la

tradizione rinascimentale. Il critico e storico d’arte tedesco Erwin Panofsky (1892-1968), perfeziona

il metodo iconologico forte del suo rapporto con il Warburg Institute, sostenendo che l’atto

percettivo è un processo fisiologico immutabile mentre varia l’interpretazione di quanto si vede, in

forza del significato variabile delle forme artistiche in relazione agli eventi culturali e contenuti

spirituali di un’epoca. Negli “Studi di iconologia” (1939), Panofsky traccia le linee guida della sua

teoria. Base di partenza l’interpretazione del soggetto primario o naturale, quindi giudizio sulla

qualità espressiva di un’opera tramite l’identificazione delle forme pure dell’immagine, cui segue lo

svelamento del soggetto secondario o convenzionale, con l’identificazione dei motivi raffigurati e

delle fonti letterarie. In ultimo si raggiunge la definizione del contenuto ; il livello e significato

simbolico complesso attraverso la verifica delle circostanti condizioni storico – culturali, con il

superamento dei tradizionali steccati tra forma e contenuto. Di grande importanza per gli studi
culturologici anche il già citato saggio del 1927 “ La prospettiva come forma simbolica”. Facendo

un rapido passo indietro non si può non menzionare un nome fondamentale per la culturologia e la

storia dell’arte come lo svizzero Heinrich Wolfflin (1864-1945). Wolfflin appartiene, come

sottolineato da Renato Barilli che allo studioso d’oltralpe ha dedicato approfondite riflessioni, ad

una generazione di grandi “generalizzatori” della cultura, cioè di studiosi intenti a far prevalere le

ragioni del generale sul particolare, come Husserl, Bergson. Saussure, Dewey. In particolare

Saussure, uno dei padri della linguistica, introdusse la celebre dicotomia tra “langue” e “parole” ,

differenziandosi quindi dall’illustre predecessore Kant, per il quale l’apparato delle forme e delle

categorie, della sensibilità e dell’intelletto si dava “a priori”, una volta per tutte. Saussure impone

viceversa un concetto tale per cui tutto il movimento dei casi singoli, tutte le modifiche introdotte

all’interno delle pratiche di linguaggio nel corso della storia, gli atti di “parole”, hanno senso solo

sullo sfondo organizzato dalle linee collettive della lingua o “langue”, per cui il nostro attuale modo

di esprimerci è determinato dalla somma di innumerevoli piccole mutazioni apparse lungo il corso

della storia. Quindi gli stili di un’epoca si ricompongono fino a dare corpo ad un “super – stile”.

Wolfflin, rifacendosi all’insegnamento di Burckhard e di Fiedler, fu il principale rappresentante

della corrente della “pura visibilità”, al punto che il suo metodo venne definito come la “storia

dell’arte senza nomi”. Dai primi e già fondamentali studi sviluppati nei saggi “Rinascimento e

barocco” (1888), e “L’arte classica” (1899), egli approdò alla piena definizione del suo metodo con

“ Concetti fondamentali della storia dell’arte” (1915). Per Wolfflin la storia dell’arte si sviluppa, pur

tenendo conto della personalità e degli influssi subiti dai singoli autori, per categorie generali,

troppo arduo ed in ultima analisi inutile analizzarla attraverso la singola opera o l’operato di ristretti

cenacoli. Quindi è dalla storia dello sviluppo delle forme che bisogna partire. Per compiere questa

analisi Wolfflin si basa sulla contrapposizione di due periodi fondamentali, Rinascimento e

Barocco, visti come ambiti non storicamente delimitati e definitivi, ma come strumenti per spiegare

il prima ed il dopo, come categorie universalmente ricorrenti e divulgate secondo la presenza di

simboli visivi dicotomici come lineare – pittoresco, o forma chiusa – forma aperta. In quest’ultima
coppia, la più adoperata, il “chiuso” indica la predominanza di valori tattili, il rigore geometrico, la

presenza della figura umana al centro della composizione . L’ “aperto” simboleggia al contrario la

profondità spaziale, una visione cosmocentrica, la diluizione della figura umana nello spazio,

l’ombra, il privilegio accordato al colore, quindi al sentimento piuttosto che all’anatomia ed al

disegno, visti come indice di valori mentali e concettuali. Quindi se Piero della Francesca è “aperto”

rispetto a Giotto, risulta “chiuso” se raffrontato a Leonardo, colui che dà dignità scientifica alla

prospettiva albertiana, ma anche il grande toscano soccombe nei confronti dell’apertura massima

della stagione barocca e poi di quella tardo barocca, i cui eccessi in termini di disinvoltura formale

saranno temperati dal “chiuso”, nuovamente prevalente durante il Neoclassicismo. Alois Riegl

(1858-1905), storico dell'arte austriaco, appartenente alla “Scuola viennese di Storia dell'Arte”, fu

un cultore dell'arte tardo antica, soprattutto bizantina. Riegl è conosciuto per la sua “teoria dei

valori”, a cui si collega la sua polemica contro il “restauro stilistico”, propugnato da Viollet-le-Duc.

Nella visione di Riegl chi restaura deve farlo essendo conscio della complessità di questa azione,

non riconducibile solo ad una funzione meramente estetico - decorativa. Bisogna quindi porre in

confronto dialettico diversi valori : il “valore storico”, che si fa garante della leggibilità del

documento, mentre il “valore di antichità” necessita di un non intervento in quanto è necessario

tutelare gli effetti provocati dal passaggio del tempo. Konard Fiedler (1841-1895), fu uno studioso

e teorico dell'arte , noto soprattutto per la sua teoria estetica della “pura visibilità”, secondo la

definizione a posteriori formulata da Benedetto Croce. Intento di Fiedler era quello di liberare l'arte

dalle connessioni con altre discipline quali l'estetica, la storia dell'arte, l'iconografia e l'antropologia,

per assegnarle un campo disciplinare autonomo. Fiedler rinvenì i fondamenti della sua teoria

nell'atto del vedere : l'arte visiva è l'ambito in cui si producono forme interpretabili e valutabili

esclusivamente nell'alveo della percezione visiva. Ernst Gombrich (1909-2001), austriaco

naturalizzato britannico, è stato tra i più celebri storici dell'arte del Novecento. Gombrich nacque a

Viennia da una facoltosa famiglia ebrea, fu allievo di Julius Von Schlosser, e si laureò con una tesi

su Giulio Romano. In seguito, sotto l'influenza di Ernst Kris, si avvicinò ai problemi della
psicologia sperimentale e della percezione visiva. Gombrich pose l'opera all'interno di una fitta rete

di relazioni, e la sua ricerca risultò particolarmente utile per gli studiosi delle discipline

umanistiche. Gombrich mise in evidenza il ruolo basilare dell'imitazione e della tradizione nella

genesi dell'opera d'arte, rigettando radicalmente la tradizione romantica dell'autonomia espressiva

dell'artista. Srive Gombrich : “discutendo infatti di un'opera d'arte non si può mai

completamente disgiungere la descrizione dalla critica. Le perplessità in cui si dibattono gli

storici dell'arte nelle loro discussioni sui vari stili e periodi sono dovute appunto a questa

mancanza di distinzione tra norma e forma”. Vengo ora a delineare alcune personalità che,

seppur attive prevalentemente nella seconda metà del secolo, presentano caratteristiche di studio e

ricerca tali da rendere più idoneo il loro inserimento in questo capitolo. Carlo Ludovico Ragghianti

(1910-1987), si laurea presso l'Università di Pisa. La sua formazione estetica è influenzata da

Benedetto Croce e dalla teoria della “pura visibilità”. Storico dell'arte di formazione, con il

procedere della sua carriera dimostrò interesse per tutte le manifestazioni dell' universo visivo. Nel

1935 fondò, insieme a Ranuccio Bianchi Bandinelli, la rivista “Critica d'Arte”, alla quale fornì un

importante contributo Roberto Longhi. Dopo una attiva partecipazione alla Resistenza in Toscana,

nel secondo dopoguerra iniziò il suo impegno politico, fu sottosegretario nel governo guidato da

Ferruccio Parri, ed anche negli anni successivi dedicò molte energie a temi, tutt'ora in buona parte

irrisolti, come la riforma universitaria, la formazione dei docenti e la tutela del patrimonio artistico

e culturale. Significativo fu il suo interesse verso il linguaggio e la critica del cinema, del cui

insegnamento fu tra i precursori. Giuliano Briganti (1918-1992), si laureò a Roma nel 1940, e negli

anni successivi collaborò con Roberto Longhi a Firenze, e da lui venne invitato a far parte della

redazione della rivista “Paragone”, pubblicata tra il 1950 ed il 1971. Fu conoscitore d'arte e studioso

colto, forte della formazione ricevuta dal padre antiquario fornì dei contributi fondamentali alla

studio della storia dell'arte tra Cinquecento e Settecento, con una particolare attenzione al

Manierismo ed al Barocco, i cui caratteri fantastici ritroverà in molta arte dell'Ottocento e del

Novecento, tra immaginario e metafisica. Esercitò anche una intensa attività di recensore e
polemista sulle colonne di riviste e quotidiani, contributi che raccolse in “Il viaggiatore

disincantato. Breve viaggio in due secoli di arte moderna”, pubblicato nel 1991. Cesare Brandi

(1906 – 1988), si laureò in Lettere presso l'Università di Firenze nel 1928. Nel 1932 dimostrò un

precoce interesse per l'arte contemporanea dedicando un saggio a Filippo De Pisis, dopo avere

visitato il suo atelier a Parigi. Il contributo principale di Brandi alla storia dell'arte italiana è stato da

lui offerto nell'ambito della teoria e della pratica del restauro, a partire dal 1938 quando, su proposta

di Argan, gli viene affidato l'incarico di realizzare il Regio Istituto Centrale del Restauro, oggi

Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro. Nel 1963 pubblica “Teoria del restauro”, a

tutt'oggi testo fondamentale per lo studio di questa disciplina, che divulgò anche avvalendosi del

mezzo televisivo, con una serie di documentari intitolati “A tu per tu con l'opera d'arte”. Federico

Zeri (1921-1998), fu storico e critico d'arte dotato di personalità irriverente ed originale. Dopo avere

seguito, a partire dal 1943, le lezioni di storia dell'arte di Pietro Toesca, che considerò, insieme a

Roberto Longhi, suo maestro, apprezzando tra i suoi coetanei Mina Gregori, molto legata a Longhi,

e Giuliano Briganti, venne nominato nel 1946 Ispettore dei Beni Culturali, incarico da cui si dimise

alla fine degli anni Cinquanta, avviandosi ad una carriera di studioso indipendente ed estraneo

all'ambiente universitario, dal quale venne osteggiato, e di consulente privato. La sua fama di

conoscitore venne apprezzata soprattutto all'estero al punto da farlo diventare, nel secondo

Novecento, il più stimato storico dell'arte italiano. Tra i suoi scritti va citato il saggio “Pittura e

controriforma”, del 1955, che rivalutò lo stile dei pittori manieristi romani. Nella villa di Mentana

sua residenza raccolse una sterminata collezione d'arte antica, una vasta biblioteca ed una fototeca

di 290.00 immagini, donate con atto testamentario all'Università di Bologna. Negli anni Ottanta e

Novanta divenne noto al grande pubblico, grazie ad una serie di stralunate apparizioni televisive, ed

alla celebre beffa dei falsi Modigliani del 1984, quando fu l'unico tra gli storici dell'arte italiani ad

avanzare forti dubbi sull'autenticità delle tre “teste” dell'artista livornese rinvenute in un fosso della

città toscana, che si rivelarono effettivamente scolpite da tre giovani studenti e dall'artista Angelo

Frongia.
Tendenze della critica e dell’analisi del contemporaneo nella
prima metà del Novecento

Nella schiera ampia e qualificata di critici – letterati che affolla la scena primo novecentesca, un

ruolo importante, seppure per un breve periodo, è ricoperto dal francese Guillaume Apolinnaire (

1880 – 1918). Apolinnaire è raffinato poeta ma anche personalità estremamente sensibile ai temi

dell’arte contemporanea, non solo in quanto sostenne apertamente individualità come Alfred Jarry,

l’inventore della Patafisica ed il poeta Max Jacob, e fu comunque al centro delle più vivaci battaglie

artistiche della sua epoca. Fu il primo ad appoggiare i Fauves pronunciandosi a sostegno, fin dal

1908, di Matisse e Derain. Apolinnaire è considerato lo “scopritore” di Picasso ,e a lui ed a Braque,

tra gli altri, dedicò il saggio del 1913 “I pittori cubisti”, seguendo poi l’evoluzione di quello stile, in

particolare nei riguardi della poetica di Delaunay, alla quale diede il nome di “orfismo”. La sua

apertura mentale lo portò a superare le aspre polemiche tra cubisti e futuristi, ed a stabilire un

rapporto di amicizia con Marinetti, a cui dedicò il volume “L’antitradizione futurista”. Ho evocato il

nome di Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), poiché imprescindibile da qualsiasi obiettiva

analisi delle teorie sulla contemporaneità novecentesca, e degli influssi trasmessi fino ai giorni

nostri. Di Marinetti si parla in mille modi e maniere , ma raramente si accosta il suo nome alla

critica d’arte. Egli è invece a mio modo di vedere estremamente importante per questa disciplina,

perché in grado di anticipare modalità tipiche di quella che sarà poi la cosiddetta critica “militante”

e la successiva, abbinata storicamente a quest’ultima, pratica curatoriale. Sono relativamente recenti

le manifestazioni dedicate al centenario del Futurismo, suggellato dalla pubblicazione del primo

Manifesto sulle pagine del parigino “Figaro” il 20 febbraio 1909. Molte le polemiche, che in buona

parte mi sento di condividere, su come si sia trattato dell’ennesima occasione sprecata per celebrare

la principale avanguardia italiana del Novecento. In effetti è mancato un coordinamento centrale


che avrebbe dovuto scongiurare la dispersioni degli eventi, spesso di portata non eccelsa,

concordando con le amministrazioni territoriali un programma di manifestazioni nelle principali

sedi del Futurismo ; Milano, in primo luogo, ma anche Torino indiscussa patria del Secondo

Futurismo, quello maggiormente concentrato sul rapporto con l’estetica urbana e le arti applicate e,

naturalmente, Roma, dove Marinetti si trasferì nella seconda parte della sua esistenza. Ispiratori di

Marinetti, oltre ai poeti post romantici e simbolisti francesi, che ebbe modo di studiare in maniera

approfondita nel corso della sua permanenza giovanile ad Alessandria d’Egitto, sono certamente

Henry Bergson e Nietzsche. Il primo è un esponente di primo piano dell’indirizzo spiritualistico

della filosofia francese dell’Ottocento, corrente di pensiero che si oppone al materialismo ed al

positivismo. Ricollegandosi a questi motivi ispiratori Bergson elabora una teoria di estrema

attualità, profondamente intrisa di irrazionalismo, e destinata a lasciare un segno profondo

nell’estetica dell’avanguardia novecentesca. La sua dottrina è una forma di intuizionismo, in quanto

nega al pensiero concettuale patente atta a veicolare la conoscenza filosofica, per affidarlo ad una

attività extraintellettuale come l’intuizione, interpretando al meglio le tensioni mistiche della cultura

del primo Novecento. Questo dato, per essere completo, deve però abbinarsi ad un concetto di realtà

come divenire o svolgimento ; la sua è una critica al concetto di tempo lineare ed omogeneo, tipico

di molta filosofia e della matematica. La derivazione da Nietzsche è evidente in molte opere di

Marinetti, specie quelle giovanili, e lo stesso Manifesto costitutivo ne è impregnato riguardo temi

come la sovrumana volontà, il superuomo, ed il volo visto come distacco dalla materia. Quanto era

leggibile tra le righe nella tradizione romantica fino al simbolismo, per quanto concerne il rapporto

tra arte, vita e società diviene esplicito nel Futurismo, e più specificatamente nel pensiero di

Marinetti e di coloro, artisti e letterati , che lo accompagnarono nella prima fase della sua

avventura, come Boccioni, Carrà, Severini, Russolo, Palazzeschi, Papini. Forte dell’affinità elettiva

dei suoi componenti, cementata dalla vicinanza generazionale, dall’intelligenza e dalla fortuna di

essersi trovati ad agire in una fase storica estremamente favorevole alle rivoluzioni del linguaggio

come il primo Novecento, il Futurismo è provvisto di un’ideologia globale artistica ed extra


artistica, dalla quale derivarono i tratti distintivi delle successive avanguardie storiche come

l’attivismo, l’antagonismo, il nichilismo e l’agonismo. Marinetti, se si vuole andare oltre quella che

appare superficialmente l’idolatria della macchina e dei mezzi meccanici, si aggrappa con tutte le

sue forze e con energia di pari messianica e missionaria alla rivoluzione tecnologica, perché le

macchine sono in grado di liberare l’uomo dai lavori faticosi ed avvilenti, e possono agevolare

l’instaurarsi di una società “estetica”, in cui arte e vita non siano più ambiti separati. L’adesione

apparentemente acritica al mito della macchina è pretesto per compiere un urgente e non più

rinviabile rito propiziatorio nei confronti degli estenuanti riti simbolisti e, più in generale, per

mettere in atto un processo di rapido svecchiamento di una cultura fin de siecle pedante, ottusa ed

estremamente compiaciuta di se. Marinetti ha la capacità di intuire la svolta epocale, e il coraggio di

riunire intorno a sé gli artisti, i letterati, i musicisti, in generale i creativi in grado di rappresentarla

al meglio. La sua azione critica si sviluppa anche con l’impiego spregiudicato degli strumenti di

comunicazione in quegli anni in rapida accelerazione, con la stampa di libri e cataloghi ampiamente

distribuiti, con l’organizzazione di provocatori happening, tesi al risultato di attirare l’attenzione sul

nascente movimento. Nel corso del trentennio abbondante in cui si sviluppa l’esperienza futurista,

divisa in una prima fase fino al 1920 dove avviene la rottura col movimento fascista quando questo

per ascendere al potere modifica le sue caratteristiche anarcoidi e libertarie, fino alla morte del

fondatore nel 1944, assistiamo alla creazione e messa in atto di un’estetica globale che abbraccia,

oltre alle arti visive, musica e letteratura anche la cinematografia, la moda, l’arredamento, la

pubblicità, la cucina. Singolare il manifesto redatto nel 1914 da Emilio Corra e Bruno Settimelli

“Pesi, misure e prezzi del genio artistico” dove, in opposizione alla pedanteria ed allo scarso acume

degli storici dell’arte tradizionalisti, si traccia la figura nuova di un critico compagno di strada degli

artisti ed autentico “misuratore” e valutatore delle loro prestazioni, in singolare anticipo con lo

scenario attuale e la nuova funzione che la critica all’interno di esso è andata a ricoprire. Al nome di

Marinetti si accosta quasi naturalmente quello dell'amico-nemico Gabriele D'Annunzio (1863-

1938). Il contributo di D'Annunzio allo svecchiamento della cultura italiana è evidente, ed


altrettanto evidente è il culto della personalità che il Vate celebrò in ogni modo e maniera. Oltre alle

intuizioni, concretizzate nella pratica, che D'Annunzio ebbe nei riguardi del ruolo del cinema e della

pubblicità, la sua azione nell'ambito delle arti fa di lui, più che un promotore come Marinetti, un

“assecondatore”. Questo avvenne soprattutto all'interno dell 'impresa di Fiume (1919-1920), come

sottolineato da Claudia Salaris nel saggio “Alla festa della rivoluzione. Artisti e libertari con

D'Annunzio a Fiume”. Qui avvenne il più significativo momento di convergenza tra D'Annunzio e

Marinetti. Scrive la Salaris : “Proprio in questo momento, per la presenza dei seguaci di

Marinetti nella città del Carnaro, si realizza un'osmosi tra futurismo e

dannunzianesimo....Ma l'assimilazione non si limita al campo politico. Marinetti sostiene

infatti che lo stile parolibero ha influenzato perfino la scrittura del “Notturno”, riconoscendo

d'altra parte che il Vate, “con la sua opera, ha fatto per la lingua italiana e il nome d'Italia

molto più di molte società di cultura italianizzatrice”. A Fiume conversero tutte le migliori e più

trasgressive energie creative dell'epoca, sotto lo sguardo complice e tollerante di D'Annunzio.

Ancora dal testo della Salaris : “L'impresa fiumana, per molti versi un episodio precursore del

fascismo, coagulò una quantità di esperienze diverse, di ansie di ribellione, di velleità

rivoluzionarie. Sotto questo aspetto fu come un lungo e febbrile carnevale all'insegna della

festa e della provocazione, il linea con le avanguardie del tempo, ma fu anche un momento

“insurrezionale”, come lo sarà il Sessantotto. Il volume racconta Fiume dalla parte degli

“scalmanati” che vi accorsero a vivere una vita-festa fatta di bravate futuriste e di utopie, di

trasgressione sessuale e di pirateria, di gioco e di guerra. In questa luce Fiume è un capitolo

significativo di quella cultura della rivolta che ha caratterizzato il Novecento”. Nell’ambito dei

corsi da me tenuti presso L’Accademia, relativamente alla prima metà del Novecento pongo

attenzione, in parallelo alla personalità di Marinetti, su quella del pensatore tedesco Walter

Benjamin (1892 – 1940). Personaggi certo molto distanti ed apparentemente inconciliabili,

Marinetti e Benjamin sono accomunati dalla consapevolezza che la tecnica determina l’ingresso in

una nuova era, con significative conseguenze nell’ambito delle arti, e l’avvento di una nuova
dimensione estetica del sociale. Amico ed inizialmente sodale di Brecht, esponente della Scuola di

Francoforte insieme, tra gli altri, ad Adorno e Marcuse, Benjamin, denunciando la perdita del

carisma insito nell’opera d’arte, non se ne lamenterà con quell’atteggiamento aristocratico tipico dei

suoi colleghi assumendo, pur nel malinconico pessimismo che caratterizza tutta la sua opera, un

atteggiamento di lucido pragmatismo. Nella sua carriera, conclusasi prematuramente e tragicamente

nel 1940 con il suicidio poco prima di intraprendere il viaggio negli Stati Uniti per sfuggire alla

persecuzione nazista, come già avevano fatto i suoi compagni di strada, Benjamin affronterà

molteplici argomenti, con il costante riferimento alle sue culture, ebraica e tedesca. Il saggio che lo

renderà un insostituibile supporto per gli studiosi della contemporaneità è “L’opera d’arte

nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, pubblicato inizialmente e passato quasi inosservato nel

1936, ristampato trent’anni dopo con grande successo, in singolare coincidenza con l’uscita di uno

scritto di un grande e profetico visionario del secolo breve, Guy Debord e la sua “Società dello

spettacolo”. In Benjamin c’è una ambivalenza nei confronti del giudizio sulla tecnica. La sua

impostazione marxista, sebbene sempre in odore di anticonformismo , tendeva a separare, in

un’epoca caratterizzata dall’irrompere del concetto di massa, l’antiindividualismo della nuova fase

monopolista ed illiberale del capitalismo e l’antiiindividualismo comunista, poiché era importante

chi manovrava le masse, se nell’interesse delle stesse, come nelle società socialiste, o per

indottrinarle, come nei regimi fascisti, illudendo loro di partecipare alle decisioni in realtà frutto

della volontà di ristrette elites, in supporto al capitalismo ed alle guerre di conquista, dove il surplus

tecnologico trovava sfogo nella creazione e nell’utilizzo di armi di distruzione di massa. Per

Benjamin il fascismo, di cui evidentemente non aveva colto il carattere anarcoide e libertario delle

origini, precedente alla conversione totalitaria, filo capitalista e clericale, riproponeva valori antichi

simboleggiati dall’estetizzazione marinettiana della guerra. A quest’estetica aristocratica Benjamin

contrappone l’estetica rivoluzionaria della riproducibilità. Dopo la litografia ,che da inizio

Ottocento asseconda con l’illustrazione la dimensione del quotidiano, contenendo nel suo grembo la

rivista popolare, la fotografia privilegia la rapidità percettiva dell’occhio rispetto alla manualità del
disegnare, anticipando la visione simultanea del film sonoro. L’autentico dell’arte preserva la sua

autorità rispetto alla riproduzione manuale, quindi al falso, ma nulla può rispetto alla riproduzione

tecnica offerta dalla fotografia, dove si privilegia la posizione del fruitore, permettendo di cogliere

aspetti inediti e nascosti della realtà. Quindi la tecnica della riproduzione sottrae il riprodotto

all’ambito della tradizione. Ne deriva che quanto viene meno è la nozione di aura, poiché

moltiplicando la riproduzione si pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. È

l’ultimo di una serie di passaggi che hanno portato l’arte dall’ambito della magia , a quello rituale,

per chiudere il percorso nel Novecento con l’ingresso nella dimensione politica. Nella fotografia

l’ultima resistenza dell’aura si manifesta con la presenza del volto dell’uomo. Quando, verso fine

Ottocento, questo comincerà a sparire, il valore espositivo prevarrà decisamente su quello cultuale.

Le vere arti di massa, per Benjamin, sono la fotografia e soprattutto il cinema, il quale può

adempiere, nella versione fornita dalla Russia rivoluzionaria, ad una vera funzione educativa. L’arte

d’avanguardia, come la pittura futurista e Dada, sono destinate ad elaborare contenuti e linguaggi

innovativi e trasgressivi che saranno poi sviluppati dai nuovi media. Con modalità differenti, ma

con eguale lungimiranza, Marinetti e Benjamin anticipano tematiche che saranno centrali nel

dibattito culturale degli anni ’50 e ’60 ,in merito al rapporto con la tecnologia, ed alla creazione di

una vera e propria avanguardia di massa. Il magistero di Luciano Anceschi (1911-1996), si pose su

di un piano radicalmente antitetico, anche se non sterilmente conflittuale, alle tendenze dominati

nell’estetica della prima metà del Novecento, in particolare l’idealismo crociano. Anceschi, allievo

di Antonio Banfi, condusse la sua esistenza prevalentemente sull’asse Milano – Bologna. Il suo

contributo fu fondamentale per gli esiti dell’avanguardia artistica e letteraria, e per la critica più

avanzata del secondo Novecento. Nel 1956 dà alle stampe il primo numero della rivista di estetica e

cultura “Il Verri”, palestra nella quale si formano un gran numero di protagonisti degli anni

successivi, tra cui cito Umberto Eco, Renato Barilli, Edoardo Sanguineti e Nanni Balestrini. Questi

autori, insieme a numerosi altri, daranno vita negli anni Sessanta al “Gruppo ‘63”, ed alla cosiddetta

“neoavanguardia”, ultimo raggruppamento culturale organico ed interdisciplinare del Novecento


italiano non a caso riecheggiante forme e modi delle avanguardie storiche, in particolare del

Futurismo. Il testo più noto, vera summa dell’estetica di Luciano Anceschi è il saggio “Autonomia

ed eteronomia dell’arte” pubblicato nel 1936 ,e periodicamente ristampato con alcuni aggiornamenti

ogni circa vent’anni fino al 1996. Scopo centrale, in costruttiva polemica con le ipotesi riduttive ed

unificanti dell’arcipelago dell’arte, in particolare con la poetica idealistica del Croce e dei suoi

numerosi seguaci, è costruire il progetto di una teoria estetica “aperta”. Pur partendo da percorsi di

ricerca relativi prevalentemente alla letteratura, in particolare con l’inquadramento della nozione di

“poesia pura”, il testo di Anceschi influenzerà profondamente anche l’ambito delle arti visive,

rinnovando l’antica complicità e sostanziale complementarità tra le due discipline. Anceschi

sostituisce al sistema chiuso tendente ad unificare il reale attorno ad un asse strutturale e dato una

volta per tutte, un atteggiamento “aperto”, che libera il pensiero da ogni schema predefinito

immergendolo nel contingente, nella molteplicità dei flussi dell’esistenza. Secondo Anceschi un

sistema in tal modo concepito doveva porsi in una dimensione “trascendentale”, e cercare

l’espressione pura della vita nei campi dell’estetica senza pretendere di immobilizzarla, di rendere

assoluto ciò che è infinitamente complesso. Tuttavia Anceschi sottolinea la necessaria dialettica tra i

due momenti, quello dell’autonomia e quello dell’eteronomia. In certi momenti della storia

assistiamo alla necessità per l’arte di essere in rapporto diretto e costante con la vita nella sua

totalità ,o rispetto ad un particolare ambito politico, religioso o morale, in altri, mutato il corso delle

cose, assistiamo allo svuotamento di ogni contenuto concreto ed alla rivendicazione di un carattere

puramente formale che porta all’idealismo estetico. Quindi assistiamo ad una continua tensione

dialettica tra l’esigenza di svincolare l’arte dal reale, quindi l’autonomia, e quella opposta ed

eteronoma di immergerla completamente nel flusso dell’esistenza. Lungo tutto l’asse novecentesco

un contributo fondamentale per il dibattito critico è fornito da numerosi intellettuali attivi negli Stati

Uniti, in particolare a New York. Il loro lavoro, equilibrata mescolanza di teoria e prassi, sarà

determinante per gettare le basi della egemonia americana sull’arte contemporanea, databile dagli

anni Cinquanta in avanti. Elemento di partenza la crisi del rapporto tra arti visive e realtà del
mondo, manifestatosi nella seconda metà dell’Ottocento con gli Impressionisti, Cezanne, i post

impressionisti e poi le avanguardie storiche che, col Cubismo, gettano le basi di un nuovo

linguaggio aniconico concentrato sull’autosufficienza dei suoi mezzi espressivi. Si tratta quindi di

una teoria critica di solido impianto formalista. Battistrada Roger Fry (1866-1934), di origine

inglese, che fu teorico e sostenitore della “forma pura”. Le origini del lavoro di Fry, pittore

dilettante, sono da rinvenire nel rapporto che intrattenne con i “conoscitori” italiani, in particolare

con Bernard Berenson. Partito da uno studio accurato sui pittori della rinascenza italiana, in

particolare Giotto, Fry approda, nei primi anni del Novecento, ad una visione che privilegia

l’immaginazione di chi fruisce l’opera a scapito delle emozioni della vita reale, che inducono a

reagire su di un piano morale. Questo lo induce ad una sfiducia nei confronti dell’arte di impianto

narrativo o naturalistico, e la sua diffidenza si indirizza soprattutto nei confronti

dell’impressionismo. Singolare il destino critico del gruppo più celebre della storia dell’arte in

quegli anni ; osteggiato dai formalisti per la sua attenzione maniacale al dato naturale, e di pari dalla

critica più tradizionale per lo stile eccessivamente “astratto”. Fry ritiene che l’attenzione emotiva

del fruitore sia sollecitata da determinate caratteristiche formali dell’opera. Queste sono il ritmo

della linea, la resa della massa, la dimensione relativa agli oggetti, il chiaroscuro, il colore. Quindi

Fry pare privilegiare l’equilibrio formale di opere basate sulla volumetria architettonica rinvenibile,

ad esempio, nei primitivi italiani, che furono in effetti portatori di istanze premoderne. La sua

predilezione va comunque verso il postimpressionismo, termine da lui stesso coniato per siglare lo

stile di autori come Cèzanne, Gauguin, Van Gogh, Matisse, fino ai fauves ed i primi cubisti.

Discorso portato avanti da Clive Bell, che conia il termine “forma significante”, per indicare la

distanza dell’espressione artistica dalla riproduzione del reale. Un altro eminente prosecutore delle

teorie formaliste fu Alfred Barr (1902-1981), direttore del Museum of Modern Art di New York

dalla sua fondazione, nel 1929, fino al 1943. Importante organizzatore e divulgatore, Barr

introdusse per la prima volta un corso di Storia dell’Arte Moderna nelle Università Americane. Per

lui l’ astrazione rappresenta il fine ultimo dell’arte, poiché con questo stile gli artisti abbandonano
definitivamente tutti gli elementi accessori e superflui per concentrarsi sull’essenzialità della forma.

Meyer Shapiro (1904-1996), si espresse con posizioni radicalmente polemiche nei confronti del

formalismo, inaugurando quella linea interpretativa dell’arte statunitense attenta al mondo ed

all’oggetto che sfocerà nella Pop Art. Shapiro non nega affatto la fondamentale importanza

dell’esperienza astratta, ma secondo il suo convincimento questo stile non viene partorito in

maniera indipendente dalla complessità della storia dell’arte ed al di fuori dei mutamenti sociali che

su di essa determinano una profonda influenza. L’arte astratta non è immune dalla relazione con il

mondo e non nasce semplicemente in opposizione alla deriva naturalista. Tutta l’arte, per Shapiro,

deriva dal’esperienza. Shapiro fa parte di una congrega di intellettuali newyorchesi che, a partire

dalla seconda metà degli Trenta, adotta posizioni marxiste nella declinazione specifica proposta da

Trotzki, accogliendo nel suo seno i numerosi transfughi europei, in particolare quelli provenienti

dalla Germania nazista. Da qui si spiega la forte attenzione nei confronti delle dinamiche sociali e

dei rapporti tra le classi. Nell’autunno 1939 fa la sua comparsa sulla “Partisan Rewiew”, rivista a

cui collaborano gli intellettuali trotzkisti newyorchesi, uno scritto di Clement Greemberg (1909-

1994), personaggio destinato a diventare nel secondo dopoguerra il più importante critico d’arte

americano, di pari amato e detestato e comunque imprescindibile punto di riferimento. La

riflessione di Greenberg parte da un’analisi dettagliata dei rapporti tra arte e società nell’era del

capitalismo. Tesi di fondo è che, mentre precedentemente alla Rivoluzione Industriale i rapporti di

forza tra le classi generavano di riflesso un sostanziale immobilismo rispetto a quanto era “cultura

alta”, a seguito di quest’ultima la borghesia occidentale, una volta approdata alle leve del potere

soprattutto economico, getta le basi di un fenomeno mai visto prima, la cultura d’avanguardia.

Quindi la cultura passa da una condizione di inerzia ad una di movimento e, così facendo, allenta i

suoi legami con il corpo sociale. L’avanguardia non esprime però i valori della borghesia che, con il

suo imporsi al potere, l’ha generata, tende anzi a dissacrarla ed a metterla in discussione

concentrandosi sull’autonomia dei propri mezzi espressivi a scapito dell’antica priorità del

contenuto. Contrariamente a quanto sostenuto da altri, per mantenere desta la sua funzione
rivoluzionaria l’avanguardia deve porsi in una dimensione di continuo rilancio e perseguire un

darwinismo linguistico per evitare di cadere nella trappola costituita dalla lusinga borghese pronta a

neutralizzarla per farla divenire pura merce di lusso. Per Greenberg il kitsch nasce per l’esigenza

capitalista di addomesticare le nuove masse urbane attratte dall’industria fornendo loro prodotti

pseudo culturali frutto della banalizzazione e serializzazione della cultura “alta”. L’ossessione di

Greenberg consiste nel tentare di fornire una definizione di arte “pura”, quindi egli rifiuta il

Romanticismo perché emanazione borghese e stile contaminato dalla commistione tra arti visive e

letteratura. L’arte deve approdare invece alla purezza e ad una sorta di opacità espressiva opposta al

virtuoso naturalismo della tradizione rinascimentale. Va notata la netta antitesi tra il pensiero del

critico americano e quanto in parallelo teorizzato da Walter Benjamin. Se Greenberg riteneva

necessario per il processo rivoluzionario il ferreo mantenimento dell’aura relativa all’opera,

Benjamin all’opposto ne predicava la dissoluzione come unica possibilità per l’arte di allargare il

proprio bacino di utenza, in previsione di una società estetica di massa che contenesse in sé la

possibilità di un radicale rinnovamento. Entrambi i messaggi si riveleranno profetici degli sviluppi

avvenuti a partire dal secondo dopoguerra. Relativamente a Greenberg, che conia il termine

“Modernismo” per delimitare l'area oggetto del suo interesse e della sua analisi critica,

l’Espressionismo Astratto poi il Minimal e l’area analitica del Concettuale, per Benjamin il

Situazionismo, la Pop Art ed il versante “mondano” del Concettuale, quello attento alla ricerca di

un nuovo rapporto tra artificio e natura mediato dalla politica. Ai giorni nostri sembra tornare per

certi aspetti attuale il dettato di Greenberg, con l’aura dell’opera rinvenibile nel marchio di fabbrica

dell’artista superstar e nell’enfatizzazione anche grottesca delle valutazioni di mercato, sebbene

tutto ciò sia molto distante da qualsiasi istanza rivoluzionaria, a meno di non gettare lo sguardo

sulle innumerevoli zone d’ombra generate dal luccicante sfavillio del sistema. La critica

statunitense, soprattutto dal punto di vista teorico, sarà anche ancora centrale in seguito con

personalità quali Leo Steinberg, Arhur Danto e Rosalind Krauss, ma di loro parlerò relativamente

alla stagione postmoderna.


