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Accademia di Belle Arti di Roma

Dipartimento di Comunicazione e Didattica dell’Arte

Corso di Diploma di II Livello di Comunicazione e Valorizzazione del Patrimonio


Artistico Contemporaneo

Titolare del Corso di indirizzo: Prof. Claudio Libero Pisano

Tesi di laurea in Storia dell’Arte Moderna

La vanitas nel XVII secolo tra devozione e trasgressione

Candidata: Relatrice:
Floriana Boni Prof.ssa Dalma Frascarelli
Matr. n.16354

Anno Accademico 2020/2021


Prima di procedere con la trattazione vorrei dedicare qualche riga a tutti
coloro che mi sono stati vicino in questo momento di crescita personale e
professionale.
Ricordo distintamente quando una mia cara amica, all’inizio di questo
biennio in Accademia disse, profeticamente, che stavamo per
intraprendere una “grande avventura”. Riallacciandomi a questa sua
metafora, direi che la ricerca alla base di questa tesi magistrale l’ho
vissuta un po’ come un viaggio nel viaggio. Data la complessità della sfida
che mi sono proposta, non posso dire che sia sempre stata una navigazione
a vele spiegate, a cominciare dal fatto che alle volte forse sarebbe stato
più facile rinvenire un messaggio in bottiglia che alcuni dei libri reperiti
a fatica nelle biblioteche (a causa delle forti restrizioni dovute alla crisi
pandemica); inoltre non è mancato il consueto fascino dell’imprevisto: per
quanto il raggiungimento di ogni meta preveda una certa dose di
pianificazione, c’è sempre qualche fattore che esula dai limiti delle nostre
mappe e che interviene a movimentare le cose, spingendoci a perseguire
vie ulteriori o alternative a quelle inizialmente previste e a fare delle
scoperte che non di rado nascono l’una dall’altra.
In tutto questo capirete bene come una buona guida si riveli fondamentale
e io non potrei essere più orgogliosa e più grata di averne avuta una
d’elezione: la professoressa Dalma Frascarelli, che in questi mesi di
esplorazioni e duro lavoro mi ha seguito con immensa disponibilità e cura,
oltre che con tutta la passione di una vera studiosa, motivo per cui la
considero la mia mentore più che una semplice relatrice, quindi un sentito
grazie lo rivolgo in primis a lei.
Ringrazio infinitamente i miei genitori, che con i loro sacrifici e il loro
sostegno mi hanno sempre appoggiata fin dall’inizio del mio percorso di
studi. Senza di loro non ce l’avrei mai fatta a compiere anche questo
traguardo, che spero possa tradursi in nuovo inizio, all’insegna di una
maggiore integrazione tra “vita contemplativa” e “vita pratica”.
Infine, un grazie di cuore va a mia sorella, la leale compagna che è sempre
al mio fianco, all’amore della mia vita che mi supporta e mi sopporta ogni
giorno, ai miei amici di vecchia data e a quelli trovati grazie
all’Accademia. Grazie per insegnarmi anche tutto quello che non si può
imparare dai libri, per arricchire la mia realtà con le diverse prospettive
che mi offrite e per riscaldarmi col vostro calore anche quando dentro di
me ho freddo e paura. Anche in questi ultimi tempi avete dimostrato di
credere in me, facendomi il regalo più bello che si possa desiderare e che
io ricambio sinceramente credendo a mia volta in me stessa e in ciascuno
di voi.
INDICE

PREMESSA .................................................................................................................... 1
1. LA FISIONOMIA DELLA VANITAS: FONTI ICONOGRAFICHE E LETTERARIE .............. 9
1.1 Le fonti iconografiche tra Medioevo ed Età Moderna ..................................... 9
1.2. Caratteri di una concezione allegorica ........................................................... 29
1.3. Le fonti letterarie: Ecclesiaste versus Qohelet ................................................ 32
1.4 La presenza della vanitas nella filosofia antica ............................................... 49
2. PARADIGMI DELLA VANITAS “A FIGURE” NEL CONTESTO ITALIANO........................ 53
2. 1 Il putto e la morte ........................................................................................... 53
2.2 La Maddalena: beata peccatrix ........................................................................ 62
2.3 La Maddalena lasciva e penitente di Giovan Battista Andreini ..................... 72
2.4 Le Maddalene di Guido Cagnacci: tra i sensi e lo spirito ............................... 83
2.5 La prostituzione a Roma tra XVI e XVII secolo e la diffusione
dell’iconografia della Maddalena.......................................................................... 99
2.6. La Vanitas di Caroselli: “una camaleontica fisionomia” ............................. 104
2.7 Donne che non ridono, quasi mai .................................................................. 118
2.8 L’eterodossia del Qohelet e il riso della Vanitas ........................................... 129
2.9 Il riso democriteo ........................................................................................... 146
BIBLIOGRAFIA:......................................................................................................... 172
PREMESSA

Nel Seicento, il secolo che vide la «crisi della coscienza europea» 1,

un’Italia libertina, che agiva nelle accademie, negli studi privati e nelle biblioteche,
conviveva di fatto accanto a quella che nelle liturgie e nei rituali pubblici celebrava il
trionfo del cattolicesimo, grazie all’adozione di un diffuso nicodemismo funzionale non
solo a salvaguardare la sicurezza personale, ma principalmente a garantire la stabilità
sociale. 2

L'attuale solidità di queste affermazioni trova la sua necessaria premessa in un


pionieristico saggio di Giorgio Spini, che negli anni Cinquanta aprì la strada a tutti quei
percorsi di ricerca volti a dimostrare l' inconfutabile esistenza di una cultura
antidogmatica radicata nel cuore del Seicento italiano, con particolare riferimento a centri
di grande vitalità come Venezia, Padova, Genova, Firenze, Pisa, Roma e Napoli. 3 Eppure,
Benedetto Croce recensì il volume di Spini sostenendo che prima del protoilluminismo
partenopeo guidato da Giambattista Vico non esistesse un movimento culturale nostrano
accostabile al libertinismo.4 In tal modo Croce contribuiva a consolidare un paradigma
dominante almeno fino alla metà del XX secolo, secondo il quale il libertinage
seicentesco avrebbe riguardato essenzialmente la Francia e le sue tendenze antireligiose.
Tutt’altra apertura è quella recentemente mostrata da Jean Pierre Cavaillé, che avanza la
proposta di considerare il termine “libertinismo” al plurale, applicandolo a diversi ambiti,
da quello politico a quello filosofico, da quello religioso a quello morale, da quello della
comunicazione e dell’espressione a quello della critica 5. Recependo queste indicazioni,

1
P. Hazard, La Crise de la conscience européen: 1680-1715, Bovin et Cie, Paris, 1935.

2
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, Einaudi, Torino, 2016,
p. 12.

3
Spini G., Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura nelle religioni del Seicento italiano (1950), La
Nuova Italia Editrice, Firenze, 1983.

4
Croce B., Appunti di erudizione, in «Quaderni della Critica», nn. 19-20, 1951, pp. 195-197.

5
Cavaillé J.P., Libertino, libertinage, libertinismo. Una categoria storiografica alle prese con le sue fonti,
in «Rivista storica italiana», 2008, n. 2, pp. 604-55. Per avere un quadro completo dell’argomento che
contempli anche aspetti particolari e singoli autori si consulti la ricca bibliografia on-line curata da J.P.
Cavaillé Bibliographie: Libertinage, libre pensée, irréligion, athéisme anticléricalisme,
http://dossiersgrihl.revues.org/632 e http://dossiersgrihl.revues.org/622.

1
nel fondamentale saggio L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento
(2016), Dalma Frascarelli parla di un fenomeno poliedrico, «irriducibile a una
determinata scelta filosofica», nato piuttosto da «un’ansia di libertà individuale e
collettiva che rivendica l’affrancamento dal dogma, dalla ragione di stato e, più in
generale, da modelli precostituiti, convenzionali ed estranei alle leggi di natura, che
impediscono sia un’analisi critica, sia la formulazione di nuove teorie nei diversi campi
del pensiero e dell’agire umano». 6 Per riassumere questi concetti la studiosa conia
un’immagine dal forte potere evocativo, quella di «un fiume carsico che scorre nel
sottosuolo e a tratti riaffiora in superficie», «affondando le proprie radici nel pensiero
rinascimentale e avvalendosi delle nuove conquiste che si andavano conseguendo in
campo filosofico e scientifico».7 Poche limpide battute che chiariscono quanto fosse
pervasivo il ruolo giocato dalla cultura italiana nello sviluppo di un pensiero moderno,
libero dai vincoli dell’autorità e della fede. 8 Considerando poi la netta separazione tra
pubblico e privato che nel Seicento condiziona ogni aspetto della vita intellettuale e
sociale, sarebbe «assolutamente inconcepibile che le strategie d’insinuazione,
d’equivocità, d’ironia, di sospette denegazioni che si registrano nell’espressione della
parola (che sia orale o scritta), non investano minimamente la semiotica delle immagini». 9

Partendo da simili riflessioni, mi sono rivolta al tema della vanitas - uno dei tratti più
distintivi della cultura barocca - adottando una prospettiva bifocale tipica del XVII secolo,
che continuamente oscilla tra devozione e trasgressione, ufficialità ed eterodossia.
Nell’intento di indagare la correlazione tra queste opposte tendenze ho scelto un
approccio fortemente interdisciplinare, uscendo dall’hortus conclusus

6
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 5.

7
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 4

8
Tra i testi più recenti che illustrano aspetti e temi del libertinismo italiano si veda: Beniscelli A. (a cura
di), Libertini italiani: letteratura e idee tra XVII e XVIII secolo, Rizzoli,Milano, 2012 e Carella C., Roma
filosofica nicodemita libertina. Scienza e censure in età moderna, Agorà & Co, Lugano, 2014.

9
Cavaillé J. P., Pitture libertine, in «Rivista storica italiana», CXXX, fasc. I, 2018, pp. 211-272.
Sul tema delle interconnessioni tra le istanze antidogmatiche e le arti visive si segnalano in particolare:
Frascarelli D., Testa L., La casa dell'eretico: arte e cultura nella quadreria romana di Pietro Gabrielli
(1660-1734) a Palazzo Taverna di Montegiordano, Ist. Nazionale di Studi Romani, Roma, 2004; Id. L’altro
Seicento. Arte a Roma tra eterodossia libertinismo e scienza, Atti del Convegno di Studi presso
l’Accademia di Belle Arti di Roma (14-15 maggio 2015), a cura di D. Frascarelli, «L’Erma» di
Bretschneider, Roma, 2015; Id., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, Einaudi,
Torino, 2016; I filosofi antichi nell’arte italiana del Seicento. Stile. Iconografia e contesti, Atti del
convegno (Roma, Istituto Storico Austriaco, 20 gennaio 2017), a cura di S. Albl e F. Lofano, Artemide,
Roma, 2017.

2
dell’autoreferenzialità formalista per addentrarmi nella fitta selva dell’iconografia e
dell’iconologia.10

L’asse portante per orientarsi nel proteiforme universo iconografico della vanitas è quello
già individuato da Alain Tapié nella tradizionale distinzione tra “area dell’oggetto” (della
natura morta) e “area della figura” (della personificazione allegorica)”11. Per quanto
riguarda la prima, ci sono già diversi studi che hanno fatto storia nella ricerca del punto
di incontro tra la natura morta e «il simbolismo del tempo», basti ricordare il catalogo, a
cura di Alberto Veca, della mostra presso la Galleria Lorenzelli di Bergamo (1981) 12. Il
presente lavoro, pertanto, si concentra essenzialmente sul versante della personificazione
allegorica, attraverso un diramarsi di confronti che spaziano tra la storia dell’arte, della
letteratura, del teatro, della filosofia e delle scoperte scientifiche, attingendo a piene mani
dalla straripante cornucopia della Weltanschauung seicentesca.

Al di là della significativa stratificazione dei contenuti, il mio elaborato si articola nella


semplicità di una struttura bipartita.

Nel primo capitolo contestualizzo l’evolversi del genere artistico della vanitas attraverso
un excursus delle fonti iconografiche e letterarie che ne costituiscono la fondamentale
premessa. Incontreremo quindi le concezioni medievali della morte accentuate dalla
diffusione della peste del 1348, la data simbolica cui si potrebbe far risalire un vero e
proprio exploit delle tematiche macabre in Europa: sull’onda delle coeve predicazioni di
francescani e domenicani, la “nera signora” si personifica negli scheletri viventi della
leggenda dell’incontro dei tre vivi e dei tre morti, nei trionfi della morte, nelle danze
macabre. Al proliferare delle immagini scaturite da questi tre filoni soggiace il medesimo
monito del memento mori, che informa di sé anche l'infinito repertorio delle nature morte.
Da quelle più semplici del XV secolo, costituite da un semplice cranio sul verso di certi
dipinti devozionali di scuola fiamminga, si passa a quelle più complesse del XVII secolo,
che ricompongono allegoricamente una realtà frantumata in una miriade di simboli, in cui

10
Cfr. Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 25; Panosfky
E., Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino, 2010 (1a ed. 1955), pp. 6-44.

11
Les Vanités dans la peinture au XVIIe siècle. Meditations sur la richesse, le dénuement et la rédemption,
Catalogo della mostra (Caen, 1990; Parigi 1990-1991), a cura di A. Tapié con la collaborazione di J.M.
Dautel e Ph. Rouillard, Parigi, Musée du Petit Palais, 1990.
12
Vanitas. Il simbolismo del tempo, a cura di A. Veca, Catalogo della mostra (Bergamo, Galleria Lorenzelli,
1981), Galleria Lorenzelli, Bergamo, 1981.

3
prendono forma i fasti così come i timori di un’epoca. Daremo un rapido sguardo a questo
genere di pittura tramite le classificazioni adottate da Ingvar Bergstrӧm, osservando anche
come gli argini dei suoi raggruppamenti oggettuali spesso si rompano in modo che in una
stessa opera i rimandi alla Vita contemplativa, alla Vita pratica e alla Vita voluttuaria
convivano con l’immancabile testa di morto, le bolle di sapone e i fiori in via di
disfacimento. È proprio questo il repertorio che circoscrive i primi esempi di vanitates
autonome della storia dell’arte occidentale: un dipinto di Jacques de Gheyn (1603) [fig.
8], attualmente esposto presso il Metropolitan Museum di New York, cui rimanda molto
da vicino un disegno realizzato dallo stesso autore (nel 1599) [fig. 9], ora al British
Museum di Londra.

