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SAGGI TASCABILI LATERZA

TAFUR1
Progetto e utopia
STL

Saggi tascabili Laterza


1
Prima edizione gennaio 1973
Seconda edizione luglio 1973
Manfredo Tafuri
PROGETTO E UTOPIA
Architettura e sviluppo capitalistico

Laterza 1973
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Roma Bari
CL 20-0499-2
A Giusi
Premessa

Il presente volume è frutto di una rielaborazione e


di un notevole ampliamento di un saggio accolto, con
il titolo Per una critica dell’ideologia architettonica, nella
rivista «Contropiano» (1/1969).
Subito dopo la pubblicazione di quel saggio appar­
vero numerose prese di posizione, più o meno violente,
nei confronti delle tesi e dei temi in esso contenuti, cui
abbiamo sempre evitato di rispondere in modo diretto,
non tanto per una sottovalutazione degli interlocutori,
quanto per ragioni che è necessario, ora, chiarire una
volta per tutte. Il saggio pubblicato su « Contropiano »
portava alle estreme conseguenze — in forma di abbozzo
volutamente sommario — le ipotesi già espresse in Teorie
e storia dell’architettura. Rileggere la storia dell’architet­
tura moderna alla luce degli strumenti metodologici of­
ferti da una critica dell’ideologia intesa nella più rigorosa
accezione marxiana non poteva che costituire, quattro
anni fa, un tentativo di fornire un quadro di riferimento
per verifiche e analisi settoriali e circostanziate. Il con­
testo della rivista che ospitava questo saggio (e gli altri,
dello scrivente e dei compagni che hanno lavorato su tale
linea) era talmente definito nella sua storia politica e nelle
linee del suo dibattito interno, da lasciar supporre che
molte equivoche letture potessero a priori essere evitate.
Non è stato così. Isolando la tematica architettonica
dal contesto teorico di cui la rivista era portatrice, si è
avuto modo di considerare il nostro scritto come omaggio
a un atteggiamento apocalittico, come « poetica della
rinuncia », come estrema denuncia di una « morte del­
l’architettura ».
Tuttavia, ciò che nel ’68-’69 era solo un’ipotesi di
lavoro ha avuto modo, specie con il lavoro di ricerca
condotto presso l’istituto di Storia dell’istituto Univer­
sitario di Architettura di Venezia, di specificarsi, di arric­
chirsi, di articolarsi in gran parte delle sue linee portanti:
il rapporto avanguardie storiche-metropoli, le relazioni
fra lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico, le ricerche
sulla sociologia tedesca del primo ’900, sull’ideologia e la
prassi della pianificazione in Unione Sovietica, sulla ge­
stione socialdemocratica della città, sull’architettura e le
città americane, sul ciclo edilizio sono stati e sono al
centro di un lavoro collettivo, ben lontano, del resto,
dal pretendere di aver raggiunto punti fermi e dogmatici.
Nel ripubblicare oggi, su gentile invito di Vito Laterza,
il saggio del ’69, è, prima che agli altri, a noi stessi
evidente la strada percorsa, i mutamenti di giudizio resi
necessari da indagini più accurate, le mancanze di quelle
primitive ipotesi. Le quali, tuttavia, ci sembrano aver
retto complessivamente: la polemica, ora, può svilupparsi
basandosi su analisi e documentazioni, non più solo sui
sacri princìpi.
Per discutere i quali, tuttavia, è necessario scendere
nel campo della teoria politica, così come essa si è svilup­
pata nelle più avanzate ricerche del pensiero marxista,
dal 1960 ad oggi. La critica dell’ideologia non è separa­
bile da quel contesto: ne è parte integrante, tanto più,
quanto più essa è cosciente dei propri limiti e della
propria sfera di azione.
Va quindi avvertito subito, che sottoporre a critica le
linee portanti dell’ideologia architettonica contemporanea
non pretende di avere alcun compito « rivoluzionario ».
Ciò che ci interessa, in questa sede, è precisare quali siano
i compiti che lo sviluppo capitalistico ha tolto all’archi­
tettura: che è come dire, che esso ha tolto, in generale,
alle prefigurazioni ideologiche. Con la qual cosa, si è con­
dotti quasi automaticamente a scoprire quello che può
anche apparire il « dramma » dell’architettura, oggi: quel­
lo, cioè, di vedersi obbligata a tornare pura architettura,
istanza di forma priva di utopia, nei casi migliori, sublime
inutilità. Ma ai mistificati tentativi di rivestire con panni
ideologici l’architettura, preferiremo sempre la sincerità
di chi ha il coraggio di parlare di quella silenziosa e inat­
tuale « purezza ». Anche se essa stessa nasconde ancora
un afflato ideologico, patetico per il suo anacronismo.
I temi nuovi che si propongono alla cultura architet­
tonica sono invece, paradossalmente, al di qua e al di
là dell’architettura. Nessun rimpianto, ma anche nessuna
apocalittica profezia in tale riconoscimento, che ci pro­
poniamo di convalidare storicamente. Nessun rimpianto;
poiché quando il ruolo di una disciplina si estingue, è
solo utopia regressiva, e della peggior specie, tentare di
fermare il corso delle cose. Nessuna profezia: perché
il processo si svolge quotidianamente sotto i nostri occhi,
e, per chi ne volesse una prova clamorosa, sarebbe già
sufficiente riflettere sulla percentuale degli architetti lau­
reati effettivamente esercitanti la professione. È però vero
che alla caduta della professionalità non corrisponde an­
cora alcun ruolo istituzionalmente definito per i tecnici
preposti all’edilizia. Per questo, ci si trova a navigare in
uno spazio vuoto, nel quale tutto può accadere, ma nulla
è decisivo.
II che non significa che non sia necessaria una lucida
coscienza della situazione in corso. Ma non è presen­
tando illusorie speranze che tale obbiettivo può essere
raggiunto. Ed è un obbiettivo, si badi bene, di per sé
ancora ambiguo. Facendo ragione dei miti inattuali non
appare certo all’orizzonte alcun barlume di architettura
alternativa, di tecnica « di parte operaia ». L’ideologia è
inutile allo sviluppo capitalistico così come è dannosa al
punto di vista operaio: dopo le elaborazioni del Fortini
di Verifica, dei poteri, di Tronti, di Asor Rosa, di Cac­
ciati, pensiamo sia superfluo ricorrere ancora una volta
alla Deutsche Ideologie, per dimostrarlo. Ma è certo, che
una volta compiuto un lavoro di critica ideologica, rimane
il problema di quali strumenti di conoscenza siano imme­
diatamente utili alla lotta politica. È esattamente qui che
il nostro discorso, necessariamente, si arresta. Ma non, di
sicuro, per partito preso.
Dalla critica dell’ideologia è necessario passare all’ana­
lisi delle tecniche di programmazione e dei loro concreti
modi di calarsi nel vivo dei rapporti di produzione: ad
analisi, vale a dire, che solo oggi si vanno tentando, con
il rigore e la coerenza necessari, nel settore edilizio. A
chi ricerca con angoscia l’operatività della critica, non
abbiamo che da rispondere con un invito a trasformarsi
in analisti di un preciso settore economico, con l’occhio
fisso a legare insieme sviluppo capitalistico e processi
di riorganizzazione e massificazione della classe operaia.
Rispetto a tali compiti, questo libro è solo un prologo.
E tuttavia, per il modo ancora sommario con il quale
volutamente i temi in esso trattati vengono affrontati,
esso non è che una traccia storica rimessa a punto, e
solo per alcuni settori verificata. Sarà necessario proce­
dere oltre. Ma, nel frattempo, riteniamo non del tutto
inutile offrire al dibattito culturale un'ipotesi-quadro che,
non foss’altro, si presenti alla critica con una sua com­
pletezza formale. E sarà già un risultato se tale ipotesi
contribuirà a rendere più coscienti e radicali adesioni e
dissensi.
1. Le avventure della ragione:
naturalismo e città nel secolo dei lumi

Allontanare l’angoscia comprendendone e introiettan-


done le cause: questo sembra essere uno dei principali
imperativi etici dell’arte borghese. Poco importa se i con­
flitti, le contraddizioni, le lacerazioni che generano l’an­
goscia verranno assorbite in un meccanismo complessivo
capace di comporre provvisoriamente quei dissidi, o se
la catarsi verrà raggiunta attraverso la sublimazione con­
templativa.
La fenomenologia dell’angoscia borghese è tutta insi­
ta nella « libera » contemplazione del destino. È impos­
sibile non confrontarsi di continuo con le prospettive
generate da quella libertà; è impossibile non perpetuare
— in tale tragico confronto — l’esperienza dello choc.
Lo choc, derivante dall’esperienza metropolitana, e che
tenteremo di analizzare nelle pagine che seguono, è già
un modo di rendere « attiva » l’angoscia. L'urlo di Munch
parla già, in tal senso, della necessità di un ponte fra il
« vuoto » assoluto del singolo, capace di esprimersi solo
con un fonema contratto e la passività del comportamento
collettivo.
La metropoli, il luogo dell’alienazione assoluta, è, non
a caso, al centro delle elaborazioni delle avanguardie.
Fin quando il sistema capitalistico ha avuto bisogno
di rappresentarsi la propria angoscia — per continuare
ad agire, accettandosi con la « virile oggettività » di cui
parla Weber — l’ideologia ha potuto colmare il baratro
esistente fra gli imperativi dell’etica borghese e l’universo
della Necessità.
In questo libro tenteremo, anche, di delineate le
tappe con le quali quel bisogno di compensazione nel
cielo dell’ideologia ha cessato di essere funzionale.
Il dover-essere dell’intellettuale borghese si riconosce,
comunque, nel valore imperativo che assume la sua mis­
sione «sociale»: fra le «avanguardie» intellettuali esi­
ste una sorta di tacita intesa, tale, che al solo tentare di
portarla alla luce si solleva un coro di indignate proteste.
Tanto la funzione mediatrice della cultura ha identificato
i propri connotati in termini ideologici, che la sua astuzia
giunge — al di là di tutte le buone fedi individuali — a
imporre forme di contestazione e protesta ai propri pro­
dotti. Quanto più la sublimazione dei conflitti è alta sul
piano della forma, tanto più rimangono nascoste le strut­
ture convalidate da quella sublimazione.
Affrontare il tema dell’ideologia architettonica, da
questo punto di vista, significa tentare di mettere in luce
come mai le proposte apparentemente più funzionali alla
riorganizzazione di un settore dello sviluppo capitalista
abbiano dovuto subire le più umilianti frustrazioni, tanto
da poter essere presentate tutt’oggi come valori oggettivi,
al di là di ogni connotato di classe, o addirittura come
momenti " alternativi ”, come terreno di scontro diretto
fra intellettuali e capitale.
Dobbiamo subito dire che non riteniamo casuale che
tanta parte delle recenti ipotesi culturali interne al dibat­
tito architettonico si rivolgano ad un accorato riesame
delle origini stesse delle avanguardie storiche. Tornando
alle origini, correttamente identificate nel periodo che
vede la stretta connessione fra ideologie borghesi e antici­
pazioni intellettuali, si stringe in una struttura unitaria
l’intero ciclo dell’architettura moderna.
Accettare tale indicazione permette di considerare
globalmente il formarsi delle ideologie architettoniche,
e in particolare le loro implicazioni in merito alla città.
Ma sarà necessario, allora, riconoscere l’unitarietà del
ciclo culturale percorso dalla cultura borghese: sarà neces­
sario, in altre parole, avere di continuo presente l’intero
quadro delle sue elaborazioni. Non a caso, l’esplorazione
sistematica del dibattito illuminista dà modo di cogliere,
al loro livello ideologico puro, gran parte delle contrad­
dizioni che in diverse forme accompagnano il percorso
dell’arte contemporanea.
Formazione dell’architetto come ideologo del « socia­
le », individuazione del campo adeguato di intervento
nella fenomenologia urbana, ruolo persuasivo della forma
nei confronti del pubblico e autocritico nei confronti
della propria stessa ricerca, dialettica — al livello del­
l’indagine formale — fra ruolo dell’« oggetto » architet­
tonico e ruolo dell’organizzazione urbana: queste sono
le costanti che ricorrono all’interno della « dialettica del­
l’illuminismo ».
Quando il Laugier, nel 1753, enuncia le sue teorie
sul disegno della città, aprendo ufficialmente la ricerca
teorica dell’architettura illuminista^ le sue parole tradi­
scono una doppia influenza. Da un lato è l’istanza di
ridurre la città stessa a fenomeno naturale, dall’altro
quella di superare ogni idea a priori di ordinamento
urbano, tramite l’estensione al tessuto cittadino di dimen­
sioni formali legate all’estetica del Pittoresco.

Quiconque s?ait bien dessiner un pare — scrive il Lau­


gier, — tramerà sans peine le pian en conformile duquel
une Ville doit ètre bàtie relativement à son étendue et à sa
situation. Il faut des places, des carrefours, des rues. Il faut
de la régularité et de la bizarrerie, des rapports et des oppo­
si tions, des accidents qui varient le tableau, un grand ordre
dans les details, de la confusion, du fracas, du tumulte dans
l’ensemble *.

La realtà formale della città settecentesca è colta,


dalle parole del Laugier, in modo penetrante. Non più
schemi archetipi di ordine, ma accettazione del carattere
antiprospettico dello spazio urbano; ed anche il riferi­
mento al giardino ha un suo significato nuovo: la varietà
della natura, che viene chiamata ad entrare a far parte
della struttura urbana, fa ragione del naturalismo conso­
latorio, oratorio e didascalico che per tutto l’arco che va
dal ’600 alla metà del ’700 aveva dominato l’episodica
narratività delle sistemazioni barocche.
A tale stregua, l’appello al naturalismo significa con­
temporaneamente richiamo alla purezza originaria del­
l’atto di configurazione dell’ambiente, e comprensione del
carattere antiorganico per eccellenza, che è proprio della
città. Ma vi è anche di più. La riduzione della città a
fenomeno naturale risponde certo all’estetica del Pitto­
resco, che l’empirismo inglese aveva introdotto sin dai
primi decenni del XVIII secolo, e che riceverà dal Cozens,

1 M. A. Laugier, Observations sur l’Architetture, La Haye


1765, pp. 312-3. Si noti però che il testo citato riprende le tesi
già avanzate dallo stesso Laugier nel suo Essai sur VArchitetture,
Paris 1753 (pp. 258-65). Sul Laugier, cfr. Wolfgang Herrmann,
Laugier and thè 18th Century Theory, Zwemmer, London 1962. Il
confronto fra le teorie urbanistiche del Laugier e i progetti del
Gwynn e di George Dance junior per Londra si rivela estremamente
interessante. Si veda al proposito: John Gwynn, London and West-
minster Improved, con il Discourse on Publick Magnificence, Lon­
don 1766; M. Hugo-Brunt, George Dance thè Younger, as Town-
Planner (1768-1814), «Journal of The Society of Architectural
Histoi'ans », XIV, 1955, n. 4 (con molte inesattezze); D. Stroud,
George Dance Architect, 1714-1825, Faber and Faber, London 1971.
Il miglior contributo sul tema è la tesi di laurea inedita di Georges
Teyssot, Dance, Soane et le Neoclassicisme anglais, Istituto di Storia
deU’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, 1971, di pros­
sima pubblicazione per i tipi delle edizioni Officina.
nel 1759, una teorizzazione estremamente ricca e conse­
guente.
Non sappiamo quanto sull’idea di città del Laugier
possano aver influito la teoria della macchia del Cozens
o le considerazioni di Robert Castell su Le ville degli
antichi. Ciò che è certo, è che l’invenzione urbana del­
l’abate francese e il paesaggismo del pittore inglese hanno
in comune un metodo fondato sulla selezione, come stru­
mento per un intervento critico sulla realtà « naturale »2.
Ora, dando per scontato che la città, per i teorici del
’700, insiste sulla medesima area formale della pittura,
selettività e criticismo significano l’introduzione, nell’ur­
banistica, di un frammentismo che ponga sul medesimo
piano di valori non solo Natura e Ragione, ma anche
frammento naturale e frammento urbano.
La città, in quanto opera dell’uomo, tende ad una
condizione naturale, così come il paesaggio, attraverso la
selettività critica operata dal pittore, deve ricevere il
suggello di una moralità sociale.
Ed è significativo che, mentre il Laugier coglie acuta-

2 Alexander Cozens, A New Method of assisting thè Invention


drawing Originai Compositions of Landscape, London 1786. È im­
portante valutare il significato che assumono le parole del Pope,
citate dal Cozens nell’iniziare il suo trattato: « Those Rules wich
are discovered, not devised / are Nature stili, but Nature metho-
dized: / Nature, like Monarchy, is but restrained / by thè same
Laws wich first berseli ordained ». (Cfr. G. C. Argan, La pittura
dell'Illuminismo in Inghilterra da Reynolds a Constarle, Bulzoni,
Roma 1965, pp. 153 sgg.) Il valore civile attribuito alla Natura —
soggetto e oggetto di azione etico-pedagogica — si rivela come il so­
stituto dei tradizionali princìpi di autorità che razionalismo e sen­
sismo stavano demolendo. Cfr. anche Robert Castell, The Villas
of thè Ancients, London 1728, dedicato a Lord Burlington. Sul
significato dei trattati del Castell e del Chambers (William Cham-
bers, Designs of Chinese Buildings, London 1757), si veda il fon­
damentale saggio di Rudolf Wittkower, English Neo-Palladianism,
thè Landscape Garden, China, and thè Enlightenment, « L’Arte »,
1969, n. 6, pp. 18-35.
mente, come i teorici inglesi dell’illuminismo, il carattere
artificiale del linguaggio urbano, né il Ledoux né il Boullée,
tanto più innovatori nelle loro opere, riescono ad abban­
donare una considerazione mitica e astratta della Natura.
La polemica del Boullée contro le acute anticipazioni del
Perrault, circa il carattere artificiale del linguaggio archi­
tettonico, è altamente indicativa al riguardo3.
Può darsi che la città come foresta del Laugier non
avesse come modello che le variate sequenze di spazi che
appaiono nella pianta di Parigi redatta dal Patte, racco­
gliendo, in un unico quadro di insieme, i progetti per la
nuova piazza reale. Ma; è indubbio che a quella stessa
concezione si richiamino i progetti di George Dance il
giovane per Londra: progetti senza dubbio di avanguardia
per l’Europa del Settecento4. Ci limiteremo quindi a regi­
strare le intuizioni teoriche, contenute nel passo del
Laugier, tanto più sintomatiche qualora si rammenti che
sarà Le Corbusier ad àppoggiarsi ad esse, nel delineare
i princìpi teorici della sua Ville radieuse5.
Cosa significa, sul piano ideologico, assimilare la città
a un oggetto naturale? Da un lato, in tale assunto tra­
spare una sublimazione delle teorie fisiocratiche: la città
non è letta come struttura che determina, con i propri
meccanismi di accumulazione, la trasformazione dei pro­
3 Sul significato delle teorie del Perrault (esposte principal­
mente in: Claude Perrault, Les dix Livres d’Architetture de Vi-
truve ecc., Paris 1673), cfr. Manfredo Tafuri, « Architettura Arti-
ficialis »: Claude Perrault, Sir Christopher Wren e il dibattito sul
linguaggio architettonico, in Barocco europeo, Barocco italiano,
Barocco salentino, Atti del Congresso Internazionale sul Barocco,
Lecce 1971, pp. 375-98. Sulla polemica con il Boullée, cfr. Helen
Rosenau, Boullée’s Treatise on Architetture, London 1963 (com­
menti e note).
4 Sull’attività urbanistica di Dance jr., si veda la bibliografia
citata nella nota 1.
5 Cfr. Le Corbusier, Urbanisme, « Esprit Nouveau », Crès,
Paris 1925; trad. it. Urbanistica, Il Saggiatore, Milano 1967,
pp. 81 sgg.
cessi di sfruttamento del suolo e delle rendite agricole e
fondiarie. In quanto fenomeno assimilabile ad un pro­
cesso « naturale », astorico perché universale, essa viene
svincolata da ogni considerazione di natura strutturale. Il
« naturalismo » formale serve in un primo momento per
persuadere circa la necessità oggettiva dei processi messi
in moto dalla borghesia prerivoluzionaria; in un secondo
momento, per consolidare e proteggere da ogni ulteriore
trasformazione le conquiste acquisite.
Dall’altro lato, quel naturalismo svolge la propria fun­
zione nell’assicurare all’attività artistica un ruolo ideolo­
gico in senso stretto. Non è causale, che, proprio nel
momento in cui l’economia borghese inizia a scoprire e a
fondare le proprie categorie di azione e giudizio, dando
ai « valori » contenuti direttamente misurabili con i
metri dettati dai nuovi metodi di produzione e di scam­
bio, la crisi degli antichi sistemi di « valori » venga
subito coperta da un ricorso a nuove sublimazioni, rese
artificialmente oggettive attraverso l’appello all’universa­
lità della Natura.
È per questo che Ragione e Natura debbono ora uni­
ficarsi. Il razionalismo illuminista non può assumere su
di sé l’intera responsabilità delle operazioni che sta com­
piendo e ritiene necessario evitare un confronto diretto
con le proprie stesse premesse.
È chiaro, che tale copertura ideologica fa leva, per
tutto il ’700 e i primi decenni dell’ ’800, sulle contrad­
dizioni dell 'ancien regime. Capitalismo urbano in forma­
zione e strutture economiche basate sullo sfruttamento
precapitalista del suolo cozzano già fra di loro. È indica­
tivo che i teorici della città non evidenzino tale contrad­
dizione, ma si preoccupino piuttosto di coprirla, o, me­
glio, di risolverla, annullando la città nel gran mare della
Natura e concentrando per intero la loro attenzione sugli
aspetti sovrastrutturali della città stessa.
1 John Gwynn, tavola dal volume London and Westmìnster Im-
proved, 1766.
Naturalismo urbano, inserimento del Pittoresco nella
città e nell’architettura, valorizzazione del paesaggio nel­
l’ideologia artistica tendono a negare la dicotomia, ormai
palese, fra realtà urbana e campagna: servono a persua­
dere che non esiste alcun salto fra valorizzazione della
natura e valorizzazione della città, come macchina produt­
trice di nuove forme di accumulazione economica.
Al naturalismo oratorio e arcadico della cultura seicen­
tesca, si sostituisce ora un naturalismo diversamente per­
suasivo.
È però importante sottolineare, che la voluta astrat­
tezza delle teorie illuminisi sulla città serve in un primo
momento a distruggere gli schemi di progettazione e di
sviluppo della città barocca, e in un secondo momento
ad evitare, piuttosto che a condizionare, la formazione
di modelli globali di sviluppo. Non è un caso, che una
operazione gigantesca e di avanguardia, come la ricostru­
zione di Lisbona dopo il terremoto del 1755, sotto
la guida del marchese di Pombal, sia stata condotta in
un clima del tutto empirico, lontano da astrazioni teoriche 6.
In modo sicuramente anomalo rispetto alle. linee
generali del criticismo illuminista, la cultura architetto­
nica svolge quindi, nel ’700 e nell’ ’800, un ruolo preva­
lentemente distruttivo. E si spiega. Non essendo a dispo­
sizione di un substrato già maturo di tecniche di produ­
zione adeguate alle nuove condizioni dell’ideologia bor­
ghese e del liberalismo economico, l’architettura è obbli­
gata a concentrare il proprio lavorìo autocritico in due
direzioni:
a) nell’esaltare, a scopo polemico, tutto ciò che puè
assumere un significato antieuropeo. Il frammentismo di
Piranesi è conseguenza della scoperta di quella nuova

6 Cfr. José-Augusto Franca, Une ville de lumières: la Lisbonne


de Pombal, CNRF, Paris 1965, trad. it., Officina, Roma 1972.
scienza borghese che è la critica storica, ma è anche, e
paradossalmente, critica della critica. Tutta la moda dei
riferimenti all’architettura gotica, cinese, indù, e il natu­
ralismo romantico dei giardini paesistici, in cui si immer­
gono gli scherzi senza ironia dei padiglioni esotici e delle
false rovine, si lega idealmente al clima delle Lettres
persanes di Montesquieu, deil’Ingénu di Voltaire, del
caustico antioccidentalismo di Leibniz. Per rendere inte­
grale razionalismo e criticismo, i miti europei vengono
messi a confronto con tutto ciò che può, contestandoli,
confermarne la validità. Nel giardino paesistico all’inglese
si consuma l’annullamento della prospettiva storica. Non
è tanto l’evasione nel fiabesco che viene perseguita con
l’aggregazione di tempietti, padiglioni, grotte, in cui sem­
bra si siano date convegno le più disparate testimonianze
della storia dell’umanità. Il « pittoresco » del Brown, del
Kent, dei Wood, o l’« orrido » del Lequeu, avanzano
piuttosto una richiesta. Con gli strumenti di un’archi­
tettura che ha già rinunciato a formare « oggetti », per
divenire tecnica di organizzazione di materiali preformati,
essi chiedono una verifica fatta dalVesterno delVarchi-
t ettura.
Con tutto il distacco tipico dei grandi critici dell’illu­
minismo, quegli architetti iniziano una sistematica e fatale
autopsia dell’architettura e di tutte le sue convenzioni.
b) In secondo luogo, pur mettendo fra parentesi il
proprio ruolo formale nell’ambito della città, l’architet­
tura presenta un’alternativa alla prospettiva nichilista chia­
ramente avvertibile dietro le allucinate fantasie di un
Lequeu, di un Bélanger, di un Piranesi.
Rinunciando ad un ruolo simbolico, almeno in senso
tradizionale, l’architettura — per evitare di distruggere
se stessa — scopre la propria vocazione scientifica. Da un
lato, essa può divenire strumento di equilibrio sociale;
ed allora dovrà affrontare di petto — cosa che faranno
il Durand e il Dubut — la questione dei tipi. Dall’altro,
può divenire scienza delle sensazioni: e in tale dire­
zione spingeranno il Ledoux e, con più sistematicità, Le
Camus de Mézières. Tipologia e architecture parlante,
dunque: sono ancora i temi fatti scontrare fra loro dal
Tiranesi e che, piuttosto che condurre verso soluzioni,
accentueranno, per tutto 1’800, la crisi interna alla cul­
tura architettonica.
Ora, l’architettura accetta di rendere « politico » il
proprio operato. In quanto agenti politici, gli architetti
debbono assumersi il compito dell’invenzione continua di
soluzioni avanzate, ai livelli più generalizzabili. Il ruolo
dell’ideologia, a tale scopo, diviene determinante.
L’utopismo, che la storiografia moderna ha voluto
riconoscere nelle opere dell’illuminismo architettonico,
va dunque esattamente definito nei suoi autentici signi­
ficati. In realtà, le proposte architettoniche del ’700
europeo non hanno nulla di irrealizzabile, né è causale
che tutta la vasta teorizzazione dei philosophes dell’archi­
tettura non contenga alcuna utopia sociale a sostegno del
riformismo urbano preconizzato al puro livello formale.
La stessa introduzione alla voce Architecture, scritta
dal Quatremère de Quincy per VEncyclopédie métho-
dique, è un capolavoro di realismo, pur nei termini astratti
in cui si esprime.

Entre tous les arts — scrive il Quatremère — ces en-


fants du plaisir et de la nécessité, que l’homme s’est associés,
pour l’aider à supporter les peines de la vie et à transmettre
sa mémoire aux générations futures, ou ne saurait nier que
l'architecture ne doit tenir un rang des plus distinguer A ne
l’envisager que sous le point de vue de l'utilité, elle l’emporte
sur tous les arts. Elle entretient la salubrité dans les villes,
elle velile à la sante des hommes, elle assure leur propriétés,
elle ne travaille que pour la sureté, le repos, et le don ordre
de la vie civile7.

Il realismo illuminista non è smentito neppure dai


sogni architettonici a scala gigantesca di un Boullée o dei
pensionati dell’Académie. L’esaltazione dimensionale, la
depurazione geometrica, l’ostentato primitivismo, che co­
stituiscono le costanti di quei progetti, assumono un signi­
ficato concreto se letti alla luce di ciò che essi vogliono
essere: non tanto sogni irrealizzabili, quanto modelli
sperimentali di un nuovo metodo di progettazione.
Dal simbolismo sfrenato di Ledoux o di Lequeu al
silenzio geometrico della tipologia del Durand: il processo
seguito dall’architettura dell’illuminismo è conseguente
al nuovo ruolo ideologico da essa assunto. L’architettura
deve ridimensionare se stessa nell’entrare a far parte delle
strutture della città borghese, dissolvendosi nell’unifor­
mità assicurata da tipologie precostituite.
Ma tale dissoluzione non avviene senza conseguenze.
Chi porta al limite le intuizioni teoriche del Laugier è
il Piranesi: la sua ambigua rievocazione dell’lconographia
Campi Martii è il monumento grafico del dischiudersi
della cultura tardobarocca alle istanze delle ideologie rivo­
luzionarie, come il suo Parere sull’architettura ne è la più
tesa testimonianza letteraria8.

7 M. Quatremère de Quincy, voce Architetture, in Encyclo-


pédie méthodique, ecc., Paris 1778, T. I, p. 109.
8 Cfr. G. B. .Piranesi, Il Campo Marzio dell’antica Roma, ecc.,
Roma 1761-62; Id., Parere su l’architettura, allegato alle Osserva­
zioni ecc., Roma 1764; Werner Kòrte, G. B. Piranesi als praktischer
4rchitekt, « Zeitschrift fur Kunstgeschichte », II, 1933; R. Wittko-
ver, Piranesi’s « Parere su l’architettura », « Journal of thè Warburg
Institute », III, 1938, p. 2; Ulya Vogt-Góknil, Giovanni Battista
Piranesi’s « Carceri », Òrigo Verlag, Zurich 1958; Patricia May
Sekler, G. B. Piranesi’s Carceri: Etching and Related Drawings,
«The Art Quarterly », XXV, 1962, pp. 331-63; Maurizio Calvesi,
Nel Campomarzio piranesiano non v’è più alcuna
fedeltà al principio tardobarocco di varietà. Poiché l’anti­
chità romana non è solo un valore di riferimento carico
di nostalgie ideologiche e di attese rivoluzionarie, ma
anche un mito da contestare, ogni forma di classicistica
derivazione è trattata come mero frammento, come defor­
mato simbolo, come allucinato lacerto di un « ordine »
in macerazione.
L’ordine nel dettaglio non porta quindi al semplice
tumulte dans l’ensemble, bensì ad un mostruoso pullu­
lare di simboli privati di significato. La foresta pirane-
siana, come le sadiche atmosfere delle sue Carceri, dimo­
stra che non è solo il « sogno della ragione » a provocare
mostri, ma che anche « la veglia della ragione » può con­
durre al deforme: anche se l’obiettivo su cui essa punta
è il Sublime.
Si può attribuire un valore profetico al criticismo del
Campomarzio piranesiano. In esso, la punta più avan­
zata dell’illuminismo architettonico sembra avvertire con
accorata enfasi il pericolo imminente della perdita defi­
nitiva dell’organicità della forma: è l’ideale della totalità
e dell’universalità che è ormai entrato in crisi.
L’architettura può anche sforzarsi di mantenere una
compiutezza che la preservi dalla totale dissoluzione. Ma
quello sforzo è vanificato dall’assemblaggio dei pezzi archi­
tettonici nella città. È nella città, che quei frammenti
vengono spietatamente assorbiti e privati di ogni auto-

Introduzione alla nuova edizione del Piranesi del Focillon (Alfa,


Bologna 1967); John Harris, Le Geay, Piranesi and thè Interna­
tional Neo-Classicism in Pome, 1740-1750, in Essays in thè History
of Architecture presented to Rudolf Wittkower, Phaidon Press/
London 1967, pp. 189-96; Maria Grazia Messina, Teoria dell’archi-'
tettura in G. B. Piranesi, « Controspazio », 1970, n. 8/9, pp. 6-10,
e 1971, n. 6, pp. 20-8; Manfredo Tafuri, G. B. Piranesi: l’archi­
tettura come " utopia negativa ”, « Angelus Novus », 1971, n. 20,
pp. 89-127.
nomia; né a qualcosa vale il loro ostinarsi a voler assu­
mere articolate e composite configurazioni. Nell’/cowo
graphia Campi Partii si assiste ad una rappresentazione
epica della battaglia ingaggiata dall’architettura contro
se stessa: la tipologia viene affermata come istanza di
ordinamento superiore, ma la configurazione dei singoli
tipi tende a distruggere il concetto medesimo di tipolo­
gia; la storia viene invocata come immanente « valore »,
ma il paradossale rifiuto della realtà archeologica ne pone
in dubbio il potenziale civile; l’invenzione formale sembra
enunciare il proprio primato, ma l’ossessivo reiterarsi delle
invenzioni riduce l’intero organismo urbano ad una sorta
di gigantesca « macchina inutile ».
Il razionalismo sembra scoprire la propria irraziona­
lità. Nel voler assorbire tutte le proprie contraddizioni, il
« ragionamento » architettonico pone a proprio fonda­
mento la tecnica dello choc. I singoli frammenti architet­
tonici si urtano fra loro, indifferenti persino allo scontro,
e si accumulano dimostrando l’inutilità dello sforzo inven­
tivo messo in opera per definirne la forma.
La città permane un’incognita — dato che il Campo­
marzio piranesiano non inganna nessuno circa la propria
qualità di elaborazione sperimentale, nascosta dietro la
maschera archeologica — né l’atto di progettazione è
capace di definire nuove costanti di ordine. V’è solo
un assioma che scaturisce da tale colossale bricolage:
irrazionale e razionale debbono smettere di escludersi a
vicenda. Piranesi non possiede gli strumenti per tradurre
in forma la dialettica delle contraddizioni: deve limitarsi
quindi ad enunciare, enfaticamente, che il nuovo, grande
problema è quello dell’equilibrio degli opposti, che ha
nella città il suo luogo deputato: pena, la distruzione del
concetto stesso di architettura.
È, in sostanza, la lotta fra architettura e città, fra le
istanze dell’ordine e il dominio dell’informe, che assu-
me una tonalità epica nel Campomarzio del Piranesi. In
esso, la « dialettica dell’illuminismo » raggiunge un insu­
perato potenziale, ma, insieme, una tensione ideale così
violenta da non poter essere raccolta come tale dai contem­
poranei. L’eccesso piranesiano — come, sotto altri aspetti,
gli eccessi della letteratura libertina dell’età dei lumi —
diviene, in quanto tale, rivelazione di una verità: gli
sviluppi della cultura architettonica e urbanistica dell’illu­
minismo si affretteranno a coprirla.
Tuttavia, la scoperta della contraddizione come appi­
glio di salvezza, per una cultura condannata — l’espres­
sione è piranesiana9 — a costruire con materiali degra­
dati, trova, nell’opera del Piranesi stesso, una clamorosa
utilizzazione. E non tanto nel bricolage formale delle eclet­
tiche immagini architettoniche contenute nel Parere (qui,
anzi, la contraddizione è assorbita e ricomposta, è resa
inoffensiva), quanto nelle due redazioni delle Carceri.
È nelle Carceri, e, in particolare, nell’edizione del
1760, che Piranesi rivela la conseguenza della « perdita »
denunciata nel Campomarzio. La crisi dell’ordo, della
Forma, del classicistico concetto di Stimmung assume qui
connotati « sociali ». La distruzione del concetto stesso
di spazio, attuata nelle Carceri, si fonde con l’allusione
simbolica alla condizione nuova che si profila all’orizzonte
di una società che va compiendo un salto radicale (la
« romanità » di Piranesi si confronta sempre, infatti, con
una innegabile vocazione europeistica). Lo spazio della
costrizione — la carcere — è, nelle incisioni pirane-
siane, uno spazio infinito. Ciò che viene distrutto è il
« centro » di quello spazio: vale a dire, che al crollo
degli antichi valori, dell’antico ordine, corrisponde la
« totalità » del disordine. La raison, che attua quella
distruzione, sentita del resto come fatale dall’incisore

9 G. B. Piranesi, Parere su l’architettura cit., p. 2.


settecentesco, si traduce in irrazionalità. Ma le Carceri,
proprio perché infinite, coincidono con lo spazio dell’esi­
stenza umana. Le ermetiche scene disegnate da Piranesi,
nelle maglie delle sue composizioni « impossibili », lo
indiziano con estrema chiarezza. Il che vuol dire, che nelle
Carceri non possiamo vedere che la nuova condizione
esistenziale della collettività, liberata e dannata, a un tem­
po, dalla sua stessa ragione. E non è tanto una critica
reazionaria alle promesse sociali dell’illuminismo, che
Piranesi traduce in immagini, quanto una lucida previ­
sione di ciò che dovrà essere una società liberata dagli
antichi valori e dalle conseguenti costrizioni da questi
imposte.
Non si dà altra possibilità, ormai, che quella dell’alie­
nazione globale e volontaria, in forma collettiva. La costri­
zione è la nuova legge, con la quale è assurdo collo­
quiare: la resistenza a tale legge inesprimibile è pagata
con la tortura. Si veda la scena di tortura inserita nella
tavola II delle Carceri: non a caso, la figura del torturato
è quella di un essere superumano, intorno al quale si
affolla una massa indistinta. Nella società totalmente alie­
nata, il libertino seicentesco e settecentesco non ha più
scampo: il suo « eroismo » è condannato, con indifferenza,
da parte dello stesso incisore 10.
L’esperienza dell’angoscia fa, in Piranesi, la sua prima
apparizione in forma moderna. Siamo già, nelle Carceri,
in presenza di un’angoscia generata dall’anonimato del
soggetto e dal « silenzio delle cose ».

