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OGGETTI E SOGGETTI


Direttore
Bartolo A
Università degli Studi di Bari

Comitato scientifico
Ferdinando P
Università degli Studi di Bari
Mario S
Università degli Studi di Bari
Bruno B
Università degli Studi di Bari
Maddalena Alessandra S
Università degli Studi di Bari
Ida P
Università degli Studi di Bari
Rudolf B
Ruhr Universität–Bochum
Stefania B
University of Wisconsin–Madison
OGGETTI E SOGGETTI

L’oggetto e il soggetto sono i due poli che strutturano la


relazione critica secondo Starobinski. Il critico individua
l’oggetto da interpretare e in qualche modo lo costrui-
sce, ma lo rispetta nella sua storicità e non può farne un
pretesto per creare un altro discorso in cui la voce dell’in-
terprete copre la voce dell’opera. Ma d’altro canto egli non
si limita a parafrasare l’opera né ad identificarsi con essa,
ma tiene l’oggetto alla distanza giusta perché la lettura
critica produca una conoscenza nuova. In questa collana si
pubblicheranno contributi articolati sulla distinzione e sul-
la relazione tra gli « oggetti » e i « soggetti », ossia fra il testo
dell’opera o delle opere e la soggettività degli studiosi.
Ferdinando Pappalardo
Clericus vagans
Saggi sulla letteratura italiana del Novecento
Copyright © MMXIV
ARACNE editrice S.r.l.

www.aracneeditrice.it
info@aracneeditrice.it

via Raffaele Garofalo, /A–B


 Roma
() 

 ----

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,


di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopie


senza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: dicembre 


Ad Adriana,
con immensa gratitudine
Indice

 Premessa

 Il prodigio ingannevole. Alcyone, Ossi di seppia e il


canone della poesia lirica

 Gozzano, Balzac e le «illusioni perdute»

 Il patto con Narciso. Poesia, malattia e psicanalisi nel


Canzoniere di Saba

 L’autobiografia interminata. Elegia e dramma nell’Er-


nesto di Saba

 Lavoro e coscienza di classe nel Metello di Pratolini

 Nota

 Indice dei nomi


Premessa

Il titolo stravagante del libro allude — in modo autoironico,


e fors’anche melanconicamente polemico — al ruolo socia-
le (professionale) dell’autore e, insieme, alle caratteristiche
dei saggi raccolti nelle pagine che seguono. Com’è noto, i
«chierici» — nel senso in cui li intendeva Julien Benda —
sono una specie da tempo estinta; i nuovi maîtres à penser al-
bergano negli apparati dell’industria culturale e nel sistema
delle comunicazioni di massa (compresi i social networks).
Men che meno può essere considerato (e ritenersi) un clerc
il critico letterario, figura dal profilo incerto e titolare di una
funzione grottescamente inattuale: la società coeva, domi-
nata dall’imperativo della produttività, dalla bronzea legge
della immediata convertibilità del lavoro intellettuale in pro-
fitto, ha decretato l’inutilità della cultura umanistica, e in
primo luogo delle sue più antiche e tradizionali discipline.
Certo, i critici (mi riferisco a quelli ‘accademici’, perché
quelli ‘militanti’ sono ormai — fatte rare, e perciò tanto
più meritorie, eccezioni — profondamente collusi con gli
interessi e le logiche dell’editoria e dell’informazione gior-
nalistica) hanno concorso in molti modi alla loro progressiva
marginalizzazione: per esempio, esibendo un’altezzosa auto-
referenzialità e preoccupandosi esclusivamente della propria
riproduzione, ovvero tentando di restituire prestigio e valore
alla loro attività di ricerca attraverso l’adozione di modelli
epistemologici, di strumenti e di procedure desunti dalle
scienze sociali (più recentemente, persino dalla medicina),