Dopo la breve ricognizione sulle prime elaborazioni visive del tema, si passa
all’introduzione del significato etimologico del termine ‘vanitas’ ripercorrendo la resa ad
sensum della Vulgata di San Girolamo, che trasforma il libro veterotestamentario del
Qohelet nell’Ecclesiaste, da cui è tratto il celebre motto «Vanitas vanitatum et omnia
vanitas» («Vanità delle vanità, tutto è vanità»). Occorre dunque soffermarsi sul confine
che si viene a delineare tra il carattere fortemente problematico dell’originale fonte
ebraica - vera e propria «pietra di inciampo» nel percorso di canonizzazione delle Sacre
Scritture13- e le forzate reinterpretazioni ascetiche e finalistiche, maturate nel solco di quel
contemptus mundi (disprezzo del mondo) che salda la traduzione di San Girolamo a testi
quali il De imitazione Christi e gli Esercizi Spirituali di S. Ignazio da Loyola. Questo
filone esegetico ha spinto il senso comune ad associare la fonte biblica e la produzione
artistica che ne deriva ad un unico significato: quello che ripudia i desideri, i piaceri, i
beni e le conquiste terrene dell’uomo, considerati vuoti e vani in confronto alla
prospettiva della salvezza e della vita eterna. Ma, se andiamo a ben vedere, il significato
del Qohelet è ancor più radicale di così e possiamo efficacemente accostarlo tramite le
parole del poeta Guido Ceronetti: «Un Infinito vuoto / dice Qohelet/ Un infinito niente/
Tutto è vuoto niente». 14 Come sostiene Piero Stefani «all’origine l’autore del Qohelet non
aveva certo l’intenzione di preparare i suoi lettori all’ingresso nella vita vera ed eterna
attraverso il suono di mesti, se non lugubri rintocchi». 15 Dunque, il tema centrale di questo

13
Ravasi G., Qohelet. Il libro più originale e «scandaloso» dell'Antico Testamento, San Paolo Edizioni,
Cinisello Balsamo, 2012.

14
Ceronetti G., Qohélet. Colui che prende la parola, Adelphi, Milano, 2001.

15
Stefani P. (a cura di), Qohelet, Garzanti, Milano, 2014, p. 56.
4
testo è la realtà nel momento in cui viene meno, a sottolineare la precarietà di ogni cosa
e di ogni essere sulla terra, di cui è necessario prendere consapevolezza proprio per
valorizzare la vita stessa in un’ottica di coraggioso disinganno.

Va da sé che l’universalità della saggezza della vanitas, intesa come semplice riflessione
sulla nostra finitudine, sconfini da un ambito esclusivamente biblico e religioso,
allargando le proprie radici fino ad affondare negli «esercizi spirituali» praticati dai
filosofi antichi, ed in particolare da stoici ed epicurei. 16 Ecco perché, in conclusione al
primo capitolo, sulla base della lezione del filosofo Pierre Hadot, farò riferimento alla
«centralità dell’esercizio della morte», il filo rosso che lega la filosofia greca e romana,
l’anacoresi medievale e gli Esercizi Spirituali dei gesuiti. Nei «modi di vivere» dello
stoicismo e dell’epicureismo, però, esercitarsi a morire, significa soprattutto esercitarsi a
vivere davvero, da un lato accentuando l’importanza dell’istante presente e, dall’altro,
innalzando lo sguardo ad una «prospettiva universale». 17 Tale prospettiva, già promossa
da Platone, non ha niente a che vedere con le fughe escatologiche prospettate dal
cristianesimo, ma anzi aiuta a non temere l’estinguersi del proprio soffio vitale, adottando
la «visione dall’alto» della Natura stessa. 18

Nel secondo capitolo, l’idea senechiana del «cotidie morimur» (ovvero l’idea che il
giorno della nostra nascita segna anche il cammino che ci condurrà inevitabilmente alla
nostra fine) trova un’eco nell’iconografia del putto e la morte. Questo soggetto -
riprendendo l’immagine dell’amorino dalla scultura funeraria romana e dal suo revival
rinascimentale - nel Seicento trova alcune esemplificazioni magistrali nelle opere di Luigi
Miradori, anche detto il Genovesino [fig. 13], che più volte torna a raffigurare delicati
eroti, adagiati sull’elemento macabro del teschio in un languido sonno mortifero. La
«pura gioia di esistere»19 degli antichi, incarnata da Eros, incontra dunque il memento
mori in chiave cristiana, in immagini particolarmente emblematiche dei forti contrasti di
cui vive il genere della vanitas, sia dal punto di vista formale che contenutistico.

16
Cfr. Hadot P., La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson,
Einaudi, Torino, 2008, passim.

17
Ivi, pp. 184-187.

18
Ivi, p. 187.

19
Ivi p. 10.

5
Nella triade Eros- Chronos- Thanatos cioè Amore, Tempo e Morte (tre aspetti
imprescindibili nella vita di qualunque essere umano e tre degli argomenti principali di
tutta la speculazione intellettuale, filosofica, religiosa) si inserisce anche il punto focale
da cui ha tratto origine questa tesi: il rapporto dicotomico che intercorre tra la Maddalena
penitente di Guido Cagnacci (1622-1627 ca.) [fig. 14] e la Vanitas di Angelo Caroselli
(1620-25 ca.) [fig. 18], due opere grosso modo coeve, nate entrambe a Roma, ove sono
tutt’ora conservate presso le Gallerie Nazionali d’Arte Antica Barberini Corsini. Come
vedremo, tanto più l’opera del primo ci sembra conturbante e quasi impudente nella sua
sensualità, quanto più si scoprirà che, in realtà, ad essere ben più eterodossa e
anticonvenzionale è quella del secondo.

L’intensa spiritualità religiosa che permea la Maddalena di Cagnacci è quella che il


pittore di Santarcangelo condivide con il suo tempo: egli, infatti, sceglie di rappresentare
la peccatrice redenta ponendo l’accento sul suo valore di exeplum virtutis; ne segnala
l’avvenuta conversione e il distacco dal mondo attraverso i tipici attributi simbolici del
teschio, del crocifisso e della sferza di ferro; ne esalta la santità attraverso la posa
dell’estasi, concetto posto in rilievo dal fiorire dei trattati mistici tra Cinque e Seicento
(uno su tutti è quello rappresentato dalla Vita di Santa Teresa d’Avila, canonizzata nel
1622). Certamente, l’artista dimostra una certa libertà nel voler raffigurare un corpo nudo
in tutto il suo crudo realismo, mentre la Controriforma cercava di limitare sempre più il
nudo nell’arte, ma, del resto, l’escamotage ancora possibile consisteva nell’ammantare
l’erotismo di corpi senza veli con una retorica storica, religiosa, mitologica ed allegorica,
una retorica perfettamente adattabile alla figura della Maddalena. In un simile soggetto,
cui si dedicò in diverse occasioni, Cagnacci riesce a compenetrare, forse come
nessun’altro, i concetti di “anima” e “corpo”, dando vita ad «una sorta di spiritualità del
corpo, verrebbe da dire, o di fisicità dell’anima» 20 per usare la felice formula di Daniele
Benati, che ben si confà anche alla Conversione della Maddalena del Norton Simon
Museum di Pasadena (1661-1662), altro vertice altissimo della produzione cagnaccesca,
ispirato alla Maddalena lasciva e penitente di Giovan Battista Andreini.

Quest’ ultima opera teatrale, che ben dialoga con le Maddalene di Cagnacci, occupa una
sezione a sé stante, poiché dal confronto con la sua spericolata ambiguità risalta ancor di

20
Cfr. Benati D. Il corpo e l’anima, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni,
a cura di D. Benati e A. Paolucci, Catalogo della mostra (Forlì, Musei di San Domenico, 2008), Silvana
editoriale, Cinisello Balsamo 2008, p. 50.

6
più l’autenticità del “teatro interiore” del pittore romagnolo. Tra la rappresentazione
maddaleniana di Andreini e quella di Cagnacci l'unico vero punto di contatto è l’aspetto
erotico e carnale della donna, ma se l’arte drammaturgica del primo lascia volutamente
irrisolta la dualità tra i poli opposti della beata-peccatrix, l’arte pittorica del secondo
riesce invece a fondere queste due anime, sublimandole una nell’altra. 21

L’insistenza della Controriforma sul mito maddaleniano e il diffondersi della sua


iconografia sono in gran parte da mettere in relazione all’espansione endemica del
fenomeno della prostituzione (specialmente in città come Roma e Venezia). Motivo per
cui tratto questo aspetto come un anello di congiunzione tra la figura di Maddalena e la
protagonista della Vanitas Barberini di Caroselli: se la prima rappresenta l’archetipo della
cortigiana, la seconda è il (probabile) ritratto di una cortigiana romana in carne e ossa.
Caroselli affida il proprio lato beffardo a quello dell’effigiata, mettendoci di fronte alla
provocazione di una donna che ride mostrando i denti, dando prova di un comportamento
che per i canoni dell’epoca era del tutto antitetico rispetto a quello di una “buona
cristiana”. Ancor più eversivo, però, risulta il contrasto tra il riso aperto e marcato e il
suddetto motto dell’Ecclesiaste (Vanitas vanitatum et omnia vanitas), riportato da un
cartiglio sullo sfondo dell’opera. Sono proprio questi due elementi quelli che vengono
indagati a fondo nel paragrafo dedicato alle “Donne che non ridono, quasi mai” e in quello
che verte su “L’eterodossia del Qohelet e il riso della Vanitas”: è qui che si
concentreranno gli aspetti più originali e più densi della ricerca, quelli che si propongono
di approfondire l’intuizione avuta da Frascarelli, secondo cui il dipinto di Caroselli «non
pare rimandare a virtù cristiane», 22 bensì alla matrice epicurea del Qohelet stesso. Per
quanto sfumati, i contorni di tale matrice affiorano con una certa evidenza quando si
considera la centralità che Qohelet ed Epicuro attribuiscono al tema del piacere: entrambi
lo trattano come sommo bene, pur con tutte le distinzioni del caso. Come primo elemento
di valutazione, basti pensare alle seguenti parole tratte dal testo biblico: «Godi la vita con
la donna che ami, per tutti i giorni della vita che Dio ti dà sotto il sole […] tutto quello
che ti occorre di fare fallo mentre sei in vita, perché non ci sarà più pensiero né
conoscenza, giù nel soggiorno dei morti, dove stai per andare» (Qo 9,9-10). Sembra

21
Cfr. Carandini S., Inchiostri, sudori e lacrime: il teatro sacro di Giovan Battista Andreini comico
dell’Arte, in Chiabò, Doglio (a cura di), I Gesuiti e i primordi del teatro barocco, I Gesuiti e i primordi del
teatro barocco in Europa, Atti del XVIII Convegno Internazionale (Roma, 26-29 ottobre 1994; Anagni, 30
ottobre 1994), Roma, 1995, pp. 441-456.
22
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 67.

7
proprio lo stesso invito che ci rivolge anche il riso della procace fanciulla, che solo in
apparenza stride con il messaggio alle sue spalle, per poi riconciliarsi con esso.

L’opera di Caroselli costituisce un unicum, ma nel Seicento la vanitas è accostata anche


ad un’altra risata: quella di Democrito, l’antico sapiente che - stando agli aneddoti -
riusciva ridere di tutto, tenendosi in bilico tra saggezza e follia. Cogliendo questo nesso,
Frascarelli avanza un suggestivo accostamento tra la Vanitas Barberini di Caroselli e un
Democrito di Jusepe de Ribera [fig. 22] in collezione privata (1615). Proprio al filosofo
di Abdera dedico l’ultimo paragrafo della mia tesi, mettendo in luce gli elementi che ne
fanno un pilastro della rivoluzione scientifica e culturale del XVII secolo. Quel che
intanto posso accennare fin d’ora è che il suo «scetticismo integrale» apre ad un’ulteriore
accezione della vanitas, quella di tipo gnoseologico, strappando il mondo alla
provvidenza e riconsegnandolo ad un caotico movimento infinito di atomi. 23

Com’è possibile che tutto questo possa convivere accanto alle recrudescenze inquisitorie
della Controriforma? La domanda sorge spontanea, eppure – al netto delle restrizioni
imposte alla libertas pingendi e alla libertas philosophandi – alcune opere problematiche
vengono traghettate fino a noi dalla loro stessa capacità dissimulatoria, come ben
argomenta Cavaillé:

[…] vestendo gli abiti del filosofo volgare il pittore poteva permettersi la libertà di
trasmettere un messaggio che, espresso con la parola o la scrittura, sarebbe stato del tutto
inaccettabile in quella determinata configurazione storica. È la sua forza e al contempo la
sua debolezza: l’immagine, letteralmente appunto, non parla. Per quanto ovvio sembri il
suo potenziale eversivo, rimane protetta, direi fortemente protetta dal suo stesso mutismo;
il discorso interpretativo le rimane per definizione esteriore: esso ricade nella
responsabilità dell’interprete. Al contempo, non c’è dubbio che questo dispositivo di
delegazione della parola e dell’interpretazione prodotto dal mutismo stesso
dell’immagine è la protezione più efficace che ci sia nella trasmissione dei messaggi
sovversivi. 24

23
Ivi, p. 65.

24
Cavaillé J. P., Pitture libertine, cit.
8
1. LA FISIONOMIA DELLA VANITAS: FONTI
ICONOGRAFICHE E LETTERARIE

1.1 Le fonti iconografiche tra Medioevo ed Età Moderna


Se il pensiero della fatuità di tutte le cose è antico quanto l’infanzia dell’uomo, la vanitas
intesa nella sua veste di genere artistico autonomo si afferma solo nel Seicento, andando
a configurare un vasto universo allegorico estremamente emblematico di quel periodo. 25
La sua codificazione pittorica però si innesta su radici culturali che affondano in
profondità, soprattutto nel corso dei tre secoli precedenti. Ingvar Bergstrӧm, infatti, ha
rilevato che l’arte barocca «pur con il suo spiccato senso del fasto e del godimento di ogni
aspetto della creazione, presenta nel suo tessuto vitale tenaci sopravvivenze del rigorismo
medievale». 26

E’ significativo che persino Falstaff, l’estremo e melanconico gaudente shakespeariano


abbia in mente l’immagine di una «Death's head» parlante e ammonitrice: «Basta buona
27
Doll, non parlare come un teschio; non farmi ricordare la mia fine».

L'Europa del Medioevo e del primo Rinascimento è percorsa dall'immagine dello


scheletro trionfante che ebbe nel Seicento il suo massimo momento di gloria, come ci
ricorda Baudelaire:

Lo scheletro fa la sua apparizione nel Medioevo, dove si atteggia e si mostra con tutta la
sua cinica sprezzatura […] Poi da quel momento sino al XVII secolo […] vediamo lo
scheletro fiorire felice in tutti i soggetti a cui gli è concesso di prendere parte. Presto
l’artista comincia a comprendere quanta bellezza misteriosa e astratta fosse in questa
magra carcassa, cui fa da abito la carne, e che è come l’armatura del poema umano. 28

La data simbolica cui si potrebbe far risalire un vero e proprio exploit delle tematiche
macabre in Europa è il 1348, quando si diffuse la devastante epidemia di peste nota col

25
Cfr. Vanitas. Il simbolismo del tempo, a cura di A. Veca, Catalogo della mostra (Bergamo, Galleria
Lorenzelli, 1981), Galleria Lorenzelli, Bergamo, 1981, p. 30.

26
Bergstrӧm I., Natura in posa. Aspetti dell’antica natura morta straniera nelle collezioni private
bergamasche, Galleria Lorenzelli, Bergamo, 1971, p. 18.

27
Shakespeare, Enrico IV, parte 11, atto II. 4.

28
Baudelaire C., Salon de 1859, in Baudelaire C., Scritti sull’arte, Einaudi, Torino, 1981.

9
nome di “morte nera”, un morbo micidiale che ridusse di un terzo la popolazione europea
(con circa trenta milioni di persone decedute) 29 e influì pesantemente sull’immaginario
collettivo: considerazioni sulla morte in generale, e su quella di ciascuno in particolare,
incupivano quotidianamente l’umana esistenza.