La scena italiana del secondo dopoguerra

Con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale per l’Europa, l’Italia , e l’intero Occidente si

apre una stagione nuova, densa di incognite ma anche di inedite prospettive. Come già sottolineato,

buona parte dei migliori intellettuali europei, soprattutto tedeschi, negli anni precedenti l’epilogo

del conflitto si sono trasferiti negli Stati Uniti, irrobustendo le fondamenta di quella giovane cultura

e fornendogli le basi per quella che da lì a poco si trasformerà in una vera e propria egemonia. La

situazione italiana è contraddittoria. Da un lato è indubitabile, al di là di qualsiasi tardivo

revisionismo, che il fascismo, contrariamente al suo sciagurato epigono germanico, permise, anche

in virtù di quelle che erano le sue effettive radici, una più che dignitosa circolazione

dell’avanguardia artistica e letteraria, a patto che non si rivoltasse manifestamente contro il regime,

e bisogna dire come Bottai, Ministro della Cultura Popolare e gerarca di maggiore spessore

culturale, pur non privo di peccati, non sia certo paragonabile a Goebbels. Limite principale fu, in

particolare a partire dagli anni Trenta, l’autarchia che si estese alla cultura oltre che al commercio

ed all’industria, generando una sorta di impermeabilizzazione nei confronti di quanto si manifestava

all’esterno. Nell’ immediato secondo dopoguerra la cultura italiana pagò il peso di questi ritardi e le

tensioni della guerra civile a cui però, in un primo momento, non seppe contrapporre valide

alternative, rimanendo impastoiata in un clima morale di partecipazione che venne però condotto

con una accentuazione retorica infarcita di luoghi comuni. Molti intellettuali italiani, la cui quasi

totalità, nel particolare clima post resistenziale, è schierata a sinistra nei partiti socialista e

comunista, in quegli anni uniti dal patto d’azione del Fronte Popolare, avvertono da un lato

l’esigenza di dare vita ad una necessità di informazione e di aggiornamento per lungo tempo

repressa, dall’altro manifestano i sintomi di una nuova chiusura perché timorosi di una possibile

deriva formalista che distogliesse da esigenze in primo luogo ideologiche. Per un certo periodo di
tempo tutto quanto non rientrasse in una visione realista di matrice “nazional-popolare”, secondo

una cattiva lettura del pensiero di Antonio Gramsci,veniva tacciato come prodotto di una cultura

borghese non attenta alle reali esigenze delle masse popolari. Il problema, che pure aveva una sua

ragion d’essere, veniva ricondotto ad istanze banalmente socio-politiche senza affrontare la

questione a monte, cioè come mai si fosse verificata una sconfitta politica delle avanguardie ed un

reale distacco tra rinnovamento estetico e trasformazioni sociali. Il vero problema era che artisti ed

intellettuali lavoravano attorno ad una definizione critica della situazione in atto per verificarne gli

aspetti eventualmente positivi e stigmatizzarne i limiti, al fine di creare le basi di un suo

superamento in proiezione futura, mentre i politici si limitavano ad una analisi deterministica e

pragmatica della storia. Esemplare da questo punto di vista il rapporto tra Futurismo e Fascismo,

nati insieme su medesime istanze di profondo rinnovamento, con il secondo che per approdare al

potere adotta scorciatoie opportuniste e reazionarie. Una cospicua parte della dirigenza politica

della sinistra, in particolare quella comunista, tendeva a svuotare di ogni significato il concetto

stesso di avanguardia, per attribuirgli una funzione univocamente politica. Una politica, ad onta

delle buone intenzioni e della sincerità di molti, di impronta inevitabilmente populista dove agli

intellettuali veniva affidata la sterile funzione di “avanguardia del ceto medio”, cioè di divulgatori

delle istanze prodotte dai burocrati della politica, secondo una discriminazione dei ruoli che si

manifestava ricalcando i canoni più triti di quella borghesia di cui si volevano eliminare i nefasti

influssi. La risultante di una strategia così miope fu la riproposizione, ad un secolo di distanza, degli

schemi romantico-borghesi ottocenteschi di interpretazione della realtà sociale, come in una sorta di

“nuovo verismo”. Per cui la richiesta agli intellettuali di “andare verso il popolo” veniva interpretata

letteralmente con esiti spesso grotteschi soprattutto in pittura, dove gli artisti si impegnavano, ad

esempio, a dipingere tra i braccianti, come se questo atteggiamento conducesse di per sé ad una

qualche risoluzione dei problemi. Oltre al Futurismo, alla Metafisica ed al Realismo Magico

nell’Italia del primo Novecento venne trascurata, nel clima post bellico, la possibilità di collegarsi

all’espressionismo neo barocco della Scuola Romana così come alle ricerche astratto - geometriche
sviluppatesi in area lombarda negli anni Trenta. L’unico ponte venne gettato verso l’esperienza

breve di Corrente, dove militò lo stesso Renato Guttuso, principale e carismatico esponente della

linea neo realista. Questo raggruppamento moderatamente espressionista si sviluppò attorno alla

rivista “Corrente di vita giovanile”, diretta dal giovanissimo artista Ernesto Treccani ,e soppressa

dal regime nel maggio 1940. Attorno a questa tumultuosa situazione si vivacizza, in chiave

militante, il dibattito della critica d’arte. Mario De Micheli (1914-2004), autore del fortunato e più

volte ristampato volume “Le avanguardie artistiche del Novecento”, ed aderente al movimento di

“Corrente”, fu critico d’arte de “L’Unita”, organo ufficiale del Partito Comunista, e sincero

sostenitore delle posizioni realiste. Il suo giudizio di fondo comunque differiva dalle soluzioni

formali maggiormente enfatiche e didascaliche per farsi portavoce di un “realismo dialettico” non in

grado, però, di superare le contraddizioni implicite in questo tipo di posizioni. Massimo esempio, a

suo modo di vedere, la celebre “Guernica” di Picasso, vista come possibilità di esprimere una

accesa denuncia politica e sociale senza rinunciare ad elementi di contenuto formalmente

“modernisti”, ma non per questo di difficile comprensione. Nel 1948, dopo l’interruzione dovuta

alla guerra, riapre la Biennale di Venezia. Fu una edizione estremamente importante che sommò

potenzialità e contraddizioni di quella fase storica. Evento clou l’allestimento di una grande

rassegna sull’Impressionismo che permise a molti per la prima volta, cosa che ai giorni nostri

appare quasi incredibile data la continua proliferazione di discutibili eventi-spettacolo sul tema, di

ammirare opere importanti dei maestri di quella corrente. In parallelo venne esposta la collezione

Peggy Guggenheim, anche essa attualmente stranota e tramutatasi in un vero e proprio brand

internazionale, con la presentazione di Giulio Carlo Argan (1909-1992) che, illustrando opere

spazianti dal Cubismo di Picasso e Braque fino all’allora coevo Espressionismo astratto americano,

sosteneva l’importanza per l’arte italiana di collegarsi alle esperienze più avanzate del dibattito

internazionale e di non disgiungere l’impegno politico e sociale dalla ricerca sulla forma, esigenza

prima della ricerca artistica. Nella stessa edizione il critico Giuseppe Marchiori (1901-1982), uno

dei più impegnati verso un’arte sociale, presentò il gruppo di artisti radunato attorno al Fronte
Nuovo delle Arti, fondato nel 1946 da una proposta dell’artista Renato Birolli e da Marchiori

successivamente coordinato. Alla corrente aderiscono, in varie fasi, Guttuso, Pizzinato, Morlotti,

Vedova, Santomaso, Leoncillo, Viani, Cassinari, Turcato, Fazzini, Franchina. Ma l’accentuazione

sempre più polemica nei confronti della necessità della figurazione previo il distacco dalle “masse”

, specie dopo i commenti tra il sarcastico ed il paternalistico provenienti dagli ambienti comunisti e

dal segretario del PCI Palmiro Togliatti, provoca ben presto la scissione definitiva tra chi, come

Guttuso, Pizzinato ed altri, continuano a perseguire la linea “nazional - popolare”, e gli altri che

decidono di perseguire definitivamente un percorso non vincolato di ricerca individuale. Esemplare

in questo senso l’operato del gruppo romano Forma composto da Accardi, Attardi, Consagra,

Dorazio, Guerrini, Perilli, Sanfilippo e Turcato che, già nel marzo 1947, assume una posizione netta

ed orgogliosa, sostenendo l’assoluta non inconciliabilità tra formalismo e marxismo. Su questa scia,

ma con maggiore volontà dialettica, lo storico dell’arte Lionello Venturi (1885-1961), autore di

quella “Storia della critica d’arte” ampiamente menzionata in questo volume, nel 1952, con il

saggio “Otto pittori italiani”, dà corpo all’omonimo “Gruppo degli Otto”, dove militano Afro,

Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato e Vedova, tentando coraggiosamente una

mediazione tra le esperienze storiche di Cubisti, Espressionisti ed Astrattisti e la tradizione italiana,

con il conio di un termine come astratto-concreto. Questi artisti, e molti altri, proseguiranno poi

seguendo autonomi percorsi di ricerca. Gli anni ’50 sono segnati dalla prevalenza di uno stile di

matrice aniconica, dotato di particolari caratteristiche, passato alla storia con l’etichetta di

Informale. Per la prima volta, complice il progresso tecnologico e la capillarizzazione delle reti

informative questo movimento, assai variegato ed eterogeneo quanto ad esiti, si diffonde

globalmente includendo anche un paese fino ad allora fuori dai giochi dell’arte occidentale come il

Giappone, con il gruppo Gutai. Per circoscrivere il fenomeno adottando un criterio il più possibile

estensivo, L’Informale può essere definito come uno stile connotato dal’assenza di una forma

precostituita , quindi distante dai rigori dell’astrazione razionalista, caratterizzato dalla vitalità

pulsante degli artisti, ispirato da ritmi di pari biomorfici e fitomorfici, da percorsi calligrafici, dal
volontario regredire, in taluni casi, verso l’archetipo individuato nel sito dell’infanzia o della follia.

L’Informale si denota anche per l’uso di vernici , resine industriali, e materiali di recupero anche

se, nonostante le premesse linguistiche, non riuscirà, salvo casi estremamente sporadici, a compiere

il gran balzo verso la tridimensione, che si manifesterà solo nel decennio successivo. Stile

internazionale quindi, che in Italia ebbe esiti controversi, in parte per il ritardo con cui gli artisti del

nostro paese si sintonizzano con il nuovo fenomeno, ma anche per la relativamente scarsa fortuna

dell’astrazione nella penisola, se confrontata con quanto avviene altrove. Artisti come Turcato,

Vedova, Santomaso, Capogrossi, Scanavino, i piemontesi Soffiantino e Ruggeri, per citarne alcuni,

sono nomi di indubbio spessore. Un caso a sé quello di Alberto Burri, per il suo radicale uso della

materia, apparentemente simile in realtà diverso da quello proposto, ad esempio, da Schwitters, per

il fatto che essa in ultimo giunge a ricomporre lo spazio ideale della tela. Oltre al prima citato

Gruppo degli Otto di Lionello Venturi, un critico che si sforzò di fornire la definizione di un’area

italiana che comunque presentava individualità di tutto rispetto spesso sottovalutate fu Francesco

Arcangeli (1915-1974), allievo di Roberto Longhi, direttore della Galleria d’Arte Moderna di

Bologna e docente della locale Università, dove al suo magistero si formarono molti critici e storici

dell’arte attivi a partire dalla seconda metà degli anni ’70. Il suo impegno verso questo versante

artistico sarà documentato nel saggio “Dal Romanticismo all’Informale”, uscito postumo nel 1977.

Arcangeli individuò alcuni autori, Moreni, Morlotti, Vacchi, Bendini, per citare i principali,

accomunati dalla comune provenienza geografica nell’area padana. Questi autori non appaiono

particolarmente assillati dall’innovazione formale a tutti i costi, il loro lavoro è prima di tutto

caratterizzato da una sottile introspezione psicologica. Il riferimento al romanticismo sta nel

richiamarsi degli artisti alla tradizione del paesaggismo italiano, matrice dalla quale essi partono per

prosciugare l’immagine scomponendola nelle sue linee guida. Caratteristica di questi, e di molti

altri artisti dell’Informale, specie nei primi anni del dopoguerra, è un rapporto sofferto con la storia

e la conseguente sfiducia nella tecnica e nelle facoltà salvifiche dell’arte dopo che l’utopia di

cambiare la società si è sfracellata sullo scoglio del conflitto mondiale. Il rapporto con l’arte è
vissuto su di un piano individuale, lo spazio che basta al’artista per esprimere la propria tormentata

interiorità è quello della tela. Un’altra caratteristica degli anni ’50 sarà la rivendicazione da parte

degli artisti di un nuovo ruolo all’interno di una società in rapida mutazione, ed un conseguente

protagonismo che porterà molti di loro ad assumere, oltre alle vesti tradizionali, anche quelle di

critici e teorici dell’arte e del sociale. Il tutto sulla scia di un rinnovato ottimismo che subentra

rapidamente al disincanto prima citato. L’Europa occidentale, grazie anche ai massicci aiuti

americani, si risolleva rapidamente dallo sfacelo bellico, le industrie tornano a produrre e le

tecnologie rapidamente a progredire, in quello che sarà, fino a metà degli anni ’60 , l’ultimo exploit

della civiltà industriale. Un fenomeno conosciuto come “boom economico”, che assumerà in Italia

particolari caratteristiche.

Gli anni Cinquanta e la teoria situazionista

Questa fase storica nasce nel segno di un nome di assoluto rilievo nel panorama artistico italiano ed

internazionale del Novecento come Lucio Fontana ( 1899-1968). Dopo avere frequentato gli

ambienti del Secondo Futurismo Fontana, emigrato in Argentina, pubblica nel 1946 il Manifiesto

Blanco , base teorica, tra la fine del 1947 e l’anno successivo, del Movimento Spazialista, che avrà

Milano come punto di riferimento. Nel Manifesto Fontana pone in essere un esplicito riferimento al

Futurismo dichiarando la necessità di proseguirne la storica missione, con la fondamentale

differenza che le nuove tecnologie, di cui Fontana con grande intuizione comprende le potenzialità,

svincolano dalla dipendenza con la “pesantezza” della civiltà delle macchine, con cui gli illustri

predecessori dovevano confrontarsi. Afferma con spirito profetico Fontana : “L’arte è eterna come

gesto ma morrà come materia, noi pensiamo di svincolare l’arte dalla materia … e non ci

interessa che un gesto, compiuto, viva un attimo od un millennio, perché siamo veramente

convinti che, compiutolo, esso è eterno”. Fontana sarà tra i pochissimi, con certe modalità forse
l’unico, a compiere, nella stagione dell’Informale, il balzo oltre la bi dimensione ed a relazionarsi

con l’ambiente. Ciò avverrà concretamente con una serie di opere realizzate tra la fine degli anni

Quaranta ed i primi anni Cinquanta dove Fontana abbandona i mezzi tradizionali del dipingere per

avvalersi, realizzando vere e proprie installazioni, di vernici fluorescenti, luci al wood e neon.

Inoltre Fontana, già nel 1952, adopera uno strumento appena approdato in Italia come la televisione

per proporre l’esperimento di una trasmissione artistica, quando il termine video arte sarà coniato

solo nel 1965, a seguito delle prime prove dell’artista coreano trapiantato negli Stati Uniti Nam June

Paik. Sempre nella Milano frenetica e bohemien di quegli anni si gettano le basi per un movimento

affine allo Spazialismo denominato” Pittura Nucleare”,con principali punti di riferimento gli artisti

Enrico Baj, Sergio Dangelo e Gianni Dova. Il riferimento della sigla è sintomatico del clima di

rinnovato ottimismo che pervade i primi anni ’50 e contagia gli artisti. L’intento, soprattutto di Baj,

che nel 1952 elabora il “Manifesto BOUM”, secondo del gruppo ed elaborato secondo uno schema

che ricorda le onomatopee e le tavole parolibere futuriste, è quello di ricostruire e rigenerare l’arte e

la società. Se il nucleare ha simboleggiato il fungo atomico di Hiroshima quindi la distruzione, è

invece necessario impiegarlo per fornire stimolo alla rinascita adoperando in chiave positiva i

progressi della scienza e della tecnica che, è storia iniziata in quegli anni, liberano l’uomo dal

recinto della condizione terrestre per proiettarlo su scala planetaria. Implicito, quindi, l’invito

all’arte a liberarsi da vincoli e pastoie. Peccato però che l’esito formale delle opere dei Nucleari, ma

anche degli Spazialisti con l’eccezione di Fontana, per quanto interessanti ed a volte irriverenti,

non vadano oltre la simulazione su tela di questi orizzonti siderali ed atomico -spaziali. Un cenacolo

culturale di straordinaria importanza per la teoria dell’avanguardia nasce e si sviluppa tra il 1955 ed

il 1957 nella città di Alba, per volontà di un personaggio geniale ed eccentrico come Pinot Gallizio,

farmacista convertitosi all’arte ed all’impegno sociale. Fondamentale fu l’incontro tra Gallizio ed

Asger Jorn. Jorn fu inizialmente teorico del gruppo Cobra, una delle più rilevanti filiazioni

dell’Informale nord europeo, acronimo di Copenhagen. Bruxelles ed Amsterdam. Il contributo più

importante di Jorn consiste nell’aver dato vita al Movimento Internazionale per un Bauhaus
Immaginista (1953-1957), che fornì un supporto fondamentale al dibattito di quegli anni sull’opera,

l’oggetto artistico, la funzione sociale dell’arte e degli artisti. Il testo di Jorn fonda i suoi

presupposti sulla critica di un movimento emergente in quegli anni, il Nuovo Bauhaus dello

svizzero Max Bill. Tema di fondo il ruolo dell’artista e dell’opera nella civiltà contemporanea. Max

Bill si concentra sull’aspetto funzionalista della questione esasperando i contenuti del Bauhaus

storico. Per Bill, al proprio insegnamento potevano essere ammessi solo gli artisti “professionali”,

cioè muniti di diploma artigianale o industriale. Questo in funzione di una visione tale per cui

l’artista doveva abbandonare l’espressività artistica soggettiva ed individuale per concentrarsi sugli

aspetti pratici ed utilitaristici a scapito di quelli estetici. Compito dell’”arte industriale” creare degli

oggetti armoniosi al servizio dell’uomo. Jorn rigetta integralmente queste tesi. Pur condividendo,

insieme ad altri compagni di strada, l’assoluta necessità, per l’opera d’arte, di divenire il più

possibile patrimonio collettivo, Jorn rivendica il primato dell’”immagine”, da cui deriva il relativo

rilievo dato ai valori della soggettività. Ogni forma nasce dai meccanismi dell’immaginazione,

secondo l’artista danese, e questo vale anche per l’architettura, espressione funzionalista per

eccellenza. Quindi la visione di Jorn si discosta dal concetto di algida purezza che è uno dei

capisaldi del Modernismo e rischia secondo lui, ad onta dei buoni intenti, di generare solo

alienazione. È necessario, invece, creare un rapporto di dialogo e contaminazione tra le varie

discipline e superare i rigidi settarismi esistenti, per coniugare, accanto alle esigenze di ordine e

chiarezza, le pulsioni vitalistiche e creative dell’eros, cioè dell’emozione. Durante il 1955 avverrà

il determinante incontro tra Jorn e l’artista ed antropologo Pinot Gallizio, da cui nascerà ad Alba,

nello stesso anno, il Primo Laboratorio di Esperienze Immaginiste. Tesi di fondo la rivendicazione

per l’artista, in un cruciale passaggio epocale, dove mutano gradualmente le condizioni del lavoro

per effetto della rivoluzione tecnologica , di godere di garanzie e condizioni idonee per un corretto

svolgimento del suo lavoro, che è socialmente non meno utile di quello dello scienziato,

dell’architetto e del designer industriale. Sulla scia di queste linee programmatiche viene convocato,

sempre ad Alba, il Primo Congresso Mondiale degli Artisti Liberi. In quell’assise Gallizio si scaglia
contro coloro, soprattutto scienziati e designer, che si sono asserviti al potere delle macchine

rimanendo intrappolati in una dimensione meramente funzionalista. Gli artisti possono essere in

grado, viceversa, di invertire la tendenza e, col tramite dell’immaginazione, fare in modo di

evidenziare le possibilità liberatorie della macchina e dell’automazione, per adoperarle in chiave

creativa e non unicamente produttivistica. Nel corso del convegno avviene il primo approccio tra il

Laboratorio di Alba ed una figura simbolica della contemporaneità tardo novecentesca come Guy

Debord (1931-1994), con il tramite di Gil Wolman, delegato dell’Internazionale Lettrista, sorta

qualche mese prima dalla scissione dell’ala radicale di quel movimento capitanata proprio da

Debord. Il Lettrismo fu un’invenzione teorica del rumeno trapiantato a Parigi Isidore Isou (1925-

2007), partorita tra il 1946 ed il 1950 con l’intento di gettare un ponte tra l’esperienza delle

avanguardie storiche e quella successiva delle neoavanguardie, con una presa di distanza dai temi

“classici” dell’Informale ed un porsi viceversa nella scia multidisciplinare e linguisticamente

eversiva di autori come Yves Klein, Piero Manzoni, John Cage ed il gruppo Fluxus. Dalla

collaborazione tra Debord e persone, gruppi e movimenti presenti ad Alba nascerà, di lì a poco,

l’Internazionale Situazionista. Sempre nel dibattito che si svolge serrato nel centro piemontese

emergono le posizioni dell’Urbanistica Unitaria, una teoria urbanistico -architettonica il cui

principale esponente era l’ex appartenente al gruppo Cobra Costant. Questa teoria, ed altre che si

sviluppano in quegli anni, sono parallele al fenomeno diffuso di invasiva urbanizzazione avvenuto

nel nord Italia, ma anche in altre metropoli europee, a seguito del “boom” economico degli anni ’50

e ’60. La possibilità di intervenire in presa diretta all’interno di queste profonde modificazioni

urbanistiche al fine di orientarne in positivo l’evoluzione, foriera di sincera speranza ed utopiche

ambizioni per molti artisti, venne invece incautamente gestita, tra l’abbandono affrettato delle

nostre tradizioni rurali e la creazione, talvolta partorita in totale buonafede, di opprimenti quartieri

ghetto, fonte di disagio e di conseguente emarginazione. Anticipando le tematiche dell’arte pubblica

tanto in voga, ed è cosa positiva, ai giorni nostri, l’Urbanistica Unitaria predica un intervento

globale e capillare sull’ambiente urbano. Quest’ultimo viene quindi considerato nella sua
complessità, non solo relativamente ai pur prioritari ambiti architettonici ed edilizi, ma come una

rete di esperienze di carattere sociale, psicologico, etnico ed antropologico. Queste considerazioni

erano diretta filiazione della psicogeografia, già introdotta dal Lettrismo, teoria consistente negli

studi della funzione psicologica esercitata dagli ambienti, sia abitativi che metropolitani, nella

convinzione di come l’estetica si dovesse applicare in rispetto della sua etimologia originaria, e

quindi trasmettersi dai sensi al comportamento, quindi alla quotidianità, per modificarla nel

profondo. Gli artisti, in sintonia con il nuovo ruolo sociale da essi rivendicato, dovevano concorrere,

con pari dignità rispetto agli architetti, alla definizione ed anche al costante aggiornamento di questi

nuovi insediamenti abitativi, con l’obiettivo di incentivare una dimensione partecipata e comunitaria

dello spazio urbano. Il 28 luglio 1957, nel corso della conferenza tenutasi a Cosio d’Arroscia

(Cuneo), prende il via, su iniziativa di Debord, l’Internazionale Situazionista nata dalla fusione del

post Lettrismo con il Bauhaus Immaginista di Jorn, l’Urbanistica Unitaria di Costant, la

psicogeografia e vari altri contributi soprattutto nord europei e scandinavi. In questa originaria veste

unitaria l’esperienza dell’Internazionale andrà avanti fino al 1961. Il primo obiettivo dei

Situazionisti, sul quale convergono con varie sfumature le varie componenti, è quello di rompere in

maniera definitiva l’equilibrio su cui si regge il sistema dell’arte che, seppure molto meno capillare

rispetto a quanto siamo abituati a vedere ai giorni nostri, si basa sulla complicità di componenti

come le gallerie legate al mercato, la critica e le istituzioni museali il cui scopo finale è, per quanto

astutamente mimetizzato, neutralizzare la carica eversiva presente nell’opera d’avanguardia, ridotta

al rango di merce di lusso del tutto conforme agli schemi della società borghese e capitalista.

Coerentemente con questi assunti una delle prime iniziative situazioniste fu la contestazione mossa

verso l’assemblea generale dei critici d’arte internazionali svoltasi a Bruxelles, con l’accusa mossa a

questi ultimi di essere complici della borghesia. Altro obiettivo prioritario l’abbattimento dello

steccato tra vita reale, ordinaria e noiosa, e vita immaginaria, dominio del tempo libero borghese. I

termini potevano essere invertiti perché la realtà doveva diventare meravigliosa, ma non

nell’accezione letteraria e simbolica proposta dai Surrealisti, il cui contributo comunque non viene
sottovalutato, bensì nell’abbattimento concreto degli steccati tra tempo di lavoro e tempo di

divertimento, con l’obiettivo di costruire un’”antiarte” che si consumi nel momento stesso della sua

produzione. Snodo centrale del Situazionismo è il rapporto con la tecnologia, da un lato, e con la

politica, dall’altro. Queste due anime, dopo l’iniziale accordo, arriveranno presto a confliggere.

L’ala “tecnologica”, rappresentata principalmente da Gallizio, Melanotte e Costant e , con modalità

ancora più nette, dai gruppi tedeschi e scandinavi dove spicca Jorgen Nash per il quale, accusato di

non credere alle capacità rivoluzionarie del proletariato, Debord conierà l’etichetta spregiativa di

“nascismo”, riteneva fosse necessaria una profonda e radicale mutazione della società. Tuttavia il

loro principale obiettivo non era la “sparizione” dell’arte come concretizzazione oggettuale, ma

l’uso delle macchine e dei nuovi processi di automazione per generare, secondo le leggi classiche

dell’economia, un’inflazione quantitativa del “prodotto arte”, tale da indurre un suo deprezzamento

in termini di valore di scambio aumentandone in parallelo la valenza estetica, ed allargando

enormemente l’ambito dei possibili fruitori. La preoccupazione di Gallizio, principale mentore di

questa tendenza, è quindi di natura spiccatamente estetica, ancor prima che rivoluzionaria nel senso

politico del termine. La vera rivoluzione consiste nell’appropriarsi in maniera intelligente delle

potenzialità della macchina, per indurre ad un recupero della dimensione artigianale e della

manualità, conciliandole con l’uso dei più sofisticati strumenti tecnologici per permettere l’impiego,

data la quantità assai ampia di tempo libero che si viene a determinare, della mano e dell’intera

corporalità in chiave ludica e liberatoria. In questa visione la macchina non è più asservita alle

esigenze produttive ma si manifesta in una dimensione “antieconomica”, tale da creare una società

poetica ed artistica. Questo connubio tra quantità e qualità potrà di conseguenza, secondo Gallizio,

dare vita alla “civiltà del lusso standard”. Quindi dal vecchio concetto di arte si passa a quello

diffuso di esteticità. Gallizio tenterà di rendere concretamente operative queste sue intuizioni, in

particolar modo con quella che definirà Pittura Industriale. Si tratta di un procedimento dove enormi

rotoli di tela vengono dipinti con una tecnica a stampaggio abbinata all’impiego di vernici e di

resine naturali e sintetiche. I rotoli venivano poi messi in vendita a metro, secondo il procedimento
tipico delle mercerie, e potevano essere impiegati per la creazione di ambienti come una sorta di

tappezzeria artistica, od indossati da modelle per inusuali sfilate di moda. La rottura con Debord ed

il suo gruppo avverrà su di un piano squisitamente politico. Se Gallizio e gli altri predicavano una

radicale trasformazione sia della società che dei ritmi di produzione, ma non la sparizione

dell’opera, per il primo la questione si poneva in un’ottica diversa. Debord non metteva in dubbio

l’importanza dell’automazione e dello sviluppo materiale dell’epoca tuttavia, manifestando una

certa assonanza con le tesi di Walter Benjamin, riteneva il capitalismo incapace di gestire questa

nuova fase, quindi non credeva nella possibilità di riformarlo radicalmente, secondo la concezione

socialdemocratica nord europea. Nella sua visione lo sviluppo tecnologico, liberando l’uomo

dall’alienazione tipica dei ritmi della catena di montaggio industriale, era un’occasione unica ed

irripetibile per favorire una nuova attualità della rivoluzione proletaria. Tuttavia va sottolineato

come la visione del marxismo di Debord fosse assai poco ortodossa nei confronti dei canoni

ufficiali, perchè egli riteneva le sue applicazioni, in particolar modo quella sovietica, intrise di

burocrazia e di alienazione. Non va dimenticato che la creatività e la trasgressione erano per lui il

motore del processo rivoluzionario, da questo punto di vista egli nutriva fiducia nelle potenzialità

rivoluzionarie dei paesi del Terzo Mondo che gradualmente si liberavano, proprio in quegli anni,

dal colonialismo, ma anche in quelle del nascente sottoproletariato urbano. L’obiettivo finale del

superamento dell’arte era definito con il concetto base di “situazione”. La situazione va oltre il

concetto di arte tradizionale per fondersi indissolubilmente con la vita, secondo tre passaggi base. Il

primo di natura psicologica parte dalla rivendicazione del soddisfacimento non rinviabile dei

desideri quotidiani. Il secondo passaggio è legato alla concezione dell’Urbanistica Unitaria che vede

il soggetto inserito da protagonista consapevole nelle mutazioni urbanistiche delle società

industriali, al fine di proporre delle alternative radicali che vadano oltre la mera funzione

architettonica. Tutto ciò conduce ad un progetto esistenziale che sfocia in una opzione

rivoluzionaria. Strumento provvisorio per il raggiungimento di questa nuova dimensione, che da

individuale si fa collettiva, è il dètournement. A prima vista questo procedimento non pare


aggiungere nulla di nuovo a pratiche precedenti dell’avanguardia come il collage od il ready-made,

trattandosi di un accumulo di materiali di recupero, repertori iconografici di vario genere tra cui

spicca un’arte “minore” come il fumetto, ma anche altre vestigia di cultura pop quali manifesti,

pubblicità, riviste pornografiche e finanche opere d’arte vere e proprie. Differente però la finalità,

che non ha nulla di “artistico” in senso stretto, ma si propone la costruzione di ambienti provvisori

ed effimeri che si concentrano in una sorta di universalità temporalizzata nel “qui ed ora”,

paradigma dell’assoluta coincidenza tra arte e vita. L’ala debordiana del Situazionismo, pur non

accettando l’esistenza di dogmi prestabiliti nel movimento, tende sempre più, sebbene

involontariamente, a sottolineare, con i frequenti disconoscimenti dei membri che non si allineano

alla ineluttabilità del processo rivoluzionario e della sparizione del feticcio – opera, una sorta di

funzione messianica ricoperta dagli adepti. Pur riconoscendo nell’arte l’unico fenomeno positivo

della società borghese, i Situazionisti condannano la sua oggettivazione nell’opera, in quanto ciò

presuppone una presunta immortalità che la carica di un idealismo tendente all’alienazione. Quanto

essi dimenticano, seconda la tesi dell’estetologo Mario Perniola, uno dei principali studiosi del

movimento, è che lo statuto dell’arte è fatto al pari di soggetto ed oggetto quindi, criticando

unicamente il secondo, conferiscono al primo termine una importanza spropositata ed una

investitura quasi sacrale. Il Situazionismo come movimento si infrange nel velleitario ma generoso

tentativo di guidare i moti del Maggio francese sulla scia dello slogan “l’immaginazione al potere”.

Il tentativo di saldare l’energia della rivolta giovanile con la protesta proletaria, tramite l’assemblea

dei Consigli Operai, sarà destinata a fallire per le molte aspirazioni leaderistiche, e per il freno

opposto presto ai moti di piazza dal sindacato e dalla sinistra istituzionale.


Gli anni Sessanta e la società dello spettacolo

Il contributo imperituro offerto da Debord alla teoria del contemporaneo è senza dubbio rinvenibile

nel saggio “La società dello spettacolo”, apparso in prima edizione nel 1967, successivamente

ristampato con alcune significative aggiunte nel 1988 dal titolo “Commentari alla società dello

spettacolo”.I pareri su quest’opera non sono del tutto univoci, personalmente mi allineo alla schiera

di coloro che ritengono “La società dello spettacolo” un pamphlet lucido ed in grado di anticipare,

in maniera quasi inquietante, gli sviluppi della società a venire, sebbene con un tono di disincantato

pessimismo tipico dell’autore. Nella società dello spettacolo la produzione è soprattutto

immateriale. Aspirare ad un superamento dell’arte, come volevano i Situazionisti, significa per

paradosso produrre nuove forme d’arte, così come intervenire sullo spettacolo significa già farne

parte. L’aspirazione alla rivoluzione è morta mentre lo spettacolo è divenuto l’”episteme” del nostro

tempo, essendo in grado di assorbire qualsiasi opposizione facendola propria, al punto che soltanto

il silenzio, il sottrarsi alla scena può essere considerato un’arma efficace. Per giungere alla

definizione di “spettacolo” Debord parte da una verifica delle tesi marxiane le quali, da un punto di

vista sociologico e fatta la tara con le pessime applicazioni politiche di quel pensiero, possono

essere ancora estremamente utili per dipanare nodi irrisolti della contemporaneità. Secondo il

pensiero di Marx, nel capitalismo il valore di ogni cosa è dato dal tempo di lavoro socialmente

necessario per produrla. Ne consegue che lo sfruttamento nasce materialmente dalla differenza tra le

ore in cui il lavoratore riesce ad essere produttivo ed il tempo di lavoro necessario al suo

mantenimento. Sottraendo al lavoratore quanto eccede alle sue necessità primarie il capitalista gli

vieta di fatto l’accesso ai consumi. Questo tuttavia valeva nella prima fase della Rivoluzione

Industriale quando il valore d’uso, cioè il consumo materiale, prevaleva sul valore di scambio,

quindi sul potere di circolazione. Nella società capitalistica avanzata della seconda rivoluzione

industriale ogni oggetto conta in quanto merce, e quest’ultima diventa un’astrazione. Lo spettacolo
è la fase in cui la merce è giunta all’occupazione totale della vita sociale. Il mondo reale si è mutato

in immagine, e le immagini diventano l’unica cosa concreta. Per la prima volta nella storia della

civiltà abbiamo il predominio dell’immagine a scapito del logos. Debord sottolinea come la vera

essenza della merce è la sua spettacolarizzazione, essa non viene acquistata per soddisfare dei veri

bisogni primari ma per la sua carica simbolica. Nei Commentari alla Società dello Spettacolo

Debord, dopo vent’anni dalla prima stesura, stigmatizza la bontà del suo impianto teorico ed integra

il suo pensiero con fondamentali riflessioni. Queste giungono quando è ormai prossima, se ne

avverte ormai la non rinviabilità, la caduta del Muro di Berlino, evento fortemente simbolico che

non a caso cade esattamente due secoli dopo la Rivoluzione Francese, sancendo in qualche misura

la fine dell’eredità illuminista. Debord sottolinea come nel Novecento si sia stati in presenza dello

spettacolo concentrato tipico dei totalitarismi di ogni colore, in cui la massa veniva illusa con la

retorica della comunicazione di essere partecipe e protagonista di eventi determinanti per il futuro

della nazione. Le democrazie borghesi si sono invece distinte per la manifestazione dello spettacolo

diffuso, in cui il maggior livello apparente di democrazia e pluralismo è in realtà sottile pretesto per

indurre ad una serie di falsi bisogni tipici della società neocapitalista. Dopo la caduta del Muro le

due tipologie si fondono per dare vita alla società dello spettacolo integrato. Quest’ultimo è

caratterizzato da un continuo rinnovamento tecnologico, dalla presenza virtuale di una inedita

categoria quale il “falso indiscutibile” e dall’abbandono di qualsiasi prospettiva storica, sostituita da

un eterno presente in cui, anche relativamente all’arte, è difficile prevedere un futuro che vada oltre

l’immediato domani. Non si ha più un impatto diretto con la realtà, tutto è mediato dalle immagini,

il lavoratore si è trasformato in spettatore. Il grado di sovrabbondanza nella produzione di merci ed

il livello di automazione dei meccanismi dell’industria fa sì che l’operaio diventi soprattutto un

consumatore ; la contemplazione dello spettacolo tende a sostituire la concezione tradizionale di

lavoro. Relativamente al pensiero di Debord, il filosofo torinese Federico Vercellone, il cui saggio

del 2013 “Dopo la morte dell'arte” è da me più volte citato in queste pagine, pone in essere alcune

interessanti riflessioni rispetto alla sua diffidenza per l'immagine, considerandola sostanzialmente
un'eredità del pensiero platonico in grado di trasmettersi lungo il crinale del tempo. Dal testo di

Vercellone “Su questa base diventano incerti e criticabili i fondamenti della critica alla

“società dello spettacolo”, per prendere in prestito il termine a Guy Debord ed estenderlo a

tutti coloro, da Adorno a Baudrillard fino a Maffesoli che, sia pure in forme molto diverse tra

loro, hanno articolato la loro critica alla cultura di massa come una critica alla civiltà

dell'immagine, intesa come un'immane, artificiosa finzione. In questo quadro l'immagine,

grazie al suo medium, non costituisce semplicemente un motivo di artificiosa e passiva

seduzione ma sviluppa la possibilità di ricreare un mondo. Proprio grazie al suo medium

l'immagine si rende in grado di assumere quel valore attivo che è stato scambiato per il suo

temuto volto fantasmatico”. A conferma ed integrazione dello spirito profetico di Debord vale la

pena citare un brano del recente “Il trash sublime” di Slavoj Zizek, eclettica e provocatoria star

della filosofia contemporanea, su come il capitalimo avanzato abbia inglobato in sé anche lo spirito

del Sessantotto : “Dal 1970 in poi viene ad emergere la terza fase, una nuova figura dello

“spirito del capitalismo” : il capitalismo abbandona la struttura gerarchica fordista del

processo di produzione e inizia a sviluppare una rete basata sulla forma di organizzazione

fondata sull'iniziativa dei dipendenti e sull'autonomia del posto di lavoro. Invece di una

catena di comando gerarchico-centralizzata, abbiamo dei network con una moltitudine di

partecipanti, che organizzano il lavoro in forma di team o progetti, incentrati sulla “customer

satisfaction”, e una mobilitazione generale dei lavoratori grazie alla visione dei loro leader.In

questo modo il capitalismo è trasformato e legittimato in quanto processo egualitario :

incentivando l'interazione autopoietica e l'auto-organizzazione spontanea, il capitalismo

usurpa persino la retorica di estrema sinistra dell'”autogestione operaia” e la trasforma, da

motto anti-capitalista, a slogan capitalista. A livello dei consumi, questo nuovo spirito è quello

del cosiddetto “capitalismo culturale” : in primis, non si acquistano più i prodotti per la loro

utilità, né come status – symbol, ma li compriamo per ottenere quell'esperienza che ci

forniscono, li consumiamo per rendere la nostra vita piacevole e significativa” Un altro teorico
che conobbe grande notorietà negli anni ’60, periodo in cui venne considerato uno degli ispiratori

dei moti sessantottini, è il filosofo tedesco attivo negli Stati Uniti Herbert Marcuse (1898-1979),

facente parte, come Walter Benjamin, della Scuola di Francoforte. Le tesi di fondo di Marcuse

sulla contemporaneità non divergono sostanzialmente da quelle di Debord, tuttavia Marcuse è

connotato da una vena di maggiore speranza per il futuro, frutto della sua impostazione solidamente

hegeliana quindi dialettica. Due sono i testi principali in cui Marcuse affronta questi argomenti, si

tratta di “Eros e Civiltà” (1955) e “L’uomo ad una dimensione” (1964). Per Marcuse i valori

culturali del nostro tempo vengono inseriti in massa in un ordine stabilito. La liberazione può venire

dall’arte : il mondo dell’irrazionale può diventare la sede di ciò che è realmente razionale. Il

pensiero negativo rifiuta le cose e gli oggetti nella loro apparenza. Nella società ad una dimensione

è l’oggetto che controlla il soggetto determinando una condizione di non libertà. Vengono istillati

dal sistema borghese e capitalista, dietro la facciata di una illusoria libertà, tutta una serie di falsi

bisogni che servono a perpetuare il controllo sociale. In “Eros e civiltà” Marcuse sottolinea come,

nel nostro stadio altamente sviluppato di civiltà, la società estende la libertà e l’uguaglianza ma

sottomette gli individui alle sue esigenze con quello che è il principio di realtà, il quale si afferma

per mezzo di una de-sublimazione estesa ma controllata. Per superare questa situazione di stallo è

necessario vivere pienamente la propria dimensione sensoriale, scatenando la propria carica ludica

ed erotica, ed adoperando la tecnica per migliorare la propria qualità di vita. È necessaria, quindi, la

scomparsa di un’arte”alta”, nobile e selettiva, a vantaggio di una esteticità diffusa e capillare.