 Premessa

e addirittura sublimando la consapevolezza della loro peri-


fericità nell’organizzazione della cultura e il loro complesso
d’inferiorità nei confronti del sapere scientifico in disinvolti
travestimenti nominalistici di interi settori disciplinari (ba-
sti guardare al numero di dipartimenti e di corsi di laurea
universitari in cui ricorre la magica parolina «scienze»). Ne è
derivata una proliferazione di indirizzi, di orientamenti, di
metodologie: fenomeno che, in linea di principio, avrebbe
potuto procurare uno sviluppo e un arricchimento delle
conoscenze, e che invece ha dato luogo a una incontenibi-
le parcellizzazione e a una sorda conflittualità, causata dalle
pretese di eccellenza, di autosufficienza e persino di esclusi-
vità di ciascuna monade. Intendiamoci: la critica letteraria
— come, del resto, ogni altra forma di sapere — è sempre
stata attraversata da divisioni e contrapposizioni, anche aspre,
fra ‘scuole’: divisioni e contrapposizioni generate e giustifi-
cate da differenti, talora opposte visioni culturali e persino
ideologiche. Eppure chi scrive ha vissuto tempi in cui le
divergenze, per quanto radicali, non impedivano l’ascolto, il
confronto, il dialogo, e soprattutto non facevano venir meno
il rispetto per gli interlocutori né precludevano l’apprezza-
mento della qualità della loro produzione scientifica (non ho
mai sentito — si perdoni la banalizzazione — Mario Sansone
o Giuseppe Petronio denigrare Carlo Bo o Giovanni Getto,
e negare pregiudizialmente validità ai loro studi). Oggi, si
ha l’impressione che la condivisione di un modello teorico
funga da pretesto e alibi per la costituzione e l’accreditamen-
to di un gruppo di potere accademico (con conseguente
moltiplicazione delle cattedre e promozione delle carriere),
e che si presti attenzione soltanto alle pubblicazioni degli
adepti alla propria cerchia, riservando a tutti gli altri il più
crudele dei trattamenti, ossia l’indifferenza e il silenzio.
Al di là di ogni pulsione autolesionistica, il destino della
Premessa 

critica letteraria sembra segnato da una pluralità di fattori og-


gettivi; né le proposte, pure assai acute e pertinenti, di riforma
dei suoi statuti appaiono in grado di invertire la tendenza al
declino. Per evitare una generica imputazione del fenomeno
allo spirito dell’epoca, sia consentito addurre un solo, concre-
to elemento di riflessione. A voler considerare lucidamente le
cose, si dovrà ammettere che la critica letteraria ha ricavato
per decenni la sua legittimazione dalla — e ha giustificato la
sua indispensabilità con la — centralità attribuita all’insegna-
mento della letteratura nei processi formativi. Se per un verso,
e ciò nonostante, la massima parte dei critici si è mostrata
allergica ad addossarsi compiti di divulgazione scientifica (evi-
dentemente ritenuti degradanti, quasi un mercimonio della
nobiltà della loro dottrina), preferendo barricarsi nell’olim-
po dei suoi pensatoi, per l’altro i mutamenti strutturali del
sistema dell’istruzione, la continua, spesso scriteriata revisione
degli ordinamenti curriculari e la preminenza accordata alle
discipline tecnico–scientifiche (in nome di un ottuso criterio
utilitaristico), l’assenza di una seria politica dell’aggiornamen-
to dei docenti, il potere pervasivo della multimedialità e l’uso
indiscriminato delle informazioni da essa veicolate, la retori-
ca populistica che predica l’obiettivo dell’azzeramento dei
costi dell’apprendimento (fino ad autorizzare la confezione
domestica dei materiali didattici), hanno reciso ogni legame
fra università e scuola e stanno svuotando i corsi di studio
istituzionalmente finalizzati alla formazione degli insegnanti,
privando la ricerca dei suoi naturali destinatari e fruitori. I
realisti e gli apologeti delle «magnifiche sorti e progressive»
esortano a non avere paura delle novità, a sfruttare le opportu-
nità offerte dal progresso, ad adeguarsi al corso delle cose; ma
v’è da dubitare seriamente che l’astuzia camaleontica, l’abilità
mimetica riescano almeno a sospendere, se non ad annullare,
gli effetti di una sentenza scolpita nella storia.
 Clericus vagans

Quanto poi all’aggettivo vagans, esso si riferisce alle ca-


ratteristiche di questo libro. I saggi in esso raccolti hanno
infatti per oggetto autori e opere quasi tutti fra loro diversi,
sono nati in occasioni le più disparate, non sono ricondu-
cibili a un progetto unitario e organico, non presentano
alcuna «continuità di fondo»; per giunta, non postulano
alcuna «poetica» (nell’accezione proposta da Todorov), e
neppure professano fedeltà a un «metodo». Il loro autore
si muove in un territorio frastagliato senza eleggere cittadi-
nanza in una particolare contrada, si concede a molteplici
suggestioni (innanzitutto a quelle provenienti dall’erme-
neutica materialistica), si sforza di renderle compatibili con
pochi, poveri convincimenti: e cioè, che la letteratura non
possiede un’essenza, o solamente una somma di qualità
intrinseche, stabili e distintive, ma è uno spazio mobile, i
cui confini sono di volta in volta definiti da una tavola di
convenzioni stabilite dalle istituzioni culturali e sociali; che
la critica analizza e interpreta testi, cerca di comprendere
come sono fatti e che cosa significano, non limitandosi —
per dirla con Benjamin — a collocarli «nel contesto del
loro tempo», ma proiettando, «nel tempo in cui sorsero, il
tempo che le conosce, e cioè il nostro».
L’eclettismo renderà quasi certamente il libro sgradito
alle vestali del rigore specialistico; ma non importa. Le pa-
gine che seguono vogliono essere la testimonianza di una
passione tanto tenace quanto vana, del viscerale attaccamen-
to a un mestiere che per un certo periodo è stato peraltro
non avaro di gratificazioni, di una «condizione postuma».