Prima del XIV secolo, infatti, la concezione medievale dominante, maturata in ambiente
monastico, si limitava per lo più ad associare all’esperienza della morte l’idea della
polvere, secondo quanto recita il ben noto passo biblico di Genesi: «Con il sudore del tuo
volto mangerai il pane/ finché tornerai alla terra, /perché da essa sei stato tratto: /polvere
tu sei e in polvere tornerai!» (3, 19).30 Parole a cui fanno eco quelle di un altrettanto
celebre passo veterotestamentario, tratto dell’Ecclesiaste o Qohelet (un libro su cui
torneremo ampiamente nel corso di questa trattazione): «Tutti sono diretti verso la
medesima dimora: / tutto è venuto dalla polvere / e tutto ritorna nella polvere» (3,20). 31

Nel Trecento nacquero iconografie di ben altro impatto drammatico. Alla loro veloce
diffusione contribuì non solo il propagarsi della peste, ma anche l’altrettanto massiccia
opera di predicazione intrapresa dagli ordini mendicanti, i quali si fecero rapidamente
portavoce di un nuovo messaggio popolare di morte e penitenza associate:

L’improvvisa e vasta diffusione dell’idea di futilità dei beni terreni nell’autunno del
Medioevo è certamente dovuta alle predicazioni dei frati francescani e domenicani in tutta
l’Europa. I loro sermoni esortavano al pentimento e alla conversione ma soprattutto
mettevano l’accento sul pericolo di una morte improvvisa che sorprendesse l’uomo nel
peccato. Nei loro sermoni la vita altro non era se non costante preparazione alla morte e,
di conseguenza, tutto ciò che nel mondo poteva indurre a perdere il senso dell’eterno era
causa prima della perdizione dell’anima.32

Del resto, come chiarisce Le Goff in merito alle preoccupazioni escatologiche dell’epoca,
«quello che angustia sopra tutto gli umani non è tanto la morte in sé stessa - anche se il

29
Helleiner K.F., in C. Bonanno, L’Età Medievale nella critica storica, a cura di G. Di Caro, Liviana,
Torino 1995, pag.214: «[…] tutta la documentazione disponibile fa pensare che la perdita iniziale di vite
umane, anziché venir compensata da un incremento naturale, sia stata seguita in molti paesi europei da un
ulteriore drastico e continuo declino demografico dopo il 1360 e il 1370».

30
De Rosa G., Età Medievale, Minerva Italica, Milano 1989, pp. 324-325. Riferimento presente anche in
Melazzo G., Vanitas Vanitatum, lettura e analisi di un tema figurativo nella cultura del Seicento europeo,
Tesi di laurea, Facoltà di Lettere di Palermo, Relatore Prof. T.Pugliatti, A.A. 2002-2003, p. 1.

31
Traduzione della Bibbia CEI 2008, https://www.bibbiaedu.it, ultimo accesso: 19/04/2021

32
Scalabroni L., “Vanitas” Fisionomia di un tema pittorico, Ed. dell’Orso, Alessandria, 1999, p.28

10
momento e le condizioni della morte acquisteranno via via una maggiore importanza nel
corso del Medioevo - quanto la loro sorte dopo la morte». 33

Una splendida traduzione visiva di tale concezione è il ciclo pittorico di Buffalmacco


[fig.1] per il Camposanto di Pisa (1336 - 1341). Questa geniale interpretazione in chiave
naturalistica ed iper-espressiva della lezione di Giotto può essere letta, infatti, come la
messa in figura dei sermoni apocalittici e ascetici di matrice domenicana.

La Morte afferma il suo potere attraverso una serie di contrasti: il giardino d’amore dove
belle ragazze suonano e cantano felici, messo a confronto con l’incontro dei tre vivi con
tre morti. E’ questo il dettaglio più celebre della scena. Un’allegra cavalcata di bei giovani
si inoltra nel bosco per una battuta di caccia e qui incontra tre cadaveri rappresentati in
tre diversi stadi di putrefazione nelle loro bare scoperchiate. I cavalli scartano, i cani
ringhiano fiutando l’odore della Morte mentre un cavaliere si tura il naso e nel gruppo dei
vivi si diffonde lo sconcerto. In un’altra porzione di affresco si vede la Morte, la grande
falciatrice34 in volo, che miete le sue vittime trascurando proprio i poveri, i malati, gli
afflitti, che la invocano come rimedio ai loro mali, accanendosi invece contro i potenti e
i facoltosi di questo mondo: re, papi, vescovi, giudici, notabili di vario genere. Di tutti
costoro, uniti dalla falce della Morte, i demoni e gli angeli si disputano le anime. C’è poi,
in qualità di fondamentale chiave di lettura, il contrasto tra la vita felice del giardino
d’amore e dell’allegra cavalcata e la solitudine dei santi anacoreti che, nel deserto,
vincono la morte consumando la vita nella penitenza e nella preghiera.

Da questo capolavoro, che si colloca ai vertici della pittura italiana del Trecento, è dunque
possibile riallacciarsi a ben due filoni iconografici che, nell’evidenziare la

33
Le Goff J., Il tempo finale e l’aldilà in Immagini per un Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2000, p.104

34
La Morte, come Saturno, era rappresentata con un falcetto o una falce da tempi assai antichi, basti pensare
ai Vangeli di Uta d’epoca ottoniana (inizio XI sec.) - dove è rappresentata con un falcetto - o alla Bibbia di
Gumpert (ante 1195), dove invece è rappresentata con la falce. Ambedue i motivi possono spiegarsi con
Apocalisse, XIV, 14-17 e con passi come Isaia, XL 6-8. Cfr. Panofsky E., Studi di iconologia. I temi
umanistici nell’arte del Rinascimento, Torino, 1999, (Studies in Iconology, New York, 1939), p. 100.
Sempre Panofsky, nel medesimo saggio (p. 96), chiarisce il rapporto tra la figura di Kronos-Saturno e quella
della Morte: «Il falcetto, tradizionalmente impiegato come utensile agricolo - e quindi degno attributo
iconografico del Saturno romano preposto a sovrintendere l’agricoltura - tra i dotti autori del IV e del V
secolo a.C. cominciò ad essere interpretato come simbolo dei tempora quae sicut falx in se recurrunt [del
tempo che come la falce si ripiega in se stesso]; e la favola mitica, che egli avesse divorato i propri figli,
significava, si disse, che il Tempo, già chiamato “dai denti aguzzi” da Simonde ed edax rerum da Ovidio,
divora tutto ciò che ha creato».

11
contrapposizione tra vita e morte, preludono alle vanitates del XVII secolo: il trionfo della
morte ma anche l’incontro dei tre vivi e dei tre morti.

Cominciamo da quest’ultimo, poiché rappresenta il primo tema macabro che ebbe larga
diffusione nella cultura figurativa occidentale: sull’onda delle coeve predicazioni, fece la
sua comparsa già nella seconda metà del XIII secolo, rimanendo in voga fino al
Cinquecento. La leggenda che sottende a tale iconografia è quella illustrata, con una certa
continuità, a partire dagli affreschi della Cattedrale di Atri35, dai dipinti murali del Sacro
Speco di Subiaco, fino ai famosi affreschi del Camposanto pisano: tre giovani
gentiluomini di alto rango, durante la caccia, si imbattono all’improvviso in tre cadaveri
in decomposizione e da questi vengono ammoniti sulla vacuità degli onori terreni di fronte
alla morte: «Voi sarete come noi siamo: in anticipo miratevi in noi»36. L’aspetto peculiare
di questo racconto è dunque il suo volersi presentare come una sorta di specchio in cui il
vivo è chiamato a contemplare il futuro disfacimento del proprio corpo, la conseguenza
più immediata ed empiricamente constatabile del trapasso. Il vivo pertanto non scorge la
morte in senso astratto o generico, ma la propria stessa morte, con il risultato di un ben
diverso coinvolgimento emotivo.

Prima del diffondersi di questa iconografia, nelle rappresentazioni dell’alto Medioevo le


immagini della morte, intesa come riprovevole stato di putrescenza, erano piuttosto rare37.

35
È controverso se la prima descrizione dell'incontro sia avvenuta in forma pittorica (come sembra attestare
la raffigurazione nella Chiesa di Santa Maria Assunta ad Atri, risalente alla seconda metà del XIII secolo)
o poetica, ma di certo la narrazione scritta apparve in un racconto del 1275 incluso nell'opera Dits moraux
di Baudouin de Condé, un trovatore di Valenciennes, menestrello alla Corte della contessa Margherita II
delle Fiandre.
Cfr. P. Vigo, Le danze macabre in Italia, Istituto d’arti grafiche, Bergamo, 1901, digitalizzato da Google,
https://archive.org/stream/LeDanzeMacabreInItalia1901/Le_Danze_macabre_in_Italia_1901_djvu.txt,
ultimo accesso 23/04/2021

36
Cfr. Mâle E., L’art religieus de la fin du moyen âge en France. Etude sur l’iconographie du moyen âge
et sur ses sorces d’inspiration, A.Colin, Paris, 1908. Per un approfondimento del sentimento del macabro
nel tardo Medioevo si consiglia anche la lettura di Baltrusaitis J., Il medioevo fantastico, Adelphi, Milano
1955. Mentre una particolare attenzione alle manifestazioni del senso della morte nell’arte dei secoli XV e
XVII secolo tra Francia e Italia è riscontrabile in Tenenti A., Il senso della morte e l’amore della vita nel
Rinascimento, Einaudi, Torino, 1957.

37
Dall'XI secolo in poi, quando acquisì nuova importanza, il monachesimo si rivolse con entusiasmo agli
scritti di quei primi autori ascetici che avevano sottolineato l’aspetto orrido connesso alla morte, e per la
prima volta tentò anche di illustrarli graficamente. Un trattato monastico del VI secolo, il cosiddetto Klimax,
di Johannes (abate del monastero sul Monte Sinai), era particolarmente noto tra i dotti, a causa della spiccata
insistenza macabra sul tema della morte e fu tramandato da numerosi manoscritti bizantini dell’XI e XII
secolo, illustrati in modo nuovo e realistico con decine di rappresentazioni di cadaveri drasticamente fedeli,
le prime ad inaugurare questa tipologia iconografica nell’arte cristiana. Cfr. Janson H. W., The putto with
the Death’s Head, in «The Art Bullettin», 19, 1937, pp. 427.

12
Dalle rappresentazioni dell’Apocalisse o del Giudizio Universale prorompeva un “senso”
della morte profondamente iscritto nelle logiche del cristianesimo, ma il tema - almeno
nelle opere d’arte pubblica - non era mai direttamente raffigurato attraverso l’impietosa
insistenza sul destino delle povere membra dell’uomo. Immagini come quelle del
Camposanto pisano esprimono invece un ribrezzo che da un lato è finalizzato ad
avvicinare il credente ai valori spirituali dell’esistenza, ma dall’altro «è anche espressione
di una sensibilità più laica che mostra il suo amore per la vita terrestre attraverso l’orrore
per l’annientamento fisico»38.

E’ ben possibile che lo spettatore si “converta” o venga assalito dalla paura o dal rimorso,
ma non è meno probabile che esso trovi in quello spettacolo un incentivo o una conferma
del suo orrore per l’annientamento fisico. Invece di esprimere il desiderio di raggiungere
la beatitudine celeste, questo tema sembra tradurre un irresistibile orrore che non si sente
più di poter sormontare».39

Un’altra immagine particolarmente emblematica in tal senso è quella del trionfo della
morte, la quale - come ci ricorda Luisa Scalabroni - «deve la sua diffusione alla fortuna
incontrata dall’intera serie dei Trionfi petrarcheschi, che rappresentava un sapiente
compromesso tra le esigenze della nuova cultura laica e quelle della tradizione
cristiana». 40

L’ ignoto e mirabile autore41 del Trionfo della Morte [fig. 2] in Palazzo Abatellis a
Palermo (1450 ca.) ci ha restituito una delle più crude e magnifiche variazioni di un tema
che ai suoi albori, durante il XIV secolo, si accompagnava a quello del Giudizio, per poi
acquisire una sua peculiare indipendenza. Ecco perché, pur ispirandosi al biblico
cavaliere del Libro dell’Apocalisse dello Pseudo-Giovanni, il Trionfo palermitano al
contempo ci presenta la Morte «non come legge decretata da Dio, ma come potenza

38
Scalabroni L., op. cit., p. 29.

39
Tenenti A., Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, cit., p. 432.

40
Scalabroni L., op. cit., p. 30. Va comunque precisato, a rigore, che il testo petrarchesco, pur fissando lo
schema iconografico di tali rappresentazioni, presenta la morte ritta su un carro trainato dai buoi in atto di
brandire trionfalmente una falce.

41
L’autore di questo complesso capolavoro (che si ritrae insieme al suo assistente all’estrema sinistra
dell’affresco) nella sua audace stilizzazione grafica e plastica e nella sua insistenza ossessiva sui dettagli
macabri, così come sulle raffinatezze del gotico cortese, fonde in sé echi della cultura mediterranea e di
quella transalpina. Pertanto si ipotizza che potrebbe essersi formato nel Regno di Napoli. Qui infatti, senza
bisogno di viaggiare troppo, sotto la dominazione di Renato d’Angiò (1438-42) e di Alfonso I d’Aragona
(1442-58), si configurano due diversi momenti di fervidi scambi con la cultura fiamminga.

13
autonoma»42. Essa irrompe ferocemente nella paradisiaca quiete di un hortus conclusus
di delizie cortesi e piaceri mondani, galoppando inesorabile in sella ad un destriero non
meno spettrale di lei43 e lastricando di morti il suo cammino. Originariamente questa
personificazione della Morte atterriva i suoi spettatori dal chiostro di Palazzo Sclafani, il
primo ospedale pubblico di Palermo (commissionato da Alfonso I d’Aragona): non a
caso, infatti, il terribile scheletro fa saettare i suoi dardi senza alcun riguardo per i
privilegiati, che anzi sono i primi a finire calpestati sotto gli zoccoli del suo cavallo, a
simboleggiare l’opera di livellamento sociale prodotto dalle malattie e in primis dalla
peste nera che imperversava in Europa da più di un secolo 44.

Guido Scalfani, notando che la massa aggredita con maggiore brutalità è prevalentemente
costituita dalle gerarchie ecclesiastiche, ha avanzato anche un’ulteriore ipotesi
interpretativa, suggerendo che il dipinto non sia altro che una «dichiarazione di ostilità al
potere temporale della Chiesa ed alle sue interferenze nell’allora governo siciliano». 45
Ciò non toglie che il significato primario dell’affresco resti quello che, più
universalmente, ci ricorda come «di fronte alla morte siamo tutti uguali [...] ma siamo
soprattutto sempre gli stessi». 46

Nel novero delle numerose rappresentazioni del trionfo della morte che dalla metà del
XIV secolo e per tutto il XV e il XVI si diffusero in Europa, particolarmente interessante
ai fini del presente studio è anche il famoso Triumph van den Doot [fig. 3] di Pieter
Bruegel il Vecchio, realizzato verosimilmente intorno agli anni 1562-63 e conservato al
museo del Prado a Madrid.