10 II Lopez-Rey ha osservato che nelle Carceri di Piranesi le


figure umane sono presenti più per permettere alle macchine di
tortura di funzionare, che per comunicare l’orrore del tormento:
è lo stesso autore, del resto, a istituire una relazione di contrasto
fra l’opera del Piranesi e quella di Goya. Cfr. José Lopez-Rey, Las
Càrceles de Piranesi, los prisioneros de Goya, in Scritti di Storia
dell’Arte in onore di Lionello Venturi, De Luca, Roma 1956,
voi. II, pp. 111-6.
Crediamo del resto evidente, che tale silenzio coin­
cida, per Piranesi, con quello del « segno ». Le immagini
e le forme sono ridotte — dopo l’eclissi del rococò,
rappresentata nei quattro Capricci del 1741 — a vuoti
segni: la sfera pura dell’altare del Priorato è in ciò
eloquente.
Ma un universo di vuoti segni è il luogo del totale
disordine. Non rimarrà dunque che utilizzare ciò che
nell’opera piranesiana è anticipazione angosciosa, come
nuovo sistema; il negativo che è in Piranesi riemergerà
solo a tratti, nell’esperienza architettonica dell’illumini­
smo, come subitaneo riaffiorare di un rimosso complesso
di colpa.
L’inerenza dell’ambiguità e del disordine alla città,
che verso la metà del XVIII secolo sta assumendo nuovi
ruoli rappresentativi nell’ambito dell’economia nazionale
(anche se il rapporto strutturale città-campagna non sarà
rivoluzionato che molto più tardi), è il concetto che pre­
siede la maggior parte dell’urbanistica del ’700. Ma è ben
difficile trovare, nei Wood, in Palmer, negli Adam, in
George Dance il giovane, in Karl Ludwig Engel, nel
L'Enfant, la coscienza del significato attribuito dal Pira­
nesi all 'eclissi della Forma, esperita nell’ambito urbano.
Pur tuttavia, il frammentismo urbano, introdotto al
livello ideologico dal Laugier, torna a farsi vivo nell’eclet­
tica teorizzazione del Milizia.

Una città è come una foresta — scrive questi nei suoi


Principi parafrasando quasi letteralmente il Laugier — onde
la distribuzione di una città è come quella di un parco. Ci
vogliono piazze, capo croci, strade in quantità spaziose, e
dritte. Ma questo non basta; bisogna che il piano ne sia
disegnato con gusto, e con brio, affinché, vi si trovi insieme
ordine, e bizzarria, Euritmia, e varietà: qui le strade si
partano a stella, colà a zampa d’oca, da una parte a spica,
dall’altra a ventaglio, più lungi parallele, da per tutto Trivj
e quadrivi, in diverse posizioni con una moltitudine di piazze
di figura, grandezza e di decorazione tutte differenti11.

Non v’è chi non veda l’influsso di un raffinato sen­


sismo nella proposizione successiva del Milizia: « chi
non sa variare i nostri piaceri, non ci darà mai piacere.
Vuol essere insomma un quadro variato da infiniti acci­
denti; un grand’ordine nei dettagli; confusione fracasso
e tumulto nell’insieme ».

La pianta della città — prosegue il Milizia 12 — va distri­


buita in maniera che la magnificenza del totale sia suddi­
visa in una infinità di bellezze particolari, tutte sì differenti,
che non si riscontrino giammai gli stessi oggetti, e che percor­
rendola da un capo all’altro si trovi in ciascun quartiere qual­
che cosa di nuovo, di singolare, di sorprendente. Deve re­
gnarvi l’ordine, ma fra una specie di confusione [...] e da
una moltitudine di parti regolari deve risultare nel tutto una
certa idea di irregolarità e di caos, che tanto conviene alle
Città grandi.

Ordine e caos, regolarità ed irregolarità, organicità e


disorganicità. Siamo ben lontani, qui, da quel precetto
tardobarocco di unità nella varietà, che nel pensiero dello
Shaftesbury aveva assunto intonazioni mistiche.
Il controllo di una realtà disorganica, da attuare
agendo su quella disorganicità non per mutarne la strut­
tura, bensì per far emergere da essa una complessa rosa

11 F. Milizia, Principi di architettura civile, Lassano 18133,


voi. II, pp. 26-7. Si noti, però, che anche questo passo, come quasi
tutta l’opera del Milizia, è frutto di un vero e proprio plagio: le
idee del Laugier sono infatti qui riprese, in una evidente parafrasi.
A noi, comunque, il testo del Milizia interessa come documento
della diffusione assunta, nel corso del '700, dalla teoria della
« città naturalistica ».
12 Ivi, p. 28.
di compresenti significati: questa è l’istanza che gli scritti
di Laugier, del Piranesi, del Milizia, e — più tardi e con
toni moderati — quelli del Quatremère de Quincy intro­
ducono nel dibattito architettonico.
Ma subito si ergono, contro tali ipotesi, le istanze
di un rigorismo tradizionale. Giovanni Antolini, nel com­
mentare i Principi del Milizia non manca di lanciare i
suoi strali contro le intuizioni del teorico pugliese, difen­
dendo l’autorità vitruviana e l’esemplificazione ideale fat­
tane dal Galiani; contro l’esaltazione dell’empiria e del
« Pittoresco » dei Wood e di Palmer a Bath, dei Crescents
di Edimburgo, del piano del 1807 per Milano, si erge il
rigorismo razionalista dei progetti del Gwynn per Londra,
della Bari murattiana, della nuova Pietroburgo, della
nuova Helsinki.
Ai fini della nostra analisi, ha uno speciale interesse
l’opposizione ideale che intercorre fra l’Antolini e i mem­
bri della commissione del piano napoleonico per Milano.
Questi ultimi accettano di impostare una dialettica
con la struttura della città, così come questa si era venuta
a configurare nella storia. Solo, che essi danno implicita­
mente un giudizio su di essa. In quanto prodotto di
forze ed eventi determinati dal pregiudizio, dal mito,
dalle strutture feudali o controriformiste, il complesso
tessuto storico del centro lombardo è per loro qualcosa
da rendere razionale, da chiarire nelle sue funzioni e nella
sua forma, da valutare anche, acciocché dallo scontro fra
le antiche preesistenze — luoghi deputati dell’oscuranti­
smo — e i nuovi tagli e interventi — luoghi deputati
della clarté delle lumières — emerga evidente ed ope­
rante nella vita civile una scelta, cui corrisponda una
chiara ed inequivocabile ipotesi circa il destino e la strut­
tura fisica della città.
Non è casuale che l’Antolini sia all’opposizione, nella
vicenda del piano napoleonico. Se la commissione napo-
Iconica accetta in qualche modo il colloquio con la città
storica e diluisce nel suo tessuto l’ideologia che ne infor­
ma gli interventi, l’Antolini si rifiuta a tale colloquio.
Il suo progetto per il Foro Bonaparte è, allo stesso tempo,
un’alternativa radicale alla storia della città, un simbolo
carico di valori ideologici assoluti, un luogo urbano che,
come presenza totalizzante, si propone il fine di mutare
finterà struttura urbana recuperando, per l’architettura,
un ruolo comunicativo di valore perentorio 13.
L’antitesi non è contingente: essa coinvolge l’intera
considerazione circa i ruoli comunicativi della città. Per
la Commissione del 1807 la protagonista dei nuovi mes­
saggi ideali e funzionali è la struttura urbana in quanto
tale.
Per l’Antolini, al contrario, la ristrutturazione della
città va compiuta introducendo nella trama dei suoi con­
traddittori valori un luogo urbano dirompente, capace di
irradiare effetti indotti che rifiutino ogni contaminazione:
la città, come universo di discorso o come sistema di
comunicazioni, si riassume per lui in un « messaggio »
assoluto e perentorio.
Ecco già delineate le due vie dell’arte e dell’archi­
tettura moderne.
È la dialettica immanente all’intero decorso dell’arte
moderna, infatti, che sembra opporre fra di loro chi tenta
di scavare fin nelle viscere stesse del reale per conoscerne
ed assumerne valori e miserie, e chi vuole spingersi al
di là del reale, chi vuole costruire ex novo nuove realtà,
nuovi valori, nuovi simboli, pubblici.

13 Cfr. G. Antolini, Descrizione del Foro Bonaparte, presentato


coi disegni al comitato di governo della Repubblica Cisalpina etc.,
Milano 1802; A. Rossi, Il concetto di tradizione nell’architettura
neoclassica milanese, « Società », XII, 1956, n. 2, pp. 474-93;
G. Mezzanotte, L’architettura neoclassica in Lombardia, Esi, Na­
poli 1966.
Ciò che divide la Commissione napoleonica dall’Anto-
lini è la stessa opposizione che separerà Monet da Cé-
zanne, Munch da Braque, Raoul Hausmann da Mondrian,
Hàring da Mies, Rauschenberg da Vasarely.
Fra la « foresta » del Laugier e l’aristocratico riserbo
dell’Antolini, si situa una terza via, destinata a divenire
la protagonista di un nuovo modo di intervento e con­
trollo della morfologia urbana. Il piano di L’Enfant per
Washington o quelli elaborati per Jeffersonville, Jackson
e Missouri City, ispirati alle teorie urbanistiche di Jefferson,
agiscono con strumenti nuovi rispetto ai modelli europei14.
È importante però sottolineare, che l’ideologia natu­
ralistica trova, nell’America del ’7Ó0, un campo propria­
mente politico di esplicazione. È Jefferson a riconoscere
con estrema lucidità il valore istituzionale e pedagogico
dell’architettura.
Il richiamo al Classicismo, al palladianesimo, allo
sperimentalismo inglese 15 è per Jefferson niente altro che
dimostrazione del fatto che la raison dell’illuminismo
europeo si è fatta, con la Rivoluzione americana, guida
pratica alla « costruzione della Democrazia ». Con mag­
giore effettualità di ogni altro protagonista dell’arte euro­
pea politicamente impegnata, egli ha così modo di svolgere
il proprio compito di organizzatore della cultura in opera­
zioni « ufficiali »r vedi i suoi interventi di consulenza per

14 Sull’attività urbanistica di Jefferson, si veda il saggio di


John Reps, Thomas Jefferson’s Checkerboard Towns, «Journal
of thè Society of Architectural Historians », XX, 1961, n. 3,
pp. 108-14.
15 Vedi l’influenza, sull’architettura di Jefferson, del volume
di Robert Morris, Select Architecture, London 1755. Cfr. Clay Lan-
caster, Jefferson's Architectural Indebtedness to Robert Morris,
« Journal of thè Society of Architectural Historians », X, 1951,
n. 1, pp. 2-10, e T. H. Waterman, Thomas Jefferson. His Early
Works in Architecture, « Gazette des Beaux-Arts », XXIV, 1943,
n. 918, pp. 89-106.
il piano di Washington, per la progettazione della Casa
Bianca, del Campidoglio o per il restauro del palazzo del
Governatore a Williamsburg e, in genere, la sua attività
architettonica 16.
È in tale ambito che va considerata anche la sua poli­
tica agraria e antiurbana.
Contro lo Hamilton, che persegue lucidamente e fred­
damente un’opera di accelerazione dello sviluppo del capi­
tale finanziario e industriale americano, dando compi­
mento economico alla svolta politica iniziata con la rivo­
luzione antiinglese, Jefferson è fedele a una Democrazia
arrestata al livello dell’utopia.
L’economia agricola, le autonomie locali e regionali
elette a cardini del sistema democratico, il freno opposto
allo sviluppo delle industrie hanno per Jefferson un
esplicito significato: sono sintomi della sua paura di
fronte ai processi che la Rivoluzione stessa aveva messo
in moto; della paura, in sostanza, dei pericoli di involu­
zione, di traduzione della Democrazia in un nuovo auto­
ritarismo, a causa della competizione capitalista, degli
sviluppi urbani, della nascita e della crescita del prole­
tariato urbano.
In questo senso, Jefferson è contro la città e contro
lo sviluppo dell’economia industriale; è questa la ragione

16 Su Jefferson architetto cfr. Fiske Kimball, Thomas Jeffer­


son Architect, Boston 1916, ristampa Da Capo Press, New York
1968; I. T. Frary, Thomas Jefferson, Architect and Builder, Garret
and Massie, Richmond 1939; Frederick Doveton Nichols, Thomas
Jefferson’s Architectural Drawings, Massachusetts Historical So­
ciety, Memorial Foundation, University of Virginia Press, 1961;
James S. Ackerman, Il presidente Jefferson e il palladianesimo ame­
ricano, « Bollettino del centro studi A. Palladio », VI, 1964, par­
te II, pp. 39-48. Un completo repertorio bibliografico, aggiornato
al 1959, è raccolto nel volume di William B. O’ Neal, A Checklist
of Writings on Thomas Jefferson as an Architect, The American
Associamoli of Architectural Bibliographers, 1959.
per la quale egli tenta di impedire alla Democrazia di
tradursi nelle sue logiche conseguenze economiche.
Con lui nasce l’« America radicale », nasce, anzi, la
coscienza ambigua degli intellettuali americani, che si rico­
noscono nei fondamenti del sistema democratico e si
oppongono al suo manifestarsi concreto.
A questa stregua, quella di Jefferson è di nuovo
un’utopia, anche se non più come avanguardia bensì come
retroguardia. (Si noti, per inciso, l’affinità ideologica esi­
stente fra la cultura di Jefferson e quella di Frank Lloyd
Wright, su cui si sono soffermati critici come il Fitch e
10 Scully)17.
La democrazia agraria deve quindi celebrare se stessa,
ponticello, la villa-fattoria progettata e costruita da Jef­
ferson per se stesso a più riprese (dal 1769 ca. in poi), è
11 monumento all’utopia agraria. Anche a ponticello i
modelli palladiani, scamozziani e morrisiani vengono uti­
lizzati pragmatisticamente. In luogo delle barchesse late­
rali abbiamo qui due ali di servizi coperte a terrazza,
confluenti verso il nucleo residenziale che spicca nella sua
veste di villa-tempio. Ma sullo schema geometrico si inne­
sta tutta una serie di invenzioni tecnologiche e funzio­
nali, che mostrano l’intento di integrare il Classicismo
alle esigenze « moderne », di dimostrare tutta la sua
disponibilità a un concreto uso civile e sociale (è stato
notato, ad esempio, che a ponticello Jefferson anticipa,
con la sua netta distinzione di spazi di servizio e spazi

17 Cfr. James Marston Fitch, Architecture of Democracy: Jef­


ferson and Wright, in Architecture and thè Esthetics of Plenty,
Columbia University Press, New York-London 1961, pp. 31 sgg.;
Vincent Scully, American Architecture and Urbanism, Thames and
Hudson, London 1969, trad. it. Officina, Roma 1971; Id., American
Houses: Thomas Jefferson to Frank Lloyd Wright, nel volume di
AA.VV., The Rise of an American Architecture, The Metropolitan
Museum of Art, New York and Pali Mail Press, London 1970,
pp. 163 sgg.
serviti, un tema che sarà tipico del primo Wright e di
Kahn).
In altri progetti architettonici, Jefferson porta avanti
il proprio programma: si veda i disegni per le ville di
Battersea, di Farmington nel Kentucky18, di Poplar
Forest, in cui l’uso di una geometria combinatoria basata
su poligoni composti e intersecati — secondo una sin­
tassi riconosciuta dal Lancaster come derivata dallo studio
dell’opera grafica del Morris 19 — assume un valore anti­
ciparono rispetto alla, riduzione del linguaggio alla pura
geometria (in un’accezione del tutto antisimbolica, dun­
que) che sarà il punto di arrivo del dibattito dell’illumi­
nismo architettonico in Europa (cfr. l’opera didattica del
Durand e del Dubut).
L’aspetto eroico del Classicismo viene quindi accet­
tato da Jefferson come mito europeo da « rendere »
americano (rimane per questo valida la spregiudicatezza
della sua applicazione). Ma nel suo presentarsi come
Valore, come Ragione costruita, come capace di riuni­
ficare gli ideali divergenti della composita società dei
giovani Stati Uniti, esso dovrà presentarsi anche come
valore accessibile, diffondibile, sociale.
L’utopia di Jefferson architetto si traduce tutta nel-
l’« eroismo domestico » del suo Classicismo. I valori (leg­
gi: l’immagine della Ragione) vanno « importati » già
elaborati dall’Europa, in tutta la loro carica celebrativa,
ma subito dopo spogliati di quanto rischia di isolarli dalla
vita civile: in altre parole, della loro « aura » inaccessibile.
Si veda come Jefferson opera nel progettare il nuovo
Campidoglio di Richmond. Con la consulenza dell’archi­
tetto francese Clérisseau — Jefferson si trova nel 1784

18 Cfr. F. Kimball, Jefferson’s Designs for two Kentucky


Houses, « Journal of thè Society of Architectural Historians »,
IX, 1950, n. 3, pp. 14-6.
19 Cfr. Clay Lancaster, op. cit.
in Francia — egli rielabora il modello della Maison
Carrée di Nimes, cui viene solo mutato l’ordine delle
colonne esterne (da corinzie a ioniche), e invia il rilievo
in America. Il Campidoglio di Richmond viene così a
recepire un valore ready-made in Europa, adattato a cele­
brare le nuove istituzioni democratiche, rese « sacre » dal
Tempio sociale del Campidoglio (poi assunto come mo­
dello costante di riferimento e replicato più volte: cfr. il
Girard College di Th. Walter, la Banca di Pennsylvania
di Latrobe, le opere di Strickland, ecc.).
Il nuovo e una visione tutta empirica dell’antico ten­
tano così una fusione. Jefferson propone di mantenere
in vita la « resurrezione dei morti » — per usare le
parole di Marx20 — utilizzata nella crisi rivoluzionaria
dall’illuminismo europeo. Il che è trasparente nella sua
programmazione dell’università della Virginia a Charlot­
teville, per la quale egli usufruisce della consulenza del
Thornton e di Latrobe (1817-26). Il campus universitario
dovrà essere — secondo lo Statuto jeffersoniano — un
« villaggio accademico »: l’ideologia agraria si rovescia tutta
nel programma pedagogico. Organizzata su uno schema ad
U aperta, convergente sulla biblioteca cupolata centrale,
l’università si fraziona in una serie di padiglioni staccati,
veri e propri nuclei didattici autosufficienti, completi di
residenze accademiche e riunificati da un portico continuo.
Ordine e libertà cercano nell’organizzazione formale la
loro integrazione: i padiglioni, tutti diversi fra loro,
dimostrano l’estrema flessibilità della tipologia classicista
(non a caso i muri divisori dei giardini interposti fra i
nuclei didattici e le residenze assumono una forma ondu­
lata, stupefacente per la sua spregiudicatezza formale),
mentre il rigore dell’impianto generale e della rotonda

20 Karl Marx e F. Engels, Il 1848 in Germania e in Francia,


Editori Riuniti, Roma 19482, pp. 257-9.
finale alludono esplicitamente alla stabilità, alla perma­
nenza, all’assolutezza delle istituzioni.
Jefferson produce così una prima eloquente imma­
gine di quello che sarà lo sforzo più drammatico com­
piuto dagli intellettuali dell’America « radicale »: com­
pensare la mobilità dei valori e la stabilità dei princìpi,
lo slancio individuale — sempre stimolato al limite del­
l’anarchia o della nevrosi — e la dimensione sociale. Esat­
tamente la contraddizione irrisolta che il Tocqueville
denuncerà nel suo La Démocratie en Amérique (1835-40)
come il pericolo incombente sul nuovo ordinamento demo­
cratico.
Rimane comunque accertato, che al livello 'sarchitet­
tonico e a quello urbanistico l’ideologia agraria jefferso­
riana non potrà che registrare — malgrado l’immensa
carica di ottimismo che essa presuppone e la sua totale
opposizione a ogni dubbio polemico — che ormai l’unico
modo corretto per « usare » l’ideologia europea della
Ragione è riconoscere che l’utopia (il Classicismo archi­
tettonico o la democrazia antifederale e antiurbana), deve
rinunciare, a questo livello, a presentare come avanguar­
dia. Il che è del tutto evidente nella vicenda della piani­
ficazione di Washington e negli sviluppi del movimento
City Beautiful.
Nella progettazione di Washington, il programma ideo­
logico jefiersoniano è subito recepito da L’Enfant: fondare
una capitale traduce visivamente la « fondazione » di un
« mondo nuovo », corrisponde a una scelta unitaria, a
una decisione, a una « libera scelta », che fino ad allora
nessuna volontà collettiva aveva potuto avanzare in Eu­
ropa. La forma della nuova città assume logicamente,
in tale quadro, un significato primario e prevalente: essa
dovrà parlare delle scelte politiche compiute, approprian­
dosi dei modelli disponibili della cultura e della prassi
urbanistica europee. Anzi, dovrà innestare quei modelli
3 In alto: veduta della città di Washington dalla sponda meridio­
nale dell’Anacostia River, 1834. In centro e in basso: veduta pro­
spettica e planimetria del progetto per la sistemazione del centro
di Washington, elaborato dalla Senate Park Commission, 1902.
sulla tradizione urbana americana. Non a caso, L’Enfant
disegna un piano che vede sovrapporsi lo schema del
quadrillage coloniale a quello, allora di avanguardia, mu­
tuato dal giardino francese lenótriano, dal piano del Wren
per la City di Londra, dalla Karlsruhe settecentesca, dalla
fantastica Parigi del Patte.
La città è realmente nuova natura, nella Washington
di L’Enfant. I modelli della cultura dell’assolutismo e del
dispotismo europei sono ora espropriati dalla capitale
delle Istituzioni democratiche, e tradotti in una dimen­
sione sociale certo ignota alla Versailles di Luigi XIV
(ed è anche significativo che mentre Washington viene
realizzata, la city wreniana sia rimasta una pura istanza
culturale, per difetto di strumenti amministrativi).
I fermenti già vivi nei piani delle città, seicentesche
di Annapolis e Savannah possono ora essere integrati fra
loro, e trasportati a un livello eloquente al cospetto del
mondo, anche per le sue dimensioni fisiche. All’interno
del doppio reticolo a maglie ortogonali e radiali (della
foresta urbana, cioè, della natura, resa oggetto di uso
civile) le quindici piazze, allegorie dei quindici stati del-
l’Unione, creano altrettanti poli di sviluppo, mentre la
divisione fra potere legislativo e potere esecutivo diviene
f immagine concreta nella struttura a " L " dei due assi
che, partendo dalla Casa Bianca e dal Campidoglio, si
intersecano nel monumento a G. Washington (progettato
da Robert Mills, autore anche dell’edificio del Tesoro,
ma realizzato poi in forma di geometrico e metafisico
obelisco): il collegamento fra i due poli funzionali e
simbolici della nuova capitale è assicurato dall’obliqua
arteria della Pennsylvania Avenue21.

2L Sulla storia urbana di Washington, si veda il documentato


volume di John W. Reps, Monumentai 'Washington. The Planning
and Development of thè Capital Center, Princeton University
Press, Princeton 1967, recensito criticamente da Stanley M. Sher-
Allontanato L’Enfanr per contrasti causati dalla sua
pretesa di controllare rigorosamente e dispoticamente gli
sviluppi della città, (si noti che Jefferson è contrario sin
dall’inizio al piano magniloquente dell’architetto francese),
Washington inizia la sua vita, raggiungendo nel 1800 i
3000 abitanti: viaggiatori europei come Trollope e
Dickens l’ammirano, ma la nuova città è ancora un com­
promesso fra l’ideologia antiurbana jeffersoniana — dimen­
ticata dallo statista solo provvisoriamente, e a favore della
creazione di un luogo simbolico in cui l’idea dell’Unione
possa dispiegarsi totalmente — e la grandeur di L’Enfant.
La disponibilità del piano è compensata e confermata dai
punti fermi che ne strutturano l’immagine: né è senza
ragione che la città meno economicamente necessaria
dell’America sia anche la più « configurata ».
Anzi, il Classicismo che ne domina forma, sviluppi e
luoghi monumentali, risponde, nella sua atemporalità,
al programma ideologico di Jefferson. In Washington,
vive il richiamo, tutto nostalgico, ai valori europei, con­
centrati proprio nella capitale di una società che si va
orientando, con la sua corsa verso lo sviluppo economico
e industriale, verso la distruzione concreta, reale, moti­
vata, di quei valori.
Washington costituisce così una sorta di « cattiva
coscienza » americana, che può però convivere con le
fredde e ferree leggi dello sviluppo industriale: il prezzo
è che, in quanto monumento, essa mostri di continuo e
senza infingimenti la propria inattualità.

man, in « Journal of thè Society of Architectural Historians »,


1969, voi. XXVIII, n. 2, pp. 145-8. Cfr. anche Elbert Peets, The
Genealogy of thè Pian of Washington, ivi, 1951, voi. X, n. 2,
pp. 3-4, e i due volumi di Constance McLaughlin Green, Wash­
ington: Village and Capital, 1800-1878, e Washington: Capital
city, 1879-1950, Princeton University Press, Princeton 1962 e 1963.
Per questo, dopo i falliti tentativi di definizione natu­
ralistica e romantica del Mail, da parte dell’architetto-
paesaggista Andrew Jackson Downing (dal 1850 in poi),
dopo le più realistiche iniziative speculative di Alexander
Robey Shepherd, dal 1871 al 1873, che tenta di intro­
durre nel piano la dimensione dilatata della Parigi hauss-
manniana, dopo i progetti di Theodor Bingham, Samuel
Parsons junior e Cass Gilbert, per il Potomac Park e il
Mail (1900), e sotto l’influsso dell’esposizione Colom­
biana di Chicago (1893), sarà il piano della Park Com-
mission che riprenderà e porterà a compimento, con una
continuità significativamente soprastorica, l’idea originaria
di L’Enfant. (La Park Commission, costituita nel 1900
dal senatore McMillan con il consiglio del suo segretario
Charles Moore, è formata da Daniel Burnham, Charles
McKim e Frederick Law Olmsted junior.)
Il modello è ancora l’Europa « accademica »: Burnham
e soci compiono un lungo viaggio di studio analizzando
le sistemazioni urbane di Vienna, Budapest, Parigi, Roma,
Francoforte e Londra. Tutti i programmi del movimento
City Beautiful si riversano nella sistemazione del cuore
rappresentativo di Washington; anzi, è proprio qui che
quei programmi si rivelano in tutto adeguati. La Park
Commission deve portare a compimento non una città
disponibile e strumentale al business, bensì un simbolo
collettivo volutamente astratto, un’ideologia realizzata in
immagini urbane, l’allegoria di un ordinamento politico
che vuole, ora, presentarsi immobile nei princìpi, quanto
in rapida e mobile evoluzione nelle conseguenze socioeco­
nomiche. Washington, in quanto città, incarna l’immo­
bilità e la convenzionalità di quei princìpi, presentati ora
come astorici: a New York, a Chicago e a Detroit sono
riservate parti di protagoniste dello sviluppo. (Ciò anche
se Burnham e gli urbanisti della City Beautiful tentano
di interpretare la nuova dimensione di quelle città in
termini di valore formale: in realtà essi stanno antici­
pando, al livello della più astratta e ingenua sovrastrut-
turalità, le esigenze di un controllo unitario dello sviluppo).
Il progetto della Park Commission per il Mail è espo­
sto nel 1902 e solleva un enorme interesse da parte del
pubblico. Già allo stato di piano esso realizza il suo
obiettivo: presentarsi come il punto fermo degli Stati
Uniti, come simbolo per eccellenza della scelta popolare
che ha dato vita all'Unione. Le due prospettive all’infi­
nito, convergenti sulla zona — opportunamente siste­
mata con una serie di terrazzamenti — del monumento
a Washington, sono concluse dai Memorials a Jefferson
e a Lincoln, realizzati il primo nel 1930 ca. (arch. J. Russel-
Pope, e poi, Eggers and Higgins), il secondo da Henry
Bacon dal 1912 in poi. Le sistemazioni della Park Com­
mission e i due Memorials (il piano per la sistemazione
definitiva della Pennsylvania Avenue sarà presentato solo
nel 1964 dallo studio Skidmore, Owings e Merrill) sono
indici eloquenti delle scelte compiute.
Il Classicismo che li informa è integrale, non mediato
o compromissorio come avviene — negli anni ’20-’40 —
nell’area della cultura accademica europea. Senza inibi­
zioni, esso mostra che, per l’idea dell'Unione, la storia
si è fermata. La scala smisurata delle sistemazioni rinun­
cia di proposito a misurarsi con il singolo. Qui interessa
la dimensione pubblica, sociale, mondiale, come unica
protagonista: la Ragione fattasi Democrazia deve enun­
ciare al mondo i princìpi astratti della pax americana.
Ciò spiega perché si sia rinunciato — nel 1902, come
negli anni '30 o negli anni '60 — ad utilizzare, per la
capitale degli USA, gli apporti della cultura architetto­
nica e urbanistica di avanguardia. Washington tende a
sottolineare in tutti i modi la propria distanza (non la
propria estraneità) dai piani di sviluppo. In essa si con­
centra, in un Olimpo senza tempo perché indiscutibile,
antidialettico, tutto « positivo », l’ansia della società ameri­
cana in cerca di radici.
La rappresentazione della stabilità dei valori può
così presentarsi quale essa è: un’aspirazione convenzionale
ma reale, cui è necessario dare soddisfazione, tenendola
accuratamente distanziata dalle forze che premono nel
senso dello sviluppo, del continuo aggiornamento e rivo­
luzionamento tecnologico.
Valori, stabilità, forma sono così presentati come
oggetti irreali, ma divenuti materia. Essi sono simboli
della nostalgia americana per Valtro da sé, termini di
riferimento per una società di continuo terrificata dai
processi che essa ha messo in moto e che — purtutta-
via — essa stessa presenta come irreversibili. Il Classi­
cismo, come ideale di una Ragione incontaminata, si
presenta quindi coscientemente in tutto il suo carattere
di retroguardia. Ciò accade a Washington nel corso di
tutto il nostro secolo, ma riappare, in modo sotterraneo,
all’interno di tutta la cultura americana, per sfociare nella
architettura che il Kallmann ha definito dei « rigoristi
della composizione » — di Louis Kahn, dello stesso Kall­
mann, di Giurgola, di Johanssen — che fra il 'IO e il ’60
hanno potuto presentare le proprie aspirazioni alla forma
come aspirazioni eversive, « anticonsumistiche ». La cat­
tiva coscienza dell’America radicale, da Jefferson a Kahn,
si ripiega su se stessa in un patetico omaggio a valori
inoperanti.
Ma di fronte alla vicenda di Washington, è quella,
tutta antitetica, di New York.
È stato già e più volte analizzato il rapporto che lega
il pragmatistico schema di sviluppo della New York piani­
ficata dalla commissione del 1811 alla struttura dei valori
4 Frederick Law Olmsted, piano del sistema dei parchi di Buffalo,
in relazione al piano degli sviluppi urbani, 1876.
tipica della società statunitense sin dal suo primo affer­
marsi, per dover qui riprendere l’esame di questo tema22.
Mettersi esplicitamente dalla parte delle forze che
provocano il mutamento morfologico nella città, control­
landole con un atteggiamento pragmatista del tutto estra­
neo alla cultura europea, è il grande merito storico del
disegno urbano adottato dall’urbanistica americana sin
• dalla seconda metà del ’700.
L’uso di una maglia regolare di arterie di scorrimento
come semplice e flessibile supporto, per una struttura
urbana di cui si vuole salvaguardare la continua mute­
volezza, realizza l’obiettivo che la cultura europea non era
riuscita a raggiungere. L’assoluta libertà concessa al sin­
golo frammento architettonico si situa esattamente, qui,
in un contesto che non viene condizionato formalmente
da esso. La città americana giunge ad attribuire il mas­
simo di articolazione agli elementi secondari che la confi­
gurano, mantenendo rigide le leggi che la governano come
insieme.
22 Cfr. L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, Laterza,
Bari 19714; M. Manieri-Élia, L’architettura del dopoguerra in USA,
Cappelli, Bologna 1966. « Alla scala urbanistica — scrive Manieri
a proposito del piano per la città di New York del 1807 — ci
sembra che l’atteggiamento puritano e ‘ antiarchitettonico ’ com­
baci bene col senso di individualismo libertario jeffersoniano, per
il quale il sistema, come è evidentissimo nella Dichiarazione d’in­
dipendenza [...], consiste in un supporto funzionale il meno in­
gombrante possibile: se il governo non deve essere che uno stru­
mento elastico e modificabile in ogni momento a servizio degli ina­
lienabili diritti umani, a maggior ragione un piano regolatore deve
dare la massima garanzia di elasticità e deve presentare una minima
resistenza all’iniziativa produttiva » (op. cit., pp. 64-6). Cfr. inoltre
l’eccezionale documentazione sulla formazione delle città americane,
contenuta in J. W. Reps, The Making of Urhan America, Princeton
University Press, Princeton 1965. Su Washington, esempio clamo­
roso di continuità fra l’ideologia illuminista e l’europeismo del
movimento City Beautiful, nell’America fra il 1893 e il 1920 circa,
si veda: J. W. Reps, Monumentai Washington, cit. Cfr. anche:
Albert Fein, The American City: thè Ideal and thè Reai, in The
Rise of an American Architecture, cit., pp. 51-112.
Urbanistica e architettura sono finalmente scisse. Il
geometrismo del piano non vuole, a Washington, come
prima a Philadelphia e, più tardi, a New York, trovare
una corrispondenza architettonica nelle singole forme degli
edifici. A differenza di quanto accade a Pietroburgo o a
Berlino, l’architettura è libera di esplorare i più diversi
e distanti campi di comunicazione. Al sistema urbano è
riservato il compito di esprimere il grado di fungibilità
di tale libertà figurativa. O, meglio, di assicurare, con
la sua rigidità formale, una dimensione stabile di riferi­
mento. In tal modo, la struttura urbana esalta un’incre­
dibile ricchezza espressiva, che, specie dalla seconda metà
dell’800 in poi, si deposita nelle libere maglie delle città
statunitensi: l’etica liberista si incontra con i miti pio­
nieristici.
2. La forma come utopia regressiva

