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HOMO SYMBOLICUS
Maria Pia Rosati
Il simbolismo e l’esperienza religiosa sono iscritti, fin dai primordi, nel processo
stesso di ominazione. La ricerca antropologica di Julien Ries ci ha mostrato che
l’esperienza religiosa è presente già nei millenni della preistoria: «Dall’interno delle
vestigia della cultura di cui è stato egli stesso creatore, a Olduvai, più di due milioni di
anni fa, Homo habilis ci fa cenno presentandosi come symbolicus, dotato di sensibilità
estetica, di senso di simmetria e di coscienza della creatività.» E Gilbert Durand ci
conferma che l’attività specifica dell’uomo, la carta d’identità dell’Homo sapiens, è l’attività
simbolica, parte essenziale della creatività della psiche.
La stazione verticale ha avuto un’influenza decisiva sulla psiche dell’uomo che
volgendo lo sguardo all'orizzonte è portato a entrare in relazione con l’ambiente per
scoprirne le caratteristiche, ciò che è per lui è pericoloso e ciò che è salvifico. In tal modo
acquista interiore consapevolezza delle sue potenzialità, immagina un suo ruolo
significativo nell'universo e si percepisce come legame tra cielo e terra. Quando
l’immaginario e la mano si legano in un rapporto simbolico scaturiscono tecniche, idee,
progetti e l’Homo habilis diventa creatore di cultura.
Già nei tempora ignota della preistoria possiamo rinvenire un primo laboratorio
dell’immaginario che custodisce insieme passato presente e futuro, immagini interne ed
esterne, crea relazioni tra esse dando origine a quell’attività simbolica, ricchezza
inalienabile dell’uomo, cosmo vivente aperto ad altri cosmi viventi.
L’Homo erectus (1.600.000 anni fa), capace di produrre il fuoco, sviluppa senso
estetico, capacità simbolica e tensione religiosa, secondo quanto appare dalle vestigia dei
primi rituali. Nelle prime tombe del paleolitico superiore (90.000 anni fa) compaiono
simboli significativi della credenza nella sopravvivenza post-mortem: crani trattati,
modellati o circondati da segni rituali significativi, conchiglie, occhi simbolici per la vita
d’oltretomba, tracce di ocra rossa, simbolo del sangue e della vita nell’aldilà. Simboli
celesti e solari e figure di oranti, con le braccia levate verso il sole sorgente (5.000 - 3000
a.C.) ci mostrano un homo symbolicus-religiosus che epifanizza l’invisibile e fa del corpo e dei
suoi organi simbolo e epifania del mistero della vita nell’aldilà.
Nelle grandi civiltà del Vicino Oriente antico, dove fin dal IX millennio l’uomo
diventa stanziale, l’immagine umana esprime la supremazia divina (una figura femminile
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rappresenta la dea madre creatrice e signora degli animali). La statua del dio, creata
dall’uomo a sua immagine, sottoposta a riti di coronamento, diviene luogo irradiante della
presenza divina. L’Aurea luminosa, splendore del viso e dell’intelligenza, irradia dalle
statue nei templi e nei santuari, in India, in Iran, in Occidente. Un ideogramma, una
stella, precede sempre il nome della divinità a significare che questa è in alto, in cielo, e
che il mondo terrestre è il riflesso del mondo divino celeste. Anche la sovranità regale è
considerata emanazione della divinità grazie alla quale è in grado di diffondere ordine,
benessere e prosperità nel paese.
Ma è nel mondo greco che in maniera esemplare il corpo umano splendente di
giovinezza, bellezza, forza, nobiltà, alta e maestosa statura, diviene simbolo, forma
teofanica, cifra del mistero divino. Gli dei e le dee dell’Olimpo descritti nell’epica, cantati
nella lirica, rappresentati nella statuaria sono espressione irraggiungibile di un
immaginario in cui uomini e dei vivevano in stretta prossimità. L’immaginazione
simbolica crea un ponte tra visibile e invisibile, afferma la parentela di dei e uomini, e si
affaccia al senso del meraviglioso, origine di ogni umana ricerca, e del mistero.
