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Guido Guglielmi

Dialettica del futurismo

in L'udienza del poeta. Saggi su Palazzeschi e il Futurismo, Torino, Einaudi, 1979

La volontà di costruire dei modelli di poesia e di cultura a partire dalla situazione


concreta dell’agire, tali da impegnare integralmente, anche nella dimensione societaria e politica,
è un tratto delle avanguardie novecentesche che si ricollega alla critica della cultura di Nietzsche
e in generale a tutto il pensiero irrazionalistico (non positivistico) dell’Ottocento e del
Novecento. Giacché «la vita non è un argomento», essa non può essere forma, ma incessante
produzione di attività, abrasione di ogni forma, volontarismo e dinamismo. Il futurismo
radicalizza questo movimento di fondo della cultura. Le sue tecniche di rottura portano a una
poesia da recitare in cui il linguaggio è trasformato al limite in materiale sonoro e gli
accorgimenti visivo-tipografici sono indicazioni per un esecutore davanti a un pubblico che ora
non contempla, ascolta, fruisce, ma fornisce gli attori-spettatori al pezzo da recitare. Il testo è
nulla, l’esecuzione tutto: la poesia-azione è intesa a provocare fratture violente tra il pubblico e a
sostanziarsi di esse. Si sa che la critica della cultura non è per se stessa ancora critica della realtà,
critica trasformativa; il futurismo, nel suo aspetto più chiassoso e attivistico, vuole essere
immediatamente, cioè estetica-mente, tale critica trasformativa. L’importante è per esso
trasformare la letteratura nella flagranza o realtà di un comportamento, sottrarla alla
contemplazione, alla riposata fruizione, non importa quale tale comportamento sia, ma poiché
la realtà è concepita in termini estetici o di pura sensibilità, nessuna critica reale può aver luogo:
la poesia riceve il suo contenuto dal di fuori, si riempie di contenuti empirici esterni. All'interno
della acrisia del fare, la critica della contemplazione e la distruzione delle forme letterarie
producono ancora una volta un diverso tipo di sublime letterario. Il futurismo rivendica il
principio di una poesia in azione, ma privilegiando la sensibilità e l’estetica, nel momento stesso
in cui respinge l’ipostasi della poesia, la conserva rovesciandola meccanicamente nella praxis.
Progettando una politica esso ci dà un attivismo letterario; la sua concezione attivistica della
letteratura trapassa subito in una concezione letterario-estetica dell’azione.
Gli anni erano quelli in cui si andava sviluppando in Italia la grande industria ed in cui si
veniva ponendo sulla «Voce» prezzoliniana, con un’evidente sensibilità alle nuove esigenze, il
problema di una cultura razionale, aderente alle cose, concreta. Non c’è dubbio però che il
«terrorismo» futurista seppe dare meglio conto della portata delle trasformazioni in atto, e che
come risposta esso appare oggi più significativo. I futuristi stessi del resto ne stabilirono una
correlazione con lo sviluppo del capitalismo, la sua esigenza di una produzione illimitata, e i
mutamenti che esso opera nella società attraverso la fabbricazione di nuovi modelli, la
persuasione massiccia sul pubblico, la provocazione a nuovi comportamenti davanti agli oggetti.
In questo caso le esigenze della produttività passerebbero pari pari nell’ideologia futurista
interiorizzandosi, il gioco della distruzione si volgerebbe agli oggetti del passato da abbandonare
affettivamente e si risolverebbe nell’accoglimento – orgiastico-dionisiaco – del nuovo. Più tardi
il loro si alla guerra non avrebbe avuto altro senso. La simultaneità, gli istanti irrelati, le azioni
prive di determinazioni temporali (il verbo all’infinito) sono altrettanti strumenti per mimare
l’esperienza quale è modificata dall’industria nel senso di un crescente ampliamento della
quantità e dell’esteriorità con correlativa e crescente incapacità di dominarla che è poi, nella
formulazione di Benjamin, quella condizione o choc della modernità che informa già più di un
secolo della letteratura occidentale. I futuristi però non si mettono, per così dire, dalla parte
dell’esperienza bensì da quella della volontà estrinsecata, dell’«ossessione lirica della materia»,
sicché il loro linguaggio (asintattismo, onomatopea, effetti di somma, accensioni
impressionistiche), invece che prendere distanze dal reale, resta legato alla «sostanza»
dell’espressione e del contenuto, in modo da riprodurre la materialità delle sensazioni1. E si
pensi all’uso della tecnica della simultaneità in Joyce – che pure ebbe a riconoscere una parte di
debito anche a Marinetti – per il quale la parola dello stream of consciousness è una parola senza
destinazione che indica per il lettore che la riceve uno stato di perfetto isolamento nella società:
Marinetti ha invece la mira a un trasporto di emozioni, a effetti pesantemente comunicativi.
Non è perciò l’inganno delle interpretazioni ideologiche o della falsa coscienza che si vogliono
eliminare.
Estetizzare la politica significò per i futuristi assegnarle valori immaginari, fornire
sostituti analogici alle situazioni storiche – invertendo nel gioco delle identificazioni il
procedimento vecchio di dare alle cose modi di essere umani e attribuendo invece agli uomini la
durezza della materia.2 Il loro sì al massacro fu l’illusione di non subirlo dicendo di si, di poter
volere e fare oggetto della propria scelta ciò che giunge non voluto. Secondo un’esplicita