Ciò che per ora risulta dalla sommaria analisi delle


esperienze e delle anticipazioni della cultura architetto­
nica settecentesca, è la crisi — scoperta proprio prendendo
coscienza del problema della città come autonomo campo
di intervento — del tradizionale concetto di forma (l’ex­
cursus storico relativo alla vicenda di Washington rien­
tra perfettamente in tale quadro).
Disarticolazione della forma e antiorganicità della strut­
tura: già agli inizi dell’architettura dell’illuminismo si
giunge a postulare uno dei cardini su cui si articolerà il
percorso dell’arte contemporanea. Né è indifferente che
l’intuizione di questi nuovi valori formali sia legata sin
dall’inizio al problema della nuova città, che si prepara
a divenire il luogo istituzionale della moderna società
borghese.
Ma le istanze teoriche di revisione dei princìpi formali
non conducono tanto ad una vera e propria rivoluzione
di significati, quanto ad un’acuta crisi di valori. Le nuove
dimensioni presentate dai problemi della città industriale,
nel corso dell’800, non faranno che acuire quella crisi,
di fronte alla quale l’arte si troverà in difficoltà nel
trovare le vie adeguate a seguire gli sviluppi della realtà
urbana.
D’altro lato, quella frantumazione dell’organicità della
forma si concentra nell’operazione architettonica, senza
riuscire a trovare uno sbocco nella dimensione cittadina.
Quando nell'osservare un « pezzo » di architettura di epoca
vittoriana si è colpiti dall’esasperazione dell’« oggetto »,
che viene lì compiuta, troppo raramente si tiene presente
che eclettismo e pluralismo linguistico rappresentano, per
gli architetti dell’800, la giusta risposta ai molteplici
stimoli disgregatori indotti dal nuovo ambiente configu­
rato dall’« universo della precisione » della realtà tecno­
logica.
Il fatto che l’architettura non sappia rispondere
che con un confuso « press’a poco » a quell’« universo
della precisione » non deve stupire. In realtà, è la strut­
tura urbana, e proprio in quanto registrazione dei conflitti
che sono il teatro di quella vittoria del progresso tecno­
logico, che muta violentemente di dimensione, configu­
randosi come aperta struttura, in cui diviene utopistico
ricercare punti di equilibrio.
Ma l’architettura, almeno secondo la concezione tradi­
zionale, è una struttura stabile, dà forma a valori perma­
nenti, consolida una morfologia urbana.
Per chi vuole spezzare tale concezione tradizionale, e
legare l’architettura al destino della città, non rimane
che concepire la città stessa come il luogo specifico della
produzione tecnologica e prodotto tecnologico essa stessa,
riducendo l’archiìettura a semplice momento di una cate­
na produttiva.
Eppure, in qualche modo, la profezia piranesiana
della città borghese come « macchina assurda » è realiz­
zata nelle metropoli che si organizzano, nell’800, come
strutture primarie dell’economia capitalista.
Lo « zoning » che presiede gli sviluppi di quelle
metropoli non si preoccupa — in un primo tempo — di
mascherare il proprio carattere di classe. Gli ideologi di
estrazione radicale o umanitaria possono ben mettere in
luce l’irrazionalità della città industriale, ma dimenticano
(non a caso) che quell’irrazionalità è tale solo per un
osservatore che voglia illudere se stesso di essere au dessus
de la mèlée. L’utopismo umanitario e le critiche radicali
hanno un effetto imprevisto: convincono la borghesia pro­
gressista a porsi in proprio il tema dell’accordo fra razio­
nalità e irrazionalità.
Per tutto ciò che si è detto, questo tema appare intrin­
seco al formarsi dell’ideologia urbana. Esso è inoltre
familiare, preso in astratto, alla cultura figurativa otto­
centesca, dato che all’origine medesima dell’eclettismo
romantico è il riscatto dell’ambiguità come valore critico
in senso proprio: esattamente l’ambiguità portata dal
Piranesi al suo massimo livello.
Ciò che al Piranesi permette di mediare la terrificante
profezia dell’eclissi del sacro con nostalgie primitivistiche
e fughe nella dimensione del Sublime è anche ciò che
permette all’eclettismo romantico di farsi interprete della
spietata concretezza della mercificazione dell’ambiente
umano, immergendo in esso parcelle di valori già del tutto
consumati e presentati così com’essi sono, afoni, falsi,
contorti su se stessi: come per dimostrare che nessuno
sforzo soggettivo può ormai recuperare un’autenticità
perduta per sempre.
L’ambiguità ottocentesca è tutta nell’esibizione sfre­
nata di una falsa coscienza, che tenta un ultimo riscatto
etico esibendo la propria inautenticità. Se il collezionismo
è il segno e lo strumento di tale ambiguità, la città ne
è il campo specifico. La pittura impressionista, nel ten­
tarne il riscatto, dovrà porsi, non casualmente, in un
osservatorio calato nella struttura urbana, ma distanziato
dai suoi significati dalle sottili deformazioni di lenti che
mimano un oggettivo distacco scientifico.
Se le prime risposte politiche a tale situazione affon­
dano le loro radici nel riscatto di un utopismo tradizio-
5 II transetto del Chrystal Palace a Londra (1851), in un’incisione
ottocentesca.
naie, di cui l’illuminismo sembrava aver fatto ragione,
le risposte specifiche dei metodi di comunicazione Visiva
introducono un nuovo tipo di utopismo: l’utopia impli­
cita nei fatti realizzati, nella concretezza delle « cose »
costruite e verificabili.
È per questo che l’intero filone dell’utopismo poli­
tico ottocentesco avrà relazioni solo mediate — e abbon­
dantemente — con le ipotesi del « movimento moderno ».
Anzi, dovremo considerare i legami istituiti di solito
dalla storiografia contemporanea fra le utopie di Fourier,
Owen, Cabet, e i modelli teorici di Unwin, Geddes,
Howard o Stein da un lato, e quelli del filone Garnier-Le
Corbusier dall’altro, come ipotesi da verificare attenta­
mente, e con ogni probabilità da riconoscere come funzio­
nali e interne agli stessi fenomeni che con esse si vogliono
analizzare 23.
È chiaro pertanto che le risposte specifiche, offerte
dalla critica marxista al problema intorno al quale il
pensiero utopista è obbligato a girare senza tregua, hanno
due conseguenze immediate sul formarsi delle nuove ideo­
logie urbane:
a) riconducendo i problemi generali in un ambito

23 II capitolo riguardante il socialismo utopistico e le sue pro­


poste di riorganizzazione urbana non può essere trattato con criteri
omogenei rispetto al formarsi delle ideologie del movimento mo­
derno. Si può solo accennare al ruolo alternativo che il romanti­
cismo utopistico ha svolto rispetto a quelle ideologie; ma i suoi
sviluppi, in particolare nella prassi della pianificazione anglosassone,
vanno messi a confronto con i modelli elaborati dal New Deal,
in un’analisi che travalica i limiti delle presenti note. Sul signifi­
cato dell’ideologia del lavoro che, all’interno della tradizione socia­
lista, informa così pesantemente il sorgere e gli sviluppi delle teo­
rie urbanistiche ottocentesche e del primo ’900, si veda il fonda­
mentale articolo di Massimo Cacciati, Utopia e socialismo, « Con­
tropiano », 1970, n. 3, pp. 563-686. Si veda anche, dello stesso
autore: Sul problema dell’organizzazione. Germania 1917-1921,
Introduzione a Gyòrgy Lukàcs, Kommunismus 1920-21, Marsilio,
Padova 1972.
6 Progetto di case operaie elaborato dalla Corporation Building di
Londra, 1865.

7 Louis H. Sullivan, progetto teorico di città con grattacieli a gra­


doni (da: «The Graphic », 19 dicembre 1891, V). Incisione di
H. von Hofsten. Il disegno illustra un articolo di Sullivan sui van­
taggi di una regolamentazione degli edifici alti a destinazione com­
merciale.
rigorosamente strutturale, esse rendono evidente lo scacco
concreto cui l’utopia si autocondanna, rivelando altresì
la volontà segreta di approdare al naufragio, implicita
nell’atto di nascita stesso dell’ipotesi utopistica;
b) annullando il sogno romantico di un’incidenza tout
court dell’azione soggettiva sul decorso del destino sociale,
rivelano al pensiero borghese che il concetto stesso di
destino è creazione legata ai nuovi rapporti di produ­
zione. In quanto sublimazione di fenomeni reali, la virile
accettazione del destino — fondamento dell’etica bor­
ghese — può riscattare la miseria e l'impoverimento, che
quello stesso « destino » ha indotto in tutti i livelli della
vita associata e, principalmente, nella sua forma-tipo: la
città.
La fine dell’utopismo e la nascita del realismo non
sono momenti meccanici all’interno del processo di forma­
zione dell’ideologia del « movimento moderno ». Anzi,
a cominciare dal quarto decennio del XIX secolo, uto­
pismo realistico e realismo utopico si accavallano e si
compensano. Il declino dell’utopia sociale sancisce la resa
dell’ideologia alla politica delle cose realizzata dalle leggi
del profitto: all’ideologia architettonica, artistica e urbana,
rimane Vutopia della forma, come progetto di recupero
della totalità umana in una sintesi ideale, come possesso
del disordine attraverso l’ordine.
L’architettura, in quanto direttamente legata alla realtà
produttiva, non è quindi solo la prima ad accettare, con
rigorosa lucidità, le conseguenze della propria già avve­
nuta mercificazione: partendo dai propri problemi speci­
fici, l’architettura moderna, nel suo complesso, è in grado
di elaborare, prima ancora che i meccanismi e le teorie
dell’Economia Politica ne forniscano gli strumenti di
attuazione, un clima ideologico teso ad integrare compiu­
tamente il design, a tutti i livelli di intervento, all’interno
di un progetto oggettivamente rivolto alla riorganizza­
zione della produzione, della distribuzione e del consumo
relativi alla nuova città capitalista.
Analizzare il decorso del movimento moderno in quan­
to strumento ideologico dalla seconda metà dell’800 al
1931, data in cui la sua crisi è verificabile in tutti i settori
e a tutti i livelli, significa tracciare una storia che si
articola in tre fasi successive:
a) una prima, che vede il formarsi dell’ideologia
urbana come superamento delle mitologie tardo-roman­
tiche;
b) una seconda, che vede svilupparsi il ruolo delle
avanguardie artistiche come progetti ideologici e come
individuazione di x< bisogni insoddisfatti », consegnati come
tali (come obiettivi avanzati, che la pittura, la poesia, la
musica o la scultura non possono realizzare che a livello
puramente ideale) all’architettura e all’urbanistica: le uni­
che in grado di dare loro concretizzazione;
c) una terza, in cui l’ideologia architettonica diviene
ideologia del Piano: fase che viene a sua volta scavalcata
e messa in crisi quando, dopo la crisi economica del ’29,
con l’elaborazione delle teorie anticiclicbe e la riorganiz­
zazione internazionale del capitale, e dopo il varo, nella
Russia sovietica, del primo Piano Quinquennale, la fun­
zione ideologica dell’architettura sembra rendersi ormai
superflua, o limitata a svolgere compiti di retroguardia
e sostegno marginale.
Le pagine che seguono non pretendono di impo­
stare che le linee direttrici di tale processo, sottolineandone
alcuni dei capisaldi, in modo da fornire un quadro per
future elaborazioni e più circostanziate analisi.
z. Ideologia e utopia

È però necessario definire con maggiore attenzione


le condizioni del lavoro intellettuale in generale, nel
momento della formazione delle moderne ideologie bor­
ghesi e in quello del loro superamento.
Si tratta, alla fine, di valutare i significati annessi,
agli inizi del secolo, all "utopia come progetto.
Al di fuori di una tale analisi, il senso dell’intero
ciclo dell’architettura moderna diviene incomprensibile.
Perché tutto il « tragico » della grande Kultur del-
1’800, tutta l’utopia weimariana, non possono sopravvi­
vere che in un tentativo di dominio globale del futuro.
È l’improduttività del lavoro intellettuale la colpa che
la cultura ottocentesca sente pesare su di sé, e che le
ideologie avanzate debbono superare. Rovesciare l’ideo­
logia in utopia diviene allora un imperativo categorico.
Per sopravvivere, l’ideologia deve negarsi in quanto tale,
rompere le proprie forme cristallizzate, proiettarsi inte­
gralmente nella « costruzione del destino ». L’autocritica
dell’ideologia è, a questa stregua, progetto di un dominio
dell "ideologia realizzata sulle forme dello sviluppo.
Weber, Scheler, Pareto, Mannheim: agli inizi del XX
secolo, lo smascheramento degli idola che ostacolano il
decollo di una razionalizzazione globale dell’universo pro­
duttivo e del suo dominio sociale è identificato come il
nuovo compito storico dell’intellettuale. La Wertfreiheit
weberiana, dopo il tragico disincantamento proposto da
Nietzsche, è il « manifesto » del rigetto più radicale di
ogni compromesso fra scienza e ideologia. Wertfreiheit è,
precisamente, libertà dal valore: è il valore, ora, che è
visto come impedimento. Lo statuto scientifico ha un solo
dovere, quello dell’« autocontrollo », che è « il solo mezzo
per prevenire gli inganni, distinguere con precisione la
relazione logico-comparativa della realtà con tipi ideali in
senso logico, dalla valutazione della realtà in base a
ideali »24.
Il fatto che quella Wertfreiheit abbia per Weber un
significato drammatico non va ignorato. L’intellettuale,
impedendosi il giudizio di valore, accetta virilmente il
proprio dover essere: l’accettazione è in primo luogo rico­
noscimento dell’irrazionale che è nel sistema, nel negativo
che è in esso, e che, in quanto inseparabile dal positivo,
va assunto in quanto tale. Il problema — per Weber,
per Keynes, per Schumpeter, per Mannheim — è negli

24 Max Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi,


Torino 1958, p. 119, e II lavoro intellettuale come professione, ivi
1966. Per una generalizzazione della critica weberiana dell’ideologia
cfr. K. Loewenstein, Beitràge zur Staatssoziologie, Tubingen 1961
(in particolare il saggio Ueber des Verhàltnis von politischen Ideo-
logien und politischen Institutionen, già in « Zeitschrift fiir Poli­
tile », 1955). Nelle opere di Pareto, di Max Scheler, di Weber, la
critica dell’ideologia — articolata in diversi filoni e con un varia­
bile grado di autocoscienza — non ha solo il significato di un
disincantato aderire al dato della realtà, in tutta la sua spietata
condizionatezza, ma ha anche quello di appropriarsi di uno stru­
mento di lotta tipicamente marxiano, rovesciandolo su se stesso.
La riduzione del marxismo a ideologia ha poi permesso a tale tipo
di critica di appuntarsi contro le basi teoriche di un materialismo
storico frainteso con più o meno buona fede. Si noti, comunque,
che in Pareto l’ideologia — il « pensiero distorto » — non è che
un modo d’essere dell’azione e della « teorizzazione non scientifica »:
siamo ancora nell’ambito di un recupero del « pregiudizio », rico­
nosciuto come tale (del resto, il finale recupero dell’irrazionalità
dell’ideologia non è estraneo neanche a Weber).
strumenti capaci di far funzionare insieme positivo e
negativo (capitale e faccia operaia del lavoro), di non
permettere una divaricazione dei due termini, di realiz­
zare la loro complementarità. Per tutti loro, il tema
dominante è quello, di un futuro in cui l’intero presente
venga proiettato, di un dominio « razionale » del futuro,
di una eliminazione del rischio che esso comporta25.
È per questo che Mannheim è obbligato a offrire una
versione mistificata del funzionamento e della realtà del­
l’utopia 26.
Gli ideologi, per Mannheim, sono nient’altro che
una « classe di colti » che fungono da freischwebende

25 Cfr. Antonio Negri, La teoria capitalistica dello stato nel


’29: John M. Keynes, «Contropiano», 1, 1968, pp. 3 sgg.
26 Ci riferiamo, in particolare, alla distinzione, tracciata dal
Mannheim, fra « pensiero progressivo » e « pensiero conservatore ».
«La maggior parte delle integrazioni che il pensiero progressivo
mette di fronte ai fatti particolari — egli scrive — scaturiscono
dall’utopia razionale e conducono a una visione strutturale della
totalità che è e diviene ». L’ideologia può anche essa orientarsi
verso « oggetti che sono estranei alla realtà e che trascendono l’esi­
stenza attuale », ma nondimeno essa « concorre al consolidamento
dell’ordine esistente. Un tale orientamento incongruente — con­
tinua Mannheim — diviene utopistico solo quando tende a rom­
pere i legami dell’ordine esistente ». Infatti « in ogni periodo della
storia vi sono state idee trascendenti l’ordine esistente, ma esse non
assolvevano la funzione delle utopie: esse costituivano piuttosto,
nella misura in cui erano armoniosamente e organicamente inte­
grate con la visione prevalente dell’epoca e non suggerivano possi­
bilità rivoluzionarie, le ideologie' più adeguate del periodo ». Karl
Mannheim, Das konservative Denken, « Archiv fùr Sozialwissen-
schaft und Sozialpolitik », 1927. Ma cfr. anche, di Mannheim,
Ideologie und Utopie, Frankfurt a. M. 19523, trad. it. Ideologia e
utopia, Il Mulino, Bologna 19522, in cui è compiutamente esposta
la teoria dell’utopia come tendenza in sé irrealizzabile, capace di
rompere i confini della realtà esistente « per lasciarla libera di svi­
lupparsi nella direzione dell’ordine successivo» (op. cit., p. 201).
È significativa l’identificazione del momento rivoluzionario con la
struttura ideologica dell’utopia. Sul tema, cfr. Goran Therborn,
Critica e rivoluzione. La Scuola di Francoforte, Laterza, Bari 1972.
Intellektuellen, da « pensatori da giustificazione »: il loro
mestiere tende unicamente al consolidamento della realtà
esistente, così come essa è2728 .
Al contrario, per il « pensiero progressivo », « ogni
singola cosa riceve il suo ultimo significato solo da qual­
che altra cosa che è davanti ad essa o che sta sopra di
essa, da un’utopia del futuro o da una norma al di sopra
dell’essere, mentre la significazione del particolare viene
dedotta nel pensiero conservatore da qualche cosa che sta
dietro di essa, dal passato o da ciò che preesiste almeno
in embrione »
L’utopia è quindi nient’altro che « visione strutturale
della totalità che è e diviene »29, trascendimento del puro
« dato », sistema di orientamento teso a « rompere i le­
gami dell’ordine esistente » per riconquistarli a un più
alto e diverso livello30. Per Weber e per Mannheim, la
critica dell’ideologia è uno dei fattori dinamici dello
sviluppo. Per entrambi — come per Keynes — l’unica
realtà individuabile è la dinamica dello sviluppo. U utopia
del Mannheim, al di là delle affermazioni del suo autore,
è prefigurazione di modelli finali e globali, nel senso della
realtà data. La « critica al pensiero conservatore » diviene

27 K. Mannheim, Das konservative Denken, cit.


28 Ibid.
29 Ibid.
30 È importante notare che per Mannheim l’utopia, una volta
affermatasi, si trasforma di nuovo in ideologia: fra ideologia e
utopia egli stabilisce quindi una relazione dialettica, che avrebbe
potuto far riflettere, anche all’interno del suo discorso, sul carat­
tere profondamente strutturale dell’utopia stessa. È sin troppo
chiaro che le tesi del Mannheim sono un tentativo di risposta alla
chiara lettura della funzionalità dell’utopia contenuta nell’ideologia
tedesca, nello stesso Manifesto del Partito comunista, e nell 'Evo­
luzione del socialismo, dall’utopia alla scienza di Engels. In altre
parole, la teoria del « salto rivoluzionario », visto come necessario
su basi utopiche, si rivela intimamente legato alla prassi politica
socialdemocratica: come è facilmente verificabile a un’attenta ana­
lisi della storia degli ultimi cinquantanni.
quindi una necessità, uno strumento volto a liberare il
funzionamento dinamico del sistema. La rottura costante
dell’equilibrio si dovrà rovesciare in una « politica scien­
tifica », antiideologica, in una soluzione razionale dei con­
flitti generati dallo stesso sviluppo, solo dopo aver però
riconosciuto l’inerenza di quei conflitti al processo dialet­
tico del reale31.
La contraddizione ancora esistente nel pensiero di
Mannheim — l’utopia come modello interamente calato
nella dinamica reale dei processi politico-economici, e il
suo carattere di anticipazione sperimentale proiettata nel
futuro — è nel clima di tutto il lavoro intellettuale di
avanguardia del primo ’900.
Ma con Keynes e Weber la strada è già segnata.
L’utopia deve « lavorare » sul terreno della programma­
zione, deve abbandonare il terreno della sua ideologia
generale. Mannheim esprime la coscienza di uno scarto
ancora pericoloso — l’unico vero « pericolo » che minacci
il processo di perpetua ristrutturazione del reale — fra
la razionalità del progetto, i suoi strumenti di attuazione,
e la coscienza sociale della necessità dello sviluppo.
Ma anche lui lavora all’interno dell’ipotesi weberiana
di un lavoro intellettuale che allontani ogni utopia nega­
tiva; sotto tale luce, la sua critica all’ideologia è conse­
guente all’intento di rendere scientifico il controllo poli­
tico sulla dinamica del sistema.
In tal modo, il disincantamento weberiano, la sua
negazione del « valore » come metro di giudizio, si pone
veramente — l’ha acutamente osservato Cacciati — come
conseguenza ultima della negativa e « scandalosa » affer­
mazione nietzschiana del soggetto.

31 Cfr. K. Mannheim, Wissenssoziologie, in Handwórterbuch


der Soziologie, Stuttgart 1931; e Max Weber, Gesammelte politische
Schriften, Tubingen 19582.
Weber toglie questo « scandalo »: il soggetto non può
ormai che essere il soggetto-funzione, Vintellettuale appunto,
o altrimenti si deve far ritorno alle « vecchie chiese », alle
vecchie illusioni e mistificazioni del « dio che ci parla », del
«dio in me», insomma: della sostanzialità dell’Ego [...].
Abolire ogni processo riduttivo è, anzitutto, fare dell’Ego
ciò che è e deve essere nel contesto irreversibile del suo
« destino » 32.

Se il soggetto è ora il Sistema, la libertà dal valore


è libertà dalla propria soggettività. La relatività del valore
non deve essere oggetto di nuove « scienze sacre ». La
desacralizzazione dell’attività intellettuale è solo la neces­
saria premessa per il funzionamento corretto di quell’at­
tività, nel processo di autorazionalizzazione di quel Sog­
getto.
Ma questo è anche l’obiettivo centrale delle avan-

32 Massimo Cacciati, Sulla genesi del pensiero negativo, « Con­


tropiano », 1969, 1, pp. 186-7. Di estrema importanza è il nesso
inequivocabilmente fissato da Cacciati fra la critica nietzschiana dei
valori e l’uso weberiano di quella negazione. « La critica, implicita
ed esplicita in tutto Nietzsche, dell’idea di Vergeistigung — scrive
Cacciati (op. cit., p. 182) — vuole appunto mettere in rilievo la
sparizione del Geist dal processo generale di razionalizzazione, o,
meglio, come quella Vergeistigung vada intesa in quanto funzionale
alla vita materiale, alla conservazione nel processo, del sistema ca­
pitalista. Quel Geist non è più Kultur estranea od opposta addi­
rittura al processo del sistema [...] ma è razionalizzazione del si­
stema, della sua esistenza onni-inglobante ». La gaia scienza
nietzschiana è tutta qui: nel riconoscersi come principio attivo,
fattivo, di un esistere accettato nell’interezza delle sue contraddi­
zioni. Il disincantamento di Nietzsche è quindi a monte dell’accet­
tazione weberiana del « destino »: sia per Nietzsche che per Weber,
« emancipare l’ideologia del sistema dalla problematica dei " va­
lori ” è ritrovare la vera mentalità scientifica anche, e proprio,
allorché vedono che è questo sistema che si libera dai valori, che
vuole-potere, e che quindi l’ideologia è vera soltanto nella misura
in cui è coerente e strutturalmente funzionale a questo processo
materiale, e nella misura in cui critica e si oppone a quanto mette
in dubbio o in crisi tale processo » (ivi, p. 183).
ouardie storiche. Futurismo e Dada hanno, come fine spe­
cifico, tale desacralizzazione dei valori come unico, nuovo
valore. Per Ball, come per Tzara, la distruzione e la ridico-
lizzazione dell’intero patrimonio storico della borghesia
occidentale sono condizioni per la liberazione delle ener­
gie, potenziali ma inibite, di quella stessa borghesia. O
meglio: di una borghesia rinnovata, capace di accogliere
in sé il dubbio, in quanto premessa di un atteggiamento
di piena accettazione dell’intero esistente, come vitalità
esplosiva, rivoluzionaria, tesa al mutamento permanente,
all’imprevedibile.
La « rivoluzione dadaista », assai più di quella surrea­
lista, è appunto nel coraggio di far esplodere la contrad­
dizione che è del sistema, ponendosela di fronte come
realtà. Liberazione dal valore, in tal senso, significa porre
le premesse per agire in quel reale, in quel campo
di forze indeterminato, labile, ambiguo. È per questo,
che ogni interpretazione dei fenomeni dada o futurista
come ermetici autoriconoscimenti dell’irrazionale o come
cupio dissolvi in esso va considerata del tutto errata. La
distruzione dei valori pone, per le avanguardie, nuovi,
aurorali modi di essere di una razionalità capace di con­
frontarsi con il negativo, per farne la molla di sconfinate
potenzialità di sviluppo. Il cinismo delle avanguardie
— là dove esso è esplicito, almeno — non è che « dispo­
nibilità » a tale ideologia dello sviluppo, della rivoluzione
del comportamento privato e collettivo, del dominio com­
pleto sull’esistente.
Quella che Walter Benjamin chiama la « caduta del­
l’aura » esprime esattamente questo: integrazione del
momento soggettivo nel meccanismo complessivo della
razionalizzazione; ma nello stesso tempo individuazione
di un’« etica della razionalizzazione », tutta rivolta su se
stessa. I processi di concentrazione del capitale, il suo
stesso socializzarsi, il costante elevarsi della sua composi-
zione organica, impongono come necessità una tale etica.
Questa non si presenta più come valore esterno, è sot­
tratta alla relatività dell’invenzione ideologica. L’etica
dello sviluppo dovrà realizzarsi insieme allo sviluppo stes­
so, all "interno dei suoi processi: la promessa di libera­
zione dalla macchina deve scaturire da una immagina­
zione del futuro accuratamente controllata33.
E non esiste avanguardia che non ponga, implicita­
mente o esplicitamente, come proprio obiettivo « poli­
tico », una liberazione dal lavoro: sia che si tratti del
manifesto politico del dada berlinese, che di quelli mari-
nettiani, che del « manifesto della lussuria », di Valeri-
tine de Saint-Pont34. Così, come è significativo, che quelle
stesse avanguardie — il caso del produttivismo e del
costruttivismo sovietici è esemplare — indichino, come
strada per raggiungere tale obiettivo, l’affermazione piena
dell "ideologia del lavoro . Il che è permesso dal loro pre­
sentare il « lavoro nuovo », da esse proposto, come lavoro
collettivo, e, ciò che più conta, pianificato 35.
Tutta la lotta dissacrante delle avanguardie intellet­
tuali europee nei primi due decenni del nostro secolo si

33 In tal senso non è difficile vedere nell’utopismo marcusiano


— almeno del Marcuse di Ragione e rivoluzione e di Eros e ci­
viltà — un tentativo di riscatto etico, tutto fondato sulla funzio­
nalità progressista della negazione. Con ben altra profondità intel­
lettuale tale riscoperta antihegeliana della negatività è in Bloch
(cfr. Ernst Bloch, Geist der Utopie, Munchen 1918; e Freibeit und
Ordnung. Abriss der Sozialutopien, Berlin 1947). Il valore etico
dell’utopia, come ultimo riscatto umanistico, è anche al centro del­
l’opera di Martin Buber, Pfade in Utopia, Heidelberg 1950; trad.
it. Sentieri in Utopia, Ed. di Comunità, Milano 1967.
34 Cfr., in particolare, Richard Huelsenbeck, En avant Dada:
Etne Geschicbte des Dadaismus, Hannover-Leipzig-Wien-Zurich
1920, e Valentine de Saint-Pont, Manifesto futurista della Lussuria,
Parigi 11 gennaio 1913.
, 35 Cfr. al proposito il fondamentale saggio di Francesco Dal Co,
Poétique de Vavant-garde et architecture dans les années ’20 en
Russie, « VH101 », 1972, 7-8, pp. 13-50.
pone al livello di tale riconoscimento delle nuove fun­
zioni del lavoro intellettuale: lo sviluppo, rivelatosi in
quanto dinamica e dialettica, chiede un piano, contro il
costante pericolo di una deflagrazione interna. È in que­
sto senso che quelle avanguardie, quanto più demoliscono
i vecchi ordinamenti e quanto più sottolineano la consi­
stenza del reale come « regno dell’assurdo », si rovesciano
oggettivamente in anticipazioni ideologiche, in utopie
parziali di piano.
L’ideologia è ormai data una volta per tutte nella
forma di una dialettica che si fondi sul negativo, che
faccia della contraddizione l’elemento propulsore dello
sviluppo, che riconosca la realtà del sistema a partire
dalla presenza della contraddizione. Una tale dialettica
non ha più alcun bisogno di regredire continuamente a
ideologia. Non costituendo uno schema astratto di com­
portamento, ma definendo, contemporaneamente, i reali
fondamenti dei rapporti di produzione capitalistici e una
strategia di piano, essa fa ragione di ogni modello utopi­
stico e di ogni possibilità di sviluppo dell’ideologia stes­
sa. Dal punto di vista ideologico, in altre parole, ogni
elaborazione compiuta in un sistema istituzionale di valori
non è che un puro e semplice « ripetere ». L’ideologia non
può che ripercorrere le tappe già superate per riscoprire,
sempre e di continuo, la forma più alta di se stessa nella
forma della mediazione. Al massimo, potranno esistere pro­
gressi « tecnici » nelle traduzioni disciplinari dell’ideologia
(ma la vicenda delle neoavanguardie letterarie e artistiche
avrebbe molto da insegnare, al proposito, alle moderne
vestali dell’impegno disciplinare). Il vero problema è
sapere fino a che punto tale continuo riprodursi dell’ideo­
logia su se stessa conservi ancora i ruoli essenziali da
essa ricoperti nella fase di decollo e stabilizzazione del
sistema borghese-capitalistico.
Anche nella sua forma più alta, quella che si con-
creta nell’utopia, ideologia e sistema capitalistico svilup­
pato appaiono in contraddizione. Non serve più a nulla,
in tale fase, fondare semplicemente l’inerenza della nega­
zione al sistema. Il problema che si pone è tutto « tecni­
co », tutto rivolto all’individuazione dei modi reali, con­
creti, interni alla base economico-produttiva, che facciano
effettivamente funzionare la « negatività » — la nega­
zione operaia — come « necessità » intrinseca al processo
del sistema36.
Non più Hegel ma Keynes, non l’ideologia ineffet­
tuale del piano ma il piano nella concretezza del suo svi­
luppo, non l’ideologia del New Deal ma l’economia post-
keynesiana. L’ideologia si fa concreta, si depura di ogni
tratto utopistico, si cala direttamente nei singoli settori
di intervento. Che è come dire, sopprime se stessa.
Il vociare di parte borghese sulla « crisi delle ideo­
logie » nasconde esattamente tale realtà: la lamentatio
sulla crisi è solo indice di un’insana nostalgia per la
tradizione basata sull’ineffettualità della Kultur.
Il Piano tende, da un lato, a identificarsi con le isti­
tuzioni che ne sostengono l’esistenza; dall’altro, a porsi
come specifica istituzione esso stesso. Il dominio del
capitale complessivo si realizza così al di fuori di ogni
logica estranea ai propri diretti meccanismi, privo di
giustificazioni estrinseche, nella più assoluta indipendenza
da ogni astratto fine « etico », da ogni teleologia, da ogni
« dover essere ».

36 Tipiche, al proposito, le teorie di Abendroth e di Dahren­


dorf, sulla necessaria integrazione della competizione nella fabbrica
e nella società. Cfr. Ralf Dahrendorf, Soziale Klassen und Klassen-
konflikt in der industriellen Gesellschaft, Stuttgart 1957; trad. it.,
dall'ed. inglese riveduta e ampliata, Classi e conflitto di classe nella
società industriale, Laterza, Bari 1970; e W. Abendroth, Antago-
nistische Gesellschaft und politische Demokratie, Neuwied-Berlin
1967.
Esiste comunque un elemento comune che lega fra
loro le anticipazioni intellettuali dei primi decenni del
'900. Ciò che le teorie di Weber, di Max Scheler o di
Mannheim sanciscono come « necessario » salto di me­
todo nella struttura del lavoro intellettuale, che Keynes
e poi Schumpeter riconducono nell’ambito di un piano
economico che presuppone l’azione articolata del capitale
complessivo, che le ideologie dell’avanguardia introducono
come proposta di comportamento sociale è decisamente
la trasformazione dell’ideologia tradizionale in utopia,
come prefigurazione di un astratto momento finale dello
sviluppo, coincidente con una razionalizzazione globale,
con una compiuta realizzazione della dialettica.
Ciò può sembrare non del tutto esatto per quanto
riguarda un Weber o un Keynes. In effetti, quanto è
ancora in essi di utopia è solo un residuo che agisce
per trasformarsi compiutamente in modello dinamico,
una volta che il capitale abbia risolto il problema della
creazione delle nuove istituzioni capaci di far funzionare
le proprie interne contraddizioni come elementi propul­
sivi dello sviluppo. Non casualmente, i modelli econo­
mici si configurano, ora, a partire dalla crisi e non, astrat­
tamente, contro la crisi. Né le moderne ideologie « della
contraddizione » sono estranee a tale processo di realiz­
zazione positiva della dialettica.
Risulta pertanto, nel momento considerato, un’accen­
tuazione del frazionamento interno alla divisione funzionale
del lavoro intellettuale, man mano che questo si cala nella
sfera del lavoro produttivo. Rimane ancora del tutto
aperto il problema della sua collocazione nei cicli o nella
loro programmazione: ma è certo che il lavoro intellet­
tuale che ha il coraggio di riconoscersi e funzionare come
scienza capitalistica si separa oggettivamente dai ruoli
arretrati del lavoro puramente ideologico. Da ora in poi
la sintesi è impossibile. L’utopia stessa segna, con la pro­
pria direzione di marcia, le tappe successive della propria
estinzione.
E si tratta di una scissione destinata ad acuirsi in
seguito, man mano che fra le istituzioni che realizzano le
tecniche di piano e quelle che ne controllano la dina­
mica si apre una divaricazione crescente.
Tali tendenze vanno tutte colte, nella concreta realtà
storica che segue al ’17 e al trattato di Versailles, nelle
profonde contraddizioni che scuotono il capitalismo euro­
peo e americano. Sarebbe del tutto antistorico figurarsi
una coscienza capitalistica tutta dispiegata e operante, nel
senso di un progetto teso alla creazione di nuove istitu­
zioni per un capitale consapevole di doversi trasformare
in capitale sociale e di dover gestire direttamente, in
quanto tale, i propri cicli, le proprie crisi, il proprio
sviluppo.
Ma sarebbe falsa oggettività sottolineare gli evidenti
squilibri, le arretratezze politiche, l’articolazione e il di­
battito interno, che caratterizzano gli anni ’20, come un
cieco vaneggiamento, rotto solo da alcune profetiche e
geniali prefigurazioni complessive.
Dal punto di vista della nostra analisi, è comunque
da rilevare che, proprio in quel frangente critico, il lavoro
degli intellettuali sembra diretto a configurare ipotesi per
lo più rivolte a ridimensionare lo stesso lavoro culturale.
Nel campo del lavoro intellettuale si tratta di prendere
partito su una cosa, principalmente: sul tema della politi­
cità o meno di quel lavoro stesso. L’avanguardia pretende
ora di porsi alla testa del « riscatto sociale ».
Proviamo a confrontare fra loro due prese di posi­
zione apparentemente inconciliabili. « Noi futuristi — scri­
ve Sklovskij nel ’26, difendendo l’assoluta autonomia
della letteratura come " arte verbale ”, irriducibile a ra-
gioni estranee al suo stesso costruirsi37 — colleghiamo
la nostra arte con la Terza Internazionale. Ma questo,
compagni, è un arrendersi a discrezione! È un Belinskij-
Vengerov, è la Storia delVintelligencija russa! ». Prose­
guendo poi, in modo ancora più esplicito, nel prendere
posizione contro l’arte « impegnata », di agitazione, di
propaganda, propugnata da Majakovskij e dal LEF: « Non
voglio difendere l’arte in nome dell’arte, bensì la propa­
ganda in nome della propaganda [...]. L’agitazione svolta
in un’opera cantata, nei film, con le mostre, è inutile:
finisce per divorare se stessa. In nome dell’agitazione,
toglietela dall’arte! »38.
Nel 1924, André Breton, nel secondo Manifesto sur­
realista, dopo aver riconosciuto che il pensiero « non può
far altro che oscillare fra la coscienza della sua perfetta
autonomia e quella della sua rigorosa dipendenza », si
immerge in questa contraddizione data per necessaria e
ineluttabile, optando per una letteratura « incondizionata
e condizionata, utopistica e realistica, che veda il suo
scopo solo in se stessa e non voglia nient’altro che
servire ».
Enzensberger ha osservato, a proposito del passo citato
di Breton, che « i surrealisti elevarono a loro programma
la quadratura del cerchio »39. Ma quel programma non
37 Viktor Sklovskij, Ulla, ulla Marziani!, in Chod Konja,
Moskvà-Berlin 1926; trad. it. La mossa del cavallo, De Donato,
Bari 1967, pp. 35-8. Cfr. anche l’analisi delle relazioni fra avan­
guardie, Formalismo e committenza politica, contenuta nel saggio
di Manfredo Tafuri, Il socialismo realizzato e la crisi delle avan­
guardie, nel volume di AA.VV., Socialismo, città, architettura. URSS
1917-1937, Officina, Roma 19722, pp. 41 sgg., e la bibliografia ivi
citata.
38 V. Sklovskij, op. cit., p. 41.
39 Hans Magnus Enzensberger, Gemeinplàtze, die neueste Li-
teratur betreffend, « Kursbuch », 15, Frankfurt a. M. 1968, trad. it.
in Enzensberger, Michel, Schneider, Letteratura e/o rivoluzione,
Feltrinelli, Milano 1970, p. 14.
è specifico del Surrealismo. Anzi, il merito storico del
Surrealismo è nell’aver reso esplicite le aspirazioni di tutta
l’area delle avanguardie intellettuali che avevano scelto
di fruire del terreno politico per salvaguardare un’ultima
frontiera, su cui attestare la difesa del lavoro intellettuale
nelle sue forme istituzionali.
Non sono un progetto ideologico reazionario contro
uno « avanzato », che si scontrano nelle due dichiarazioni
di Sklovskij e di Breton. Formalismo e Surrealismo con­
cordano, in sostanza, nella difesa della « professionalità »
del lavoro intellettuale. Solo, che il primo, con maggiore
lucidità e coraggio, riesce a confessare il proprio carat­
tere tautologico, la propria inattualità (fino al ’26, alme­
no), mentre il secondo sceglie di elevare se stesso a
emblema della « cattiva coscienza » intellettuale.
Ma è ugualmente importante notare, che, laddove il
formalismo — e con esso le avanguardie astratte, in tutti
i settori della comunicazione visiva e letteraria — si confi­
gura come scuola di lavoro sul linguaggio, il Surreali­
smo — e con esso tutte le avanguardie « impegnate » —
tende a porsi come intervento politico tout-court.
In altre parole, siamo di fronte a due tendenze che
si perpetueranno, fino a oggi, seguendo due direzioni di­
verse e complementari:
1) da un lato, è il riconoscersi, da parte del lavoro
intellettuale, essenzialmente come lavoro, appunto, non
recuperabile, quindi, a un movimento rivoluzionario;
l’autonomia di tale lavoro è esplicitamente riconosciuta
come relativa-, è solo il committente politico o economico
che potrà dettare un senso alle elaborazioni delle disci­
pline intellettuali;
2) dall’altro lato, è un lavoro intellettuale che nega
se stesso come tale, e si pone come pura ideologia; che
vuole sostituirsi all’organizzazione politica, o celebrarla,
o criticarla dall’interno. Sempre, comunque, con l’obiet-
tivo di uscire dal lavoro produttivo, e di porsi di fronte
a questo come sua coscienza critica40.
Si pone quindi il problema della mediazione fra tali
due atteggiamenti. È il grande tema di Benjamin, del­
l’arte e dell’architettura costruttiviste, delle tecniche di
gestione socialdemocratica della città, delle utopie urba­
nistiche della cultura mitteleuropea degli anni ’30.
Il significato ultimo di tali movimenti è uno solo.
Le avanguardie intellettuali debbono ora occupare l’area
dalla quale si erano tenute fino ad allora attentamente
lontane: quella del lavoro. Non essendo più possibile
mantenere la distanza dal lavoro produttivo che aveva
assicurato nel passato la sacralità della ricerca intellettuale,
non rimane che compiere volontariamente un passo, che
implica però la distruzione dei propri classici ruoli. La
benjaminiana « caduta dell’aura » non è solo indotta dalla
generalizzazione dei nuovi modi di produzione, ma è an­
che il frutto di una scelta cosciente: dentro di essa si
cala tutta la volontà di sopravvivenza contenuta nell’allu­
cinata battaglia antiistituzionale intrapresa dal « pensiero
negativo ».
Né bisogna sottovalutare la domanda rivolta agli intel­
lettuali da parte del capitale più avanzato negli anni '20-
’30. Rathenau e Ford avanzano esplicitamente le loro
richieste. « Noi — scrive Henry Ford — abbiamo biso­
gno di artisti che tengano conto delle esigenze del siste­
ma industriale, di maestri che lo conoscano. Di uomini
capaci di trasformare la massa informe in una totalità
sana ed armonica, sia dal punto di vista politico, che di
quello sociale, industriale e etico. Fin troppo abbiamo