L’angolo in basso a sinistra del dipinto è occupato dalla figura semi-sdraiata di un sovrano
a cui lo scheletro alle sue spalle mostra una clessidra che segna la fine del suo tempo
terreno; vicino a lui un religioso morente, sorretto da uno scheletro con il copricapo

42
Cfr. Scalabroni L., op. cit., p. 30. A sostegno di questa tesi, notiamo come nel Trionfo della Morte in
Palazzo Abatellis non vi sia traccia di redenzione: non vediamo, come in quello pisano, angeli e demoni
impegnati nella disputatio animae, ma solo l’avanzata trionfale e ferocemente beffarda della fine.

43
Una curiosità degna di nota è che fu proprio lo scheletrito cavallo del Trionfo della Morte di Palermo ad
ispirare quello della Guernica di Picasso per la sua inedita forza espressiva.

44
Per una lettura più approfondita del Trionfo della Morte palermitano si consiglia la lettura di Cometa M.,
Il Trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità, Quodlibet, Macerata, 2017.

45
Scalfani, G., Il Trionfo della Morte di Palazzo Sclafani a Palermo. Suo significato e possibili riferimenti
col Trionfo della Morte del Camposanto Pisano, in «Memorie Domenicane», Nuova Serie, n. 33, 2002.

46
Cometa M., op.cit.
14
caratteristico dei prelati, sta quasi per accasciarsi sopra una donna riversa faccia a terra,
che la Morte ha preso incurante del bambino che ancora stringe tra le braccia; poco più
in là uno scheletro sta tagliando la gola di un pellegrino con sadica efferatezza: ancora
una volta la falce della sinistra mietitrice non fa distinzioni di censo, genere o età. Tra la
figura del sovrano e quella dell’ecclesiastico un altro scheletro attinge a piene mani da
barili ricolmi d’oro, sottolineando l’inutilità della ricchezza. L’angolo opposto, in basso
a destra, è quello dove si materializza maggiormente il contrasto con la parte superiore
dell’opera, ove regna la sulfurea desolazione che l’armata delle tenebre ha lasciato dietro
di sé. Procedendo verso il primo piano della composizione, il pittore ne segue l’avanzata
traducendola in uno scomposto e affollatissimo scontro che non lascia alcuno scampo per
i vivi: tra le loro urla di puro panico, orde di scheletri sono intente ad ammassare mucchi
di cadaveri e a pressare l’umanità superstite nel passaggio obbligato di una stanza-galera
con porta levatoia. Il parapiglia generale si estende fino ad interferire con un surreale
banchetto in cui si servono teschi su vassoi d’argento. A quel punto un guerriero,
sfoderando la spada, si getta invano nella mischia contro l’esercito dei morti; mentre una
dama cerca di sottrarsi ad un ossuto abbraccio fatale; un giullare cerca rifugio sotto la
tavola, tra vari giochi d’azzardo sparpagliati; uno scheletro in abiti da paggio, con indosso
la maschera sorridente di un essere umano, invece di servire il vino contenuto negli otri,
lo rovescia per terra, proprio a due passi dalla coppia di musici, troppo presi dal piacere
dell’arte e dei sensi per lasciarsi turbare dal mortifero violino che adombra il loro canto.

Tra le tante invenzioni elencate fin qui ve n’è una in particolare che risulta totalmente
inedita: non solo Bruegel sceglie di rappresentare uno scheletro negli abiti di un essere
umano, ma gli fa pure indossare una maschera da attore. Quest’ultimo dettaglio, simbolo
per eccellenza di inganno e falsità del reale, incontrerà una certa fortuna nelle future
composizioni delle vanitates. 47

Accanto alla libera fantasia del genio creativo, riscontriamo la compresenza di varie
tradizioni iconografiche: come quella dello scheletro a cavallo che campeggia in
posizione più o meno centrale, alla testa dell’esercito dei morti (che l’autore potrebbe

47
Veca A., in Vanitas. Il simbolismo del tempo, cit., p.312: A commento di una Vanitas con Putto del
pittore fiammingo Pieter Boel in cui viene raffigurata una maschera che nasconde un teschio lo studioso
scrive: «Se la maschera è ricorrente per indicare la frode e la finzione, il teatro, in questo caso l’associazione
fra maschera e teschio produce il singolare effetto di un “prima” e un “dopo”, di una apparenza (la
maschera) che nasconde la realtà (il teschio)». Un simile ragionamento può risultare calzante anche per lo
scheletro “mascherato” nel dipinto di Bruegel.

15
aver desunto dall’affresco di Palazzo Sclafani, probabilmente visto durante un soggiorno
a Palermo, effettuato intorno al 1555) - e quella della resurrezione dei defunti, incarnata
dagli scheletri intenti a dissotterrare bare e, in particolare, da uno che sta per uscire dalla
fossa.

Vi sono poi temi rielaborati direttamente dalle opere di Bosh, come la coppia di amanti
(questo il reale significato del duetto musicale) sistemati in basso a destra 48, che
richiamano il gruppo di suonatori dipinti dall’artista di Hertogenbosh nel Carro di fieno.
Dal suo ideale maestro, poi, Bruegel riprende anche il riferimento al gioco, palese
allegoria della vanità e dei rovesci della fortuna, che compare sostanzialmente con le
medesime componenti – quella dei dadi e delle carte – anche nell’Inferno musicale di
Madrid. 49

Questa brulicante visione allucinata rappresenta dunque un’incredibile summa: mai prima
di questo dipinto era stato possibile ravvisare in una sola opera tutti gli emblemi e i
simboli che la tradizione allegorica medievale comunemente associava alla morte, nonché
la fusione di entrambe le “ambientazioni” tipiche di questo genere, quella dello scenario
apocalittico e quella della riunione cortese funestata dalla “nera signora”. 50

Tra i tempi della grande epidemia di peste del 1348-51 e la realizzazione di questo
originalissimo capolavoro di Bruegel erano intercorsi più di due secoli, ed erano
subentrati altri fattori di destabilizzazione sociale come l’avvento della Riforma luterana,
le conseguenti guerre di religione, le insurrezioni contadine, le carestie e naturalmente

48
Di questo dettaglio troviamo una commovente descrizione nella seconda strofa della poesia di Silvia
Plath Two views of a cadaver room, in The Collected Poems, with an introduction by Ted Hughes, Harper
& Row, 1982:
«In Bruegel's panorama of smoke and slaughter /Two people only are blind to the carrion army: /He, afloat
in the sea of her blue satin / Skirts, sings in the direction / Of her bare shoulder, while she bends, / Finger a
leaflet of music, over him, /Both of them deaf to the fiddle in the hands / Of the death's-head shadowing
their song. /These Flemish lovers flourish; not for long. / Yet desolation, stalled in paint, spares the little
country/Foolish, delicate, in the lower right hand corner».
Di seguito la traduzione da me proposta: «Nel panorama di fumo e massacro di Bruegel / solo due persone
sono cieche davanti all'esercito di carogne: / lui, a galla nel mare e di raso blu / delle gonne di lei, canta in
direzione / della sua spalla nuda, mentre lei chinandosi/ verso di lui, diteggia uno spartito musicale,
/entrambi sordi al violino nelle mani / dello scheletro che adombra il loro canto. / Questi amanti fiamminghi
prosperano; non per molto tempo. / Eppure la desolazione, cristallizzata nella pittura, risparmia il piccolo
luogo/ stolto, delicato, nell'angolo in basso a destra».

49
Cfr. Bussagli M., Bruegel, in «Art e Dossier» n.130, Giunti, Firenze 1998, pp.17-21.

50
Cfr. Melazzo G., op.cit., p. 7. Per un’analisi più approfondita dell’opera di Pieter Bruegel il Vecchio si
rimanda a Bianconi P., L’opera completa di Bruegel, collana I classici dell’Arte, presentazione di G.Arpino,
Rizzoli, Milano 1967.

16
nuove ondate epidemiche. Di conseguenza le raffigurazioni della morte si moltiplicarono
in tutto l’Occidente, anche grazie alla sempre crescente diffusione delle illustrazioni a
stampa.

Nei paesi nordici convertiti o comunque influenzati dalla Riforma - la quale partiva da
un’interpretazione molto più letterale dei testi sacri e non concedeva alcun valore alle
opere umane per la salvazione dell’anima 51- il senso del macabro e il terrore del trapasso
permanevano con particolare ostinazione, come attesta eloquentemente il Trionfo del
Prado di Bruegel, in cui la tradizionale ripartizione tra beati e dannati (che ancora
influenzava gli affreschi del Camposanto pisano) brilla per la sua assenza. 52

In quest’opera dai mille risvolti, nell’interazione grottesca tra gli scheletri e i viventi,
troviamo inoltre una forte eco della danza macabra, altro popolare “antecedente” della
vanitas. Sorto in Francia nel XV secolo, viene diffuso dalla cultura del gotico
internazionale in tutta l’Europa occidentale, proponendosi come una sorta di estensione
dell’incontro dei tre vivi e dei morti.

Tra le più antiche figurazioni del tema vi è quella del cimitero parigino degli Innocenti
(1424), distrutta nel XVII secolo. Ne rimane comunque traccia nei versi che
l’accompagnavano attraverso due manoscritti della prima metà del XV secolo. Questi
furono pubblicati nel 1485 da Guy Marchant nella sua Danse macabre [fig. 4], le cui
illustrazioni sarebbero, secondo Emile Mâle, una libera interpretazione degli affreschi
perduti. Ogni foglio presenta, inquadrati da archetti impostati su colonnine, due coppie.
Ad accennare un passo di danza è solo il morto, il digrignante cadavere che –
proponendosi come l’immagine duplicata del vivente - trascina, di volta in volta, il
cardinale e il duca, il vescovo e lo scudiero, il maestro di scuola e l’uomo d’armi in una

51
Spini G., Disegno storico della civiltà, Cremonese, Roma, 1970, Vol.II, Cap. 7, par. 2: «(Per Lutero) la
salvezza non può essere il frutto delle opere dell’uomo, ma esclusivamente della grazia rigeneratrice di Dio,
ricevuta dal credente con la fede, cioè con un rinnovamento totale della propria coscienza, di cui le opere
non erano che la conseguenza esteriore».

52
Nel 1563 Bruegel si trasferisce da Anversa a Bruxelles, probabilmente per sfuggire alle persecuzioni
religiose messe in atto sotto il dominio spagnolo. La religiosità del pittore, infatti, era piuttosto controversa,
come attesta la sua adesione alla setta eretica della Schola Charitatis, ispirata ad una visione del
cristianesimo ben più austera di quella propugnata dalla Chiesa di Roma. Per farsi un’idea ulteriore delle
inquietudini di Bruegel basti pensare ad un altro capolavoro come La caduta di Icaro (1558). Icaro è
precipitato e nessuno sembrerebbe essersene accorto: come recita una poesia ecfrastica di Wystan Hugh
Auden (1938), «ogni cosa si volge del tutto tranquilla dal disastro». L’opera pertanto illustra il dramma
dell'indifferenza cosmica nei confronti della misera condizione degli uomini e dei loro illusori slanci di
hubris.

17
sorta di macabra sfilata53. I toni visionari e terrificanti della morte apocalittica sono
stemperati in una rappresentazione moralizzata e pervasa di tetra ironia, in un certo senso
più “a misura d’uomo”, tesa a dimostrare, ancora una volta, l’uguaglianza sociale di ogni
essere umano di fronte alla propria fine.

Chastel ha voluto cogliere in questo un elemento “democratico”, «una sorta di rivincita


rivoluzionaria dei deboli sui potenti, dei poveri sui ricchi». 54 Ma, personalmente ritengo
che il senso delle danze macabre, così come delle altre rappresentazioni in cui abbiamo
riscontrato questo “egalitarismo” dettato dalla morte, sia ben più profondo e investa la
radice stessa dell’esistenza.

Al di là di questo, il motivo iconografico della danza macabra si inserisce tra i punti


nodali del nostro discorso soprattutto perché, scomparsi i personaggi, gli attributi
iconografici dei diversi ceti sociali confluiranno all’interno delle vanitates del XVII
secolo in qualità di repertorio oggettuale emblematico. 55

In una Vanità [fig.5] dell’olandese Cornelis Brisè, datata al 1655 e conservata nel
Rijksmuseum di Amsterdam, ad esempio, sul coperchio di un sepolcro si distinguono un
turbante con una piccola corona (probabile allusione a qualche principe orientale), dei
pezzi di armatura, un elmo chiomato, un pastorale vescovile, una vanga, strumenti
musicali, libri ed infine un globo, che simbolicamente racchiude tutto il resto.
Un’iscrizione in olandese che compare su una pergamena avverte: «La morte rende uguali
i grandi e i piccoli, i poveri e i ricchi, morire è la sorte di tutti» 56.

53
Cfr. Scalabroni L., op. cit., p. 31.

54
Chastel A., Favole Forme Figure, Einaudi, Torino, 1988, (ed. orig. Fables Formes, Figures, Paris, 1978),
p.37.

55
A proposito del repertorio oggettuale, va detto che sulla scelta dei simboli della vanitas influisce
certamente la lunga e florida tradizione degli emblemi. A partire dal 1531, dalla prima edizione
dell’Emblematum liber di Andrea Alciato ad Anversa fino all’ Iconologia di Cesare Ripa, gli emblemi
ebbero straordinaria diffusione fino alla metà del Seicento. Come hanno efficacemente messo in luce gli
studi di Mario Praz, la “tendenza immaginifica” del XVII secolo trova in essi un valido mezzo
d’espressione. L’emblema secentesco serve innanzitutto ad insegnare in forma semplice, diretta e
immediata, una verità morale ed è per questo fine didattico che l’oscurità tipica dell’emblema
cinquecentesco tende a rarefarsi sia in area riformata che in area controriformata. Cfr. Scalabroni L., op.
cit., p. 45; Praz M., Studies in Seventeenth-Century Imagery, 2 voll., London, The Warburg Institute, 1939-
47.
56
La traduzione di questi versi è in Bergstrӧm I., L’Egalité Suprême, in «L’Oeil», n. 95, 1962, pp 94-95.

18
Se nella danza macabra la Morte “toccava” il vivo, nel corso del XVI secolo nacquero
iconografie in cui il contatto si fa morboso, caricandosi addirittura di un certo
compiacimento erotico, basti pensare al tema, particolarmente diffuso in area germanica,
de La morte e la fanciulla. Hans Baldung Grien lo ha declinato in un dipinto, eseguito nel
1517 ed ora conservato al Kunstmuseum di Berna, che ci mostra un raccapricciante
cadavere in avanzato stato di decomposizione mentre ghermisce una donna colta nel fiore
della sua voluttuosa bellezza, dandole un bacio che è più simile a un morso.