1 G.Debenedetti (in Saggi critici, serie seconda, Milano 1971, pp._225-233), a proposito del Poema
africano della Divisione «28 ottobre», discorre dell’impressionismo e dell’oratorietà di Marinetti, mostrando con
grande chiarezza che il fascio delle analogie marinettiane ha bisogno di svolgersi e rafforzarsi nella
declamazione, restando al di qua di un rinnovamento non puramente tecnico del linguaggio: la frase banale
impone la sua misura alle parole in libertà.
2 In F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano 1968, da cui sono tratte le citazioni che seguono,
il curatore De Maria identifica bene i due momenti, «misologico» e «polemologia)» di Marinetti, ma
preoccupato di sottolineare le analogie indubbie del futurismo con le avanguardie europee, non si sofferma
sul rapporto futurismo-massificazione che pure coglie con precisione e che avrebbe potuto portarlo a una
definizione di Marinetti non tanto come iniziatore dell’avanguardia quanto come iniziatore della « tradizione
del nuovo ».
enunciazione di Marinetti:

Ogni cervello deve avere una sua tavolozza e un suo strumento musicale per colorare e accompagnare
liricamente ogni più piccolo atto della vita, anche umilissimo.
La vita comune è troppo pesante, austera, monotona, materialista, male aerata, e se non strangolata
almeno inceppata... noi proponiamo un vasto progetto di concerti quotidiani e gratuiti in ogni quartiere
della città, teatri cinematografi sale di lettura libri e giornali assolutamente gratuiti. Svilupperemo la vita
spirituale del popolo e ne centuplicheremo la facoltà sognatrice (p. 424).

Il compito della poesia – che non a caso è per tutti, seppure in un senso opposto
rispetto a Lautréamont – diventa quello di agire come artificio eccitatorio, come tavola di
intensità incrementante la vitalità dell’uomo, nella prospettiva di un pubblico-massa in cui si
intende far saltare la cerniera delle classi, tant’è vero che nel suo eclettismo ideologico il
futurismo attinge da tutti i luoghi più comuni e più diffusi del tempo liberandoli dalle strutture
logiche e sintattiche per fame conflagrare gli aspetti sensibili e intuitivi o scegliendo l’efficacia
contro la logica: per cui, mentre aveva ragione di disfarsi di quello che oramai era solamente un
impaccio sintattico, con la sua violenza espressiva finiva per proporre una menzogna allo stato
puro. La menzogna dell’argomentazione si nasconde nel discorso, l’altra menzogna si impone
nel sensazionale attraverso uno scambio magico linguaggio-realtà in cui non resta più nulla della
funzione simbolica della parola. L’argomentazione dà l’aspetto della verità a ciò che ne è privo;
la sua eliminazione isola l’irrazionale estrapolandolo come vitale: con la conseguenza che la
rottura sintattica non soltanto non è rottura semantica, ma si compone addirittura con l’ovvietà
semantica. E si rilegga un enunciato programmatico di Marinetti:

Scartando ora tutte le stupide definizioni e tutti i confusi verbalismi dei professori, io vi dichiaro che il
lirismo è la facoltà rarissima di inebbriarsi della vita e di inebbriarla di noi stessi. La facoltà di cambiare in vino
l’acqua torbida della vita... Ora supponete che un amico vostro dotato di questa facoltà lirica si trovi in
una zona di vita intensa (rivoluzione, guerra, naufragio, terremoto ecc...) e venga, immediatamente dopo,
a narrarvi le impressioni avute... L’irruenza del vapore emozione farà saltare il tubo del periodo, le
valvole della punteggiatura e i bulloni regolari dell’aggettivazione. Manate di parole essenziali senza alcun
ordine convenzionale. Unica preoccupazione del narratore rendere tutte le vibrazioni del suo io (p. 61)

dove oltretutto viene ancora fuori, con precisa evidenza, il carattere dell’arte come riproduttrice
di situazioni limite, e riparatrice dei guasti operati nell’esperienza.
Il solco segnato dal futurismo resta tuttavia profondo. Tutto un corso della civiltà
borghese ha teso a una concezione dell’arte come nobiltà e idealità, separazione di quello che è
per eccellenza umano dalla vita reale, costruzione di modelli aristocratici di libertà, e da Schiller
a Nietzsche si è teorizzato di una specie di privilegio sociale degli artisti, di ima classe posta in
grado di realizzare il libero gioco delle facoltà. La storia di questo progetto è la storia di imo
scacco. Il fondamento di classe, come limite oggettivo e non esplicitato, impedì ad esso di
diventare una potenza critica e rivoluzionaria della realtà. Nel caso di Nietzsche la libertà di
volere la propria necessità aveva condotto a un’esperienza vertiginosa e tragica. L’al di là del
bene e del male non poteva fare a meno del bene e del male su cui si esercitava la critica o
dell’uomo che si trattava di superare, il superatore dell’uomo essendo fatto della stessa stoffa di
colui che è superato, tanto da dover infine sperimentare la propria perdita. La svolta del
futurismo sta in una diversa iniziativa nei confronti del pubblico, nell’aver fissato le linee di
un’egemonia sul pubblico che per ora passano magari anche attraverso manifestazioni esterne
come «il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo, il pugno». C’era già stato, nell’area delimitata
da D’Annunzio e Wilde, il progetto di trasfigurare estetisticamente la vita, una sorta di
bovarismo programmato, ma l’arte restava sempre un’avventura rara, squisita, individuale.
D’Annunzio in particolare aveva un’idea chiara della letteratura nell’età dell’industria
capitalistica, come risulta direttamente dall’intervista a Ojetti richiamata da Raimondi3,

Tutte le varietà e tutti i miscugli sono offerti al gusto dei compratori in questa gran fiera di ideali a buon
mercato... tra il romanzo sottile appassionato e perverso, che la dama assapora con lentezza voluttuosa
nella malinconia del suo salotto aspettando, e il romanzo di avventure sanguinarie, che la plebea divora
seduta al banco della sua bottega, c’è soltanto una differenza di valore... Ambedue in diverso modo
ingannano un’inquieta aspirazione ad escir fuori dalla realtà mediocre, un desiderio vago di trascender
l’angustia della vita comune, una smania quasi incosciente di vivere una vita più fervida e più complessa.

Egli pensa tuttavia a diversi gradi di valore, a pubblici diversi di cui diversamente
soddisfare il desiderio di sogno; Marinetti invece ha intuito le virtualità dell’industria e la
possibile costituzione di un pubblico indifferenziato di massa, un pubblico culturalmente
unificato a base piccolo borghese, desacralizzando l’arte e creando un sublime d’en bas: laddove
l’uno ha bisogno di modelli di bellezza raffinati, decorativi, pseudoumanistici; l’altro ha bisogno
di tecniche nuove, sostanzialmente pubblicitarie, sensazionali e «telegrafiche». Nel mentre fa
cadere il momento contemplativo-aristocratico della letteratura, il futurismo ne mantiene il
carattere di privilegio, giacché essa continua sempre a esprimere un punto di vista delle classi
dominanti, ma ne fa un’utilità sociale. Fino a un certo punto essa era sempre stata tale, cioè
produttrice di ideologie, ma ora l’ideologia dominante grazie all’industria ha la forza di
combattere le ideologie di opposizione nel tentativo di coprire tutto lo spazio sociale,
sublimando il piccolo borghese. La cultura vuol diventare un servizio pubblico di cui le rubriche