All’indomani delle conquiste di Alessandro la tradizione greca delle statue divine
incontra la modalità rappresentativa delle divinità in Oriente e in Egitto. Gli dei orientali
entrano nel mondo greco e l’arte, la simbolica religiosa, il culto conoscono un nuovo
slancio. Statue, immagini divine, realizzate dai grandi artisti in marmo o in materia dorata,
innalzate in templi di stupefacente solennità architettonica, esprimono l’immagine che
l’uomo ha di se stesso e del divino che lo trascende, e la meraviglia (thauma) per la forza
misteriosa della physis, della vita nascente.
L’imperatore Giuliano, ultimo grande difensore della simbolica delle statue divine,
scrive in una delle sue lettere: «Le statue (agalmata) e in una parola tutti i simboli (symbola)
di questo genere i nostri padri li hanno stabiliti come segni della presenza degli dei e non
perché li prendessimo per dei, ma per farci adorare gli dei attraverso la loro mediazione.
Viviamo in un corpo. Era necessario dunque che anche il culto degli dei passasse
attraverso l’aspetto corporeo. Anche se essi sono incorporei (...) Quando contempliamo
le statue degli dei, guardiamoci dal prenderle soltanto per pietra o legno, ma anche dal
prenderle per gli dei stessi.»
Nel pensiero dell’India, fin dai tempi vedici, miti, simboli e riti esprimono i temi
fondanti della nascita del mondo e del sacrificio. La cosmogonia prende la forma di un
combattimento che terminerà con la vittoria dell’ordine sul disordine, del cosmos sul
caos. L’antichissimo Inno a Purusha (Rigveda X, 90), testo privilegiato dell’ortodossia
brahmanica, dalla stupefacente densità simbolica, ancor oggi recitato ogni mattina
dall’indù di alta casta, ci mostra Purusha, l’Uomo Archetipo, dalle forme immense, che
crea il cosmo attraverso lo smembramento del suo corpo. Egli è ad un tempo sacerdote e
vittima, simbolo e archetipo del sacrificio, fondatore del rituale, fonte dell’energia
creatrice rigeneratrice del cosmos. La partecipazione rituale al sacrificio di Purusha, nel
periodo vedico e brahmanico, fu elemento fondante della struttura simbolica della
gerarchia delle classi sociali indiana e dell’equilibrio sociale: da Purusha sacrificato e
smembrato, derivano le tre classi arie (i sacerdoti, brâhmani, i guerrieri, kshatriya, i
produttori, vaishy) che partecipano al rituale vedico, e i servitori, shudra, con il dovere di
obbedienza.
1 L’Uomo ha mille teste. Ha mille occhi, mille piedi. Copre la terra da parte a parte e la supera
ancora di dieci dita.
2 L’Uomo non è altro che questo universo, ciò che è già accaduto, ciò che deve accadere. È il
signore del dominio immortale e cresce al di là del suo nutrimento.
3 Tale è il suo potere e più vigoroso ancora è l'uomo. Tutti gli esseri sono solo un quarto di
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lui; l’Immortale in cielo le altre tre parti.
4 Con tre quarti [di sé] l'Uomo si è elevato là in alto. La quarta ha ripreso nascita quaggiù. Da
lassù si è espansa in tutti i sensi verso gli esseri che si nutrono e quelli che non si nutrono.
5 Da Purusha è nata l’Energia creatrice. Dall’Energia creatrice è nato l’Uomo. Una volta nato
si è esteso al di là della terra, tanto all’indietro che in avanti.
6 Quando gli dei istituirono il sacrificio, l’Uomo fu la sostanza oblatoria, la primavera servì da
burro rituale, l’estate da legno per l’accensione, l’autunno da offerta.
7 Sulla lettiera sacra hanno asperso l’Uomo, cioè il Sacrificio che è nato alle origini. Poi gli dei
compirono questo sacrificio come i santi e i rishi.