A questo bizzarro soggetto si affiancavano altre varianti e soluzioni iconografiche, come


le tre età della donna con la Morte, il cavaliere e la dama in fuga dalla Morte, la Bellezza
e la Morte. La forte valenza moraleggiante comune a tutte queste immagini, in cui il
contrasto vita-morte raggiunge spesso livelli parossistici, ne favorì comunque una
notevole diffusione in tutta Europa, sia in ambiente cattolico che riformato. 57

Il senso basilare che sottende alle più disparate manifestazioni del macabro viste finora è,
in sostanza, un perentorio ammonimento sulla transitorietà di tutto ciò che è terreno. Tale
monito trova la sua più semplice ed immediata espressione nella formula memento mori,
che rimanda immediatamente al contesto politico-militare romano. Secondo una
testimonianza di Tertulliano (II-III secolo d.C.), durante i trionfi che partivano da Campo
Marzio per arrivare fino al Campidoglio, uno schiavo teneva sospeso sul capo
del triumphator l’alloro della vittoria, sussurrandogli per tutto il tragitto: «Respice post
te! Hominem te memento!» («Guarda dietro di te! Ricordati di essere un uomo!»).

La particolare attenzione che l’antica Roma dedicò al tema dell’intrinseca finitudine


umana, però, si declinò anche in altre modalità che rientrano tra le manifestazioni della
famosa locuzione oraziana, secondo cui «la Grecia, conquistata [dai Romani], conquistò
il barbaro vincitore» (Epistole, Il, 1, 156). Non stupisce, quindi, che tanto per i Greci
quanto per i Romani le riflessioni sulla caducità dell’esistenza fossero spesso legate all’
ambito simposiale (come attestano diverse fonti archeologiche e letterarie).
L’associazione ossimorica tra i piaceri della vita e la consapevolezza della morte fu
impostata definitivamente in epoca ellenistica dalla filosofia epicurea, ma apparteneva al
patrimonio letterario greco sin dall’età arcaica, essendo ampiamente rintracciabile nelle
liriche con cui i poeti del VII secolo a.C. intrattenevano i loro hetairoi (compagni di
simposio). La ragione, solo in apparenza paradossale, che induceva a banchettare sotto il

57
Melazzo G, op. cit., p. 4

19
segno di Thanatos è presto spiegata dal Satiricon di Petronio (I secolo d.C.), ed in
particolar modo dal celeberrimo episodio della Cena Trimalchionis, ambientato in una
città magnogreca (forse Napoli o Pozzuoli):

Mentre noi dunque si beve, tutti in estasi in mezzo a quel lusso, arriva uno schiavo con
uno scheletro d'argento, articolato in modo che le sue giunture e vertebre erano disnodate
e flessibili in ogni senso. Come lo getta sulla tavola una prima e una seconda volta, e la
catena guizzante assume pose diverse, Trimalcione commenta:

«Ahi, che miseri siamo, che nulla a pesarlo è l'ometto!


Così saremo tutti quel giorno che l'Orco ci involi.
Perciò viva la vita, finché si può star bene». 58

Alle parole di Trimalcione fa eco la decorazione della cosiddetta Coppa degli Scheletri
[fig. 6], facente parte del cosiddetto Tesoro di Boscoreale (rinvenuto nel 1895 ed oggi
conservato al Louvre), così chiamata per il simposio di scheletrini a rilievo che le corre
tutt’intorno. In questo singolare convivio è possibile identificare filosofi come Zenone ed
Epicuro, i cui nomi sono riportati da apposite didascalie, e tra le incisioni che li
accompagnano leggiamo: «Godi finché vivi, poiché il domani è incerto. La vita è una
commedia, il godimento è il bene supremo, la voluttà il tesoro più prezioso».

Con l’insorgere del cristianesimo va da sé che l’idea della morte perderà ogni connotato
edonistico e nel momento in cui verrà recuperata l’immagine dello scheletro le risate che
riecheggiano nelle gaudenti esortazioni di Trimalcione o nelle iscrizioni della Coppa

58
Petronio, Satiricon, trad. it. a cura di G. Reverdito, Garzanti, Milano, 2008, cap. 34. Lo scheletrino
d’argento servito a Trimalchione prendeva il nome di larva convivialis, ed era uno dei numerosi esempi di
oggetti-simbolo mostrati nei banchetti, al fine di ricordare agli invitati il termine della vita. Tramite Erodoto
(2, 78), ad esempio, sappiamo che gli antichi Egizi esibivano durante i pasti piccole mummie scolpite in
legno, ricordando agli ospiti il loro inevitabile destino di morte per indurli a godere al meglio il momento
presente. Lo scheletrino faceva parte di un’iconografia molto impiegata anche nelle rappresentazioni
musive del contesto campano del I sec. a.C., che era molto attento alla lezione epicurea: a Ercolano sorgeva
il cenacolo di Filodemo, e a Posillipo Virgilio e Orazio studiarono presso Sirone. Un esempio è il cosiddetto
Scheletro coppiere rinvenuto a Pompei e oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli:
appartenuto quasi sicuramente ad una casa privata (forse la casa delle Vestali, VI, 1, 7), il mosaico era
collocato secondo alcuni in un triclinium, proprio la sala in cui si svolgevano i banchetti. Ovviamente -
mentre il Satiricon era stato scoperto da Poggio Bracciolini in un codice di Colonia, nel 1423 - una simile
testimonianza non poteva essere nota in età moderna fino alla scoperta settecentesca di Pompei ed Ercolano,
ma è comunque interessante per capire, come sottolinea anche Horst Woldemar Janson, che le prime
attestazioni iconografiche del memento mori nell’antichità non avessero nulla a che vedere con uno spirito
religioso, ma piuttosto con un sentimento prettamente edonistico. Cfr. Janson H. W., The putto with the
Death’s Head, cit., p. 423.

20
degli scheletri di Boscoreale (I sec d.C.) lasceranno il posto ad un ghigno sinistro, come
possiamo osservare nel sopracitato Trionfo della Morte di Bruegel.

Horst Woldemar Janson – in un importante studio che ripercorre l’evoluzione


dell’iconografia del memento mori dall’antichità fino al XVI secolo - evidenzia come
fosse il visionario Nord Europa a prediligere il tipo dello «scheletro vivente» 59, mentre
l’Italia era meno incline ad appropriarsi di quest’immagine, preferendo la sobrietà del
teschio umano, inteso come cifra sintetica della morte.

Questo presupponeva un approccio sofisticato che non venne sviluppato fino a quando la
cultura umanistica non elaborò le allegorie e i complessi simboli del primo Quattrocento,
raffigurati per la prima volta nelle medaglie di Pisanello e dei suoi seguaci. È tra le opere
di questi ultimi che il teschio fa la sua prima apparizione come simbolo funerario. Il primo
artista [a noi noto] che lo introdusse è Giovanni Boldù, un medaglista veneziano che
poteva vantare un’alta formazione ricevuta nello Studio padovano, di cui si serviva nei
suoi complicati emblemi. Nel 1458 Boldù realizzò una medaglia [fig. 11] con un
autoritratto sul recto e una scena allegorica sul verso, in cui vi è un giovane nudo seduto
su un piccolo mucchio di terra: è probabilmente l’artista nella malinconica
contemplazione delle tre figure che completano la composizione. Davanti a lui sta il Fato,
un angelo con una face ardente60 e dietro di lui la Penitenza, una vecchia in procinto di
flagellarlo. Il cranio che giace ai suoi piedi simboleggia la Morte. L’allegoria, dunque, è
quella del memento mori cristiano: Boldù, e con lui l’intero genere umano, medita sopra
il cranio che simboleggia il suo inevitabile destino, con il Fato (Provvidenza) che offre
una speranza di salvezza, e la Penitenza che tormenta la sua coscienza. Sebbene il
concetto etico sia medievale, esso è presentato nella nuova forma artistica rinascimentale.
Lo scopo dell’artista non è più quello di spaventare lo spettatore, ma di suscitare un
approccio riflessivo.61

Secondo lo studioso, dunque, fu la medaglistica italiana quattrocentesca ad informare


l’essenzialità dei primi memento mori pittorici: nient’altro che un cranio, sovente
accompagnato da iscrizioni o cartigli (e al limite qualche ossa). Nel clima di fervido

59
Lo studioso colloca la comparsa di questo soggetto nel XIV secolo, quando l'ultimo dei quattro cavalieri
dell'Apocalisse, Morte, cominciò ad essere rappresentato come uno scheletro animato. Cfr. Janson H. W.,
The putto with the Death’s Head, cit., p. 427.

60
La figura alata con la face ardente riprende il modello del genio funebre reggi-fiaccola dall’iconografia
funeraria dei sarcofagi romani d’età ellenistica.
61
Ivi, pp. 428-429, traduzione inedita.

21
scambio culturale tra Italia e Fiandre, tali rappresentazioni fecero la loro iniziale comparsa
nel XV secolo, sul verso di certi dipinti devozionali di scuola fiamminga, il cui afflato
sentimentale rispecchia i principi della devotio moderna.62

Un icastico esempio è quello fornito da Hans Memling, nel dittico dei Santi Giovanni
Battista e Veronica [fig. 7], datato tra il 1476 e il 1478 e conservato alla Alte Pinakothek
di Monaco63: sul verso un teschio a trompe l’oeil è incastonato in un loculo di pietra
all’antica che lo isola in funzione simbolica. Attraverso tale composizione, solo
apparentemente semplice, ma in realtà studiatissima, l’attenzione dell’osservatore viene
interamente catturata dalla scabra vacuità del reperto umano che sporge in primo piano,
in maniera che subito dopo la visione subentri la riflessione, ulteriormente stimolata
dall’iscrizione sul basamento recante il severo monito «MORIERIS». 64

Nella sua evoluzione successiva, dalla fine del XV secolo, il tipo del memento mori
esemplificato dall’opera di Memling (il quale già di per sé sembra affermare il valore
espressivo del teschio indipendentemente dalla raffigurazione umana), 65 si accompagnerà
alla stabile ricorrenza di altri oggetti atti a richiamare la misurazione e il trascorrere del
tempo, la sapienza accumulata nello studio, le fragili preziosità del mondo, i sensi
dell'uomo. Tale arricchimento oggettuale prelude in maniera inequivocabile all’insieme
emblematico66 che connoterà le vanitates del XVII secolo.

62
La devotio moderna è un movimento di rinnovamento spirituale sorto nei Paesi Bassi nella seconda metà
del XIII secolo e da lì propagato alla Germania dove si sviluppò fino al XVI secolo, facendo sentire il suo
influsso anche in altri Paesi. Il tipo di spiritualità promosso da tale movimento si caratterizza per
l’importanza dell’intima preghiera del cuore e della mente, rispetto a quella vocale e liturgica (tipica della
pietà collettiva di stampo medievale).

63
Faggin G.T., L’opera completa di Memling, collana I classici dell’Arte, presentazione di M. Corti,
Rizzoli, Milano 1969. Cfr. Melazzo G., Vanitas Vanitatum, lettura e analisi di un tema figurativo nella
cultura del Seicento europeo, cit., p. 5.
64
Impelluso L., Vanitas Vanitatum in AA.VV. La Natura Morta, a cura di Stefano Zuffi, Electa, Milano
1999, pp.245-251.
Il collegamento tra recto e verso del dittico di Memling viene così spiegato dall’autrice: «Probabilmente
quest’opera era destinata a Jan Floreins, un monaco dell’ospedale di san Giovanni Evangelista; quindi la
parte destra del dittico allude al nome del committente».

65
Proprio per via dell’“oggettificazione” della morte nel cranio, i memento mori più semplici
rappresentarono per secoli uno degli strumenti didascalici più diffusi ed efficaci, ampiamente impiegato in
ambito cattolico e ben integrato nel rigorismo iconoclasta del mondo riformato.

66
Secondo Marco Fumaroli, il fatto che la vanitas - nella sua declinazione di natura morta moralizzata -
condivida il linguaggio simbolico fortemente codificato dell’emblematica, è funzionale a legittimare in
prospettiva cristiana i caratteri mimetici di alcuni esiti pittorici, altrimenti gravati dal sospetti di essere
«mera dilettazione per l’occhio». Cfr. Fumaroli M., Natura morta, “Stilleven”, “Vanitas”, e “Trompe
22
Pertanto:

La Vanitas non è solo l'ostensione in primo piano del teschio, non può cioè essere
confinata nella rappresentazione pura e semplice del “macabro”, o solo raramente si può
legare alla morbosa descrizione del degrado dell'uomo dopo la morte: si può dire infatti
che il tema si arricchisce con quelle composizioni di Natura morta in cui, da espliciti o
impliciti indizi, risulti prevalente il trascorrere del tempo, e quindi la presenza prevalente
di un valore moraleggiante67.

Per fare un esempio di questa più sottile, ma comunque limpida codificazione concettuale,
basti pensare al complesso degli oggetti da fumo raffigurati da Hubert van Ravesteyn in
un dipinto del Rijksmuseum di Amsterdam (1664), in cui il momentaneo e volatile piacere
del tabacco bruciato si associa allo stoppino spento, che richiama il nostro estinguerci
«come un lucignolo» (Isaia 43,17). Ma il tempo aggredisce anche quanto sembrerebbe
più stabile: nel quadro di Bizet del Museo di Bourg-en-Bresse (1655 ca.) il disordine
caotico dei libri, il loro evidente deteriorarsi produce un inequivocabile monito alla
sapienza onnivora e curiosa, incapace di scegliere la “sapienza” essenziale.

Ma la Vanitas avrà una sua estensione anche nel mondo vegetale, in quella impressionante
produzione di Nature morte di fiori che, soprattutto in area olandese e fiamminga,
costituiranno, nella analitica descrizione del fiorire e dell'appassimento, l'illustrazione più
efficace della fragilità e della brevità, ma anche della desiderabilità della bellezza. […]
spesso la Natura morta risulta essere un commento esemplare delle illustrazioni che i testi
sapienziali della Bibbia producono in continuità: «Come un fiore sboccia e appassisce;
fugge come l'ombra e non si arresta e si disia come legno fradicio, come un vestito roso
dalla tignola» (Giobbe 14,2). 68

In linea di massima gli studi sulla vanitas secentesca generalmente seguono il corso e la
fortuna di quelli sulla natura morta in generale, che si arricchiscono a partire dagli anni
trenta del XX secolo.

La natura morta, del resto, sottintende il motivo della vanità, poiché «più è riuscita e abile
l’illusione, e più sarà efficace […] il monito implicito sulla differenza tra sembianza e

l’oeil”. Le avventure moderne dell’antica “mimesis”, in Inganni ad arte. Meraviglie del “trompe-l’oeil”
dall’antichità al contemporaneo, a cura di A. Giusti, Catalogo della mostra (Firenze, 2009-2010),
Mandragora, Firenze, 2009, pp. 51-52.

67
Veca A., in Vanitas. Il simbolismo del tempo, cit., p. 12.

68
Ivi, p. 13.

23
realtà».69 In particolare il già citato Bergstrӧm, in un saggio del 1956, sostiene il ruolo
determinante del realismo olandese del XV e del XVI secolo nella creazione di uno
specifico tipo di natura morta in cui venivano posti “significati reconditi” relativi alla
caducità dei beni terreni e della vita stessa. 70 Lo studioso propone una classificazione di
questo genere di pittura in base ai vari gruppi di oggetti che la contraddistinguono.