3 Cfr. Storia della letteratura italiana, Milano 1969, IX, pp. 46-47.
dei quotidiani sono lo strumento. L’importanza storica dei futuristi sta nell’aver, non
prefigurato, ma presentito, e perciò capito, la violenza, il carattere polemologia) del capitalismo,
e di avere elaborato tecniche per assimilarla trasformando la violenza impersonale da essi
assunta metafisicamente nell’illusione di una scelta personale: ciò che essi hanno davvero
prefigurato è la parola carismatica che appartiene in proprio al sistema di comunicazione di
massa. La mistificazione interviene come risposta a una situazione storica di cui si ha però una
sicura intelligenza. La stessa convergenza tra futurismo e fascismo sta, più che nel gioco delle
collusioni e dei malintesi, nel loro consentire al sistema capitalistico, ma non si dovrebbe avere
difficoltà a riconoscere le divergenze, anche se il primo fascismo trovò conveniente travestirsi
secondo gli slogan futuristici: più tardi infatti la «leggerezza» estetica dei futuristi, il loro
sconfinare nella politica, i possibili mutamenti di fronte tipici di movimenti a matrice irrazionale,
divennero sospetti al fascismo che sostituì lo stato liberale appunto perché non poteva tollerare
l’illusione della libertà, né poteva rinunciare, sul piano politico, a imporsi con ben altri strumenti
che non fossero le mediazioni ideologiche.
Rispetto alla grandiosità meccanica di Marinetti che privo di strumenti di giudizio
storico-politico, accoglieva i fatti dall’esterno valutandoli alla stregua della loro forza esplosiva,
di un filtro sensibilistico, si veda del resto come apparissero assai più reazionari politicamente e
arretrati i Principi di una estetica futurista apparsi sulla «Voce» del 1916 ad opera di Soffici, dove,
accanto a enunciati esteriormente più avanzati come quelli sull’inutilità dell’arte che
sembrerebbero vicini a Dada e dunque al tentativo di sconsacrazione che appunto fu di Dada,
compaiono dichiarazioni in cui si usa uno schema crociano, ma assunto sommariamente solo
per la sua capacità semplificatoria, come quello della distinzione dell’arte dall’etica e dalla verità,
e si polemizza con Marinetti circa «certe opere modernissime... [che] riposano esclusivamente su
presupposti teorici e cerebrali, senza nessuna relazione con la realtà apparente...»4. Il principio
dell’arte come cosa perfettamente inutile («È venuto il tempo di considerarla come un esercizio
strettamente personale; come una bagattella perfettamente inutile, e che può essere o non
essere, senza che la società se ne trovi meno bene e neanche se ne accorga... è necessario che
l’artista stesso impari a ritenere la propria funzione come infruttuosa in ordine al benessere
umano; priva di qualsiasi dignità... »), lungi dal rimettere in gioco tutta la fenomenologia dei
valori – etici, estetici e di verità – nessuno dei quali venga lasciato fermo e in se stesso
giustificato, dà ragione sia all’utilitarismo che all’attività inutile. Una volta posta la separazione, si
mantiene statica la nozione di realtà: l’inutile s’inscrive nell’utile; l’esercizio dell’inutile non critica
l’utile, ma si compone con esso. Il passo indietro è veramente grande, anche se il montaggio di
tessere colorate di Soffici aveva una qualità verbale che mancava a Marinetti intenzionato a