F. P.

Novembre 
Il prodigio ingannevole
Alcyone, Ossi di seppia
e il canone della poesia lirica

In occasione delle celebrazioni per il trentacinquesimo


anno della morte di Guido Gozzano, rileggendone l’opera
poetica sullo sfondo della letteratura primonovecentesca,
Montale scriveva: «C’era in aria un’esperienza verbale pla-
stica, viva, nuova, che in D’Annunzio aveva trovato il suo
massimo artefice e che, scarnificata, aveva condotto il poe-
ta abruzzese alle parti più vive di Alcyone. Gozzano non
si spinse fino ad Alcyone, si fermò al Poema paradisiaco.
[. . . ] Ridusse D’Annunzio come Debussy aveva ridotto
Wagner, ma senza mai giungere a risultati che possano
dirsi debussiani». E proseguiva: Gozzano «fu il primo dei
poeti del Novecento che riuscisse (com’era necessario e
come probabilmente lo fu anche dopo di lui) ad attraversa-
re D’Annunzio per approdare a un territorio suo, così come,
su scala maggiore, Baudelaire aveva attraversato Hugo per
gettare le basi di una nuova poesia». A parte la clamorosa
(almeno per quel tempo) assegnazione a d’Annunzio del-

. E. M, Gozzano, dopo trent’anni [], in Il secondo mestiere. Prose


–, tomo , a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano , pp.  e .
. Tra le differenti grafie comunemente usate per il nome dell’autore
e per il titolo del terzo libro delle Laudi, si è optato — rispettivamente —
per d’Annunzio e Alcyone; nelle citazioni sono state però rispettate quelle
presenti nelle fonti.


 Clericus vagans

la palma di capostipite della poesia italiana del Novecento,


e la collocazione di Alcyone al vertice della produzione in
versi del Pescarese (opinione, quest’ultima, largamente
condivisa dalla critica), si ha l’impressione che il giudizio
di Montale contenga un risvolto autobiografico (ne è spia
anche il riferimento a Debussy). Impressione suffragata da
una dichiarazione resa in un’intervista a Leone Piccioni,
esattamente quindici anni dopo: «D’Annunzio sovrastava
soprattutto come personaggio: era un mostro, un mon-
strum, diciamo così; quindi era difficile in quel momento
rendersi conto del suo valore di poeta. È ancora oggi cre-
do in discussione, e credo che un po’ di lui sia rimasto
appiccicato a tutti i poeti che sono venuti dopo. Ma d’al-
tronde, come ho già detto altre volte, senza Victor Hugo
non sarebbe sorto Baudelaire. La situazione, per analo-
gia, potrebbe essere questa». Per la verità, subito prima
Montale si era proclamato «stranamente [. . . ] estraneo»
alla triade Pascoli–Carducci–d’Annunzio; ma la centrali-
tà del magistero poetico dannunziano (a lungo oscurata
dal debordante protagonismo e dallo sfrontato divismo
dell’autore) era stata ribadita un decennio innanzi nella
prefazione ai Canti barocchi di Lucio Piccolo: «D’Annunzio
nella recente tradizione italiana è un poco come Hugo nel-
la sua posterità francese, da Baudelaire in giù: è presente in
tutti perché ha sperimentato o sfiorato tutte le possibilità
stilistiche e prosodiche del nostro tempo. In questo senso
non aver appreso nulla da lui sarebbe un pessimo segno».
Va dunque accolto l’invito di Mengaldo — formulato in un

. Cfr. N. V, Palinsesti montaliani, il melangolo, Genova , p.


