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1 G.Debenedetti (in Saggi critici, serie seconda, Milano 1971, pp._225-233), a proposito del Poema
africano della Divisione «28 ottobre», discorre dell’impressionismo e dell’oratorietà di Marinetti, mostrando con
grande chiarezza che il fascio delle analogie marinettiane ha bisogno di svolgersi e rafforzarsi nella
declamazione, restando al di qua di un rinnovamento non puramente tecnico del linguaggio: la frase banale
impone la sua misura alle parole in libertà.
2 In F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano 1968, da cui sono tratte le citazioni che seguono,
il curatore De Maria identifica bene i due momenti, «misologico» e «polemologia)» di Marinetti, ma
preoccupato di sottolineare le analogie indubbie del futurismo con le avanguardie europee, non si sofferma
sul rapporto futurismo-massificazione che pure coglie con precisione e che avrebbe potuto portarlo a una
definizione di Marinetti non tanto come iniziatore dell’avanguardia quanto come iniziatore della « tradizione
del nuovo ».
enunciazione di Marinetti:
Ogni cervello deve avere una sua tavolozza e un suo strumento musicale per colorare e accompagnare
liricamente ogni più piccolo atto della vita, anche umilissimo.
La vita comune è troppo pesante, austera, monotona, materialista, male aerata, e se non strangolata
almeno inceppata... noi proponiamo un vasto progetto di concerti quotidiani e gratuiti in ogni quartiere
della città, teatri cinematografi sale di lettura libri e giornali assolutamente gratuiti. Svilupperemo la vita
spirituale del popolo e ne centuplicheremo la facoltà sognatrice (p. 424).
Il compito della poesia – che non a caso è per tutti, seppure in un senso opposto
rispetto a Lautréamont – diventa quello di agire come artificio eccitatorio, come tavola di
intensità incrementante la vitalità dell’uomo, nella prospettiva di un pubblico-massa in cui si
intende far saltare la cerniera delle classi, tant’è vero che nel suo eclettismo ideologico il
futurismo attinge da tutti i luoghi più comuni e più diffusi del tempo liberandoli dalle strutture
logiche e sintattiche per fame conflagrare gli aspetti sensibili e intuitivi o scegliendo l’efficacia
contro la logica: per cui, mentre aveva ragione di disfarsi di quello che oramai era solamente un
impaccio sintattico, con la sua violenza espressiva finiva per proporre una menzogna allo stato
puro. La menzogna dell’argomentazione si nasconde nel discorso, l’altra menzogna si impone
nel sensazionale attraverso uno scambio magico linguaggio-realtà in cui non resta più nulla della
funzione simbolica della parola. L’argomentazione dà l’aspetto della verità a ciò che ne è privo;
la sua eliminazione isola l’irrazionale estrapolandolo come vitale: con la conseguenza che la
rottura sintattica non soltanto non è rottura semantica, ma si compone addirittura con l’ovvietà
semantica. E si rilegga un enunciato programmatico di Marinetti:
Scartando ora tutte le stupide definizioni e tutti i confusi verbalismi dei professori, io vi dichiaro che il
lirismo è la facoltà rarissima di inebbriarsi della vita e di inebbriarla di noi stessi. La facoltà di cambiare in vino
l’acqua torbida della vita... Ora supponete che un amico vostro dotato di questa facoltà lirica si trovi in
una zona di vita intensa (rivoluzione, guerra, naufragio, terremoto ecc...) e venga, immediatamente dopo,
a narrarvi le impressioni avute... L’irruenza del vapore emozione farà saltare il tubo del periodo, le
valvole della punteggiatura e i bulloni regolari dell’aggettivazione. Manate di parole essenziali senza alcun
ordine convenzionale. Unica preoccupazione del narratore rendere tutte le vibrazioni del suo io (p. 61)
dove oltretutto viene ancora fuori, con precisa evidenza, il carattere dell’arte come riproduttrice
di situazioni limite, e riparatrice dei guasti operati nell’esperienza.