Il primo gruppo annovera tutto ciò che è riconducibile alle attività dell’uomo, ricalcando
la distinzione canonica fin dal Medio Evo tra Vita contemplativa, Vita pratica e Vita
voluttuaria:

a) Libri, strumenti scientifici, materiali e strumenti usati nelle varie arti


simbolizzanti la letteratura, le scienze, pittura, scultura, musica, ecc.

b) Borsette, dadi, gioielli, oggetti di valore in metallo pregiato, pezzi da


collezionista - come le conchiglie - bandiere, croci, scettri, pezzi di armature:
questi oggetti denotano generalmente gloria e potere.

c) Bicchieri di vetro, pipe e altri oggetti di tabaccheria, strumenti musicali, carte


da gioco che simbolizzano i vari sensi e i piaceri. 71

Il secondo gruppo, invece, comprende quei simboli incentrati sulla fugacità della vita
terrena, come il teschio, la clessidra e l’orologio, candele e lampade ad olio, bolle di
sapone e fiori, specialmente anemoni e rose in via di disfacimento.

Il terzo gruppo, infine, presupponendo che tutto è destinato a consumarsi in breve tempo,
è quello in cui trova spazio una speranza di salvezza incarnata da simboli di vita eterna,
come conchiglie 72, spighe di grano73, rametti di alloro (tipico attributo della fama che

69
Gombrich E., Tradition and Expression in Western Still-life, in «The Burlington Magazine», vol. CIII,
pp. 175 -180.

70
Bergstrӧm I., Dutch Still-life Painting, Faber & Faber, London, 1956. Lo studioso utilizza il concetto di
«disguised symbolism» (simbolismo nascosto) enunciato già da Panofsky a proposito dell’antica pittura dei
Paesi Bassi. Cfr. Panofsky E., Early Netherlandish Painting. Its Origins and Character, 2 voll, Harvard
University Press, Cambridge, Massachusetts, 1953).

71
Bergstrӧm I., Dutch Still-life Painting, cit., pp. 154-155.

72
Sull’origine del significato resurrezionale della conchiglia cfr. Eliade M., Images et Symboles, Gallimard,
Parigi, 1952, p. 142-147. Secondo lo storico delle religioni, fin dall’epoca neolitica l’immagine della spirale
in connessione con il simbolismo selenico e acquatico rivelò all’uomo arcaico la vita che si rigenera
ritmicamente.
73
Le spighe di grano come simbolo di resurrezione trovano spiegazione in un passo del Vangelo di S.
Giovanni: «verità, in verità io vi dico: se il granello di frumento caduto non muore, rimane infecondo; se
24
oltrepassa la morte) o tralci di edera sempreverde. Questi ultimi compaiono spesso
intrecciati a mo’ di corona sul teschio.

Talvolta questi raggruppamenti, da intendersi come schematizzazioni volte a facilitare la


ricognizione storico-artistica, nella realtà materiale della pittura si confondono tra loro
dando vita a iconografie particolarmente dense e interessanti. Come ad esempio nella
Vanitas dell’olandese Harmen Steenwyck del Museo Civico di Leida, in cui il teschio
poggiato su un libro, è circondato dal vaso rovesciato (a simboleggiare il fragile equilibrio
precario delle cose umane), dal ramo secco e dalla candela spenta, dalle pipe (simboli
della vita che si volatilizza come fumo). L’idea della morte è però subito riscattata dalla
speranza nella resurrezione (riposta nella conchiglia), conquistata attraverso la virtù (la
spada).

Una volta arrivati a valle di questa ricognizione sorge spontanea una curiosità: quali sono
i prototipi da cui poi derivò la classificazione effettuata da Bergstrӧm?

Quella che a buon diritto è considerata la prima vanitas autonoma della storia dell’arte
occidentale, non a caso, è opera del pittore e incisore olandese Jacques de Gheyn II, che
frequentava i severi circoli intellettuali calvinisti della città di Leida (considerata da
Bergstrӧm come il centro di irradiazione di tale produzione). Si tratta di un raffinato
quanto essenziale dipinto [fig. 8] eseguito nel 1603 e attualmente esposto presso il
Metropolitan Museum di New York, di impronta chiaramente araldica ed emblematica,
raffigurante una nicchia in pietra scolpita che reca sull’arco l’iscrizione «HUMANA
VANA». Ai lati Eraclito (considerato il padre del materialismo meccanicistico) e
Democrito (primo formulatore occidentale della teoria dell’eterno divenire), i due filosofi
greci che hanno rispettivamente pianto e riso sul mondo, indicano una grande bolla di
sapone, eterea e inconsistente, che rimanda al concetto di Homo Bulla74. In essa si
riflettono le cose del mondo: dallo scettro alla ruota di tortura. Sotto la bolla, a suo
completamento ideale, è collocato un teschio visto frontalmente, mentre poggiati sul

invece muore produce molto frutto» (Gv. XII, 24); ma ancor più forse nella prima lettera ai Corinzi di S.
Paolo: «Ma dirà qualcuno: come resuscitano i morti e con qual corpo ritorneranno? Stolto! Quel che semini
non prende vita, se prima non muore; e quel che semini non è il corpo che deve venire, ma un nudo granello
di frumento o di altra semenza». (I Cor. XV, 35.37)

74
Wolfgang Stechow è propenso a riconoscere in Cornelis Ketel l’inventore di questo motivo iconografico
che, già alla fine del XVI secolo era diventato una sorta di luogo comune figurativo, ad indicare la
coincidenza fra la consistenza della bolla di sapone e dell'uomo. Cfr. Stechow W., Dutch painting in the
seventeenth century, Rhode Island Museum Press, 1938. Riferimento presente in Scalabroni L., op. cit., p.
47.

25
davanzale, dinnanzi alla nicchia vi sono delle monete d’oro e d’argento e due vasetti
simmetricamente disposti, di cui quello a sinistra contiene fiori e quello a destra esala
fumo. Sotto di essi compaiono uno stemma e un medaglione che rappresenta l’imperatore
Carlo V d’Asburgo e la madre Giovanna d’Aragona e di Castiglia.

Il composito impianto iconografico e simbolico ideato dal maestro olandese – oltre a


toccare i temi del memento mori e della transitorietà dell’esistenza – vuole ricordarci
come sia per gli uomini comuni, sia per il sovrano sul cui impero “non tramontava mai il
sole”, la vita sia breve e fragile, i beni mondani effimeri, la morte inevitabile. 75

Il dipinto di New York è in stretta connessione con lo splendido disegno [fig. 9] sempre
di mano di Jacques de Gheyn, firmato e datato 1599, del British Museum di Londra. Nel
foglio, intitolato Mors sceptra ligionibus aequat, l’artista affronta il tema
dell’uguaglianza del sovrano e del contadino, mettendo in scena un macchinoso apparato
scenografico. Il padiglione che inquadra la scena si apre mostrando l’immagine del
Giudizio universale; nei medaglioni ai lati, estranei alla composizione, il Peccato
originale e la Crocifissione, la prima cornice termina con il teschio mentre la seconda
presenta un cherubino. Ai lati dei due cadaveri rinsecchiti del re e dello zotico - oltre agli
attributi che li accompagnavano in vita, ormai abbandonati e inutili - compaiono
nuovamente un mazzo di fiori con alcuni petali caduti a terra a destra e un vaso da cui
esce copioso del fumo a sinistra. La corruzione e la morte toccano la carne ma anche gli
oggetti inanimati: la corona e lo scettro del sovrano, come il badile del contadino sono
spezzati; le rispettive clessidre, che hanno segnato il tempo della vita, anch'esse risultano
rotte e inutilizzabili. Ma l'aspetto decisivo è la presenza del putto in posizione centrale
che gioca con le bolle di sapone seduto in una nicchia su cui campeggia la dicitura
«HOMO BULLA». Carica di simboli espliciti e impliciti, concettosa nella replica dei due
uomini in vita e in morte, l'allegoria di De Gheyn è importante soprattutto come indicatore
di un immaginario complesso da cui prende avvio il mondo iconografico della vanitas.76

75
Cfr. Dotti D., «Vanitas vanitatum ed omnia vanitas». Viaggio nella vanitas europea del XVII secolo, in
Il silenzio delle cose. Vanitas, allegorie e nature morte delle collezioni italiane, Catalogo della mostra
(Torino ottobre 2015 – febbraio 2016)), a cura di D. Dotti, Edizioni Museo Ettore Fico, Torino, 2015, pp.
49-51.

76
Veca A., in Vanitas. Il simbolismo del tempo, cit., p. 20. Per approfondire le specificità assunte dal genere
della vanitas a seconda delle singole aree geografiche di diffusione oltre a qui citato saggio di Veca si
rimanda anche a Scalabroni L., op.cit. e Melazzo G., op.cit., cap. II.

26
Se è vero che gli esiti iniziali di un genere come la vanitas vanno rintracciati nel mondo
olandese e fiammingo, è anche vero che molti altri poli geografico-culturali contribuirono
al suo sviluppo. A proposito dell’ampia fortuna e della conseguente segmentazione del
tema si veda quanto riassunto da Alberto Veca:

Un'area olandese e fiamminga conosce una evoluzione che, grosso modo, copre l'intero
arco del XVII secolo e gli inizi del XVIII secolo; la Francia conoscerà due stagioni, una
legata all'arrivo a Parigi negli anni venti di pittori delle regioni tedesche (Stoskopff,
Linard), in modo particolare scampati a persecuzioni religiose, così da formare un
internazionale punto di scambio; una seconda, dalla metà del secolo in poi, di fioritura
per così dire nazionale, legata ai Philippe de Champaigne, Simon Renard de Saint André,
ecc. La Spagna scopre una Vanitas allegorica, legata agli arredi scenografici del trionfo
della morte, che si esprimerà nelle grandi Vanitas di Valdes Leal, e un genere più
strettamente legato alla Natura morta che troverà soprattutto a Napoli alcuni esiti
significativi. E d'altra parte l'Italia conosce un'influenza spagnola nelle regioni napoletane
e una influenza nordica nell'Italia settentrionale, producendo esiti spesso episodici ma di
indubbio interesse qualitativo. 77

«Nessun periodo – scrive Panofsky – è stato tanto ossessionato dalla profondità e dalla
vastità, dall’orrore e dalla sublimità del concetto di tempo quanto il barocco»78. Seguendo
la sua indagine iconologica si può facilmente constatare come il tema e la figura del
Tempo, distruttore di ogni cosa terrena, entri in stretta relazione con il concetto e con la
stessa iconografia della Morte79. Ma perché nel Seicento queste due entità si fusero in
un’unica grande ossessione? Cercando la risposta tra gli avvenimenti storici alla base
dello Zeitgeist dell’epoca, non si può non menzionare l’enorme sconvolgimento prodotto

77
Ivi, p. 74. Per approfondire le varie declinazioni della diffusione europea della vanitas si rimanda a Mâle
E., L’arte religiosa del ‘600: Italia, Francia, Spagna, Fiandra, Jaka Book, Milano, 1984; Scalabroni L.,
op.cit.; Melazzo G., op. cit.
78
Panofsky E., Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del Rinascimento, Einaudi, Torino, 1999,
(Studies in Iconology, New York, 1939), p. 132.

79
Ivi, p. 112: «Talvolta la figura del Padre Tempo viene impiegata come puro espediente per indicare il
trascorrere dei mesi, degli anni o dei secoli, come nel Racconto d’inverno di Shakespeare […]. In altri e
ancor più numerosi casi, tuttavia, la figura del Padre Tempo è investita di un più profondo e più preciso
significato; può agire, generalmente parlando, sia come Distruttore, sia come Rivelatore, sia come potenza
universale e inesorabile che, attraverso un ciclo di procreazione e distruzione, determina quella che
potremmo chiamare la continuità cosmica: «tu nutri e uccidi tutto ciò che esiste», per dirlo con Shakespeare.
Nella pima di queste vesti il Tempo, appropriatosi delle qualità del cannibale Saturno che brandisce il
falcetto, è entrato in relazione sempre più stretta con la Morte, e fu dall’immagine del Tempo che, verso gli
ultimi anni del XV secolo, le rappresentazioni della Morte cominciarono a desumere la caratteristica
clessidra e talvolta persino le ali, come nel caso della tomba berniniana per Alessandro VII».

27
dalla Guerra dei Trent’anni (1618-1648), uno dei conflitti più lunghi e distruttivi della
storia europea. Il complesso insieme di concause alla sua origine può ricondursi in primis
ai vari interessi politici dei nuovi Stati nazionali: la dinamite che fece esplodere la miccia
scaturita dagli scismi e dalle tensioni religiose che nel secolo precedente avevano sfaldato
l’unità della Chiesa e la certezza dei suoi dogmi. Ai saccheggi e alle devastazioni
(particolarmente gravi in area germanica) si sommarono una violentissima crisi
economica generale (ma che colpisce più incisivamente la Spagna segnandone il declino
sullo scenario politico europeo), lunghi periodi di carestia e la conseguente fragilità di
una popolazione che era facile preda di malattie vecchie e nuove (in aggiunta alla
virulenza della peste bubbonica fanno la loro comparsa il tifo, il vaiolo e l’influenza).
Tutto questo contribuì al propagarsi di un forte senso di destabilizzazione complessiva
dal quale riaffiorarono paure medievali mai definitivamente sopite.

Ma nell’immaginario collettivo si riverberarono anche le scoperte della scienza moderna


ai suoi albori: le teorie eliocentriche finivano per negare la terra – e dunque l'uomo –
come perno del cosmo e misura di tutte le cose. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi
del mondo di Galileo Galilei, pubblicato a Firenze nel 1632 - oltre a finire nell’ Index
librorum prohibitorum solo l’anno successivo - diede anche concretezza matematica agli
«infiniti mondi» già anticipati da Giordano Bruno, nell’azzardo filosofico-fantastico dei
dialoghi cosmologici londinesi del 1584, La Cena delle ceneri e il De infinito universo et
mondi. Si tratta di punti di svolta di portata epocale, tanto che, come sottolineato da
Panofsky, il Seicento è soprattutto «il secolo in cui l’uomo si trova di fronte all’infinito
come qualità dell’universo, anziché come prerogativa di Dio». 80

80
Ivi, pp. 132-133.

28
1.2. Caratteri di una concezione allegorica
Va da sé che quanto più la vanitas si diffonde in Europa fino a connotarsi come un leit
motiv del XVII secolo, tanto più si dirama in mille possibili declinazioni, tradizionalmente
riassumibili all’interno di due ampie categorie: le vanitates in cui gli oggetti rivestono un
ruolo centrale nella composizione e quelle in cui dominante è la figura umana81.Il minimo
comune denominatore risiede nella concezione allegorica, che a dire il vero pervade
uniformemente ogni manifestazione artistica del tempo, dalla letteratura all’architettura,
dalla pittura alla scultura, arrivando fino alla musica e alla drammaturgia e farà sentire il
suo peso anche nelle arti minori.