Decisamente più ”ottimista” la visione di colui che è probabilmente il più insigne studioso delle

comunicazioni del Novecento, il canadese Marshall Mac Luhan (1911-1980), il cui contributo è

stato fondamentale per rinvenire le omologie esistenti tra strato “alto”, ideale, e “basso”,

tecnologico, dell’universo cultura. Da questo punto di vista fondamentali sono due suoi testi, “La

Galassia Gutemberg : nascita dell’uomo tipografico” (1962) e “Gli strumenti del comunicare”

(1964). Analizzando le novità nel corpo sociale introdotte dai crescenti progressi di automazione,

MacLuhan afferma che, tramite le tecnologie nate dall’elettricità, il sistema nervoso viene esteso
fino a coinvolgerci in tutta l’umanità incorporandola in noi. Caratteristiche di questo tempo nuovo

sono la ribellione contro gli schemi imposti e la rivolta dei figli contro i padri. Lo slogan più celebre

coniato dall’autore, frequentemente usato anche ai giorni nostri è “il medium è il messaggio”. Le

conseguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè di qualsiasi estensione di noi stessi, derivano

da ogni nuova tecnologia. L’automazione elimina posti di lavoro ma, nel medio termine, ne crea di

nuovi in altri settori ed aumenta la partecipazione che la tecnologia meccanica dell’età moderna

aveva distrutto. La tecnologia della macchina frammenta i tempi del lavoro per la sua natura

monolitica ed accentratrice, mentre quella dell’automazione tende, per la sua essenza decentratrice,

ad integrarli. Un fatto comune ai media è che il contenuto di un medium è un altro medium ; il

contenuto della scrittura è il discorso, così come la parola scritta è il contenuto della stampa e la

stampa quella del telegrafo. McLuhan con la sua teoria non trascura l’ambito artistico sostenendo,

ad esempio, che il quadro astratto è omologico al diagramma di un computer e che gli artisti, in

generale, sono i soggetti più idonei a fronteggiare lo shock derivante dall’avvento delle nuove

tecnologie, perché le esperienze da loro coltivate li rende consapevoli dei mutamenti che

intervengono nella percezione sensoriale. L’elettricità, cifra del nostro tempo, trasporta

informazioni. Non appena la sequenza, tipica dell’era tipografica, lascia il posto alla simultaneità, si

entra nel mondo della struttura e della configurazione, con una unità sostanziale tra forma e

funzione. Noi diventiamo esattamente ciò che vediamo. McLuhan elabora poi una serie di

dicotomie mediatiche estremamente efficaci. Come quelle che separano i medium caldi, cioè radio ,

cinema e fotografia da quelli freddi come telefono e televisione. Il medium caldo estende un unico

senso fino ad un’alta definizione ed un paragone calzante può essere quello tra la “calda” fotografia,

rispetto al “freddo” cartoon. Il telefono è un medium freddo perché ricevente, come il discorso

orale, una scarsa quantità di informazioni. I media freddi comportano un alto grado di

partecipazione da parte del pubblico. Ai tempi di McLuhan non esisteva l’”home video”, altrimenti

lo studioso canadese avrebbe certamente messo in evidenza come un film potesse essere fruito di

pari con la modalità per eccellenza “calda” della sala cinematografica oppure con la modalità
“fredda” del monitor e del videoregistratore. La forma calda esclude, quella calda include. Le

tecnologie specialistiche tipiche dell’era meccanica tendevano a de-tribalizzare l’umanità

emancipandola dalla sua genesi nomade. L’energia elettrica, viceversa, non è specialistica ma è alla

portata di tutti , quindi ri-tribalizza l’uomo rendendolo un raccoglitore di informazioni all’interno

del villaggio globale. Per effetto delle nuove tecnologie si passa dallo studio del contenuto dei

messaggi a quello del loro effetto totale. Il significato di un messaggio è il mutamento che esso

determina in una immagine.

La genesi della critica militante negli anni Cinquanta e


Sessanta

A partire dagli anni Cinquanta la critica d’arte inizia ad assumere caratteristiche sempre più

marcatamente militanti. Studiosi formatisi attraverso studi rigorosi indirizzano la loro attenzione

non all’antico ma ad ad una scena contemporanea in rapido divenire, e sempre più necessitante di

interventi in presa diretta tali da promuoverla ed organizzarla. È il caso di due critici francesi molto

attivi anche in Italia. Michel Tapiè (1909-1987), fu il principale teorico dell’Informale. Tapiè

esordisce nel 1946 con una monografia dedicata a Dubuffet ,ed in seguito sostiene un gruppo di

artisti internazionali, soprattutto francesi, ma anche americani ed italiani., legati all’ Informale come

Hartung, Mathieu, Wols, Michaux, Riopelle, Bryen, Pollock, Capogrossi, Burri, Gribaudo, Carena.

Trasferitosi a Torino nel 1956 trova una città in fermento, che di lì a poco soppianterà Milano e

Roma come principale centro per l’arte contemporanea in Italia, grazie, tra l’altro, al lavoro di un

critico-mercante come Luciano Pistoi, all’attività della locale Galleria d’Arte Moderna ed

all’operato di critici come Aldo Passoni , Luigi Carluccio e, più tardi, Mirella Bandini, da poco

scomparsa, che di Tapiè sarà la principale studiosa. Nel 1959 il critico franco-italiano organizza nel

capoluogo subalpino una importante mostra intitolata “Arte nuova” , dedicata ad una ricerca ad
ampio raggio sull’Informale dove presenta autori dell’Action Painting, della Scuola del Pacifico e

del gruppo giapponese Gutai. Questi ultimi segnano l’ingresso ufficiale dell’Oriente nel sistema

dell’arte, che inizia gradualmente a diventare globalizzato. Nel 1960 dà alle stampe, per i tipi delle

Edizioni Pozzo, l’importante saggio “Morfologia altra”. In questo saggio viene definito il concetto

di “arte autre”, con cui Tapiè etichetta una modalità espressiva che rompe in maniera chiara ed

inequivocabile con i postulati del classicismo. Sempre a Torino, ormai sua città d’adozione, Tapiè

fonda l’International Center of Aestethic Research (ICAR) ,da lui definito un “Museo-Manifesto”,

un centro multidisciplinare in cui si sperimentasse il nuovo ed al tempo stesso si elaborasse una

attitudine filologica alla tradizione di quest’ultimo, che sarà punto di riferimento per molti giovani

artisti e critici torinesi. Una personalità di rilievo e di grande generosità intellettuale, attiva fino a

pochi anni fa, è quella di Pierre Restany (1930-2003). Dopo un iniziale interesse nei confronti di

correnti aniconiche come l’Astrazione Lirica e l’Espressionismo Astratto, Restany si interroga sul

pericolo di possibile conformismo di queste linee di ricerca, e della necessità di una evoluzione.

Fondamentale sarà l’incontro ed il sodalizio con Yves Klein, nel periodo in cui l’artista arriva al

culmine delle sue ricerche sul monocromo. Questo convince Restany della necessità per l’arte di

svincolarsi gradualmente dal vincolo bidimensionale, Klein è artista “aereo” per eccellenza, e di

aprirsi alla cultura industriale. Sulla scia di questo Restany, con una serie di scritti e di mostre, dà

impulso e fornisce basi solide basi teoriche ad uno dei gruppi di maggior rilievo del secondo

Novecento, il “Nouveau Rèalisme”. Insieme al New Dada di Rauschenberg, il Nouveau Rèalisme è

il movimento che collega lungo un segmento perfettamente vettoriale le esperienze informali con

quelle immediatamente successive della pop e del concettuale, con un programma che prevede un

nuovo approccio percettivo al reale ed una riappropriazione sociologica dell’oggetto

contemporaneo. Se nell’ Informale, al di là del rilievo concettuale del progetto estetico, era quasi

sempre la mano dell’artista a prevalere, il movimento di Restany, così come il New Dada, si pone

su una dimensione intermedia. Ampio spazio viene dato all’oggetto, tratto dall’immenso repertorio

di feticci della contemporaneità, ma su di esso interviene l’artista con inserti di pittura o con il
semplice riordino dell’esistente, come nel caso di molti autori del Nouveau Rèalisme. Abbiamo

quindi una sintesi tra primarietà dell’azione artistica e secondarietà dell’oggetto decontestualizzato.

I principali artisti sono Jean Tinguely, Arman, Daniel Spoerri, Martyal Raisse, Cèsar, Niki de Saint-

Phalle, Gèrard Deschamps, Christo ed il nostro Mimmo Rotella. Negli anni ’60 Restany redige

anche il manifesto di una delle varie correnti legate all’universo pop, la Mec-Art, il cui principale

esponente è l’italiano Gianni Bertini. Autentico giramondo Restany sarà attivo nella politica

culturale e, negli anni Settanta, sosterrà le correnti artistiche della Body Art e dell’Arte Sociologica,

occupandosi anche del rapporto tra arte ed ambiente naturale e metropolitano, volgendo la sua

attenzione verso una riflessione sull’equilibrio tra natura e cultura. A partire dagli anni ’80 e fino

alla sua scomparsa si interesserà, oltre alla difesa dei valori ormai storicizzati del Nouveau

Rèalisme, alla definizione dell’arte all’interno della stagione postmoderna. Ora voglio tratteggiare

le personalità dei tre critici torinesi prima menzionati. Luigi Carluccio (1911-1981) è stato un

protagonista della cultura torinese del Novecento. Iniziò ad occuparsi d'arte fin dal 1928. Importante

per lui la conoscenza di Luigi Spazzapan, di cui divenne amico ed estimatore.Collaboratore della

“Gazzetta del Popolo”, fu un attento conoscitore e divulgatore delle avanguardie novecentesche.

Memorabili le mostre allestite presso la Galleria d'Arte Moderna negli anni Sessanta e Settanta, tra

cui “Le Muse Inquietanti. Maestri del Surrealismo” (1967), “Il Sacro ed il Profano nell'Arte dei

Simbolisti” (1969), “il Cavaliere Azzurro” (1971), “Combattimento per un'immagine” (1973). Nel

1980 sarà curatore della sezione Arti Visive della Biennale di Venezia. Recentemente il Museo

Diffuso della Resistenza di Torino ha allestito una sua mostra di “Disegni di prigionia”, da lui

realizzati durante il biennio 1943-1945, in cui fu internato in un campo di prigionia tedesco per

militari italiani. Luciano Pistoi (1927-1995) fu critico d'arte, ma anche gallersita, mercante ed

editore. Di origine toscana, si trasferisce a Torino, dove partecipa alla Resistenza ; al momento

dell'arresto troverà come compagno di cella Mario Merz. Nel dopoguerra è tra i protagonisti del

dibattitto intellettuale torinese, diventando collaboratore dell'”Unità”, di cui negli anni Cinquanta fu

critico d'arte ufficiale. Nel 1957 apre la prima sede della galleria “Notizie”, la cui storia prosegue
fino al 1995. La consapevolezza culturale si abbina in lui alla curiosità ed al talento dello scopritore.

Innumerevoli gli artisti da lui esposti e valorizzati : dall'Informale, alla Pop, all'Arte Povera. Pistoi

si fa sostenitore di un dibattito tra critici italiani di varie generazioni, appoggiando la nascita della

rivista “Notizie”, nel 1957. Trasferitosi nel centro Italia dopo il 1975, curerà la programmazione

della Galleria dell'Oca, dove proseguirà sulla falsariga delle esperienze torinesi, gettando lo sguardo

anche sulle vicende della post modernità, con artisti come Salvo, Luigi Ontani, e Giuseppe

Salvatori, ed anche sulla generazione degli anni Ottanta. In quel periodo si segnala per una serie di

eventi che avranno come palcoscenico il borgo medievale toscano di Volpaia, situato sulle colline

del Chianti, e per la creazione di una innovativa fiera d'arte a Firenze, “La più bella galleria

d'Italia”. Mirella Bandini, scomparsa nel 2009, ha legato strettamente la sua esistenza alle vicende

dell'arte torinese del Novecento. Docente dell'Accademia Albertina, ha studiato i fermenti che

hanno reso Torino un inimitabile laboratorio creativo, dai Sei di Torino all'Arte Povera, passando

per l'Informale di Michel Tapiè e Pinot Gallizio, di cui sarà la prima e più attenta rivalutatrice. La

Bandini si distinguerà anche per una importante attività editoriale dedicata ad avanguardie come

Surrealismo, Lettrismo e Situazionismo, e per la sua attenzione e sostegno all'arte ed alla critica

delle ultime generazioni. A lei accostabile per alcuni aspetti è la figura di Giorgio Sebastiano

Brizio, scomparso nel febbraio 2014. Brizio fu attivo a Torino a partire dagli anni Settanta, con

articoli e saggi in cui dava conto della sua visione multidisciplinare dell'arte, nella quale metteva in

relazione le esperienze visive con quelle dell'avanguardia teatrale, di cui fu uno dei più attenti

conoscitori. Negli anni ’60 anche in Italia si sviluppa la cultura della pop art e, attorno ad essa, un

intenso dibattito critico. La Pop Art può essere definita, nella sua complessità di corrente anch’essa

globalizzata come l’Informale, l’”era dell’oggetto”. La società capitalista avanzata, con il suo

brulichio di oggetti e beni di consumo, feticci e simulacri metropolitani, icone mediatiche fornisce,

in particolare negli Stati Uniti dove questa, data la giovane età della nazione, è l’unica autentica

cultura, un inesauribile giacimento di immagini. La prima parte degli anni Sessanta è caratterizzata,

inoltre, da un incrementarsi del rapporto tra disegno industriale ed arti visive, tra arte ed industria
che ha le sue origini nella Rivoluzione Industriale dell’ Ottocento, con la diffusione delle arti

applicate e dell’Art Nouveau. Gli artisti della Pop statunitense, diversi dei quali, tra cui lo stesso

Andy Warhol, hanno alle spalle esperienze di lavoro nella grafica pubblicitaria e nel design,

adoperano, nelle loro creazioni artistiche, tecniche di riproduzione seriale derivate dai loro

precedenti tirocini, col risultato di prodotti di levigata freddezza e dall’alto livello di artificialità. In

Italia la Pop Art presentò caratteristiche autonome ed originali. Questa corrente era figlia della presa

d’atto della sopravvenuta supremazia della civiltà dell’immagine su quella della parola. Restava da

definire cosa fosse l’immagine. Il linguaggio della Pop era applicabile a qualsiasi situazione

standardizzata, nel rispetto di ogni singolo “genius loci”. Oggetto della Pop sono gli oggetti che la

vita quotidiana ci pone sotto gli occhi incessantemente, e che gli artisti svelano alla nostra

percezione distratta. Se gli stereotipi culturali americani sono oggettivamente la zuppa Campbell, il

tubetto di dentifricio, la bandiera a stelle e strisce e Marylin Monroe, per l’Italia, paese più ricco al

mondo di millenarie stratificazioni culturali, i simboli omologhi saranno Piazza del Popolo, la Lupa

di Roma, la Cappella Sistina, il Futurismo e, in generale, il paesaggio italiano. Il panorama della

Pop italiana si presenta sostanzialmente ripartito in due principali aree. La prima nel nord Italia, in

area soprattutto lombardo - emiliana con qualche addentellato torinese ,ed artisti come Maselli,

Bergolli, Peverelli, Recalcati, Romagnoni, Guerreschi, Baj, Adami, Del Pezzo, Carena, Nespolo. Si

tratta di artisti che forniscono una versione in qualche misura “psicologica” della Pop, con una

propensione nei confronti dei temi offerti dalla vita quotidiana e dal panorama cittadino. La

seconda, la più celebre e riconoscibile, ed indirizzata verso l’estrapolazione degli stereotipi culturali

secondo le modalità prima citate, è collocata a Roma, con l’addentellato toscano di Barni e

Buscioni. Gli artisti sono Schifano, Festa, Angeli, Ceroli, Marotta, Fioroni, Tacchi, Mambor.

Attorno a questi artisti, come più sopra accennato, si accende un dibattito critico serrato. Tra i

protagonisti principali Maurizio Calvesi (1927). Allievo di Lionello Venturi ed Argan Calvesi,

raffinato filologo, inizia la sua carriera come storico dell’arte con approfonditi saggi sul

Rinascimento, per poi concentrare la sua attenzione su temi di più stringente attualità. È stato uno
dei primi a rivalutare il Futurismo dopo la lunga interdizione del dopoguerra, ponendo in evidenza i

suoi legami con la contemporaneità. Questo con i saggi “Le due avanguardie . dal Futurismo alla

Pop Art” (1966), ed il successivo “Avanguardia di massa” (1978) in cui, con notevole intuizione,

Calvesi si sofferma sulle analogie rinvenibili tra l’ala “creativa” del movimento del ’77, e le

provocazioni di inizio secolo prodotte dal Futurismo e da Dada. Negli anni ’80 il critico romano

cura due edizioni della Biennale di Venezia, sostenendo uno dei gruppi del “ritorno alla pittura”,

quello Anacronista. Figura di spicco attiva in quegli anni fu quella di Carla Lonzi (1931-1982).

Scrittrice e critica d'arte, fu anche, in particolar modo nella seconda parte della carriera, militante

femminista e teorica dell'autocoscienza e della differenza sessuale. Laureatasi con Roberto Longhi

ed una tesi, da lui molto apprezzata, dal titolo “I rapporti tra la scena e le arti figurative dalla fine

dell'Ottocento”, la Lonzi, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, svolge una intensa attività di critica

d'arte, collaborando con la Galleria Notizie di Luciano Pistoi e con riviste come Marcatre. La sua

attenzione, che risente della formazione longhiana, va in direzione delle avanguardie dell'epoca, da

Lucio Fontana, alla pop italiana ed all'Arte Povera, fino ad un autore originale e tendenzialmente

non incasellabile come Giulio Paolini. Compagna dello scultore Pietro Consagra, e ben presto

conscia dei mutamenti in atto nel sistema dell'arte, sposa, nell'ultimo decennio di carriera, in

maniera pressochè esclusiva la causa della militanza politica. Notevole, in quegli anni, il contributo

offerto da Enrico Crispolti (1933). Tra i maggiori studiosi dell’Informale e della nuova figurazione

Crispolti, docente dell’ Università di Siena , accomuna il rigore dello storico, in particolare del

Futurismo di cui cito la celebre mostra del 1980 “Ricostruzione futurista dell’universo”, a quella del

critico militante e dell’archivista, creatore dell’”Archivio Crispolti Arte Contemporanea”. Negli

anni Sessanta cura una serie di rassegne intitolate “Alternative Attuali” e pubblica il volume

“Ricerche dopo l’Informale” (1968), contributo fondamentale per l’analisi del fenomeno pop in

Italia. Da sempre attento al rapporto tra arte e società Crispolti dirige, nel 1976, la sezione della

Biennale di Venezia intitolata “Ambiente come sociale”. Sempre in quegli anni, con un interesse

rivolto successivamente soprattutto verso la fotografia ed i problemi della comunicazione, si colloca


l’esordio di Arturo Carlo Quintavalle (1936), docente dell’ Università di Parma e creatore del

Centro Studi ed Archivio della Comunicazione. Inquadro in questo capitolo, ma avrei potuto farlo

in altri precedenti o successivi, la figura, centrale nell'ambito della critica d'arte italiana del

Novecento, di Giulio Carlo Argan (1909-1992). Argan si forma negli anni Venti presso l'Università

di Torino. Allievo di Lionello Venturi contrariamente a lui aderisce, nel 1928, al Partito Nazionale

Fascista. Durante il ventennio fascista Argan sposa la causa e diviene stretto collaboratore di

Giuseppe Bottai, uno dei gerarchi più colti ed illuminati, scrivendo sulla rivista “Primato” e curando

le edizioni del “Premio Bergamo”, contrapposto al reazionario e filo nazista “Premio Cremona” di

Farinacci, dove, tra gli altri, fa il suo esordio Renato Guttuso. Anche nel secondo dopoguerra,

quando Argan aderii al Partito Comunista, diventando sindaco di Roma nel triennio 1976-1979, la

sua visione rimarrà fortemente influenzata da quell'esperienza, nei termini, proposti da Bottai come

Ministro dell' Educazione Nazionale, di come lo stato avesse il compito di tutelare gli artisti dai

processi economici, dall'invadenza speculativa del mercato e dalle “mode” culturali. Negli anni

Sessanta Argan riveste un ruolo di primo piano nel dibattito relativo a correnti quali l'Informale,

l'Arte Cinetica, la Pop Arte, l'Arte Povera, fino ad elaborare la tesi della crisi irreversibile delle

tecniche tradizionali dell'arte nella società neo capitalistica, che lo porterà all'elaborazione del

concetto di “morte dell'arte”. Infatti , per ricorrere a quanto scrive Michele Dantini nel suo

“Geopolitiche dell'arte”, “...preme ad Argan promuovere un'etica pubblica connotata da

competenza, sobrietà, onestà, rigore. Difendere una “civiltà del lavoro” avvertita come

specificatamente nazionale che sembra tornare vincente nel decennio della ricostruzione post

bellica per poi finire sotto scacco e rischiare di scomparire negli anni del boom economico”.

La Biennale di Venezia del 1964, con l'invasione della Pop americana, rappresenterà per Argan un

punto di non ritorno, ed il declino della tradizione italiana sotto i colpi dello strapotere economico

d'oltreoceano, in grado di imporre stili e modelli di comportamento. Questo atteggiamento lo porrà

in contrasto con Maurizio Calvesi, considerato il suo erede, e con Carla Lonzi, che criticava in

Argan la non disponibilità a leggere il presente ed a comprendere come la lungimiranza intellettuale


di molti mercanti d'arte andasse ad insidiare il tradizionale potere della critica, arroccato sui

capisaldi di Stato ed Università. Dopo avere scritto di Argan, è doveroso tratteggiare una figura per

aluni aspetti a lui affine, furono compagni di studi, come Palma Bucarelli (1910-1998). La

personalità della Bucarelli è strettamente intrecciata alla storia della Galleria Nazionale d'Arte

Moderna di Roma, di cui assumerà la direzione nel 1941. Ella fece di quello spazio un contenitore

diverso rispetto alla tradizione meramente conservativa dei musei, ancora legati ad una tradizione

ottocentesca. Alla GNAM la Bucarelli diede l'impronta di un contenitore aperto, un punto di

incontro e di informazione utile non solo per gli addetti ai lavori, ma anche per gli artisti ed il

pubblico : organizzò conferenze e proiezioni, mostre temporanee, ed istituì, fatto innovativo per

l'epoca, un laboratorio didattico. Si dimostrò disponibile nei confronti dei linguaggi d'avanguardia

organizzando, tra le molte iniziative, una personale di Alberto Burri nel 1959, che suscitò

polemiche per l'atipicità di Burri rispetto alla pratica consueta dell'astrazione, e manifestò interesse

anche per le ricerche dei giovani artisti, invitando nel 1968 il Gruppo Laboratorio 70, dove

militavano De Dominicis, Matteucci, Notargiacomo e Grottesi, ad esporre presso i locali della

GNAM. Anch'egli allievo di Argan, Maurizio Fagiuolo dell'Arco (1939-2002), è stato critico d'arte

e collezionista. La sua attività di storico dell'arte è stata centrata soprattutto sul Barocco, mentre,

nell'ambito del Novecento, il suo interesse si è rivolto nei confronti del Futurismo, della Scuola

Romana e del Realismo Magico. Viva anche la sua attenzione sui temi della contemporaneità, come

testimonia “Rapporto 60. Le arti oggi in Italia”, pubblicato nel 1966. Nei primi anni Sessanta

l’ambiente culturale italiano nel suo complesso vive una stagione di fermento, e mostra attenzione

nei confronti delle questioni globali del linguaggio su cui si concentra l’attenzione dello

strutturalismo. Notevole rilievo assumono riviste di divulgazione culturale militante come “Il Verri”

e “Menabò” e, da un punto di vista letterario, la formazione del gruppo dei Novissimi dove militano

Sanguineti, Giuliani, Pagliarani, Porta e Balestrini , che, nel 1961, pubblica un volume collettivo di

poesie. Il tutto ruota attorno ad una formazione multidisciplinare come il Gruppo ’63, di cui ho già

accennato precedentemente, il cui operato ricalca, aggiornato al presente, quello delle avanguardie
storiche tramite l’applicazione dei linguaggi mediali e tecnologici all’ambito letterario. Dal punto di

vista della teoria critica sull’arte e dei rapporti comparativi di questa con altre discipline nel Gruppo

’63, oltre a Renato Barilli, di cui ho parlato e parlerò diffusamente in seguito, va segnalato

l’importante apporto di Umberto Eco (1932). Eco, da sempre attento ai problemi relativi al rapporto

tra creazione artistica e comunicazione, dà alle stampe nel 1962 il saggio “Opera aperta”, testo

fondamentale nel dibattito di quegli anni. In esso la tesi di fondo sostenuta dall’autore è che i nuovi

linguaggi dell’arte contemporanea si pongano a fondamento di una sorta di “metafora

epistemologica”, che procede ad una definizione del mondo affine a quello delle nuove metodologie

scientifiche. Gli ambiti artistici, oltre alle categorie storiche dell’arte classica e del Barocco, presi in

esame da Eco, essendo lievemente prematuri i tempi per un’analisi dettagliata della Pop , sono

quelli dell’Informale e dell’Arte Cinetica, altro fenomeno di quegli anni. Questo movimento, che

conosce il suo sviluppo tra la seconda metà degli anni Cinquanta e la prima metà del decennio

successivo, si basa sulla centralità dell’espressione, e punta ad una attiva partecipazione dello

spettatore. La convergenza aniconica con l’Informale subisce una netta divaricazione rispetto al

ritmo percettivo dello spettatore. Se per gli informali è importante il gesto artistico che collega il

corpo umano all’oggetto, nei cinetici il rapporto si fa asettico e distaccato e si basa sull’impiego di

tecnologie primarie che attraggono l’attenzione del fruitore quasi ipnotizzandolo. Altra caratteristica

di molti dei gruppi che compongono il variegato mondo dell’Arte Cinetica quello di nascondersi

dietro l’anonimato, a stigmatizzare un nuovo rapporto degli artisti con il sociale non più

personalistico ma attivamente costruttivo. La poetica dell’opera aperta è la possibilità, per

quest’ultima, di porsi come configurazione di stimoli dotati di una sostanziale indeterminatezza, tali

da indurre il fruitore a letture sempre variabili. Informale ed arte cinetica si pongono in un rapporto

spontaneo di relazione con le novità manifestatesi in ambito musicale e letterario. Nel concetto di

opera aperta si rinvengono inoltre sempre più evidente omologie, e qui è il caso dell’Arte Cinetica,

anche se Eco sottolinea come ciò fosse evidente già nel fenomeno della cosmologia barocca, con le

nuove acquisizioni scientifiche, come il principio di indeterminazione e la metodologia quantistica


che non ci dicono niente sulla struttura del mondo, ma solo su un modo di descriverne certi aspetti.

Una personalità di grande spessore artistico ed intellettuale nell’Italia del secondo dopoguerra, in

grado di attraversare con il suo pensiero lucido e tagliente varie epoche, fino ai nostri giorni, è

quella di Gillo Dorfles (1910). Laureatosi in medicina con specializzazione in psichiatria ha

indirizzato precocemente il suo interesse nei confronti dell’arte contemporanea, dapprima come

pittore. È stato infatti, dopo il suo trasferimento a Milano dalla nativa Trieste, tra i fondatori del

MAC (Movimento d’Arte Concreta) insieme a Soldati Munari e Monnet , significativo

raggruppamento della linea astratta italiana di quell’epoca. Dorfles si propone come teorico del

gruppo chiarendo il significato di “arte concreta”, definendola un’esperienza dell’astrazione che

non media su forme prese a prestito dalla natura, ma si avvicina al costruttivismo puro integrandolo

con il ricorso a forme e segni “primordiali”. Il MAC per un decennio assume le forme di un

contenitore”allargato” che promuove l’idea, derivata dal Bauhaus, di integrazione delle arti, dove

convergono varie intelligenze artistiche dell’epoca tra cui Veronesi, Sottsass, Fontana, Dorazio,

Nigro ed i torinesi Parisot, Albino Galvano, importante anche per la sua attività di critico d’arte ed

organizzatore culturale e Filippo Scroppo, artista delle valli valdesi e fondatore del Museo d’Arte

Contemporanea di Torre Pellice. Dorfles nella sua lunghissima ed all’oggi non conclusa carriera,

oltre all’ attività di pittore, non priva di una certa e meritata fortuna, ed alla docenza universitaria di

Estetica, ha esercitato una intensa attività di recensore e saggista non mescolandola coerentemente

con l’attività curatoriale, ed è una rarità in un paese come l’Italia, dove gli steccati tra le varie

specializzazioni artistiche, vere o presunte, saltano assai di frequente. Tra i molti saggi di Dorfles

“Discorso tecnico delle arti” (1952), Il divenire delle arti (1959), “Nuovi riti, nuovi miti” (1965) ed

il celebre “Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto” (1967). Una summa dei valori portanti il suo

pensiero è contenuto nel più volte ristampato ed aggiornato “Le oscillazioni del gusto”, uscito in

prima edizione nel 1970. Il concetto base attorno a cui ruota questa raccolta di scritti e riflessioni è

l’avvenuta mutazione del concetto di gusto nello scenario contemporaneo che, tra le varie cose, ha

agevolato, con lo sviluppo tecnologico e comunicativo, la dilatazione del panorama artistico.


Secondo Dorfles le stratificazioni del gusto, rispetto al passato, hanno subito uno scindersi

dicotomico mai verificatosi in precedenza. Infatti i grandi capolavori di altre epoche, come le

cattedrali gotiche ed i mosaici bizantini, erano altamente considerate sia dai ceti detentori del

potere, aristocrazia e clero in primo luogo, che le commissionavano agli artisti, sia dal popolo che

ammirava affascinato la potenza dell’oligarchia che ,per incutere timore e rispetto allo stesso tempo,

le faceva eseguire. Molta grande arte del passato, i cicli degli affreschi, ad esempio, assolveva ad

una funzione didascalica e narrativa, come in parte avviene nella contemporaneità con le riviste ed

il fumetto. Tuttavia il problema oggi, pur all’interno di una società sempre più estetica, sta nella

profonda cesura esistente, stiamo parlando, beninteso, della situazione tra anni Sessanta e Settanta,

tra arte d’avanguardia, destinata ad una èlite intellettuale, ed incompresa se non derisa dal grosso

pubblico, e le forme para artistiche dedicate a quest’ultimo, come il già citato fumetto, con poche

eccezioni “colte”, cinema, tv e narrativa di “consumo”, che di artistico hanno solo il maquillage. La

grande originalità di Dorfles consiste nella sua capacità di adeguare senza opportunismi e

concessioni alle mode di passaggio le linee forza del suo pensiero all’evoluzione del contemporaneo

da tutti i punti di vista, artistico, estetico, sociologico. Ciò è testimoniato dal recente “Horror pleni”

(2008). In esso Dorfles denuncia la saturazione di segnali sonori e visivi da cui siamo attualmente

circondati , tale da rendere auspicabile la coniazione di un termine di consapevole autodifes,a

contrapposto a quell’ horror vacui dell’uomo primitivo, che riempiva ogni angolo della sua caverna

con immagini da lui prodotte, dalla forte valenza rituale, ed esorcizzanti le sue legittime paure.

Questo incessante rumore mediatico determina nella società, nella politica ma soprattutto nell’arte,

che rimane l’ambito privilegiato di ricerca, una volontà generalizzata di strafare e di stupire, una

competitività fine a sé stessa che di riflesso danneggia sia il fruitore sia il critico delle espressioni

artistiche. Personalità da ricordare anche quella di Giovanni Maria Accame (1941-2011), critico

d'arte e docente presso l'Accademia di Belle Arti di Brera. Accame si dedicò con impegno e spirito

militante alla promozione di aspetti per lungo tempo “laterali” dell'avanguardia italiana, che stanno

conoscendo in tempi recenti una sempre più ampia rivalutazione, in particolare artisti come
Scanavino, Giò Pomodoro, Consagra, Nigro, Uncini, Aricò, Saffaro, Varisco, Iacchetti. Attento

anche ad aspetti propri del rapporto tra arte e società, e ad aree quali quelle dell'architettura e del

design, Accame ebbe una particolare predilezione per l'astrazione, come testimonia un suo volume

del 2001, “Figure astratte.Esperienze internazionali della pittura aniconica”.

La stagione dell’Arte Povera e del Concettuale

L’irrompere sulla scena internazionale del fenomeno Concettuale nelle sue varie articolazioni segna

da un lato il trionfo della contemporaneità, dall’altro l’ingresso nella civiltà post moderna e post

industriale. Tutto ciò è accompagnato dalla fondamentale azione di una serie di personalità che

abbinano in maniera decisa ed organica il rigore teorico alla prassi, dando definitivo corpo alla

figura del critico “militante” o curatore, sebbene questo termine ai giorni nostri, per motivi che

illustrerò più avanti, abbia assunto una connotazione ambigua, diversa dall’accezione originaria

della funzione. La figura che per prima inaugura questa nuova visione e funzione della critica d’arte

è quella di Germano Celant (1940), personalità coerente e tenace destinata ad assumere un ruolo

centrale nello scenario internazionale che riuscirà a mantenere, soprattutto in Italia, pressochè

intatto fino ai giorni nostri. Celant si forma come allievo di Eugenio Battisti (1934-1989), storico

dell’arte e dell’architettura che, negli anni ’60, si dimostrò attento e lungimirante nei confronti delle

tematiche del contemporaneo sia in architettura, studiando il nuovo fenomeno dell’archeologia

industriale, che in arte. In questo ambito si segnalano l’ideazione a Genova della rivista “Marcatrè”

(1963) e l’organizzazione del Museo Sperimentale di Arte Contemporanea (1964-1967), ampia

documentazione in opere del panorama artistico di quegli anni che sarà donata nel 1986 alla

Galleria d’Arte Moderna di Torino. La strategia di Celant per promuovere la sua creatura artistica, a

cui attribuirà la fortunatissima sigla “Arte Povera”, dopo avere scartato una iniziale ipotesi che

prevedeva l’uso del termine “Nuovo Futurismo”, è decisamente accorta e consapevole, nonché
capace di impiegare le opportunità offerte dallo sviluppo della comunicazione, che in quegli anni si

faceva sempre più evidente. Questo tramite l’impiego di elementi interni al sistema dell’arte come

gallerie, musei e riviste ,ma anche esterni ,come giornali e televisione. I primi passi sono l’esordio

dell’ Arte Povera sotto forma di mostra organizzata alla galleria La Bertesca di Genova nel 1967,

con la presenza di Boetti, Fabro, Kounellis, Paolini, Pascali, Prini, in parallelo alla pubblicazione

sulla neonata rivista Flash Art di Giancarlo Politi che, nel bene e nel male, eserciterà un ruolo

importante all’interno del sistema artistico negli anni successivi e fino ai nostri giorni, del primo

manifesto del neonato movimento intitolato “Appunti per una guerriglia”. Successiva strategica

mossa l’organizzazione , il 4, 5 e 6 ottobre 1968 ad Amalfi, presso l’Arsenale e sedi varie,

dell’evento “Arte Povera più Azioni Povere” consistente in una mostra dove gli artisti eseguiranno

quasi tutti in loco le opere, in una serie di happening e performance che cercheranno di coinvolgere

attivamente la cittadinanza, e in un convegno dove parteciperanno molti qualificati esponenti

dell’avanguardia critica dell’epoca in una accezione multidisciplinare. Furono invitati gli artisti

Anselmo, Boetti, Fabro, Merz, Paolini, Piacentino, Pistoletto, Zorio, Camoni, Dibbets, Icaro, Lista,

Marotta, Martelli, Van Elk, Pistoletto, mentre al convegno presenziarono Accame, Boarini,

Bonfiglioli, Bonito Oliva, Bartolucci, Dorfles, Menna, Pozzati, Palazzoli, Trini e Trimarco. Altri

elementi che decreteranno il successo dell’iniziativa furono l’intervento della RAI, e la stampa di un

documentato libro-catalogo, cosa all’epoca ancora piuttosto rara, pubblicato per i tipi dell’editore

Marcello Rumma, precocemente scomparso e la cui moglie Lia più avanti aprirà una galleria tra le

più importanti in Italia. Un importante supporto venne fornito anche dall'azione del collezionista ed

intellettuale torinese Marcello Levi (1922-2014) che, proprio nel 1968, diede vita, insieme al

gallerista Gian Enzo Sperine ed al critico Luigi Carluccio, al “Deposito d'Arte Presente”,

contenitore dove venivano presentate varie sperimentazioni relative ad arti visive, musica e teatro.

Mi sono soffermato sui dettagli dell'evento di Amalfi per sottolinearne l’inedita organicità mirante

ad ottenere attenzione e, possibilmente, successo. Ma in cosa consisteva la teoria dell’Arte Povera?