…
12 La sua bocca divenne il Brahmano, il Guerriero fu il prodotto delle sue braccia, le sue cosce
furono l’Artigiano, dai suoi piedi nacque il Servitore.
Fin dai primordi, la volta celeste con la sua luminosità e profondità ha suscitato
nella coscienza dell’uomo un forte sentimento religioso e la luce stessa è divenuta
simbolo di trascendenza e caratteristica della divinità (dall’indoeuropeo deiwo, radice dei =
brillare, emettere luce). L’esperienza della luce, incorporea, rinvia ad altro, è anaforica,
porta alla contemplazione che genera a sua volta luce mentale e sentimento di una più
chiara visione dell’universo. «Dal poema di Parmenide fino al VI e VII libro della
Repubblica di Platone – sottolinea Pierre Somville – il visibile e il suo orizzonte
costituiscono il supporto immediato dell’idea o, meglio, il suo angolo di incidenza.
Partecipando di entrambi i mondi, la luce è come l’estremo tentativo di materializzazione
dell’intelligibile. Il miracolo (thauma) è rappresentato dal fatto che noi possiamo
partecipare dei due aspetti di questa duplice articolazione, segno e senso, iscritta nella
chiarezza doppia ed elementare, percepita dall’occhio e dalla mente.»
Nelle Upanishad dove il rituale vedico diviene supporto simbolico di un
procedimento interiore, la luce è simbolo di conoscenza liberatrice, garanzia di
immortalità, mentre l’oscurità è simbolo di ignoranza e dell’illusione che rende
prigionieri. Alla fine del suo cammino spirituale, l’iniziato perverrà al di là del giorno e
della notte, diverrà egli stesso luce, fonte di ogni visione, e non farà più distinzione tra il
soggetto che vede, l’oggetto della visione e l’atto del vedere, così che dirà: «Io sono colui
che vede tutto e che non ha occhi.»
Similmente Israele vede nel Dio con il quale ha stretto alleanza il creatore di ogni
luce, Colui che guida il suo popolo che camminava nelle tenebre, illumina i suoi occhi e
lo conduce verso la gioia di un giorno luminoso.
Il conflitto tra tenebre e luce costituisce, secondo Gilbert Durand (cf. Le strutture
antropologiche dell’Immaginario), uno degli archetipi fondanti da cui sono scaturiti i grandi
miti che costellano la storia dell’umanità. Tale dinamica archetipica nelle sue dimensioni
cosmiche, antropologiche ed escatologiche è espressa nell’Apocalisse di Giovanni
attraverso metafore spaziali (salire/scendere), temporali (passato/futuro; tempo
fisico/tempo umano) arricchite dal simbolismo dei colori. La mediazione tra questi
opposti si attua nell’Agnello sacrificato, la cui animalità si trasforma nel sacrificio in luce e
sintetizza morte e vita, tenebre e luce e tutti i volti del Dio. Giovanni colloca in un al di là
e in un non-luogo la vittoria della Luce che rappresenta il riassorbimento del conflitto tra
tenebre e luce (Ap 22, 5).
In Grecia il sapiente Eraclito (fr. 67) aveva detto: «Il dio è giorno e notte, inverno e
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estate, guerra e pace, sazietà e fame.»
I mistici di tutte le religioni ritengono che la vera conoscenza sia visionaria (visione
equivale al greco idea). La dottina delle idee di Platone, secondo il quale la Idea-
Immagine-Visione può solo essere ricevuta, giunge così a estreme rigorose conseguenze
antisoggettivistiche. Perché è necessario che l’uomo che voglia entrare in contatto con il
mondo delle Visioni-Immagini-Idee, abbia il coraggio di farsi trasportare, di passare dal
superficiale al nascosto, che sia pronto a porre attenzione, ad ascoltare e a decifrare il
senso profondo di ciò che si svela e rivela, ad aprirsi ad esso e a lasciarsi illuminare. In tal
modo riuscirà a sfogliare il Libro della Rivelazione, di ciò che ci è rivelato, e scorrere in
esso, dis-correre, dia-logare con esso: ogni pagina sfogliata equivale a un gradino del
viaggio nella luce.