Nel saggio scritto nel 1926, il Dramma barocco tedesco, lo studioso tedesco Walter
Benjamin ricapitola e sintetizza, nella seguente tavola sinottica, il passaggio da una
concezione simbolica nella cultura e nell’arte, tipica di tutto il Medioevo e ancora valida
per il Rinascimento, ad una tipicamente allegorica, caratteristica dell’universo del
barocco: 82

SIMBOLO ALLEGORIA

Tempo infinito della Redenzione Tempo finito della storia


Significante in quanto rinvia ad Significante solo in qualità di
una totalità frammento degradato
Sintesi armonica di forma e Frattura tra empiria dei sensi e
contenuto significati profondi
Funzione unificante e purificatrice Tensione creativa e senso di
dell’arte frustrazione
Priorità dell’universo spirituale e Preponderanza e immanenza del
soprasensibile mondo fisico

81
Per la varietà di iconografie legate al tema della vanitas e per la suddivisione dei soggetti secondo la
tradizionale distinzione tra “area della figura” e “area dell’oggetto”, cfr. Tapié A., Décomposition d’une
méditation sur la Vanité, in Les Vanités dans la peinture au XVIIe siècle. Meditations sur la richesse, le
dénuement et la rédemption, Catalogo della mostra (Caen, 1990; Parigi 1990-1991), a cura di A. Tapié con
la collaborazione di J.M. Dautel e Ph. Rouillard, Parigi, Musée du Petit Palais, 1990, p. 69.

82
Benjamin W., Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino, 1974. Si tratta dell’edizione tradotta da F.
Cuniberto, con l’illuminante introduzione di G. Schiavoni. Il saggio, uscito per la prima volta in Germania
nel 1928, è ancora oggi di incredibile attualità e di grande spessore speculativo, e risulta fondamentale per
comprendere le ragioni conoscitive dell’arte barocca e il senso profondo dell’allegorismo moderno.

29
Anche ad una prima lettura superficiale questa tabella (da intendersi come il confronto
dialettico tra i due parametri presi in esame), illustra chiaramente come durante il XVII
secolo si stessero verificando cambiamenti radicali nell’orientamento culturale generale
e nel modo di intendere l’arte e le sue problematiche.

Nello stesso capitolo Allegoria e dramma barocco, da cui sono tratti questi punti salienti
sopracitati, l’autore citando Hermann Cohen, scrive: «L’ambiguità, la molteplicità di
senso, è il tratto fondamentale dell’allegoria; sia l’allegoria che il Barocco vanno
orgogliosi della loro ricchezza di significati».

Questo ambiguo pluralismo semantico, secondo Benjamin è da attribuirsi al fatto che il


Seicento sia per eccellenza un secolo dominato dal dubbio. L’aprirsi di una frattura tra
empiria e significati assoluti, tra assiomi della scienza e verità di fede, aveva determinato
uno sgretolamento del reale cui corrispondeva uno sgretolamento del significato.

In Hegel, come si sa, il compito della dialettica è quello di mettere in luce la


corrispondenza tra le strutture del pensiero e le strutture della realtà storica, dimostrando
l’assioma che «ciò che è razionale è reale» e «ciò che è reale è razionale». 83 La realtà
non è in Hegel l’esistenza tout court, non è l’accidentale in ogni sua forma (e
disarticolazione), ma ciò che nell’esistenza assume significato, superando le aporie e
attestandosi come manifestazione dello «Spirito» nel cammino della «Storia». 84 In
quest’ottica, dunque, i vari momenti finiti della storia si risolvono in un movimento
finalistico e universale. La negazione del finito ha come scopo quello di ritrovare le
ragioni della totalità, del sistema, all’interno di ogni particolarità.

Il senso del dramma individuato da Benjamin sta invece in quell’atteggiamento nei


confronti della storia che ne vuole intensificare le contraddizioni dolorose, che vi
sprofonda rifiutando qualsiasi interpretazione trascendentale, che accetta da un lato
l’inadeguatezza delle strutture soggettive nei confronti della realtà e, dall’altro, il carattere
alogico e arazionale di quest’ultima.

83
Hegel G.W.F., Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 2001, Prefazione, PP. 5. 14.

84
Cfr. l’importante ripresa di questo discorso nell’Introduzione dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche,
Laterza, Bari 2002, vol.6, pp. 9-11.

30
In seminario del 1932, un giovane Theodor Adorno, in antitesi al pensiero hegeliano,
introduce e commenta il saggio dell’amico e collega Walter Benjamin. Il nuovo orizzonte
storico-filosofico che emerge in queste lezioni – poi confluite nella ben più nota Dialettica
negativa - è quello in cui «la realtà non è più raggiungibile dal soggetto senza un salto»85,
poichè «le idee si rapportano alle cose come le costellazioni si rapportano alle stelle». 86
L’artificio che c’è dietro al disegno di una costellazione è lo stesso alla base dell’allegoria,
che altro non è se non la modalità intellettuale con cui ricomporre l’esperienza di una
realtà frantumata. Essa rappresenta un avvicinamento concettuale tra i molteplici dati del
mondo sensibile e un ventaglio di possibili significati attribuibili dall’esterno. Dico
“avvicinamento concettuale”, perché a differenza di quanto avviene nel simbolo, in cui
sussiste una forte identificazione e quasi una sovrapposizione tra oggetti/immagini e
significato, nel processo allegorico le due realtà mantengono comunque una loro validità
autonoma e indipendente, pur trovandosi in un rapporto di correlazione analogica.

Mentre nel simbolo […] si manifesta fugacemente il volto trasfigurato della natura nella
luce della redenzione, l’allegoria mostra agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica
[il volto moribondo] della storia come irrigidito paesaggio originario. La storia in tutto
quel che ha, fin dall’inizio, di immaturo, di sofferente, di mancato, si esprime in un volto,
anzi, nel teschio di un morto.87

85
Cfr. Adorno T.W, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004 (Negative Dialektik, Frankfurt, 1966), p. 8.

86
Benjamin W., op. cit., Premessa gnoseologica.

87
Ivi, p. 141.

31
1.3. Le fonti letterarie: Ecclesiaste versus Qohelet
Dopo essere partiti da una ricognizione (necessariamente sintetica) sul piano
iconografico, altro fondamentale punto d’ancoraggio per potersi orientare nella
comprensione del tema è quello offerto dall’analisi etimologica, che a sua volta prelude
ad un’indagine sulle fonti letterarie.

Quando usiamo la parola vanitas, più o meno consapevolmente, stiamo facendo


riferimento ad un celebre motto biblico: «Vanitas vanitatum et omnia vanitas» («Vanità
88
delle vanità, tutto è vanità»), la formula con cui la Vulgata di S. Girolamo traduce
l’asserzione che apre e chiude il libro veterotestamentario del Qohelet: «Havel havalim
disse Qohelet, il tutto è havel»89 (Qo 1,2 e 12, 8).

Queste poche battute ci mettono di fronte ad un primo importante indizio: “Qohelet” è sia
il titolo di un’opera sapienziale che il nome proprio della voce narrante. La derivazione
dal sostantivo ebraico qahal (comunità, assemblea) ci suggerisce che il suo significato
più prossimo sia quello di “colui che raduna” o “colui che prende la parola”, tanto che la
traduzione giudeo-ellenistica dei Settanta90 ricorre al termine greco Ekklesiastes, da
ekklesiazo (tenere un’adunanza). Da qui la traslitterazione latina per cui nella Vulgata il
libro del Qohelet diventa l’Ecclesiaste,91 la fonte tradizionalmente più invocata nelle
meditazioni e nelle rappresentazioni legate alla finitudine dell’uomo e del mondo.

Va immediatamente specificato come tra il Qohelet e l’Ecclesiaste esista uno iato


incolmabile: basti pensare che il significato base di havel / hevel - distorto in chiave
moralistica dalla parola vanitas - è quello di soffio, alito di vento, vapore, fumo. È chiaro,
dunque, che Girolamo volesse applicare il principio della resa ad sensum:

Io, infatti, non solo ammetto, ma proclamo liberamente che nel tradurre i testi greci […]
non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso. Ho come maestro di questo

88
Con Vulgata o Volgata si intende la traduzione in latino della Bibbia dall'antica versione greca ed ebraica.
San Girolamo ci lavorò per più di un decennio, dal 390 e al 405 d.C., e per molti secoli ha rappresentato la
traduzione canonica della Bibbia per l'intera Chiesa cattolica, a partire dalla proclamazione di ufficialità
durante il Concilio di Trento (1545-1563) fino al Concilio Vaticano II (1962-1965), quando fu
ulteriormente revisionata.

89
Havel è una variante aramaicheggiante dell’ebraico hevel.

90
I Settanta sono i primi traduttori dell’Antico Testamento in greco.

91
Cfr. Stefani P. (a cura di), Qohelet, Garzanti, Milano, 2014, pp. 18-19.

32
procedimento Cicerone [...]. Anche Orazio poi, uomo acuto e dotto, nell'Ars poetica dà
questi stessi precetti al traduttore colto: «Non ti curerai di rendere parola per parola, come
un traduttore fedele». 92

Nella sopra citata Lettera a Pammacchio, egli si richiama all'autorità di Cicerone e di


Orazio per sottolineare come un traduttore debba occuparsi di idee prima che di parole,
ma nel caso dell’Ecclesiaste questo assunto genera un profondo ripensamento concettuale
del testo originario. Per Girolamo il concetto di vanità prelude alla speranza nella vita
eterna, mentre l’hevel divora anche quella. In altre parole, quando Qohelet parla di
caducità non pretende affatto di trovare una qualche consolatoria soluzione, mentre il
padre della Chiesa contrappone all’effimera realtà mondana un’incorruttibile dimensione
spirituale. 93

Dopotutto, Girolamo si inserisce in quella tradizione esegetica che dopo la metà del IV
secolo si trovava alle prese con la definizione del “canone” (inteso come elenco di libri
biblici ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa) e includervi il Qohelet non era affatto
un’operazione scontata. Tutt’oggi, infatti, il cardinale Gianfranco Ravasi lo definisce
come «il libro più originale e scandaloso dell’Antico Testamento», immancabilmente
avvertito come una «pietra d’inciampo» tanto per la cultura ebraica quanto per quella
cristiana. 94

Il Talmud babilonese (Shabbat 30b) riporta la testimonianza di alcuni saggi del III secolo
che discutono circa l'opportunità di mantenere il Qohelet tra gli scritti sacri per l’ebraismo
(vi risulta annoverato già dalla fine del I sec. a.C.). Di fronte ad un magma di parole

92
S. Girolamo, Epistulae, Lettera a Pammacchio, in Nergaard S. (a cura di), La teoria della traduzione
nella storia: testi di Cicerone, san Gerolamo, Bruni, Lutero, Goethe, Von Humboldt, Schleiermacher,
Ortega y Gasset, Croce, Benjamin, Bompiani, Milano, 1993, p. 30. Girolamo riprende quando espresso
nella lettera a Pammachio nel prologo che aveva redatto per la versione latina del Cronicon di Eusebio: «E'
assai difficile quando si segue il pensiero di un autore non allontanarsene mai; è arduo addirittura conservare
nella traduzione tutta l'eleganza e la bellezza dell'originale [...]. Se traduco alla lettera, genero delle
assurdità, se costretto dalla necessità, altero in qualche cosa l'ordine, lo stile, mi si dirà che manco al mio
dovere d'interprete [...] Chè se alcuno pretende che una lingua non perda nulla della sua grazia in una
versione, traduca Omero letteralmente in latino, o meglio lo volga in prosa nella sua stessa lingua greca: si
accorgerà subito d'aver dinanzi un mostriciattolo, e che il più eloquente dei poeti s'è trasformato in un uomo
appena capace di parlare». (Ivi, p. 68).

93
L’affermarsi del senso storico che ha contraddistinto e contraddistingue l’esegesi moderna, ha colto
l’irrimediabile anacronismo dell’ermeneutica di San Girolamo: «all’origine l’autore del Qohelet non aveva
certo l’intenzione di preparare i suoi lettori all’ingresso nella vita vera ed eterna attraverso il suono di mesti
se non lugubri rintocchi». Stefani P. (a cura di), Qohelet, Garzanti, Milano, 2014, p. 56.
94
Ravasi G., Qohelet. Il libro più originale e «scandaloso» dell'Antico Testamento, San Paolo Edizioni,
Cinisello Balsamo, 2012.

33
ritenute «contraddittorie»,95 essi decisero di concentrarsi sulla frase conclusiva, aggiunta
successivamente alla stesura originale: «temi Dio e osserva i suoi precetti, l’intera
condizione umana si risolve in ciò» (Qo 12, 13). Il "timor di Dio" divenne dunque il
pretesto per la “normalizzazione” del libro, nonché il presupposto che gli permise di
venire accolto anche in ambito cristiano, dove fu ammesso nel Vecchio Testamento solo
a partire dall’intervento di Melitone di Sardi (190), seguito da Origene (250) e da altri
padri della Chiesa fino ad arrivare a Girolamo (390-413).96

Resta comunque il fatto che l’interpretazione patristica del Qohelet, più di quella di
qualunque altro scritto biblico, è stata pesantemente condizionata dagli imbarazzi presenti
nel suo insegnamento (su cui torneremo) e dalla costante preoccupazione di superarli.

Manlio Simonetti scrive: «L’Ecclesiaste, neutralizzati gli spunti di carattere “epicureo”97,


ben si prestava a mettere in risalto la vanità del mondo e di tutti i suoi beni, e questa è
l’usuale interpretazione che ne hanno dato gli antichi esegeti cristiani». 98 In realtà, non si
trattava solo di neutralizzare gli isolati spunti di carattere epicureo, ma di correggere
l’intera concezione esistenziale dell’autore, sotto vari aspetti così lontana dalla visione
etico-religiosa del cristianesimo. La prima via intrapresa per conseguire tale scopo fu
naturalmente quella dell’allegoresi. Ad esempio, se Qohelet afferma che «Non c’è nulla
di meglio per l’uomo che mangiare e bere e vedere prosperare la sua forza vitale nel corso

95
Segue un elenco limitato solo ad alcuni esempi delle contraddizioni che pervadono il testo: da una parte
si afferma che la sorte dei trapassati è migliore di quella dei viventi (Qo 3,2), mentre dall’altra si sostiene
che un cane vivo è meglio di un leone morto (Qo 9,4); da un lato si dichiara che l’afflizione rende migliore
il cuore (Qo 7,3) e dall’altra si elogia la gioia (Qo 8, 15); prima si sostiene che la saggezza è meglio della
stoltezza (Qo 2,13) e subito dopo si fa capire che essere saggi non porta a nulla (Qo 2,15). In un altro caso
si passa, nello spazio di appena tre versetti, dal proclamare felici, a differenza degli iniqui, coloro che
temono Dio, al dichiarare che sulla terra ai giusti capita a stessa sorte degli empi e viceversa (Qo 8,11-14).
Di fronte a simili difficoltà, in epoca antica, alcuni commentatori pensarono che il libro fosse costituito da
una specie di monologo interiore in cui il saggio passava dialetticamente in rassegna le proprie opinioni e
quelle dei suoi avversari (per certi passaggi ad esempio Girolamo pensava ad un confronto con le tesi
epicuree nel solco di un loro superamento). Tra Otto e Novecento la scelta di molti studiosi è stata quella
di ipotizzare che vi fossero più autori, ma risulta difficile immaginare che i redattori fossero sprovvisti di
forbici con cui emendare il testo dalle sue aporie. Per tale ragione attualmente – fatta eccezione per la
soprascritta (Qo, 1,1) e l’epilogo (Qo 12, 9-14), si è tornati ad essere convinti dell’esistenza di un’unitarietà
testuale. Cfr. Mazzinghi L., Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, EDB, Bologna, 2001, passim.