Celant seppe cogliere con tempestività gli umori di quella fase storica da un punto di vista sia
politico che artistico. Gli spunti teorici e formali introdotti negli anni ’50 , e nella prima parte degli

anni ’60, conducevano l’arte fuori dal tradizionale alveo bidimensionale con un’azione di veemente

rottura di qualsiasi residuo retaggio con la tradizione. L’area Concettuale si biforcava in due linee di

tendenza. Da un lato il concettuale “mondano”, aperto all’esperienza ed attento al rapporto possibile

tra artificio e natura, che si immerge nel mondo ed aggiunge dati informativi alla realtà, dall’altro

quello di matrice analitico – tautologica, di ascendenza duchampiana, dove domina il pensiero

dell’”assenza”, con il dominio del significante a scapito del significato, e si procede per auto

proliferazione all’interno dei singoli dati di partenza. L’Arte Povera si connota come l’equivalente

europeo dell’americana Land Art, una modalità espressiva che pienamente si sposa allo spirito della

frontiera tipico degli Stati Uniti, con la mano dell’artista tesa, naturalmente con l’ausilio di

imponenti supporti tecnici, ad intervenire all’interno di vasti ambienti naturali, che saranno però

destinati a riappropriarsi gradualmente della forma originaria, da qui l’esigenza di documentare il

tutto con la fotografia e le prime, pionieristiche, prove video. L’Arte Povera si può delineare come

una sorta di anello di congiunzione tra le esperienze “calde” dell’Informale degli anni ’40 e ’50, e

quelle “fredde” tipiche del post Sessantotto, per prendere in prestito una fortunata coppia bipolare di

McLuhan. Caratteristiche principali l’adesione alla realtà, non nell’accezione della

decontestualizzazione di oggetti dai loro siti originari, ma di immersione nel flusso vitale del

mondo, della natura e finanche del corpo vivo della società. Fu questo vitalismo “esplosivo” a porre

Celant nella tentazione di coniare per il nascente movimento la sigla “Nuovo Futurismo”. L’idea fu

probabilmente abbandonata per il margine di ambiguità che perseguitava ancora in quegli anni il

movimento marinettiano. La piena rivalutazione dello stesso, già tentata con coraggio da Maurizio

Calvesi, conoscerà un significativo e non più rinviabile esordio con la pubblicazione, nel 1969, del

fondamentale volume di Luciano De Maria dal titolo “Teoria ed invenzione futurista”, completa

raccolta di scritti e manifesti dove per la prima volta nel dopoguerra si metterà in atto una lettura

non pregiudiziale del Futurismo. L’opzione per il termine “Arte Povera” si dimostrò senz’altro

sintonica al clima politico dell’epoca, ed era riferita alla predilezione per l’impiego di materiali
primari, di elementi tratti dalla natura e di componenti tecnologici minimali e duttili come la luce al

neon, di cui tutte le varie componenti concettuali fecero largo impiego. L’Arte Povera non si

esprime più nell’ambito di uno spazio linguisticamente predeterminato, ma si manifesta nella

processualità degli eventi. Il materiale primario, perlopiù di natura organica e naturale, talvolta

ibridato con elementi tecnologici come fotografie o diapositive, viene presentato nella sua nudità

formale e lasciato libero di modificarsi secondo le caratteristiche fisiche e chimiche che lo

connotano. Nel testo introduttivo a “Arte Povera più Azioni Povere” ,dopo un incipit costituito da

una citazione del Living Theatre, gruppo fondamentale dell’avanguardia teatrale di quegli anni che

fonda la sua poetica sul connubio tra arte e vita e sulla partecipazione del pubblico all’azione,

Celant scrive : “Nel “vuoto” esistente tra arte e vita, il libero progettarsi dell’uomo, il legarsi,

creativo, al ciclo evolutivo della vita (siamo all’osmosi dei due momenti) per una affermazione

del presente e del contingente. Là un’arte complessa, che mantiene in vita la “correptio” del

mondo, col tentativo di conservare “l’uomo ben armato di fronte alla natura”. Qui un’arte

povera, impegnata con l’evento mentale e comportamentistico, con la contingenza, con

l’astorico, con la concezione antropologica, la intenzione di gettare alle ortiche ogni “discorso”

univoco e coerente (la coerenza “apparente” è un dogma che bisogna infrangere), ogni storia

ed ogni passato, per possedere il “reale” dominio del nostro esserci.” Ed ancora “Così la vita

diventa un continuo tableau vivant attraverso cui ognuno suggerisce non più “ la sintesi di

quello che si ricorda e che si vede” e una rappresentazione in materia del proprio pensiero,

ma una possibile strategia socio-culturale, in cui processo eversivo e gnoseologico giungano

alla frantumazione del sistema di dittatura industriale. Oggi, infatti, in cui il contesto

quotidiano si è trasformato in “scena”, in cui l’intellettuale, lo studente e l’operaio “recitano”

sradicati ed isolati, ancora privi di pressione affettiva sul reale, l’unica possibilità di vita

sembra risultare il teatro, cioè il rapporto tra l’attore (l’operaio che sciopera, lo studente che

incendia le macchine ed alza barricate e l’intellettuale che collabora con ambedue) e la

globalità.” Come si può denotare dai brani estrapolati da uno dei primi manifesti programmatici
dell’Arte Povera, Celant si colloca nella scia introdotta già a partire dalla fine degli anni ’50 dai

Situazionisti, relativamente alla fusione graduale tra arte e vita ed alla necessità, per l’arte, di

collocarsi all’interno dei moti di contestazione sociale. Gli artisti tendono a mettere in discussione il

loro ruolo personale ed aderiscono all’istanza sessantottina dell’immaginazione al potere, contro

un’immaginazione ingabbiata dalle regole produttive. Bisogna sottolineare come nel vasto gruppo

radunato da Celant agli esordi, composto ad onor del vero da artisti accomunati dalla qualità del

lavoro, solo alcuni rispondevano pienamente ai codici poetici dell’Arte Povera così come da lui

enunciati, e tra questi Merz, Zorio, Anselmo, Penone, Long., e per molti aspetti Fabro . Gli altri, pur

presentando caratteristiche parzialmente tangenti, in realtà si mostravano maggiormente sintonici

con altre correnti artistiche dell’epoca. Ad esempio Gianni Piacentino negli anni ’60 si collocava

sulla scia delle esperienze della Minimal Art, per poi passare successivamente ad una fase

oggettuale che renderà il suo lavoro estremamente attinente alle poetiche più avanzate degli anni

Ottanta. Ceroli in parte, ma in maniera più evidente Pascali e Gilardi, sono invece esponenti di

punta di una Pop italiana intenta a reinventare la natura ed il quotidiano tramite materiali artificiali,

mentre Mondino e Boetti si distinguono per una carica di contagiosa ironia che è una delle cifre

distintive del Concettuale italiano , per passare all’elegante ed algido Paolini, artista difficilmente

incasellabile. Tutto ciò a dimostrare la sagacia di Celant nell’allargare i confini stilistici del suo

gruppo al fine di amplificare la portata mediatica dell’evento e facilitarne l’ingresso nel circuito

internazionale, intento che perseguirà tenacemente negli anni, per cui torneremo ad occuparci della

sua attività più avanti. Nell’ambito della teoria critica che caratterizza l’altra anima del Concettuale,

quello di matrice analitico - tautologica, tra le varie personalità che a vario titolo se ne occupano, tra

cui va citata la francese Catherine Millet (1948), il protagonista di maggior spessore, dal punto di

vista teorico e non curatoriale è lo statunitense Joseph Kosuth (1945), che, a metà degli anni

Sessanta, darà vita ad in importante connubio con il critico – gallerista Seth Siegelaub, e la curatrice

Lucy Lippard.. Il suo testo principale, più volte ristampato, è “L’arte dopo la filosofia : il significato

dell’Arte Concettuale” (1969). Improntato su di un piano marcatamente intellettuale, sebbene non


privo di implicazioni sociopolitiche, anche il saggio di Kosuth si pone nella scia delle mozioni tese

a rivendicare una nuova funzione dell’artista nella società contemporanea. Per molto tempo,

secondo l’autore, all’artista è stato negato il diritto di parola, con la sola concessione dell’opera,

quindi della concretizzazione formale del pensiero, ed il terreno della teoria è stato lasciato a storici

e critici dell’arte. Quindi Kosuth rovescia l’assunto hegeliano della “morte dell’arte”, facendo

divenire quest’ultima una più piena e completa “filosofia”. Il presupposto è che gli artisti,

contrariamente all’opinione comune, non lavorano sulla forma ma sui significati. Con la fine del

modernismo e l’avvento del postmoderno è finita l’arte intesa come prodotto, quadro o scultura, che

lascia il posto all’”idea”. Nel suo saggio Kosuth inquadra l’artista come antropologo, argomento cui

dedicherà un successivo volume nel 1975, attribuendogli la responsabilità di un impegno civile.

L’opera d’arte deve essere in grado di rivelarsi un insieme di segni dove lo spettatore, in nome di

una individualità non passiva ma costruita insieme all’arte , può riconoscersi parte attiva di una

inedita “comunità della comunicazione”. Vengono quindi a saltare gli steccati tra artista, spettatore

e critico, in nome di una circolarità comunicativa dove, tuttavia, alla fine è sempre la personalità

artistica a prevalere al di là delle buone intenzioni. L’area dell’Arte Povera e dintorni, in Italia, ebbe

in quegli anni un altro mentore di riguardo in Tommaso Trini (1937), tuttora presente ed attivo sulla

scena con lo spirito anticonformista che lo ha sempre contraddistinto. Tra le varie iniziative e

pubblicazioni di Trini si segnala per importanza la rivista “Data Arte”, la prima di quel genere in

Italia insieme a Flash Art, il cui primo numero viene dato alle stampe nel 1972. Per problemi di

carattere personale la rivista chiuderà i battenti nel 1978. In area torinese non si può non

menzionare un’altra presenza di rilievo, quella di Paolo Fossati (1938-1998). Redattore della casa

editrice Einaudi, Fossati fu storico rigoroso delle avanguardie primo novecentesche,

dell’architettura e delle arti applicate, ma fu attivo anche nei confronti del contemporaneo,

sostenendo in particolare un’area artistica in bilico tra concettualismo ed astrazione

immediatamente successiva all’Arte Povera, che ebbe in Giorgio Griffa e Marco Gastini gli

esponenti più significativi. Matura in quegli anni la presenza sulla ribalta internazionale di una
personalità di grande spessore, la cui figura ha assunto nel corso degli anni una dimensione auratica

talvolta lievemente enfatizzata, pur nel rispetto dell’indubbia qualità ed originalità intellettuale della

persona, cioè Harald Szeemann (1933-2005). Szeemann, dopo una breve esperienza nel teatro

contemporaneo, rivolge all’arte la sua attenzione proprio nel momento cruciale in cui la

contemporaneità dispiega la sua massima potenza di fuoco. Nel 1961 diventa direttore della

Kunsthalle di Berna, dove nel 1969 cura la celebre “When Attitudes Become Forms”, considerata

una svolta nel modo di intendere il rapporto tra critico, artista ed allestimento di una mostra, con la

partecipazione di autori come Joseph Beuys, Franz Gertsch, Richard Serra, Mimmo Paladino, Jorg

Immendorff, Gian Ruggero Manzoni, Markus Lupertz e Dieter Roth. Dopo quest’evento Szeemann

si dimette dalla Kunsthalle ,dando vita di fatto ad una nuova figura della critica, all’epoca autentica

e motivata, oggi inflazionata e per lo più svuotata di significato rispetto all’intento delle origini,

come quella del “curatore indipendente”, un organizzatore di mostre slegato dalle istituzioni

museali. Altre tappe significative della carriera del critico svizzero la direzione a Kassel di

Documenta 5 nel 1972, e la creazione nel 1980 con Bonito Oliva della sezione “Aperto” della

Biennale, iniziativa davvero valida di selezione dei talenti emergenti della scena internazionale che

purtroppo si interromperà dopo il 1990. Nel 1999 e 2001 Szeeman sarà direttore artistico della

manifestazione veneziana, ridestandola in parte , con l’attenzione rivolta all’evoluzione artistica

complessiva del mondo globalizzato per cui coniò il termine di “platea dell’umanità”, dal torpore

non di presenze ma di proposta degli anni’90, proseguito purtroppo anche nelle edizioni successive

al termine del suo mandato. Tornando a “When attitudes become forms”, il cui titolo tradotto

pressappoco suona “quando gli atteggiamenti (o i modi di pensare) diventano forme”, bisogna

ribadire come questa fortunata esposizione abbia di fatto rivoluzionato il concetto di allestimento

museale o di mostra comunque collocata all’interno di un contenitore o di un ambiente pubblico,

rispetto all’accostamento delle opere, coordinato e direi quasi orchestrato dal curatore, secondo un

criterio di affinità e non cronologico. Gli allestimenti, quindi, non si preoccupano di assemblare

nomi secondo affinità puramente formali o storiche, ma sviluppano una metodologia processuale
che privilegia l’affinità, con il curatore partecipe e complice insieme agli artisti nella creazione di

una mega-opera. Questo approccio viene definito “Conceptual Curating”. Uno degli esponenti più

significativi di questa tendenza, il cui lavoro nasce proprio a ridosso della temperie Concettuale -

Land Art – Arte Povera, anche se si confronterà col ritorno alla pittura degli anni ’80 e con le

vicende successive, è il tedesco Jean Christophe Amman , di cui serbo un piacevole ricordo

personale relativo a quando nel 1996, nel periodo purtroppo breve in cui fui condirettore artistico

della Galleria d’Arte Moderna di Torino, producemmo insieme con la Kunsthalle di Francoforte, da

lui diretta, una retrospettiva di Alighiero Boetti, all’epoca da poco scomparso e da sempre tra gli

artisti da lui prediletti. Amman considera le esposizioni artistiche, quale sia il loro contesto, anche

se è chiaro il privilegio concesso all’ambito pubblico proprio per la maggiore intensità di

coinvolgimento, il banco di prova in cui il critico esplicita la sua carica concettuale ma anche

creativa, ponendo in essere una distinzione piuttosto netta tra critico e curatore, basata sul fatto che

il secondo agisce in presa diretta sul “qui ed ora” della realtà artistica, stabilendo con gli artisti una

rapporto di partecipazione e collaborazione attiva, ed agendo quindi come un “esploratore”, mentre

il primo si muove con la modalità tradizionale di verbalizzare le sue percezioni. Secondo il

Conceptual Curating, l’oggetto prodotto dall’artista si integra nel contesto organizzato dal curatore.

Questa definizione della pratica curatoriale è senza dubbio corretta poiché prevede la congiunzione

del momento teorico-concettuale con la scelta dell’artista e dell’opera in un contesto dato. Il

problema è che, a partire dagli anni ’90, e con modalità sempre più estreme nel decennio

successivo, il termine “curatore” ha assunto un significato non più connotabile seguendo gli

enunciati di partenza, nello scenario internazionale ed ancor più in Italia, dove il sistema è in stallo

totale, ad onta del manifestarsi esteriore di un “falso movimento”, da un ventennio abbondante. Al

curatore viene attribuita talvolta la spregiativa qualifica di “servo di scena”, ligio alle scelte di

sistemi che possono essere planetari nel migliore dei casi o localistici nei peggiori, ed il suo ruolo

spesso, al di là delle apparenze che spesso mimano più o meno efficacemente le modalità storiche

degli esordi, ridotto a quello di convalidatore ed assemblatore di decisioni altrui, al punto tale che,
secondo l’estetologo Mario Perniola nel suo testo “L’Arte e la sua ombra,” un gesto eversivo oggi

appare quello di praticare la sola scrittura. Viene quindi a mancare, rispetto al dettato del

Conceptual Curating, una componente fondamentale, il protagonismo critico ed intellettuale. Per

questo motivo, anche ai giorni nostri, per non incorrere in equivoci preferisco, per indicare i pochi

che hanno mantenuto lo spirito delle origini, adoperare il termine un tempo assai in voga di “critica

militante”, poi passato di moda a seguito della crisi delle ideologie, in quanto evocativo di stagioni

che si ritengono passate. Nell’ambito dell’avanguardia novecentesca, e con modalità marcate

all’interno del concettuale degli anni ’70, assume una rilevanza centrale la poetica del corpo. Gli

artisti, nel processo estremo di smaterializzazione dell’opera, avocano a sé la processualità dell’arte,

adoperando il proprio corpo come veicolo di comunicazione ,con il tramite di performance psico-

motorie, od azioni estreme tese ad infliggere sofferenza con un procedimento sollecitante la

dimensione della catarsi nel fruitore, od ancora adoperando il travestitismo per assumere una nuova

identità a livello sessuale ed intellettuale. Un critico che ha svolto un ruolo pionieristico di

divulgazione relativa a questa componente dell’arte del secondo Novecento è Lea Vergine, autrice

del saggio più volte ristampato ed aggiornato “Il corpo come linguaggio” (1974), e della mostra dei

primi anni ’80 “L’altra metà dell’avanguardia” dedicata all’arte al femminile, a lungo sottovalutata

e divenuta oggi componente centrale della scena artistica. Nell’ambito della critica d’arte italiana va

citato l’importante contributo offerto da Rossana Bossaglia (1925 - 2013) che, partita con una

specializzazione sull’arte lombarda del ‘400, ha offerto, in dimensione moderna, studi fondamentale

relativi all’ambito delle arti applicate esplicati con numerose rassegne e con testi quali “Il liberty in

Italia” (1968) e “Il Decò italiano” (1975). Questi studi riacquistano attualità e vigore nell’ambito

della scena attuale, dove guadagna sempre più spazio una forma artistica ibrida come l’”art design”,

dove il confine tra arte “pura” ed “applicata” tende a farsi indistinguibile. Un ruolo di primo piano,

anche per il generoso incentivo offerto alla formazione della critica militante italiana, è quello di

Filiberto Menna (1926-1988). Lo studioso salernitano, precocemente scomparso quando era ancora

in piena attività, dopo la laurea in medicina si forma alla scuola di Lionello Venturi e Giulio Carlo
Argan, apprendendo da loro l’importanza di un approccio scientifico alla storia dell’arte. Menna

perseguirà un atteggiamento “aperto” nei confronti delle arti, affiancandolo con un costante

impegno politico, e ragionando a trecentosessanta gradi di pittura e design, architettura e città,

estetica e poesia, con l’orizzonte del Moderno come snodo prioritario della riflessione, alla ricerca

dei nessi intercorrenti tra idea, esecuzione ed opera come prodotto finale. Curatore di numerose

rassegne scompare proprio in un momento in cui era impegnato in una rivalutazione

dell’importanza della tendenza astratto-aniconica nell’arte italiana. Fondamentali i suoi saggi, i

principali dei quali sono “Profezia di una società estetica” (1968), “La linea analitica dell’arte

moderna” (1975) e “Critica della critica” (1980). Nella “Linea analitica”, certamente il suo testo più

celebre, Menna analizza in presa diretta, era la metà degli anni Settanta, l’esito ultimo del moderno,

l’avvento della contemporaneità con le forme dell’apertura dell’arte al mondo. Apertura che

avviene secondo modalità variegate, dapprima l’espansione vitale con le tendenze definite come

Arte Povera, Land Art, Ecologic Art, a cui fa seguito una radicalizzazione della procedura.

Concettualismo, Nuova Pittura e Narrative Art, quest’ultima con modalità che in realtà fanno

trapelare il ritorno alla figurazione della fine di quel decennio, spostano la prassi dalla priorità del

momento rappresentativo a quello dell’analisi e della riflessione sul procedimento mentale che

presiede all’arte, che va a collocarsi su di un piano metalinguistico. “Critica della critica” è un testo

che ha goduto di minore circolazione ma è fondamentale per la storia della critica contemporanea. Il

saggio di Menna viene pubblicato in una fase emblematica, dove non si sono ancora placati i

riverberi della stagione concettuale ma già si intravede l’ingresso nella fase della post modernità.

Nel testo Menna evidenzia la necessità, per la critica, di rivendicare la propria autonomia, il ruolo e

la funzione storica. Questo di fronte alla sfida lanciatala dalle correnti analitiche dell’arte

Concettuale, in particolare da Joseph Kosuth di cui ho parlato in precedenza, le quali,

concentrandosi sugli aspetti puramente mentali della costruzione dell’opera e ragionando sui

contesti della sua collocazione, rivendicano a sé le classiche funzioni della critica, non solo

relativamente alla riflessione teorica ed al giudizio di valore, ma anche alla gestione dell’arte come
prodotto all’interno dei meccanismi dell’economia di mercato caratterizzante la società del

capitalismo avanzato, come sottolineato in un saggio del 2003, appena ristampato, dal titolo

esemplificante “Arte Concettuale e strategie pubblicitarie”, scritto da uno dei più importanti studiosi

dell’Arte Concettuale, il docente della Columbia University Alexander Alberro. Menna fa notare

come questa polemica rilanci la consapevolezza del ruolo sociale degli artisti ma, al tempo stesso,

legittimi la critica come inevitabile compagna di strada. Per dirla, secondo Menna, con Argan, la

critica è una pratica costituitasi sulla base di un patrimonio storico che opera “secondo proprie

metodologie, ha come fine l’interpretazione e la valutazione delle opere artistiche e, nel suo

sviluppo, ha dato luogo al formarsi non solo di metodologie appropriate, ma di un vero e proprio

linguaggio speciale”. Dopo avere esaminato le proposte di accreditati teorici dell’arte e della

letteratura, attivi soprattutto in ambito strutturalista, Menna nell’ultimo capitolo giunge alla

conclusione su cosa debba essere lo statuto della critica. La critica deve essere una pratica legata ad

una sua relativa costanza storica la quale va ricondotta a tre cardini principali o funzioni : storica,

teorica e funzione critica in senso proprio. I tre momenti sono compresenti, e dalla loro interazione

si determina il passaggio da atto interpretativo a fatto critico. La funzione storica coglie la realtà

concreta dei fatti e le loro relazioni verticali ed orizzontali con in contesto in cui si manifestano, e

con quello più generale della cultura. L’opera d’arte è insieme un fattore di novità, ed al tempo

stesso è ascrivibile all’intera fenomenologia dell’arte di una precisa fase storica. Da qui nasce

l’esigenza di collocare l’opera in un serie cronologica , in modo da poterne cogliere l’eventuale

scarto rispetto alla norma. Ma la funzione storica di per sé non è sufficiente, è necessario le si

affianchi una funzione teorica che abbia il compito di selezione e coordinamento dei fatti per

approntare una più rigorosa delimitazione del campo di indagine. La stessa individuazione dello

scarto rappresentato dall’opera singola è possibile solo attraverso una preventiva individuazione

della serie in cui essa si inserisce. Il sistema teorico in questo modo interagisce con quello storico,

contribuendo a circoscrivere un sistema generale di riferimento in cui l’opera si definisce per

differenze e similarità. Ma, secondo Menna, vale anche l’esatto contrario : la teoria, se isolata, non è
in grado di cogliere lo scarto e la novità dell’opera se non si rapporta, a sua volta, all’investigazione

storica che le fornisce le necessarie coordinate temporali. Il legame sincronia-diacronia formula

quindi il problema del rapporto tra teoria e storia ma implica, pur non riconoscendolo, la

compresenza attiva del giudizio di valore e quindi coinvolge anche il terzo momento della struttura

critica, la funzione critica vera e propria. L’attribuzione di senso posta in atto da storia e teoria nei

confronti di una data opera non può realizzarsi senza che a quell’opera sia attribuito anche un valore

per mezzo del giudizio critico. Tra la molteplicità di relazioni che l’opera instaura con le sue simili

irrompe con decisione e con coraggio intellettuale il giudizio critico, non timoroso di compiere

scelte nette e precise, attribuendo il valore di emergenza autentica e di scarto effettivo rispetto alla

norma ad un ‘ opera invece che ad un’altra.

Pratiche post concettuali della critica d’arte

Allievo di Menna ed in grado di incarnarne l’ideale prosecuzione, con maggiore incidenza dal punto

di vista della prassi espositiva e curatoriale, che lo porta a simboleggiare l’ideale della critica

militante e creativa, è Achille Bonito Oliva (1939). Dopo studi classici ed una laurea in

giurisprudenza, conseguita più che altro in omaggio alla tradizione familiare della borghesia

meridionale dalla quale proviene, Bonito Oliva conosce un esordio legato alla poesia sperimentale

ed al Gruppo 63, cui aderisce alcuni anni dopo la sua fondazione. Dal 1968 si trasferisce a Roma ,

dove in seguito ottiene la cattedra di Storia dell’Arte presso la Facoltà di Architettura

dell’Università La Sapienza e, a partire dal 1970 con la mostra “Amore mio”, inizia una intensa

attività di critico ed organizzatore culturale. I saggi più importanti relativamente ai capisaldi del suo

pensiero critico vengono prodotti nei primi anni dell’ attività. Battistrada è “Il territorio magico.

Comportamenti alternativi dell’arte”, concepito strutturalmente tra il 1968 ed il 1969, ma pubblicato


nel 1971 per ritardi causati dalla morte di Marcello Rumma, pioniere dell’editoria sull’arte

contemporanea in Italia. In pieno clima concettuale Bonito Oliva, concentrandosi sul lavoro di

autori “eretici” quali Vettor Pisani e Gino De Dominicis, propositori di una poetica in cui

compaiono evidenti segnali di ripresa di valori legati al simbolo ed all’allegoria, ed evidenziando la

multidisciplinarietà e lo spirito comunitario che caratterizzano quella fase, stigmatizza la ricerca di

forme nuove che passano attraverso i valori della processualità, ed un graduale avvicinamento tra

arte e vita. Ma il saggio che io ritengo fondamentale relativamente alla definizione del suo pensiero

che lo porterà, alcuni anni dopo, ad elaborare il concetto e la prassi della Transavanguardia è

l’”Ideologia del traditore. Arte, maniera, manierismo” (1976). Alla fine degli anni ’70 dove , nella

società italiana ma anche in quella occidentale, iniziano a sgretolarsi antiche certezze, così come il

mito delle grandi narrazioni ed il riparo tradizionalmente offerto all’uomo dal rifugiarsi

nell’orizzonte metafisico, eventi segnalati nel celebre saggio del 1980 del filosofo francese Jean

Francois Lyotard intitolato “La condizione postmoderna”, si pongono le basi per quello che sarà il

futuro ciclo della società post industriale e globalizzata. Gli anni Settanta sono anni di forte

creatività e senso di appartenenza e di comunità, ma sono anche anni di crisi e di tensione sociale.

La crisi petrolifera figlia della problematica mediorientale e dell’irrisolta, ad oggi, questione

palestinese, segna l’interrompersi del boom economico figlio della seconda rivoluzione industriale,

che caratterizzò la fase espansiva post bellica degli anni cinquanta e sessanta, mentre inizia a

delinearsi quella che in anni recenti il sociologo Jeremy Rifkin chiamerà la Terza Rivoluzione

Industriale, tecnologica e legata all’energia bio - sostenibile. La spinta trasgressiva e rivoluzionaria

del Sessantotto, fenomeno non privo di contraddizioni ma storicamente inevitabile, ad onta di

quanto oggi sostenuto da tardivi detrattori, si tramuta gradualmente, in Europa e particolarmente in

Italia, nella prassi disperata del terrorismo e nel nichilismo di una generazione, quella del ‘77, che

inizia ad intuire il buio di un tunnel di incertezza e precarietà che vedrà, negli anni Ottanta, il

manifestarsi della valvola di sfogo della creatività, e della rivalutazione dell’individuo a scapito del

collettivo e dell’ideologia. Bonito Oliva rinviene un ricorso storico tra quanto inizia a manifestarsi
negli anni in cui il testo de “L’ideologia del traditore” viene steso ed il Cinquecento. Se nel qui ed

ora a sgretolarsi è la tradizione occidentale che dai Greci si tramanda al Cristianesimo passando per

l’Illuminismo e la Rivoluzione Industriale, all’epoca ad entrare in crisi fu l’edificio rinascimentale

nel suo complesso. Bonito Oliva afferma che “l’artista manierista adotta la corazza dello stile

per affrontare la catastrofe generalizzata che attraversa il Cinquecento e sposta

l’atteggiamento eroico, tutto interno all’opera, dell’artista rinascimentale con le sue categorie

di mito, dramma e tragedia, verso una cultura della lateralità che evita il conflitto e lo scontro

frontale. A favore di un’altra posizione, che gioca sull’arrovellamento, sulla riserva mentale e

sull’obliquità di una figura, quella che io ho chiamato del traditore”. L’artista del Manierismo

si rende conto di non potere godere più delle certezze artistiche e politiche che caratterizzarono

l’aurea e classica stagione rinascimentale ed allora “utilizza ecletticamente la grande tradizione

attraverso un suo uso laterale : la citazione della prospettiva rinascimentale”. Categorie

culturali che nel Rinascimento godevano di una definizione totalitaria, che conseguentemente si

fondava una visione del mondo armonica e conciliata quali quelle del dramma, del mito e della

tragedia, vengono nel Manierismo, privo di certezze e costretto a guardare il mondo avvalendosi di

uno sguardo obliquo, adoperate alla stregua di convenzioni linguistiche con la citazione che “ispira

la ripresa di modelli culturali con i quali ovviamente l’artista del Cinquecento non può più

identificarsi”. Come emblemi di questa nuova condizione, oltre all’intero corpus delle tragedie

shakespeiriane, l’autore indica due personalità, l’una di invenzione letteraria, l’altra operante nella

vita reale. La prima è il Don Chisciotte di Cervantes : “Don Chisciotte oscilla continuamente tra

realtà ed irrealtà, il mondo viene percepito come autoinganno necessario da cui è possibile

difendersi solo con l’ironia. Il cavaliere è un essere sradicato che deve conservare la propria

dissociazione di fronte ad un presente che altrimenti non potrebbe vivere”. E poi “Il

Manierismo non possiede gli strumenti atti ad operare una scelta precisa tra le opposte

valenze, esso è condannato a vivere nell’ambivalenza e nello squilibrio. Diversamente, sia il

Rinascimento che il Barocco possono optare l’uno per la valenza della ragione, l’altro per
quella dell’immaginazione, proprio perché alla base di questi movimento culturali esistono

salde strutture e processi storici diretti in modo univoco”. Sia Don Chisciotte, che il suo

speculare realmente vissuto, Benvenuto Cellini, rappresentano, su due piani diversi, la tragedia

dell’intellettuale e dell’uomo di corte manieristi, che per la sopravvivenza debbono piegarsi alle

leggi della dissimulazione e del nomadismo, dell’eterna itineranza. “ L’inserimento nella corte

per l’intellettuale significa una partecipazione al potere ed alla sua onnipotenza …

politicamente la delimitazione dell’Io, nell’uomo manierista, nasce da una partecipazione

frustrata al potere, che può essere conquistato soltanto attraverso l’esercizio obliquo

dell’intrigo … Macbeth rappresenta la figura esemplare dell’Io che si rafforza attraverso la

sostituzione, la morte del re ; il cortigiano di Castiglione, invece, l’Io che si rafforza attraverso

la partecipazione, l’impiego di norme che sublimano la competizione e la solitudine a pratica

sociale di vita stilizzata”. Tornado all’efficace antinomia Don Chisciotte – Cellini “se Don

Chisciotte vive soltanto il tempo al passato o nel vagheggiamento del futuro .. Cellini invece

aderisce perfettamente a tutti i piani della vita, quello economico e quello esistenziale..la

posizione alta di Don Chisciotte ha una sua struttura circolare, nella quale ogni segno e

movimento finiscono col chiudersi in un disegno speculare..la posizione bassa di Benvenuto

Cellini ha, al contrario una struttura aperta e peripatetica, che si muove in orizzontale e

verticale, perché nessuna condizione sociale lo può preventivamente assolvere dalle prove da

affrontare..Don Chisciotte non conosce la paura perchè non conosce la vita, anzi egli la doppia

attraverso la parodia …. L’esserci di Cellini consiste nell’attaccamento alla vita..nell’astuzia

di valorizzare la propria opera, nella competizione mai taciuta con l’altro, che è sempre un

artista, il quale può togliergli lavoro, denaro e gloria. La Vita è il catalogo di un’esistenza

vissuta sotto il segno aperto dell’errare, inteso come aderenza e adesione al piano inclinato e

precario della vita”. Questi assunti teorici costituiscono le basi del pensiero critico di Bonito Oliva

e lo hanno accompagnato per il resto della sua carriera, aggiornati di volta in volta sulla lunghezza

d’onda del presente. Principale exploit del critico campano è, come è noto, la teorizzazione del
movimento e del concetto di Transavanguardia, esplicato nel volume dato alle stampe da Giancarlo

Politi Editore nel 1980. Nell’ambito del dibattito militante sulla crisi del concetto di avanguardia,

così come era stata intesa lungo tutto l’asse del Novecento, e del ritorno alla manualità e ad una

pittura di volta in volta espressionista, decorativa od aniconica ,ma non immemore della lezione

dell’avanguardia novecentesca, anche di quella più recente, Bonito Oliva riesce a piazzare lo spunto

che si rivelerà vincente grazie all’intuito di selezionare come prima scelta pochi nomi ,in quella fase

indubbiamente tutti dotati di fertile spirito creativo, Sandro Chia, Enzo Cucchi, Nicola De Maria,

Mimmo Paladino e Francesco Clemente, e di appoggiarsi al mercato, in particolare al gallerista –

intellettuale modenese Emilio Mazzoli, nonché alla crescente influenza mediatica, nell’ambito

dell’informazione artistica, della rivista Flash Art e, più in generale, all’apparato comunicativo che

certo a Roma, sua città d’adozione, non scarseggia, creando un evento in grado di suscitare

attenzione anche al di là del mero dato artistico, al punto da diventare fenomeno di costume

culturale, e di imporsi repentinamente nel sistema artistico e nei musei internazionali come

prosecuzione dell’ondata concettuale, in particolare dell’Arte Povera. Questo l’incipit del testo :

“L’arte finalmente ritorna ai suoi motivi interni, alle ragioni costitutive del suo operare, al

suo luogo per eccellenza che è il labirinto, inteso come “lavoro dentro”, come scavo continuo

dentro la sostanza della pittura. L’idea dell’arte alla fine degli anni settanta è quello di

ritrovare dentro di sé il piacere ed il pericolo di tenere le mani in pasta, rigorosamente, nella

materia dell’immaginario, fatta di derive e di sgomitate, di approssimazioni e mai di approdi

definitivi. L’opera diventa una mappa del nomadismo, dello spostamento progressivo

praticato fuori da ogni direzione precostituita da parte di artisti che sono dei ciechi – vedenti,

che ruotano la coda interno al piacere di un’arte che non si reprime davanti a niente,

nemmeno davanti alla storia. Negli anni sessanta l’arte aveva una connotazione moralistica,

anche quella d’avanguardia : la formula dell’arte perseguiva nel suo disegno critico una linea

di lavoro repressiva e masochistica fortunatamente contraddetta da alcune opere degli artisti.

Successivamente la pratica creativa ha fatto saltare la censura formale attinente alla


produzione artistica a favore di una pratica dell’opulenza, come riparazione ad una perdita

iniziale, via ascensionale che non significa ascetismo e rinuncia ma crescita e sviluppo della

capacità di diventare possidenti, al limite di un possesso messo continuamente in discussione

dal naturale movimento dell’opera e dell’artista, che è di spossessamento e di superamento”.

Bonito Oliva insiste sul concetto di “nuova soggettività” esaltando le caratteristiche di frenetico

individualismo che caratterizzeranno, nel bene e nel male, la società degli anni ottanta : “La

manualità significa capacità di fissare il lavoro dell’arte nelle adiacenze di una soggettività che

utilizza tutti gli strumenti espressivi e tutti i linguaggi possibili”. L’artista, interrotto il flusso

ininterrotto del darwinismo linguistico dell’avanguardia, si avventura lungo territori inesplorati

praticando il nomadismo e l’eclettismo , che diventerà cifra stilistica del tutto dominante a partire

dalla seconda metà degli anni ’80 fino ai giorni nostri. Scrive Bonito Oliva : “All’approdo sicuro

l’artista preferisce la deriva, l’errare lungo le frontiere oscillanti della pittura, che non è

semplice manualità ma grazioso lavorio intorno al fantasma dell’immagine … fare arte

significa ormai tenere la mano a contatto con i livelli della materia corticale dell’arte. Dopo

l’autoflagellazione degli ultimi anni, l’artista ha riscoperto oltre che il proprio ruolo specifico

anche il piacere di esercitare la creatività fuori dal progetto obbligato del nuovo.” Il tasto viene

battuto con insistenza sul concetto di fuoriuscita dai vincoli dell’ideologia : “ L’ebbrezza del ’68

aveva creato il mito dello sconfinamento, della perdita dello specifico come conquista di nuovi

spazi materiali e mentali …. Questo ha comportato il passaggio dall’artistico all’estetico ed

alla fine ad un estetismo della politica”. La Transavanguardia significa possibilità di indirizzare la

propria sensibilità verso direzioni non più obbligate, compresa quella del passato. In conclusione

del saggio, redatto a Roma nel 1979, l’autore sostiene che “l’arte è sempre stata pratica della

crisi, messa in questione di ogni garanzia e sicurezza. Se la Francia ha avuto Marat, l’Italia ha

avuto Totò e la commedia dell’arte. È su tale tessuto antropologico che è possibile innestare il

discorso dell’arte, nelle sue oscillazioni tra tragico e comico. Una tradizione in tal senso è

quella del manierismo italiano, poi esportato anche in altri paesi, che ha saputo praticare la
trasgressione, simulandola dentro le maglie convenzionali di un linguaggio che fingeva

continuità e gradimento sociale”. Dal punto di vista teorico e curatoriale , la Transavanguardia

rappresenta l’exploit di Bonito Oliva. Negli anni seguenti, complice il clima di eclettismo sempre

più palese, il critico campano sostanzialmente applicherà questo modulo interpretativo anche a

situazioni successive, come nel caso del neo – oggettualismo, per cui conierà il termine di

“transavanguardia fredda”. Nel 1993, dopo la storica edizione del 1980 in cui, insieme ad Harald

Szeeman, curerà la prima edizione di “Aperto”, dedicata ad una selezione della giovane arte

internazionale, gli verrà assegnato l’incarico di dirigere una delle più controverse edizioni della

Biennale di Venezia che intitolerà “Punti Cardinali dell’Arte”. L’aspetto positivo di quella edizione

fu senza dubbio la lungimirante intuizione nell’aprire, in anticipo sui tempi, all’arte proveniente dai

paesi emergenti soprattutto asiatici, quello negativo la farraginosità dell’organizzazione, al cui

interno viene cooptato un numero incredibilmente elevato di critici più o meno giovani,la cui

funzione non fù chiara e, soprattutto, il ruolo ricoperto dalla rivista Flash Art, la cui invadenza

genererà una lunga scia di polemiche, al cui staff venne affidata la gestione di “Aperto”, dove si

darà spazio a forme discutibili di neo concettuale. Il rapporto tra l’istituzione veneziana e l’arte

italiana entrerà da allora in una crisi da cui non si scorge ancora una via di uscita. Nell’ultimo

decennio, complice il proliferare delle possibilità espositive e l’accordo di “potere” artistico

raggiunto con l’Arte Povera di Germano Celant, assistiamo ad una frenetica attività di Bonito

Oliva, cui va riconosciuta una indubbia carica di vitalità intellettuale e di istrionismo.

