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Settis Salvatore, Futuro del classico, Einaudi, Torino 2004, pp. 127.

Recensione di Katia Basili


Dottorato in Scienze della Cognizione e della Formazione, Cà Foscari Università, Venezia,
Dipartimento di Filosofia e Teoria della Scienza – Centro di Eccellenza per la Ricerca
l'Innovazione e la Formazione Avanzata (katia.basili@unive.it)
Review by Katia Basili
PhD in Cognitive and Educational Sciences, Cà Foscari University, Venice, Department of
Philosophy and Theory of Science – Centre of Excellence for Pedagogical Research and
Advanced Learning

Abstract
Il saggio riflette le diverse idee di classico che ogni epoca si è costruita e le possibilità che
ancora esso riguardi non solo il passato ma il presente e una visione futura del mondo. Che
esso possa costituire una imprescindibile radice e un riferimento della nostra cultura.
The book illustrates how different concepts of “classic” can be declined from different
periods and culture from the past to the present times and the future. The ideal of “classic”
to which we refer can be a fundamental root and referente for our culture.

Recensione
Il testo analizza attraverso i secoli le molte diversificate definizioni, concetti, usi e rinascite
del “classico” nelle sue varianti per dimostrare che una riflessione sulla natura del
“classico” ha un significato e un ambito che va al di là del nostro tempo e del nostro Paese.
Essa induce a interrogarsi e a chiedersi se il “classico” abbia ancora una funzione nel
mondo contemporaneo, o invece non ne abbia più alcuna. Settis denuncia fin dalle prime
battute come oggi il “classico” tenda a diventare un alibi, una copertura, un richiamo ai
valori fondativi che poi nessuno rispetta. Un pretesto per un eccessivo e compiaciuto uso di
citazioni di terza mano, un ampio campionario di exempla per rielaborazioni postmoderne.
Intanto la cultura classica continua ad arretrare nei sistemi educativi e nella cultura
generale dei Paesi che la sbandierano, e quanto più se ne parla in modo convenzionale
tanto meno la si vive per quello che dovrebbe essere: un terreno di confronto in progress,
sempre aperto. L’autore denuncia inoltre un evidente ma persistente paradosso che qui ci
preme sottolineare: “meno si studia il greco e il latino e più si consolida nel nostro
paesaggio culturale l’immagine delle civiltà classiche (specialmente la greca) come la
radice ultima e unica della civiltà occidentale”(p. 4), innalzando così la cultura “classica”
sopra un piedistallo irraggiungibile al quale ci si aggrappa per rivendicare più o meno
esplicitamente la propria superiorità culturale rispetto alle altre. Questo atteggiamento può
essere interpretato, osserva l’autore, come una risposta alle ansie della globalizzazione
culturale di quest’epoca: rivendicando un’identità forte (per quanto vaga e forse non
pienamente assimilata), siamo in grado di competere con quel sentimento di panico e di
inadeguatezza derivante dall’incapacità di gestire la complessità del mondo globale. Se da
un lato si ritiene scontata la matrice “classica” della nostra cultura, dall’altro si è portati a
concentrarsi in modo ossessivo al contemporaneo limitandosi a conoscerlo quale esso è
oggi, portando il passato ad appiattirsi, proprio perché scontato, sul presente. L’immagine
del “classico” viene pertanto da un lato “iconicizzata” e dall’altro marginalizzata.
La tesi di Settis è chiara: l’orizzonte esclusivo delle proprie radici non è più sufficiente e
proponibile, in un mondo globale in cui lo scambio interculturale, la coscienza identitaria,
il relativismo, la morte delle ideologie, il multiculturalismo hanno definitivamente messo
in crisi qualsiasi forma di eurocentrismo. Il “classico”, osserva Settis, può dispiegare la sua