È scritto nelle Upanishad, Il grande libro della foresta (Brihadaranyaka, VIII sec a.c.),
1.4.6-10:
«(...) lui stesso è tutti gli dei (...) egli è penetrato nell'universo, fin dentro la punta
delle nostre dita, come il rasoio entra nella sua custodia, come il fuoco avvolge la legna che
arde. Ma egli non è visto (...) perché se fosse visto sarebbe incompleto. Quando respira, il
suo nome è respiro; quando parla, voce; quando vede, occhio; quando ascolta, orecchio;
quando pensa, mente: queste non sono che le definizioni dei suoi atti. Chiunque ne veneri
l’uno o l'altro, non ha la conoscenza; poiché egli è incompleto come l’uno o l'altro.
Ognuno dovrebbe adorarlo pensando che egli è il sé dentro a ogni essere, perché è lì
che nutre tutte le cose che diventano un tutto. Questo sé è l'impronta di quel Tutto, ed è
attraverso il sé che possiamo conoscere il Tutto, allo stesso modo che seguendone le orme
possiamo ritrovare il bestiame che si è perso (...) Ognuno dovrebbe onorare solo il sé come
cosa veramente preziosa. E colui che onora il sé come cosa veramente preziosa, in verità, ciò
che egli avrà come prezioso non perirà mai (...)
Così, chiunque veneri un'altra divinità diversa dal suo sé, pensando: "Egli è uno,
io sono un altro", non ha conoscenza.»
Ritroviamo in Hugo von Hofmannsthal, nella La lettera di Lord Chandos (1902), una
sorprendente analogia di sentimenti e sensazioni:
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commovente che tutte le parole mi sembrano troppo povere per esprimere. Sì, anche alla
determinata rappresentazione di un oggetto assente può largirsi l’incomprensibile elezione di
essere colmata fino all’orlo di quell’onda dolce e improvvisa di sentimento divino.»
Nel mondo indù la parola Vac, al pari del Logos o del Verbum nella tradizione
giudaico-cristiana, è la Voce della creazione.
L’indiano antico viveva su un piano concretamente pratico l’omogeneità tra
pensiero umano e Verbo universale. Ristabilendo l’intima connessione tra gli oggetti
dell’esperienza, risaliva idealmente alla loro unica scaturigine, il Verbo, la Väc. I mitici
veggenti (rishi) che ebbero la visione di questo Verbo sono venerati con particolare
attenzione. Dicono le Upanishad: «... quadruplici sono le mistiche sillabe: colui che le
conosce, costui conosce Brahman: a costui tutti gli dei recano la loro offerta!»
Il pensiero che scaturisce dall’intima profondità dell’uomo reintegrato alla sua
dimensione cosmica (colui che la Qabbalah chiama Adam qadmon e la gnosi islamica Insan
al-Kamil) è concepito come l’attività che è partecipe della creazione del mondo. La
prescrizione liturgica vedica «na-adevo devam arcayet» (chi non è un dio non veneri un dio)
sottolinea la funzione cosmica del pensare puro dell’uomo integrale. Tale pensiero non è
semplice arbitrio o passiva riflessione di cose già esistenti di per sé ma sorgente della
esistenza delle cose e attualità del loro Essere. La struttura sintattica e grammaticale della
lingua sanscrita, di enorme complessità, ci spiega Raimundo Panikkar, vuol esprimere, al
pari di una cattedrale gotica, i rapporti con l’essere e rispondere con dignità alla parola del
Dio. Anche per Parmenide «... lo stesso è pensare ed essere».
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tensione, at-tenzione, pre-parazione all’e-venire del fondo oscuro che si apre. Ciò, per
Heidegger, è espresso nel termine greco logos, e nel cinese Tao.