Recentemente, in coerenza con la sua nota verve polemica, si è frequentemente scagliato contro

l’attività dei “curatori”, figure assai di voga nel sistema artistico globalizzato, da lui definite

causticamente “filippini della critica”. Altra personalità di assoluto rilievo nel dibattito e nella prassi

della critica dal secondo dopoguerra, da me già più volte citata nel saggio, è quella di Renato Barilli

(1935) che, insieme a Celant e Bonito Oliva e pur profondamente diverso da loro, ha rappresentato,

soprattutto negli anni tra il ’70 ed il ’90, la punta dell’iceberg della militanza. Barilli è sempre stato

un intellettuale “ambidestro”, attivo nei campi sia letterario che artistico, ed impegnato nello
stabilire omologie tra questi e l’ambito della scienza. Laureato in Lettere con Luciano Anceschi nel

1958 presso l’Università di Bologna, nel 1980 otterrà l’incarico di Professore ordinario di

Fenomenologia degli Stili. Nella sterminata bibliografia di Barilli citerò alcuni tra i più significativi

titoli come “Tra presenza ed assenza. Due modelli culturali a confronto” (1974), le due raccolte di

saggi “Informale, oggetto, comportamento” e “Il ciclo del post moderno” (1987), “Scienza della

cultura e fenomenologia degli stili” (1991), “L’alba del contemporaneo” (1996), “Prima e dopo il

2000” (2006), “Storia dell’arte contemporanea in Italia. Da Canova alle ultime tendenze” (2007),

“Arte e cultura materiale in Occidente” (2011), “Tutto sul postmoderno(2013). Relativamente a

“Tra presenza e assenza”, si tratta di un saggio, aggiornato nel 1981, in cui, come vale per ogni

intellettuale, è contenuta la summa estetica del suo pensiero, come per l’”Ideologia del traditore” di

Bonito Oliva, a partire dalla quale si dipanano i successivi sviluppi ed analisi. Punto di partenza è la

constatazione di essere ormai entrati all’interno di una fase nella quale, soprattutto a causa della

svolta tecnologica in atto, in totale sintonia con le tesi di McLuhan, non è più sufficiente

contrapporre il termine “contemporaneo” a “moderno”, ma è opportuno adoperare il suffisso “post”,

che “si colloca altrove rispetto a quella che precede, muta i problemi sul tappeto e le loro

relative soluzioni”. In un epoca, quella a cavallo tra settanta ed ottanta, di intenso dibattito teso ad

una ridefinizione complessiva dell’esistente e dei ruoli che in esso si andavano a ricoprire, Barilli

individua un’area, definita come quella della “presenza”, cui va il merito di avere sviluppato le

ipotesi postmoderne correlandole strettamente con gli influssi della cultura materiale, collocabile

geograficamente nell’area anglosassone – nordamericana, mentre l’area europea sarebbe

caratterizzata, soprattutto a livello francese, da un’ “assenza” ,vista come reticenza ed occultamento

circa il ruolo dei fattori materiali – tecnologici. L’area della “presenza” che si pone in sintonia con

le tesi di McLuhan, concorda con lui sul fatto che , come sostenuto da un best seller dell’epoca, “La

sfida mondiale” di Jean-Jacques Servan-Schreiber, la partita, in fase di declino della società

industriale, il cui sviluppo ha caratterizzato la produzione “pesante” delle due superpotenze, USA

ed URSS, allora altamente conflittuali nel clima della guerra fredda, si gioca sul fronte delle nuove
tecnologie su cui hanno puntato nazioni allora emergenti come il Giappone e su cui potrebbero

puntare i paesi del Terzo Mondo, per passare, da una fase pre – moderna e pre – industriale,

direttamente ad una fase post, secondo quanto preconizzato da McLuhan, per cui nei tempi post

moderni ci si riavvicinerebbe alle condizioni caratterizzanti le civiltà arcaiche. Queste previsioni,

datate un abbondante trentennio, si riveleranno in buona parte esatte perché, dopo l’ondata

giapponese, verrà il tempo delle altre “tigri asiatiche” e poi ancora quello di Cina, India e Brasile,

mentre lo sviluppo dell’Africa post coloniale continua a latitare, pur nella presenza recente di alcuni

segnali di risveglio. Scrive Barilli : “Ciò quasi in analogia con la scoperta einsteiniana delle

curvatura dell’universo, per cui anche in esso l’andare avanti (il diffondersi della luce) si

tramuta inevitabilmente anche in un ritornare sui propri passi. Esplosione ed implosione si

presentano quindi come le due facce di una stessa realtà, l’una inerente all’altra. Ma secondo

le ipotesi ottimiste il carattere implosivo, il sapore neo arcaizzante, neomedievale che

riaffiorerebbe inevitabilmente, nella logica stessa del post, non sarebbe tuttavia un effettivo

regresso, un impoverimento di risorse, un tornare indietro materialmente a condizioni di vita

superate : cosi come il raccoglitore di dati grazie ai computer ed ai microprocessori

“rassomiglia” al raccoglitore di cibi e di risorse naturali delle prime età dell’uomo, ma

rimanendone separato, in pratica, da un enorme divario di mezzi e di possibilità”. Il fronte

della “presenza” si caratterizza, quindi, per una fiducia non acritica nei confronti delle possibilità

offerte dalla tecnologia e dello schema a coppia, o bipolare. L’ambito dell’ “assenza”, secondo

Barilli, caratterizza il vivace dibattito filosofico della Francia di quegli anni, in particolare nel

pensiero del duo Gilles Deleuze – Felix Guattari, molto attivo anche sul versante socio-politico, con

un occhio di riguardo alle vicende del ’77, soprattutto bolognesi, e successive ripercussioni che

caratterizzano il periodo dei cosiddetti “anni di piombo”. Il pensiero dell’assenza, scrive Barilli ,è

tipico “di chi non accetta lo schema della coppia, col relativo rapporto frontale, ma preferisce

istituire delle fughe trasversali, dei passaggi laterali, delle diffusioni a catena”. In loro “ resta

una reticenza di fondo nell’ammettere i condizionamenti materiali-tecnologici, nei cui


confronti effettuano un occultamento dal sapore quasi di sapore idealista: sembra che a loro

avviso non ci sia una stimolazione dall’esterno, dal mondo, dalla realtà fisica, e quindi ne

consegue un carico di responsabilità sul soggetto, spinto ad un sovrappiù di attivismo e

volontarismo”. I valori da loro espressi, sintonici anche alle tesi espresse dal filosofo Gianni

Vattimo, grande studioso di Nietzsche ed Heidegger e teorico del “pensiero debole”, non prevedono

il ritorno di valori “forti” tipici della modernità, anche perché debbono avvalersi di un attivismo “a

raggiera” in cui prevalgono i significanti sui significati. A parere dell’autore : “Al culto delle

masse, delle classi compatte e solidali al loro interno, proprio dell’età industriale moderna,

subentra appunto la constatazione, e più ancora l’auspicio, che a introdurre i nuovi valori ci

pensino le comunità “minori” e marginali leggere e sparse, come i giovani, gli studenti, le

donne, i “diversi” sul piano sessuale. Qualche anno fa Deleuze e Guattari hanno trovato per

un tale attivismo decentrato e centrifugo la felice metafora del “rizoma”, cioè di un fusto

diramato, sottile e tenace, diffuso e imprendibile, perché mai accumulato in un unico punto”.

Da questo nucleo di riflessioni partirà, negli anni ’70, l’impegno critico militante di Renato Barilli.

In quel periodo assistiamo ad una fase, artisticamente parlando, certamente “esplosiva” con

fenomeni come Art Povera, Land Art e Concettuale che portano alla definitiva rottura del confine

bidimensionale “moderno” ed alla smaterializzazione del linguaggio dell’arte. Ma ai fenomeni

esplosivi fanno puntualmente seguito i loro opposti, di matrice implosiva. Avvalendosi, come di

consueto, di una metafora tratta dalla scienza, Barilli individua nel fenomeno dei “buchi neri” che,

come è noto per chi mastica argomenti scientifici, rappresentano un restringimento dell’universo,

una centripetazione che crea spessi addensamenti di materia provvisti di una fortissima carica di

attrazione, tale per cui qualsiasi corpo sarebbe destinato a circolare eternamente in essi fino a

ripassare con scadenza ciclica per le stesse posizioni occupate in precedenza, uno degli spunti

teorici di una sua importante rassegna dell’ottobre 1974 presso lo Studio Marconi di Milano

intitolata “La ripetizione differente” per l’autore “ossimoro sottratto con un piccolo ritocco alla

fervida officina di Deleuze, e chiamato a divenire sinonimo dell’esperienza ciclica imposta


dalla logica del buco nero, della spinta implosiva. In quella mostra raccoglievo alcuni

rappresentanti dello stile Pop che, tra i vari stereotipi di massa coltivati avevano appunto

l’abitudine di inserire anche quelli relativi ai capolavori del museo, e si erano trovati così a

ricalcare la pratica del resto già ampiamente nota del d’après (Baj, Adami, Tadini, Nespolo) ;

altri provenivano dall’ondata poverista – concettuale, di cui usualmente valorizzavano le

spinte a coltivare mezzi extra - artistici (come per esempio la fotografia), ma non

disdegnavano frattanto di provare anche talune inversioni di marcia e di segno (Paolini,

Fabro, Kounellis) ; e infine c’erano alcuni, diciamo così, postconcettuali, nati a ridosso degli

altri, che andavano specializzandosi nella marcia implosiva (Salvo, Ontani), apparendo così

destinati a figurare tra i protagonisti di una situazione “nuova nuova” “. Da questa base teorica

Barilli, coadiuvato da Francesca Alinovi critica di talento tragicamente scomparsa nel 1983, a cui si

deve la divulgazione in Italia del fenomeno graffitista statunitense, e da Roberto Daolio, scomparso

anch'egli a 65 anni nel 2013, muoverà i passi per fornire il suo contributo di militanza critica ed

intellettuale alla scena degli anni ’80. Ciò avverrà a seguito di due rassegne : “Dieci anni dopo. I

Nuovi - nuovi”, allestita presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna nel 1980, e “Una

generazione postmoderna”, ordinata nel 1983 all’ex Teatro del Falcone di Genova ed al Palazzo

delle Esposizioni di Roma. In un saggio intitolato “Prima e dopo il 2000. La ricerca artistica 1970-

2005” il critico bolognese spiega i motivi che lo portarono a privilegiare l’opzione dei Nuovi-

nuovi, ed il rapporto, che all’epoca fu anche conflittuale, soprattutto con la Transavanguardia di

Bonito Oliva ed in parte l’Anacronismo di Maurizio Calvesi, di cui abbiamo parlato in precedenza

relativamente alla scena degli anni Sessanta. Barilli parte dalla constatazione che, in quella fase

storica, facente seguito all’implosione del Concettuale causato in particolar modo dal rigore estremo

della componente analitico – tautologica, la costante comune della scena artistica, su base piuttosto

allargata e non ristretta come fu comodo far credere, fosse il ritorno del “rimosso” pittorico e

decorativo e, più in generale, della manualità, sia che essa si piegasse alle ragioni della figurazione,

dell’astrazione , del neo espressionismo o di uno stile talvolta radente le coordinate, aggiornate al
presente, dell’Art Decò e del Simbolismo. Scrive Barilli : “ Ma è ora di disegnare, entro questo

largo contesto generale, lo spazio che in quello scorcio di decennio volli ricavare per il gruppo

dei Nuovi – nuovi, procedendo non già per una forte determinazione teorica in tal senso, ma

proprio per “salvare il salvabile” di una visione ampia dei compiti spettanti ad un’intera

generazione . Come si è visto dalle cronache precedenti, si dava un quadro di impulsi, scelte

operative, mediazioni abbastanza confuso, quasi nel senso letterale della parola, dove cioè le

vie si incrociavano, si sovrapponevano, e dunque i gruppi, le formazioni di combattimento,

non nascevano già delineate fin dagli inizi. La formazione della Transavanguardia non è sorta

per una diversità costitutiva dei suoi componenti, ma per un processo di cooptazione stimolato

da un critico, Bonito Oliva, e da alcuni galleristi, liberi di fare le loro scelte anche per ragioni

di conduzione pratica e perfino di profitto. Non c’erano però ragioni altrettanto valide sul

piano critico per abbandonare altri esponenti di quel clima a un destino di oblio, di

ostracismo, con il conseguente spreco di pur valide risorse”. L’ampia compagine dei Nuovi –

Nuovi, insieme ai capofila Salvo e Luigi Ontani, cui presto si unirà Luigi Mainolfi, vide, tra i

protagonisti della prima ora, Aldo Spoldi, Wal, Antonio Faggiano, Enrico Barbera, Giuseppe

Maraniello, Marcello Jori, Bruno Benuzzi, Giuseppe Salvatori, Felice Levini, Giorgio Pagano. Sul

versante aniconico – espressionista spiccano Luciano Bartolini, Vittorio D’Augusta, Enzo Esposito,

Giorgio Zucchini, Carlo Bonfà, Vittorio Messina. Questi artisti, quasi tutti di notevole qualità,

conosceranno riconoscimenti anche importanti nel corso della loro carriera tuttavia, ad eccezione di

Salvo, Ontani e Mainolfi, il loro cammino verso una definitiva storicizzazione ha, ad un certo

punto, incontrato le medesime difficoltà in cui si sono imbattuti gli autori emersi dopo il 1984,

causate dal blocco del sistema artistico italiano, su cui tornerò più avanti. Nella seconda metà degli

anni’80 Barilli prosegue il suo impegno critico. Attorno al 1984 è tra i più convinti sostenitori del

gruppo del “Nuovo Futurismo”, radunatosi attorno alla galleria milanese del talent scout Luciano

Inga Pin. Scrive attorno a questo movimento “ Si dovrà subito precisare che questo richiamare

in ballo l’etichetta principale delle nostre avanguardie storiche non si rivolgeva agli aspetti
“esplosivi” di quel movimento, nessuna pretesa, cioè, di cogliere un’eredità del versante

Boccioni. Piuttosto i giovani che si riconoscevano in quel rilancio andavano a rileggere la fase

“seconda” del movimento, tenuta a battesimo da Balla, con sede prevalentemente romana ma

pronta ad espandersi in ogni dove, nel nostro paese : una fase che, come ben noto, si propose

più che altro di avviare la cosmesi del panorama urbano, rinnovandone tutto l’arredo, dal

mobilio alla carte da parati agli abiti, e anche quando si approdava a dipinti “puri”, questi

dovevano essere visti più che altro come studi per cartelloni pubblicitari, o come planimetrie

per dimore e stanze di soggiorno. Il pensiero, insomma, deve andare alla fase superbamente

firmata in primo luogo dal miglior erede di Balla, Fortunato Depero. I Nuovi Futuristi

volevano compiere un’impresa analoga, seppure in un mutato contesto sociale : si trattava di

andare a frugare nella serie anonima dei gadget , dei ciondoli, delle icone rituali, tutte

concentrate attorno all’ossimoro della meraviglia banale, del gioiello cheap, con cui veniva, e

viene, abbondantemente condito il mondo odierno della merce”. Del nucleo storico del Nuovo

Futurismo, attorno alle cui tematiche e pur con diverse varianti si accosteranno negli anni successivi

numerosi altri artisti, facevano parte il gruppo Plumcake (Gianni Cella, Romolo Pallotta, Claudio

Ragni), Gianantonio Abate, Marco Lodola, Clara Bonfiglio, Luciano Palmieri, Umberto Postal,

Innocente. Nel 1985 Barilli ordina, insieme a Flavio Caroli, una ampia rassegna intitolata “Anni

‘80”, disseminata in varie sedi pubbliche dell’Emilia Romagna, dove scorre agli occhi dei visitatori

una disamina davvero completa sulle emergenze italiane ed internazionali di quella fase. Nel 1990 è

commissario italiano della rassegna “Aperto” presso la Biennale di Venezia, l’ultima occasione in

cui, secondo me, presso la storica istituzione veneziana è stato possibile ammirare buona parte della

migliore produzione artistica giovanile italiana, posta a confronto con gli omologhi internazionali

tra cui fa spicco, in quell’edizione, un Jeff Koons non troppo conosciuto nel nostro paese e non

ancora del tutto calato nel ruolo di protagonista dello star system glamour e globalizzato. Con “Anni

Novanta”, inaugurata nel 1991 con le stesse modalità dell’antesignana, Barilli dà il via ad una serie

di manifestazioni periodiche che caratterizzano il suo lavoro nel corso di quel decennio e dei
successivi anni Zero, con l’attenzione di volta in volta indirizzata verso l’Italia, l’Europa,

l’America, l’Asia. Nel contempo prosegue un’intensa attività pubblicistica dove spiccano i saggi

“L’Arte Contemporanea. Da Cezanne alle ultime tendenze” (1984), “Il ciclo del postmoderno. La

ricerca artistica negli anni ‘80” (1987), “L’alba del contemporaneo. L’arte europea da Fussli a

Delacroix” (1996), “Prima e dopo il 2000. La ricerca artistica 1970 – 2005” (2006).

La critica d’arte statunitense della post modernità

Relativamente agli anni della post modernità, specie quelli della prima fase, è opportuno analizzare

il pensiero di alcuni tra i principali protagonisti della critica d’arte statunitense. L’America, negli

anni Ottanta, conferma un ruolo guida nel sistema artistico internazionale acquisito a partire

dall’avvento della Pop Art e da allora mai più dismesso. In quella fase storica gli Stati Uniti

dapprima si allineano alla fase del ritorno alla pittura, anche se con esiti obiettivamente meno

interessanti rispetto agli omologhi europei ed americani. Tra gli artisti di quell’ondata spiccano

David Salle, Robert Longo e, soprattutto in base all’impatto mediatico ed alle dimensioni enfatiche

delle opere, Julian Schnabel che tuttavia, in anni più recenti, si dimostrerà miglior talento

nell’ambito della narrazione cinematografica. Decisamente più interessante e per certi aspetti

addirittura rivoluzionario, almeno nella prima fase, è il fenomeno del Graffitismo. Questa modalità

espressiva è tipica espressione di una fase di contemporaneità avanzata. I giovani emarginati da

metropoli anti estetiche che li hanno relegati in ghetti inospitali, ma non solo loro, si riappropriano

dello spazio urbano decorandolo clandestinamente, approfittando del buio, con strumenti veloci e

pratici all’uso come le bombole spray adoperando un linguaggio, un “lettering”, che coniughi
sinteticità ed efficacia espressiva, atto al ripristino di valori pre-moderni degni di un amanuense

medievale. Tra gli autori principali, cooptati rapidamente dal mercato dopo un inizio underground,

insieme ad altri che non si espressero in operazioni similari di clandestinità artistica ma la cui

ricerca si incanalava in direzioni contigue, Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, precocemente

scomparsi, “bruciati” da un esistenza condotta alla massima intensità, e Kenny Scharf, James

Brown, Donald Baechler, Ronnie Cutrone e John Ahearn. Tra coloro che continuarono ad alternarsi

tra la strada e il versante “istituzionale” Rammelzee, Futura 2000, A-One e Toxic. Da citare in

quegli anni, per un livello simile di spontaneità e felicità creativa, nonché condivisione comunitaria

delle esistenze, il fenomeno detto dell’East Village, dal quartiere del downtown newyorchese dove

tutto prese origine, con artisti come Mark Kostabi, l’unico che assurgerà ad una effettiva fama,

Mark Bidlo, Louis Frangella, Walter Robinson. Questo “movimento” verrà divulgato in Italia da

Corrado Levi, eclettica figura di critico, artista, architetto e collezionista che in quegli anni giocherà

un ruolo importante. Ma il nucleo artistico destinato a rinverdire la tradizione recente della Scuola

di New York di Oldemburg, Lichtenstein e Warhol, nello specifico della ripresa d’attenzione nei

confronti degli stereotipi, sia oggettuali che riferiti all’universo della cultura ,dei simboli e delle

icone dell’avanguardia “modernista”, è quello rappresentato da personalità come Jeff Koons, Ham

Steinbach, Peter Halley, Ashley Bickerton, Meyer Vaisman. Tornando all’analisi critica che segna

l’America degli ultimi trent’anni del Novecento importante è la figura di Leo Steinberg (1920), nato

a Mosca, cresciuto a Berlino, emigrato a New York nel 1945, docente della Harward University. In

un saggio del 1972, intitolato “Neodada e pop : il paradigma del pianale”, la posizione di Steinberg

si pone tendenzialmente in polemica contro il formalismo di Greenberg. Secondo Steinberg il

critico d’arte, di fronte a quella che appare ai suoi occhi come una novità, può adottare un

atteggiamento duplice ; od applicare a questa gli schemi interprativi del passato, ritenendoli sempre

validi, oppure sforzarsi nella ricerca di nuovi parametri di interpretazione. La contestazione mossa a

Greenberg è che quest’ultimo riduce l’evoluzione dell’arte nel passaggio dall’illusione di realtà

fornito dalla prospettiva, di cui da storico dell’arte elenca esempi di maestri del passato consapevoli
di questi limiti, all’acquisizione recente della piattezza di superficie. Steinberg introduce il concetto

di “planarità”, contrapponendolo alla visione “in verticale” prospettata da Greenberg come simbolo

dell’esperienza ottica pura. Se si immagina la piattezza come peculiarità del piano orizzontale

collocata ad angolo retto rispetto alla posizione nostra quando siamo in piedi, ancorati al suolo

insieme agli oggetti per effetto dell’attrazione di gravità, si introduce una definizione del piano

pittorico come “pianale”, analoga al piano della macchina tipografica dove venivano sistemati i

caratteri per stampare. Questo esalta la materialità della superficie, e deprezza l’importanza del

verso del quadro, giustificando l’accumulo materico tipico di artisti come Dubuffet e , soprattutto,

Rauschenberg, dove la superficie simula il lavoro di libera associazione della mente nei confronti

degli stimoli dell’esperienza esterna. I temi sviluppati da Steinberg, relativamente alla necessità di

un approccio non ideologico all’opera in grado di farsi carico del lato umano dell’artista, ed il

nuovo rapporto tra arte e sociale, saranno in seguito efficacemente sviluppati dalla critica post

moderna. Altra esponente di primo piano della critica post moderna americana e fiera avversaria del

guru Clement Greenberg, che in merito all’adesione od al rifiuto delle sue tesi ha comunque

condizionato il dibattito in una ampia fase storica, è Rosalind E. Krauss (1941), docente di Storia

dell’Arte alla Columbia University di New York, il cui testo base è “L’originalità dell’avanguardia”

raccolta di saggi redatti tra il 1977 ed il 1984. La Krauss difende in buona misura gli aspetti teorici

legati al formalismo, e viceversa attacca quelli connessi ad una impostazione di matrice storicista.

Per sua stessa ammissione Rosalind Krauss è legata allo strutturalismo ed alla evoluzione di

quest’ultimo maturata, in quegli anni, soprattutto in ambito francese. Se lo strutturalismo intende la

lingua come un insieme in cui gli elementi interni si condizionano a vicenda rapportandosi tra loro,

il post strutturalismo colloca il linguaggio al centro esclusivo dell’indagine. Rifiuto della storia,

quindi, nell’accezione positivista delle “magnifiche sorti”, ma piena accettazione di quest’ultima

quando la si considera come “struttura”. Altri due concetti ricorrenti, nei testi della Krauss, atti a

spiegare l’originalità e la “diversità” dell’avanguardia, sono quelli di “griglia” e di “indice”. La

“griglia”, secondo la Krauss, è l’emblema dell’avanguardia modernista novecentesca e ricorre


costantemente, lungo tutto l’asse del secolo, a partire dal Cubismo, per proseguire, solo per citare

alcuni autori, con Mondrian, Malevic, Ad Reinhardt, Robert Ryman e Jasper Johns. Il suo scopo è

quello di proclamare drasticamente il concetto di autonomia dell’arte e la sua vocazione

antinaturalistica ,elevando una barriera tra arti visive ed arti verbali. Nella tradizione novecentesca

la griglia indica la volontà dell’arte di interrogarsi su sé stessa ma, al contempo, di approdare

all’Universale, in un mondo che ha perduto la certezza del suo orizzonte metafisico. Altro concetto

fondamentale è quello di “indice”. Sulla scia delle intuizioni di un autore più volte citato dalla

Krauss come Walter Benjanin, il passaggio tra dimensione simbolica e dimensione indicale è

situabile a partire dall’invenzione della fotografia e dal suo graduale delinearsi come linguaggio

autonomo e non come surrogato della pittura. Contrariamente ai simboli, gli indici stabiliscono la

loro esistenza sulla base di un rapporto fisico con il loro referente come nel caso delle impronte,

delle ombre, dei sintomi medici. La fotografia è il risultato di un’impronta fisica che è stata

trasferita su una superficie sensibile alle riflessioni della luce, ed è quindi un indice, come è stato

evidenziato in maniera estrema dalle “rayographies” di Man Ray, dove gli oggetti venivano posti

direttamente a contatto della carta fotosensibile. Tutta l’arte concettuale, a partire dai ready-made di

Duchamp per approdare alla performance ed alla body art, segue questo procedimento

rigorosamente tautologico. Sempre a proposito del concetto di “indice” la Krauss si sofferma su

alcuni esempi tipici dell’ondata concettuale degli anni settanta, descrivendo l’allestimento collettivo

inaugurale del newyorchese P.S 1 nel maggio 1976. In quell’occasione una serie di artisti tra cui

Lucio Pozzi, Gordon Matta-Clark, Marcia Hatif, si cimentarono con quell’ampio contenitore post

industriale stabilendovi un rapporto di continuità linguistica di natura indicale, descrivendolo quindi

come luogo presente e come deposito di memoria, con un procedimento di natura prossima alla

fotografia, pur nell’assenza dell’uso di questo mezzo. Altro nume tutelare della teoria critica

statunitense, il cui pensiero è ai nostri giorni parecchio dibattuto, è Arthur C. Danto (1924 - 2013),

anch’egli professore alla Columbia University. Testo base di Danto è “La trasfigurazione del

banale” (1981). In questo volume l’autore formula la sua ormai celebre domanda che pone
l’interrogativo su come mai, ad esempio, la famosa serie di Andy Warhol delle “Brillo Boxes” che

presentano, esattamente replicate, le confezioni delle pagliette detergenti Brillo sono opere d’arte

mentre le scatole originali non lo sono o lo sono in maniera diversa, come un azzeccato esempio di

packaging commerciale? Danto sostiene che un’opera d’arte degna di tal nome debba innanzitutto

riguardare qualcosa e avere quindi un contenuto od un significato, e secondariamente è necessario

che qualcosa in un’opera simboleggi questo contenuto. Quindi comprendere il rapporto tra le due

icone warholiane è diverso rispetto alla relazione tra un’opera d’arte autentica nei confronti di una

copia o di un falso. Nel caso delle Brillo Boxes bisogna comprendere cosa appartenga al mondo

commerciale e cosa a quello delle arti visive. Per condurre in porto questa delicata operazione,

secondo Danto, occorre introdurre un codice di lettura filosofico perché quel che rende l’arte

qualcosa di tangibile non appare alla vista. L’arte è quindi “non definibile”. “A fare la differenza

sono le relazioni che legano la cosa a elementi che l’occhio non può cogliere : un’atmosfera di

teoria artistica, una conoscenza di storia dell’arte, un mondo dell’arte”. Un contributo italiano

importante allo studio di Danto è quello fornito da Tiziana Andina con due saggi, “Arthur Danto un

filosofo pop” e “Filosofie dell'arte : da Hegel a Danto”, già citato nell'ambito del capitolo dedicato

all'estetica antica. La tesi di fondo di Danto è che, nella temperie contemporanea, un'opera d'arte

non sia distinguibile solo in virtù delle sole proprietà estetico -percettive. Scrive la Andina, sempre

in merito alla nota questione delle “Brillo Boxes” : “Il preludio di questa vicenda, il cui nodo

filosofico è stato colto da Arthur Danto, è dunque grosso modo quello che abbiamo anticipato.

Nella seconda parte del Novecento la teoria imitativa si mostra incapace di rispondere alla

domanda ontologica posta dalle avanguardie. Gli artisti si dedicano sempre più

frequentemente alla lavorazione degli artefatti comuni, spesso senza operare alterazioni di

sorta sul loro corpo materiale, ma semplicemente componendoli ed accostandoli sì da formare

nuovi oggetti. Di qui al venir meno di qualsiasi distinzione tra semplici artefatti e opere il

passo è breve e, una volta compiuto, irreversibile. Mentre, in un contesto siffatto, la necessità

di riconcettualizzare il dominio delle opere d'arte diviene manifesta”


La stagione post moderna in Italia

L’ultima parte del saggio verte sull’analisi delle vicende ultime, dalla fine degli anni ’80 ai giorni

nostri. Pur con riferimenti inevitabili allo scenario internazionale privilegerò la situazione italiana,

da anni statica e necessitante di una salutare scossa che tarda ad arrivare, citando anche i principali

passi del mio percorso critico, che nasce e si sviluppa proprio nel lasso di tempo prima citato, in

quanto la “vocazione” menzionata nel titolo ebbe a colpirmi nei primi anni Ottanta a seguito

dell’incontro con alcuni giovani artisti miei coetanei, dopo l’esperienza giovanile nel movimento

del ’77, a Torino, ed un iniziale interesse, perseguito lungo tutto il corso di quel decennio e poi in

larga parte abbandonato per il sopravvenire di impegni sempre più incalzanti legati all’arte, per le

nuove forme musicali, teatrali, grafiche e fumettistiche. Nei primissimi anni ’80 è la giovane critica

bolognese Francesca Alinovi, assistente di Renato Barilli al DAMS di Bologna, a dimostrare

notevole intuizione favorendo la scoperta in Italia del Graffitismo e della scena no wave

newyorchese. Sua anche la teorizzazione dell’Enfatismo, rivolta ad un gruppo di giovani artisti che

gravitavano nell’orbita dell’allora vitale scena bolognese. Quel gruppo riassume in sé molte

caratteristiche della giovane arte italiana anni ’80 ; predilezione per una pittura in bilico tra

espressionismo ed icona da fumetto, rapporto complice con la scena underground musicale e

metropolitana, voglia di calarsi in una dimensione individuale ludica ed anti ideologica. Nella

seconda metà degli anni ’80 i giovani artisti italiani acquistano peso e maturità. Lo stile si fa più

raffinato e formalmente consapevole, la citazione si allarga ad esperienze extra pittoriche che

rivisitano anche le forme dell’avanguardia del secondo dopoguerra, soprattutto l’installazione dove

si tenta un’azione di rinnovamento con l’impiego di nuovi materiali plastici e l’ausilio della
tecnologia, fa capolino una riedizione del concettuale corroborata da una iniezione di ironia da

sempre peculiarità del genius loci italiano. Dal punto di vista della critica convivono in questa fase

due ondate generazionali. La prima è quelli dei nati pressappoco tra il ’45 ed il ’55. Molti di loro,

per quanto preparati, si adagiano nel ruolo di collaboratori degli storici del contemporaneo loro

predecessori, in particolare della triade principale Barilli – Bonito Oliva - Celant , ritagliandosi in

un ruolo, spesso di comodo, che ha fruttato a molti di loro l’ingresso nel circuito dei direttori di

museo di un sistema italiano oggi maggiormente esteso ma negli anni ’80 e ’90 ridotto

sostanzialmente alle Gallerie d’Arte Moderna di Bologna, Modena, Torino, quest’ultima riaperta

nel 1993 dopo dodici anni di chiusura, al Castello di Rivoli inaugurato nel 1984, al Centro Pecci di

Prato aperto nel 1988 ed alla Galleria Civica di Trento che conosce il suo esordio nel 1989 grazie

all’impegno di Danilo Eccher che da lì inizierà la sua fortunata carriera. Occorre dire che la

maggior parte di queste istituzioni privilegia la presenza nel ruolo di direttore artistico di personalità

sintoniche o quanto meno non ostili al dettato di Germano Celant, impegnato a partire dal 1984 in

un’azione di rivalutazione dell’Arte Povera, all’epoca in difficoltà rispetto all’onda montante della

Transavanguardia, con la quale stabilirà in anni successivi un patto strategico di spartizione

istituzionale. Tra quelli in grado di mantenere un eccellente livello di autonomia teorica ed

operativa cito, tra gli altri, le personalità di Claudio Spadoni, Boris Brollo, Maria Campitelli,

Roberto Lambarelli, Francesco Poli, Barbara Tosi, da poco scomparsa causa un tragico incidente

stradale, Elio Grazioli, Demetrio Paparoni, la più giovane Martina Corgnati e Giorgio Bonomi,

autore di un recente ed originale saggio sul concetto e la pratica della “disseminazione” che, nella

sua intuizione, diviene una categoria concettuale di interpretazione dell’arte contemporanea. Sin

dagli inizi del Novecento gli artisti dell’avanguardia, ma non solo loro, “disseminano” lo spazio e

l’ambiente con una frammentazione di segni, tracce e simboli che porterà, negli anni ’60, alla

fuoriuscita totale dall’ambito della bi dimensione. In quella seconda metà degli anni ’80 soprattutto

due rassegne, organizzate a distanza di pochi mesi l’una dall’altra, sono state in grado di

simboleggiare lo spirito del tempo. Si tratta de “Il cangiante” curata da Corrado Levi nel dicembre
1986 presso il milanese PAC e di “Ge Mi To : l’ultima generazione artistica del triangolo

industriale” realizzata dal sottoscritto nel marzo del 1987 presso la Promotrice di Belle Arti a

Torino insieme ad Enzo Cirone, critico genovese precocemente scomparso nel maggio 2007, e

bissata la primavera successiva alla Loggia dei Banchi di Genova, con maggiori problemi interni e,

soprattutto, esterni rispetto alla prima edizione che conobbe unanime consenso, poiché era

purtroppo iniziato, in Italia, quel gioco al massacro che porterà al blocco del nostro sistema

artistico. Corrado Levi, sulla cui figura ho introdotto alcune notizie in precedenza, allestisce al PAC

una mostra dove lo spirito effervescente e felicemente “leggero”, anche quando si cimenta con temi

importanti, che caratterizza la giovane arte italiana di quel periodo, viene posto a confronto con

esperienze omologhe internazionali, soprattutto relative a quell’East Village newyorchese di cui

Levi fu cultore, nonché con varie passioni artistiche sue , in particolare Filippo De Pisis, il cui stile,

sebbene calato in altro clima ed altra epoca ,può avvicinarsi a quella condizione di “trementina

eccitata”, per citare il titolo di una mostra da lui curata , che permea lo spirito della pittura anni

ottanta. Una mostra importante, e simile come impostazione ad “Il Cangiante”, fu “50-80 Alta

tensione” ordinata da me e da Francesca Alfano Miglietti nel maggio 1987 al Palazzo delle Mostre e

dei Congressi di Alba. “ Ge Mi To” fu il corollario e la sintesi di una serie di iniziative da me

intraprese negli anni precedenti, come l’apertura a Torino dello spazio no profit VSV dedicato

all’arte giovane ,e la cura di una rassegna itinerante intitolata “Nuove tendenze in Italia, e di

un’altra allestita alla Promotrice nel 1986, “Versante discreto”, dedicata alla scena torinese”. In

“Ge Mi To” sottolineavo l’attivismo delle tre città del triangolo industriale dal punto di vista

dell’emergenza artistica di quegli anni. In mostra figuravano autori tra i più significativi dell’epoca

come Arienti, Aschieri, Cavenago, Damioli, David, Dellavedova, Mazzoni, Mazzucconi, Ferrazzi,

Marucci, Pusole, Lavagetto, Sacchetto, Vetrugno, Zanichelli. Naturalmente molte altre furono le

iniziative degne di nota in un periodo dove si avvertiva una autentica tensione creativa. Come

ricorda Giulio Ciavoliello, mio giovane collega negli ottanta, nel suo “Dagli anni ’80 in poi : il

mondo dell’arte contemporanea in Italia”, pubblicato nel 2005 ed esemplare perché l’autore,
partendo naturalmente dal dato della sua esperienza personale, ha fornito una ricca messe di utili

notizie su quasi tutti i principali eventi di quegli anni, rifuggendo dalla pavida pratica

dell’omissione che ha caratterizzato l’informazione artistica italiana nell’ultimo quarto di secolo, a

Milano importanti punti di aggregazione furono la fabbrica abbandonata Brown Boveri e, nel

passaggio tra ottanta e novanta, lo Spazio di via Lazzaro Palazzi, ispirato dall’artista Luciano Fabro,

docente a Brera. Questi due luoghi, al di là delle tendenze formali degli artisti che li frequentarono,

sono emblematici della direzione che prenderà l’arte italiana nel decennio successivo. Allo

spontaneismo permeato da proposte sintoniche alla logica della performance e dell’happening della

Brown Boveri, farà da contraltare lo spirito settario e rigidamente post poverista di via Lazzaro

Palazzi, che sfocerà, al di là della qualità o meno delle singole personalità, negli esiti a mio parere

negativi di molto neo concettuale degli anni ’90, con quell’atteggiamento snobistico da “impegno

disincantato” che caratterizzerà la maggior parte dei suoi protagonisti, con rare eccezioni, e in

buona sostanza si limiterà a ricalcare senza aggiungere scarti linguistici significativi le modalità

dell’originale storico. Sempre in quegli anni, parzialmente diverso fu il caso di un gruppo di artisti

genovesi, in una scena dove spiccavano le estrose provocazioni di Marco Lavagetto, tra cui Roberto

O. Costantino, Ivano Sossella, Marco Formento, Cesare Viel, Luca Vitone il cui mentore fu Enrico

Pedrini, collezionista ed intellettuale grande appassionato di happening e di Fluxus. La citazione,

all’esordio curiosa e stimolante di questi giovani autori, andava certamente in direzione di una

smaterializzazione di ispirazione concettuale. Rispetto ai loro algidi colleghi milanesi gli artisti di

Genova tentano la carta della performance di matrice situazionista, introducendo dati in aggiunta

all’interno dell’universo reale, e tentando di ottenere un effetto spiazzante. L’impostazione , dopo

un avvio promettente, diventerà poi eccessivamente militante ed autoconvinta , determinando una

loro dispersione negli anni successivi, con il solo Vitone che riuscirà a mantenersi agganciato alla

scena del contemporaneo spostandosi in area milanese. Tuttavia inserii questa situazione, con una

sezione a parte nel catalogo, in una rassegna curata insieme a Lucio Cabutti nell’estate 1989 a Torre

Pellice, intitolata “Il linguaggio simulato” dove registrai, debbo dire in anticipo con i tempi, i primi
esiti dell’ondata neoconcettuale da noi affrontata in tutte le varie opzioni. Tra la fine degli anni ’80

ed i primi anni ’90 una serie di operazioni, architettate con una regia in buona parte consapevole,

gettano le basi, purtroppo negative, determinanti lo stallo del sistema artistico italiano che, sebbene

all’interno di uno scenario parzialmente diverso, permane tuttora. I motivi di tutto ciò, da me più

volte affrontati nei miei principali saggi e che ora sintetizzo, sono da rivenirsi in una serie di fattori,

oltre ai limiti cronici di una scena storicamente non troppo propizia al contemporaneo e

tenacemente legata alle vestigia di un glorioso passato. Gli anni Ottanta furono un periodo di

ottimismo e di espansione economica in cui si inizieranno a delineare le caratteristiche base di

quella che sarà la globalizzazione culturale ed economica delle fasi successiv,e con la grande

finanza in grado di subentrare alla politica come motore primo delle scelte di politica mondiale.