1
vitalità autentica solo se lo consideriamo come un luogo di confronto fra culture,
laboratorio di ibridazioni e debiti reciproci. Non come un’entità atemporale ed immutabile,
ma il terreno su cui indagare una dialettica di cui non possiamo fare a meno: quella tra
identità e alterità.
Settis propone perciò di rimodulare via via i nostri parametri culturali in una specie di
spola fra “identità e alterità”, imparando per esempio proprio dagli Antichi a confrontarsi
con l’Altro, con l’idea dell’Altro, e spingersi ancora oltre nell’evocare l’altro-da-sé che è
dentro di noi (il “classico”) per intendere le alterità che sono fuori di noi (le altre culture).
Ricostruendo il dibattito sul rapporto tra “antichi” e “moderni”, Settis identifica nel corso
del Novecento due grandi scuole di pensiero: quella di chi vede nei classici “un sistema di
valori universali senza luogo e senza tempo” secondo una visione a-storica di matrice
antichista, e quella di chi al contrario li vede “come un albero dalle folte radici, dai rami a
volte spezzati o nascosti” secondo una visione storicizzante che vi cerca non l'identico, ma
il diverso come ha fatto Aby Warburg (1866-1929), uno storico della cultura del “classico
che fu allora relativamente marginale, ma che si è rivelata più tardi straordinariamente
feconda e ricca di implicazioni” (p. 94).
Fa piacere che l’autore abbia compreso il valore dell’esperienza culturale di Warburg per
lungo tempo lontana dagli interessi della cultura italiana. Significativo dunque per Settis
l’approccio portato avanti da Warburg che si interrogava sulla natura del “classico”
partendo dall’urgenza interiore di spiegare la natura del Rinascimento, che era il centro dei
suoi studi, più che da classicista. L’importanza e la novità del metodo di Warburg stava
non tanto nel fatto che avesse riconosciuto nel “classico” la matrice potente anche se
remota del Rinascimento, ma nel suo interesse a ricercare gli strumenti concettuali per
spiegare la “rinascita” in termini di storia culturale. Da capire era per lui come il “classico”
potesse in un certo periodo scomparire per ricomparire in epoche successive come
rinnovato, “secondo un processo dinamico intimamente intrecciato col divenire storico” (p.
94). Studiando la sopravvivenza dell’antico, che nel linguaggio del suo tempo chiamava
Nachleben Der Antike, Warburg capì che il motivo della ricomparsa di schemi iconografici
e formule espressive (Pathosformeln), talvolta anche a distanza di secoli, era dovuto non
soltanto alla forza comunicativa insita in tali temi, ma allo sguardo degli artisti che li
“riconoscevano”. Le formule create dagli Antichi contenevano una forza espressiva tale
che poterono essere ad un certo punto “riconosciute” dallo sguardo di un artista, riattivate e
rimesse in circolazione. Per Warburg il riappropriarsi di un antico patrimonio artistico, per
esempio da parte del Rinascimento fiorentino, si può spiegare “attraverso un processo
simpatetico, un atto di immedesimazione che implica scoperta del significato e delle
emozioni estetiche connesse dietro la rigidità della formula ormai fuori uso”. La chiave
interpretativa di Warburg della storia culturale europea si basava sul modello
epistemologico del suo maestro di Bonn, Hermann Usener (1834-1905), che proponeva
uno studio comparativo della cultura fondato sulla storia delle parole e dei concetti,
applicando le scoperte della scienza moderna ai temi degli studi umanistici. Psicologia e
antropologia sembravano offrire allo studio dei classici delle chiavi di interpretazione
nuove e molto attraenti per l’epoca. Usener rifiutava infatti il tradizionale approccio al
sistema della mitologia classica. La mitologia doveva essere invece lo studio delle idee
(Vorstellungen) di un popolo concernenti il soprannaturale. La teoria di cui Usener si
sentiva attratto conteneva l’idea che gli dèi derivassero dai loro nomi. L’interesse per le
sopravvivenze, per la tenacia delle più antiche tradizioni portò Usener, e poi Warburg, alla
comparazione dei Greci e dei Romani con altri popoli (in particolare con usanze primitive),
o del Rinascimento europeo con altri “rinascimenti”. Warburg studiò presso gli Hopi in
Arizona un locale “rinascimento” dell’antichità che stava avvenendo proprio al suo tempo
adottando sperimentalmente un habitus antropologico. Per Warburg, osserva Settis, la