4 Cfr. «Lacerba» «La Voce» (1914-1916), a cura di G. Scalia, Torino 1961, pp. 586 e 593-94.
sconfinare oltre il linguaggio nell’immediatezza della praxis.
Se Marinetti scopre l’utilità sociale dello spettacolo e tecniche di massa (anche
intravedendo la possibilità di un nichilismo teatrale e di un linguaggio non affermativo), e se la
distruttività linguistica di Soffici mutuata dalle avanguardie francesi (da Max Jacob a Apollinaire)
toglie se stessa, facendosi degustare sensuosamente o puntando su un effetto realistico-
sensazionale; è Palazzeschi che realizza la verità dell’avanguardia. È comune l’acuta intuizione
che «i tempi sono cambiati», che è iniziata una nuova temporalità della letteratura: ma Marinetti
cerca un potenziamento del «lirismo» attraverso la parola pragmatica e reclamistica, segmenta il
linguaggio per enuclearne il potente potere di suggestione che non ammette l’impaccio della
sintassi e il suo effetto ritardante; Palazzeschi prende la strada del gioco apparentemente senza
conseguenze, di fatto rivelando una intenzione non esterna – non al servizio della realtà
positivamente intesa-di eversione, tanto che si può dire che le parole con le quali egli saluta su
«Lacerba» l’entrata in guerra dell’Italia («Evviva questa guerra!») non appartengono al suo
linguaggio. Dove Marinetti dice: eroismo, velocità, ecc..., Palazzeschi dice argutamente in una delle
sue «Spazzature» paura5: «Io conosco parecchi uomini che m’ànno dichiarato sinceramente di
essere dei vigliacchi. Di soffrire di quella ignota malattia che si chiama paura. Non sarebbe
questa per caso la forma dell’eroismo moderno?» Sostituire la paura alla velocità significa qui
sostituire all’identificazione con l’oggetto, all’attività estraniata, un comportamento d’angoscia
davanti a ciò di cui si prende atto. Da una parte Palazzeschi respinge le sovrastrutture
sentimentali ed estetiche che concrescono su qualunque realtà trasfigurandola, rompe dunque
con le abitudini affettive che riparano dagli urti, dall’altra parte si espone al flusso dell’esperienza
e della realtà senza cadere in sua balia o senza sposarne l’affermazione, bensì portando la realtà
allo spettacolo o anticipando nello spettacolo l’esperienza per tenerla a freno, e, in luogo di farla
propria, resisterle: il che si legge nelle conclusioni del Controdolore: «Crearsi fin da giovani il
desiderio della vecchiaia, per non essere prima turbati dal fantasma di essa, poi da quello di una
giovinezza che non potemmo godere»6.

Un principio di «buffoneria» sembra dunque giocare in Palazzeschi che sa distinguere tra


vero e falso incendiario e perciò dare verità anche al falso incendiario, cioè al poeta, nella misura
in cui il gioco non è inteso a un accrescimento di vitalità estraniata, ma prende le parti
dell’esperienza ponendosi in un rapporto di negatività con la realtà. Diversamente inoltre dalla
poesia crepuscolare che ha ancora una base psicologica e impressionistica, la poesia di
Palazzeschi ha tendenzialmente anche ai suoi inizi un aspetto metafisico-nichilistico, cioè dietro
i temi della estenuazione, dell’invecchiamento, della morbosità, fa apparire una diversa
componente più propriamente allucinatoria e un gusto delle situazioni assurde o di pura

5 «Lacerba» «La Voce», cit., p. 334.