40 Tale tema è stato trattato molto lucidamente da Alberto


Asor Rosa nel saggio Lavoro intellettuale e utopia dell’avanguar­
dia nel paese del socialismo realizzato, nel volume AA.VV., Socia­
lismo, città, architettura cit., pp. 217 sgg.
sacrificato le doti creative e le abbiamo sprecate volgen­
dole a bassi fini: abbiamo bisogno di uomini che ci
propongano un programma di lavoro per attuare tutto ciò
che è buono, giusto e desiderabile ». Ford non pre­
tende che l’intellettuale entri direttamente nel controllo
dei cicli di produzione, ma pretende che il suo contributo
si ponga come chiara e esplicita « attribuzione di senso »
al ciclo stesso. Entrando nella sfera del lavoro, la produ­
zione ideologica è contemporaneamente attratta e respinta.
Da un lato, ad essa è chiesta la produzione di modelli
globali. La razionalizzazione non deve disgiungersi da fini
sociali: i modelli innovativi debbono rispondere a esigenze
che fanno contemporaneamente parte dei momenti di
ristrutturazione interna ai cicli e dei momenti di circo­
lazione della merce. Dall’altro lato, l’ideologia deve inci­
dere direttamente sulla socializzazione dei consumi. Ac­
colta dentro la sfera del lavoro produttivo — ma non
ancora trasformata essa stessa in lavoro produttivo —
l’elaborazione intellettuale viene spinta a rendere più
funzionale la produzione ideologica.
Le coincidenze fra le proposte degli intellettuali di
sinistra tedeschi, dopo la prima guerra mondiale, e la
Nuova Economia di Walter Rathenau sono al proposito
significative. « L’ordinamento cui perverremo — scrive
Rathenau nel 1918 — sarà un sistema di economia pri­
vata, come l’attuale, ma non di economia privata senza
freni. Dovrà penetrarla una volontà collettiva, la stessa
volontà che penetra oggi ogni opera umana solidale »41.
Le basi del « capitalismo democratico » sono così gettate.
Con conseguenze teoriche notevoli, inoltre, nell’ambito
dell’economia e dell’assetto delle città.

41 Walter Rathenau, Die neue Wirtschaft, Berlin 1918, trad.


it. L'economia nuova, Laterza, Bari 1919, p. 31.
Il nuovo benessere delle città — prosegue infatti Rathe-
nau deve avere il suo fondamento nel suolo cittadino, il
quale non è cresciuto né per il costruttore di milioni, né per
l’incettatore di terreni, speculatori sulle costruzioni e tiranni
dell’affitto [...]. Al contrario, il suolo cittadino su cui si
affacciano le nuove costruzioni, dovrà diventare, dopo alcune
generazioni, libera proprietà dei comuni. La trascuratezza
architettonica delle nostre strade, finché essa esisterà, darà
una testimonianza e un ammonimento sensibile della trascu­
ratezza dei nostri concetti economici, i quali hanno accordato
a un ceto monopolistico un diritto di imposizione aumen­
tabile a loro arbitrio sul patrimonio comune, e hanno rega­
lato miliardi su miliardi ai possessori di rendite urbane42.

Tali intonazioni antimonopolistiche, da parte di


Rathenau, non debbono meravigliare.

Il contrattacco capitalistico — è stato acutamente scritto —


assume per sé e ridefinisce gli elementi fondamentali della
strategia « socialista ». Socialismo come accumulazione accele­
rata, ricostruzione industriale, intervento statale nel ciclo
economico, ma soprattutto: come difesa universale del lavoro
vivo [...]. Il Sozialismus del grande capitale tedesco, tra il
18 e il *21, si garantisce così un rapporto organico, nei fatti,
con l’organizzazione operaia, politica e sindacale. Ed è inevi­
tabile che questa fase venga inesorabilmente spazzata via
allorché, distrutto ogni pericolo di organizzazione autonoma
a livello operaio, il capitale può riassumere direttamente
gestione e organizzazione sociale del proprio ciclo43.

L’organizzazione e la pianificazione sono quindi parola


d’ordine sia della socialdemocrazia che del capitalismo
democratico. Rathenau e Naumann ne sono i portavoce
di parte capitalista: e non va dimenticato, al proposito,
il ruolo decisivo di Naumann nella formazione dell’ideo-

42 Ivi, pp. 84-5.


4Z M.’Cacciati, Sul problema dell’organizzazione, cit., p. 11.
logia del Deutscher Werkbund fra il 1907 e il 1918 44. È
da questa ottica particolare, che Rathenau auspica una
città pianificata, priva di speculazione, tutta collettiva. Il
capitale produttivo sente chiaramente l’esigenza di sepa­
rarsi da quello improduttivo e parassitario: l’esigenza di
Rathenau coincide così con quelle avanzate dalla cultura
urbanistica.
Accenneremo più in là al bilancio di quella che sarà
la gestione socialdemocratica delle città tedesche, fra il
’23 e il ’33. Possiamo solo anticipare che le istanze anti­
speculative e di programmazione avanzate da Rathenau si
innestano su una tradizione che ha le sue origini nei
tentativi ottocenteschi di Huber, per la soluzione coopera­
tivistica degli alloggi operai di Berlino, e che vedrà
all’avanguardia, dopo il ’24, l’amministrazione di Franco­
forte guidata dal borgomastro Landmann.
Il momento antiistituzionale dell’intelligencija di avan­
guardia si rivela così funzionale alla critica di valori esau­
riti: tutta la sua opera demolitoria si manifesta come
allestimento di una piattaforma sgombra, da cui ripartire
per scoprire i nuovi « compiti storici » del lavoro intel­
lettuale.
Né va sottovalutato che tali compiti storici hanno,
contemporaneamente, due interlocutori e due direzioni di
marcia. In primo luogo, è il colloquio mistico con il
capitale, letto come astrazione tecnologica o come sog­
getto produttivo universale; in secondo luogo, è il collo­

44 Cfr. Friedrich Naumann, Werkbund und Weltwirtschaft,


Werkbund-Ausstellung, Kòln 1914, ora in Julius Posener, Anfànge
des Funktionalismus. Von Arts and Crafts zum d ‘tschen Werk­
bund, Ullstein Bauwelt Fondamente, Berlin-Frankfurt a. M. 1964,
pp. 223-5; Hans Eckstein, Idee und Geschichte des deutschen
Werkbundes, 1907-1957, in 50 Jahre Deutscher Werkbund, Alfred
Metzner Verlag, Berlin-Frankfurt a. M. 1958, e Theodor Heuss,
Notizen und Excurse zur Geschichte des deutschen Werkbundes,
in 50 Jahre Deutscher Werkbund, cit.
quio mistico con le masse, lette come soggetto ugualmente
astratto e rivestito di significati etici. (L'0-M.ensch del-
l’Espressionismo e del Linkskommunismus).
L’ideologia si assume in proprio il compito di unifi­
care soggetto e oggetto della produzione, di saltare tutti
i momenti di contraddizione per presentare modelli di
funzionamento integrato di capitale e lavoro, di modi e
rapporti di produzione: si trasforma, in altre parole
— sia che si presenti come ideologia tutta calata nel
processo lavorativo che come progetto astratto di socia­
lizzazione del lavoro — in utopia capitalistico-industriale.
A questo punto, è necessario avvertire che tutta l’analisi
compiuta non investe che marginalmente il punto di vista
capitalista. La convergenza sopra sottolineata di avanguar­
die intellettuali e capitale avanzato non è un indice di
fenomeni generalizzati: quella stessa convergenza, anzi,
si rivela storicamente alquanto limitata e provvisoria, e
insistente su settori marginali dello sviluppo.
È quindi importante cogliere sia il carattere sogget­
tivo delle scelte compiute dal lavoro intellettuale, che la
costante emarginazione da esso subita in seno allo sviluppo
capitalista. L’utopia diviene funzionale allo sviluppo come
area di riserva di modelli tendenziali e come arma per
l’estrazione del consenso.
È chiaro, che tali temi entrano in crisi ogni volta che
ai modelli tendenziali si chiederà una verifica reale dei
loro obiettivi e ogni volta che la stessa gestione del
consenso si rivelerà come un’arma poco adeguata ai fini
dello sviluppo.
Fra l’aspirazione all’aptonomia assoluta e il volontario
autoannullamento in missioni « al servizio della classe »,
l’ideologia ha finito per scegliere, nella maggior parte dei
casi e con una costanza di comportamento veramente
sorprendente, di stabilizzarsi sul filo del rasoio comune
a entrambe tali scelte.
L’autonomia della ricerca intellettuale risponde al per­
petuarsi del progetto di recupero della Soggettività, espro­
priata dalla divisione capitalistica del lavoro. Il lavoro
intellettuale come « servizio di classe » è progetto di resti­
tuzione — per via indiretta — di quella stessa Soggetti­
vità alla classe espropriata. Non c’è bisogno, pensiamo,
di sottolineare la « miseria » di tali due direzioni ideolo­
giche, di cui stiamo scoprendo soggettiva complementa­
rietà. La letteratura e l’arte come strumenti di recupero
della Totalità, e come travaso di questa nel nuovo sog­
getto storico per elezione — la classe operaia — sono
parte di un disegno che si pone oggettivamente alla retro-
guardia dello sviluppo capitalistico, anche se in questo
copre compiti precisi.
Ciò che maggiormente interessa, piuttosto, è il modo
di realizzarsi di tali due scelte (o del compromesso che
le media).
L’autonomia della costruzione formale, in tutte le
avanguardie storiche, non insiste più sul progetto di con­
trollo dell’esperienza quotidiana tramite la forma. Ora
si è disposti ad accettare che è l’esperienza che domina
il soggetto e lo fonda. Il problema è, piuttosto, pianificare
la scomparsa del soggetto, annullare l’angoscia che deriva
dal patetico (o dal ridicolo) resistere dell’individuale di
fronte alle strutture di dominio che lo stringono da presso,
indicare come terra promessa della pacificazione univer­
sale — il paradiso in terra è realizzato dalla « scomparsa
del tragico »45 — esattamente il volontario e mansueto
sottomettersi a quelle strutture di dominio. v
45 È di estremo interesse seguire le reazioni alla presa di co­
scienza della dissoluzione della Tragedia, da parte dei teorici avan­
zati della borghesia capitalista, e da parte del « comuniSmo di si­
nistra », degli anni ’20-30. Per quest’ultimo, l’opposizione intel­
lettuale alla distruzione capitalista del Geist borghese, dell’utopia
della Forma, dell’umanesimo « problematico », si identifica con il
tendere verso il recupero puntuale di tali strumenti ideologici
La salvezza non è più nella « rivolta », ma nella resa
senza discrezione. Solo un’umanità che abbia introiettato,
fatto propria, assorbito l’ideologia del lavoro, che non
persista nel considerare la produzione e l’organizzazione
come altro da sé o come semplici strumenti, che si rico­
nosca come parte di un Viano complessivo, e che come
tale accetti fino in fondo di funzionare come ingranaggio
di una macchina globale, può riscattare la propria « colpa
originaria». Che non è l’aver prodotto un sistema di
mezzi senza saper controllare la « rivolta degli oggetti »
che si scatena contro l’inventore — così Lowith e il
giovane Lukàcs leggono l’alienazione marxiana — ma che
è piuttosto il « diabolico » insistere dell’« uomo » a rima­
nere tale, a porsi come « macchina imperfetta » in un
universo sociale che ammette come atteggiamento coerente
il solo e puro silenzio46.

dismessi, consegnandoli — con un’ulteriore utopia — nelle mani


del proletariato. L'umanesimo marxista si rivela così come il pro­
getto di estensione alla classe operaia di quella « Forma-Utopia del­
l’essere borghese che è la Tragedia »: l’eroe borghese si rovescia
nell 'eroe collettivo. Le linee di tale processo sono chiarissime nel
pensiero del giovane Lukàcs come in quello del Lukàcs marxista:
ma anche in alcune pagine di Korsch, di Lowith, e — come pura
ideologia — in Bertolt Brecht. Cfr., al proposito, A. Asor Rosa,
Il giovane Lukàcs teorico dell'arte borghese, « Contropiano », 1968,
1, pp. 59 sgg.; e G. Bedeschi, Alienazione e feticismo nel pensiero di
Marx, Laterza, Bari 19722 (in particolare l’appendice I, pp. 177 sgg.).
46 « La proletarizzazione generale rimane allora l’ultimo grande
sostrato dell’apparenza unitaria della condizione umana: una male­
detta ironia della società capitalista, la condanna a una irrimedia­
bile distanza dalla proletarizzazione reale, proprio nel momento in
cui una proletarizzazione formale è in atto. Quando tutta la so­
cietà appare modellata sulla fabbrica, quando la forma dell’identico
sembra essersi realizzata e circola in tutto il sistema, si scopre che
questa è una sembianza ripugnante al pensiero: che esso deve
sempre cercare, al di là di se stesso, un margine di diverso, e vi­
vere per quel diverso. È disposto persino al sacrificio di sé per
ciò, a considerarsi merce circolante, funzione pura nella circolazione
generale delle merci. Da un lato una forma sintetica, divenuta realtà
per la prima volta nella storia, che è lo sfruttamento operaio ge-
È esattamente questa l’ideologia che informa i mani­
festi futuristi, il meccanicismo dadaista, l’elementarismo
neoplastico, il costruttivismo internazionale. Ma ciò che
colpisce, in tale ideologia del consenso incondizionato al­
l’universo del capitale, non è tanto la sua letterarietà,
quanto piuttosto il suo ingenuo radicalismo. Non esiste
scritto a favore della meccanizzazione dell’universo che
non lasci sbalorditi qualora si confrontino quei « mani­
festi » letterari,, artistici, cinematografici, con i fini che
essi sembrano proporsi. L’invito a farsi macchina, alla
proletarizzazione universale, alla produzione forzata, rive­
lano troppo esplicitamente l’ideologia del Piano, per non
destare sospetti sulle loro reali intenzioni.
Il « pensiero negativo » aveva enunciato il proprio
progetto di sopravvivenza nel rifiuto della dialettica hege­
liana, nel recupero delle contraddizioni da questa elimi­
nate. Il « pensiero positivo » non fa altro, rovesciando
simmetricamente su se stesso quella negazione. Il nega­
tivo è scoperto come tale, anche nella sua « ineluttabi­
lità ». La rinuncia di fronte a esso è solo la condizione
prima che permette di -perpetuare le discipline intellet­
tuali, di recuperare (a costo di dover distruggere la stessa
« aura » del lavoro intellettuale) la tradizione della sua
« sacra » estraneità al mondo, di riproporsi una ragione,
sia pur minima, di sopravvivenza.
La disfatta della ragione è ora assunta come la realiz­

zerà; dall’altro niente forma, soltanto un pezzo di capitale circo­


lante » (N. Licciardello, Proletarizzazione e utopia, « Contropiano »,
1968, 1, p. 109). In questa sede si può solo fuggevolmente accen­
nare alla funzione che hanno avuto le avanguardie artistiche del
’900, e il pensiero teorico che le accompagna, nel rendere concreta,
visibile, la proletarizzazione formale di cui parla Licciardello: l’uto­
pia dell'avanguardia è proprio nel progettato recupero di un’« ap­
parenza unitaria della condizione umana », assicurata da un lavoro
intellettuale che si salva solo nel momento in cui devasta le proprie
fondamenta.
zazione del compito storico della ragione stessa. Il cini­
smo del lavoro intellettuale esibisce se stesso, giocando le
proprie carte al limite ambiguo dell'autoironia.
Dimostrare senza possibilità di appello che non c’è
altra via che annullare il soggetto umano nel soggetto
dello sviluppo: questo assioma tende a salvare l’ideologia
come ultimo progettp culturale. La « liberazione dal va­
lore », la sparizione del Geist dal processo generale di
razionalizzazione, la neutralizzazione di ogni progetto di
giustificazione etica della logica del sistema sono già avve­
nute: debbono ora porsi con la forza del dato, possono,
al massimo, dimostrare la loro efficienza. È per questo
che ogni residuo di « valore » deve essere attaccato con
la violenza della dissacrazione. La lotta contro l'uomo
è condizionata dalle esigenze dello sviluppo: solo se que­
st’ultimo trova ostacoli — dovuti alla vischiosità dei « pre­
giudizi » tradizionali — potrà riproporsi una mitologia
deWumano. Ma si dovrà trattare di una mitologia cinica
e regressiva, funzionale solo a far saltare resistenze deboli
quanto fastidiose 47.

47 II che può essere colto nel pessimismo di un Lévi-Strauss,


tutto dominato da un assoluto délVumano che, nel suo non coin­
cidere con il reale, produce la prospettiva strutturalista di un rico­
struire-per-il-nulta, di un’uscita dal mondo provocata dal « tradi­
mento » del mondo stesso. « A che serve agire se il pensiero che
guida l’azione conduce alla scoperta dell’assenza di senso? [...] Il
mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui. Le istitu­
zioni, gli usi e i costumi che per tutta la vita ho catalogato è
cercato di comprendere, sono un’efflorescenza passeggera d’una crea­
zione in rapporto alla quale essi non hanno alcun senso [...].
Quanto alle creazioni dello spirito umano, il loro senso non esiste
che in rapporto all’uomo e si confonderanno nel disordine quando
egli sarà scomparso » (Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il Sag­
giatore, Milano 19652, pp. 402-3).
4. Dialettica dell’avanguardia

Ma la « disfatta della ragione » insiste su un campo


specifico: quello della Metropoli. Non è a caso che il
tema della Groszstadt, delle grandi concentrazioni ter­
ziarie, domini il pensiero di Simmel, di Weber, di Benja­
min, con chiari riflessi su architetti e teorici come August
Endell, Karl Scheffler, Luwig Hilberseimer4849 .
La « perdita » preannunciata da Piranesi è ora diven­
tata tragica realtà: l’esperienza del « tragico » è la stessa
esperienza metropolitana.
Di fronte a tale inevitabile esperienza, l’intellettuale
non riesce più ad assumere neanche l’atteggiamento blasé
di un Baudelaire.
Come ha scritto efficacemente Ladislao Mittner, a
proposito di Dòblin, il « misticismo della resistenza pas­
siva » caratterizza la protesta espressionista: « chi agisce
perde il mondo, chi lo vuol tenere stretto, lo perde lo
stesso » *.
È molto importante sottolineare che, nel criticare la
« reazione morale » di Engels, nei confronti della folla

48 Ci riferiamo ai volumi di August Endell, Die Schònheit der


Groszstadt, Strecher und Schroder, Stuttgart 1908; Karl Scheffler,
Die Architektur der Groszstadt, Bruno Cassirer, Berlin 1913;
Ludwig Hilberseimer, Groszstadtarchitektur, Julius Hoflmann Ver-
lag, Stuttgart 1927.
49 Alfred Doblin, Die drei Sprunge des Wang-Lun, 1915.
Cfr. Ladislao Mittner, L'espressionismo, Laterza, Bari 1965, p. 96.
cittadina, Benjamin usi la sua osservazione per intro­
durre il tema della generalizzazione alla struttura urbana
delle condizioni del lavoro operaio 50.

La folla —. scrive Benjamin — ha, in Engels, qualcosa che


lascia sgomenti. Essa suscita, in lui, una reazione morale. A
cui si aggiunge una reazione estetica: il ritmo a cui i pas­
santi si incrociano e si oltrepassano lo offende spiacevol­
mente. Il fascino della sua descrizione è proprio nel modo
in cui l’incorruttibile abito critico si fonde in esso col tono
patriarcale. L’autore viene da una Germania ancora provin­
ciale; forse la tentazione di perdersi in una marea di uomini
non lo ha mai sfiorato »51.

Si può comunque essere in disaccordo sulla parzialità


con cui Benjamin legge la Situazione delle classi lavora­
trici in Inghilterra. Ciò che interessa è il modo con cui
egli passa, dalla descrizione engelsiana della massa, della
folla metropolitana, alle considerazioni sulle relazioni fra
Baudelaire e la massa stessa. Valutando le reazioni di
Engels e. di Hegel come residui di un atteggiamento di
distacco dalla nuova realtà urbana, nei suoi nuovi aspetti
qualitativi e quantitativi, Benjamin nota che la facilità
e la disinvoltura, con cui il flàneur parigino si muove

50 W. Benjamin, Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1955,


traci, it. Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.
51 W. Benjamin, op. cit., p. 98 dell’edizione italiana. Sul ruolo
assunto da Benjamin nell’affermarsi delle teorie dell’« arte tecno­
logica », come ideologia dell’integrazione, è fondamentale il recente
volume di Giangiorgio Pasqualotto, Avanguardia e tecnologia.
Walter Benjamin, Max Bense e i problemi dell’estetica tecnologica,
Officina, Roma 1971. In tale opera vengono definitivamente distrutte
le interpretazioni accumulatesi sul pensiero di Benjamin, esempli­
ficate sia dai saggi del Periini, che dagli articoli apparsi sulla ri­
vista « Alternative » (Berlin 1968, n. 59-60). Cfr., di Tito Per­
iini, Dall’Utopia alla Teorica critica e Critica del progresso, « Co­
munità », 1969, nn. 159-60 e 156.
nella folla, sono divenuti modi di comportamento natu­
rali, per il moderno fruitore della metropoli.

Per quanto grande potesse essere la distanza che [que­


sti], per proprio conto pretendeva di assumere di fronte alla
folla, restava intinto, impregnato da essa, e non poteva, come
Engels, considerarla dall’esterno. La massa è talmente intrin­
seca a Baudelaire che si cerca invano in lui una descrizione
di essa [...]. Baudelaire non descrive la popolazione né la
città. E proprio questa rinuncia gli ha permesso di evocare
l’una nell’immagine dell’altra. La sua folla è sempre quella
della metropoli; la sua Parigi è sempre sovrapopolata. E ciò
lo rende così superiore a Barbier, dove — il procedimento
essendo la descrizione — le masse e la città cadono l’una al
di fuori dell’altra. Nei Tableaux parisiens si può provare,
quasi sempre, la presenza segreta di una massa52.

Tale presenza, immanenza, anzi, dei reali rapporti di


produzione nel comportamento del « pubblico », che usa
la città venendo inconsapevolmente usato da essa, si iden­
tifica nella stessa presenza di un osservatore .— come
Baudelaire — che è costretto a riconoscere la propria
insostenibile posizione di partecipe di una mercificazione
sempre più generalizzata, nel momento stesso in cui sco­
pre che l’unica necessità ineluttabile per il poeta è ormai
la prostituzione53.
La poesia di Baudelaire, come la produzione messa
in mostra nelle Esposizioni universali, o la trasformazione
della morfologia urbana messa in moto da Haussmann,
segnano la presa di coscienza della indissolubile dialettica

52 W. Benjamin, op. cit., p. 99.


53 « La prostituzione, col sorgere delle metropoli, entra in pos­
sesso di nuovi arcani. Uno dei quali è, anzitutto, il carattere labi­
rintico della città stessa: l’immagine del labirinto è entrata al
flàneur nella carne e nel sangue. La prostituzione, per così dire,
la colora diversamente » (ivi, p. 137).
esistente fra uniformità e diversità. Specie per la strut­
tura della nuova città borghese, non si può ancora parlare
di tensione fra l’eccezione e la regola. Ma si può parlare
di tensione fra la obbligata mercificazione dell’oggetto e
i tentativi soggettivi di recuperarne — fittiziamente —
l’autenticità.
Solo, che ora non è più data altra via che ridurre la
ricerca dell’autenticità alla ricerca dell’eccentrico. Non è
solo il poeta a dover accettare la propria condizione di
mimo — ciò può spiegare, fra parentesi, perché l’intera
arte contemporanea si dia, insieme, come atto volutamente
« eroico » e come bluff, consapevole del proprio carattere
mistificato —: è piuttosto l’intera città, oggettivamente
strutturata come macchina funzionale all’estrazione di
plusvalore sociale, che riproduce, nei propri meccanismi
di condizionamento, la realtà dei modi di produzione
industriale.
Benjamin lega strettamente il declino dell’esercizio e
dell’esperienza nel lavoro operaio — ancora funzionali
nella manifattura — all’esperienza dello choc, tipica
della condizione urbana.

L’operaio non specializzato — egli scrive — è quello


più profondamente degradato dal tirocinio della macchina. Il
suo lavoro è impermeabile all’esperienza. L’esercizio non vi
ha più alcun diritto. Ciò che il lunapark realizza nelle sue
gabbie volanti e in altri divertimenti del genere non è che un
saggio del tirocinio a cui l’operaio non specializzato è sotto­
posto nella fabbrica (un saggio che, a volte, dovette sosti­
tuire per lui l’intero programma, poiché l’arte dell’eccentrico,
in cui l’uomo qualunque poteva esercitarsi nei lunapark,
prosperava nei periodi di disoccupazione). Il testo di Poe
— [Benjamin si riferisce all 'Uomo della folla, tradotto da
Baudelaire] — rende evidente il rapporto tra sfrenatezza e
disciplina. I suoi passanti si comportano come se, adattati
ad automi, non potessero più esprimersi che in modo auto-
matico. Il loro comportamento è una reazione à chocs. « Quan­
do erano urtati, salutavano profondamente quelli da cui
avevano ricevuto il colpo »54.

Fra il codice di comportamento connesso all’esperien­


za dello choc e la tecnica del gioco d’azzardo esiste quindi
una profonda affinità. « Ogni intervento sulla macchina
è altrettanto ermeticamente separato da quello che lo ha
preceduto quanto un coup della partita d’azzardo dal coup
immediatamente precedente; e la schiavitù del salariato
fa, in qualche modo, pendant a quella del giocatore. Il
lavoro dell’uno e dell’altro è egualmente libero da ogni
contenuto »55.
Malgrado l’acutezza delle sue osservazioni, Benjamin
non lega — né nei saggi su Baudelaire, né ne L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica — tale
invasione dei modi di produzione nella struttura della
morfologia urbana, alla risposta data dalle avanguardie
storiche al tema dèlia città.
Passages e grandi magazzini di Parigi sono certo,
come le Esposizioni, i luoghi in cui la folla, divenendo
spettacolo a se stessa, trova lo strumento spaziale e visivo
per un’autoeducazione dal punto di vista del capitale56.
Ma l’esperienza ludico-pedagogica, proprio concentrandosi
in tipologie architettoniche eccezionali, rivela ancora peri­
colosamente, per tutto il corso dell’800, la parzialità delle
sue proposte. L’ideologia del pubblico non è infatti fine
a se stessa. Essa non è che un momento dell’ideologia

w Ivi, pp. 108-9.


55 Ivi, p. 110.
56 Le relazioni fra la nascita dell'ideologia del pubblico e il
programma delle grandi Esposizioni sono state analizzate dà Alberto
Abruzzese, nel saggio Spettacolo e alienazione, « Contropiano »,
1968, n. 2, pp. 379-421. Sulla struttura dei passages si veda il re­
cente e documentatissimo volume di J. Friedrich Geist, Passagen,
ein Bautyp des 19. Jahrhunderts, Bastei Verlag, Munchen 1969.
della città come unità produttiva in senso proprio, e,
contemporaneamente, come strumento di coordinamento
del ciclo produzione-distribuzione-consumo.
È per questo che l’ideologia del consumo, lungi dal
costituire un momento isolato o successivo dell’organiz­
zazione produttiva, si deve offrire al pubblico come ideo­
logia del corretto uso della città. (Può cadere a proposito
ricordare qui, per inciso, quanto il problema del compor­
tamento influenzi le esperienze delle avanguardie europee,
e l’esempio sintomatico di Loos che pubblica — nel
1903, al ritorno dagli Stati Uniti — due numeri della
rivista « Das Andere », dedicati a introdurre, con toni
polemici e ironici, « moderni » modi di comportamento
cittadino nella borghesia viennese.)
Fin quando l’esperienza della folla si tradurrà — co­
me in Baudelaire — in sofferta coscienza di partecipa­
zione, essa servirà a generalizzare una realtà operante,
ma non a contribuire alla sua avanzata. È a questo punto,
e solo a questo punto, che la rivoluzione linguistica del­
l’arte contemporanea è chiamata ad offrire il proprio
contributo.
Sottrarre l’esperienza dello choc ad ogni automatismo,
fondare su quell’esperienza codici visivi e di azione mu­
tuati dalle caratteristiche già consolidate della metropoli
capitalista — velocità dei tempi di trasformazione, orga­
nizzazione e simultaneità di comunicazioni, tempi acce­
lerati d’uso, eclettismo — ridurre al puro oggetto (meta­
fora palese dell’oggetto-merce) la struttura dell’esperienza
artistica, coinvolgere il pubblico, unificato in una dichia­
rata ideologia interclassista e perciò antiborghese: questi
sono i compiti che, nel loro insieme, vengono assunti
in proprio dalle avanguardie del ’900.
Lo ripetiamo: nel loro insieme, al di là di ogni distin­
zione fra costruttivismo e arte di protesta. Cubismo, Futu­
rismo, Dada, De Stijl. Le avanguardie storiche sorgono
tanr» v ' .SFaham (della D. Burnham & Co.), Equitable Life Assu-
ance Building, New York City, 1913-1915.
e si succedono seguendo la legge tipica della produzione
industriale: la continua rivoluzione tecnica ne è l’essenza.
Per tutte le avanguardie — e non solo pittoriche — la
legge del montaggio è fondamentale. E poiché gli oggetti
montati appartengono al mondo reale, il quadro diviene
il campo neutro in cui si proietta Vesperienza dello choc
subita nella città. Anzi, ora il problema è di insegnare
a non « subire » quello choc, ma di assorbirlo, di introiet-
tarlo come inevitabile condizione di esistenza.
Un passo di Georg Simmel è al proposito illuminante.
Esaminando le caratteristiche di quello che egli chiama
« l’uomo metropolitano », Simmel analizza il comporta­
mento nuovo assunto dall'individuo-massa all’interno della
Groszstadt, individuato come luogo specifico del « fluire
della corrente monetaria ». L’intensificata stimolazione ner­
vosa indotta « dall’afiollarsi di immagini che cambiano,
l’intensa discontinuità contenuta in una sola occhiata,
l’inaspettata potenza di una impressione improvvisa »,
sono così lette da Simmel come condizioni nuove che
generano Vatteggiamento blasé dell’individuo metropoli­
tano: dell’« uomo senza qualità », indifferente ai valori
per definizione.

L’essenza dell’atteggiamento blasé — scrive Simmel57 —


è nell’insensibilità a ogni distinzione, ma questo non signi­
fica che gli oggetti non vengano percepiti, come nel caso del­
l’insufficienza mentale, ma piuttosto che il significato e il
diverso valore delle cose, e di conseguenza le cose stesse, sono
percepite come non essenziali. All’individuo blasé esse ap­
paiono su un piano uniforme e in una tonalità opaca; nessun
oggetto merita preferenza rispetto a un altro: questo stato

57 Georg Simmel, Die Groszstadte und das Geistesleben,


Dresden 1903, ora in Briicke und Tur, Stuttgart 1957, trad. it. in
AA.VV., Immagini dell’uomo, Comunità, Milano 1963, e in AA.W.,
Città e analisi sociologica, Marsilio, Padova 1968. Il passo citato è a
p. 280 di tale ultimo volume (corsivi nostri).
d’animo è il fedele riflesso soggettivo di una completa inte­
riorizzazione dell’economia del denaro [...]. Tutti gli oggetti
galleggiano con uguale peso specifico nel movimento costante
All'economia monetaria. Gli oggetti giacciono tutti allo stesso
livello e differiscono fra loro solo per l'area che ricoprono
nello spazio.