Uno dei motivi, certo non l’unico, del successo di Transavanguardia ed affini nella prima parte del

decennio, fu la necessità, per un collezionismo che sempre più si proiettava in una dimensione

speculativa, di potere acquistare opere pittoriche più facilmente collocabili negli spazi rispetto alle

produzioni concettuali, troppo ermetiche o spazialmente estese. Al boom rapido ed inedito delle

quotazioni di quegli artisti, comunque blande se paragonate alle valutazioni oggi raggiunte dagli

autori dello star system, fa seguito la ripresa in grande stile dell’Arte Povera, dopo il rilancio

orchestrato da Celant a partire dal 1984. Verso la fine del decennio abbiamo la prima delle crisi

finanziarie, destinate in seguito a segnare in negativo la società post moderna, con il crollo di Wall

Street causato dalle speculazioni legate ai cosiddetti junk bonds, “titoli spazzatura”,

dall’elevatissimo rendimento ma dall’altrettanto elevato rischio. Questo ebbe a determinare

problemi per il mercato dell’arte, non irreparabili ma comunque piuttosto pesanti. In Italia gli

interessi legati alla Transavanguardia arrancante causa crisi e l’Arte Povera, che iniziava a risalire la

china, non potevano evidentemente permettersi di concedere spazio ad un’ultima generazione che,

dal Nuovo Futurismo in avanti, aveva dimostrato in molti casi qualità ed originalità. Inizia quindi

un’operazione in parte pianificata per tarparle le ali privilegiando, negli anni successivi, in primo

luogo un neo concettuale tanto impeccabile formalmente quanto vuoto di contenuti e, all’opposto,
una pittura piuttosto tronfia e derivativa rispetto alle intuizioni degli anni ’80. La giovane critica

italiana aveva inizialmente dimostrato brillantezza di intuizioni, ed anche una certa dose di spirito di

corpo e voglia di confrontarsi. Il sottoscritto diede vita ad una serie di convegni ed occasioni di

incontro, il principale dei quali fu la tre giorni “ Nuova arte, nuova critica” nell’estate del 1986 alla

Casa degli Artisti sopra Riva del Garda, alla quale parteciparono Alfano Miglietti, Ciavoliello,

Cirone, Cocuccioni, Di Pietrantonio, Grazioli, Maragliano, Pecchioli, Terzano, Tosi, Perretta. Ma

negli anni successivi questa solidarietà generazionale, fondata sulla consapevolezza che stante la

svolta epocale in atto sarebbero certamente aumentati gli spazi a disposizione per la critica d’arte e

la correlata pratica curatoriale, ebbe subito a sfaldarsi. Ciò fu causato in primo luogo

dall’atteggiamento assunto dalla rivista Flash Art e dal suo direttore Giancarlo Politi. Ho già avuto

modo di dichiarare stima per l’impresa portata avanti da Politi a partire dagli anni sessanta, che lo

porterà a creare una presenza fissa ed assai diffusa nell’ambito delle riviste d’arte. Gli anni ottanta

segnano un momento di grande espansione per la sua creatura. Ma, se ancora nella seconda metà di

quel decennio era garantita una dose sufficiente di pluralismo informativo, a partire dai primi anni

novanta la situazione muta radicalmente di segno. Politi, fiutando l’aria che cambia, ritiene di

schierare la sua rivista integralmente al servizio dell’opzione di cui sopra e, dal punto di vista

prettamente imprenditoriale, la sua scelta può apparire comprensibile, sebbene foriera per molti di

effetti assai poco positivi. Proprio nell’ottobre 1990 l’editore umbro organizza presso la Fabbrica

del Vapore a Milano “Ipotesi Arte Giovane”, mega rassegna cui dedica un numero speciale della

rivista, dove i collaboratori regionali di Flash Art selezionano circa duecento giovani artisti. Si trattò

di un’ operazione che, secondo me consapevolmente, si diresse nella dimensione diametralmente

opposta rispetto alle modalità con cui si sarebbe dovuto operare in quella fase. L’ultima generazione

aveva dimostrato qualità e freschezza, al contrario di quanto affermato ai nostri giorni dai

sostenitori di una presunta inconsistenza degli anni ’80 italiani. Era quindi opportuno selezionare

una prima scelta di 20-30 autori con cui iniziare un percorso di consolidamento territoriale e,

gradualmente, internazionale. L’avere optato per una soluzione del genere, amplificata dall’impatto
mediatico della rivista, dimostrava la volontà di dare vita, come poi fu nettamente percepibile, ad un

polverone in cui nulla fosse più chiaramente distinguibile. La giovane critica dell’epoca si adeguò

quasi tutta a questo dettato conformista, pena la sparizione dal circuito dell’informazione, come

avvenne per i pochissimi non omologati tra cui il sottoscritto. Negli anni successivi Politi si

dimostrerà efficace play maker nel determinare sfortune e fortune dei suoi sodali, fatti transitare per

la sede di New York della rivista e poi inseriti ben indottrinati e buoni conoscitori del sistema

internazionale, nel sistema, come è stato per Francesco Bonami, Massimiliano Gioni e Andrea

Bellini, senza dimenticare due capo redattori della rivista come Giacinto Di Pietrantonio, direttore

della Gamec di Bergamo, e Gianfranco Maraniello, direttore del Mambo di Bologna. Il potere di

Politi inizia gradualmente a stemperarsi negli anni Zero, pur mantenendo sempre una buona

visibilità ed una relativa influenza, quando la crescente diffusione in Italia dell’informazione via

posta elettronica ed internet e la creazione, da parte di un gruppo di giovani lungimiranti, della

rivista on line Exibart, dalla quale nella primavera 2011 si scinderanno per dare vita ad Artribune, a

cui si aggiunge la comparsa di altre iniziative simili, impedisce la censura praticata nei confronti di

operatori ed iniziative non gradite, al di là della loro maggiore o minore importanza. Tra i

protagonisti di quella svolta cito Massimiliano Tonelli, Marco Enrico Giacomelli, Helga Marsala,

Daniele Capra e Valentina Tanni. Tornando alla cronologia degli eventi, nel dicembre 1991 una

ampia rassegna allestita presso la GAM di Bologna ed intitolata “Nuova officina bolognese”, pur

animata inizialmente dalle migliori intenzioni, determina la prevalenza accordata al neo concettuale

di specie epigona, su pressione soprattutto di alcune gallerie milanesi che operano precise scelte in

quella direzione. Ciò determinerà, da quel momento in poi, una crisi di personalità e di proposta in

una città per molto tempo considerata uno dei luoghi più effervescenti e dinamici nel panorama

della cultura, soprattutto giovanile. Verso la fine del 1992 organizzai a Torino un convegno

intitolato “Ed ora? La critica italiana all’alba di un decennio” dove, in tre giorni di dibattito a cui

parteciparono anche personalità della critica “storica” come Renato Barilli, tentai di ridestare il

clima che aveva caratterizzato l’incontro di Riva del Garda prima citato. Al di là dell’interesse degli
interventi, i successivi sviluppi totalmente disgregati e solipsistici, al di là di convergenze di

comodo, di quella che doveva essere la nuova generazione della critica d’arte italiana, mi

indurranno ad abbandonare l’organizzazione di questo genere di iniziative. Di lì a pochi mesi

l’edizione 1993 della Biennale di Venezia, di cui ho parlato in precedenza, darà l’assestamento

finale a questa fase involutiva. Nell’ambito del pensiero critico internazionale la teoria di maggior

rilievo negli anni ’90 fu senza dubbio il “Post Human” del newyorchese Jeffrey Deitch, insolita,

soprattutto per la mentalità italiana, figura di critico-mercante, Deitch organizza, tra il 1992 ed il

1993, una mostra itinerante in una serie di prestigiose istituzioni pubbliche e private internazionali,

toccando anche l’Italia, in questo caso il Castello di Rivoli. Presenti nell’allestimento Adams,

Antoni, Armleder, Balkenhol, Barney, Bickerton, Chiezo, Clegg & Guttmann, Delvoye, Etkin,

Fischli/Weiss, Fleury, Gober, Gonzalez-Torres, Hirst, Honert, Kelley, Kilimnik, Kippenberger,

Koons, Lappas, Lemieux, Marclay, McCarthy, Morimura, Nakahara, Noland, Oates, Pruitt & Early,

Ray, Ruff, Sherman, Smith, Stadtbaumer, Vaisman, Wall. Un ampio panorama di nomi già

affermati del panorama post concettuale, ed altri destinati ad una forte futura ascesa. Riporto

integralmente l’incipit pubblicato su un catalogo che ebbe a distinguersi per una impostazione

grafica estremamente originale e subito imitata, : “Probabilmente non vi è nulla che affascini

maggiormente la gente che l’altra gente, e così quasi ogni generazione produce un’

interessante arte figurativa. La generazione degli artisti presentati in questo catalogo e nella

mostra, tuttavia, non produce unicamente un’interessante arte figurativa, piuttosto la

reinventa virtualmente. La nuova concezione del figurativo espressa da questi autori riflette il

nuovo concetto dell’io che va informando sempre più ampiamente la società contemporanea. I

progressi nella biotecnologia e nell’informatica e le conseguenti metamorfosi nei

comportamenti sociali stanno variando i confini in corrispondenza dei quali si celebra la fine

dell’umano ed ha inizio il post – umano. Il mondo emergente nel quale la chirurgia plastica, la

ricostruzione genetica e gli innesti di componenti elettroniche nel cervello diventeranno prassi

comune, potrà essere ben presto assunto come uno stadio ulteriore dell’evoluzione darwiniana
dell’essere umano. Tali innovazioni tecnologiche inizieranno anche ad alterare radicalmente

la struttura delle interazioni sociali. L’alba di questo mondo post – umano non può essere

raffigurata in modo analogo al mondo di Picasso, o al mondo di Andy Warhol. La sua

rappresentazione sottintende una nuova concezione dell’arte figurativa che desume molto più

dai talk shows televisivi che dalla storia dell’arte: Le opere presentate in catalogo ed in mostra

sono forse l’avvisaglia di un mondo dal quale l’umanità è stata eliminata? Oppure, al

contrario, esse celebrano un mondo nel quale si avrà per la prima volta la libertà di

autoreinventarsi? Vi è assoluta incertezza se il futuro post – umano sarà migliore o peggiore,

o se addirittura vi sarà una condizione post-umana.” Nelle righe sopra sono contenuti i caratteri

salienti di un’analisi teorica che è stata l’ultima di forte rilievo sviluppata dai primi anni novanta ad

oggi. I suoi presupposti, analizzati esaurientemente dall’estetologo Mario Perniola, sul cui pensiero

tornerò più avanti, che li collegherà alla successiva e correlata ondata “sensazionalista”, trovano

pieno riscontro nella dimensione globale in cui ormai si dispiega l’arte, senza che però venga meno

l’importanza del “genius loci” L’Italia negli anni novanta si sarebbe trovata pronta ad accogliere

questa sfida, con autori già attivi fin dalla prima parte del decennio, in grado di abbinare le

tematiche del post umano nei termini dell’abnorme, del rapporto reale – artificiale e quant’altro,

alla specificità “ironica” della nostra tradizione quali, tra gli altri, Corrado Bonomi, Dario

Ghibaudo, Antonio Riello, Ferruccio D'Angelo, Antonella Mazzoni, Karin Andersen, Marco

Lavagetto, Mercurio, Silvano Tessarollo, Carmine Calvanese, che furono però respinti dal sistema

italiano, il quale optò per l’innocuo e derivativo neo concettuale di cui ho già ampiamente parlato,

con le uniche eccezioni, su cui mi soffermerò più avanti, di Vanessa Beecroft , Maurizio Cattelan e,

in anni di poco successivi, Francesco Vezzoli. artisti il cui stile, che da solo non poteva e non

doveva rappresentare un’intera ondata generazionale, si sintonizzò rapidamente sui parametri

standard dell’international style. Gli artisti del “post-human italiano” riusciranno comunque a

mantenere con tenacia ,appoggiandosi alla parte sana del sistema, una discreta visibilità, corroborata

per alcuni di loro da importanti uscite in Europa. Queste saranno concentrate soprattutto in
Germania, dove il gallerista italo-tedesco Angelo Falzone, spesso in collaborazione con la

Fondazione VAF, organizzerà numerosi eventi in spazi privati e pubblici, uno dei quali curato dal

sottoscritto presso la Stadtgalerie di Kiel nel 1998, riuscendo a far acquisire vari lavori dai musei di

un gruppo che lì verrà definito del “Concettualismo ironico italiano”. Il dibattito della critica

italiana negli anni novanta, soprattutto quella giovane, non brilla per particolare vivacità. Si segnala,

nei primi anni, la teoria del Medialismo di Gabriele Perretta. Quella “medialista” fu una strana

esperienza, attendibile quanto a divulgazione dei valori emergenti del panorama italiano in

correlazione con gli omologhi internazionali, ma troppo estesa quanto a presenze per qualificarsi

“corrente”, e per di più inficiata da inclusioni di autori che poco avevano a che fare il dettato

mediale, ed altrettanto inspiegabili esclusioni di artisti, come quasi tutto il nucleo del

“concettualismo ironico” e diversi pittori, che avrebbero viceversa avuto pieno titolo di presenza.

Infine la sigla, musicale ed intrigante quanto basta per essere facilmente memorizzata, al punto che

ancora oggi viene spesso adoperata per descrivere le tendenze degli anni novanta, ma più adatta ad

una teorizzazione generale che ad una focalizzazione da operarsi in sintonia con editoria e mercato.

Rimane l’indiscutibile spessore culturale di Perretta, critico napoletano dotato di una ampia

preparazione teorica da storico della filosofia.La teoria del Medialismo, in sintesi, intende

fotografare la scena della post modernità a partire dalle teorie di Benjamin e della scuola di

Francoforte, passando attraverso l’utopia situazionista degli anni cinquanta. Gli strali di Perretta si

rivolgono verso una certa concezione dell’avanguardia, ma anche nei confronti della opposizione ad

un “darwinismo linguistico” prodotto da Transavanguardia ed affini, ed il riferimento a Bonito

Oliva, per quanto non citato direttamente, appare evidente. Scrive Perretta : “ Ovvero, il transito

dell’avanguardia ad ovest della trasgressione è stata una cattiva conseguenza ed una evidente

produzione di pacchetti strategici, finalizzazioni correntizie e assetti “cabalistici” che hanno

fatto solo la fortuna di un pool di gallerie, rivelatesi prive di idee subito dopo il successo del

movimento prescelto. Nella seconda metà degli anni Settanta la figura di certa critica, che già

si opponeva ai vecchi schematismi dell’avanguardia, ma era in gran parte mescolata alla sua
stessa tradizione, ne produce tutto il fascino più fatuo. Tra le diverse culture autonome e

tradizionali prodotte dalla retorica dell’avanguardia, chi si opponeva apparentemente ad essa

si presentava come il modello più dolciastro e sentimentale, pur tramandandone il maggiore

beneficio. Ma la colpa non è dei singoli interpreti dell’avanguardia, la colpa e dei lager che

essa ha prodotto, la dittatura ideologica del segno scaturita da una falsa interpretazione del

simbolo e dell’uso del segno come liberazione del linguaggio e nel linguaggio”. Per venire ad

una definizione più precisa del Medialismo “Il medialismo sul piano dell’applicazione, pur

presentandosi come tutt’altro che sistematico, si manifesta in diverse forme tra cui la pittura

mediale, il medialismo analitico e l’anomia mediale. La pittura, ad esempio, agisce su

un’ampia gamma iconografica evocando immagini frequenti dell’imprinting popolare ; la

medial-analysis, invece, muovendosi con particolare contrasto verso l’idealismo concettuale,

sostituisce la formalizzazione estetica in tutte le sue derivazioni come processo stesso

dell’opera ; l’anomia mediale, infine, comprende artisti che intervengono sull’immagine del

mondo dell’economia e degli affari o che comunque si spogliano delle rispettive identità

anagrafiche e si pongono come collettivi di comunicazione: I medialismi nascono dalle

ricerche sviluppate negli ultimi anni , analizzando le radici del lavoro di un novero di artisti

italiani e stranieri e riconoscendone un fondamento comune che critichi il concetto stesso di

genere usato dall’avanguardia. Individuare e scegliere l’area spetta al fruitore senza perdere

di vista lo scenario socio-economico, iconografico e tecnologicamente avanzato che fa da

sfondo”. Le scelte artistiche di Perretta erano all’epoca, fatta salva la già citata non inclusione di

alcuni autori nel suo progetto, in buona misura compatibili con le mie, prevedendo la presenza di

autori di sicuro interesse come, tra i molti, Banca di Oklahoma s.r.l., Enrico Bentivoglio, Sergio

Cascavilla, Santolo De Luca, Enrico De Paris, Gabriele Lamberti, Luigi Mastrangelo, Antonella

Mazzoni, Karin Andersen, Gian Marco Montesano, Premiata Ditta, Nello Teodori, Maurizio

Arcangeli.. Il Medialismo, per alcuni anni a partire dal suo primo manifestarsi nel 1990, conobbe

una eco notevole ed un interesse manifestato da numerose gallerie soprattutto per l’ambito della
“pittura mediale”, amplificato dal forte supporto di Giancarlo Politi che, alla fine del 1993, stampò

un ampio volume sul tema. Stranamente quel libro, e la successiva mostra che si tenne nella

primavera 1994 alla GAM di Bologna, curata da Perretta ed intitolata “Icastica”, caratterizzata per

quanto ne so da vari problemi organizzativi, segnarono il repentino canto del cigno del movimento.

La cosa francamente non mi stupì. Merito del Medialismo fu quello di avere posto l’attenzione su di

un ambito di produzione artistica importante ed attendibile per spiegare, al di là delle valutazioni sui

singoli nomi, gli sviluppi di quegli anni e della fase successiva. I limiti furono l’ ampiezza dell’area

analizzata relativamente alla creazione di una corrente, ed una teorizzazione colta ma segnata dalla

pubblicazione di testi eccessivamente colmi di citazioni al punto da risultare di difficile

decodificazione anche da parte degli addetti ai lavori meno sprovveduti. Tutto il supporto

generosamente offerto sparì d’incanto ed ebbi sostanziale conferma di quanto già sospettavo, e cioè

che in buona misura l’intento fosse quello di innalzare l’ennesimo edificio costruito su fondamenta

poco stabili, e destinato a crollare, per creare l’ennesimo polverone atto alla neutralizzazione della

parte migliore dell’ultima generazione italiana. Lo stesso Perretta, con cui negli anni successivi c’è

stato un riavvicinamento fondato sulla reciproca stima intellettuale e su aspetti non dissimili del

nostro percorso professionale , ha concordato in parte con questa mia tesi. Il critico napoletano negli

anni successivi si è dedicato prevalentemente all’insegnamento ed alla teoria, nella quale eccelle,

rendendo opportunamente il suo stile di scrittura più scorrevole, e non disdegnando del tutto la

pratica curatoriale, in particolare relativamente all’interessante analisi dei “gruppi” artistici

caratterizzati dall’anonimato, e dal lavoro svolto in comunità, che trova interessanti corrispettivi

anche in letteratura, basti pensare al collettivo Luther Blisset poi Wu Ming. Dalla confusione

seguita alla conclusione dell’avventura medialista, venne fuori una sorta di reinterpretazione

superficiale di questa e di altre teorie simili, corroborata con una spruzzata di spirito anni ’80

reinventato per l’occasione con una serie di operatori, il più noto dei quali è Luca Beatrice, ad

interpretare una linea fintamente oppositiva ed in realtà complice del sistema imperante. Verso la

fine degli anni novanta appariranno sulla scena alcuni critici in grado di meglio leggere la nostra
complessa ed irrisolta scena nazionale. Il principale tra loro per preparazione ed onestà umana e

professionale, a mio avviso, è stato Maurizio Sciaccaluga, prematuramente scomparso nel 2007 a

causa di conseguenze legate all’eccessivo stress lavorativo. Nella prima parte degli anni novanta il

mio principale impegno teorico ed organizzativo si concentrò nella realizzazione di una serie di

eventi espositivi, suddivisi per precise aree stilistiche, pittura, scultura ed installazione, concettuale,

sfocianti in una manifestazione conclusiva nel settembre 1993, e nella pubblicazione di un volume

intitolato “Eclettismo”, bissato, un anno dopo, da un’altra mostra sugli stessi temi tenutasi presso lo

spazio parmigiano dell’artista, nonché promoter e collezionista Anna Carretta, e relativo catalogo

intitolata “Stile libero”. Molti vogliosi di polemiche ad ogni costo videro in queste mie operazioni

un tentativo di oppormi alla teoria medialista. Non era così, anche perché di quella accettavo vari

postulati ma non la metodologia. “Eclettismo” non intendeva affatto creare i presupposti per una

nuova corrente, anche perché sarebbe stata eccessivamente generica. Semmai il mio intento era

quello di fornire un contributo teorico coerente e riassuntivo dei primi dieci anni del mio percorso

critico, fornendo delle indicazioni che potevano essere utili per una possibile riorganizzazione del

sistema. Nell’ambito della parte conclusiva dell’ esperienza triennale come condirettore artistico,

insieme ad Angelo Bucarelli e Rossana Bossaglia, della Galleria d’Arte Moderna e dei Musei Civici

torinesi ebbi ad allestire nel maggio 1997, presso la Promotrice di Belle Arti, una mostra ambiziosa

quanto ad intenti ed a dimensioni dal titolo “Va’pensiero. Arte Italiana 1984/1996”. L’allestimento

fu corredato da un libro-catalogo con mio saggio critico ed un corposo apparato bibliografico

ottimamente coordinato da Ivana Mulatero , contenente dettagliate interviste praticamente a tutti i

più significativi operatori di quel periodo. Mostra e catalogo furono oggettivamente, al di là del

giudizio legittimo di ognuno, il contributo più significativo manifestatosi negli anni novanta

relativamente all’analisi critica dell’ultima generazione italiana ed al correlato sistema. Debbo

registrare a posteriori come l’evento, pur noto e dibattuto , subì varie peripezie, relativamente a

rinvii che ne fecero slittare la data di inaugurazione di circa un anno, a difficoltosi rapporti con

alcuni artisti e gallerie, ed alla volontà tenace di un certo sistema nel volerlo oscurare il più
possibile. Tutti indizi che la dicono lunga sul clima generale degli anni novanta in Italia. Le tesi di

fondo della mostra erano riassumibili esemplarmente dal titolo e dall’introduzione al saggio. Con

“Va’ pensiero”, oltre ad adoperare un termine facilmente memorizzabile, componente fondamentale

per la comunicazione di questo genere di eventi , mi collegavo ad un repertorio classico della

tradizione italiana ; il coro verdiano che esprime rimpianto e nostalgia, entrambi sentimenti

compatibili con i presupposti del testo introduttivo. Quest’ultimo fu intitolato “Falso movimento”,

citazione del gruppo d’avanguardia teatrale diretto negli anni Ottanta da Mario Martone ,

fortemente contaminato dall’arte visiva nelle scenografie e nella concezione d’insieme, e critica

all’immobilismo del sistema. Dalla parte introduttiva del mio testo : “Il problema è che da allora

(il riferimento è alla mostra “GE MI TO” del 1987 n.d.a.) il sistema artistico italiano si è

caratterizzato per un’inerzia, per un “falso movimento” tale per cui, al di là di un’apparente

vivacità, non sono riscontrabili apprezzabili mutamenti, né dal punto di vista dell’evoluzione

stilistica, e questo non è un male perché denota una precoce maturità, né sotto l’aspetto di una

reale e non aleatoria stabilizzazione dei valori su di un piano nazionale e, soprattutto,

internazionale, la qual cosa è certamente un male. Ed è per cercare di contrastare questa

perniciosa tendenza con un evento il più possibile esemplare, anche dal punto di vista della

ricostruzione filologica e bibliografica, che mi sono cimentato in questa non semplice impresa.

Senza volerle attribuire significati assoluti ma cercando di porre in essere, con umiltà e con lo

spirito di chi è stato testimone in presa diretta degli eventi, le condizioni per una

manifestazione che abbinasse scelte critiche di cui mi assumo pienamente la responsabilità ai

presupposti per una riflessione collettiva, confortata dalle numerose testimonianze di

qualificati operatori, critici, galleristi, collezionisti, interpellati per la loro storia e concreta

presenza e non necessariamente per l’adesione all’impostazione metodologica ed esistenziale

del sottoscritto. Contraddicendo volontariamente una tendenza molto radicata nell’Italia

artistica degli ultimi anni, caratterizzata da una sterile e spesso isterica conflittualità e dalla

pavida pratica dell’omissione che ha contraddistinto l’informazione editoriale e saggistica,


pratica di cui, essendo stato vittima non voglio divenire complice, anche quando l’opportunità

me lo consentirebbe”.

Verso e dentro il nuovo millennio

Intanto proprio a partire dal 1997, e fino a tutta la prima parte degli anni Zero, ha inizio una nuova

ondata artistica internazionale in linea con il clima della globalizzazione e dell’andamento glamour

che mercato, fiere ed aste tendono ad assumere. Accanto ai paesi emergenti asiatici ed all’India, nel

mondo occidentale è la Gran Bretagna ad assurgere a capofila, tramite una strategia organica e

capillare, pienamente sintonica all’accelerazione neo liberista determinata dall’avvento al potere ed

al decennale dominio del “New Labour” di Tony Blair, propugnatore di una terza via tra

capitalismo selvaggio, tipico delle politiche anni ottanta di Thatcher e Reagan, e socialdemocrazia

sinonimo di stato sociale diffuso. Mecenate dei “Young British Artists”, e deus ex machina del

mercato internazionale, il celebre pubblicitario Charles Saatchi, cofondatore insieme al fratello

dell’agenzia pubblicitaria leader a livello mondiale Saatchi & Saatchi, che ha tra l’altro dato alle

stampe di recente la sua biografia, significativamente intitolata “Il mio nome è Charles Saatchi e

sono un artolico”. Saatchi, nato a Bagdad nel 1943, decide ad un certo punto di investire i suoi

ingenti capitali nell’arte, per sanare un’antica e mai sopita passione. Nel 1997 espone, presso la

londinese Royal Academy, i lavori di un gruppo di artisti collegati tra loro unicamente dal suo

attivismo di talent scout e mecenate, i più noti tra i quali sono Damien Hirst e Rachel Whiterhead.

Tra gli altri sono presenti i fratelli Dinos e Jake Chapman, il cui lavoro rappresenta figure modellate

su comuni manichini da negozio ma con orribili deformità e mutilazioni ; Tracey Emin la cui

produzione , ampiamente autobiografica, la porta ad espone per l’occasione il suo letto sfatto
accompagnato da oggetti della quotidianità ; Chris Ofili, il cui elemento distintivo è

l’incorporazione di escrementi d’elefante nei dipinti ; Marc Quinn, legato alle poetiche del corpo

che negli ultimi anni ha sviluppato, dopo avere esposto nel 1991 un autoritratto tridimensionale

realizzato con il suo stesso sangue congelato, una produzione scultorea in marmo dove raffigura

corpi mutilati a causa di malformazioni genetiche ; Jenny Saville, che dipinge tele di grandi

dimensioni raffiguranti donne obese , ed ancora Sarah Lucas e Gary Hume. Con questa tendenza il

post-umano preme in direzione di una sensazionalismo che punta sull’enfasi della grande

dimensione, come in Ron Mueck, o del disgusto e dell’abiezione. Correlata all’espansione dell’arte

su scala planetaria globale l’infittirsi degli appuntamenti periodici come le fiere e le biennali. Per

stigmatizzare questo fenomeno in maniera ironica è stato coniato il termine “biennalite”. Così

scrivevo nel 2006, nel saggio introduttivo alla seconda edizione della BAM Biennale d’Arte

Moderna e Contemporanea del Piemonte, di cui sono curatore, manifestazione che si pone in

controtendenza con il clima dominante per l’attenzione rivolta in maniera prioritaria al territorio :

“…. rimaneva poi un terzo problema, questa volta non peculiare alla nostra rassegna ma

largamente condiviso : la proliferazione delle Biennali su scala ormai planetaria, che è stata

etichettata da alcuni come “sindrome di Marco Polo”. Il realizzare manifestazioni artistiche di

ampio respiro su scala biennale, talvolta triennale o, nel caso di Documenta a Kassel,

addirittura quinquennale, da un punto di vista logistico è giustificato dalla difficoltà

nell’organizzare manifestazioni di questo genere e, essendo queste votate all’analisi della

contemporaneità più recente, dall’esigenza di un lasso temporale sufficiente a registrare con

attendibilità i nuovi fermenti in atto. Le Biennali storicamente sono nate agli albori della

civiltà contemporanea quando, dopo il trionfo della Rivoluzione Industriale, il sistema

artistico è gradualmente diventato un insieme complesso ed articolato dove il tradizionale

rapporto artista - committente è stato integrato da altre componenti e quando, grazie alla

riproducibilità tecnica dell’opera, quest’ultima ha perso la sua aura per diventare patrimonio

di molti, aumentando il suo livello di esponibilità. Un’altra delle motivazioni fu quella di


diffondere e divulgare i valori del territorio e talvolta la centralità di questo su scala

sopranazionale ; da questo punto di vista è abbastanza singolare come non sia nata, nella

prima metà del Novecento, una Biennale francese. La prima fu, come è noto, Venezia nel

1895, per rivendicare l’orgoglio dell’unicità della città e, probabilmente, per dare veste

compiuta anche dal punto di vista artistico all’unità d’Italia da poco realizzatasi. Nel 1951 fu

la volta di San Paolo, in una fase in cui il Sudamerica, in particolare il Brasile e l’Argentina,

era ancora una terra promessa e non aveva conosciuto le tragedie dei decenni successivi.

Quella fu anche la prima volta in cui l’arte contemporanea conobbe una significativa

appendice extra occidentale. L’intento di Kassel, nata nel 1955, era evidentemente un riscatto

della cultura tedesca dopo la seconda guerra mondiale ed il nazismo ; non a caso Documenta è

sempre stata la rassegna più militante e politicizzata. Con incedere progressivo ed

inarrestabile, a partire dalla seconda metà degli anni ’70…..assistiamo ad un intensificarsi

degli appuntamenti fissi ed occasionali, ed anche all’apparizione di un fenomeno strettamente

correlato in termini di mercato e non solo, quello delle fiere e delle aste”. Nel 2002 riesco a

realizzare a Parma, presso Palazzo Pigorini e la chiesa sconsacrata di San Ludovico, una rassegna

che considero forse la mia più riuscita, non tanto in termini di qualità dei contenuti, presente credo

anche in altre occasioni, ma per il clima generale in cui l’evento maturò, più tranquillo rispetto alle

esasperate tensioni del decennio precedente, e tale da permetterne una più attenta e serena

leggibilità. Titolo della rassegna “Una Babele postmoderna : realtà ed allegoria nell’arte italiana

degli anni ‘90”. Riporto due estratti significativi del mio ampio testo introduttivo : “La condizione

postmoderna, le cui linee guida sono state con lungimiranza tracciate da Lyotard con suo

saggio omonimo del 1979, delimita i confini di una società che assomiglia terribilmente a

quella dei giorni nostri. Una società dove si sono vanificati, non senza rimpianti, come

sottolineato dai teorici del “pensiero debole”, i grandi sistemi teorici e le grandi narrazioni e

dove i capisaldi di Dio, Patria e Nazione non rappresentano più una certezza. La

comunicazione assume un ruolo invasivo, e per il predominio di quest’ultima si combattono le


guerre attuali. Infatti il fine odierno non è più l’accumulo di beni materiali, all’interno di un

recinto istituzionale ben delimitato e tramite la trasmissione di un sapere codificato. Il fine

attuale è, viceversa, l’acquisizione di sapere, di conoscenze, la cultura è diventata “merce tra

le merci” in un continuo gioco linguistico di rimandi tra il destinatore, colui emette un

enunciato, ed il destinatario che lo recepisce, per usare due categorie tipicamente lyotardiane.

Lo scenario della nostra quotidianità presenta un intreccio all’apparenza inestricabile di

linguaggi, senza un fine ed un significato apparente, dove ogni cosa rimanda ad un’altra, in

un continuo rispecchiamento. Il singolo o, per esteso, la comunità allargata, più su base tribale

ormai, anche nelle società occidentali, che comunitaria, è quindi sottoposto a un incessante

bombardamento informativo, dal quale ci si può difendere con un atteggiamento di guerriglia

semiologica, invertendo il flusso del messaggio in direzione del mittente ed impadronendosi

dei suoi codici, per tentare di ribaltare i termini della questione. L’arte ha gradualmente

imboccato un sentiero che gradualmente l’ha condotta verso lo stadio attuale, verso questa

commistione di segni e di linguaggi dove è arduo, se non impossibile, rinvenire un filo

conduttore, in direzione di quella “babele postmoderna” oggetto di questa mostra”. E più

avanti, per stigmatizzare il tema della mostra e del progetto critico : “Dalla somma di queste

considerazioni scaturisce il titolo della mostra, dove si riassume da un lato la frenesia creativa

di questo decennio, dall’altro se ne delimitano i confini, per l’appunto in bilico tra realtà ed

allegoria, tra un’arte che aderisce il più possibile al reale adoperando le recenti protesi

tecnologiche di cui l’uomo è provvisto o, all’opposto, cerca di dialogare con la

contemporaneità difendendosi con un distacco vissuto come rifugio nella magia del simbolo,

senza contare i frequenti casi in cui queste tendenze convivono all’interno della medesima

opera. L’immagine biblica della Torre di Babele evoca questa contaminazione di parole,

suoni, colori, linguaggi la cui risultante, nella nostra stagione postmoderna è sinonimo, non

necessariamente negativo, di perdita del centro, di impossibile ancoraggio a dogmi e certezze

stabilite a priori, ed è ardue smentire che la scena degli anni ’90, nel bene e nel male, non
abbia manifestato queste caratteristiche. Le correnti in cui si è diviso questo composito

panorama sono, quindi, la pittura, data più volte per inabissata e, al contrario, mai

tramontata, sempre saldamente sulla scena, un’ampia area in cui si sono cimentati, con esiti

discontinui, coloro che hanno intrapreso la strada dell’analisi concettuale di oggetti, linguaggi,

comportamenti, e un’altrettanto estesa compagine impegnata in un variegato uso della

fotografia e delle nuove tecnologie, il video in primo luogo, con esiti in taluni casi assai

interessanti, nella maggior parte dei casi noiosi e ripetitivi. Su tutto questo hanno spalmato il

loro collante in maniera indiretta, integrata, o assumendo un ruolo guida, le nuove tecnologie

digitali, autentico “deus ex machina” degli ultimi anni.” Gli anni Zero sono stati anch’essi

ambivalenti come il decennio immediatamente precedente, da cui hanno ereditato i tratti peculiari,

ma non tanto nell’accezione dello stile, che ha mantenuto in buona misura le caratteristiche

dell’eclettismo stilistico, quanto della classica valutazione simboleggiabile nel detto popolare del

“bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto”. Interpretabile dal lato positivo nella sempre più ampia

circolazione delle notizie tramite la rete , nella seconda parte del decennio ulteriormente

incrementata con l’ausilio dei social network, Facebook in primo luogo, che hanno garantito

visibilità a manifestazioni e progetti critici, fermo restando il medesimo atteggiamento poco

obiettivo, delle riviste su carta, sempre più in crisi e dei quotidiani, così come dei periodici di

politica e costume, attenti alla polemica ed ai mega eventi istituzionali più che alla valutazione della

notizia in se. L’aumento della circolazione delle informazioni, assieme all’incremento delle

occasioni espositive, ha inoltre permesso, soprattutto in Italia, l’inizio di una rivalutazione di vari

fenomeni artistici e di una rilettura critica di periodi quali gli anni Ottanta e Novanta. Il lato vuoto

del bicchiere consiste viceversa in una visione opposta dei fenomeni prima citati. Il potenziamento

della comunicazione genera pluralismo ma anche confusione, e dalla babele di notizie può scaturire

un livello “zero” dell’informazione, dove a prevalere sono comunque gli eventi dotati di maggior

supporto promozionale ed istituzionale. Nell’incessante incedere di mostre, nuove gallerie, biennali

e rievocazioni storiche può essere difficile, anche per l’osservatore preparato ed in buona fede,
separare il grano dal loglio. Un intellettuale quale è Mario Perniola, tra i principali studiosi del

Situazionismo, docente di Estetica presso l’Università di Roma Tor Vergata, pur non essendo

critico d’arte di professione, è stato in grado di interpretare i fenomeni artistici dell’ultimo

ventennio, sullo sfondo delle mutazioni dello scenario sociale, con grande acutezza. Tra la sua

ampia produzione saggistica citerò in particolare due opere. Nella prima “L’Arte e la sua ombra”,

pubblicata nel 2000, Perniola, analizzando le vicende del decennio appena trascorso, si dimostra in

grado di gettare uno sguardo lungimirante anche su quello a venire. La tesi di fondo è : esiste una

possibilità di grandezza, che riprenda ed aggiorni la categoria storica dell’estetica, nell’arte attuale?