Non c’è parola/apertura senza ascolto e la disposizione all’ascolto della parola
impone una svolta e un salto esistenziale: l’abbandono del mondo inautentico delle
cosiddette cose, il mondo della mera utilità e della meccanicità. Possiamo dire con
Heidegger che l’uomo è nella sua essenza, prima ancora che creatore, l’uditore della
parola. L’avvenimento della parola, con la quale il fondo inesprimibile (l’essere) si fa
ascoltare dall’uomo, in tanto può dire in quanto nel tempo stesso tiene raccolto in sé il
non detto. La struttura metafisica della parola dipende dalla non parola: nessuna
espressione riuscirebbe a avere un significato - e cioè a esprimersi - se non fosse
circondata dal non espresso. Qui ci scontriamo con l’essenza inquietante dell’uomo che,
come Edipo, è destinato a confrontarsi perennemente con l’enigma. Per ogni enigma
risolto si presenta un altro più profondo che porta al problema stesso della conoscenza.
Che cos’è conoscere? Che cosa si deve conoscere? A che cosa serve conoscere? L’uomo
si trova al cospetto della parola di Dio, ma anche del suo silenzio. Dio parla proprio in
quanto resta silenzioso e la parola di Dio ha senso proprio perché Egli si sottrae
infinitamente.
Heidegger accosta la parola/logos ad algos = dolore, ciò che raccoglie nel più intimo.
L’esperienza del dolore sembra indispensabile all’uomo per aprirsi alla parola, partecipare
alla vita del logos/cosmo, entrare in colloquio con la vita dell’universo, e dunque alla sim-
patia/com-passione con l’Altro e con gli altri. Senza questa esperienza, connessa con
l’esperienza del sacrificio (il sacrificio è ciò che fa sacra, rende sacra la vita), l’uomo non
può percepirsi come un microcosmo aperto ad altri cosmi, ma si sente condannato alla
morte del non senso.
Lo sanno gli eroi e i santi che rientrando in sé e ponendosi in contatto con la loro
potenza immaginale e creativa riescono a non restare prigionieri dell’immediato, a
muovere verso la libertà e verso l’assoluto e unirsi all’infinito. Se con l’immaginazione
possiamo evocare dinanzi a noi una prospettiva, con essa e grazie ad essa possiamo com-
prendere, intraprendere, trarre con noi tutto ciò che rientra in quella prospettiva,
riusciamo a vivere il presente nella sua eternità, o in altre parole a entrare in contatto con
l’infinito, con la fonte della realtà senza dissolverci.
In Grecia (cf. Giuseppe Lampis, La nascita dell’uomo) l’etica arcaica aristocratica della
aretè impone di «essere ciò che si è»: non ci si può sottrarre al proprio destino, è un onore
essere fino in fondo ciò che si è, a qualunque prezzo. L’eroe accetta la moira irrespingibile
e il destino del dolore e della morte per aprire una forma, egli è la forma contro
l’informe, la sua esistenza è in diretto contrasto con l’indifferenziato. Egli si pone di
fronte al mistero, sa di non sapere e che «ciò che aspetta gli uomini dopo morti eccede la
loro previsione e il loro normale ambito di esperienza» (Eraclito, fr. 27). L’eroe, allo
stesso modo del santo di ogni religione, facendosi vittima esemplare di un sacrificio,
compie l’atto supremo con il quale si dà senso al non senso, o si impedisce la fine di ogni
senso e fa sì che la morte cessi di appartenere al regno del caso e della fatalità bruta e
venga sentita come atto di libertà.
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della grandissima ricchezza delle culture arcaiche e tradizionali (cf. Claude Lévi-Strauss e
Mircea Eliade).
Il viaggio iniziatico
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perso ed aveva dimenticato il suo compito, sì che deve giungere un messo a
ricordargliela: «La mia venuta era testimonianza di un ordine che in viaggio mi scordai» (Montale).
In questo testo emerge una profonda idea religiosa: l’idea che l’uomo mortale è
partecipe della stessa sapienza immortale di Dio, che tuttavia è nascosta prigioniera nel
mondo mortale, e quindi che ciò che determina l’essenza stessa dell’uomo e di cui egli
deve riuscire a prendere coscienza per essere salvato e sanato, è proprio la presenza in sé
della Sapienza divina come verità.