.
. M, Gozzano, dopo trent’anni, p. .
. E. M, Il secondo mestiere. Prose –, tomo , a cura di G.
Zampa, Mondadori, Milano , p. .
Il prodigio ingannevole 

fondamentale saggio del  — a valutare «attentamente»,


nelle parole di Montale, «la collocazione di D’Annunzio, e
non di Pascoli, ad archetipo della poesia contemporanea
(decisivo il paragone con Hugo)», ma anche «la tendenzia-
le limitazione di tale funzione all’aspetto dell’invenzione
formale», ambito nel quale il riconoscimento è comunque
«pieno».
Probabilmente la sottintesa condivisione di tale ‘limita-
zione’ ha impedito a Mengaldo (e, occorre aggiungere, a
tanti altri) di apprezzare pienamente la portata dell’attraver-
samento di d’Annunzio compiuto da Montale, e dunque i
debiti che il ‘primo tempo’ della poetica montaliana tradi-
sce nei confronti della lezione dell’Immaginifico. Con ciò
non si intendono sminuire i meriti del grande studioso: la
sua ricerca, grazie a una minuziosa ricognizione dei presti-
ti di ordine lessicale, frastico, tematico, metrico, retorico e
stilistico, ha consentito di sfatare il radicato convincimento
della impossibilità «di un reale influsso di D’Annunzio su
un poeta che pare rappresentarne per molti aspetti la più
decisa antitesi storica», nonché di far luce sul «costituir-
si di una larga koinè pascoliano–dannunziana che diviene
base istituzionale della lingua letteraria contemporanea e
punto di partenza per gli arricchimenti e scarti successi-

. P. V. M, Da D’Annunzio a Montale, in La tradizione del


Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Feltrinelli, Milano , p. .
. M, Da D’Annunzio a Montale, p. . Mengaldo ritrovava quel
convincimento anche in chi, come Parronchi, «sembra ammettere in li-
nea di massima che la base d’avvio di Montale sia soprattutto l’esperienza
dannunziana (e in particolare alcionica), ma appunto in quanto venga im-
mediatamente rovesciata e negata». Anche in tempi recenti, del resto, si è
affermato che, «quanto a temi ed ethos, nel loro insieme, gli Ossi rappresen-
tano la più decisiva e moderna riscrittura di quel detestabile capolavoro del
simbolismo italiano che è l’Alcyone» (A. C, «L’esile punta di grimaldello»:
Montale e la tradizione, «Studi novecenteschi»,  [], , p. ).
 Clericus vagans

vi». I procedimenti della «stilistica delle fonti» — chiariva


Mengaldo — producono infatti esiti rilevanti nell’ambi-
to del «giudizio storico», oltre che dell’«accertamento dei
valori»; nel caso in ispecie, permettono di «distinguere
volta per volta e nell’insieme le riprese linguistiche, temati-
che ecc. che comportano da parte di Montale un interesse
produttivo — sul piano contenutistico, sia di consenso
sia di reazione, o semplicemente su quello tecnico — nei
confronti dei testi utilizzati, dai semplici riecheggiamenti
inattivi (gli elementi di una cultura pratica cui ha accennato
il Contini), liberi di ogni responsabilità verso i testi produt-
tori», e dunque di «impostare in termini precisi il problema
della continuità o della discontinuità ideologica» fra gli au-
tori considerati. In realtà, distinguere con sufficienti mar-
gini di esattezza i calchi dalle reminiscenze è operazione
tutt’altro che facile. Occorre inoltre guardarsi dal rischio —
già segnalato da Mengaldo — di «sussumere in una formu-
la complessiva, di carattere contenutistico–ideologico, una
pluralità di fatti linguistici variamente distribuiti in conte-
sti particolari, o anche eterogenei». Va infine rimarcato
che neppure l’abbondanza dei prelievi linguistici costitui-
sce di per sé una prova decisiva del rapporto privilegiato
che un testo stabilisce con un suo antecedente (lo stesso
Mengaldo ammetteva la possibilità che «a un mero com-
puto quantitativo di materiali acquisiti il debito montaliano
verso il linguaggio, o meglio soprattutto il vocabolario,
di Pascoli risulti anche più largo di quello parallelo verso
D’Annunzio»). Per verificare la contiguità fra opere di au-

. M, Da D’Annunzio a Montale, p. .