La risposta tendenzialmente è si, ma ad alcune precise condizioni e tenuto conto, come d’altra parte

è ovvio, delle diverse condizioni storiche e, di conseguenza, di una mutata predisposizione

percettiva. Nel primo capitolo del libro, intitolato “Idiozia e splendore dell’arte attuale”, Perniola

scrive : “Nell’avventura artistica dell’Occidente si possono individuare due tendenze opposte :

l’una diretta verso la celebrazione dell’apparenza, l’altra orientata verso l’esperienza della

realtà. La prima tendenza ha focalizzato la propria attenzione sulle nozioni di distacco, di

lontananza, di sospensione e ha considerato l’attitudine estetica come un processo di catarsi e

di derealizzazione. La seconda tendenza, al contrario, ha conferito una speciale enfasi all’idea

di partecipazione, di coinvolgimento, di compromissione e ha pensato l’arte come una

perturbazione, una folgorazione, uno choc ….La prima tendenza ha trovato nello sviluppo dei

mezzi di comunicazione di massa un potente alleato : l’idea dello spettacolo sociale, la poetica

dell’effimero, l’espansione e la commercializzazione del tempo libero hanno incoraggiato

l’aspetto edonistico e ricreativo dell’arte. Questo si è manifestato ampiamente nel corso degli

anni Ottanta come recupero delle forme tradizionali della pittura, della letteratura,

dell’architettura e della musica, come solennizzazione della cultura popolare, come “pensiero

debole”, “post – moderno”, “transavanguardia”… Nello stesso tempo tuttavia, noi abbiamo

assistito alla manifestazione e alla diffusione di una sensibilità artistica di segno opposto, che

si è configurata come una vera e propria irruzione del reale nel mondo rarefatto e altamente
simbolico dell’arte. È sugli aspetti più violenti e più crudi della realtà che si è concentrata

l’attenzione degli artisti : sono innanzitutto i temi della morte e del sesso ad acquistare il

massimo rilievo. Non si tratta, come in passato, di una rappresentazione il più veristica

possibile di queste realtà, ma di una esposizione diretta e povera di mediazioni simboliche di

eventi che suscitano sgomento, ripugnanza, se non addirittura ribrezzo ed orrore. Le

categorie del disgusto e dell’abiezione entrano prepotentemente a far parte della riflessione

estetica … Il corpo sembra così acquistare il massimo rilievo, ma l’accento non è più messo

sulla bella apparenza delle forme, ma proprio su ciò che compromette e minaccia la sua

integrità sia mediante penetrazioni, smembramenti, dissezioni, sia mediante protesi,

estensioni, interfacce. Infatti il reale che irrompe e sconvolge il mondo dell’arte non è soltanto

quello radicato nella dimensione antropologica, ma anche e soprattutto quello assai più

estraneo ed inquietante dei dispositivi tecnologici ed economici. Il luogo decisivo di questo

realismo estremo diventa così l’incontro tra essere umano e macchina, tra l’organico e

l’inorganico, tra il naturale e l’artificiale, tra la pulsione e l’elettronica, tra la persona e la

merce”. Le riflessioni di Perniola, anche se eccessivamente critiche, a mio avviso, relativamente a

quella che sono state le tendenze prevalenti dell’arte degli anni Ottanta, sulla quale incombeva la

necessità di liberarsi dalla cappa ideologica e dall’eccessivo dogmatismo delle fasi precedenti,

colgono acutamente nel segno, sia rispetto alla delineazione delle linee forza dell’arte

contemporanea, sia della necessità di dar corpo ad una nuova concezione dell’estetica, che peraltro,

come tutte le costruzioni culturali, non è formulata “ a priori”, ma è viceversa un organismo in

perenne mutazione, alla luce di uno scenario di provocazione e di realismo estremo che, come

afferma, al contrario dell’arte-vita delle neoavanguardie degli anni Sessanta, “toglie aura non solo

all’opera ed al suo autore, ma anche al critico ed all’istituzione”. L’autore sostiene poi che, per

quasi naturale dicotomia con la nozione di gusto, categoria storica della settecentesca estetica delle

origini, verrebbe naturale porre come suo corrispettivo odierno la categoria del disgusto. Ma il

disgusto, simboleggiabile dalla forma del cadavere ricostruita o fotografata, è ancora tutto sommato
“troppo impregnato di vitalità per costituire davvero una manifestazione del reale … Per cui,

in ultima analisi, esso sembra più il punto di arrivo del vitalismo novecentesco che l’apertura

di un nuovo orizzonte post-umano e post-organico”. Contro il rischio per l’arte, che è una forte

tentazione per chi ha vissuto tutto sommato in un ambiente magari prestigioso e carismatico ma

tendenzialmente asfittico rispetto ai più ampi territori dell’immaginario, di dissolversi nella moda e

nella comunicazione, “come nell’ultimo ventennio è molto spesso avvenuto, vi è una concreta

possibilità di riscatto. “ Chi coglie solo l’abiezione dell’arte estrema, senza vederne lo

splendore, resta prigioniero di un’idea ingenua del reale. Nelle opere più significative e

importanti del realismo psicotico c’è un bello estremo, per il quale occorre ripristinare un

concetto della tradizione filosofica dimenticato da più di due secoli, la “magnificenza”. È

appunto nel corso del Settecento che il posto della magnificenza è stato preso dal sublime o dal

lusso. Alla magnificenza, che aveva trovato in Aristotele e in Tommaso d’Aquino un grande

riconoscimento teorico, non resta che intraprendere un cammino attraverso i paradisi e gli

inferni delle tossicodipendenze e delle psicosi”. Nei due capitoli finali del saggio, intitolati “Il

terzo regime dell’arte” e “L’’arte e il resto”, Perniola pone sul tappeto una serie di riflessioni

estremamente interessanti che sottolineano la crisi della critica d’arte nello scenario della

contemporaneità avanzata, da me più volte messo in evidenza, ed evidenziano continuità e

divergenze tra alcune delle più avanzate teorie sul contemporaneo novecentesco quali quelle di

Benjamin, Debord e Kosuth, con le contraddizioni ed i nodi ancora irrisolti dello scenario attuale.

Così inizia il capitolo “Arte senza aura, critica senza teoria” : “Nel mondo della critica d’arte

giovanile è diffusa l’opinione che l’arte di oggi possa fare a meno la teoria : il compito del

critico d’arte dovrebbe limitarsi a una specie di cronaca e di promozione pubblicitaria degli

artisti che gli piacciono, senza più intervenire su questioni, non dico di estetica, ma nemmeno

di poetica e di storia dell’arte ….Sembra così che la critica d’arte giovanile invece di spiegare

al pubblico gli artisti di “Posthuman”, voglia mettersi in rapporto di concorrenza con loro,

recependo tuttavia dal loro messaggio non l’estremismo delle provocazioni e delle
trasgressioni, ma la piattezza, la banalità e l’”idiozia” delle opere”. Una irriverente analisi, a

mio avviso, della situazione di stallo teorico e della scarsa personalità dimostrata dalla maggioranza

della critica dell’ultima generazione. Nell’ambito di una analisi di più alto profilo sulle teorie

artistiche del Novecento, Perniola si sofferma dapprima su Walter Benjamin e sul suo saggio, da me

ampiamente citato, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. L’autore sostiene

come non si faccia totale giustizia al saggio del filosofo tedesco limitandosi a sottolineare la pur

fondamentale opposizione tra il regime dell’aura e quello della riproducibilità tecnica , ignorando

quello che egli ritiene il contributo teorico più importante, quello nel quale si determina l’esistenza

di un “terzo regime dell’arte e dell’esperienza estetica”, fenomeno dallo stesso Benjamin definito

“sex appeal dell’inorganico”. Quest’ultima è una sorta di terza dimensione..”irriducibile e

differente dalle altre due, dove si può finalmente comprendere la dinamica dell’arte

contemporanea, la quale non è né religiosa in senso tradizionale, né tecnologica nel senso

funzionale del termine, ma partecipa tanto alla patologia dell’esperienza religiosa nella forma

del feticismo, quanto all’immaginazione tecnologica nella forma dell’animazione del non

vivente” Lo stesso Benjamin, ed in questo si esalta ulteriormente la sua lucida preveggenza, aveva

intuito come l’aura, scacciata dal suo dominio rituale dalla riproducibilità tecnica, sarebbe riapparsa

in mutate forme. Ciò è avvenuto nell’ambito della contemporaneità avanzata quando si è

nuovamente materializzata nella personalità dell’artista, dapprima nella versione “intellettuale” del

Concettuale, poi in quella smaccatamente mercantilista e glamour degli ultimi anni, dove il nome di

taluni autori, che perlopiù delegano interamente a terzi la realizzazione delle loro opere, si è

tramutato in un autentico brand da commercio di lusso, cosa sottolineata da un eccellente saggio del

2006 di due studiosi italiani, Alessandro Del Lago e Serena Giordano, significativamente intitolato

“Mercanti d’Aura”. L’attenzione di Perniola, negli ultimi anni, si è rivolta all’universo della

comunicazione, elemento fondamentale nella società attuale, i cui influssi penetrano profondamente

nel corpo del sistema dell’arte , determinandone i buona misura i destini. Nel primo dei due saggi

dedicati in maniera specifica all’ argomento, ed intitolato “Contro la comunicazione” (Einaudi


2004), l’autore sottolinea come la tendenza della comunicazione massmediatica a rivolgersi

direttamente al pubblico, eliminando qualsiasi mediazione, assume le apparenze di un atto inclusivo

e democratico quando, al contrario, essa è una forzatura che omologa ogni differenza. Nel primo

capitolo del saggio Perniola illustra tre mini storie dalle quali si dipaneranno le tesi successive sulla

storia della comunicazione e sulla sua funzione attuale. La prima riguarda un seminario sulle nuove

tecnologie lungo e prolisso anche se non privo di contenuti qua e là interessanti che, una volta

registrato, diventerà parte di un corso sui new media venduto ad alto costo su dvd. La seconda la

performance di un capo partito che dopo aver provocato una categoria socio-professionale, smentirà

ripetutamente sé stesso. La terza, ispirata al mondo dell’arte, la riporto integralmente e parla di un

“tycoon dell’arte contemporanea, il quale riuscì finalmente ad aprire nel luogo più prestigioso

della capitale la sua nuova galleria permanente accompagnando l’evento con una campagna

pubblicitaria senza precedenti. Mosso dall’intento di rendere davvero popolare l’arte

contemporanea, raccolse in lussuosissime sale opere di artisti di tendenze ed orientamenti

quanto mai diversi che avevano in comune la caratteristica di non richiedere alcun intervento

interpretativo : nella sua strategia in fatti, la nuova arte doveva colpire lo spettatore per il suo

carattere diretto e realistico. I visitatori della sua galleria, il cui prezzo d’ingresso era

considerevolmente elevato, raggiungevano così il duplice risultato di divertirsi come in un

luna park e di partecipare ad un rituale elitario”. Dato accomunante di questi tre aneddoti è che

il loro obiettivo principale non era un serio discorso educativo sulla scienza, la politica e l’arte, ma

risiedeva invece in un’altra dimensione che era quella, in questo caso superficiale anche se

apparentemente proficua, della comunicazione. In un testo più recente, “Miracoli e traumi della

comunicazione” (Einaudi 2009), Perniola approfondisce ed aggiorna le sue riflessioni. In questo

caso l’autore si sofferma, come si evince dal titolo, sugli aspetti “miracolistici” e “traumatici” della

comunicazione. Le tesi dell’autore sono state senza ombra di dubbio influenzate dalle vicende degli

anni Zero, a partire dall’attentato alle Torri Gemelle. Dopo che, lungo tutto il decorso storico della

società occidentale, fatti ed eventi, anche rivoluzionari, si collocavano su di un crinale di


plausibilità e consequenzialità, in virtù di quanto li aveva preceduti e di una traiettoria che tendeva

sempre e comunque verso il futuro, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso tutto questo pare

cessare, non si sa se irreversibilmente o meno. Citando l’autore : “ Per comprendere quanto è

avvenuto dalla fine degli anni Sessanta ad oggi, le categorie tradizionali della cultura e della

politica sembrano inadeguate. Ci si è trovati di fronte ad eventi, come il Maggio francese del

1968, la Rivoluzione iraniana del 1979, la caduta del Muro di Berlino del 1989, e l’attacco alle

Torri gemelle dell’11 ottobre 2001, nei confronti dei quali tutti hanno esclamato “Impossibile,

eppure reale!”. Questi fatti hanno avuto grandissime conseguenze su tutti gli aspetti della vita

individuale e collettiva, destabilizzando radicalmente le istituzioni, i costumi sessuali, e il

modo di sentire di intere generazioni. È nato un nuovo regime di storicità, caratterizzato

dall’esperienza di fenomeni che sono vissuti ora come miracoli e ora come traumi, perché

sembrano inaccessibili a una spiegazione razionale e a una narrazione coerente”. Un altro testo

relativamente recente ed estremamente interessante in merito all’analisi del contemporaneo, è

quello del filosofo francese Yves Michaud, pubblicato in Francia nel 2003, ed in Italia nel 2007

con il titolo “L’Arte allo stato gassoso”. In questo volume, colto ed arguto al tempo stesso perché

velato da un sottile strato di ironia, Michaud compie una riflessione storica sulle categorie del bello

e sulla storia dell’estetica in generale , per giungere allo scenario della post modernità avanzata e

constatare una significativa mutazione. Riporto alcuni brevi ma significativi brani del saggio. “Oggi

il mondo è straordinariamente bello. Siamo nell’epoca del trionfo dell’estetica : l’arte è

diventata un gas, un profumo che si diffonde ovunque e sembra che tutto il mondo sia

immerso in un’atmosfera estetica. Ma la bellezza non è nelle cose, bensì nei nostri sguardi. E

allora la domanda che dobbiamo porci è : perché guardiamo tutto dal punto di vista estetico?

Perché vogliamo che tutto sia bello?”. Ed ancora : “Ma è anche l’epoca di un paradosso : la

bellezza e l’estetica vengono consumate e celebrate in un mondo privo di opere d’arte, se per

queste ultime intendiamo gli oggetti rari e preziosi avvolti dall’aura, che è una specie di

aureola, di alone magico che fa delle opere d’arte fonti di esperienze estetiche uniche e di
ordine superiore. Sembra che quando la bellezza è onnipresente, diminuiscono le opere d’arte,

e quando viene meno l’arte nel senso tradizionale, si diffonde ovunque un senso artistico che

colora tutto, un’arte allo stato gassoso che investe il mondo come una nuvola di vapore. L’arte

si è volatilizzata in etere estetico, l’etere che dai fisici e dai filosofi dopo Newton è stato

concepito come quella sostanza sottile di cui sono imbevuti i corpi”. Per rimanere in territorio

francese citerò una personalità che gode di molta visibilità essendosi posta in maniera veemente al

centro del dibattito contemporaneo. Si tratta di Jean Clair, nato nel 1940, quindi appartenente al

necleo storico della critica militante del secondo Novecento, assistente e conservatore in vari musei,

dal 1989 Conservatore Generale del Patrimonio Francese, curatore, nel 1995, della Biennale di

Venezia del Centenario. Nel suo testo più celebre, “Critica della modernità” (1994), Clair si

cimentò in un elogio della pittura ed in una critica serrata alla produzione artistica contemporanea,

colpevole di ricalcare pedestremente i moduli espressivi delle avanguardie storiche, a loro volta ree

di essersi appiattite sui modelli di messianismo politico tipici dei totalitarismi, di stampo sia fascista

che comunista. Per illustrare alcuni aspetti del pensiero attuale di Clair riporto di seguito alcuni

brani di una recente intervista di Luca Beatrice sul quotidiano “Il Giornale” : “Nell'arte occidentale

il sacro non c'è più. Manca nella storia, nella vita quotidiana, è una categoria scomparsa

dall'utopia sociale. Se uso il termine sacro penso a Roger Callois e a Giorgio Agamben e

all'etimologia dell'homo sacer, figura pericolosa e tremenda che non esiste più. In Francia

negli anni '30 c'era stato un tentativo di ristabilire l'arte sacra con Picasso e Chagall, poi nel

dopoguerra con Bacon, Newmann e Rothko, ma erano individui, non movimenti. Il problema

è il cuore della mia riflessione attuale rispetto all'arte come arte degi ultimi quarant'anni,

mentre per millenni serviva ad un progetto magico, religioso, spirituale e politico....sono molto

confuso sul termine arte contemporanea. Fino agli anni '70 si parlava di avanguardia, poi il

termine si è monetizzato per le ragioni del mercato ed oggi non vuol dire più niente, Arte

contemporanea è una griffe, un marchio che dà valore a qualcosa che non vale nulla.La

sperimentazione è nel cinema, o nella danza, nella musica, mentre le arti plastiche sono fatte
di oggetti e prodotti dal valore fiduciario troppo alto che non rientrano più nel campo del

gusto” Alcuni aspetti del pensiero di Clair sono condivisibili, specie quelli relativi a molti elementi

distorti e controversi della scena attuale. Tuttavia non si può gettare il bambino con l'acqua sporca.

Clair sembra non voler tener conto dei mutamenti introdotti nel corpo sociale, quindi nell'arte, dal

progresso tecnologico, e cancella intere stagioni dell'avanguardia novecentesca, compresa la grande

tradizione dell'astrazione geometrica. La pittura può e deve mantenere il suo ruolo, ma la

sperimentazione artistica non può esimersi dal cercare altre strade. Forte è il sospetto che Clair

abusi del suo ruolo istituzionale e della sua indubbia preparazione culturale per mantenere su di sé

l'attenzione, cosa che gli riesce perfettamente. Un contributo interessante è stato fornito nel 2009

da Adriana Polveroni, giornalista del gruppo L’Espresso ed esperta di Museologia ed Arte

Ambientale, con un saggio dal titolo efficace ed esemplificativo come “Lo Sboom. Il decennio

dell’arte pazza tra bolla finanziaria e flop concettuale”. Questo agile volume è stato pubblicato in

una collana diretta da Pierluigi Sacco, docente di Economia della Cultura presso lo IUAV di

Venezia, autore di testi ed interviste su riviste quali “Flash Art” ed “Exibart”, senz’altro un acuto

osservatore delle dinamiche dell’arte e della cultura in generale in relazione ai contesti sociali,

politici ed economici. Il senso ultimo del lavoro della Polveroni è dato dalla sintesi prodotta

dall’autrice nella retro copertina, che riporto integralmente : “Fiato corto, prospettiva limitata,

alluvione di numeri, che fossero costi, pubblico, mostre, biennali, notti bianche e notti nei

musei. Negli ultimi anni l’arte contemporanea ha intrapreso una corsa che l’ha resa frenetica

ed enfatica, riducendola a un appuntamento turistico o a un diversivo nell’agenda dello

shopping. Richiamando però sempre più pubblico, stregato da artisti super quotati e da musei

che somigliavano a macchine delle meraviglie. Cosa ci fosse poi dentro importava di meno.

Decisivo era lo stupore per il fuori. Così il mondo dell’arte è diventato una grande bolla , un

magnifico soufflé farcito soprattutto sopratutto di banconote, il cui fruscio ha anestetizzato lo

sguardo, rendendoci tutti più indulgenti. Poi, a un certo punto, c’è stato lo sboom. I profitti di

borsa, di cui si alimenta l’arte dei grandi numeri, sono calati, i musei hanno cominciato a
chiudere, altri non aprono. Le fiere hanno iniziato a vendere meno, i collezionisti hanno

rinunciato a un po’ di opere. Damien Hirst e Jeff Koons hanno smesso di essere maitre à

penser. Eppure la crisi non è il male peggiore, Più profondo è un altro buco che ha messo in

luce qualcosa che non si voleva vedere, nascosto com’era anche dallo scintillio dell’arte.

Dell’arte che imita la moda, che ripiega nel grande lusso, che prende a prestito la vita e fa

finta di spensierarsi. Si, la fine dei soldi ha rivelato la mancanza del senso. La rinuncia ad

esercitare un pensiero critico rispetto al mondo in cui si muove. Il quale, però, ha ancora un

fortissimo bisogno dell’arte, se non altro per quella sua inalienabile capacità di rinnovarsi, di

produrre nuovi linguaggi. Qualcosa che unisce potere simbolico e valore materiale. Cielo e

terra. Che è all’origine di molti accadimenti del mondo. E che lascia qualche speranza per il

futuro. “. In anni recenti un contributo interessante al dibattito sulla scena contemporanea è stato

fornito dal saggio, edito nel 2006, di Massimo Melotti, responsabile della comunicazione per il

Castello di Rivoli e mio collega presso l’Accademia Albertina di Torino, intitolato “L’età della

finzione”. Nel volume Melotti, forte dell’esperienza maturata presso quell’istituzione culturale, che

lo ha posto a stretto contatto con curatori ed artisti della scena internazionale, in particolari con gli

unici tre italiani ammessi a pieno titolo nell’immenso barnum del sistema globalizzato, Beecroft,

Cattelan e Vezzoli, autori che, non a caso, centrano la loro poetica sull’ambiguo rapporto tra realtà e

finzione, e di cui Melotti nel testo analizza con attenzione il lavoro, compie una disamina di vari

aspetti di questa nostra controversa contemporaneità. In primis citando il lavoro di filosofi e

sociologi attenti a questi temi, come Baudrillard, Perniola, il teorico dei “non –luoghi” Marc Augè,

poi affrontando ambiti della comunicazione contemporanea legati alla fruizione televisiva, distanti

ormai mille miglia, se ci riferiamo all’Italia, dalle modalità forse troppo castigate, ma spesso dense

di elementi educativi, tipiche della televisione in bianco e nero, come la fiction, quella effettiva o

quella legata all’enfatizzazione di crimini ed eventi luttuosi, così come la musica ed al cinema. La

condivisibile sintesi di fondo è “ Ci fu un tempo in cui il reale si distingueva chiaramente dalla

finzione, in cui ci si poteva fare paura raccontandosi storie ma sapendo che erano inventate, in
cui si andava in luoghi specializzati e ben delineati (parchi di divertimenti, fiere, teatri,

cinema) in cui la finzione copiava il reale. Ai nostri giorni, insensibilmente, si sta producendo

l’inverso : il reale copia la finzione”. Un contributo importante su di un tema centrale come gli

effetti della globalizzazione nel sistema artistico, da me più volte segnalato su queste pagine, è

quello fornito dal critico milanese Marco Meneguzzo, nato nel 1954, esponente di rilevo di quella

generazione di mezzo immediatamente precedente la mia, tramite un saggio piuttosto recente

pubblicato dall'editore Johan & Levi, dal titolo “Breve storia della globalizzazione in arte (e delle

sue conseguenze)”. L'impostazione del saggio, approfondito e scorrevole alla lettura, è

squisitamente pragmatica. Meneguzzo non si sofferma, dichiarandolo apertamente, sulle questioni

di merito delle poetiche artistiche, ma sul metodo delle implicazioni che la globalizzazione

determina nel sistema dell'arte, ed in particolare nel mercato. Le tesi di fondo del volume

sottolineano che, con una genesi rinvenibile negli anni Ottanta, proseguita lungo il decennio

successivo dopo la caduta del muro di Berlino e l'avvento, per citare Debord, del sistema dello

“spettacolo integrato” dove il capitalismo avanzato appare l'unica possibilità vincente, a partire dai

primi anni Zero il sistema dell'arte occidentale deve confrontarsi con il protagonismo e

l'aggressività di nuovi soggetti in grado, con la forza dei capitali messi in gioco, di imporre regole

nuove, congeniali ai loro mercati. Lo stile post moderno, con la sua relativa accessibilità,

quantomeno in termini squisitamente formali, ha contribuito all'acquisizione di un pubblico sempre

più vasto, inducendo, specie nei paesi emergenti quali Cina, Russia ed India, il desiderio dell'opera

come status symbol, merce di lusso ineguagliabile, di pari con la volontà di ottenere riconoscimenti

in ambito occidentale. Fino alla scena attuale dove “l'euforia di quegli anni si è presto smorzata

nell'attuale clima di incertezza causato dallo sfaldamento del vecchio assetto e

dall'esautorazione delle sue componenti, quella intellettuale (il critico, che legittimava le

pratiche artistiche), e quella istituzionale (il museo, che le consacrava per la posterità). Oggi a

decretare il successo è lo spirito speculativo, in tutti i sensi, dei nuovi protagonisti che, con

l'abilità di chi manovra grossi capitali, fanno il bello ed il cattivo tempo nel circuito chiuso
galleria-collezionista-casa d'arte-museo. Perfino l'artista, un tempo motore del sistema,

rischia di essere ridotto a mero ingranaggio. Cosciente del sistema in cui opera, ha sapito

assecondare il depauperamento indotto dalla globalizzazione : se in passato mirava

all'innovazione, oggi aderisce a standard linguistici immediatamente riconoscibili in tutto il

mondo”. Ciò determina, come da me sottolineato in precedenza, quell'appiattimento formale che

genera un grado zero della fruizione, tale per cui un viaggiatore peregrinante per fiere e biennali del

mondo intero farebbe fatica a distinguere le diversità sostanziali di quello che appare ormai come

un unico ed ininterrotto evento, cosa facilmente deducibile dalla visione dei puntuali reportage delle

pubblicazioni on line, Artribune in primo luogo, che permettono un aggiornamento informativo al

professionista dall'occhio allenato, senza che questi debba muoversi dalla sua poltrona, per

affrontare costosi viaggi nell'universo globalizzato. Nel testo Meneguzzo si sofferma sul ruolo e la

funzione delle due potenze asiatiche emergenti, Cina ed India. Nel primo caso, quello cinese,

l'autore sfata certe impressioni che, peraltro comprensibilmente, sono divenute retaggio comune. La

Cina, anche da un punto di vista artistico, si presenta come realtà autarchica ed estremamente

pragmatica. Pur avendo accettato i modelli occidentali, relativamente alla struttura del sistema arte,

tende non già a farsi accettare ma ad imporre, per quanto questo processo sia agli inizi, i suoi

parametri. Il modello di riferimento è costituito dagli Stati Uniti, paese con cui la Cina intreccia

stretti rapporti economici. L'ambizione è quella di sostituire gli USA come punto di riferimento del

mercato mondiale. Entrambi i paesi sono gli unici a detenere una potenza economica tale da

concedergli il lusso dell' autoreferenzialità. Scrive Meneguzzo : “Questo è particolarmente

evidente per il sistema dell'arte : non solo il mercato interno degli Stati Uniti è sufficiente a

decretare il successo di un artista, effetto impossibile per qualsiasi altro sistema nazionale,

perfino per quello inglese, ma al successo di un artista sul mercato statunitense solitamente

segue il successo internazionale.....Ora, il sistema cinese dell'arte non ha certo quella portata

economica né una struttura così efficace , fatta di gratificazioni sociali e di sconti economici

per chiunque diventi collezionista , ma sicuramente ne ha la potenzialità”. Questo orgoglio


cinese ho avuto modo di constatarlo con la mia esperienza di docente dell'Accademia Albertina. Le

Accademia italiane conoscono attualmente una folta rappresentanza di iscritti cinese, desiderosi di

esperienze all'interno del sistema occidentale, in particolare, data la sua tradizione, quello italiano.

Quanto ho notato, non per esperienza di insegnamento in quanto i miei corsi teorici vedono nella

lingua una insormontabile barriera, sulla base anche della testimonianza dei colleghi, è la tendenza

dei giovani cinesi a fare gruppo e, salvo rari casi, a non integrarsi, come se il loro unico scopo,

probabilmente cosi è, fosse quello di compiere un utile tirocinio da spendere unicamente nel paese

di origine. Nel caso dell'India siamo invece in presenza di una scena dalle grandi potenzialità future,

al momento non ancora pienamente sviluppate, vuoi per una diversa entità delle risorse

economiche, per quanto importanti, rispetto alla Cina, che per una condizione di trapasso da una

situazione in parte arcaica ad una di sviluppo industriale avanzato meno traumatica rispetto all'altro

colosso asiatico. Questo per la continuità istituzionale ereditata dal dominio britannico, che aveva

già messo in contatto l'India con il sistema artistico occidentale, ma anche per la spiritualità

multietnica indiana, così diversa dal pragmatismo cinese, tale da determinare una specificità

artistica meno facilmente assimilabile ai canoni occidentali, fattore ulteriormente accentuato da una

rete di istituzioni pubbliche e private ancora embrionale se rapportata alla vastità del paese. In

chiusura del libro Meneguzzo si sofferma sui possibili sviluppi futuri, ipotizzando due soluzioni, la

prima “soffice”, la seconda “apocalittica”. Fermo restando il tramonto della tradizione

dell'avanguardia modernista, con l'attenzione concentrata sulla funzione linguistica dell'arte, ed il

permanere della prevalenza della finanza e del mercato, nell'ipotesi più favorevole si prevede

l'allargamento dell'attuale monopolio sulle scelte dell'arte mondiale ad una cartello più variegato di

trust, tale da permettere un maggiore pluralismo di proposte ed una più concreta incidenza del ruolo

critico -intellettuale, oggi svilito, che, pur ponendosi sempre al servizio di moderni “principi”,

avrebbe, per effetto della concorrenza, maggiori possibilità di essere ascoltato. Lo scenario

apocalittico prevede viceversa un ulteriore irrigidimento dell'attuale monopolio, la totale

mercificazione del prodotto artistico, divenuto del tutto intercambiabile, ed uno scenario in cui l'arte
assume le vesti di un immenso parco divertimenti. Speriamo che tale ipotesi non si avveri. Un altro

contributo di estremo interesse al dibattito critico e stato quello fornito da Federico Vercellone,

docente di Estetica all'Università di Torino con il saggio “Dopo la morte dell'arte”, pubblicato nel

2013 dall' editore il Mulino. La tesi di fondo sviluppata dall'autore è verificare se, secondo la tesi

propugnata per primo da Hegel, l'arte è davvero “morta” non essendo più, almeno a partire dal

Settecento, la custode della verità, secondo i precetti dell'arte classica greca, che vedeva nella

scultura l'ideale della perfezione. Il declinare graduale dell'orizzonte metafisico fa sì che l'arte

consumi il suo distacco dal mondo. “Su questa via inoltre l'arte si separa dal mondo che l'ha

generata e inizia a condurre una vita autonoma che viene osservata da una filosofia

particolare, per appunto l'estetica intesa, a partire dai romantici e da Hegel, come filosofia

dell'arte. In quanto l'arte non può testimoniare in modo soddisfacente la propria verità nel

mondo, ecco che essa si ritrae in una sfera separata dell'esistenza nella quale può esercitare la

sua ormai limitata potestà. L'antica potenza mitica dell'arte, che si riverberava nelle sue

immagini, viene così mortificata e svilita sotto le forme museali dell'apparenza estetica”.

L'Ottocento, dove si afferma il concetto di morte dell'arte, tramite il nichilismo e, per antitesi, il

Romanticismo che vi si oppone, è il secolo dell'ascesa al potere della borghesia, che instaura un

nuovo ordine, che è anche disciplinare, in quanto la struttura delle scuole, delle caserme, dei collegi,

delle fabbriche, tende sempre più ad assomigliarsi, come sottolineato dal Michel Foucault nel suo

celebre saggio degli anni Settanta “Sorvegliare e punire”, dove le professioni si specializzano e

parcellizzano, e l'intera società si muove secondo schemi rigorosi e razionali, dove la devianza e

l'eccentricità sono viste con sospetto. Non è più il mitico tempo degli eroi in cui vigeva una

armonica “condizione universale del mondo”. “Si palesano così le motivazioni per cui Hegel

enunzia la tesi della “fine dell'arte”. L'esperienza estetica, che non trova un saldo

riconoscimento nel mondo pubblico, nell'ethos, assume sempre di più l'aspetto dello shock.

Per un verso abbiamo a che fare con un'arte solo estetica, racchiusa nelle proprie istituzioni

deputate (il museo, la sala da concerto ecc.), mentre, per altro verso, proprio la finzione si
definisce come il principio onnipotente che istituisce la realtà. “ L'arte, non potendo farsi corpo

con il mondo ed incidere su questo, riflette sulla propria specificità e sulle proprie regole. “L'esito

di questo processo è l'”arte per l'arte”, che costituisce in fondo il trionfo kantiano di un

piacere senza interesse, estraneo tanto alla sfera dell'eros quanto a quella dell'utile. É un'arte

che non cerca più conferma ed approvazione nel gusto quale versus communis, anch'esso

contraddittoriamente centrale nel quadro della riflessione di Kant. Essa non va alla ricerca di

una condivisione universale, ma trova le proprie conferme e la propria legittimazione entro di

sé, in una sfera puramente estetica”. É un'arte, secondo la visione romantica, eminentemente

soggettiva, che si distacca dal mondo e rinchiude in sè, nell' agire e nella tecnica di esecuzione, la

sua ragion d'essere. Non è più possibile un rapporto diretto con Dio, come nell'antichità classica ed

ancora nel Medioevo cristiano. Per questo motivo Hegel critica l'arte devozionale del

Romanticismo, in particolare quella dei Nazareni, perchè essi si illudono di poter raggiungere

nuovamente una dimensione spirituale, quando il risultano è, invece, nulla più che un raffinato

estetismo. L'arte, così come venne intesa per lunghi secoli, è ormai ricordo e nostalgia di un passato

a cui si guarda con commozione e con affetto, come sottolineato da Nietzsche con il termine

“tramonto dell'arte”. Ma questa visione simbolista e decadente dell'arte è destinata ad avere i giorni

contati. Il riscatto può venire proprio dall'alleanza con quell'universo tecnologico che ne aveva

decretato, apparentemente, la morte. “Ma è il modo in cui la tecnica viene intesa in questo

quadro che è notevolmente problematico. Si è proposta con insistenza un'idea di tecnica che fa

capo a una tradizione notevolmente variegata, che va da Max Weber a Martin Heidegger.

Quantomeno a questo proposito , questa tradizione esprime tuttavia una valutazione unitaria.

Si tratta cioè del presupposto per cui la tecnica è un fattore del moderno disincanto del

mondo, il volto maturo di una ragione solo strumentale”. Ma già le avanguardie storiche,

Futurismo e Dada in primo luogo, si scrollano di dosso, pur essendone, soprattutto il primo,

discendenti, le remore attinenti l'autoreferenzialità romantica con il suo distacco e la diffidenza

verso le cose del mondo, la tecnica in primo luogo. L'alleanza con la tecnologia può creare, secondo
Vercellone, la possibilità di delineare nuovi e stimolanti scenari, La morte dell'arte va intesa come

“fine della storia dell'arte”. Per cui “L'immagine è ora in grado di riacquistare un'autonomia

rispetto al proprio supporto, e dunque di esercitare una rinnovata potenza o, se vogliamo, una

rinnovata influenza nel mondo. Tutto questo coincide non casualmente, come ha sottolineato

Nicolas Borriaud, con una odierna profonda modificazione della consapevolezza di sé dell'arte

contemporanea, la quale tende a scegliere un cammino che abbandona lo spazio della

rappresentazione per insinuarsi nell'esistenza e produrre “forme di vita”. Da questo punto di

vista l'idea di morte dell'arte sussiste e cade insieme ai presupposti idealistici che l'hanno

prodotta. Un'inedita alleanza tra l'arte e la tecnica che ci conduca al di là dell'idea del

disincanto del mondo, e forse verso un suo meditato e tecnologico “reincanto”, può dunque

essere d'aiuto a riflettere su di un'arte che voglia riprendere il proprio ruolo nella coscienza

pubblica e su di una tecnica che voglia essere meno omologante e anonima e più capace di

aprirsi alla necessità di definire luoghi non spaesati ed anonimi, come gli ansiosi “nonluoghi”

di Marc Augè....Dall'immagine digitale, alle nuove possibilità dischiuse dal rendering

dell'immagine, al lavoro di artisti come Olafur Eliasson è sempre più evidente che la

tecnologia si propone, quantomeno in alcuni suoi momenti particolarmente significativi, come

motivo di nuovo “reincantamento del mondo” : verrebbe da dire che essa prospetti una nuova

realtà e una rinnovata appartenenza al mondo. Sembrano in altri termini aprirsi le possibilità

di una tecnologia più inventiva, più accorta nei confronti dei luoghi e della natura, meno

devastante. Una vera e propria tecnica artistica che sia anche una tecnica della natura”.

Quindi, alla caduta dell'orizzonte metafisico, ed al venir meno, per effetto del progresso tecnico e

del pensiero filosofico, del rapporto tra arte e natura, si sostituisce un nuovo scenario con cui

confrontarsi, una nuova mitologia figlia della dimensione scientifica e tecnologica con cui l'uomo,

quindi l'artista, può e deve instaurare un dialogo consapevole e critico. Una mitologia inedita la cui

impronta non va fatta risalire al divino, ma alla laicità del quotidiano.Contributi importanti sono

stati di recente forniti da Tiziana Andina, docente di Filosofia Teoretica presso l'Università di
Torino, che indirizza la sua specializzazione verso il territorio dell'arte. In particolare la Andina

indaga, con competenza e colpletezza di argomenti lo specifico della “filosofia dell'arte”, ambito di

pensiero che ho trattato in maniera trasversale in questo saggio, non dedicandogli uno specifico

capitolo ma fagendolo interagire con alcuni degli argomenti trattati. Anche se si tende spesso a far

coincidere estetica e filosofia dell'arte, sin dal primo Ottocento alcuni autori sottolineano l'esistenza

di differenze tra le due discipline, in particolare i fratelli Schlegel, Schelling, Hegel e Schopenhauer,

mentre nel Novecento Martin Heidegger vedrà nell'arte l'aspetto della filosofia che più è in grado di

avvicinarsi alla comprensione dell'Essere. In un mondo dominato dalla tecnica l'arte, nell'accezione

etimologica della technè, è quanto più gli si avvicina, ma è anche da questa diversa come

fondamento e finalità, quindi può costituire, per l'umanità, un'ancora di salvezza. A tutt'oggi è ben

vivo e presente il dibattito se l'estetica sia coincidente con la filosofia dell'arte, dovendo la prima

studiare il Bello in funzione delle reazioni dell'apparato sensoriale, insufficienti a spiegare certe

forme d'arte tipiche delle avanguardie novecentesche. Scrive Tiziana Andina nella prefazione del

saggio “Filosofie dell'arte. Da Hegel a Danto” : “Gli ambiti speciali della filosofia, si tratti della

filosofia della mente, del linguaggio, della musica, della scienza, della storia, del diritto oppure

della religione ,generalmente si distinguono per essere contrassegnati da una identità

disciplinare piuttosto netta. In tutti i casi menzionati la filosofia ha un oggetto preciso e

circostanziato : la storia, la scienza, la musica, il diritto, il linguaggio oppure, ancora, noi

stessi in quanto esseri dotati di mente e di pensiero. La filosofia dell'arte parrebbe non fare

eccezione. Se domandassimo ad una persona mediamente colta, ma non particolarmente

esperta di filosofia, una sorta di filosofo ingenuo dotato di un robusto senso comune, cosa

pensa di trovare in un libro di filosofia dell'arte, prevedibilmente risponderà che si aspetta di

leggere una riflessione, in chiave saggistica, il cui oggetto sono l'arte e i suoi prodotti.