Massimo Cacciati ha acutamente analizzato il senso


specifico della sociologia urbana di Simmel58. A noi
interessa per ora notare che le considerazioni simmeliane
sulla grande metropoli, scritte fra il 1900 e il 1903,
contengono in nuce le tematiche su cui si eserciteranno
a lungo tutte le avanguardie storiche. Gli oggetti galleg­
giano tutti allo stesso livello, con uguale peso specifico

58 Massimo Cacciati, Note sulla dialettica del negativo nel­


l’epoca della metropoli (Saggio su Georg Simmel), « Angelus No-
vus », 1971, n. 21, pp. 1 sgg. « Il processo di interiorizzazione del­
l’economia monetaria — scrive Cacciati — segna il punto conclu­
sivo e fondamentale dell’analisi simmeliana. È qui che si coglie
concretamente il reali^arsi del processo dialettico — è qui che le
determinazioni precedenti cessano di valere " in generale Quando
la molteplicità intellettualizzata degli stimoli diviene comporta­
mento, allora soltanto la Vergeistigung è completa, allora soltanto
si garantisce che fuori di essa non esiste autonomia individuale.
E perché questa prova risulti onnicomprensivamente valida bi­
sogna dimostrare proprio nel comportamento apparentemente più
“ eccentrico ” il dominio della forma dell’astrazione e del calcolo,
di cui la Metropoli è patria L’atteggiamento blasé definisce
Yillusorietà delle differenze. La sua costante stimolazione nervosa,
la ricerca del piacere risultano esperienze del tutto astratte dal­
l’individualità specifica del loro oggetto: " nessun oggetto merita di
essere preferito a un altro ” [Simmel, op. cit., p. 232] ». « Intel­
lettualizzazione, Vergeistigung e mercificazione — continua Cac­
ciati — si fondono nell’atteggiamento blasé: con esso la Metropoli
crea finalmente il suo " tipo ”, la sua struttura " in generale ” di­
viene finalmente realtà sociale e fatto di cultura. È il denaro che
ha qui trovato il suo più autentico portatore ». Cfr. anche, di
M. Cacciati, il volume Metropolis. Saggi sulla grande città di Som-
bari, Endell, Scheffler, Simmel, Officina, Roma 1973, e il saggio
introduttivo all’ed. italiana dei Saggi di estetica di Simmel, ed.
Liviana, Padova 1970.
nel movimento costante dell’economia monetaria: non
sembra di leggere qui un commento letterario a un Merz-
bild di Schwitters? (Non si dimentichi che lo stesso ter­
mine « Merz » non è che un’estrapolazione dal termine
« Commerz ».) Il problema è infatti come rendere attiva
l’intensificazione del Nervenleben, come assorbire lo choc
provocato dalla Groszstadt, trasformandolo in nuovo prin­
cipio di sviluppo dinamico, come « utilizzare », al limite,
l’angoscia, che « l’indifferenza al valore » provoca e ali­
menta di continuo nell’esperienza metropolitana. Dall’urlo
di Munch bisognerà passare alla Storia dei due quadrati
di Lisickij: dall’angosciata scoperta della nullificazione dei
valori, all'io di un linguaggio di puri segni, percepibile
da una massa che abbia introitato completamente l’uni­
verso senza-qualità della corrente monetaria.
Le leggi della produzione entrano così a far parte di
un nuovo universo di convenzioni, poste esplicitamente
come « naturali ». È qui la ragione per cui le avanguardie
non si pongono il problema di un avvicinamento al pub­
blico. Anzi, questo è un problema che non si può nep­
pure porre. Non facendo che interpretare qualcosa di
necessario e universale, le avanguardie possono benissimo
accettare una provvisoria impopolarità, ben sapendo che
la loro rottura con il passato è la condizione che fonda
il loro valore di modelli per l’azione.
Arte come modello di azione: il grande principio­
guida della riscossa artistica della borghesia moderna; ma,
nello stesso tempo, l’assoluto da cui nascono nuove e
insopprimibili contraddizioni. Vita e arte, rivelatesi anti­
tetiche, debbono indurre a ricercare o strumenti di media­
zione — ed ecco l’intera produzione artistica accettare la
problematicità come nuovo orizzonte etico —, o i modi
di passaggio dell’arte alla vita: anche se con ciò la profe­
zia hegeliana della morte dell’arte dovrà divenire realtà.
È qui che si rivelano più concretamente i legami
che stringono in un tutto unico la grande tradizione
dell’arte borghese. Il riferimento iniziale a Piranesi, come
teorico e critico, allo stesso tempo, delle condizioni di
un’arte non più universalizzante e non ancora borghese,
si giustifica ora per la sua funzione illuminante. Criti­
cismo, problematicità, dramma dell’utopia: questi sono
i pilastri su cui si fonda la tradizione di quel « movi­
mento moderno », che, in quanto- progetto di modella­
zione dell’« uomo borghese » come « tipo » assoluto, ha
una sua indubbia coerenza interna (anche se non si tratta
della coerenza riconosciuta dalla storiografia corrente).
Sia il Campomarzio di Piranesi, che la Dame au violon
di Picasso sono dei « progetti »; anche se il primo orga­
nizza una dimensione architettonica, e la seconda orga­
nizza un comportamento umano. Entrambi usano la tec­
nica dello choc; anche se il grafico piranesiano usa mate­
riali storici preformati e il quadro di Picasso materiali
artificiali, come, con più rigore, più tardi, faranno Du-
champ, Hausmann e Schwitters. Entrambi scoprono la
realtà di un universo-macchina: anche se il progetto
urbano settecentesco lo rende astratto e reagisce con ter­
rore a tale scoperta, e la tela picassiana agisce comple­
tamente all’interno di esso.
Ma, ciò che è più importante, sia Piranesi che Picasso
rendono « universale », tramite l’eccesso di verità rag­
giunto con gli strumenti di-un’elaborazione formale pro­
fondamente critica, una realtà che poteva ancora essere
considerata del tutto particolare. Il « progetto » insito
nel quadro cubista va però al di là del quadro stesso. I
ready-made objects, introdotti dal 1912 da Braque e
Picasso e codificati come nuovi strumenti di comunica­
zione da Duchamp, sanciscono l’autosufficienza della realtà,
e il ripudio definitivo, da parte della realtà stessa, di ogni
rappresentazione. Il pittore può solo analizzare tale realtà.
Il suo preteso dominio della forma non è che copertura
di qualcosa che non può ancora essere accettato come
tale: che è ormai la forma, cioè, a dominare il pittore.
Solo, che ora per « forma » bisogna intendere la
logica delle reazioni soggettive all’universo oggettivo della
produzione. Il cubismo, nel suo complesso, tende a defi­
nire le leggi di tali reazioni: è sintomatico che tutta la
sua vicenda parta dal soggetto e sfoci nel più assoluto
ripudio di esso (ben lo avvertirà, e con inquietitudine,
Apollinaire). In quanto « progetto », ciò che il cubismo
vuole realizzare è un comportamento. Il suo antinatura­
lismo non contiene però alcun elemento persuasivo nei
confronti del pubblico: si persuade qualcuno solo se si
ritiene che l’oggetto della persuasione sia del tutto estra­
neo a chi ci si indirizza. Il cubismo intende invece
dimostrare la realtà della « nuova natura » creata dalla
nuova metropoli capitalistica, il suo carattere necessario
e universale, la coincidenza, in esso, di necessità e libertà.
Per questo, Braque, Picasso e ancor più Gris, ado­
perano la tecnica del montaggio per dare forma asso­
luta all’universo di discorso della civilisation machiniste.
Primitivismo e antistoricismo sono conseguenze e non
cause delle loro scelte fondamentali.
In quanto tecniche di analisi di un’universo totaliz­
zante, sia il cubismo che il De Stijl sono espliciti inviti
all’azione: per i loro prodotti artistici si potrebbe benis­
simo scrivere della feticizzazione dell'oggetto artistico e
del suo arcano.
Il pubblico deve essere provocato: solo in tal modo
esso può essere inserito attivamente nell 'universo della
precisione dominato dalle leggi della produzione. La
passività del flaneur cantato da Baudelaire deve essere
vinta: l’atteggiamento blasé deve venire tradotto in fattiva
compartecipazione alla scena urbana. È la città l’oggetto
di cui né le tele cubiste né gli « schiaffi » futuristi, né
il nichilismo dada parlano, ma che — proprio perché
continuamente presupposto — è il valore di riferimento
cui le avanguardie tendono. Mondrian avrà il coraggio
di « nominare » la città, come l’oggetto finale cui tende
la composizione neoplastica: ma sarà costretto a ricono­
scere che, una volta tradotta in struttura urbana, la
pittura — ormai ridotta a puro modello di comporta­
mento — dovrà morire59.
Baudelaire scopre invece che la mercificazione del pro­
dotto poetico può essere accentuata proprio dal tentativo
del poeta di svincolarsi dalle sue condizioni oggettive.
La prostituzione dell’artista consegue al massimo mo­
mento della sua sincerità umana60. De Stijl e, ancor più,
Dada scoprono che esistono due vie per il suicidio del­
l’arte: il silenzioso immergersi nelle strutture della città,
idealizzandone le contraddizioni, o la violenta immis­
sione nelle strutture della comunicazione artistica dell’irra­
zionale — anch’esso idealizzato — mutuato dalla stessa
città.
De Stijl diviene metodo di controllo formale dell’uni­
verso tecnologico, Dada vuole enunciare apocalitticamente
l’assurdo immanente in esso. Eppure, la critica nichilista
formulata da Dada finisce per divenire strumento di con­
trollo per la progettazione: non ci si dovrà meravigliare
incontrando — anche in sede filologica — molti punti
di tangenza fra i movimenti di avanguardia più « costrut­
tivi» del ’900 e quello più distruttivo.
La scomposizione efferata del materiale linguistico e

59 Cfr. P. Mondrian, « De Stijl », I e III, trad. it. in Ottavio


Morisani, Piet Mondrian, Neri Pozza, Venezia 1956, pp. 47-9. Si
veda anche, di Mondrian, Casa, strada, città (1927), ivi, pp. Ili sgg.
60 II die è del tutto evidente nell’atteggiamento di un Hugo
Ball. Cfr., di Ball, Die Flucht aus der Zeit, Lucern 1946. Su Ball,
cfr. la recente monografia di Luisa Valeriani, Ball e il Cabaret Vol­
taire, Martano, Torino 1971.
10 Kurt Schwitters, veduta del Merzbau di Hannover, 1920-1936
(distrutto). '
l’antiprogettismo di Dada cosa sono se non sublimazione,
malgrado tutto, dell’automatismo e della mercificazione dei
« valori », ormai diffusi a tutti i livelli dell’esistenza, dal­
l’avanzata capitalista? De Stijl e Bauhaus — il primo in
modo fazioso, il secondo in modo eclettico — introdu­
cono Videologia del piano in un design legato sempre più
profondamente alla città come struttura produttiva: Dada
dimostra per assurdo, senza nominarla, l’esigenza del
piano.
Ma v’è di più. Tutte le avanguardie storiche agiscono
adottando come modello l’azione dei partiti politici. Dada
e Surrealismo possono certo essere visti come espressioni
particolari dello spirito anarchico, ma il De Stijl, il Bauhaus
e le avanguardie sovietiche non si peritano di porsi espli­
citamente come alternative globali alla prassi politica.
Alternative, si noti, che assumono tutti i caratteri di
scelte etiche.
De Stijl — come, del resto, il Futurismo russo e le
correnti costruttiviste — oppongono al Caos, all’empirico,
al quotidiano, il principio della Forma. Ed è una forma
che tiene conto di ciò che concretamente rende informe,
caotica, impoverita, la realtà. L’orizzonte della produ­
zione industriale, che impoverisce spiritualmente il mondo,
è allontanato come universo « senza qualità », come non­
valore, ma trasformato successivamente in valore nuovo,
tramite la sua sublimazione. La scomposizione neopla­
stica delle forme elementari corrisposte alla scoperta che
la « nuova ricchezza » dello spirito non può più essere
cercata al di fuori della « nuova povertà » sussunta dalla
civiltà meccanica. La ricomposizione disarticolata di quelle
forme elementari sublima l’universo meccanico, dimo­
strando che non si dà più, ormai, forma alcuna di ricon­
quista della totalità (dell’essere come dell’arte) che non
dipenda dalla problematicità della forma stessa.
Dada affonda invece nel caos. Rappresentandolo, ne
conferma la realtà; ironizzando su di esso, pone un’esi­
genza di cui denuncia l’inadempimento. E tale esigenza
insoddisfatta è proprio quel controllo dell’informe, che
il De Stijl, tutte le correnti costruttiviste europee, e già
nell’800 le estetiche formaliste — dalla Sichtbarkeit in
poi — avevano posto come nuova frontiera per le comu­
nicazioni visive. Nessuna meraviglia, quindi, che l’anar­
chia di Dada e l’ordine di De Stijl si incontrino e con­
fluiscano dal 1922 in poi, sia in sede teorica, che nella
elaborazione degli strumenti di una nuova sintassi, in
sede operativa61.
Caos e ordine sono così sanciti dalle avanguardie
storiche come i « valori » in senso proprio della nuova
città capitalistica.
Certo, il caos è un dato, e l’ordine è un obiettivo.
Ma la forma, da ora in poi, non va cercata al di là del
caos, bensì al suo interno. È l’ordine, che offre signifi­
cato al caos e lo traduce in valore, in « libertà ». Del
resto anche l’eversione dada — e particolarmente negli
ambienti americano e berlinese — contiene una istanza
« positiva ». Anzi, storicamente parlando, il nichilismo
dadaista, nelle mani di un Hausmann o di un Heartfield,
diviene espressione di una nuova tecnica di comunicazione.

61 Del resto, il tema dell’unificazione degli apporti delle avan­


guardie appare urgente, dal 1922 in poi, almeno. L’azione di figure
come quelle di Lisickij, di Moholy-Nagy, di Van Doesburg, di Hans
Richter è determinante in tal senso. Una prima sintesi di dadaismo
e costruttivismo è già nel manifesto di Raoul Hausmann, Hans
Arp, Ivan Punì, Laszlo Moholy-Nagy, Aufruf zur Elementaren
Kunst, «De Stijl», IV, 1921, n. 10, p. 156. Fondamentali, al pro­
posito, sono i due convegni delle avanguardie tenuti a Dusseldorf
e a Weimar nel 1922. Cfr. « De Stijl », V, 1922, h. 4, per il
manifesto conclusivo del convegno di Dusseldorf (30 maggio 1922),
e Van Doesburg, H. Richter, K. Maes, Max Burchartz, E1 Lisickij,
Konstruktivistische internationale scbopferische Arbeitsgemeinschaft,
«De Stijl», V, 1922, n. 8, pp. 113-5. Risultati di tale sintesi sono
indubbiamente le riviste « Mécano », « G », « Merz ».
Georg Grosz, Friedrìchs trasse, 1918.
Tecnica del montaggio e sistematico uso dell’imprevisto
si compongono insieme, a formare le premesse di un
nuovo linguaggio non verbale, basato sull’improbabilità
e su quella che il Formalismo russo chiamava « distorsione
semantica ».
Proprio con Dada, dunque, la teoria dell’informazione
entra come strumento di verifica nell’universo delle comu­
nicazioni visive. Ma il luogo deputato dell’improbabile è
la città. L’informe della città va quindi riscattato estraendo
dal suo interno tutte le valenze progressive. L’esigenza
di un programmato controllo delle nuove forze sprigionate
dall’universo tecnologico, che è chiamato a compiere tale
operazione maieutica, è individuata con estrema chiarezza
dalle avanguardie, che scoprono subito dopo di non essere
in grado di dare forma concreta a quella istanza di
Ragione.
È a questo punto che l’architetturà può entrare in
campo assorbendo e superando tutte le istanze delle avan­
guardie storiche: mettendole in crisi, anche, dato che è
essa l’unica in grado di dare risposte reali alle esigenze
poste dal cubismo, dal futurismo, da Dada, da De Stijl,
dal costruttivismo internazionale.
Il Bauhaus, come camera di decantazione delle avan­
guardie, ha appunto questo compito storico: quello di
selezionare tutti gli apporti delle avanguardie stesse, met­
tendoli alla prova di fronte alle esigenze della realtà pro­
duttiva62. Il design, metodo di organizzazione della pro­

62 Dal 1962, data di pubblicazione del volume del Wingler,


con una ricca (anche se parziale) documentazione inedita, la revi­
sione del significato storico del Bauhaus ha impegnato con conti­
nuità gli studiosi dell’architettura moderna. Fra i più recenti con­
tributi citiamo: Walther Scheidig, Le Bauhaus de Weimar, 1919-
1924, Bernard Laville, Leipzig 1966; il numero unico di « Contro­
spazio » (1970, n. 4/5); AA.W., Bauhaus 1919-1929, Cat. Expo
Musée National d’art moderne, Paris, 2/4-22/6 1969; e principal­
mente: Francesco Dal Co, Hannes Meyer e la " venerabile scuola "
duzione prima ancora che metodo di configurazione di
oggetti, fa ragione dei residui utopistici insiti nelle poe­
tiche delle avanguardie. L’ideologia, ora, non si sovrap­
pone alle operazioni — concrete perché connesse ai reali
cicli di produzione — ma è interna alle operazioni stesse.
Anche il design, malgrado il suo realismo, pone esi­
genze insoddisfatte, e — nello scatto che impone all’orga­
nizzazione delle imprese e all’organizzazione della produ­
zione — contiene un margine di utopia (ma si tratta, ora,
di un’utopia funzionale agli obiettivi di riorganizzazione
della produzione, che si intende raggiungere). Il Piano,
individuato dai movimenti architettonici di punta — il
termine avanguardia non è ora più. adeguato — dalla
formulazione del Pian Voisin di Le Corbusier (1925) e
dalla trasformazione del Bauhaus (1923) in poi, contiene
questa contraddizione: partendo dal settore della produ­
zione edilizia, la cultura archi tettonica scopre che solo
legando quel settore alla riorganizzazione della città, gli
obiettivi prefissati possono trovare soddisfazione. Ma ciò
equivale a dire che, come le esigenze denunciate dalle
avanguardie storiche rimandavano al settore delle comu­
nicazioni visive più direttamente inserito nei processi eco­
nomici — l’architettura e il design —, così la pianifica­
zione enunciata dalle teorie architettoniche e urbanistiche
rimanda ad altro da sé: ad una ristrutturazione della
produzione e del consumo in generale; in altre parole
ad un coordinamento pianificato della produzione. In tal
senso, l’architettura media — partendo da se stessa —
realismo e utopia. L’utopia è nell’ostinarsi a nascondere

di Dessau, introduzione alla raccolta di scritti di H. Meyer pubbli­


cata con il titolo Architettura o rivoluzione, Marsilio, Padova 1969.
Cfr. inoltre il fondamentale volume di Marcel Franciscono, Walter
Gropius and thè Creation of thè Bauhaus in Weimar. The Ideals
and Artistic Theories of its Founding Years, University of Illinois
Press, Urbana 1971.
che l’ideologia della pianificazione può realizzarsi nella
produzione edilizia solo indicando che è al di là di essa
che il vero Piano può prendere forma; anzi, che una
volta entrato nell’orizzonte della riorganizzazione della
produzione in generale, l’architettura e l’urbanistica sa­
ranno oggetti, e non soggetti, del Piano.
La cultura architettonica fra il ’20 e il ’30 non è
pronta ad accettare tali conseguenze. Ciò che ha chiaro
è il proprio compito « politico ». L’architettura — leggi:
la programmazione e la riorganizzazione pianificata della
produzione edilizia e della città come organismo produt­
tivo — piuttosto che la rivoluzione: Le Corbusier enun­
cia chiaramente questa alternativa.
Nel frattempo, e proprio partendo dai circoli più poli­
ticamente impegnati — dalla Novembergruppe, alle rivi­
ste « Ma » e « Vesc », al Ring berlinese — l’ideologia
architettonica si precisa tecnicamente. Accettando con
lucida oggettività tutte le conclusioni sulla « morte del­
l’aura » e sulla funzione puramente « tecnica » dell’intel­
lettuale, enunciate apocalitticamente dalle avanguardie, la
Neue Sachlicbkeit mitteleuropea adegua lo stesso metodo
di progettazione alla struttura, idealizzata, della catena
di montaggio. Le figure e i metodi del lavoro industriale
entrano nell’organizzazione del progetto e si riflettono
nelle proposte di consumo dell’oggetto.
Dall’elemento standardizzato, alla cellula, al blocco
singolo, alla Siedlung, alla città: la cultura architettonica
fra le due guerre imposta con eccezionale chiarezza e
coerenza questa catena di montaggio. Ogni « pezzo » della
catena è in sé compiutamente risolto e tende a sparire,
o, meglio, a diluirsi formalmente nel montaggio.
Da tutto ciò risulta rivoluzionata la stessa esperienza
estetica. Non più oggetti si presentano ora al giudizio,
ma un processo, da vivere e fruire in quanto tale. Il
fruitore, chiamato a completare gli « aperti » spazi di
Mies van der Rohe o di Gropius è l’elemento centrale
di tale processo. L’architettura, chiamando il pubblico a
compartecipare alla progettazione, dato che le nuove
forme non vogliono essere più valori assoluti ma proposte
di organizzazione della vita collettiva — Varchitettura
integrata di Gropius —, fa compiere all’ideologia del
pubblico un salto in avanti. Il sogno del socialismo roman­
tico di Morris — un’àrte fatta da tutti per tutti — prende
forma ideologica all’interno delle ferree leggi della mecca­
nica del profitto. Anche sotto questo aspetto, è la città
il termine ultimo di confronto per la verifica delle ipotesi
teoriche.
5. Architettura «radicale» e città

« L’architettura della grande città — scrive Hilber-


seimer63 — dipende essenzialmente dalla soluzione data
a due fattori: la cellula elementare e il complesso del­
l’organismo urbano. Il singolo vano come elemento costi­
tutivo dell’abitazione ne determinerà l’aspetto, e poiché
le abitazioni formano a loro volta gli isolati, il vano
diverrà un fattore della configurazione urbana, ciò che
rappresenta il vero scopo dell’architettura; reciprocamente,
la struttura pianimetrica della città avrà una sostanziale
influenza sulla progettazione dell’abitazione e del vano ».
La grande città è quindi una vera e propria unità.
Leggendo l’autore al di là delle sue stesse intenzioni,
possiamo tradurre le sue affermazioni in quest’altra: è
l’intera città moderna che, nella sua struttura, diviene
un’enorme « macchina sociale ». Hilberseimer seleziona
— a differenza di quanto fanno molti teorici tedeschi,
fra il 1920 e il 1930 — quest’ultimo aspetto dell’econo­
mia urbana, isolandolo per analizzarne e risolverne sepa­
ratamente le componenti. Quanto egli scrive sulle rela­
zioni fra la cellula e l’organismo urbano è quindi esem­
plare, per la lucidità dell’esposizione e l’essenzialità cui i

63 Ludwig Hilberseimer, Groszstadtarchitektur, cit. Cfr. G.


Grassi, Introduzione all’ed. it. di Entfaltung einer Planungsidee,
Ullstein Bauwelt Fondamente, Berlin 1963 (Un’idea di piano, Mar­
silio, Padova 1967).
problemi vengono ridotti. La cellula non è solo l’elemento
primo, della continua catena di produzione che si con­
clude nella città, ma anche l’elemento condizionante la
dinamica delle aggregazioni edilizie. Il suo valore di tipo
permette una sua analisi ed una sua soluzione in astratto.
La cellula edilizia, in tale accezione, rappresenta la strut­
tura di base di un programma produttivo, da cui è esclu­
sa ogni ulteriore componente tipologica. L’unità edilizia
non è più, ora, un « oggetto ». È solo il luogo in cui
assume forma fisica il montaggio elementare delle sin­
gole cellule. In quanto elementi riproducibili all’infinito,
queste incarnano concettualmente le strutture prime di
una catena di produzione, che prescinde dall’antico con­
cetto di « luogo » o di « spazio ». Coerentemente ai pro­
pri assunti, Hilberseimer pone come secondo termine
del suo teorema l’intero organismo cittadino: la confor­
mazione della cellula predispone le coordinate di proget­
tazione dell’insieme urbano; la struttura della città potrà
deformare, dettandone le leggi di montaggio, la tipologia
della cellula64.
Nella ferrea articolazione del piano di produzione
sparisce la dimensione specifica dell’architettura, almeno
nella sua accezione tradizionale. In quanto « eccezionale »
rispetto all’omogeneità della città, l’oggetto architettonico
si è completamente dissolto.
Dovendo « plasmare grandi masse secondo una legge
generale, dominando la molteplicità — scrive Hilbersei­
mer — [...] il caso generale, la legge, vengono esaltati

64 Da ciò lo schema di « città verticale », che, secondo il Grassi


(op. cit., p. 10), si pone come alternativa teorica della « città per
tre milioni di abitanti » presentata da Le Corbusier nel 1922 al
Salon d’Automne. Va ancora notato che — malgrado il distaccato
rigore di Hilberseimer e di tutti i gruppi intellettuali « radicali »
poi — l’autocritica compiuta poco dopo il trasferimento negli USA
lo avvicinerà ai miti comunitari e naturalistici che non saranno fra
gli ultimi ingredienti ideologici del New Deal.
e messi in evidenza, mentre l’eccezione viene messa da
parte, la sfumatura si cancella, regna la misura, che
costringe il caos a diventare forma, forma logica, univoca,
matematica » 65.
Ed ancora: « l’esigenza di plasmare una massa etero­
genea e spesso gigantesca di materiali secondo una legge
formale ugualmente valida per ogni elemento, comporta
una riduzione della forma architettonica alla sua esigenza
più sobria, più necessaria, più generale; una riduzione
cioè alle forme geometriche cubiche, che rappresentano
gli elementi fondamentali di ogni architettura » 66.
Non è, questo, un semplice « manifesto » purista. Le
considerazioni di Hilberseimer sull’architettura della
Groszstadt, perfettamente in linea con analoghe osserva­
zioni formulate da Behrens nel 1914 67, costituiscono una
logica deduzione tratta da ipotesi che rimangono ostina­
tamente all’interno di un’elaborazione concettuale da labo­
ratorio. Non offrendo « modelli » per la progettazione,
ma impostando al livello più astratto possibile, perché
più generale, le coordinate e le dimensioni della proget­
tazione stessa, Hilberseimer rivela, più di quanto non
facciano negli stessi anni Gropius, Mies ù Bruno Taut,
quali siano i compiti nuovi cui la fase di riorganizzazione
produttiva chiama gli architetti.
La « città-macchina » di Hilberseimer, immagine della
Groszstadt di Simmel, coglie, certo, solo aspetti margi­
nali della nuova funzione assegnata alle grandi concen­
trazioni di lavoro terziario dalla riorganizzazione capita­
listica. Rimane, comunque, che di fronte all’aggiorna-

65 L. Hilberseimer, op. cit., p. 21.


« Ibid.
67 Cfr. Peter Behrens, Einfluss von Zeit und Raumausnutzung
auf Moderne Eormentwicklung, in Der Verkebr, Jahrbuch des
Deutschen Werkbundes 1914, Eugen Diederichs Verlag, Jena 1914,
pp. 7-10.
13 Ludwig Hilberseimer, illustrazioni dal volume Groszstadtarcb
tektur, Stuttgart 1927.
mento delle tecniche di produzione e all’espansione e
razionalizzazione del mercato, l’architetto produttore di
« oggetti » è ormai figura inadeguata. Ora non si tratta
più di dare forma a singoli elementi del tessuto cittadino,
né, al limite, a semplici prototipi. Individuando nella
città l’unità reale del ciclo di produzione, l’unico compito
adeguato per l’architetto è quello dell’organizzatore di
quel ciclo. Portando la proposizione all’estremo, l’atti­
vità di elaboratore di modelli di organizzazione da cui
Hilberseimer tiene a non staccarsi, è l’unica in cui si
rispecchino completamente la necessità della taylorizza-
zione della produzione edilizia e il nuovo compito del
tecnico, in essa integrato al livello massimo.
È partendo da tale atteggiamento che Hilberseimer
può evitare di involversi nella « crisi dell’oggetto » enun­
ciata in modo ansioso da architetti come Loos o Taut.
Per Hilberseimer, l’« oggetto » non entra in crisi: esso
è già sparito dal suo orizzonte di considerazioni. L’unico
imperativo emergente è quello dettato dalle leggi dell’orga­
nizzazione; in ciò, correttamente, è stato visto il valore
maggiore del contributo di Hilberseimer.
Ciò che non si è invece colto è la rinuncia completa
fatta dallo stesso Hilberseimer a leggere nell’architettura
uno strumento di conoscenza. Persino Mies van der Rohe,
su tale tema, e" scisso. Assai vicino alla posizione di
Hilberseimer nelle case berlinesi sull'Afrikanische Strasse
ed incerto nell’impostazione della Weissenhofsiedlung di
Stoccarda, nel progetto per il grattacielo curvilineo in
vetro e ferro, nel monumento a Karl Liebknecht e Rosa
Luxemburg, nel progetto per abitazioni del ’35, ed in
fondo anche nella casa Tugendhat, egli esplora quali mar­
gini di recupero siano ancora consentiti all’architettura.
Non ci interessa seguire nelle sue interne articola­
zioni la dialettica che, su tali basi, serpeggia all’interno
del movimento moderno. Va piuttosto sottolineato che
buona parte delle contraddizioni e degli ostacoli, che
questo incontra di fronte a sé, nascono dal tentativo di
scindere proposizioni tecniche e fini conoscitivi.
La Francoforte pianificata da Ernst May, la Berlino
amministrata da Martin Wagner, l’Amburgo di Fritz Schu­
macher, la Amsterdam di Cor van Eesteren, sono i capi­
toli più importanti della storia della gestione socialdemo­
cratica della città. Ma accanto alle oasi di ordine delle
Siedlungen — vere e proprie utopie costruite, ai margini
di una realtà urbana da esse ben poco condizionata — le
città storiche e i territori produttivi continuano ad accu­
mulare e moltiplicare le loro contraddizioni. E sono in
gran parte contraddizioni che ben presto appaiono più
decisive degli strumenti elaborati dalla cultura architetto­
nica nel tentativo di controllarle.
È l’architettura dell’espressionismo a recepire l’ambi­
gua vitalità di quelle contraddizioni. Gli Hofe di Vienna
e gli edifici pubblici di Poelzig o di Mendelsohn sono
certo estranei alle nuove metodologie di intervento ela­
borate dai movimenti di avanguardia. Ma, malgrado tali
esperienze rifiutino in più modi di porsi al di dentro dei
nuovi orizzonti scoperti dall’arte che accetta la propria
« riproducibilità tecnica », come mezzo per incidere sul
comportamento umano, esse sembrano assumere un valore
critico, e proprio nei confronti degli sviluppi delle mo­
derne città industriali.
Opere come lo Schauspieltheater a Berlino, di Poelzig,
la Chilehaus o le altre opere amburghesi di Fritz Hòger,
le fabbriche berlinesi di Hans Hertlein o dei Paulus, non
costruiscono certo una nuova realtà urbana, ma commen­
tano, ricorrendo ad esasperazioni formali colme di pathos,
le contraddizioni della realtà operante.
I due poli dell’espressionismo e della Neue Sach-
lichkeit simbolizzano di nuovo la scissione immanente
nella dialettica della cultura europea.
14 Peter Behrens, prospetti della hall centrale degli uffici ammini-
fativi della Hoechst, a Francoforte, 1920-1928.
Fra la distruzione dell 'oggetto e la sostituzione ad
esso di un processo da vivere come tale, operata dalla
rivoluzione artistica attuata dal Bauhaus e dalle correnti
costruttivistiche, e l’esasperazione dell 'oggetto propria
dell’ambiguo eclettismo espressionista non v’è possibilità
di dialogo.
Ma non lasciamoci confondere dalle apparenze. Si
tratta di una dialettica fra intellettuali che riducono il
proprio potenziale ideologico alla strumentazione di pro­
grammi avanzati per un sistema produttivo in via di rior­
ganizzazione, e intellettuali che lavorano sfruttando le
arretratezze del capitalismo europeo. Il soggettivismo di
Hàring o Mendelsohn, in tal senso, assume certo un signi­
ficato critico rispetto al taylorismo di Hilberseimer o di
Gropius. Ma, oggettivamente, si tratta di una critica fatta
da posizioni di retroguardia, incapaci quindi, per loro
natura, di proporre alternative globali68.

68 In tal senso, riteniamo molto discutibile la lettura, recente­


mente riproposta da Zevi, di un Mendelsohn « espressionista » e
protestatario. Cfr. Bruno Zevi, Erich Mendelsohn, opera completa.
Architettura e immagini architettoniche, Etas Kompass, Milano 1970.
Tutta la prima produzione di Mendelsohn è sotto il segno di una
nietzschiana accettazione del reale. Non sarebbe difficile dimostrare
che, sia i suoi collages a scala urbana (il rinnovamento della sede
del « Berliner Tageblatt » a Berlino o i magazzini Epstein a Duis-
burg), che i suoi interventi nel cuore della Berlino terziaria sono
profondamente partecipi della cultura sociologica tedesca del primo
'900, in relazione al comportamento metropolitano. Gli strumenti
formali specifici usati da Mendelsohn — che d’altronde Zevi legge
correttamente — sono finalizzati chiaramente a quell’intensifica­
zione della stimolazione sensoriale sulla « vita nervosa » (Nerven-
le ben) che Georg Simmel, nel saggio sopra ricordato, riconosce
come effetto tipico della Groszstadt sull’« individuo metropolitano ».
E non va dimenticato, che, per Simmel come per Mendelsohn,
tale intensificazione degli stimoli è solo una premessa per rag­
giungere una superiore razionalità (Verstand). Su Mendelsohn, in
rapporto a tali aspetti, sono interessanti due saggi di solito dimen-
dagl' storici che si sono occupati dell’architetto tedesco: Karl
Weidle, Goethehaus und Einsteinturm. Zwei Pole heutiger Bau-
kunsi, Wissenscnattlichen Veriag Dr. Zaugg u. Co., Stuttgart 1929,
DII REIHENSTADT
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FRANKFURT AM MAIN f.
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15 Piano regionale del sistema Eschborn-Cronberg, 1931.