Il primo compito del viaggio di ricerca è dunque ricordare la propria vera essenza,
(«sono figlio della terra e del cielo stellato» dicevano i pitagorici). Solo se si ha ben
presente la meta nella sua essenza si può compiere il viaggio senza rimanere fissati,
intrappolati nelle varie situazioni che sembrano offrire consolazione, ma che sono solo
quinte di sabbia.
Le tappe di questo viaggio sono ben rappresentate dai tre momenti dell’opera
alchemica.
Françoise Bonardel ci ricorda nella sua Filosofia dell’Alchimia che tutti i più
importanti autori della nostra modernità o postmodernità (Eliade, Corbin, Jung,
Bachelard, Guénon, Daumal, Nietzsche, Artaud, Heidegger, Rilke) hanno rivisitato
l’antico mito della ricerca alchemica, mito di un cammino di trasformazione, perfezionamento
e ricerca, percorso iniziatico, di integrazione tra materia e anima, in cui viene coinvolto il
tutto, perché appunto Uno è il Tutto (en to pan).
Carl Gustav Jung dedicò numerosi anni della sua vita allo studio dei testi alchemici.
Scrisse nel suo diario (Ricordi, sogni, riflessioni): «Notai ben presto che la psicologia analitica
concordava stranamente con l’alchimia. Le esperienze degli alchimisti erano, in certo
senso, le mie esperienze, e il loro mondo era il mio mondo. (…) avevo trovato
l’equivalente storico della mia psicologia dell’inconscio. Ora essa aveva un fondamento
storico. La possibilità di un raffronto con l’alchimia così come la continuità spirituale fino
al lontano gnosticismo, le davano la materia. Grazie allo studio di quei vecchi testi, tutto
trovò il suo posto: il mondo simbolico delle fantasie, il materiale sperimentale raccolto
nella mia attività professionale, e le conclusioni che ne avevo tratte.»
Per meglio cogliere l’immaginale che si esprime attraverso la simbolica dei colori ci
rifacciamo a Evgenij Trubeckoj (Contemplazione nel colore, pp. 50 e ss.), egli ci spiega che i
pittori di icone distinguono i due piani dell’esistenza, quello terreno e quello ultra-
terreno, attraverso i colori:
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« (...) si tratta sempre di colori celesti a doppio senso, cioè nel senso proprio e
insieme simbolico del termine. Sono i colori del cielo visibile che hanno assunto il significato
convenzionale, simbolico di segni del cielo ultraterreno.
(...) Il cielo di questo mondo si spalancava dinanzi ai loro occhi corporei; il cielo
ultraterreno lo contemplavano con gli occhi della mente, viveva nell’intimo del loro
cuore, aperto alle emozioni religiose e la loro creazione artistica univa l’uno all’altro
cielo.»
Solo dopo esser passato per questo fuoco Dante può compiere l’ultimo tratto del
suo cammino senza la compagnia di Virgilio il quale, dopo averlo aiutato a passare oltre
le sue stesse possibilità, gli conferma l’ormai raggiunto stato di sovranità su se stesso.
Dante, ora potrà scorgere altri fuochi, altri porpora ed altre luci; ora egli è aperto a
una nuova visione che accresce ulteriormente le sue possibilità di comprensione.
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tanto divien quant’ella ha di possanza.»