Il solco segnato dal futurismo resta tuttavia profondo. Tutto un corso della civiltà
borghese ha teso a una concezione dell’arte come nobiltà e idealità, separazione di quello che è
per eccellenza umano dalla vita reale, costruzione di modelli aristocratici di libertà, e da Schiller
a Nietzsche si è teorizzato di una specie di privilegio sociale degli artisti, di ima classe posta in
grado di realizzare il libero gioco delle facoltà. La storia di questo progetto è la storia di imo
scacco. Il fondamento di classe, come limite oggettivo e non esplicitato, impedì ad esso di
diventare una potenza critica e rivoluzionaria della realtà. Nel caso di Nietzsche la libertà di
volere la propria necessità aveva condotto a un’esperienza vertiginosa e tragica. L’al di là del
bene e del male non poteva fare a meno del bene e del male su cui si esercitava la critica o
dell’uomo che si trattava di superare, il superatore dell’uomo essendo fatto della stessa stoffa di
colui che è superato, tanto da dover infine sperimentare la propria perdita. La svolta del
futurismo sta in una diversa iniziativa nei confronti del pubblico, nell’aver fissato le linee di
un’egemonia sul pubblico che per ora passano magari anche attraverso manifestazioni esterne
come «il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo, il pugno». C’era già stato, nell’area delimitata
da D’Annunzio e Wilde, il progetto di trasfigurare estetisticamente la vita, una sorta di
bovarismo programmato, ma l’arte restava sempre un’avventura rara, squisita, individuale.
D’Annunzio in particolare aveva un’idea chiara della letteratura nell’età dell’industria
capitalistica, come risulta direttamente dall’intervista a Ojetti richiamata da Raimondi3,
Tutte le varietà e tutti i miscugli sono offerti al gusto dei compratori in questa gran fiera di ideali a buon
mercato... tra il romanzo sottile appassionato e perverso, che la dama assapora con lentezza voluttuosa
nella malinconia del suo salotto aspettando, e il romanzo di avventure sanguinarie, che la plebea divora
seduta al banco della sua bottega, c’è soltanto una differenza di valore... Ambedue in diverso modo
ingannano un’inquieta aspirazione ad escir fuori dalla realtà mediocre, un desiderio vago di trascender
l’angustia della vita comune, una smania quasi incosciente di vivere una vita più fervida e più complessa.
Egli pensa tuttavia a diversi gradi di valore, a pubblici diversi di cui diversamente
soddisfare il desiderio di sogno; Marinetti invece ha intuito le virtualità dell’industria e la
possibile costituzione di un pubblico indifferenziato di massa, un pubblico culturalmente
unificato a base piccolo borghese, desacralizzando l’arte e creando un sublime d’en bas: laddove
l’uno ha bisogno di modelli di bellezza raffinati, decorativi, pseudoumanistici; l’altro ha bisogno
di tecniche nuove, sostanzialmente pubblicitarie, sensazionali e «telegrafiche». Nel mentre fa
cadere il momento contemplativo-aristocratico della letteratura, il futurismo ne mantiene il
carattere di privilegio, giacché essa continua sempre a esprimere un punto di vista delle classi
dominanti, ma ne fa un’utilità sociale. Fino a un certo punto essa era sempre stata tale, cioè
produttrice di ideologie, ma ora l’ideologia dominante grazie all’industria ha la forza di
combattere le ideologie di opposizione nel tentativo di coprire tutto lo spazio sociale,
sublimando il piccolo borghese. La cultura vuol diventare un servizio pubblico di cui le rubriche
3 Cfr. Storia della letteratura italiana, Milano 1969, IX, pp. 46-47.
dei quotidiani sono lo strumento. L’importanza storica dei futuristi sta nell’aver, non
prefigurato, ma presentito, e perciò capito, la violenza, il carattere polemologia) del capitalismo,
e di avere elaborato tecniche per assimilarla trasformando la violenza impersonale da essi
assunta metafisicamente nell’illusione di una scelta personale: ciò che essi hanno davvero
prefigurato è la parola carismatica che appartiene in proprio al sistema di comunicazione di
massa. La mistificazione interviene come risposta a una situazione storica di cui si ha però una
sicura intelligenza. La stessa convergenza tra futurismo e fascismo sta, più che nel gioco delle
collusioni e dei malintesi, nel loro consentire al sistema capitalistico, ma non si dovrebbe avere
difficoltà a riconoscere le divergenze, anche se il primo fascismo trovò conveniente travestirsi
secondo gli slogan futuristici: più tardi infatti la «leggerezza» estetica dei futuristi, il loro
sconfinare nella politica, i possibili mutamenti di fronte tipici di movimenti a matrice irrazionale,
divennero sospetti al fascismo che sostituì lo stato liberale appunto perché non poteva tollerare
l’illusione della libertà, né poteva rinunciare, sul piano politico, a imporsi con ben altri strumenti
che non fossero le mediazioni ideologiche.