Piuttosto semplice, in fondo. Alla filosofia dell'arte sarà dunque riservato il compito di

rispondere a domande del tipo : “Che cosa è l'arte?”, “Che cos'è un'opera d'arte”, “Che cos'è

la bellezza?”, “Che differenza passa tra un oggetto comune ed un'opera d'arte?”, e così via”
Un contributo originale nel dibattito sul sistema artistico contemporaneo è quello recentemente

forenito da Roberto Gramiccia con il saggio “Slot Art Machine.Il grande business dell'arte

contemporanea”. La professione di Gramiccia, scrittore, critico d'arte e giornalista, è quella del

medico.Interessante la tesi da lui sviluppata, indubbiamente debitrice della sua formazione

professionale : “Gli albori dell'umanità conobbero un rapporto strettissimo tra magia,

superstizione, religione, medicina ed arte perchè la natura archetipica di queste attività-

pensiero rispondeva ad un'unica ragione : quella di dare all'uomo la possibilità di sostenere il

confronto con una natura terribile ed ostile e con una prospettiva inevitabile di sofferenza, di

dolore e di morte....l'arte contemporanea, nel suo essere vivisezionata nel frullatore della

comunicazione, della società dello spettacolo e del profitto, ha perso ogini legame con questa

complessità, mentre il popolo dei suoi fruitori ha subito una regressione culturale ed

antropologica forse senza precedenti. La crisi dell'arte è un aspetto di una crisi più generale

che tutto coinvolge : la sfera sociale, quella politica, quella etica, quella estetica, quella

culturale. Le classi egemoni ed i poteri forti che ne decidono le strategie credono, nella loro

confusa miopia, che il mondo possa fare a meno dell'intelligenza collettiva...per questo

tendono a sostituire alla cultura la comunicazione, all'arte internet e la televisione, alla veglia

il sonno della ragione, al sistema dell'arte una slot machine”. La posizione di Gramiccia, di cui

condivido molti aspetti relativi alla polemica sulla spettacolarizzazione del mondo dell'arte, del

ruolo meramente notarile ricoperto dalla critica e, soprattutto, dell'estrema supinità a tutto ciò della

scena italiana, da ormai un quarto di secolo ultima ruota del carro del sistema, e del tutto incapace

di offrire una linea di successione credibile ad Arte Povera e Transavanguardia, è quella di un

intellettuale orgogliosamente neo comunista. Pienamente d'accordo con lui sulla rivalutazione del

pensiero di Marx, ad oggi di estrema utilità nella lettura delle contraddizioni contemporanee, meno

sulla concreta possibilità che sia una versione riveduta e correttà delle società comuniste a fornire

una via di uscita agli eccessi del neo liberismo ed allo strapotere della finanza. Dopo le mie

esperienze giovanili nel movimento studentesco credo, fin dai primi anni Ottanta, che l'unica
possibilità per raggiungere un punto di equilibrio che permetta di intravedere nuovamente una

speranza di futuro, sia nella pratica di un “riformismo radicale” che, non immemore di esperienze

poloitiche precedenti, sia però conscio dell'impossibilità di riproporne le modalità. Citerò ancora dal

saggio di Gramiccia, una fulminante descrizione di una installazione di Wim Delvoye, artista belga

di cui ho apprezzato, specie negli anni Ottanta e Novanta, l'ironica vena oggettuale, sintomatica di

un certo clima estetico contemporaneo : “La “Cloaca turbo” di Wim Delvoye che troneggia al

Museo Pecci.....è, nel suo genere, una installazione veramente sensazionale. La costosa

macchina, realizzata da una fabbrica superspecializzata, è in grado di produrre in vitro un

ciclo digestivo completo che va dall'introduzione di cibo, alla digestione, all'inevitabile

produzione di cacca infiltrata da milioni di colibacilli veri...naturalmente non mancherà chi si

dilungherà sulla destrutturante ironia dell'autore e sul valore metaforico dell'operazione. Chi

scomoderà a vanvera la “Merda d'artista” di Piero Manzoni....Io penso....che questa mostra

sia a suo modo istruttiva perchè dimostra i possibili approdi di certe nuove e radicali ricerche

del Contemporaneo, costrette a ricorrere al sensazionalismo più ermetico e ributtante pur di

sfondare le barriere del circuito dei media e conquistare il mercato. Wim Delvoye, più che un

artista di cattivo gusto, è un funzionario del sistema dell'arte che ha chiara un'idea : usando

gli strumenti della tecnologia per competere con la televisione, con la pubblicità, con il

sovrappiù della comunicazione c'è bisogno di esagerare almeno fino al punto di suscitare la

nausea”. Attenti osservatori dello scenario della contemporaneità avanzata, puntualmente posto in

relazione con la tradizione storica, Alessandro Dal Lago e Serena Giordano forniscono un ulteriore,

importante contributo con il volume “L'artista e il potere. Episodi di una relazione equivoca”. Le

loro riflessioni si sposano pefettamente all'analisi di questa nostra frenetica e contraddittoria

dimensione storica. Tesi di fondo : “Il leader politico che scrive poesie e romanzi. L'artista che

crede di cambiare il corso del mondo con la sua opera. I potenti che commissionano il proprio

mausoleo al celebre scultore, sfidando la malasorte ed il ridicolo. Un team di architetti e

scultori che progetta la rifondazione di una città terremotata come un museo en plen air..Se il
potere è attratto irresistibilmente dall'estetica, l'arte sembra esprimere a sua volta una vera e

propria volontà di potenza. Una relazione che è caratterizzata, oggi più che mai, da una

ambiguità profonda, da cui sembra impossibile prescindere. E sullo sfondo il mercato, che

tutto fagocita, anche le forme espressive più antagoniste, come nel caso della street art e di

Bansky”. Ed ancora ; “Con l'eccezione delle dittature nazista e stalinista, gli stati

novecenteschi tendono a ritirarsi dal controllo diretto dell'attività economica, per non parlare

della cultura....quindi, nel campo dell'arte, lo stato è una forza declinante, mentre altri poteri,

economici, culturali, mediali hanno oggi la capacità di definire i contenuti, i confini ed i valori

dell'arte...Insomma il potere è ubiquo, fluido e non riconducibile ad una sola istanza....il

potere non è mai a senso unico e quindi comporta delle resistenze implicite, tacite, sospese

oppure, al contrario, manifeste, rumorose, se non violente.....E quindi il conflitto è una forma

“politica” che ogni relazione tra gli attori assume inevitabilmente, anche in campo culturale

ed artistico. Così, le avanguardie che inaugurano nel primo Novecento l'arte contemporanea

rappresentano una fase in cui gli artisti vogliono “andare al potere”, come avrebbe poi

recitato il celebre slogan del '68 parigino, “l'immaginazione al potere”, o comunque porsi alla

guida della società e della cultura. La storia dei rapporti tra artisti e potere potrebbe essere

espressa come l'alternanza continua tra fasi di subordinazione e resistenza e fasi di

avanguardismo e volontà di potenza.”. Michele Dantini, professore di Storia dell'Arte

Contemporanea presso l'Università del Piemonte Orientale, con il suo “Geopolitiche dell'arte. Arte e

critica d'arte italiana nel contesto internationale, dalle neoavanguardie ad oggi”, getta il suo sguardo

sugli sviluppi dell'arte e della critica italiane dal secondo dopoguerra ad oggi, rinvenendo

soprattutto criticità, sulle quali si sofferma con obiettività ma senza indulgenze. Il problema

sollevato da Dantini, pure nei confronti degli ultimi movimenti italiani riconosciuti

internazionalmente, Arte Povera e Transavanguardia, per quanto avviene dopo è opinione diffusa, è

che anche questi risentano, posizione piuttosto rara da rinvenire, del clima di globalizzazione

culturale circolante gia dagli anni Sessanta, e di una sostanziale svendita della tradizione culturale
italiani ai modelli internazionali diffusi dall'egemone, già da quella data, mondo anglosassone.

Scrive Dantini : “In Italia non mancano esempi di inedità vivacità critica e storiografica e si

vanno producendo innovazioni interpretative o di metodo, ad esempio con la riconsiderazione

dei rapporti tra storia delle immagini e storia dei contesti, la discussione critica della

tradizione, il nuovo credito concesso a critici già collocati a margine. Sinora non esiste però

una narrazione articolata e complessa della storia dell'arte postbellica che riesca ad

intrecciare storia delle immagini, storia della critica e storia sociale ; acutezza filologica e

radicalità interrogativa ; e torni ad avvicinare opere e famiglie di opere che ideologie e

vicissitudini collezionistiche e di mercato hanno diviso.....In decenni in cui l'agenda

postcoloniale ha modellato pratiche interpretative e strategie di sovranità storiografica, il

Centro scrive tuttora di una Periferia, quella italiana, che non riesce ad elaborare in modo

riflessivo il trauma della propria minoritarietà linguistica né a trasporlo in iniziativa culturale

di rilievo sovranazionale. É inevitabile che da parte di artisti, critici, curatori “early carrer” vi

sia difficoltà a rintracciare un'effettiva genealogia professionale da cui muovere ; a acquisire

precoce intimità con un agenda nativa di temi e problemi”. Ed ancora, per meglio chiarire, “La

storia postbellica dell'arte italiana è profondamente segnata dagli equilibri geopolitici e

culturali della guerra fredda, e da quello che potremmo definire il marketing delle identità

locali. Come confrontarsi con una tradizione illustre, la propria, se si appartiene ad una

nazione che si scopre bruscamente periferica? E come ripristinare dialoghi cosmopoliti dopo

decenni di isolamento? La mutazione si compie tra gli anni Cinquanta e Sessanta del

Novecento : se un artista come Fontana rimane fedele ad un mondo la cui capitale è Parigi, e il

cui faro indiscusso è Picasso, Manzoni apre a geografie artistiche transatlantiche. Intende la

citazione non come mera ripetizione o gioco culturale, ma come pratica distorsiva, satitica e

fantastica. “Plagio” e “furto” iconografico, ai suoi occhi, sono modi attraverso cui la Periferia

può tornare a parlare di sé e modificare gli svantaggiosi rapporti che la legano al Centro

egemonico”. L'acuto e sottilmente provocatorio Mario Perniola propone con “L'avventura


situazionista. Storia dell'ultima avanguardia del XX secolo”, una rilettura aggiornata del movimento

di cui è, in Italia, il più accreditato interprete, quel Situazionismo che fu il primo, in tempi non

sospetti, quelli del benessere derivante dal “boom” economico, a denunciare la deriva commerciale

e merceologica dell'industria artistica e culturale. Nella premessa al volume, con arguzia Perniola

pone in essere un parallelismo tra la prassi situazionista e l'avvento, in Italia, di un raggruppamento

politico come il Movimento 5 Stelle. Vale la pena riprenderlo : “La tattica dell'Internazionale

Situazionista ha fatto scuola. Non si capisce bene cos'è il Movimento 5 Stelle, che in Italia è

diventato in brevissimo tempo la terza forza politica, se si ignora quel che più di

cinquant'anni fa un piccolissimo gruppo di intellettuali straccioni ha proposto e sostenuto : la

rinuncia a far parte della società dello spettacolo, il rifiuto di compromettersi e di essere

inglobati nei poteri esistenti, l'ambizione di farsi interpreti dei bisogni e dei desideri della

maggior parte della popolazione, l'iperfuturismo tecnologico, la condanna del centralismo

burocratico che attraverso un piccolo numero di dirigenti impone una rigida disciplina, di

partito, la democrazia diretta che implica la revocabilità in qualsiasi momento dei

rappresentanti....A differenza dell'Internazionale Situazionista, manca invece nel Movimento

5 Stelle l'istanza etico-estetica verso il miglioramento incessante di sé stessi, che attribuisce la

massima importanza non a ciò che uno è, ma a ciò che dovrebbe essere. In altre parole,

bisogna essere degni di ciò che si professa, per poter indignarsi. Nei Situazionisti l'accento è

sempre posto sulle qualità, sulle capacità, sulle abilità del singolo : ciò deriva sia dagli studi

classici e dalla familiarità con gli antichi e con il classicismo francese (specie in Debord), sia

dall'influenza della Riforma Protestante(specie in Vaneigem), sia infine nella tradizione

rivoluzionaria anarchica e dall'esistenzialismo. Infine è determinante la componente artistica,

che per definizione è votata alla ricerca dell'eccellenza. Nulla di questo si trova nel Movimento

5 Stelle, che è schiacciato sulla mera fattualità di ciò che i suoi seguaci sono”.
La pratica curatoriale contemporanea nell’attualità del dibattito
critico

Come già accennato in precedenza lo scenario dell’arte globalizzata è caratterizzato dalla presenza

pervasiva di curatori internazionali che si spartiscono la torta delle grandi rassegne, alla stregua

delle archistar, diventando in taluni casi dei “brand” al pari degli artisti più contesi, in un

meccanismo che, al di la della qualità intellettuale dei soggetti, rende sempre più simile l’universo

artistico a quello della moda. La differenza con l’ Italia, a parità di condizioni artistiche generali, è

che la maggior parte di queste figure emergono, all’estero, in un sistema strutturato ed in buona

parte meritocratico, mentre in Italia è quasi sempre vigente il metodo della cooptazione, l’essere

gradito a quegli ambienti che hanno ritenuto utile per loro bloccare il nostro sistema artistico in una

perenne condizione di stallo. Inoltre mentre solo pochi tra gli italiani, ne accennerò dopo, sono stati

inseriti tra gli eletti di questa tutto sommato autoreferenziale cerchia, la spiccata esterofilia del

nostro paese ospita ed elargisce incarichi molto frequentemente, spesso al di là di qualsiasi

valutazione in merito all’opportunità ed all’effettivo ritorno concreto, e non solo di immagine,. a chi

proviene da oltralpe, a scapito di molti operatori italiani che avrebbero argomenti magari diversi

ma non meno validi da proporre. Una delle personalità più interessanti tra questi globetrotter della

critica è certamente quella dello svizzero Hans-Ulrich Obrist, da taluni definito “il nomade del

mondo dell’arte”. L’attività di Obrist , ufficialmente co-curatore della londinese Serpentine, è

effettivamente caratterizzata da una costante itineranza e da una ampia pubblicistica, costituita da


interviste con i principali protagonisti della scena internazionale. Domenico Scudero nel suo

“Manuale del Curator”, definisce così figure come quelle di Obrist : “ Il sistema dell’arte

contemporanea ha individuato sul finire degli anni ottanta la figura critica che maggiormente

poteva interessare e funzionare all’interno del complesso mondo dell’arte : si tratta di una

figura manageriale che vive la sua esposizione critica nella plateale selezione delle opere e

degli autori”. Caratteristica di Obrist, così come di molti tra i curatori attivi in una dimensione

internazionale, è quella di mostrarsi con intelligenza adagiati alle scelte del sistema senza però

apparirne succubi, come avviene per la gran parte della critica italiana, tramite un atteggiamento

intellettualmente smaliziato. Come scrive Scudero : “Il selezionatore manageriale condivide

un’estetica ma non impone sistemi di giudizio e di valore. Egli lascia che l’arte viva la sua

possibilità mondana senza darne attribuzione di qualità critica, facendo in modo che il

messaggio intrinseco dell’opera-mostra sia in qualche modo leggibile dall’osservatore per

l’evidenza di una scelta, Ne consegue che la cura manageriale ha assoluta necessità di

separare nettamente il lavoro convalidato da una scelta, che è il principio base della critica

manageriale, da quello estraneo … Diversamente dalla cura empirica della processualità in

questo caso il curatore non giunge ad omologare modelli e sistemi formali ma è più interessato

a realizzare attraverso se stesso, e la sua specifica esperienza emotiva, un laborioso percorso

esistenziale, il cui valore deve essere comprovato, e lo è soltanto nella sua visione mondana

all’interno delle istituzioni”. Questo è il pregio ed il limite di questi curatori, a cui va riconosciuta

comunque una solida preparazione spesso di matrice filosofica, accompagnare le scelte del sistema

nella sua invasività globale, fatta di biennali, fiere, eventi spettacolo, un eterno girotondo dove le

cose scorrono ripetendosi senza scatti in avanti, fedeli a quella dimensione di eterno presente che

caratterizza la nostra dimensione esistenziale, con un atteggiamento che potrebbe essere definito

una sorta di situazionismo di ritorno, privato della sua originaria carica utopica ed eversiva.

Qualcosa di molto diverso, quindi, dall’ardore “lacrime e sangue” della critica militante, fedele

prima di tutto all’interpretazione dell’opera ed al rapporto con l’artista che qui esiste, ma solo dopo
che allo stesso è stato fornito, da altri, un imprimatur attestante qualità e spendibilità nel sistema. Su

binari affini si muove lo svedese Daniel Birnbaum, direttore del Moderna Museet di Stoccolma,

noto in Italia per avere contemporaneamente curato, nel 2009, la Biennale di Venezia ed un’altra

manifestazione, la cui utilità rispetto ai costi suscitò più di una legittima perplessità, la Triennale di

Torino, ora sospesa. Sodale dei due, ma più attivo da un punto di vista speculativo, il francese

Nicolas Bourriad, direttore del parigino Palais de Tokio, e noto per avere elaborato, nei controversi

anni Novanta, la teoria dell’”estetica relazionale”. Tesi di fondo è la relazione tra arte e vita sulla

base di un’analisi filosofico - esistenziale dell’uomo contemporaneo. L’artista relazionale va oltre

l’idea di produzione di qualsiasi oggetto artistico, e si concentra sulla possibilità di intervenire sulla

persona, la propria e quella del fruitore, in un rapporto di reciproche influenze ed interrelazioni,

capaci di evolversi parallelamente alle mutazioni del tessuto sociale. L’arte diventa così un luogo di

dialogo, incontro e confronto, in cui l’artista gestisce con proprie metodologie la finalizzazione

dell’opera andando alla ricerca di una auspicata creatività collettiva. Venendo ai curatori di casa

nostra affermatisi su scala internazionale, cito per prima Carolyn Christov Bakargiev, di famiglia

cosmopolita ed esordiente negli anni Ottanta, nel mio ambito generazionale . Negli anni Zero la

Bakargiev viene nominata curatrice presso il Castello di Rivoli e questo, unitamente ai contatti

derivanti dal suo background familiare, le permette negli ultimi anni una rapida ascesa suggellata

dalla nomina alla Biennale di Sidney e, soprattutto, dalla direzione dell’edizione 2012 di

Documenta a Kassel. Contrariamente alla maggior parte degli altri curatori, che si qualificano come

ordinatori dell’esistente, la Bakargiev si caratterizza per un maggiore spessore teorico, testimoniato,

ad esempio, dalla rassegna ordinata nel 2003 a Rivoli, ed intitolata “I Moderni”. In questa mostra

erano presenti una serie di artisti internazionali che denunciavano, secondo la tesi della curatrice,

con il tramite di installazioni, pitture, fotografie, e video, la volontà di reagire al disincanto ed allo

scetticismo del post moderno con un atteggiamento di rinnovato slancio utopico verso il futuro,

tramite un uso consapevole e costruttivo delle nuove tecnologie, e di un repertorio oggettuale

talvolta volutamente sconfinante nel territorio del design, come a voler recuperare, in un ansia di
rinnovamento, lo spirito tipico delle avanguardie. Vi è poi il caso del fiorentino Francesco Bonami,

Nato nel 1955. Bonami, dopo una parentesi da pittore negli anni Novanta, culminata con la

partecipazione al gruppo “Stazione Centrale”, patrocinato dal gallerista Enzo Cannaviello, scopre

una vocazione critica e si trasferisce a New York come corrispondente della rivista Flash Art. Da

qui parte una fulminea carriera che lo porta a collaborare alla sezione “Aperto” della Biennale del

1993, di cui ho trattato prima ed in cui gioca un ruolo preponderante la rivista diretta da Giancarlo

Politi, per poi assumere la direzione artistica della torinese Fondazione Sandretto, nata nel 1995.

Dopo avere curato l’edizione 2000 di Manifesta a Lubiana, nel 2003 Bonami viene nominato

direttore della Biennale di Venezia, per poi inanellare numerosi incarichi di prestigio, che evito di

elencare tutti. Negli ultimi anni rivela una vena di divulgatore dell’arte contemporanea con

numerosi testi tra cui cito “Lo potevo fare anch’io : perché l’arte contemporanea è davvero arte”

(2007), “Si crede Picasso : come distinguere un vero artista contemporaneo da uno che non lo è “, e

“ Maurizio Cattelan : autobiografia non autorizzata” (2011). Bonami incarna in pieno la figura del

curatore contemporaneo, in grado di proporsi come devoto testimonial del sistema internazionale e

di sviluppare una ampia rete di relazioni, con in più un qualche coraggio propositivo come avvenne,

nel bene e nel male, con la rassegna allestita a Palazzo Grassi “Italics : arte italiana tra tradizione e

rivoluzione 1968-2008”, e una buona dose di sagace ironia toscaneggiante testimoniata dalla

recente attività di scrittore d’arte. Curatore di spicco del panorama internazione e direttore artistico

dell’edizione 2013 della Biennale di Venezia è Massimiliano Gioni, nato nel 1973. Gioni può

considerarsi, per diversi curiosi aspetti, un continuatore dell’azione di Bonami. Li accomuna il fatto,

oltre alla curatela della Biennale a dieci anni esatti di distanza, di essere stati entrambi responsabili

della sede newyorchese di Flash Art, fattore rilevabile anche nel quasi coetaneo Andrea Bellini,

successore di Gioni ed improvvisamente cooptato, qualche anno fa, alla direzione della fiera-evento

torinese Artissima per poi proiettarsi alla guida del Castello di Rivoli, insieme alla figlia d’arte

Beatrice Merz. Altro elemento comune lo stretto legame con Maurizio Cattelan, guardo caso artista

sponsorizzato dalla rivista in questione. Nel caso di Gioni questo legame è stato ed è
particolarmente intenso, al punto che il critico bustocco ha agito spesso e volentieri da vero e

proprio avatar di Cattelan, curando inoltre insieme a lui la Biennale di Berlino del 2006, e

l’esperimento della galleria newyorchese Wrong Gallery. Detto questo, il curriculum

impressionante accumulato da Gioni in un decennio ne ha fatto un candidato ideale per la kermesse

veneziana, specie per le modalità con le quali è stata gestita a partire dal 1993. Oltre a quanto prima

citato, segnalo nel suo itinerario professionale la pluriennale direzione della Fondazione Trussardi a

Milano, nell’ambito della cui programmazione venne inserita la contestata installazione dei

“bambini impiccati” di Cattelan, l’ingresso nello staff curatoriale del New Museum di New York, la

direzione della Biennale di Gwangju in Sud Corea. L’esperienza accumulata tra i gangli del sistema

ed il circa anno e mezzo a disposizione, altro fattore inedito, hanno permesso a Gioni di fare meglio

delle ultime edizioni, curate dal duo spagnolo Maria Corral e Rosa Martinez (2005), da Robert Storr

(2007) , Daniel Birnbaum (2009) e Bice Curiger (2011), tutte caratterizzate, più o meno, da criteri

allestitivi che si sono limitati, al di là delle ardite enunciazioni teoriche, a fungere da convalidatori

notarili, per quanto professionali, delle scelte del mercato globale. Il tema scelto da Gioni è stato

quello del “Palazzo Enciclopedico”. Sono stati invitati 158 autori al fine di allestire una biennale

dedicata al tema dello statuto delle immagini. Al centro di tutto il plastico dell'opera mai realizzata

da Marino Auriti, meccanico italo-americano, che nel 1950 immaginò un museo da costruire nel

mezzo di Washington, capace di raccogliere tutto il sapere il mondo. In mostra, oltre ad artisti della

scena contemporanea, sono stati presentati autori non omologati e non professionisti, insieme a

reperti archeologici, trattati di psicoanalisi, codici miniati, video relativi alla ricerca medica e

repertori di ingegneria informatica. Una proposta estetica senza dubbio affascinante ed eterogenea,

frutto del febbrile lavoro di un nutrito staff ,ed in grado di attirare grandi masse di pubblico e di

generare una scossa dopo la routine sempre uguale delle edizioni precedenti. Tuttavia, per usare una

metafora calcistica, Gioni ha intelligentemente gettato il pallone in tribuna. Se avesse curato la

Biennale con i parametri abituali non sarebbe potuto uscire dagli schemi dell'international style a

cui sono vincolate figure professionali come la sua. Così facendo ha evitato il rischio
dell'omologazione adoperando un tema inedito per Venezia ma non nuovo, le cui origini possono

rinvenirsi nell'iconologia di Warborg e Panofsky, oggetto di recente di più di una mostra e del

saggio di Del Lago-Giordano del 2009 “Fuori cornice. L'arte oltre l'arte”, in cui i due studiosi

analizzano come il mondo dell'arte sia circondato da espressioni artistiche non ufficiali, popolari,

religiose, marginali, di cui raramente la critica e la storia dell'arte si interessano. Sempre

nell’ambito veneziano, un elemento di dibattito critico è stato introdotto, nell’asfittico panorama

nostrano, dalla reintroduzione, dopo una pausa lunga e scandalosa, del Padiglione Italia. Esclusa la

prima edizione del 2007, dove commissario era la direttrice di Rivoli Ida Gianelli, ed in cui la scelta

cadde sue due soli nomi, ad indicare una sorta di collegamento tra generazioni diverse, quelli del

“poverista” Giuseppe Penone e di Francesco Vezzoli, le successive hanno generato lunghe

discussioni e polemiche, soprattutto per il fatto di volersi porsi programmaticamente come

alternativa al sistema omologato imperante finendo poi, per motivi differenti, a fallire l’obiettivo e a

dimostrarsi involontari complici. Nel 2009 vennero nominati Luca Beatrice, critico torinese

presente sulla scena dall’inizio degli anni Novanta, per lungo tempo legato unicamente ad un certo

mercato privato italiano , attivo principalmente nella pittura, ed al mondo editoriale, poi folgorato

sulla via di Damasco della politica, nel suo caso quella del centro-destra allora al governo, e dalla

bolognese Beatrice Buscaroli. La mostra da loro allestita, corredata da inopportuni strali preconcetti

urlati dai sacerdoti del purismo “international style”, soffrì, a mio modo di vedere, di

un’approssimazione teorica e di un improbabile, visto l’esito, accostamento al Futurismo. Artisti di

qualità, uniti ad altri più deboli od autori di prove sottotono, finirono vittime di un allestimento

decisamente disarmonico e mal riuscito. Ciò nonostante, in quel Padiglione si è perloimeno

intravisto un tentativo, per quanto riuscito solo in parte, di uscire dai soliti schemi e dai soliti nomi.

Diverso il caso, nella forma più che nella sostanza, dell’edizione 2011, firmata da Vittorio Sgarbi.

Sgarbi, raffinato storico e fenomeno mediatico ben noto anche a chi non è minimamente toccato

dalle tematiche dell’arte , è noto per la sua radicale avversione per le declinazioni del

contemporaneo, il che non avrebbe dovuto farne un candidato papabile ad una collaborazione con
un’istituzione il cui compito storico è documentare l’attualità. Si è trattato, infatti, come nel caso

precedente, di una nomina esclusivamente politica. L’avversione al sistema è testimoniata dal titolo

dell’evento : “ L’Arte non è Cosa Nostra”. Bisogna dire che, contrariamente al 2009, l’intento di

Sgarbi, che era poi quello di generare confusione e polemica, è perfettamente riuscito. Il Padiglione

veneziano, bissato da un secondo allestito presso Torino Esposizioni dove le presenze si sono

addirittura moltiplicate, giungendo a toccare le ottocento unità, ha visto la messa in scena di una

colossale quadreria, in cui si evinceva un horror vacui. Una pletora di artisti, scelti da personaggi

appartenenti al mondo della cultura e dello spettacolo, in certi casi di qualità, in altri poco oltre la

soglia del dilettantismo, davano vita ad un insieme indistinguibile, in cui la presenza che veniva

realmente fuori era quella del gigantesco ego del curatore. A tutto si è aggiunta una ampia serie di

selezioni regionali, organizzate in tutta fretta e di qualità alterna, caratterizzate anche da numerosi

rifiuti a partecipare, all’insegna dello slogan “l’arte è di tutti”, che fa venire alla mente altri tempi ed

altri luoghi. Ne l’una ne l’altra opzione, secondo me, rappresentano validi rimedi per una riforma

auspicabile del sistema artistico, soprattutto di quello italiano. Nel corso del 2011 altre due rassegne

si sono inserite nel dibattito, sebbene con mezzi mediatici non paragonabili a quelli detenuti da

Sgarbi, nonché alle varie manifestazioni celebrative organizzate, in occasione del 150° anniversario

dell’unità d’Italia, da Celant e Bonito Oliva per Arte Povera e Transavanguardia. La prima è stata

curata da Renato Barilli, supportato da Guido Bartorelli, Alessandra Borgogelli e Guido Molinari,

ed allestita a Gambettola, Bologna e Milano con il titolo “Officina Italia 2. Nuova Creatività

Italiana”. La mostra, oltre ad essere stata una ricognizione sulle tendenze attuali dell’ultima

generazione italiana, si è posta consapevolmente in polemica con le linee guida del Padiglione

Italia. Nel testo introduttivo Barilli spiega come in appuntamenti precedenti avesse constatato, nel

1997, un processo di “s-materializzazione dell’arte, confluita nel vasto territorio che si

definiva, in modo volutamente largo e sfuggente, all’insegna del post-concettuale”, per

proseguire nelle Officine successive dove “avevo potuto seguire un’oscillazione in senso

contrario, ovvero un processo di ri-materializzazione, con recupro di valori sensibili e


corporali, riposti su consistenti presenze oggettuali, fino ad accludere anche qualche ritorno al

decorativo, alle piacevolezze ornamentali”. Adesso invece “questa volta , più che replicare il

consueto ritmo pendolare, preferisco adottare uno schema che è stato proposto, già da tempo,

dai due “nouveaux philosophes” francesi con cui mi sono sempre sentito più vicino, la coppia

Gilles Deleuze - Fèlix Guattari, che hanno chiuso le loro riflessioni mettendo a punto la

nozione di plateau, l’altopiano equidistante dagli orli, ovvero il luogo che si mantiene in un

equilibrio dinamico : lo si potrebbe anche paragonare ai satelliti ruotanti su sé stessi, e

dunque, né s-materializzazione, né ri-materializazione troppo vistosa e ingombrante, ma un

industrioso andirivieni tra i diversi esiti, senza condannarne alcuno in partenza, ma tenendo

le varie possibilità sospese nel mezzo, con la possibilità di giocarle alternativamente, o anche

simultaneamente”. Ritornando alle vicende del Padiglione Italia, quello del 2013 è stato affidato

alla curatela di Bartolomeo Pietromarchi, critico romano per un certo periodo direttore del MACRO

di Roma. Titolo dell'esposizione, che ha posto a confronto coppie di artisti dell'avanguardia storica

italiana, con autori della scena emersa a partire dagli anni Novanta, “Vice Versa”. Dal comunicato

ufficiale della Biennale : “”Vice Versa riprende un concetto teorizzato da Giorgio Agamben, in

cui il filosofo sostiene che per interpretare la cultura italiana sia necessario individuare una

serie di concetti polarmente coniugati capaci di descriverne le caratteristiche di fondo. Binomi

quali tragedia/commedia, architettura/vaghezza, o velocità/leggerezza divengono così originali

chiavi di lettura di opere ed autori fondanti della nostra storia culturale”. Tema a prima vista

interessante,.ma sviluppato da Pietromarchi in chiave scarsamente innovativa ed assai poco

coraggiosa, al punto da rivalutare alcuni aspetti dell'edizione di Beatrice e Buscaroli. Gli autori più

giovani, con l'eccezione di Tirelli e , parzialmente, di Favelli, artista di cui mi sono interessato ai

suoi esordi nei primi anni Zero, non hanno retto il confronto con quelli storicizzati, dove spiccava

una opportuna rilettura di un artista come Fabio Mauri. I vari Benassi, Vitone, Maloberti, Golia,

Grilli, Arena, non sono andati oltre quella patinata confezione neo concettuale da “Ikea evoluta”,

per usare un termine del giovane critico Luca Rossi, in cui si è impastoiata, al fine di essere
accettata dal sistema, buona parte dell'ultima generazione italiana. Luca Rossi è uno pseudonimo

usato da un blogger, assai attivo anche sulle pagine di Exibart ed Artribune, che da alcuni anni

fustiga, in maniera efficace e con argomenti spesso condivisibili le pecche della scena artistica

italiana.. I limiti di Rossi, oltre all'anonimato, stanno nel far partire le sue considerazioni sempre

dagli anni Novanta, come se il decennio precedente, fondamentale per capire gli sviluppi successivi,

non fosse mai esistito, e nel non fare mai nomi di artisti e critici fuori dal coro, che pure non

mancano. Questo pervicace solipsismo è stato uno dei mali peggiori degli ultimi trent'anni. Sempre

in tema di azioni controcorrente non posso non parlare di quell'episodio definito come “Complotto

di Tirana”. Pur datato 2001, e favorito nella sua geniale genesi da un periodo in cui il web in Italia

era ancora un territorio da esplorare, il “Complotto” è ancora di stringente attualità per la capacità di

mettere a nudo i limiti dei feticci e dei riti del sistema globalizzato dell'arte contemporanea. La sua

popolarità, diffusa ma sottotraccia, proprio perchè autenticamente demifisticatorio e non costruito a

tavolino come tanta finta trasgressione accettata di buon grado dal sistema, merita che se parli

ancora. La genesi è datata 1999. Ricostruisco la storia con l'ausilo del blog T.A.M.(Tavor Art

Mobil) : “Nel 2001, attraverso la rubrica “Lettere al direttore”, un finto Oliviero Toscani,

attraverso email finte(oggi si direbbe profili fake), dopo un'intensa e carica corrispondenza

con Giancarlo Politi, direttore di Flash Art, la rivista d'arte più credibile ed attendibile

d'Europa, riesce a farsi invitare come curatore alla Biennale di Tirana. Il falso Oliviero

Toscani per l'occasione creò a tavolino quattro sottofake, comprese di produzione e percorso

artistico, profili creati attraverso la ricampionatura di materiale accessibile e disponibile su

web. Il finto Toscani scrisse anche un testo critico sostenendone il lavoro da un punto di vista

teorico, sociale e culturale. I quattro artisti erano la nigeriana Bola Ecua (che attraverso il suo

lavoro denunciava le brutture e le nefandezze politiche, economiche e culturali della sua

terra) ; l'arabo Hamid Piccardo(portavoce di Osama Bin Laden nel sistema dell'arte

contemporanea) ; l'italiano Carmelo Gavotta edicolante di Cuneo e lo slavo pedofilo Dimitry

Bloy. I quattro artisti taroccati sono stati esposti regolarmente alla Biennale di Tirana, lo
stesso catalogo della Biennale e i relativi gadget e manifesti sono stati progettati e ideati dal

finto Oliviero Toscani, scaricando qui e lì il materiale sottoculturale liberamente prelevato dal

web e elevato a forma d'arte attraverso il nome e la monografia degli artisti creati a tavolino

dal finto curatore e fotografo. La truffa è stata smascherata dopo l'inaugurazione della

mostra, quando Politi pensa bene di invitare il vero Toscani, inviandogli il catalogo

dell'evento, il vero Toscani ignaro di tutto querelò il finto Toscani e lo stesso Politi ; Kostabi

invoco l'intervento della CIA e dell'FBI( questo perchè la Biennale, per una singolare e

involontaria coincidenza si inaugurò praticamente in contemporanea con l'11 settembre

n.d.a.) e la notizia fece rapidamente il giro del glòbo. Dopo diverse ricerche, il responsabile

della beffa venne individuato, si trattava dell'artista Marco Lavagetto”. Lo spunto a Lavagetto,

artista che frequento e con cui collaboro fin dal 1981, venne dagli esiti di una classifica pubblicata

su Flash Art nel 1999, in cui, votando, si potevano indicare i 100 artisti al top della scena. Lavagetto

che ebbe un unico voto, per la cronaca il mio, finì a fondo classifica appaiato proprio a Toscani. Il

quale, facendo querela con la poco credibile scusa di proseguire in questo modo la performance,

fece una figura invero penosa, non rendendosi conto, o privilegiando forse la ricerca di un possibile

ricco risarcimento che peraltro non gli è stato concesso, che l'utilizzo della sua icona non ne aveva

affatto danneggiato l'immagine, anzi il contrario. Quanto a Politi, ammise a denti molto stretti la

genialità della beffa, ma non più di tanto perchè Lavagetto era uno dei molti artisti di valore che

quel sistema da lui tenacemente propugnato fin dall'inizio degli anni Novanta, aveva accantonato.

Chiudo con la vicenda con alcune dichiarazioni di Lavagetto, sempre tratte dal blog T.A.M. :

“Quando inizi un'opera senza un progetto, ti senti libero di esprimerti senza pensare alle

conseguenze e da un piccolo movimento delle ali di una farfalla, si crea un terremoto :

funziona sempre così, anche nell'arte. Si era entrati in una nuova epoca piena di foschi presagi

e meditando sulla sporcizia che c'era in giro, scelsi di mettermi in gioco usando Internet.

Volevo farmi sentire senza farmi vedere e sfruttai la clandestinità, che si adattava alla mia

mente camaleontica, costruendo, giorno per giorno, passaggi tra il mondo reale e il mondo
della finzione. Usai tutte le mie piccole conoscenze per bollire a fuoco lento l'arte

contemporanea, governata da critici deficienti con artisti noiosi e strapagati”. In ultimo cito il

progetto che mi ha tenuto impegnato un anno, cioè “Un’Altra Storia. Arte Italiana dagli anni

Ottanta agli anni Zero”, una rilettura critica dell’ultimo trentennio di arte italiana, con la presenza di

84 artisti suddivisi in tre sedi a Como, Milano e Torino, condotta con le motivazioni che saranno

ormai ben note a chi avrà avuto la pazienza di leggere questo testo e che è stata in grado di

suscitare, nonostante il basso budget a disposizione ed una promozione affidata al catalogo ed alle

risorse gratuite della rete, un dibattito a livello nazionale. Questo mi ha indotto a bissare subito,

realizzando un evento che ha affrontato la prima parte della post modernità, quella che va dal 1980

al 1990, dal titolo “Un'Altra Storia 2. Arte Italiana 1980-1990”, allestita nell'ottobre 2012 presso i

locali dell'Ex Birrificio Metzger, a Torino. Chiudo riportando alcuni brani introduttivi del mio

saggio : “ Il progetto de “Un’Altra Storia. Arte Italiana dagli anni Ottanta agli anni Zero” è

stato meditato a lungo ed altrettanto lo è stata la tenace ricerca di chi sposasse la causa di

questo evento, realizzabile solo al di fuori del circuito museale italiano, causa le posizioni da

questo assunte proprio a partire dalla fine degli anni Ottanta certo non sintoniche, anzi

diametralmente opposte alle mie motivazioni teoriche ed ancor più alle critiche mosse ad un

sistema statico ed inerte, in grado di andare avanti secondo una logica di “falso movimento”,

basata su una ripetitiva cooptazione, per le funzioni di direzione artistica e di curatore, dei

soliti noti e dei loro giovani adepti ……..L’arte italiana all’estero è generalmente

rappresentata da singole individualità spesso avulse dal contesto globale di un territorio

estremamente variegato, quindi è importante lavorare per diffondere aspetti poco

approfonditi della nostra scena nazionale, considerato anche che la percezione dell’arte

italiana dell’ultimo trentennio al di fuori dei nostri confini è talvolta assai diversa da quella

che viene divulgata da ambiti comunicativi e di sistema predominanti. Per parlare degli ultimi

trent’anni circa di arte italiana non si può non partire da un inequivocabile, quasi scontato

dato di fatto, cioè che gli ultimi due movimenti innalzatisi ad un riconoscimento
internazionale, sono stati l’Arte Povera e la Transavanguardia, con percorsi diversi che di

recente si sono intrecciati in una sorta di reciproco riconoscimento, da cui non era difficile

prevedere l’attuazione di una sottile logica di esclusione di quanto sta al di fuori di quel

recinto. La fascia generazionale maggiormente penalizzata da questo stato di cose, che trova

solo parziale motivazione nell’indubbia forza espressiva dei movimenti prima citati è stata

quella, di non indifferente qualità, emersa subito dopo la Transavanguardia, tra la metà degli

anni anni Ottanta ed i primi anni Novanta, periodo nel quale è, tra l’altro, avvenuta la mia

formazione critica e da me ben conosciuto, che ho dettagliatamente analizzato nella

primavera 1997, con la mostra ed il libro intitolati “Va’Pensiero. Arte Italiana 1984/1996”. Il

fatto di avere sostanzialmente “saltato” una generazione sta all’origine, a mio modo di vedere,

della sostanziale irrisolutezza dell’arte italiana lungo tutto il corso degli anni ’90. Gli autori

del decennio precedente si sono giocoforza “riciclati” in quello successivo, facendo saltare

qualsiasi paletto divisorio in merito ad un plausibile concetto di “giovane artista”, per di più

all’interno di una scena sempre più affollata e confusa, in parte per una occulta volontà, ma

anche per motivazioni pertinenti l’evoluzione della società post industriale nel suo

complesso”.

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