(Paradiso XXII, 55 - 57)
Il demoniaco
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Il senso del tutto e l’episteme che salva dal dolore
Nelle più grandi tradizioni artistiche filosofiche religiose, a qualsiasi orizzonte esse
appartengano, l’epopteia, la rivelazione della saggezza divina al culmine del Grande Mistero
consiste nell’esperienza del Sé, ossia nell’esperienza che, realizzando la propria parte e
cercando di comprendere il senso della propria vita, ritrova anche il senso del tutto. Del
tutto del quale la propria singola vita fa parte, perché mai se ne è allontanata, allo stesso
modo della goccia in un grande oceano. Nel singolo individuo si esprime
necessariamente una realizzazione del tutto (o del principio) senza che con ciò il tutto (o
il principio) si allontani da sé e si frantumi o subisca analoghe vicende. Per tale ragione il
singolo può - proprio a partire da ciò che in esso si realizza - scoprire, riconoscere, vivere
il rapporto interno con il tutto (o con il principio). Nostro compito è dunque una radicale
intensificazione di ciò che si è: rompere ogni argine frapposto al completo realizzarsi di
ciò che si realizza, evitando ogni fissazione a metà strada, ogni congelamento delle nostre
potenzialità.
Ciò, per così dire, in un abbandono alla Provvidenza divina (secondo il titolo del libro
del mistico de Jean Pierre Caussade). «… Non vi è niente di piú ragionevole, di piú
perfetto, di piú divino della volontà di Dio… Attingete dunque a questa volontà che si
dà, nascosta e velata, in tutto ciò che vivete al momento presente, e la troverete sempre
infinitamente piú vasta dei vostri desideri. »
Questo è anche l’insegnamento delle fiabe nelle quali il protagonista cammina
davanti a sé senza una strada già segnata, senza neppure sapere verso dove o verso cosa
vada e comprende infine che la meta non si raggiunge, essa è già nel viaggio il cui vero fine è
proprio la maturazione che si raggiunge durante il cammino, la capacità di riconoscere il
proprio destino e di abbandonarsi ad esso.
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ogni potenzialità e di animare ogni azione, salvandosi da una crisi totale che sfocia nel
nichilismo.
L’immaginazione creatrice può sollevarci su un piano più alto, ampliare il nostro
orizzonte e trasformare la nostra visione degli accadimenti sì che siano innanzitutto
accadimenti dell’anima: in quanto tali potranno venire sottratti alla legge della gravità e
dell’inerzia del piano fisico per essere meditati, trasfigurati, trasformati dalla nostra
intelligenza.
Ciò è detto in maniera esplicita nel messaggio cristiano di Paolo: nella Prima Lettera
ai Corinti (13) si parla di agape, l’amore che significa consenso con il destino,
identificazione con il tutto vivente, condivisione della corrente vitale universale,
instaurazione di un uomo capace di ‘farsi docile fibra dell’universo’ (Ungaretti) e dunque
assumere le potenze del cosmo.
Secondo Gilbert Durand, anche nella più umile immagine, nell’immaginario più
incoerente, si stanno già scavando le fondamenta dell’immaginale o dello spirito. Ciò che
è esteriore e ciò che è interiore si mescolano, gli avvenimenti vissuti nell’intimo si
proiettano all’esterno, si elevano alla funzione di simboli, diventano visioni la cui verità è
data dal loro significato spirituale. La nostra capacità immaginativa e poietica può
ritrovare e restituirci il tempo perduto per trarre da esso nuova luce e nuova speranza,
può donare all’esistenza umana senso e significato e farne un cammino di individuazione
in cui, come nel cammino Dantesco, la salvezza, l’incontro con Dio, si realizza restando
nel pieno della propria umanità, a partire da essa e dentro di essa, realizzandone la
perfetta intensificazione (cf. Lampis, La propria parte).
«Più si compie la propria parte mortale fino in fondo più si partecipa ad un grande
destino» (Eraclito, fr. 25).
Bibliografia
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- Simboli della trasformazione (1911-1912), in Opere vol. 5, tr. it. Torino 1989
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- Maschere e demoni. Trasformazioni di uomini e dei nella tradizione dei popoli senza scrittura, Roma
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- Una religione dell’atto cruento, I misteri di Mitra, Roma 2001
- La nascita dell’uomo. Eroi e mistici nella Grecia antica, in «atopon» V, Roma 2009
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Evgenij TRUBECKOJ, Contemplazione nel colore. Tre studi sull'icona russa, tr. it. Milano 1977
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