Rispetto alla grandiosità meccanica di Marinetti che privo di strumenti di giudizio
storico-politico, accoglieva i fatti dall’esterno valutandoli alla stregua della loro forza esplosiva,
di un filtro sensibilistico, si veda del resto come apparissero assai più reazionari politicamente e
arretrati i Principi di una estetica futurista apparsi sulla «Voce» del 1916 ad opera di Soffici, dove,
accanto a enunciati esteriormente più avanzati come quelli sull’inutilità dell’arte che
sembrerebbero vicini a Dada e dunque al tentativo di sconsacrazione che appunto fu di Dada,
compaiono dichiarazioni in cui si usa uno schema crociano, ma assunto sommariamente solo
per la sua capacità semplificatoria, come quello della distinzione dell’arte dall’etica e dalla verità,
e si polemizza con Marinetti circa «certe opere modernissime... [che] riposano esclusivamente su
presupposti teorici e cerebrali, senza nessuna relazione con la realtà apparente...»4. Il principio
dell’arte come cosa perfettamente inutile («È venuto il tempo di considerarla come un esercizio
strettamente personale; come una bagattella perfettamente inutile, e che può essere o non
essere, senza che la società se ne trovi meno bene e neanche se ne accorga... è necessario che
l’artista stesso impari a ritenere la propria funzione come infruttuosa in ordine al benessere
umano; priva di qualsiasi dignità... »), lungi dal rimettere in gioco tutta la fenomenologia dei
valori – etici, estetici e di verità – nessuno dei quali venga lasciato fermo e in se stesso
giustificato, dà ragione sia all’utilitarismo che all’attività inutile. Una volta posta la separazione, si
mantiene statica la nozione di realtà: l’inutile s’inscrive nell’utile; l’esercizio dell’inutile non critica
l’utile, ma si compone con esso. Il passo indietro è veramente grande, anche se il montaggio di
tessere colorate di Soffici aveva una qualità verbale che mancava a Marinetti intenzionato a
4 Cfr. «Lacerba» «La Voce» (1914-1916), a cura di G. Scalia, Torino 1961, pp. 586 e 593-94.
sconfinare oltre il linguaggio nell’immediatezza della praxis.
Se Marinetti scopre l’utilità sociale dello spettacolo e tecniche di massa (anche
intravedendo la possibilità di un nichilismo teatrale e di un linguaggio non affermativo), e se la
distruttività linguistica di Soffici mutuata dalle avanguardie francesi (da Max Jacob a Apollinaire)
toglie se stessa, facendosi degustare sensuosamente o puntando su un effetto realistico-
sensazionale; è Palazzeschi che realizza la verità dell’avanguardia. È comune l’acuta intuizione
che «i tempi sono cambiati», che è iniziata una nuova temporalità della letteratura: ma Marinetti
cerca un potenziamento del «lirismo» attraverso la parola pragmatica e reclamistica, segmenta il
linguaggio per enuclearne il potente potere di suggestione che non ammette l’impaccio della
sintassi e il suo effetto ritardante; Palazzeschi prende la strada del gioco apparentemente senza
conseguenze, di fatto rivelando una intenzione non esterna – non al servizio della realtà
positivamente intesa-di eversione, tanto che si può dire che le parole con le quali egli saluta su
«Lacerba» l’entrata in guerra dell’Italia («Evviva questa guerra!») non appartengono al suo
linguaggio. Dove Marinetti dice: eroismo, velocità, ecc..., Palazzeschi dice argutamente in una delle
sue «Spazzature» paura5: «Io conosco parecchi uomini che m’ànno dichiarato sinceramente di
essere dei vigliacchi. Di soffrire di quella ignota malattia che si chiama paura. Non sarebbe
questa per caso la forma dell’eroismo moderno?» Sostituire la paura alla velocità significa qui
sostituire all’identificazione con l’oggetto, all’attività estraniata, un comportamento d’angoscia
davanti a ciò di cui si prende atto. Da una parte Palazzeschi respinge le sovrastrutture
sentimentali ed estetiche che concrescono su qualunque realtà trasfigurandola, rompe dunque
con le abitudini affettive che riparano dagli urti, dall’altra parte si espone al flusso dell’esperienza
e della realtà senza cadere in sua balia o senza sposarne l’affermazione, bensì portando la realtà
allo spettacolo o anticipando nello spettacolo l’esperienza per tenerla a freno, e, in luogo di farla
propria, resisterle: il che si legge nelle conclusioni del Controdolore: «Crearsi fin da giovani il
desiderio della vecchiaia, per non essere prima turbati dal fantasma di essa, poi da quello di una
giovinezza che non potemmo godere»6.