L’architettura autopubblicitaria di Mendelsohn è crea­
zione di « monumenti » persuasivi al servizio del capi­
tale commerciale; l’intimismo di Hàring fa leva sulle
tendenze tardoromantiche della borghesia tedesca. Eppure,
chi presenta la dialettica dell’architettura del ’900 come
ciclo unitario non ha tutti i torti.
Il rifiuto della contraddizione, come premessa di ogget­
tività e razionalizzazione della programmazione, rivela la
parzialità del suo assunto, proprio nel momento di mas­
sima tangenza con le strutture del potere politico. L’espe­
rienza mitteleuropea degli architetti socialdemocratici ha
come propria condizione da rispettare l’unificazione di
potere amministrativo e proposta intellettuale. In tal
senso, che May, Wagner o Taut assumano cariche poli­
tiche nell’amministrazione delle città socialdemocratiche
non è casuale. Se è l’intera città ad assumere ora la strut­
tura di una macchina industriale, in essa dovranno trovare
soluzione diverse categorie di problemi: primo fra tutti
quello derivante dal conflitto fra rendita fondiaria di posi­
zione, che con i suoi meccanismi parassitari blocca l’espan­
sione e l’aggiornamento del mercato edilizio e ne impe­
disce il rivoluzionamento tecnologico, e la necessità di
organizzare in modo globale la macchina-città.
La proposta architettonica, il modello urbano che su
di essa si articola, le premesse economiche e tecnologiche
che essa sottende — proprietà pubblica del suolo ed
impianti di industrializzazione edilizia dimensionati su
cicli di produzione programmati nell’ambito urbano —
si connettono indissolubilmente fra loro. La scienza archi­
tettonica si integra totalmente nell’ideologia del piano, e

e Werner Hegemann, « Mendelsohn und Hoetger ist " nìcht ” fast


Ganz Dasselbe »? Eine Betrachtung Neudeutscher Baugesinnung,
«Wasmuths Monatshefte fiir Baukunst », XII. 1928, heft 9, pp.
419-26.
le stesse scelte formali non sono che variabili dipendenti
da essa.
Tutta l’opera di May a Francoforte può essere letta
come espressione al massimo livello di tale concreta « poli­
ticizzazione » dell’architettura. L’industrializzazione del
cantiere aderisce all’unità minima di produzione indivi­
duata nella Siedlung} al suo interno, l’elemento primario
del ciclo industriale si impernia sul nucleo dei servizi (la
Frankfurter Kiiche); il dimensionamento delle Siedlungen
e la loro dislocazione nella città sono permessi dalla poli­
tica comunale sui terreni direttamente gestita dal comune:
la flessibilità del modello formale della Siedlung diviene,
a questo punto, l’elemento che dà il suggello culturale,
che rende « reali » gli obiettivi politici assunti in pieno
dall’architettura.
La propaganda nazista parlerà di socialismo costruito
per i quartieri di Francoforte: noi li dobbiamo leggere
come socialdemocrazia realizzata. Ma si noti: la coinci­
denza di autorità politica e intellettuale ha un compito
di pura mediazione fra strutture e sovrastrutture. Ciò si
riflette chiaramente nella organizzazione stessa della città.
L’economia chiusa della Siedlung si rispecchia nella frantu­
mazione dell’intervento, che lascia intatte le contraddizioni
di una città che non viene controllata e ristrutturata in
quanto sistema rispetto alla nuova dislocazione dei centri
produttivi nel territorio.
L'utopismo della cultura architettonica mitteleuropea
fra il ’20 e il ’30 consiste proprio in questo: nel rap­
porto fiduciario istituito fra intellettuali di sinistra, settori
avanzati del « capitalismo democratico » (si pensi, ad
esempio, a un Rathenau), e amministrazioni democra­
tiche. Le soluzioni di settore, in tale quadro, mentre
tendono a presentarsi come modelli altamente generaliz­
zati — politica demaniale e di espropri, sperimentazioni
tecnologiche, elaborazione formale della tipologia della
Siedlung — rivelano la loro limitata efficienza alla prova
dei fatti69.
La Francoforte di May, come la Berlino di Màchler
e Wagner, tende certo a riprodurre a livello sociale il
modello aziendale, a far assumere alla città la « figura »
della macchina produttiva, a realizzare, nella struttura
urbana e nel meccanismo di distribuzione e consumo,
l’apparenza della proletarizzazione generale. (L’interclas­
sismo delle proposte urbanistiche mitteleuropee è l’obiet­
tivo continuamente proposto a livello teorico.)
Ma l’unità della immagine urbana, metafora formale
della « nuova sintesi » proposta, segno leggibile dell'esal­
tante dominio collettivo sulla natura e sui mezzi di produ­
zione, costretti nell’ambito di una nuova utopia « uma­
na », non è realizzata dagli architetti tedeschi e olan­
desi. Strettamente integrati in precise politiche di piano
a livello urbano e regionale, essi elaborano modelli di
intervento generalizzabili: il modello della Siedlung ne è
la prova. Ma tale costante teorica riproduce nella città
la forma disgregata della catena di montaggio paleotecnica.

69 Manca ancora uno studio completo sulla storia della gestione


socialdemocratica delle città europee fra le due guerre. Per avvi­
cinarsi al tema è necessario ricorrere alle fonti: alle raccolte delle
riviste « Das neue Frankfurt », « Die neue Stadt », « Die Form »,
ecc. (cfr. ora il volume Die Form. Stimine des deutschen Werk-
bundes, Bertelsmann Fachverlag, Berlin 1969). Si veda inoltre:
Justus Buekschmitt, Ernst May, A. Koch Verlag, Stuttgart 1963;
Barbara Miller Lane, Architecture and Politics in Germany, 1918-
1945, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1968; Enzo
Collotti, Il Bauhaus nell’esperienza politico-sociale della Repubblica
di Weimar, « Controspazio », 1970, n. 4-5, pp. 8-15; Carlo Aymo-
nino (a cura di), L’abitazione razionale. Atti dei Congressi CIAM,
1929-1930, Marsilio, Padova 1971; Manfredo Tafuri, Socialdemo­
crazia e città nella Germania di Weimar, « Contropiano », 1971,
n. 1, pp. 207-23; M. Tafuri, Austromarxismo e città: « Das rote
Wien», «Contropiano», 1971, n. 2, pp. 259-311. Sugli esiti della
vicenda tedesca, si veda il saggio di Marco De Michelis, L’orga­
nizzazione della città industriale nel Primo Piano Quinquennale, nel
volume di AA.VV., Socialismo, città, architettura cit.
La città rimane un aggregato di parti, unificate funzio­
nalmente al livello minimo; e anche all’interno del sin­
golo « pezzo » — il quartiere operaio — l’unificazione
dei metodi si rivela ben presto strumento aleatorio.
La crisi, sul terreno specifico dell’architettura, esplode
nel 1930, nella Siemensstadt di Berlino. È incredibile
come la storiografia contemporanea non abbia ancora rico­
nosciuto, nella famosa Siedlung berlinese pianificata dà
Scharoun, il nodo storico nel quale si evidenzia una delle
più gravi fratture in seno al « movimento moderno ».
Il postulato dell’unità metodologica del design nelle
sue diverse scale dimensionali rivela nella SiemensstadtJil
proprio carattere utopistico. Sul supporto di un disegno
urbano, (che si è voluto, forse giustamente, riferire alle
ironiche deformazioni di un Klee), Bartning, Gropius,
Scharoun, Hàring, Forbat, dimostrano che la diluizione
dell’oggetto architettonico nel processo formativo dell’in­
sieme cozza contro le contraddizioni dello stesso movi­
mento moderno. Contro Gropius e Bartning, che riman­
gono fedeli alla concezione della Siedlung come catena
di montaggio, si pongono le allusive ironie di Scharoun
e l’ostentato organicismo di Hàring. Se, per usare il -ben
noto termine di Benjamin, nell’ideologia della Siedlung si
consuma la « distruzione dell’aura », tradizionalmente con­
nessa al « pezzo » architettonico, gli « oggetti » di Scha­
roun e di Hàring tendono al contrario al recupero di
un’« aura », anche se condizionata dai nuovi modi di pro­
duzione e da nuove strutture formali.
Del resto, l’episodio della Siemensstadt è solo il più
clamoroso. Qualora si eccettui il caso dell’Amsterdam
pianificata da Cor van Eesteren, fra il ’30 e il ’40 l’ideale
dei movimenti costruttivisti europei, quello cioè di dar
vita ad una città di tendenza, entra decisamente in crisi.
Ma la crisi è principalmente insita nella politica urba­
nistica doppiamente fallimentare messa in moto dalla
SIEDLUNG ROMERSTADT BAUHERR: MIETHEIM A. G.

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Zentralheizung
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verforgung

Die Siedlung wurde durch die Mietheim A.-G. in den Jahren 1927/28 auf
enteignefemGelàndeerrichtet. DerSiedlungsplan wurde vonStadtbaurat May
unfer Mitarbeif von Stàdi. Baurat Boeh m, aufgeftellt. Der Entwurl der Woh-
nungsbauten erfolgte unter Verwendung von wenigen Typen, tur die Bauien
beiderfeifs der Strafjen an der „Ringmauer’ durch den Architekten B.D.A.
Schaupp, fur die Bauien beiderfeifs der Strafje ,lm Heidenfeld' durch den
Architekten B.D.A. Blaffner, tur den Wohnungsblock weftlich des Sùdein-
ganges der Siedlung an der „Hadrianftrafje" durch den Architekten BDA.
Franz Schulter, fùr die ubrigen Teile durch Stadtbaurat May, Milarbeiler
ZWEIFAMILIENWOHNHAUS
ERD- UNO OBERGESCHOSS Architele, B.D.A. C.-H. Rud loft.

16 Ernst May e coll., Siedlung Romerstadt a Francoforte, plani­


metria, tipi edilizi e tavole comparative (da « Das neue Frankfurt »,
1928, n. 7-8).
socialdemocrazia europea. In quanto tentativo di controllo
dei movimenti di classe, essa si rivela immediatamente
controproducente; in quanto tentativo di dimostrare la
superiorità di un’edilizia direttamente gestita dalle orga­
nizzazioni operaie e sindacali (la Dewog e la Gehag, in
Germania), la città delle Siedlungen rimane estranea ai
processi di riorganizzazione complessiva del territorio
produttivo.
Esiste però un ulteriore motivo, per cui il bilancio
della gestione socialdemocratica della città si chiude in
passivo. È lo stesso modello di intervento fondato sulla
Siedlung, che fa parte di una globale ideologia antiur-
bana: un’ideologia, che se per un verso si riallaccia a
quella jeffersoniana, dall’altro ha profonde radici nella
tradizione del pensiero socialista (ma non nel pensiero
di Marx: si ricordino f passi sul significato politico della
grande città, nel Capitale e nei Grundrtsse). Alla base
della riorganizzazione urbanistica guidata da May e da
Martin Wagner, è il postulato della negatività in asso­
luto della Groszstadt. La Siedlung sarà quindi un’oasi di
ordine, un esempio di come sia possibile, per le orga­
nizzazioni della classe operaia, proporre un modello alter­
nativo di sviluppo urbano, un’utopia realizzata. Ma quella
stessa Siedlung contrappone dichiaratamente il modello
del « paese » a quello della grande città. È Tònnies con­
tro Simmel e Weber70. La tecnologia rinnovata dei can­
tieri di Francoforte, per Ernst May, insiste su una pro­
posta globalmente anticittadina. Anzi, in quei quartieri è
leggibile l’intento di unire solidamente lo sviluppo dei

, 70 u volume di Ferdinand Tònnies, Gemeinschaft und Gesell-


schaft [Comunità e società], appare nel 1887, ma, con il suo ri­
chiamo nostalgico alla " comunità originaria ”, contro la società
organizzata, esprime un’ideologia che sarà fatta propria dall’urba­
nistica radicale fra le due guerre, oltre che dalle tendenze populiste
degli anni ’50.
nuovi sistemi di produzione nell’edilizia a un’organizza­
zione frammentata e statica della città.
Il che, non è dato. La città dello sviluppo non accetta
« equilibri » al suo interno: l’ideologia dell’equilibrio si
rivela, anch’essa, politicamente fallimentare.
Va comunque notato, che le utopie antiurbane hanno
una loro continuità storica che, dalle proposte illumi-
niste — e al proposito, non va dimenticato che le
prime teorie anarchiche sulla necessità di una « dissolu­
zione delle città » appaiono proprio nella seconda metà
del ’70071 — giunge alla teoria della città-giardino, al
disurbanismo sovietico, al regionalismo della Regional
Planning Association of America (RPAA), alla Broadacre
City di Frank Lloyd Wright. Dall’antiindustrialismo jeffer-
soniano, influenzato palesemente dalle teorie fisiocratiche
francesi, all'Auflósung der Stadie di Bruno Taut, espli­
citamente riferita al pensiero di Kropotkin, al modello
della Siedlung (retaggio di proposte ottocentesche), a Broa­
dacre, ciò che si esprime è una profonda nostalgia per
la « comunità organica » di Tònnies, per la setta religiosa
aliena da organizzazioni esterne, per una comunione di
soggetti che non conoscano l’angoscia dell’alienazione me­
tropolitana.
L’ideologia antiurbana, certo, si presenta sempre con
un volto anticapitalistico, sia che si tratti dell’anarchismo
tautiano, che del socialismo etico dei disurbanisti sovie­
tici, che delle domestiche scapigliature di Wright72. Ma

71 Di estremo interesse, al proposito, il volume di William


Godwin, Enquiry Concerning Politicai Justice, London 1793, nel
quale il razionalismo illuminista è spinto fino a progettare una so­
cietà in cui lo Stato sia dissolto, e gli individui — guidati da una
raison autoliberatasi — raccolti in piccole comunità, prive di leggi
e di stabili istituzioni. Cfr. G. D. H. Cole, Socialist Thought: thè
Forerunners (1789-1850), Macmillan, London 1925, trad. it. Storia
del pensiero socialista, Laterza, Bari 19722, voi. I, pp. 9 sgg.
72 Sull’ideologia wrightiana della " wilderness " e dell'anticittà,
DAS NEUE FRANKFURT
MONATSSCHRIFT FUR DIE PROBLEME MODERNER GE8TALTUNGz3.JAHRG.W29

JULhAUGUST 1929
H IJA H R G A N G

J7Copertina della rivista « Das neue Frankfurt », 1929, n. 7-8,


dedicato al traffico.
la sua angosciata rivolta contro la « disumana metropoli »,
dominata dal flusso della corrente monetaria, non è altro
che nostalgia, rifiuto dei livelli più alti dell’organizza­
zione capitalistica, aspirazione a regressioni verso l’infan­
zia dell’umanità. E quando quell’ideologia si inserisce in
una prospettiva avanzata di riorganizzazione dell’edilizia
residenziale e di ristrutturazione territoriale — è il caso
dell’RPAA73 — essa è inevitabilmente destinata a essere
riassorbita e deformata dalle contingenti esigenze delle
misure anticongiunturali: la politica territoriale messa in
moto dal New Deal non soddisferà le attese di Henry
Wright, Clarence Stein, Lewis Mumford.
Il modello del « paese » articolato regionalmente
— ripreso dopo il ’45 in . Italia con esplicite intonazioni
populiste — non regge di fronte alla nuova dimensione
urbana conseguente ai nuovi livelli di organizzazione
produttiva. L’aspirazione alla Gemeinschaft, alla comu­
nità organica, non a caso così viva anche nel pensiero
delle sinistre tedesche degli anni ’20, è destinata a soc­
combere, come ipotesi fallimentare, di fronte alla Gesell-
schaft, al legame impersonale-alienato della società orga­
nizzata nella e dalla grande metropoli-
La quale, nell’estendere all’intero territorio i modi

cfr. Edgar Kaufmann jr., Frank Lloyd Wright: thè llth Decade,
« Architectural Forum », CXXX, 1969, n. 5; Norris K. Smith, F. L.
Wright. A Study in Architectural Content, Prentice Hall Ine.,
Englewood Cliffs (N. J.) 1966; Reyner Banham, The Wilderness
Years of Frank Lloyd Wright, « RIBA Journal », 1969, December,
e, principalmente, Giorgio Ciucci, Frank Lloyd Wright, 1908-1938,
dalla crisi al mito, « Angelus Novus », 1971, n. 21, pp. 85-117.
73 Sull’attività della Regional Planning Association of America,
cfr. Ray Lubove, Community Planning in thè 1920's: thè Contn-
bution of RPAA, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 1963, e
Meli Scott, American City Planning since 1890, University of Cali­
fornia Press, Berkeley and Los Angeles 1969. Sull’attività e sul si­
gnificato storico dell’RPAA, nel quadro della storia dell’urbanistica
americana, attendiamo però un documentato saggio di Francesco
Dal Co, di imminente pubblicazione presso l’editore Laterza.
18 Karl Schneider, blocco residenziale « Raum », sulla Jarrestrasse
ad Amburgo, 1929. In alto, assonometria e tipi edilizi; in baxso,
foto del complesso realizzato.
della sua esistenza, pone il tema della spirale sviluppo-
squilibrio: le teorie di piano basate sull’ipotesi del riequi­
librio — é quelle sovietiche fra le prime — saranno anche
esse destinate ad essere rivoluzionate dopo la grande crisi
del '29.
L’improbabilità, la polifunzionalità, la molteplicità e
la disorganicità, in tutti gli aspetti contraddittori assunti
nel seno della moderna metropoli terziaria, rimangono
così all’esterno dei tentativi di razionalizzazione perse­
guiti dall’architettura mitteleuropea.
6. La crisi dell’utopia: Le Corbusier
ad Algeri

Assorbire quella molteplicità, mediare l’improbabile


con la certezza del piano, compensare organicità e disor­
ganicità acutizzandone la dialettica, dimostrare che il mas­
simo livello di programmazione produttiva coincide con
il massimo di « produttività dello spirito »: nel delineare
tali obiettivi con una lucidità che non ha paragoni nell’am­
bito della cultura progressista europea, Le Corbusier è
cosciente del triplice fronte su cui l’architettura moderna
deve combattere. Se architettura è ora sinonimo di orga­
nizzazione della produzione, è anche vero che fattori
determinanti del ciclo, oltre la produzione stessa, sono la
distribuzione e il consumo. L’architetto è un organizza­
tore, non un disegnatore di oggetti: non è uno slogan,
questo di Le Corbusier, ma un imperativo, che connette
iniziativa intellettuale e civilisation machiniste. In quanto
avanguardia di quella civilisation, l’architetto, nel prece­
derne e determinarne i piani (e sia pur di settore), deve
articolare la sua azione su più binari. L’appel aux indus-
triels e la tipologia sono le offerte fatte all’impresa
produttiva; la ricerca di un’autorità capace di mediare la
pianificazione edilizia e urbanistica con programmi di
riorganizzazione civile è perseguita a livello politico con
l’istituzione dei Ciam; l’articolazione della forma al suo
massimo livello è sfruttata al fine di rendere il pubblico
soggetto attivo del consumo.
Più esattamente: la forma si assume il compito di
rendere autentico e naturale l’universo innaturale della
precisione tecnologica. E poiché quell’universo tende ad
assoggettare integralmente la natura, in un processo con­
tinuo e coinvolgente di trasformazione, è l’intero pae­
saggio antropogeografico a divenire, per Le Corbusier, il
soggetto su cui dovrà insistere il riorganizzato ciclo della
produzione edilizia74.
Ma Le Corbusier scopre anche che prudenza finan­
ziaria, individualismo dell’impresa, permanenza di mecca­
nismi di rendita arcaici, come la rendita fondiaria, osta­
colano pericolosamente lo sviluppo e il rendimento « uma­
no » di quell’espansione.
Individuazione tipologica della cellula Dom-ino, tipo­
logia dell'Immeuble-villa, Ville pour trois millions d’ha-
bitant, Pian Voisin per Parigi: dal 1919 al 1929 la
recherche pallente di Le Corbusier individua scale e stru­
menti particolari di intervento, sperimenta in realizza­
zioni parziali — assunte come laboratorio di verifica —
le ipotesi generali, supera i modelli del « razionalismo »
tedesco, intuendo la corretta dimensione cui il problema
urbano va posto.
Dal ’29 al ’31, con i piani per Montevideo, per
Buenos Aires, per S. Paulo, per Rio, e con la finale espe-
74 Sarebbe necessario, al proposito, analizzare compiutamente
il problema della pittura di Le Corbusier, in relazione al tema del­
l’adeguamento attivo dell’individuo alla realtà tecnologica e alle
sue nuove condizioni spaziali. Il tema, anche dopo la mostra di
palazzo Strozzi a Firenze (1963), rimane oggetto di indagine: dopo
il vecchio articolo della biava, non privo di indicazioni (cfr. Antonia
biava, Poetica di Le Corbusier, « Critica d’arte », III, 1938, pp. 33-
38), esso è stato trattato in pochi saggi di effettivo interesse: Colin
Rowe und Robert Slutzky, Transparenz. Le Corbusier - Studien 1,
Birkhàuser Verlag, Basel-Eidgenóssische Technische Hochschule,
Ziirich 1968; Christopher Green, Léger, Purism and thè Paris
Machines, « Art News », LXVIII, 1970, n. 8, pp. 54-6 e 67; Stephen
A. Kurtz, Public Planning, Private Planning, « Art News », LXXI,
1972, n. 2, pp. 37-41 e 73-4.
rienza del piano Obus per Algeri, Le Corbusier formula
l’ipotesi teorica più elevata dall’urbanistica moderna, an­
cora insuperata sia al livello ideologico che formale75.
Al contrario di quanto realizzato da Taut, May o
Gropius, Le Corbusier spezza la sequenza continua archi-
tettura-quartiere-città: la struttura urbana come tale, in
quanto unità fisica e funzionale, è depositaria di una nuova
scala di valori, e la dimensione alla quale va cercato il
significato delle sue comunicazioni è quella stessa del
paesaggio.
Ad Algeri, l’antica Casbah, le colline di Fort-l’Em-
pereur, l’insenatura costiera, sono assunti come materiali
bruti da riutilizzare, veri e propri ready-made objects a
scala gigantesca, ai quali la nuova struttura che li condi­
ziona offre un’unità prima inesistente, sconvolgente i
significati originari. Ma al massimo di condizionamento
deve corrispondere un massimo di libertà e flessibilità. La
premessa economica dell’intera operazione è chiarissima:
il piano Obus non si limita a chiedere un nuovo « statuto
del terreno » che, vincendo l’anarchia paleocapitalistica
dell’accumulazione fondiaria, renda disponibile l’intero
suolo alla riorganizzazione unitaria e organica di ciò che
diviene in tal modo un sistema urbano in senso proprio76.

75 Non è questa la sede per farlo, ma sarebbe necessario arti­


colare e arricchire il processo compiuto da Le Corbusier, e che
abbiamo schizzato sin troppo sinteticamente. Lo studio di Bryan
Taylor sui documenti dell’archivio Le Corbusier a Parigi relativ'
alla progettazione e all’esecuzione del complesso di Pessac e ai
precedenti studi lecorbusieriani per abitazioni operaie costituisce
l’inizio di un nuovo filone di studi, destinato a rivedere radical­
mente i giudizi acquisiti su Le Corbusier urbanista. Cfr. Brian
Brace Taylor, Le Corbusier et Pessac, 1914-1928, Fondation Le Cor-
busier-Harvard University 1972. Notevole, agli stessi fini, è anche
il saggio di Paul Turner, The Beginnings of Le Corbusier’s Edu-
cation, «The Art Bulletin », LUI, 1971, n. 2, pp. 214-24.
76 Sull’esperienza di Le Corbusier ad Algeri è necessario com­
piere ancora indagini. Si veda, comunque, il capitolo dedicato al­
l’urbanistica di Le Corbusier nel volumetto di Giorgio Fiocinato,
L’oggetto industriale non presuppone alcuna colloca­
zione univoca nello spazio. Alla base della produzione in
serie è il superamento radicale di ogni gerarchia spaziale.
L’universo tecnologico ignora il qui e il là; l’intero am­
biente umano — puro campo topologico — è la sede natu­
rale delle sue operazioni (ben lo avevano intuito le ricer­
che cubiste, futuriste o elementariste). La piena disponi­
bilità del suolo, nella riorganizzazione della città, non è
più sufficiente: è l’intero spazio tridimensionale che deve
ora divenire disponibile. Ed è chiaro che si dovranno
distinguere — in seno all'unità-città — due scale di inter­
vento: due cicli di produzione e consumo.
La ristrutturazione dell’intero spazio urbano e paesi­
stico risponde all’esigenza di razionalizzare l’organizza­
zione complessiva della macchina cittadina. A questa scala,
strutture tecnologiche e reti di comunicazione debbono
essere in grado di costituire una « immagine » unitaria,
in cui l’antinaturalismo dei terreins artificiels predisposti
a varie altezze, e l’eccezionaiità della rete viaria — l’auto­
strada che scorre all’ultimo piano del blocco serpentinato,
destinato alle residenze operaie — acquisti un valore
simbolico. La libertà dei blocchi residenziali di Fort-
l’Empereur assorbe le valenze emblematiche dell’avan­
guardia surrealista; gli edifici ricurvi — allo stesso modo
delle forme libere all’interno della villa Savoye o degli
ironici assemblages dell’attico Bestegui agli Champs Ely-
sées — sono enormi oggetti, che mimano un’astratta e
sublimata « danza delle contraddizioni »

L’architettura contemporanea in Francia, Cappelli, Bologna 1965


Stanislaus von Moos, Le Corbusier. Elemente einer Synthese, Ver-
lag Huber, Frauenfeld 1968 (ed. francese, Horizons, Paris 1971);
Raffaele Ranella, Architettura e città intorno al '30. Algeri nei pro­
getti di Le Corbusier, nel volume di AA.VV., Per una ricerca di
progettazione, 3. Il ruolo dell’abitazione nella formazione e nello
sviluppo della città moderna e contemporanea, IUAV, Venezia 1971.
77 I disegni del Poème de l’angle droit (Verve, Paris 1955)
19 Le Corbusier, Pian Obus per Algeri, 1930, veduta prospettica
del plastico.
Anche al livello della struttura urbana, finalmente
risolta in organica unità, ciò che emerge è la positività
delle contraddizioni, la conciliazione del problematico e
del razionale, la composizione « eroica » di violente ten­
sioni. Attraverso la struttura dell’immagine, e solo attra­
verso di essa, il regno della necessità si fonde con il
regno della libertà: anche se il primo è identificato nel
rigore del piano e il secondo nel recupero, al suo interno,
di una più alta conoscenza umana.
Anche Le Corbusier usa la tecnica dello choc: gli
objects à réaction poétique sono però ora connessi fra
loro in una dialettica organicità. Alla loro dinamica, for­
male e funzionale, è impossibile sfuggire. A tutti i livelli
di fruizione e lettura, l’Algeri di Le Corbusier impone
un coinvolgimento totale del pubblico. Ma si noti: il
pubblico è qui condizionato ad una partecipazione critica,
riflessa, intellettuale. Una « lettura disattenta » delle im­
magini urbane condurrebbe infatti ad una persuasione
occulta: né è detto che Le Corbusier non prevedesse
anche tale effetto secondario, come momento necessario
di stimolo indiretto78.

spiegano il significato attribuito da Le Corbusier al percorso in­


tellettuale compiuto attraverso il labirinto: come per Klee, al cui
gusto grafico quei disegni sono molto vicini, l’Ordine non è una
totalità esterna all’attività umana che lo crea. Quanto più la re-
cherche della sintesi è arricchita dalle incertezze della memoria,
dalla tensione problematica, persino da direzioni in contrasto con
la meta finale, questa viene raggiunta nella pienezza di ^espe­
rienza autentica. Anche per Le Corbusier l’assoluto della forma è
compiuta realizzazione di una costante vittoria sull’incertezza del
futuro, tràmite l’assunzione di un atteggiamento problematico come
unica garanzia di salvezza collettiva.
78 Tra le molte testimonianze letterarie di Le Corbusier, in cui
l’intervento dell’architettura come strumento di integrazione so­
ciale è posto esplicitamente in primo piano, quella relativa alla
fabbrica olandese Van Nelle è particolarmente indicativa. « L’usine
des tabacs Van Nelle de Rotterdam — scrive Le Corbusier —,
création des temps modernes, efface sa signification désespérante au
«Allontanare l’angoscia introiettandone le cause»:
non si riduce a questo, però, la proposta di Le Corbusier.
Al livello della produzione minima — quello della sin­
gola cellula residenziale — il tema da affrontare è il recu­
pero della massima flessibilità, intercambiabilità, possi­
bilità di rapido consumo. Nelle maglie delle grandi strut­
ture, costituite dai terreins artificiels sovrapposti, è con­
cessa la più ampia libertà di inserimento di elementi
residenziali preformati. Rispetto al pubblico, ciò significa
invito a farsi progettista attivo della città. Le Corbusier,
in uno schizzo dimostrativo, giunge fino a prevedere la
possibilità di inserimento di elementi eccentrici ed eclet­
tici nelle maglie delle strutture fisse. La « libertà » con­
cessa al pubblico deve spingersi tanto in là da permet­
tere al pubblico stesso — al proletariato nel caso della
serpentina, che si snoda al cospetto del mare e all’alta
borghesia sulle colline di Fort-l’Empereur — l’esplica­
zione del suo « cattivo gusto ». L’architettura come atto
pedagogico e strumento di integrazione collettiva, dunque.
Ma, rispetto all’industria, quella libertà assume signi­
ficati ancora maggiori. Le Corbusier non cristallizza l’unità
produttiva minima in elementi funzionali standard, come

mot de " proletaire Lette dérivation du sentiment de propriété


egoiste vers un sentiment d’action collective, nous conduit à ce
phénomène heureux de 1*intervention personnelle en chaque point
de l’entreprise humaine. Le travail demente tei dans sa materia-
lite, mais l’esprit l’éclair. Je le répète, tout est dans ce mot: preuve
d’amour.
L'est là que par une administration autre, il faut conduire,
épurer, et amplifier l’événement contemporain; dites-nous ce que
nous sommes, à quoi nous pouvons servir, pourquoi nous tra-
vaillons. Donnez-nous des plans, montrez-nous les plans, expliquez-
nous les plans. Rendez-nous solidaires [...]. Si vous nous montrez
les plans et nous les expliquez, il n’y aura plus ni caste possedente,
ni prolétariat sans cspoir. Il y aura une société croyante et agis-
sante. A l’heure actuelle des plus strictes rationalisations, c*est de
conscience qu’il s’agit ». Le Corbusier, Spectacle de la vie moderne,
in La ville radieuse, Vincent Fréal et C., Paris 1933, p. 177.
May nella sua Frànkfurter Kuche. Alla scala dell’oggetto
singolo bisogna tener conto delle esigenze della continua
rivoluzione tecnologica, dello styling,. del rapido consumo,
dettate da un capitalismo dinamico, in espansione. La
cellula residenziale, teoricamente consumabile in tempi
brevi, può essere sostituita ad ogni mutamento delle esi­
genze individuali — ad ogni mutamento delle esigenze
indotte dal rinnovamento dei modelli e degli standards
residenziali dettati dalla produzione79. Il significato del
progetto diviene chiarissimo.
Il soggetto della riorganizzazione urbana è un pub­
blico sollecitato e reso criticamente partecipe del suo ruolo
creativo. L’avanguardia industriale, l’« autorità », i frui­
tori sono coinvolti con funzioni teoricamente omogenee
nell’impetuoso ed « esaltante » processo di continuo svi­
luppo e trasformazione. Dalla realtà produttiva, all’im­
magine, all’uso dell’immagine, l’intera macchina urbana
spinge fino all’estremo delle sue implicite possibilità il
potenziale « sociale » della civilisation machiniste.
Dobbiamo ora rispondere alla domanda: come mai
il progetto per Algeri, i successivi piani per le città euro­
pee ed africane, e persino le proposte di minima avan­

79 Si potrebbe, sulla base di queste considerazioni, controbat­


tere la tesi del Banham, che critica, da un punto di vista interno
allo sviluppo tecnologico, la staticità tipologica dei maestri del « mo­
vimento moderno ». « In opting for stabilized types or norms,
— egli scrive — architects opted for thè pauses when thè normal
process of technology were interrupted, those process of changes
and renovation that, as far we can see, can only be halted by
abandoning technology as we know it today, and bringing both
research and mass-production to a stop » (R. Banham, Theory and
Design in thè First bachine Age, The Architectural Press, London
1962, p. 325). È forse superfluo rilevare che tutta la fantascienza
architettonica che ha prolificato dal '60 ad oggi, riscattando la di­
mensione « di immagine » dei processi tecnologici, è — rispetto al
piano Obus di Le Corbusier — arretrata nel più sconsolante dei
modi.
zate da Le Corbusier rimangono lettera morta? Non v’è
forse contraddizione fra quanto si è detto — che, cioè,
in quelle proposte va letto a tutt’oggi l’ipotesi più avan­
zata e formalmente elevata della cultura borghese, nel
campo del design e dell’urbanistica — e i fallimenti vis­
suti in prima persona da Le Corbusier?
Si possono dare molte risposte a tale interrogativo,
tutte valide e complementari fra loro. Va anzitutto notato
che Le Corbusier opera come « intellettuale » in senso
stretto. Non si lega — come Taut, May o Wagner — a
poteri locali e statali. Le sue ipotesi partono da realtà
particolari (certo, l’orografìa e la stratificazione storica
di Algeri sono delle eccezioni e la forma del progetto che
di esse tiene conto è irripetibile), ma il metodo che le
guida è ampiamente generalizzabile. Dal particolare all’uni­
versale: l’esatto contrario del metodo seguito dagli intel­
lettuali della repubblica di Weimar. Né è causale che
Le Corbusier lavori, ad Algeri, per più di quattro anni
senza incarico o compensi. Egli « inventa » la sua com­
mittenza, la generalizza, è disposto a pagar di persona
il proprio ruolo attivo e propositivo.
Ciò fa si che i suoi modelli assumano tutti i caratteri
di esperimenti di laboratorio: e non si dà alcuna possi­
bilità, per un modello di laboratorio, di tradursi tout-
court in realtà. Ma non basta. La generalizzabilità del­
l’ipotesi scontra con le strutture arretrate che essa vuole
stimolare. Se le esigenze sono quelle di un rivoluziona­
mento dell’architettura, in sintonia con i compiti più avan­
zati di una realtà economica e tecnologica ancora inca­
pace di darsi coerente e organica forma, nessuna
meraviglia che il realismo delle ipotesi venga assunto
come utopia.
Ma non si legge correttamente il naufragio di Alge­
ri — e, più in generale, il « fallimento » di Le Corbu-
sier — se non lo si lega al fenomeno della crisi interna­
zionale dell’architettura moderna: alla crisi, in altre paro­
le, dell’ideologia della Neue Welt
,È interessante esaminare come la storiografia corrente
abbia tentato di spiegare la crisi dell’architettura moderna,
la cui data di inizio vien fatta cadere negli anni intorno
al ’30 e la cui accentuazione fino ad oggi è comunemente
accettata. Fascismi europei da un lato, stalinismo dall’al­
tro: a tali involuzioni politiche vengono attribuite pres­
soché tutte le « colpe » iniziali della crisi. Nello stesso
tempo, viene sistematicamente ignorata l’apparizione, a
livello mondiale, e proprio dopo la grande crisi econo­
mica del ’29, di nuovi decisivi protagonisti < la rior­
ganizzazione internazionale del capitale, l’affermazione dei
sistemi di pianificazione anticiclica, la realizzazione del
primo piano quinquennale sovietico.
È significativo che quasi tutti gli obiettivi formulati
in sede economica dalla General Theory del Keynes pos­
sano essere ritrovati, come ideologia pura, alla base delle
poetiche dell’architettura moderna. « Liberarsi dalla paura
del futuro fissando quel futuro come presente »: il fon­
damento dell’interventismo keynesiano è il medesimo
delle poetiche dell’arte moderna. Proprio in senso poli­
tico, esso è anche alla base delle teorie urbanistiche di
Le Corbusier. Keynes fa i conti con il « partito della
catastrofe », e tende a recuperarne la minaccia, assorben­
dola a sempre nuovi livelli81. Le Corbusier prende atto
80 L’ideologia della Neue Welt, del Mondo nuovo, come campo
infinito di potenzialità liberatorie, è comune a un Lisickij e a un
Hannes Meyer. Si veda, di Hannes Meyer, il significativo articolo
Die neue Welt, « Das Werk », 1926, n. 7, trad. it. in H. Meyer,
Architettura o rivoluzione, cit., pp. 78-83.
81 Cfr. A. Negri, La teoria capitalista dello stato nel '29: John
M. Keynes, cit. Cfr. ora S. Bologna, G. P. Rawick, M. Gobbini,
A. Negri, L. Ferrari Bravo, G. Cambino, Operai e Stato. Lotte
operaie e riforma dello Stato capitalistico tra rivoluzione d'Ottobre
e New Deal, Feltrinelli, Milano 1972.
della realtà di classe della città moderna e ne sposta i
conflitti al livello più alto, mettendo in atto la più elevata
proposta di integrazione del pubblico, coinvolto, come
operatore e come consumatore attivo, nel meccanismo
urbano di sviluppo, reso, ora, organicamente « umano ».
Si conferma ora la nostra ipotesi iniziale. L’architet­
tura come ideologia del Piano è travolta dalla realtà del
piano, una volta che questo, superato il livello dell’utopia,
sia divenuto meccanismo operante.
La crisi dell’architettura moderna inizia nel momento
preciso in cui il suo destinatario naturale — il grande
capitale industriale — ne supera l’ideologia di fondo,
mettendone da parte le sovrastrutture. Da quel momento
in poi l’ideologia architettonica ha esaurito i propri com­
piti. Il suo ostinarsi a voler vedere realizzate le proprie
ipotesi diviene o molla per il superamento di realtà arre­
trate, o fastidioso disturbo.
In tale chiave, si possono leggere le involuzioni e
l’angoscioso dibattersi del movimento moderno dal ’35
circa ad oggi. Le istanze più generali di razionalizzazione
delle città e dei territori rimangono inevase, continuando
ad agire come stimolo indiretto per realizzazioni compa­
tibili con gli obiettivi parziali fissati via via.
È a questo punto che interviene qualcosa di inspie­
gabile, almeno a prima vista. L’ideologia della forma
sembra abbandonare la propria vocazione realistica, per
ripiegare sul secondo polo insito nella dialettica proposi­
tiva della cultura borghese. Senza abbandonare « l’utopia
del progetto », il riscatto contro i processi che concreta­
mente hanno scavalcato il livello dell’ideologia viene cer­
cato nel recupero del caos, nella contemplazione di quel­
l’angoscia che il Costruttivismo sembrava aver debellato
per sempre, nella sublimazione del disordine.
Giunti ad un'impasse innegabile, l’ideologia architet­
tonica rinuncia a svolgere un ruolo propulsivo nei con-
fronti della città e delle strutture di produzione, masche­
randosi dietro una riscoperta autonomia disciplinare o
dietro nevrotici atteggiamenti autodistruttivi.
Incapace di analizzare le cause effettive della crisi
del design, e concentrando tutta l’attenzione sui problemi
interni al design stesso, la critica contemporanea va accu­
mulando sintomatiche invenzioni ideologiche, nel tenta­
tivo di offrire nuova sostanza all’alleanza fra tecniche di
comunicazione visiva e utopie tecnologiche. Né è causale,
che il campo individuato per il riscatto di tale alleanza
— postulata, ora, con inflessioni di ambiguo « neouma­
nesimo », che, rispetto alla Neue Sachlichkeit degli anni
’20, ha il grave demerito di mistificare il proprio ruolo
di mediatrice fra utopia e sviluppo, — insista precisa-
mente sull’immagine della città.
Città come sovrastruttura, dunque. Anzi, l’arte è ora
chiamata a dare un volto sovrastrutturale alla città. Pop
art, op art, analisi suWimageability urbana, esthétique
prospettive, convergono in questo obiettivo: dissimulare,
risolvendole in immagini polivalenti, le contraddizioni
della città contemporanea, esaltando figurativamente quel­
la complessità formale che, letta con parametri adeguati,
altro non è se non l’esplosione dei dissidi insanabili che
sfuggono al piano del capitale avanzato. Il recupero del
concetto di arte è quindi funzionale a tale nuovo ruolo
di copertura. È vero che laddove 1 "industriai design si
pone alla testa della produzione tecnologica, condizionan­
done la qualità in vista di un’espansione dei consumi, la
pop art, riutilizzando i residui, i rifiuti di quella produ­
zione, si pone alla sua retroguardia. Ma ciò corrisponde
esattamente alla duplice richiesta ora rivolta alle tecniche
di comunicazione visiva. L’arte, che rinuncia a porsi
all’avanguardia dei cicli di produzione, dimostra, al di là
delle contestazioni verbali, che il processo di consumo
tende all’infinito, che anche i rifiuti possono assumere,
sublimati in oggetti inutili o nichilistici, un nuovo valore
d’uso, rientrando, sia pure per la porta di servizio, nel
ciclo produzione-consumo.
Ma è anche indice, tale retroguardia, della rinuncia
a risolvere compiutamente le contraddizioni della città,
a trasformare la città in macchina totalmente organizzata,
senza sprechi di carattere arcaico o disfunzioni genera­
lizzate.
In tale fase, infatti, bisogna agire per persuadere il
pubblico che contraddizioni, squilibri, caoticità, tipici del­
la città contemporanea, sono inevitabili: anzi, che tale
caos contiene in sé ricchezze inesplorate, possibilità illi­
mitate da utilizzare, valori ludici da proporre come nuovi
feticci sociali.
Utopismo architettonico e supertecnologico, riscoperta
del gioco come condizione di coinvolgimento del pubblico,
profezie di « società estetiche », inviti all’istituzione di un
primato dell’immaginazione', tali le proposizioni delle
nuove ideologie urbane82.
Esiste un testo esemplare, in cui tutte le sollecita­
zioni rivolte all’attività artistica ad assumere un nuovo
ruolo persuasivo invece che operativo si trovano sinte­
tizzate e compensate fra loro.
È significativo che il Livre blanc de Vari total di
Pierre Restany, cui ci riferiamo, ponga esplicitamente
sul tappeto tutti i temi che nascono dalla preoccupata
constatazione dell’usura degli obiettivi fino ad ora perse­

82 Cfr., come testi da assumere come sintomi del fenomeno:


G. C. Argan, Relazione introduttiva al convegno sulle « strutture
ambientali », Rimini, settembre 1968; L. Quaroni, La Torre di Ba­
bele, Marsilio, Padova 1967; M. Ragon, Les visionnaires de l’ar-
chitecture, Paris 1965; À. Boatto, Pop art in USA, Lerici, Milano
1967; F. Menna, Profezia di una società estetica, Lerici, Mila­
no 1968. Dovrebbe essere superfluo avvertire che l’accostamento di
tali testi prescinde del tutto da considerazioni relative al loro
intrinseco rigore e dalla qualità del loro apporto.
guiti. Con un risultato: che le « nuove » proposte di
riscatto dell’arte assumono, con parole diverse, proprio
i medesimi connotati delle proposizioni delle avanguardie
storiche, senza la chiarezza o la fiducia in se stesse che
quelle potevano a buon diritto ostentare.