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necessità più forte era “spiegare la risposta estetica dell’uomo davanti alle immagini
prescindendo dallo status dell’arte nella società contemporanea, e cioè dell’ ‘artisticità’
come valore”. Studiare il Rinascimento, anzi i rinascimenti (in Europa e altrove), era
dunque per lui necessario per comprendere attraverso la vita delle forme (sempre in
precario equilibrio fra il morire e il rinascere) la natura stessa di ciò che negli ultimi due
secoli abbiamo imparato a chiamare “arte”. La comparabilità fra culture, anche fra quelle
che non hanno avuto rapporti storici fra loro; il parallelismo fra due simili evoluzioni
storiche (due rinascimenti) non si spiega dunque in termini di influenza culturale, ma deve
risalire a un meccanismo più profondo proprio della natura umana. Settis mette in evidenza
come le date di Usener e Warburg mostrino quanto tempo sia trascorso dall’esigenza di
studiare la cultura “classica” in virtù della sua “alterità”, e non per la sua “identità” alla
nostra. All’idea dominante nel secolo XX del “classico” come qualcosa di perpetuamente
uguale a se stesso e a noi, che appartiene alla cultura occidentale e solo ad essa, si oppone
anche il filosofo francese Claude Lévi-Strauss.
In un saggio brevissimo di (Les trois humanismes,1956)1 Levi-Strauss interpreta la
riscoperta dell’antichità “classica” nel Rinascimento come “una prima forma di etnologia”,
poiché allora “si riconobbe che nessuna civiltà può pensare se stessa, se non dispone di
altre società che servano da termine di comparazione”: la rinnovata presenza dell’antico
introdusse così la tecnica dello “straniamento” come esercizio intellettuale, innescando una
rivoluzione culturale di enorme portata, le cui conseguenze giungono fino a noi. Secondo
Lévi-Strauss, il sorgere dell’etnologia fu un’estensione del primo umanesimo: allo studio
degli Antichi (un “altrove” più nel tempo che nello spazio) seguì, per naturale evoluzione,
quello delle civiltà extraeuropee (un “altrove” più nello spazio che nel tempo).
Dei tre umanesimi di Lévi-Strauss, il primo ebbe dunque per oggetto di studio (o dello
straniamento) l’antichità greco-romana, il secondo le grandi civiltà orientali, dall’India alla
Cina al Giappone; il terzo, le culture un tempo dette “primitive”, quelle “senza storia” dei
NaturvöIker (popoli allo stato di natura). Lévi-Strauss ci propone di riconsiderare il
confronto con gli Antichi come una forma di antropologia latente. Il suo modello
interpretativo s’impernia sul Rinascimento, ma la riscoperta del“classico” (greco- romano)
non è qui associata a un sistema stabile di valori occidentali da contrapporre agli “altri”; al
contrario, essa è messa in serie con la riscoperta delle culture “altre”, in un crescendo che
parte proprio dal “classico”, per estendersi necessariamente a tutte le civiltà.
In questa visione, identità e alterità possono, anzi devono convivere. Perciò vale la pena di
studiare il “classico” greco-romano, precisamente nella spola fra identità e alterità, e cioè
sia perché lo sentiamo “nostro” sia perché lo riconosciamo “diverso” da noi; sia in quanto
esso è intrinseco alla cultura occidentale e indispensabile a intenderla, sia in quanto ci
apre la porta a studiare e comprendere le culture “altre”; sia perché serbatoio di valori in
cui possiamo ancora riconoscerci, sia per quello che esso ha di irrimediabilmente estraneo.
L’età “classica” greco-romana, ci spiega Settis, potrebbe allora esser vista come un
gigantesco esperimento di globalizzazione economico-culturale, che culmina nei secoli
centrali dell’impero romano, e della quale abbiamo il vantaggio di conoscere non solo il
momento di formazione, ma anche i meccanismi e i tempi del collasso finale. La storia
culturale dell’età “classica” può essere (con l’occhio rivolto al presente) il luogo
privilegiato di analisi del confronto fra culture, sia perché si presta all’esplorazione dei
debiti reciproci fra le culture antiche (per esempio Mesopotamia, Egitto, Grecia; o ancora
Etruschi, Romani, Galli, Britanni), sia perché quegli antichi interscambi culturali ci
riguardano da vicino, in quanto da essi (e non da un’immacolata “classicità”