6 «Lacerba» «La Voce» cit., p. 250.
invenzione. Ara Mara Amara (ma considerazioni analoghe si possono fare per Oro Doro Odoro
Dodoro o per A palazzo Rari Or e A palazzo Oro Ror) sono tre vecchie emblematiche che giocano a
dadi – una parodia probabilmente delle Parche – i cui nomi sono ricavati da una combinatoria
fonica che rivela il travestimento ludico. Nel Passo delle Nazarene, le suore – non molto diverse da
quelle altre della Regola del sole che vestite di rosso adorano il sole e si spostano nelle ore del
giorno dalla sua parte piangendo le cattive giornate – sono i fantocci del poeta burattinaio. La
gioia vitale che si è voluta attribuire a Palazzeschi è la crudeltà con cui riduce a «spazzatura» le
immagini liberty e crepuscolari: una distruttività ambigua di cui può essere simbolo Palazzo
Mirena in cui esse finalmente bruciano o Villa Celeste in cui la conflagrazione è più esplicita.
Anche gli aspetti quotidiani e familiari vengono manipolati per estrarne allegria. C’è un sadismo
sottile che sveste ogni cosa, come sono svestite le beghine, e rende ridicole le infermità o mette
a nudo le degradazioni: mentre il sadismo è in questo scortecciare le cose e gli oggetti, il
grottesco si attua nel decontestualizzarle. Cosi, nella Fiera dei morti, le parole che si leggono sui
«loggioni» dei morti sono l’espressione – secondo una delle più dense arguzie di Palazzeschi –
«delle loro fattezze», la rappresentazione della loro «marmifica» insensatezza. La «danza» del
linguaggio palazzeschiano si esercita a falsificare (verificare come falsi) i fenomeni secondo il
procedimento di trasformare il parlato legandolo in un ritmo discontinuo e sottomettendolo al
gioco delle assonanze, rime, antitesi, parallelismi tematici; o quello dello sconfinamento ludico
nella favola e nel mito, secondo un modo di wit, come in Carovane («Oggi | io mi vedo davanti |
una lunghissima interminabile via | zeppa di carovane. | Lunghissima via polverosa | che si
estende all’infinito | proprio davanti a casa mia»); o ancora quello di inscrivere sul vuoto
ottenuto per riduzione certi arabeschi colorati, infinitamente liberi e lieti di cui l’esempio più
celebre è forse Sole. Mentre Gozzano introduceva una componente realistica dentro una
struttura pascoliano-dannunziana e poneva in crisi la poesia fin de siècle realizzando «lo stile di
uno scolare | corretto un po’ da una serva», qui la letterarietà si applica inversamente anche al
realistico, lo stile distrugge la prosa e il parlato. Nella misura in cui il paradosso è strappo logico
– e s’intende la logica del verosimile – il passaggio di Palazzeschi dal crepuscolarismo al
futurismo è conversione dalla parodia al paradosso. L’ironia esercitata da un punto di vista
negativo, il rifiuto pregiudiziale di assumere gli atteggiamenti e il linguaggio dell’immediatezza,
può farsi allora conseguentemente invenzione favolosa nel Codice di Perelà, che è rottura delle
categorie realistiche e produzione di un’antinatura che non si illude affatto di aver liquidato la
realtà. È la pesantezza infatti che dà senso alla «leggerezza» secondo un tipico rovesciamento di
Palazzeschi che mette una maschera ilare alle cose «gravi», trattandole con tanta delicatezza
quanto meno se ne vuole essere investiti e conquistandosi uno spazio di verità. Lo spirito della
leggerezza viene sottratto e contrapposto allo spirito di serietà: se quest’ultimo fa il gioco della
realtà e dei suoi prolungamenti ideologici, la «leggerezza» è emancipazione, invenzione di un
linguaggio mitopoietico, affermazione di felicità e verità che sorge su una negazione preventiva
dell’io psicologico e sociologico. L’indifferenza dell’uomo di fumo davanti alla morte di Alloro
dimostra appunto la sua irriducibilità rispetto a figure definite – non illimitate – che comunque
vogliono fare di quel niente che lo costituisce un principio di imitazione, qualcosa che «è»
positivamente invece che un principio puramente virtuale. La nullità della poesia è la nullità del
possibile davanti al reale, ma il reale può a sua volta essere nullo giacché niente lo fonda
metafisicamente: le «piccole corbellerie» del clown – di cui Perelà è una variante – infastidiscono
infatti i dignitari di corte perché tolgono loro la garanzia di cui hanno bisogno, tanto che
inutilmente lo imprigionano. Palazzeschi, quindi, invece di fare il gioco della realtà l’avvolge di
irrealtà e irriverenza, taglia corto con ogni complicità con essa, si dispone a una dimensione
diversa, favolosa e paradossale, ingovernabile e incomponibile: la sua felicità è una felicità del
linguaggio, alleggerito di contenuti, che tra realtà e possibilità ha optato per quest’ultima. Nei
termini di Tzara, tra poésie moyen d’expression e poésie activité de l’esprit, è la seconda che prevale.
Marinetti e Soffici intendono fare la stessa cosa, ma soggiacciono al pragmatico o
all’impressionistico, in una specie di mimesi del fenomenico, restando alla mercè della semantica
dei luoghi comuni del tempo che sanno soltanto assecondare; lo scarto dialettico del linguaggio
palazzeschiano si attua con una dissoluzione dell’impressionismo, quasi svestendo i significati,
sicché la critica non restaura il criticato ed evita di ricomprenderlo e conservarlo attraverso la
fisicità della sensazione e dell’impressione.

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