La métamorphose des languages n’est que le reflet des


changements structurels de la société — scrive Restany —.
La technologie, en réduisant de fa$on croissante le décalage
entre l’art (synthèse des nouveaux languages) et la nature (la
realité moderne, technique, et urbaine) joue le róle deter­
minare d’une catalyse suffisante et nécessaire83.
Outre ses immenses possibilità et ses ouvertures illimi-
tées, la technologie témoigne de la flexibilité indispensable
en période de trarrsition: elle permei à Partiste conscient
d’agir non plus sur les effets formels de la communication,
mais sur ses termes mémes, l’imagination humaine. La techno­
logie contemporaine permet enfin à l’imagination de prendre
le pouvoir: libérée de toute entrave normative, de tout pro-
blème de réalisation ou de production, l’imagination créatrice
peut s’identifier à la conscience planétaire. L’esthétique pros­
pettive est le véhicule de la plus grande espérance de
l’homme-. sa libération collettive. La socialisation de l’art
traduit la convergence des forces de création et de production
sur un objectif de synthèse dynamique, la métamorphose tech­
nique: c’est à travers cette restructuration que l’homme et
le réel trouvent leur vrai visage moderne, qu’ils redeviennent
naturels, toute aliénation dépassée84.

Il circolo si chiude. La mitologia marcusiana è sfrut­


tata per dimostrare che solo immergendosi all’interno
degli attuali'rapporti di produzione è possibile guada­
gnare una non meglio precisata « libertà collettiva ».

83 P. Restany, Le livre blanc de l’art total; pour une esthé-


tique prospettive, « Domus », 1968, n. 269, p. 50.
84 Ibid. I corsivi sono nostri.
Basta « socializzare l’arte » e porla alla testa del « pro­
gresso » tecnologico: e poco importa se tutto il ciclo
dell’arte moderna dimostra l’utopismo — ieri forse spie­
gabile, oggi solo arretrato — di tale proposizione. Per
questo diviene persino lecito assorbire anche il più
ambiguo degli slogan del « maggio » francese. L'imagi-
nation au pouvoir sancisce il concordato fra contestazione
e conservazione, fra metafora simbolica e processi pro­
duttivi, fra evasione e realpolitik.
E non basta. Riaffermando il ruolo mediatore del­
l’arte, si può persino tornare ad assegnare a quest’ultima
i connotati naturalistici che la cultura illuminista le aveva
attribuito. La critica « di avanguardia » rivela così i propri
obiettivi: la confusione e l’ambiguità che essa predica
per l’arte — assumendo strumentalmente tutte le con­
clusioni delle analisi semantiche — non sono che le meta­
fore sublimate della crisi e dell’ambiguità che informano
le strutture della città attuale.

La méthode critique — prosegue Restany — doit con-


courir à la généralisation de l’esthétique: dépassement de
l’oeuvre et production multiple; distinction fondamentale eli­
tre les deux ordres complémentaires de la création et de la
production, systématisation de la recherche opérationelle et
de la coopération technique dans tous les domaines de l’expé-
rimentation de synthèse; structuration psycho-sensorielle de la
notion de jeu et de spectacle; organisation de l’espace am-
bient en vue de la communication de masse; insertion de
l’environnement individue! dans l’espace collectif du bien-
ètre urbain85.

85 Ibid. È chiaro che usiamo il testo di Restany solo come


esemplificazione di una mitologia estremamente diffusa presso i pro­
tagonisti della neoavanguardia: e d’altra parte molte delle nostre
asserzioni possono valere anche per ben più profondi tentativi « di­
sciplinari » di riscatto attraverso l’utopia. Sull’arte come utopia tec­
nologica cfr. G. Pasqualotto, Avanguardia e tecnologia cit.
Qualora si voglia apprezzare delle realizzazioni in
armonia con tali futurologie e tali appelli all’autolibera-
zione, non v’è che da scegliere. Si possono prendere in
considerazione i villaggi nomadi delle comunità hippies
americane (e qui « libertà » e tecnologia si fondono: le
capanne provvisorie utilizzano strutture di Buckminster
Fuller), i progetti di environment presentati alla XIV
Triennale di Milano, l’esibizionismo erotico di Sottsass
junior, gli ambienti e i non-progetti elaborati per la mo­
stra « Italy-New Domestic Landscape », organizzata dal
Museum of Modem Art di New York, nel 1972K.
Si assiste, in altre parole, a tutto un proliferare di un
design underground, di « contestazione ». Che, però, al
contrario dei film di un Warhol o di un Pascali, viene
reso istituzionale e propagandato da organismi interna­
zionali, e immesso in un circuito di élite. Attraverso il
design e la progettazione del microambiente, le defla­
granti contraddizioni delle strutture metropolitane entrano,
sublimate e sottoposte a una catartica ironia, nell’am­
biente della vita privata. I « giochi » — peraltro abili —
degli Archizoom, o le angosce sterilizzate di Gaetano
Pesce provengono (malgrado ogni dichiarazione verbale
in contrario) una « autoliberazione » attraverso l’uso pri­
vato dell’immaginazione. I simboli, ancora minacciosi, di
un Oldenburg o di un Fahlstròm trovano così una Loro
utilizzazione in un pacificato domestic Landscape.
Che tali giochi, più o meno « sapienti », trovino am­
pio spazio nel design è dovuto alla scissione, ancora
esistente, fra ciclo edilizio e industrie produttrici di « og­
getti ». E v’è da chiedersi se non assistiamo per caso a
uno scoppio di immagini preludente a un ben diverso con­
trollo sulla produzione, già annunciato dalle nuove tecni-
86 Cfr. il volume-catalogo Italy: The New Domestic Landscape.
Achievements and Problems of Italian Design, a cura di Emilio
Ambasz, The Museum of Modem Art, New York 1972.
che di esecuzione automatizzata, e che una ristrutturazione
tecnologica dell’edilizia renderebbe inevitabile87.
Va però osservato, che, anche nel campo puramente
ideologico, i futili appelli all’autodisalienazione, lanciati
dal design « negativo », trovano una risposta, ben più
attenta alla situazione « costretta » dell’attività di confi­
gurazione, da parte di un pittore come James Rosenquist.
Nel presentare il suo pannello «F 111 », Rosenquist
rispondeva, a una domanda rivoltagli dalla « Partisan
Review »:

In origine, l’opera era un’idea di frammenti di visione


in vendita, frammenti incompleti, c’erano circa cinquantuno
pannelli nel quadro. Con uno di essi, su una parete di casa
tua, potevi provare una specie di nostalgia, poiché era incom­
pleto e perciò romantico. Questo ha a che vedere con l’idea
del collezionismo oggi, una persona che compra una testi­
monianza del tempo e della storia. Potrebbe collezionare il
pannello e con lo stesso spirito un pezzo di architettura da
un edificio della Sixth Avenue o della Fiftysecond Street; il
frammento, già da adesso, e sicuramente in un vicino futuro,
può permettersi di essere soltanto un pannello di alluminio
vuoto, mentre qualche tempo fa sarebbe stato un cornicione
arzigogolato o qualcosa di apparentemente più umano. Molti
anni fa, quando qualcuno avesse osservato il traffico che
andava su e giù per la Sixth Avenue, quel traffico erano
cavalli; vi era un respiro, un moto muscolare nella velocità
della strada. Adesso, ciò che vedi può ridursi ad un fugace
sprazzo di moto statico e quell’idea di natura dà una strana
— a me la dà ancora strana — idea di cosa l’arte può diven­
tare: come uno dei frammenti di quest’opera: quello che è
semplicemente un pannello di alluminio88.
87 Tale osservazione è stata sviluppata nel saggio di M. Ta-
furi, Design and Technological Utopia, nel voi. cit. nella nota pre­
cedente, pp. 388 sgg. . , —, y, c
88 James Rosenquist, intervista condotta da G. R. Swenson,
per la « Partisan Review », in occasione della Mostra allo Jewish
Museum di New York.
20 James Rosenquist, Morning Sun, 1963.
«Fugaci sprazzi di moto statico»: nell’« F 111» di
Rosenquist è dato leggere una delle più coerenti ridu­
zioni dell’esperienza metropolitana ài « mortale silenzio
del segno », che siano state prodotte dalla pittura contem­
poranea, dopo il Broadway Boogie-Woogie di Mon-
drian. Ma anche il Penn Center di Philadelphia, la torre
di Kevin Roche a New Haven, o il World Trade Center
di Yamasaki e Roth, a Manhattan, non sono che « fugaci
sprazzi di vuoto statico ». E non tanto per il voluto vuoto
formale che li caratterizza, ma per il significato stesso
che tali « frammenti » assumono nella metropoli contem­
poranea. Anche essi, secondo la metafora di Rosenquist,
sono frammenti che non possono permettersi di essere
altro che « un pannello di alluminio vuoto », per colle­
zionisti disincantati89.
E, in tal senso, viene dà chiedersi se esista davvero
una differenza sostanziale — nell’ambito e nella scala
delle nostre considerazioni — fra tale voluto mutismo
della ferma e le disperate (ma scettiche) distorsioni for­
mali di un Rudolph o di un Lundy (pensiamo, in parti­
colare, al Boston Development Center e al negozio di
scarpe sulla Quinta Avenue a New York).
Per « reggere » lo spazio metropolitano, l’architet­
tura sembra obbligata a divenire il fantasma di se stessa.
È come se in tal modo essa espiasse una colpa originaria,
che altro non è, se non la propria pretesa di investire
— unicamente con i propri strumenti disciplinari — le
strutture primarie della città. Ma non è un caso se negli
Stati Uniti — paese dove il fenomeno si presenta con
la massima evidenza — siano le città universitarie a rac­
cogliere, in una sorta di museo architettonico vivente,

89 Si ricordi, a tale proposito, l’acuta lettura del World Trade


Center di Yamasaki e Roth, a New York, fatta da Manieri Elia.
Cfr. Mario Manieri Elia, L'architettura del dopoguerra in USA, .
cit., pp. 85-8.
21 Mies van der Robe, Federai Center a Chicago, edificio dei tri­
bunali e degli uffici federali, 1959-1964.
sperimentazioni formali espulse da Manhattan o da Detroit.
Quanto gli apodittici prodotti di quell 'enfant terrible del
movimento moderno, che è Mies van der Robe, avevano
profetizzato è divenuto ormai realtà sperimentabile. Il
Seagram Building o il Federai Center di Chicago, nella
loro assoluta asemanticità, sono oggetti capaci di essere-
per-la-propria-morte, salvandosi, solo così, da un sicuro
naufragio 90.
Tuttavia, il « silenzio » di Mies sembra oggi inattuale
di fronte al « rumore » delle neo-avanguardie. Ma in que-

90 Nulla di più errato è interpretare l'« ultimo Mies van der


Rohe come figura contraddittoria rispetto al Mies degli anni '20-30,
o leggere i suoi ultimi progetti come rinunciatarie incursioni nel
pacificato sopramondo della neoaccademia. È impossibile capire
Mies — il più « difficile », forse, degli architetti della « generazione
d’oro » — separando il suo radicale elementarismo dal clima tra­
gicamente asettico delle avanguardie berlinesi degli anni '19 '22, da
un lato, dalle esperienze dadaiste dall’altro. In tal senso, rite­
niamo che la sua amicizia con Kurt Schwitters e con Hans Richter,
e la sua collaborazione a riviste come « Friihlicht » e « G » pos­
sano spiegare molte cose, altrimenti incomprensibili. Va invece
osservato che il suo rapporto con il gruppo « De Stijl », su cui
ha insistito Zevi (cfr. Bruno Zevi, Poetica dell’architettura neo­
plastica, Tamburini, Milano 1959), è stato negato dallo stesso Mies,
nel corso di una intervista con Peter Blake (cfr. Peter Blake, A
Conversation with Mies, a cura di Gerhardt M. Kallmann, in Four
Great Makers of Modem Architecture, simposio tenuto presso la
Columbia University, Da Capo Press, New York 1970, pp. 93 sgg.).
Per comprendere il perché di tale affermazione è necessario risalire
alla cultura, tutta antiutopica, del primo Mies, come si esprime,
ad esempio, nel suo saggio Rundschau zum neuen Jahrgang, « Die
Form », 1927, heft 2, p. 59. In tal senso, riteniamo sia da respin­
gere l’interpretazione delle ultime opere di Mies data nell’articolo
di Peter Serenyj, Spinoza, Hegel and Mies: thè Meaning of thè
New National Gallery in Berlin, « Journal of thè Society of Archi-
tectural Historians », XXX, 1971, n. 3, p. 240, o in quello di Sybil
Moholy-Nagy, Has « Less is More » become « Less is Nothing »?,
in Four Great Makers cit., pp. 118-23. Più oggettivo, anche se
lontano dalle ipotesi qui enunciate, ci sembra il saggio di Ulrich
Conrads, Ich mache ein Bild [...] Ludwig Mies van der Robe.
Baumeister einer strukturellen Architektur, « Jahrbuch Preussischer
Kulturbesitz 1968 », Grote, Kóln-Berlin 1969, Band VI, pp. 57-74.
22 Mies vari der Robe, progetto per la ristrutturazione di Battery
Park a New York, fotomontaggio della Downtown con i tre gratta­
cieli residenziali, 1957-1958.

V
ste ultime vi è realmente qualcosa di nuovo, rispetto alle
proposte delle avanguardie storiche? Non sarebbe difficile
dimostrare, mediante una analisi filologica, che, al di là
del rilancio ideologico, i margini di novità sono estrema-
mente ridotti. Anzi, in proposte simili — una volta messa
da parte l’utopia marcusiana di un riscatto della dimen­
sione futura, attraverso il Grande Rifiuto compiuto dal­
l’immaginazione — rispetto alla coerenza delle avanguar­
die storiche v’è senz’altro qualcosa di meno.
Come si spiega infatti tutta questo insistere sullo
spreco della forma e sul recupero di una dimensione speci­
fica dei temi artistici, alla luce della necessità di una
crescente integrazione dell’elaborazione formale nel ciclo
della produzione?
Non è certamente un caso che una delle risposte più
diffuse offerte a tale interrogativo faccia riferimento alle
ricerche nel campo della semiologia e dell’analisi critica
del linguaggio. La ricerca di « nuove fondazioni » per il
linguaggio architettonico cerca cioè un terreno oggettivo
per superare problemi già superati.
7. L’architettura e il suo doppio:
semiologia e formalismo

È veramente sintomatico che il tema meno esplorato


da parte delle attuali ricerche nel campo delle teorie del
linguaggio e dei sistemi di comunicazione sia quello rela­
tivo alla loro genesi storica. In altre parole, ciò che rimane
troppo spesso accuratamente nascosto è il perché della
semiologia (e il perché oggi). Né basta più, per rispon­
dere a tale pregiudiziale interrogativo, invocare le diffi­
coltà inerenti alle varie discipline linguistiche, spiegando
così il perché del loro riversarsi sull’analisi delle proprie
interne strutture.
Che esista un tentativo di gettare un fragile velo ideo­
logico sullo stato presente dei sistemi di comunicazione
artistica, e che l’approccio semiologico serva in tal senso
ad alimentare futili speranze è senz’altro vero. Ma non
basta a dare compiuta ragione del fenomeno che ci inte­
ressa mettere in luce.
Si può intanto cominciare con l’osservare che il proli­
ferare degli studi semiologici relativi alle varie aree del
lavoro intellettuale (letteratura, cinema o architettura, il
discorso non cambia sostanzialmente), è contemporaneo
al nuovo impulso dato agli studi e alle ricerche relative
ai linguaggi altamente formalizzati, quali i linguàggi di
simulazione e i linguaggi di programmazione.
Tali ricerche, infatti, sono rese necessarie dalle nuove
possibilità aperte da un uso estensivo della cibernetica.
Ai nuovi rami della matematica, istituiti per lo studio
dei modelli dinamici — la teoria degli automi —, corri­
spondono tecniche nuove, capaci di definire e analizzare
quei sistemi, come i « linguaggi di programmazione di
uso generale », i « linguaggi conversazionali », in uso nei
dialoghi tra sistemi di calcolo connessi tra loro da una
rete di linee di comunicazione e nei dialoghi tra manager
e calcolatore, i « linguaggi di simulazione ». Direttamente
connessi all’estensione dell’uso capitalistico della scienza
e dell’automazione, tali linguaggi si pongono come sistemi
di comunicazione nati a partire da un piano di sviluppo-.
la loro funzione è articolare, con la massima estensione
e con la massima efficienza, un progetto di pianificazione
globale dell’universo produttivo. Sotto tale aspetto, la
creazione di tali « linguaggi artificiali » è connesso allo
sviluppo delle tecniche di previsione scientifica del futuro
e all’uso della « teoria dei giochi » nell’ambito della pro­
grammazione economica: assistiamo, cioè, a un primo
tentativo — ancora utopico — di dominio complessivo
del capitale sull’universo dello sviluppo91.
Spostiamo rapidamente l’obiettivo sulle prime ricerche,
compiute nel nostro secolo, in modo sistematico, sulle
capacità di informazione dei linguaggi artistici e non
verbali.
La scoperta della fondamentale simbolicità e ambi­
guità dei linguaggi artistici, i tentativi di « misurare » i
loro « quanti di comunicazione », con l’ausilio della teo­
ria dell’informazione, legare indissolubilmente la loro
stessa capacità di comunicazione a una « deroga » dal
codice intersoggettivamente stabilito (Vosfraneje, l’estra­
neazione semantica dei formalisti russi)92 non hanno costi-

91 Cfr. i saggi raccolti nel volume Linguaggi nella società e


nella tecnica, Atti del convegno promosso dalla Olivetti (Torino,
14-17 settembre 1968), Milano 1970.
92 Cfr. Victor Erlich, Russian Formalism, History, Doctrine,
tuito solamente i fondamenti delle nuove tecniche di
analisi, ma hanno anche provocato una serie di effetti
collaterali, da valutare in modo adeguato:
a) in primo luogo, l’approccio del « metodo formale »
ai problemi della comunicazione estetica ha offerto una
formidabile base teorica alle avanguardie storiche del
primo '900. L’influenza delle teorie dell’Opojaz sul futu­
rismo russo è solo un esempio particolarmente evidente
di ciò, (anche perché qui le relazioni fra arte e tecni­
che di analisi sono particolarmente evidenti e verificabili
storicamente); comunque, l’intera « teoria dell’avanguar­
dia » può essere riletta sotto questa luce;
b) in secondo luogo, va tenuto presente che i contri­
buti di Wittgenstein, Carnap e Frege stabiliscono, quasi
contemporaneamente, le aree di pertinenza relative alla
grammatica, alla logica e alla semiotica: il Peirce potrà
così indicare le condizioni di manipolabilità del segno puro,
privo di ogni implicazione simbolica, di ogni riferimento
semantico.
Ma alla « scoperta » del segno puro, dell’oggetto privo
di riferimenti che non rimandino che all’oggetto stesso,
dell’autonomia assoluta del « materiale » linguistico, non
erano forse giunte le avanguardie storiche, sin dagli anni
precedenti la prima guerra mondiale? Il Gegenstandlose
Welt di Malevic vale, a questa stregua, il Proun di E1
Lisickij, il fonema non-significante delle poesie onomato­
peiche di Hugo Ball o di Schwitters, gli assemblaggi e i
fotomontaggi di Hausmann. L’elementarismo di Van Does-

The Hague 1954, 19642, traci, it. Il formalismo russo, Bompiani,


Milano 1966; Galvano Della Volpe, I conti con i formalisti russi,
in Critica dell’ideologia contemporanea, Editori Riuniti, Roma
1967, pp. 121-37; Ignazio Ambrogio, Formalismo e avanguardia
in Russia, ivi 1968. Sulle specifiche relazioni fra avanguardie ar­
tistiche e Formalismo russo, si veda M. Tafuri, Il socialismo realiz­
zato e la crisi delle avanguardie, nel volume di AA.W., Socialismo,
città, architettura cit., pp. 43-87.
burg o le tesi propugnate da riviste come « Mécano »,
« G » o « MA » non sono che una lucida codificazione di
quanto il travagliato processo delle avanguardie aveva
rivelato. Che, la scoperta della possibilità di declinare
segni privati di ogni significato, di manipolare relazioni
arbitrarie fra « materiali » linguistici di per sé muti o
indifferenti fa ragione di ogni preteso uso" « politico » o
« contestativo » dell’avanguardia. L’unica utopia cui l’arte
di avanguardia scopre di poter tendere è Vutopia tecno­
logica. Il che è del tutto chiaro sU a un Moholy-Nagy,
che a un Hannes Meyer, che a uno Schwitters, che a un
Walter Benjamin. Basterebbe ricordare, per provarlo, il
saggio di Moholy-Nagy Costruttivismo e proletariato, pub­
blicato nel 1922 su « MA », in cui l’ideologia costrutti­
vista viene spogliata di tutti gli attributi « rivoluzionari »
ad essa attribuiti sia dal Dada berlinese, che dal gruppo
di « Aktion », che dai gruppi sovietici93 (ma si tratta del
medesimo clima in cui lavorano il De Stijl e gruppi anche
politicamente impegnati, come quello cecoslovacco di
« Devetsjl » 94). Ciò che interessa, in questa sede, è pro-

93 Laszlo Moholy-Nagy, Konstruktivismus und Proletariat,


« MA », 1922, maggio. La posizione di Moholy-Nagy è tutt’altro
che isolata. Si veda, ad esempio, le analoghe prese di posizione
polemiche di uno Schwitters, che, nel 1923, pubblica, insieme ad
Arp, Van Doesburg, Spengemann e Tzara, un manifesto esplicita
mente diretto contro la politicizzazione dell’attività artistica. Cfr.
Manifest Proletkunst, « Merz », II, 1923, n. 2, ma anche il pre
cedente articolo di Kurt Schwitters, MERZ, « Der Ararat », II,
1921, n. 1, pp. 3-9. Su tali polemiche, vive nell’ambiente berlinese
degli anni ’20, si veda il volume di Beth Irwin Lewis, George
Grosz: Art and Politics in thè Weimar Republic, The University of
Wisconsin Press, 1971, e il nostro saggio URSS-Berlin, 1922: du
populismo à l’« Internationale constructiviste », « VH 101 », 1972,
n. 7-8, pp. 53-87.
94 Sul gruppo « Devetsjl » e sulle avanguardie architettoniche
cecoslovacche in genere, si veda l’articolo di Vitezslav Prochàzka,
L’attività degli architetti cecoslovacchi in URSS negli anni Trenta,
nel voi. di AA.VV., Socialismo, città, architettura cit., pp. 289-307.
23 Carlo Aymonino, sezione dello spaccato centrale di uno degli
edifici del quartiere Gallaratese, a Milano. I diversi livelli interni,
dell’atrio, del corridoio dei duplex, ecc. sono leggibili dall’esterno.
prio il risvolto « costruttivo », tecnico, insito nel nichi­
lismo dell’utopia negativa delle avanguardie (dal futuri­
smo russo a Dada)95. Distruggere tutti gli attributi sim­
bolici stratificati sui segni linguistici, depurare fino alla
consunzione i segni, articolare le relazioni fra questi ulti­
mi, sulla base di rapporti completamente disponibili:
sono, queste, tutte operazioni che insistono direttamente
su quella fondamentale legge di sistematica infrazione al
codice dato, su cui si struttura la teoria dell’avanguardia.
Ma, elaborare sistemi di segni manipolabili e dispo­
nibili, e contemporaneamente legare i modi del loro comu­
nicare a quella sorta di teoria della distruzione perma­
nente del senso, insita nella costante ricerca di un’ambi­
guità potenziata del linguaggio significa:
1) dettare le condizioni secondo le quali i sistemi di
comunicazione artistica possono « agire » nel mondo quo­
tidiano, (e, in tal senso, la semiotica del Peirce e del
Morris è riallacciabile ai processi sommariamente descritti);
2) salvaguardare, nonostante tutto, una distanza dal
mondo quotidiano, una distanza dalla realtà. Non a caso,
un teorico dell’estetica tecnologica, come Max Bense, (da
cui hanno attinto a piene mani gli studiosi italiani di
comunicazioni visive e teoria dell’informazione), ha par­
lato di correaltà ( Mitwirchlichkeit ) per collocare adegua-

95 Sarebbe da scrìvere l’intera storia del tradursi, progressivo


e inevitabile, dello « sberleffo » futurista e dadaista in nuovi mo­
delli di comportamento artistico. È infatti implicito, nella nega­
zione di ogni valore, di Dada o del migliore Marinetti, una pro­
fonda aderenza alla Wertfreiheit weberiana: alla « libertà dal va­
lore », in altre parole, già enunciata drammaticamente da Nietzsche,
come condizione imprescindibile di azione. Il « canto del sì e del­
l’amen » è l’orizzonte cui tendono, senza scampo, le contestazioni
dadaiste, come, più tardi, le velleità « rivoluzionarie » del Surrea­
lismo. Cfr., al proposito, l'interessante saggio di Robert S. Short,
La politica del Surrealismo, 1920-1936, « Dialoghi del XX », 1967,
n. 2, pp. 29 sgg.
tamente i processi estetici nei confronti della realtà fisica96 ;
3) porre, come unica e autentica « norma » del lavoro
sulla parola o sul linguaggio, elaborato dall’arte di avan­
guardia, non solo un elevatissimo grado di casualità e
improbabilità — e quindi un elevato quanto di informa­
zione — ma anche una costante alterazione dei propri
nessi interni: non a caso le avanguardie si pongono come
ideologia dell'innovazione programmata e permanente.
Da quanto detto, risulta chiaramente che il rapporto
di scambio fra linguistica moderna e movimenti di avan­
guardia si è sviluppato — fino al ’30 almeno — secondo
linee strettamente intrecciate. La disponibilità del segno
e la sua manipolabilità sono al fondamento sia della semio­
tica e dell’analisi del comportamento, che del passaggio
dell’arte di avanguardia al diretto intervento nel mondo
della produzione e della pubblicità.
Né è un caso, che tale passaggio veda implicato, in
prima persona e con ruoli privilegiati, il settore delle
comunicazioni visive più direttamente legato all’universo
produttivo: l’architettura, come elemento del fenomeno
urbano, è chiamata, anche in questo campo, ad ereditare
l’intero lascito delle avanguardie. Si pensi, come momento
fondamentale, al complesso rapporto di Le Corbusier con
il cubismo e con il surrealismo97. Ma è proprio nel campo
architettonico, che si rivelano le più gravi contraddizioni,
nelle relazioni fra analisi del linguaggio e produzione.
Una volta inserita materialmente nei meccanismi dell’uni­
verso produttivo, l’arte (l’architettura) vede infatti neces­
sariamente compromesso il proprio carattere sperimen­
tale, il proprio carattere di Mitwirchlichkeit.