. M, Da D’Annunzio a Montale, pp. –, passim.
. M, Da D’Annunzio a Montale, p. .
. M, Da D’Annunzio a Montale, p. .
Il prodigio ingannevole 

tori differenti è forse preferibile privilegiare la comunanza


di vocaboli, sintagmi ed enunciati che abbiano rilevanza
semantica, ovvero che concorrano a delineare un tema,
oppure consentano di individuare motivi che ricorrono
con considerevole frequenza, e che soprattutto si rivela-
no funzionalmente inseriti in una omogenea costellazione
di senso. A questi criteri si attengono le pagine che seguo-
no, il cui intento è di riconsiderare l’influenza esercitata
dalla lirica dannunziana sulla formazione della poetica di
Montale (questione, sia osservato per inciso, di recente
assai trascurata, se non addirittura sbrigativamente liquida-
ta); nella consapevolezza che ogni ipotesi di ricostruzione
genealogica non può esimersi dalla interrogazione sulle
specifiche modalità di ricezione di un modello.
Alla luce di queste premesse, è quasi obbligato prendere
le mosse dal sintagma «ossi di seppia», non foss’altro che
per la sua posizione d’eccellenza: oltre a dare il titolo alla
prima raccolta di versi di Montale, esso infatti ritorna —
quasi a sigillo — nell’ultimo componimento della stessa,
Riviere («Oh allora sballottati / come l’osso di seppia dalle
ondate / svanire a poco a poco»). Orbene, il motivo com-
pare in due luoghi di Alcyone, rispettivamente in Ditirambo
III («l’osso della seppia tra le brune carrube / biancheg-
giar sul lido»: –) e nel Novilunio («gli ossi delle seppie»:
), e di esso non risultano precedenti o coeve attestazio-
. Per le nozioni di «tema» e «motivo» si rinvia a C. S, Tema/motivo,
in Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino , pp. –.
. Tutte le citazioni delle liriche di Montale sono ricavate da E. M-
, L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Einaudi, Torino .
Considerata la loro frequenza, onde evitare di appesantire l’apparato delle
note e di affaticare il lettore, si è preferito riportare nel corpo del testo, di
volta in volta, il titolo del componimento seguito dall’indicazione dei versi,
in numeri arabi.
. Le citazioni di Alcyone si intenderanno ricavate dall’edizione critica
 Clericus vagans

ni: il dato non meraviglia, laddove si pensi che d’Annunzio


e Montale sono (insieme con Saba) i primi poeti ‘marini’
della tradizione del Novecento italiano. Inoltre, in entram-
bi gli autori l’osso di seppia fa parte di una compatta, estesa
serie analogica: che comprende, nell’Alcyone, le «alghe livi-
de», i «fuchi ferrugigni», le «nere ulve di radici multiformi»
(Terra, vale!, –), e ancora «le meduse morte», la «lisca
nitida», la «valva» (Ditirambo III, –; ma anche Undul-
na, –: «la valva polita, / la morta medusa, la lisca»),
insomma il «nero tritume» (ivi, ) che il mare deposita
sulla spiaggia o che la corrente dei fiumi accumula alla fo-
ce (il «tritume negro» di All’Alba, ); negli Ossi, «una pietra
/ levigata dal mare» (Riviere, –), «sugheri alghe asterie»
(Mediterraneo II, ), i «ciottoli [. . . ] / mangiati dalla salse-
dine» (Mediterraneo VII, –), tutti reperti della «lordura»,
delle «inutili macerie» degli abissi marini, oppure anche
dell’«informe rottame / che gittò fuor del corso la fiumara
/ del vivere in un fitto di ramure e di strame» (Mediter-
raneo II,  e , e IV, –). Sia in d’Annunzio che in
Montale, dunque, gli ossi di seppia rientrano in un vasto,
variegato catalogo di relitti espulsi dal grembo primigenio

curata da P. Gibellini, Mondadori, Milano  («Edizione Nazionale»);


per tutte le altre raccolte poetiche, da G. ’A, Versi d’amore e di
gloria, voll.  e , edizione diretta da L. Anceschi, a cura di A. Andreoli e
N. Lorenzini, Mondadori, Milano  e . Le norme tipografiche sono
quelle esposte nella nota precedente.
. Nella medesima lirica, all’elenco si aggiungono «una màcera fronda
/ di rovere», «un’arida pigna dischiusa / che [. . . ] sta tra l’orbe d’una medusa
/ dispersa e una bacca d’alloro» (–).
. Ma il ciottolo, in Montale come in d’Annunzio, può anche assumere
una diversa valenza semantica. Negli Ossi, l’Esterina di Falsetto è imma-
ginata come «un’alga, un ciottolo, / come un’equorea creatura / che la
salsedine non intacca / ma torna al lito più pura» (vv. –); in Alcyone, più
precisamente nel sonetto A Gorgo della Corona di Glauco, la donna è «polita
come il ciòttolo del fiume» ().

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