1
C. Lévi-Strauss, Les trois humanismes (1956), in Anthropologie structurale deux, Paris 1973, pp.
319 sgg.
3
esclusivamente greco-romana) nascono le culture d’Europa; in quanto, cioè, ci fanno essere
quello che oggi siamo.
In conclusione, Settis propone che il “classico” possa e debba essere ancora oggetto di
attenzione e di studio, non più come immobile e privilegiato ambito di ricerca degli
specialisti, ma come efficace chiave d’accesso alla molteplicità delle culture del mondo
contemporaneo, come aiuto a intendere il loro processo di mutuo interpenetrarsi. Il
“classico”, piuttosto che modello immutabile, ridiventerebbe quello che altre volte è stato,
lo stimolo a un serrato confronto non solo fra Antichi e Moderni, ma anche fra le culture ”
nostre” e le ” altre”; il terreno di sperimentazione e di verifica della stessa idea di identità
culturale come processo di interscambio. Perché l’invocazione e la rinascita del “classico”,
proprio come la ricerca di un’identità comune europea, null’altro è stata ed è che un
incessante ricercare i nostri antenati, che per definizione sono lontani da noi e per
definizione ci appartengono; che ci hanno generato e che noi generiamo e ri-generiamo
ogni volta che li evochiamo nel presente e per il presente.
Quanto più sapremo guardare alla nostra storia (sin dalle sue radici “classiche”) “non come
una morta eredità che ci appartiene senza nostro merito, ma come qualcosa di
profondamente sorprendente ed estraneo, da riconquistare ogni giorno, come un potente
stimolo a intendere il ‘diverso’” (p. 114), tanto piú sapremo formare le nuove generazioni
per il futuro.

Indice
1. Il "classico" nell'universo del "globale"
2. La storia antica come storia universale
3. Il "classicismo" e il "classico" : un percorso a ritroso
4. Il "classico" come discrimine, fra postmoderno e moderno
5. Il "classico" fra gli stili "storici": vittoria del dorico
6. Il "classico" non è "autentico"
7. "Classico" greco contro "classico" romano
8. "Classico", libertà, rivoluzioni
9. Il "classico" come repertorio
10. "Rinascimento dell'antichità"
11. Il "classico" prima dell'"antichità classica"
12. Il "classicismo" dei "classici"
13. Eternità delle rovine
14. Identità e alterità
15. Futuro del "classico"
Nota al testo
Nota bibliografica

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Note sull’autore
Salvatore Settis è Professore ordinario di Storia dell’arte e dell’archeologia classica e
Direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa di cui è stato allievo. E’ stato Visiting
Professor in varie università europee e americane, Preside della Facoltà di Lettere
dell’Università di Pisa e Preside della Classe di Lettere alla Scuola Normale Superiore.
E’ stato inoltre Direttore del Getty Research Institute for the History of Art and the
Humanities di Los Angeles dal 1994 al 1999, membro del Comitato Internazionale per la
Salvaguardia della Torre di Pisa e del Consiglio Scientifico dell’Enciclopedia Italiana.
I suoi interessi di studio e di ricerca riguardano principalmente la storia dell’arte antica, la
storia della tradizione classica e la storia dell’iconografia e dell’arte religiosa in Europa dal
Medioevo al Seicento. Ambiti nei quali è considerato uno dei maggiori esperti a livello
mondiale. Settis, per il quale lo studio e la ricerca non rimangono circoscritti in un ambito
specialistico, ma semmai forniscono materiali per una pratica del fare culturale, è da tempo
impegnato a difendere e tutelare il nostro patrimonio artistico e architettonico dall’ incuria
pubblica e dagli appetiti privati di lobbies affaristiche sempre più aggressive.

Bibliografia
Tra le pubblicazioni più significative si ricordano: La «Tempesta» interpretata: Giorgione,
i committenti, il soggetto (1978); La Colonna Traiana (1988); Laocoonte. Fama e stile
(1999). In particolare “La Tempesta” Pubblicato nel 1978 per i tipi della Einaudi, è stato
piú volte ristampato e tradotto in sei lingue, diventando ed essendo ancora oggi un
riferimento obbligato nel dibattito sui metodi della storia dell'arte.
E' stato inoltre curatore di alcune opere collettive, fra cui la monumentale «Memoria
dell'antico nell'arte italiana», vol. I-III (Torino, Einaudi, 1984-86) e i primi due volumi
della «Storia della Calabria» (Roma-Reggio Calabria, Gangemi editore).

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