96 Cfr., al proposito, Giangiorgio Pasqualotto, op. cit.


97 Le relazioni fra Le Corbusier e il Surrealismo sono state im­
postate nel volume di Stanislaus von Moos, Le Corbusier. Elemente
einer Synthese, cit. Il tema richiede, però, una analisi specifica e
particolareggiata, che ci ripromettiamo di compiere in altra sede.
È a questo punto, che fra linguistica e architettura si
pone una cesura, verificabile nel dramma soggettivo di
Mel’nikov: del più coerente, cioè, degli architetti russi
che si sia provato a tradurre in metodologia architettonica
le tesi del formalismo di uno Sklovskij o di un Eichen-
baum98. Se, infatti, il sistema comunicativo non rimanda
che alle leggi della propria interna struttura, se l’archi­
tettura non può essere interpretabile — nei suoi tratti
specifici — che come sperimentazione linguistica, se
quest’ultima si realizza solo attraverso un’obliquità, una
ambiguità radicale nell’organizzazione delle sue compo­
nenti, se, infine, il « materiale » del linguaggio è indiffe­
rente, e conta solo il modo in cui i vari materiali reagi­
scono fra loro, allora non v’è altra strada coerente che
quella del formalismo più radicale e politicamente agno­
stico: il più distanziato — per libera e cosciente scelta —
dalla stessa realtà che permette all’architettura di esistere.
Quando Mel’nikov inserisce cariatidi dal gusto palese­
mente Kitsch, in progetti come il garage sulla Senna a
Parigi o il Narkomtiazproma a Mosca, egli rispetta in
pieno le leggi dello straniamento semantico e dell’indif­
ferenza nei confronti dei « materiali » linguistici. Ma,
contemporaneamente, il « lavoro sulla parola », applicato
all’architettura, mostra tutta la propria improduttività (e
si tratta, si badi bene, di una improduttività duplice: da
un lato, in senso materiale, in quanto un formalismo rigo­
roso non può rispettare che con grosse difficoltà leggi è
programmi strettamente tecnologici; d’altro lato, in senso
politico, dato che la sua necessaria estraneità al reale, il

98 Sull’architettura di Mel’nikov, cfr. Yu. Gerchuk, Mel’nikov,


« Architektura SSSR », 1966, n. 8, pp. 51-5 (trad. inglese in O. A.
Shvidkovsky, Building in thè ÙSSR, 1917-1932, Studio Vista,
London 1971, pp, 57-66), e S. Frederick Starr, Konstantin Melni-
kov, « The Architectural Design », XXXIX, 1967, n. 7, pp. 367-73.
24 Gruppo ASNOVA (Bulikin, Budo, Prokorova, Turkus, scultore
lodko), plastico del progetto elaborato per il concorso per il pa­
lazzo dei Soviet a Mosca (seconda fase, 1931).
suo stesso sperimentalismo, lo distanziano da ogni « fun­
zionalità » propagandistica).
È un fatto, comunque, che l’intero movimento mo­
derno postula un’azione della critica all’interno dei propri
processi: e ben sappiamo come tale assorbimento della
critica da parte dell’arte corrisponda da sempre a un
annullamento della critica stessa".
In tal senso, il processo seguito sopra e la domanda
circa il perché dell’attuale intensa riproduzione di uno
stretto rapporto fra semiologia, informatica e teorie del
linguaggio si saldano fra loro.
Il tentativo di rivitalizzare l’architettura tramite una
esplorazione delle sue interne strutture, e il tentativo di
ribaltare quell’esplorazione di nuovo in architettura na­
scono nel momento in cui proprio le ricerche di avan­
guardia nel campo del linguaggio vanno abbandonando il
settore delle comunicazioni « ambigue » e tendono a collo­
carsi nel cuore dell’universo produttivo, attraverso la crea­
zione dei linguaggi artificiali di programmazione.
Dall’analisi dell’ideologia dell’innovazione, dunque,
all’intervento diretto nei processi reali di innovazione:
questo il percorso seguito dalla linguistica contemporanea,
almeno dal punto di vista dello sviluppo capitalistico. Il
che corrisponde a un processo analogo, ma di segno oppo­
sto, compiuto dall’arte di avanguardia. Da modello uto-

99 Abbiamo cercato di mettere in luce tale problema in Teorie


e storia dell'architettura (Laterza, Roma-Bari 19733, pp. 121-63).
Cogliamo l’occasione, al proposito, per rispondere a una critica
rivolta a quel volume da Enrico Tedeschi (E. Tedeschi, Two Tools
of Theory, « The Architectural Review », 1970, March, p. 136),
il quale ci sembra non aver compreso il senso della nostra analisi
sul significato storico delle discipline linguistiche: nessun fine
« operativo », infatti, è proponibile in sede di critica delle ideo­
logie. Il che è invece stato compreso perfettamente da Zevi, che
ha attaccato Teorie e storia nel suo editoriale Miti e rassegnazione
storica, « L’Architettura. Cronache e storia », XIV, 1968, n. 155,
pp. 352-3.
pico, i cui compiti sono quelli della prefigurazione di un
assetto « totale » dell’universo tecnologico, essa si riduce
ad appendice di quello stesso universo in via di realizza­
zione. Il carattere sperimentale delle neo-avanguardie non
inganna nessuno circa le sue reali intenzioni 10°.
Riscoprire — com’è accaduto nel corso degli anni
'60 — un possibile ruolo di avanguardia per l’architet­
tura, e rivolgersi contemporaneamente a usare gli stru­
menti analitici delle scienze della comunicazione (non
importa neppure, qui, con quanta superficialità o appros­
simazione), ha significato scavare un fosso fra alcune
nuove esperienze e l’utopia tradizionale del movimento
moderno, e nello stesso tempo riportare il discorso alle
aporie contro le quali ebbe già a scontrare il formalismo
russo. E non è casuale, di conseguenza, la rivalutazione
così ostinata e acritica delle esperienze delle avanguardie
sovietiche da parte della critica occidentale.
Ma, per altro verso, ridurre l’architettura a « oggetto
ambiguo », all’interno di quel « Merz » totale che è la
città contemporanea, significa accettare per intero il ruolo
marginale e sovrastrutturale che l’attuale uso capitalistico
del territorio assegna a un fenomeno puramente ideolo­
gico, come l’architettura stessa.
E non è che ci si debba scandalizzare moralistica­
mente di ciò. Meraviglia piuttosto che l’autocritica della
architettura non giunga fino in fondo, e abbia bisogno
di mascherarsi dietro i nuovi schermi ideologici a lei
prestati dall’approccio semiologico.
Tale fenomeno si spiega facilmente. Attraverso la
semiologia, l’architettura va alla ricerca del proprio signi-

100 Cfr. H. Magnus Enzensberger, L’aporia dell’avanguardia,


« Angelus Novus », 1964, n. 2, pp. 97-116, e i due saggi di Franco
Fortini, Due avanguardie, e di Gianni Scalia, La nuova avanguar­
dia, o della « miseria della poesia », nel volume di AA.VV., Avan­
guardia e neoavanguardia, Sugar, Milano 1964, pp. 95 sgg. e 22 sgg.
25 Louis Kahn, progetto per il Philadelphia College of Art, Penn­
sylvania, 1966.
ficato, con l’angosciante presentimento di aver perso qual­
siasi significato. Dove è chiaramente individuabile un’ulte­
riore contraddizione: un’architettura che abbia accettato
la riduzione a segno puro dei propri elementi e la costru­
zione della propria struttura come insieme di relazioni
tautologiche, che rimandano a loro stesse in un massimo
di « entropia negativa » — secondo il linguaggio della
teoria dell’informazione — non può rivolgersi a rico­
struire significati « altri » attraverso tecniche di analisi,
che proprio dall’applicazione di teorie neopositiviste pren­
dono le mosse.
L’analisi semantica del linguaggio, tuttavia, ha stimo­
lato il risorgere di un’ideologia dell’avanguardia artistico-
letteraria. La pretesa, già delle avanguardie e poi, negli
anni ’60, delle neo-avanguardie, di porsi come sperimen­
tazione critica dell’articolazione del linguaggio, va quindi
misurata con la realtà del concreto e produttivo lavoro
sulle nuove possibilità di comunicazione programmata.
Ma non basta: la poetica dell’indeterminazione, del-
l'opera aperta, dell’ambiguità elevata a istituzione, insiste
infatti — nella gran parte dei casi — esattamente sui
campi definiti dalle nuove tecniche di comunicazione
uomo-macchina: il caso della musica ex machina è solo
l’esempio più esplicito in tal senso.
Non è più l’ideologia, che, dopo aver assunto conno­
tati utopistici, indica linee di lavoro impreviste alle tecni­
che di programmazione. Al lavoro sui materiali della
comunicazione — ci riferiamo a tutte le tecniche di comu­
nicazione visiva, letteraria, musicale, o alle loro contami­
nazioni — non spetta più l’anticipazione delle linee di
tendenza relative allo sviluppo: il superamento dei mo­
delli finali, nella tecnica previsionale, estingue il ruolo
utopistico delle nuove ideologie.
Anche qui si manifesta un processo sintomatico. Espul­
sa dallo sviluppo, l’ideologia si rivolta contro lo sviluppo
26 Gae Aulenti, casa di un collezionista, Milano, 1970.
stesso: sotto la forma della contestazione, essa tenta, cioè,
il proprio recupero estremo. Non potendo più porsi come
utopia, l’ideologia si rovescia in contemplazione nostal­
gica dei propri ruoli superati, o in autocontestazione: e
ben sappiamo come, per l’arte moderna, da Baudelaire e
Rimbaud in poi, l’autocontestazione sia strumento di so­
pravvivenza.
Rimane comunque fisso che ogni strada di elabora­
zione esterna, per il lavoro intellettuale, resta preclusa.
L’unica illusione di lavoro esterno può essere data dalla
rivolta contro il lavoro intellettuale stesso, espresso dalla
sacralizzazione della sua impotenza. Al di là di ciò è il
salto all’indietro, è il « coraggio di parlar delle rose », il
naufragio nel « tempo felice » della Kultur borghese:
l’ideologia come « sublime » inutilità. Ma non è un caso
che il destino storico dei formalismi si concluda sempre
nell’utilizzazione « pubblicitaria » del lavoro sulla forma.
Una critica compiutamente strutturalista, comunque,
non giungerà mai a « spiegare » il senso di un’opera:
si limiterà a « descriverla », avendo a sua disposizione
solo una logica basata sulla coppia sì-no, corretto-scorretto,
in tutto analoga alla logica matematica che guida le fun­
zioni di un cervello elettronico (non a caso, Max Bense
fa riferimento diretto alle tesi di R. S. Hartmann sulla
misurazione matematica del valore)101. La logica dell’auto­

101 Max Bense, Zusammenfassende Grundlegung moderner


Aesthetik, in Aesthetica, Agis Verlag, Baden-Baden 1965, Teil V,
pp. 319 sgg. « È vero — ha scritto al proposito Pasqualotto —
che il valore di un oggetto estetico non è ad esso inerente, ma è
anche vero che il valore ad esso attribuibile non è un “ valore "
tradizionalmente inteso secondo pure categorie assiologiche o secon­
do parametri coscienziali, ma si identifica con la sua descrivibilità.
In altri termini, le qualità di valore, essendo quantità descrivibili,
perdono ogni “ aura " di indeterminatezza metafisica e sono ricon­
ducibili entro l’area dei fenomeni quantitativamente misurabili.
La valutazione diventa allora una semplice descrizione » (G. Pasqua­
lotto, Avanguardia e tecnologia cit., p. 30).
inazione, anche in assenza di un intervento del calcola­
tore nella progettazione, guida già la struttura dei pro­
cessi di formazione dell’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica. I quadri fatti al telefono, nel ’21,
da Moholy-Nagy, non sono solo profezia degli odierni
procedimenti di montaggio programmato nell’architettura
altamente industrializzata, ma chiariscono per intero le
condizioni di esistenza di un’opera, che non voglia risul­
tare — come vorrebbe Adorno — utopia regressiva,
nonsense « cosciente » della propria alienazione.
Esiste quindi un solo apporto che uno strutturalismo
conseguente può offrire all’architettura e all’arte attuali:
la dimensione esatta della propria funzionalità nell’uni­
verso dello sviluppo capitalistico, nell’universo dell’inte­
grazione.
Esattamente ciò che l’architettura non vuole né può
accettare e che lo strutturalismo stesso — nell’arco varie­
gato delle sue diverse espressioni — non è disposto a
riconoscere come proprio compito, perché la stessa semio­
logia, pur nei suoi complessi legami con il metodo strut­
turale, si pone oggi come ideologia; e più esattamente
come ideologia della comunicazione 102. Fra l’universo del­
lo sviluppo, il singolo e il pubblico è necessario il legame
di un fascio di comunicazioni, tale da saldare ogni frat­
tura eventuale, da rimarginare ogni contrasto, tale da
rendere produttiva la stessa contraddizione. In tal senso,
la poetica dell'ambiguità risponde pienamente al progetto,
che vede il pubblico protagonista dell’universo urbano da
cui è gestito. Non sono da sottovalutare al proposito le
osservazioni di Bense sull’analogia esistente fra le strut­
ture (Farbtexturen) della pittura informale e le strutture

102 Cfr. M. Cacciati, Vita Cartesii est simplicissima, « Contro­


piano », III, 1970, n. 2, pp. 375-99.
di comunicazione (Geschwindigkeitstexturen ) del paesag­
gio metropolitano 103.
L’urbanistica moderna — in quanto utopistico ten­
tativo di salvaguardare una forma per la città, anzi un
principio di forma calato nella dinamica delle strutture
urbane — non ha potuto realizzare i propri modelli. Ma
nell’ambito delle strutture urbane e territoriali, tutto il
contributo delle avanguardie storiche vive con una sua
particolare pregnanza: la città come struttura pubblici­
taria e autopubblicitaria, come insieme di canali di comu­
nicazione, diviene una sorta di macchina emittente di
incessanti messaggi: l’indeterminato si dà nella sua forma
specifica, si offre come unica determinatezza possibile per
l’insieme urbano.
In tal modo, prende corpo il tentativo di far vivere
il linguaggio dello sviluppo: di renderlo concretamente
sperimentabile nella vita quotidiana.
Con la qual cosa, siamo tornati al tema con cui
abbiamo iniziato. Non basta creare artificialmente i lin­
guaggi del piano, ma è necessario immergere il pubblico
nell 'immagine dello sviluppo, nella città come program­
matica rete di comunicazioni, il cui soggetto è sempre
la « necessità » del piano capitalistico di integrazione (le
analisi di un Richard Meier suonano esplicite al propo­
sito 104 ). Non è quindi lecito chiedersi se le tecniche di
analisi del linguaggio possano essere utilizzate in astratto
dalla ricerca storica. Dal nostro punto di vista, va solo
esaminata l’opportunità di usarne alcuni parametri, in

103 Cfr. Max Bense, Urbanismus und Semiothik, in Einfiihrung


in die informationstheoretische Aesthetik, Rowohlt Taschenbuch
Verlag, Hamburg 1969, II, p. 136.
104 Richard L. Meier, A Communications Theory of Urban
Growth, MIT and Harvard University 1962, trad. it. Teoria della
comunicazione e struttura urbana, Il Saggiatore, Milano 1969.
funzione di una critica volutamente « esterna » all’opera
considerata. Escluso, quindi, l’abbraccio conciliatore tra
marxismo e strutturalismo, rimane infatti un dato: anche
l’ideologia, pur in tutta la sua ineffettualità, possiede
una propria struttura, storica e transeunte come tutte
le strutture. Portarne alla luce le caratteristiche specifiche,
e valutarne il grado di funzionalità rispetto ai fini gene­
rali che le forze dominanti si propongono, in fasi determi­
nate del loro sviluppo, è l’unico contributo che una critica
non puramente descrittiva può oggi offrire.
8. Problemi in forma di conclusione

Ma non è certo facile integrare tale tipo di critica


con ricerche di progettazione tese a fuggire per la tan­
gente pur di non affrontare i temi più scottanti posti
dall’attuale situazione.
È innegabile che ci si trova di fronte a vari fenomeni
concomitanti. Da un lato, la collocazione della produ­
zione edilizia all’interno dei piani complessivi continua a
ridurre la funzionalità del ruolo ideologico dell’architet­
tura. Dall’altro lato, le contraddizioni economiche e so­
ciali, che esplodono in modo sempre più accelerato nel­
l’ambito delle strutture urbane e territoriali, sembrano
imporre alla riorganizzazione capitalistica una battuta d’ar­
resto. Di fronte al tema della razionalizzazione dell’assetto
urbano, le attuali forze politico-economiche mostrano di
non essere interessate a trovare al proprio interno le forze
e gli strumenti adeguati per adempiere ai compiti indicati
dalle ideologie architettoniche del movimento moderno.
Le approssimazioni dell’urbanistica e le ideologie del
Piano appaiono, in altre parole, come vecchi idola, da
svendere a collezionisti appassionati di armi antiche:
l’ineffettualità dell’ideologia ne emerge chiaramente.
Messi di fronte al fenomeno della diretta gestione
capitalistica del territorio, le opposizioni « radicali » e
porzioni del movimento operaio organizzato hanno evitato
il confronto con i livelli più alti raggiunti dallo sviluppo
capitalistico, ereditando le ideologie di rigetto da questo
utilizzate nelle prime fasi del suo decollo: contraddizioni
secondarie vengono così scambiate come primarie e fon-
damentalj.
La durezza della lotta per le leggi urbanistiche (in
Italia come negli Usa), per la riorganizzazione del settore
edilizio, per Vurban renewal, ha generato l’illusione che
la battaglia per la pianificazione potesse costituire un
obiettivo tout-court della lotta di classe.
E il problema non è nemmeno di contrapporre piani
buoni a piani cattivi: caso mai, impiegando in ciò « l’astu­
zia delle colombe » si tratterà di riuscire a leggere quali
condizionamenti delle strutture di piano siano volta per
volta congruenti con obiettivi contingenti di parte operaia.
Vale a dire, che, nell'abbandonare il sogno del « mondo
nuovo » sorgente dal realizzarsi del principio di Ragione
fattosi Piano, non si compie alcuna « rinunzia », né si
prospettano apocalittici silenzi. Riconoscere l’inagibilità di
strumenti inoffensivi è solo un primo passo necessario,
ricordando come sia sempre presente il pericolo di vedere
raccolte dall’intellettuale « di classe » missioni e ideologie
svendute dall’avversario, nel corso dei propri processi
di razionalizzazione 105.
105 « Di fronte a noi — ha scritto Mario Tronti, in un sag­
gio ancora fondamentale — non più le grandi sintesi astratte del
pensiero borghese, ma il culto della più volgare empiria come
prassi del capitale; non più il sistema logico del sapere, i princìpi
della scienza; ma una massa senza ordine di fatti storici, di espe­
rienze staccate, di grandi azioni compiute che nessuno mai ha
pensato. Scienza e ideologia di nuovo si fondono e si contraddi­
cono, non più però in una sistemazione delle idee per l’eterno,
ma negli eventi quotidiani della lotta di classe [...]. Tutto l’appa­
rato funzionale dell’ideologia borghese è stato consegnato dal capi­
tale nelle mani del movimento operaio ufficialmente riconosciuto.
Il capitale non gestisce più la propria ideologia, la fa gestire al
movimento operaio [...]. Ecco perché diciamo che oggi la critica
dell’ideologia è un compito interno al punto di vista operaio, che
solo in seconda istanza riguarda il capitale » (M. Tronti, Marx,
È chiaro, comunque, che qualsiasi lotta di parte ope­
raia sui temi relativi alla struttura urbana e territoriale
fa oggi i conti con programmi di alta complessità — an­
che, ed è il caso dei processi attualmente in atto nel
settore edilizio, quando tale complessità è dovuta alle
contraddizioni interne al ciclo economico complessivo. Al
di là della critica dell’ideologia, esiste l’analisi « di parte »
di tale realtà, in cui è sempre necessario riconoscere le
linee di tendenza nascoste, gli obiettivi reali di strategie
contraddittorie, i legami che connettono fra loro settori
economici apparentemente indipendenti. Esiste un lavoro
tutto da iniziare, ci sembra, per una cultura architetto­
nica che accetti un tale terreno di operazioni. Il quale,
ai fini della sua utilizzazione politica, per essere calato
in lotte concrete, ha come compito quello di mettere il
movimento operaio organizzato di fronte ai livelli più
alti raggiunti dalla dinamica dello sviluppo capitalista e
di riconnettere momenti particolari a disegni generali.
Ma per fare ciò è necessario riconoscere, anche nel
settore delle tecniche di pianificazione, i nuovi fenomeni
e le nuove forze protagoniste.
Abbiamo già accennato alla crisi di quella che potrem­
mo definire l’ideologia dell’equilibrio, in seno alle disci­
pline relative alla programmazione. È la storia dei piani
quinquennali sovietici, da un lato, ed è l’insegnamento
fornito dalle teorie economiche post-keynesiane, che san­
ciscono tale crisi106. L'equilibrio si rivela anch’esso, nella

forza-lavoro, classe operaia, in Operai e capitale, Einaudi, Torino


1966, p. 171, ma cfr. anche alle pp. 177 sgg.).
106 Per quanto riguarda la storia economica delTUrss, nella
fase di decollo del primo piano quinquennale, si veda il n. 1,
1971, di « Contropiano » dedicato al Dibattito sovietico sull’indu­
strializzazione, in cui è sviluppato, sul tema specifico, tale punto
di vista (cfr., in particolare, Massimo Cacciar!, Le teorie dello
sviluppo, cit., pp. 3 sgg., e Francesco Dal Co, Sviluppo e loca­
lizzazione industriale, cit., pp. 81 sgg.).
dinamica territoriale, come un idolum inagibile. All’in­
terno degli attuali sforzi per « agire » gli squilibri, per
legare indissolubilmente crisi e sviluppo, rivoluzione tec­
nologica e radicali mutamenti della composizione orga­
nica del capitale, una prospettiva basata sulla pacifica­
zione dell’assetto territoriale non è « alternativa », ma
anacronistica.
I modelli di analisi e previsione delle localizzazioni
produttive elaborate, dagli anni ’30 a oggi, da Kristaller,
da Lósch, da Tinbergen, da Bos, ecc., vanno quindi criti­
cati non tanto per le loro carenze particolari o con criteri
ideologici, bensì per l’ipotesi economica che essi presup­
pongono. Né è un caso, che riscuota un interesse sempre
crescente un teorico sovietico degli anni ’20, come Preo-
brazenskij, che appare sempre più chiaramente come un
antesignano di una teoria di piano basata esplicitamente
sullo sviluppo dinamico, sullo squilibrio organizzato, su
interventi che presuppongano continui rivoluzionamenti
strutturali107.
Tuttavia, va osservato che la programmazione setto­
riale — anche per il circolo chiuso, che in essa viene
a formarsi fra tecnica di intervento e i fini particolari di
esso — ha fino a oggi agito, per lo più, sulla base di
modelli eminentemente statici, seguendo una strategia
basata sulla rimozione degli squilibri.
Passare dall’utilizzazione di modelli statici all’elabo­
razione di modelli dinamici sembra essere oggi il com­
pito posto dalle esigenze dello sviluppo capitalistico all’ag­
giornamento delle tecniche di programmazione.
Da semplice « momento » dello sviluppo, il piano si

107 Cfr. M. Cacciati, Le teorie dello sviluppo, cit. Uno studio


sistemato delle teorie di Preobrazenskij è attualmente in elabo­
razione da parte del dott. Claudio Motta.
va imponendo infatti come nuova istituzione politica 108.
È in questo senso che il puro e semplice scambio
interdisciplinare — fallito anche a livello pratico — va
radicalmente superato.

108 L’istanza recentemente avanzata da Saraceno, di superare i


programmi da lui definiti ad obbiettivo, a favore di un’azione pro­
grammata di tipo generale, rientra già in una visione del piano
che fa ragione di tutti gli schematismi e della settorialità delle
teorie del piano elaborate negli anni ’50-6Ò. « Se la programma­
zione -— scrive Saraceno — è di carattere generale, essa ha in
sostanza lo scopo, del tutto diverso [rispetto ai progetti di vasta
portata che coprono determinati settori dell’azione pubblica], di
comporre in un sistema tutte le azioni da intraprendere nella sfera
pubblica; essa diviene così una procedura mediante la quale si
confrontano i costi delle varie azioni proposte all’attività del go­
verno, nonché il complesso di tali costi con il complesso delle
risorse prevedibili, così da rendere possibile la scelta della moda­
lità delle azioni da svolgere e dei criteri con cui raccogliere dette
risorse. Con l’adozione di una simile procedura, sarebbe più appro­
priato parlare di una società programmata e non di una economia
programmata » (Pasquale Saraceno, La programmazione negli anni
’70, Etas Kompass, Milano 1970, p. 28). Va notato che il programma
generale di cui parla Saraceno non costituisce affatto un piano vinco­
lante: esso ha « il solo ufficio di rendere noto di tempo in tempo —
probabilmente a intervalli non superiori ad un anno — lo stato del
sistema » (ivi, p. 32). È significativa al proposito la richiesta di
nuove istituzioni capaci di realizzare il coordinamento: la valuta­
zione positiva del metodo seguito nella formulazione del Progetto
80 conferma la linea di tendenza rilevata. «Che cosa è infatti il
Progetto 80? — si chiede Saraceno (p. 52) — È una rassegna si­
stematica dei problemi nazionali che in questo momento sono giu­
dicati di massimo rilievo, nonché dei nuovi istituti che meglio di
quelli esistenti si ritiene possano avviare a soluzione quei problemi;
se la nostra sfera pubblica fosse già ordinata in un sistema nel senso
prima chiarito, i redattori di quel documento avrebbero prodotto
quello che si è denominato un Programma-verifica ». Malgrado che
anche le prospettive tecniche di Saraceno non siano prive di resi­
dui utopici — si veda la sua perorazione per « un ordinamento in
virtù del quale le forze sociali aderiscano moralmente al processo
di utilizzo di risorse richieste per la soluzione [dei] problemi »
(ivi, p. 26, corsivo nostro) — la sua critica al programma quinquen­
nale '66-70 aderisce alla trasformazione istituzionale del controllo
dello sviluppo, correttamente individuata nella nota di Sandro
Mattiuzzi e Stefania Potenza, Programmazione e piani territoriali:
Horst Rittel ha esposto con chiarezza le implica­
zioni della « teoria delle decisioni », una volta che questa
sia inserita nell 'autoprogrammazione dei sistemi ciberne­
tici (ed è logico che diamo per scontato che tale livello
di razionalizzazione rappresenti ancora, in buona parte,
un modello utopico).

I sistemi di valori — scrive Rittel — non possono essere


più considerati stabili per lunghi periodi. Ciò che si può
volere dipende da quel che può essere reso possibile, e ciò
che deve essere reso possibile dipende da quel che si vuole.
Fini e funzioni di utilità non sono grandezze indipendenti.
Esse stanno in rapporto d’implicazione con l’ambito decisio­
nale. Rappresentazioni di valore sono controllabili entro ampi
limiti. Di fronte all’incertezza degli sviluppi alternativi futuri
è assurdo voler costruire modelli decisionali rigidi, che
forniscano strategie per lunghi periodi109.

La teoria delle decisioni deve assicurare la flessibilità


dei « sistemi che prendono decisioni »: è chiaro che qui
non sono più in gioco puri criteri di valore. La domanda
cui un livello avanzato di programmazione deve rispon­
dere è: « quali sistemi di valori sono in generale coerenti
e garantiscono possibilità di adattamento e quindi di
sopravvivenza? » 110.

l’esempio del Mezzogiorno, « Contropiano », 1969, n. 3, pp. 685-717.


Che le opinioni del Saraceno siano parte di una vasta ristruttura­
zione in atto nella prassi e nella teoria della programmazione, è
provato da tutta una serie di prese di posizione a favore del piano
come « politica continuamente e completamente esercitata ». Cfr.
Giorgio Ruffolo, Progetto 80: scelte, impegni, strumenti, « Mondo
economico», 1969, n. 1.
109 Horst Rittel, Ueberlegungen zur wissenschaftlichen und
politischen Bedeutung der Entscheidungstheorien, relazione dello
Studiengruppe fiir Systemforschung, Heidelberg, pp. 29 sgg., orq
nel volume a cura di H. Krauch, W. Kunz e H. Rittel, Forschungs-
plannung, Oldenbourg Verlag, Miinchen 1966, pp. 110-29.
"<> Ibid.
28 Intensità delle comunicazioni telefoniche in partenza da Boston
e New York (dal Gottmann).
È la stessa struttura del piano, quindi, che, per Rittel,
genera i propri sistemi di valutazione. Fra piano e « va­
lore » cade ogni contrapposizione: esattamente come viene
riconosciuto nella lucida teorizzazione di Max Bense111.
Le conseguenze di tali fenomeni, qui appena accen­
nati, sulla struttura della pianificazione e sull’organizza­
zione della progettazione costituiscono ancora un problema
del tutto aperto. Ma è con tale problema che è oggi neces­
sario confrontarsi, è rispetto ad esso, che le stesse speri­
mentazioni didattiche sono chiamate a prendere posizione.
Cosa rimane, in tale prospettiva, del ruolo storica­
mente ricoperto dall’architettura? Fino a che punto il suo
inserirsi in tali processi rende l’architettura stessa un
puro fattore economico, e quanto le decisioni prese nel
suo ambito specifico si' ripercuotono in più vaste strut­
ture? È difficile trovare risposte coerenti a tali interro­
gativi, in seno all’attuale dibattito architettonico. E si
spiega.
Per gli architetti, la scoperta del loro declino come

111 « Le diverse tappe dell’itinerario seguito dall’analisi di


Bense — scrive Pasqualotto — rappresentano la necessaria pre­
messa e il fondamento stesso delle sue conclusioni generali, e nel
contempo stabiliscono l’assoluta inadeguatezza della proposta po­
litica di Benjamin alla realtà dell’integrazione tecnologica. La ca­
tena dei processi, che costituiscono la formalizzazione radicale de­
gli elementi e delle strutture, dei valori e dei giudizi che appar­
tengono all’ambito dell’estetica e a quello dell’etica, ha mostrato
di essere completamente funzionale al rilevamento della intenzio­
nalità tecnica (della technische Bewusstsein), che rappresenta il suo
stesso fondamento. A sua volta, quell’intenzionalità tecnica si pre­
senta come il fattore determinante della costruzione di una " nuova
Soggettività ”, che lavora per il progetto finale di una " nuova Sin­
tesi il filo dell’intenzionalità tecnica che intesse la trama della
Zivilisation tecnologica conclude il suo tragitto nell 'Integration.
Ma la realizzazione di tale Integration evidentemente non dipende
soltanto dall’organicità di una ideologia della tecnologia, ma di­
pende in gran parte dall’elaborazione di una politica della tecno­
logia » (G. Pasqualotto, Avanguardia e tecnologia, cit., pp. 234-5).
ideologhi attivi, la constatazione delle enormi possibilità
tecnologiche utilizzabili per razionalizzare le città e i terri­
tori, unita alla quotidiana constatazione del loro spreco,
l’invecchiamento dei metodi specifici di progettazione, pri­
ma ancora di poterne verificare nella realtà le ipotesi,
generano un clima ansioso, che lascia intrawedere all’oriz­
zonte uno sfondo molto concreto e temuto come il peg­
giore dei mali: il declino della « professionalità » dell’ar­
chitetto e l’inserimento di questi, senza più remore tar-
doumanistiche, in programmi in cui il ruolo ideologico
dell’architettura sia minimo.
Che tale nuova situazione professionale, già reale in
paesi a capitalismo avanzato, venga temuta dagli archi­
tetti e scongiurata con i contorcimenti formali e ideolo­
gici più nevrotici, è solo un indice dell’arretratezza poli­
tica di tale gruppo intellettuale.
Dopo aver anticipato ideologicamente la ferrea legge
del piano, gli architetti, incapaci di leggere storicamente
il percorso compiuto, si ribellano alle estreme conseguenze
dei processi che essi hanno contribuito a innescare. E,
ciò che è peggio, tentano patetici rilanci « etici » dell’ar­
chitettura moderna, assegnando ad essa compiti politici
adatti solo a calmare provvisoriamente astratti quanto
ingiustificati furori.
Perché di questo è necessario convincersi: che l’in­
tero ciclo dell’architettura moderna e dei nuovi sistemi
di comunicazione visiva nascono, si sviluppano ed entrano
in crisi come un grandioso tentativo — l’ultimo della
grande cultura figurativa borghese — per risolvere, sul
piano di un’ideologia sempre più inattuale, squilibri,
contraddizioni e ritardi, tipici della riorganizzazione capi­
talista del mercato mondiale e dello sviluppo produttivo.
Ordine e disordine, in tale accezione, finiscono di
opporsi fra loro. Letti nei loro reali significati storici,
non v’è contraddizione fra costruttivismo e « arte di pro­
testa », fra razionalizzazione della produzione edilizia e
soggettivismo informale o ironia pop, fra piano capita­
lista e caos urbano, fra ideologia della pianificazione e
poetica dell’oggetto.
Il destino della società capitalista, a tale stregua, non
è affatto estraneo al progetto. L’ideologia del progetto è
tanto essenziale all’integrazione del capitalismo moderno
in tutte le strutture e sovrastrutture dell’esistenza umana,
quanto lo è l’illusione di potersi opporre a quel progetto
con gli strumenti di una progettazione diversa, o di una
« antiprogettazione » radicale.
Può anche darsi che esistano molti compiti spe­
cifici per l’architettura. A noi interessa piuttosto chie­
derci come mai sino ad ora la cultura di ispira­
zione marxista abbia, con estrema cura e con un’ostina­
zione degna di miglior causa, negato o coperto colpevol­
mente questa semplice verità: che, come non può esistere
Un’Economia politica di classe, ma solo una critica di
classe all’Economia politica, così non può fondarsi una
estetica, un’arte, un’architettura di classe, ma solo una
critica di classe all’estetica, all’arte, all’architettura, alla
città.
Una coerente critica marxista dell’ideologia architet­
tonica e urbanistica non può che demistificare realtà
contingenti e storiche, niente affatto oggettive o univer­
sali, che si celano dietro le categorie unificanti dei termini
arte, architettura, città: riconoscendo, altresì, i livelli nuo­
vi ai quali si attesta lo sviluppo capitalista, e con i quali
i movimenti di classe sono chiamati a confrontarsi.
E, fra le illusioni intellettuali da frustrare, la prima
è quella che tende ad anticipare, con il solo valore del­
l’immagine, le condizioni di un’architettura « per una
società liberata ». Chi propone un tale slogan evita di
chiedersi se, anche messo da parte il suo palese utopismo,
tale obiettivo sia perseguibile senza una rivoluzione lin-
guistica, metodologica e strutturale, la cui portata va ben
al di là della semplice volontà soggettiva o del semplice
aggiornamento di una sintassi.
L’architettura moderna ha segnato le vie del proprio
destino facendosi portatrice di ideali di razionalizzazione
da cui la classe operaia è investita solo in seconda
istanza, all’interno di un’autonoma strategia politica.
Si potrà riconoscere l’inevitabilità storica di tale feno­
meno. Ma una volta riconosciuto come tale, non è più
possibile nascondere la realtà ultima che rende inutil­
mente angosciose le scelte degli architetti agganciati dispe­
ratamente alle ideologie disciplinari.
Inutilmente angosciose: perché è inutile dibattersi
all’interno di capsule prive di uscite. La crisi dell’archi­
tettura moderna non consegue da « stanchezze » o « dila­
pidazioni »: è piuttosto crisi della funzione ideologica
dell’architettura. La « caduta » dell’arte moderna è l’ul­
tima testimonianza dell’ambiguità borghese, tesa fra obiet­
tivi « positivi » e la spietata autoesplorazione della pro­
pria mercificazione oggettiva. Nessuna « salvezza » è più
rinvenibile al suo interno: né aggirandosi, inquieti, in
labirinti di immagini talmente polivalenti da risultare
mute, né chiudendosi nello scontroso silenzio di geo­
metrie paghe della propria perfezione.
È per questo che non è dato proporre « controspazi »
architettonici: la ricerca di un’alternativa, tutta all’interno
delle strutture che condizionano il carattere stesso
della progettazione, è una palese contraddizione in
termini.
La riflessione sull’architettura, in quanto critica della
ideologia concreta, « realizzata » dall’architettura stessa,
non può che andare oltre, e raggiungere una dimensione
specificamente politica.
È solo a questo punto — dopo, cioè, aver fatto ragione
di ogni ideologia disciplinare — che è lecito riproporre
il tema dei ruoli nuovi del tecnico, dell’organizzatore
dell’edilizia, del planner, nell’ambito delle nuove forme
dello sviluppo capitalistico. E, quindi, delle tangenze
possibili o delle inevitabili contraddittorietà fra tale tipo
di lavoro tecnico-intellettuale e le condizioni materiali
della lotta di classe.
In tal senso, la critica sistematica delle ideologie che
accompagnano le vicende dello sviluppo capitalistico non
è che un capitolo di tale azione politica. Ben sapendo, che
la critica dell’ideologia ha oggi un compito tutto rivolto a
far ragione di miti impotenti e ineffettuali, cui ci si
rivolge, per lo più, come a miraggi, che permettano la
sopravvivenza di anacronistiche « speranze progettuali ».
Indici
Indice delle illustrazioni

1. John Gwynn, tavola dal volume London and West-


minster Improved, 1766 12
2. Giovanni Battista Piranesi, tavola dal Campo Mar­
zio dell’antica Roma (1761-62), veduta prospettica
della zona del Mausoleo di Adriano e del « Bustum
Hadriani » 19
3. Veduta della città di Washington dalla sponda me­
ridionale dell’Anacostia River, 1834.
Veduta prospettica e planimetria del progetto per la
sistemazione del centro di Washington, elaborato
dalla 8enate Park Commission, 1902 32
4. Frederick Law Olmsted, piano del sistema dei par­
chi di Buffalo, in relazione al piano degli sviluppi
urbani, 1876 38
5. Il transetto del Chrystal Palace a Londra (1851), in
un’incisione ottocentesca 44
6. Progetto di case operaie elaborato dalla Corpora­
tion Building di Londra, 1865 46
7. Louis H. Sullivan, progetto teorico di città con
grattacieli a gradoni (da: « The Graphic », 19 di­
cembre 1891, V). Incisione di H. von Hofsten. Il
disegno illustra un articolo di Sullivan sui vantaggi
di una regolamentazione degli edifici alti a desti­
nazione commerciale 46
Downtown con i tre grattacieli residenziali, 1957-
1958 136
23. Carlo Aymonino, sezione dello spaccato centrale di
uno degli edifici del quartiere Gallaratese, a Mi­
lano. I diversi livelli interni, dell’atrio, del corridoio
dei duplex, eco. sono leggibili dall’esterno 143
24. Gruppo ASNOVA (Bulikin, Budo, Prokorova, Tur-
kus, scultore lodko), plastico del progetto elaborato
per il concorso per il palazzo dei Soviet a Mosca
(seconda fase, 1931) 147
25. Louis Kahn, progetto per il Philadelphia College
of Art, Pennsylvania 1966 150
26. Gae Aulenti, casa di un collezionista, Milano, 1970 152
27. Yamasaki e Roth, World Trade Center a New
York; sullo sfondo il campanile settecentesco della
St. Paul’s Chapel 156
28. Intensità delle comunicazioni telefoniche in par­
tenza da Boston e New York (dal Gottmann) 165
81ì
Saggi tascabili Laterza

1. Manfredo Tafuri Progetto e utopia. Architettura


e sviluppo capitalistico
2. Henner Hess Mafia
3. Paul Veyne Come si scrive la storia
4. Jacques Hochmann Psichiatria e comunità
di prossima pubblicazione:

Tullio De Mauro II gioco delle parole


Klaus Dòmer II borghese e il pazzo
Moses I. Finley La democrazia degli antichi e dei
moderni
Lucio Colletti II marxismo fra due vie
Michael Arthur Ledeen II fascismo universale
Indice del volume

Premessa 1

1. Le avventure della ragione: naturalismo e città nel


secolo dei lumi 5
2. La forma come utopiaregressiva 41
3. Ideologia e utopia 49
4. Dialettica dell’avanguardia 73
5. Architettura « radicale » e città 95
6. La crisi dell’utopia: Le Corbusier ad Algeri 115
7. L’architettura e il suo doppio: semiologia e forma­
lismo 139
8. Problemi in forma di conclusione 159

Indice delle illustrazioni 173


GGI TASCABILI LATERZA
__________________________ __________________________________ J

CM
fanfredo Tafuri ripercorre alcune tappe fondamentali
ella storia dell'architettura e dell’urbanistica moderna
er definire realisticamente il ruolo dell'architetto e 8
elFintellettuale in genere oggi. 6
^ali sono i compiti che lo sviluppo capitalistico lin­
one all'architettura e all’urbanistica? Quanto delle
teologie borghesi è oggi attuale nei confronti del-
« universo senza qualità», generato dalle esigenze di
uello stesso sviluppo? Esiste la possibilità di una al-
ornativa in relazione a tali temi?

/Autore è nato a_Roma nel 1935. Collabora alle princi-


ali riviste di architettura italiane e straniere. È titolare
ella cattedra di storia dell’architettura a Venezia dal 1968.
a pubblicato, tra l’altro, Teorie e storia dell’architettura,
973-\ L’architettura dell’umanesimo, 19722, Jacopo San-
wino e l’architettura del ’500 a Venezia, 19722.

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