96
Cfr. Stefani P. (a cura di), Qohelet, cit., pp. 52-54; Mazzinghi L., Ho cercato e ho esplorato. Studi sul
Qohelet, cit., pp. 93-96.

97
Nel corso del presente lavoro di ricerca più avanti torneremo ad approfondire ampiamente gli spunti di
carattere epicureo presenti nel Qohelet.
98
Simonetti M., Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell'esegesi patristica, Ist. Patristico
Augustinianum, Roma, 2012, p. 151.

34
del suo duro lavoro» (Qo 3, 24),99 Girolamo, nel suo Commentarius in Ecclesiastem,
interpreta questo passaggio sovrapponendo un significato eucaristico alle azioni del
mangiare e del bere.100

Questo ci dà la misura di come Girolamo si preoccupasse di porre la canonizzazione del


testo in diretta continuità con il Nuovo Testamento. L’espediente con cui ha operato
questa saldatura è stato fare di Qohelet uno «spirito dell’attesa»: quanto più l’uomo è
immerso nell’insignificanza, tanto più si fa urgente il bisogno di uno svelamento, di una
rivelazione. In quest’ottica la denigrazione di ciò che è terreno e transitorio si può dunque
intendere come una spinta, una preparazione all'accoglienza di un mondo che verrà, un
«mettersi sulla soglia» di qualche evento o avvento portatore di senso. 101 In definitiva,
Girolamo giudica il Qohelet come una tappa della storia della salvezza: tutte le cose sono
vane fino a quando non sopraggiunge quanto è «perfetto»102, espressione che allude
evidentemente alla venuta di Cristo.

Emblematica in questo senso è anche la lettura delle parole dell’Ecclesiaste che troviamo
nel testo devozionale più diffuso e influente della letteratura cristiana occidentale, il
quattrocentesco De imitatione Christi, secondo cui prima di ogni altra cosa occorre
prepararsi alla vita ultraterrena in vista di un giudizio post mortem. Per l’autentico
Qohelet un simile modo di condurre la propria esistenza sarebbe stato semplicemente
incompressibile, dal momento in cui l’aldilà non è nemmeno incluso nell’orizzonte del
suo pensiero. Rifacendosi pertanto a Girolamo e, più in generale all’esegesi patristica, il
capitolo De imitatione Christi et contemptu mundi omniunque eius vanitatum, riprende e
cita direttamente alcuni concetti veterotestamentari per esortare al superamento del
contingente nella prospettiva escatologica della vita eterna:

99
Da qui in poi la traduzione del Qohelet adottata (salvo rare eccezioni che verranno opportunamente
segnalate) sarà quella a cura di P. Stefani nel saggio sopra citato. Stefani, infatti, è un biblista di fama
internazionale, insegna ebraismo presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e tiene corsi
presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Tra le moltissime fonti saggistiche consultate sul
Qohelet ai fini di questa ricerca, la sua è quella che ho trovato più attenta a rimanere aderente al testo
originale, facendo parlare il più possibile il misterioso autore con le sue stesse parole (derivate direttamente
dalla versione ebraica), ricomposte in un discorso interpretativo di grande lucidità ermeneutica e chiarezza
espositiva.

100
Leanza L., I condizionamenti dell’esegesi patristica. Un caso sintomatico: l’interpretazione di Qohelet,
in «Ricerche storico bibliche», a cura di G. Ghiberti, semestrale n. 2, 1990, pp. 25-50.

101
Cfr. De Benedetti P. (a cura di), Qohelet, Morcelliana, Brescia, 2004.

102
Girolamo, Commentarius in Ecclesiastem, in Patrologia Latina, XXIII, c. 1013.

35
Vanità delle vanità, tutto è vanità, fuorché amare Dio e servire lui solo. Questa è la
massima sapienza: tendere ai regni celesti, disprezzando questo mondo. Vanità è dunque
ricercare le ricchezze, destinate a finire, e porre in esse la propria speranza… Vanità è
occuparsi della vita presente e non guardare fin d’ora al futuro. Vanità è amare ciò che
passa con tutta rapidità e non affrettarsi là dove regna l’eterna gioia.103

Sono questi i temi ricorrenti della ricchissima letteratura cristiana sul disprezzo del
mondo, che tra i suoi capisaldi medievali annovera anche il De contemptu mundi di
Bernardo di Cluny, (metà del XII secolo) e il De contemptu mundi sive de miseria
conditionis humanae di Lotario Segni, poi papa col nome di Innocenzo III (fine del XII
secolo). Dalle loro pagine emerge un durevole sistema di topoi – una serie di immagini
forti (spesso basate sulle citazioni bibliche) - cui si connettono molti dei percorsi
figurativi legati alla vanitas, che pur includendo elementi tratti dal quotidiano e
dall’osservazione diretta dei fenomeni, sono connotati da «un marcato segno
letterario».104 Accanto agli scontati riferimenti alla fragilità della condizione umana, vi
sono insistiti e raccapriccianti rimandi al corpo e al suo disfacimento, alla carne in qualità
di «massa putredinis, unda voraginis, immo vorago» («massa, anzi voragine, anzi baratro
di putredine»), come scrive Lotario nel capitolo De putredine cadaverum.

Questa macabra visione assunse un ruolo centrale anche nel tardo Cinquecento e nell’età
barocca, tanto che il cardinale Roberto Bellarmino – autore del De arte bene moriendi
(1620) – fece adottare il testo di Innocenzo III come libro di meditazione nei collegi
gesuiti. 105 La tradizione di quest’ordine giunse a permeare capillarmente le società
cattoliche postridentine e a dare forma al loro modo di porsi di fronte alla morte,106
soprattutto attraverso gli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio da Loyola (1548), proposti
tanto ai religiosi quanto ai laici. I loro insegnamenti si collegano al movimento della
Devotio moderna, ponendo l’accento sull’importanza della preghiera del cuore e della

103
De imitatione Christi 1, 3-4, in Imitazione di Cristo, a cura di U. Nicolini, Edizione Paoline, Milano,
1986.

104
Veca A., Vanitas. Il simbolismo del tempo, cit., p. 18.

105
Guiducci P.L., “Laudato sie, mi’ signore, cum tucte le tue creature”. Dignitas hominis in S. Francesco
d’Assisi, in La dignità dell’uomo, numero monografico di «Communio. Rivista internazionale di teologia
e cultura», 206, 2006, p. 31.

106
Mâle E., L’arte religiosa del ‘600: Italia, Francia, Spagna, Fiandra, cit., pp. 186-188; Scaramella P.,
l’Italia dei trionfi e dei contrasti, in Humana fragilitas, I temi della morte in Europa tra Ducento e
Settecento, a cura di A. Tenenti, Clusone, Ferrari Editrice, 2000, p. 65.

36
mente, rispetto a quella vocale e liturgica, nell’ambito di un percorso individuale volto a
riconnettere ogni fedele alla volontà di Dio e all’imitazione di Cristo. All’interno di questa
rinnovata spiritualità si rafforza la meditazione sui novissimi, ovvero sulle verità ultime
costituite da Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso. In particolare la meditazione sulla
morte, inserita nel nucleo dei novissimi proprio con Sant’Ignazio, diventa lo strumento
privilegiato per distaccarsi dalle cose mondane e ricercare la vera via per la salvezza. La
morte, quindi, non è sentita come un’esperienza di rottura o un’ombra gettata
sull’esistenza quotidiana, ma come una luce che rischiara il momento presente
investendolo di assolutezza: «Devo considerare, come se fossi in punto di morte, il criterio
e la misura che allora vorrei aver tenuto nella presente elezione; e così regolandomi,
prenderò fermamente la mia decisione» (ES. 186)107.

Nella contemplazione della propria fine, Ignazio raccomanda di guidare l’immaginazione


per visualizzare quanto si sta meditando. Per esempio, in un passo invita a figurarsi la
lunghezza, la larghezza e la profondità dell’Inferno. In realtà, non è soltanto la vista a
dover essere coinvolta: l’oggetto della meditazione deve essere vissuto tramite tutti i
sensi, per questo vi è anche la sollecitazione ad odorare «il fumo, lo zolfo, il fetore e il
putridume». (ES. 68). I seguaci di Sant’Ignazio arricchirono e completarono gli Esercizi,
dedicando un’attenzione particolare all’orrore della dissoluzione fisica e delle pene
infernali, vividamente evocate stimolando i sensi e l’immaginazione del fedele. 108 Inoltre,
i Gesuiti nelle loro predicazioni erano soliti avvalersi di un teschio, invitando i fedeli a
fare altrettanto per meglio focalizzare le loro riflessioni sull’ineluttabilità della morte e
sui veri valori dello spirito.

Fuoriuscendo dalla pagina scritta, l’ostensione dei simboli della morte nel XVI e nel XVII
secolo diviene sempre più pervasiva e solenne. Scrive Chastel: «Non pare esagerato dire
che la sensibilità “barocca” si è manifestata soprattutto nei secoli XVI e XVII in una
esibizione intensa, insolita e assai impressionante delle “pompe funebri”», i cui
protagonisti erano lo scheletro e il teschio.109

107
Ignazio da Loyola, Esercizi Spirituali (1548), La civiltà cattolica, Roma, 2006.

108
Mâle E., L’arte religiosa del ‘600, cit., p. 186.

109
Chastel A., Favole Forme Figure, Einaudi, Torino, 1988, (ed. orig. Fables Formes, Figures, Paris, 1978,
p. 242.

37
Certo questo non vale per l’area protestante:

La morte e l’inumazione [in ambito protestante], invece, restano un affare privato: né


questo può sorprendere dal momento che tanto Calvino quanto Lutero non credono né al
purgatorio, né all’intercessione dei vivi. Così stando le cose, l’inumazione si riduce ad
essere una cerimonia dignitosa senza nulla di ostentato. 110

Ma finché rimaniamo in ambito cattolico si può dire con Chastel che:

Uno dei segni più caratteristici del tempo sono quelle enormi cartelle che contengono le
commemorazioni a stampa delle grandi cerimonie funebri; la sepoltura del duca Cosimo
de ‘Medici nel 1574 ha dato luogo a una Descrizione della pompa funerale di tale
ampiezza che vi si vedono dei grandi scheletri muniti di falce ritti lungo le arcate di santa
Maria del Fiore. Similmente, nel 1612, per commemorare la regina di Spagna [Margherita
d’Austria], si tiene una cerimonia incisa da Callot, che è una specie di trionfo della
morte.111

Ai fini del nostro discorso, vale la pena ricordare la cerimonia che si tenne il 21 agosto
1670 a Saint Denis, quando Jacques Benigne Bossuet, l'interprete più prestigioso
dell'oratoria sacra secentesca in Francia, pronunciò l'orazione funebre per Enrichetta
Anna duchessa d'Orleans, figlia di Enrichetta Maria regina d'Inghilterra. La tragedia
umana e quella politica (l'esilio dall'Inghilterra e poi la morte di Carlo I, giustiziato dal
Parlamento nel 1649) spingono Bossuet a commentare gli avvenimenti servendosi
dell’Ecclesiaste,

un testo che si adatta a tutte le condizioni e a tutti gli avvenimenti della nostra vita, per
una particolare ragione diventa esatto al nostro lacrimevole argomento, dal momento che
mai le vanità della terra sono state più chiaramente palesi, né così palesemente confuse.
No, dopo quanto stiamo per dire la felicità non è che un nome, la vita altro che un sogno,
la gloria altro che apparenza, gioie e piaceri non sono altro che un dannoso inganno: tutto

110
La citazione prosegue con dettagli che chiariscono a fondo l’idea: «Il rito calvinista è talmente austero
nella sua sobrietà da lasciare meravigliati non solo i cattolici ma anche i luterani, come Elia Brackenhoffer
di Strasburgo, di passaggio a Ginevra nel 1643: «Nessuna orazione funebre, né canti, né commemorazione,
di suoni di campane nemmeno a parlarne. Quando un uomo muore, è morto; non gli si fa nemmeno
l’elemosina di un Pater Noster. A chi lo piange e agli altri non resta che tornare a casa senza una parola di
consolazione, né di esortazione». Del resto, «il defunto non sa che farsene delle preghiere dei parenti [la
salvezza è affare personale], e quest’ultimi, d’altro canto, sicuri come sono che egli sarà tra gli eletti, non
hanno bisogno di essere consolati […]». Duby G., Aries P., La vita privata. Dal Rinascimento
all’Illuminismo, Laterza, Roma-Bari, 2004, pp. 73-74
111
Chastel A., Favole Forme Figure, Einaudi, Torino, 1988, (Fables Formes, Figures, Paris, 1978), p. 230.

38
è vano in noi eccetto la sincera confessione che noi facciamo a Dio delle nostre vanità e
il trattenuto giudizio che ci fa disprezzare tutto quanto noi siamo. 112

Ed eccoci tornati al punto di partenza, per poter meglio approfondire la fonte che sopra
ogni altra influenzò il genere della vanitas. La dissertazione che segue cercherà, però, di
tornare all’originaria versione ebraica del Qohelet, espunta dalle alterazioni operate dalla
Vulgata. Questo sforzo ermeneutico, in ogni caso, nutre l’intento di fornire solo alcuni
punti d’appiglio, ma non certo la chiave di volta: sarebbe impossibile di fronte ad un testo
che è tanto più illuminante quanto più è contraddittorio e irrisolto. Un libro che «per
quanto letto, viene da rileggerlo, e per quanto dichiari che “non vi è nulla di nuovo sotto
il sole”, risulta esso stesso sempre nuovo». 113

Qohelet è un enigma a partire dalla stessa identità del suo autore, o meglio «descrivere
come si presenta Qohelet è un problema elementare e difficile da sciogliere; anzi per
alcuni aspetti è addirittura paragonabile alla quadratura del cerchio». 114 Da un lato la
questione sembrerebbe risolta fin dalla prima riga del libro: «Parole di Qohelet figlio di
Davide, re di Gerusalemme» (Qo 1, 1). Tra lo stuolo di figli avuti da Davide uno solo fu
re di quella città: Salomone. La paternità dell’opera appare quindi sicura e, in effetti, così
si è creduto per secoli. La vera rottura con tale convincimento si ebbe solo nel 1644,
quando Ugo Grozio, nelle sue Adnotationes, difese l’idea che il libro del Qohelet non fu
scritto da Salomone, ma da altri, in un’epoca posteriore.115 Da quel momento l’esegesi
moderna inaugurò un dibattito che portò quella contemporanea ad abbandonare
definitivamente l’idea di un Qohelet salomonico. In tal senso, la celebre affermazione di

112
Citato da Veca A., Vanitas. Il simbolismo del tempo, cit., p. 5.

113
Natoli S., Stare al mondo, Feltrinelli, Milano 2002, 2008, p. 205. Partendo dal presupposto che il più
grande pregio dello scritto veterotestamentario in questione è proprio il suo carattere irrisolto, non stupisce
che su di esso, dai tempi dei padri della Chiesa ai giorni nostri, siano stati versati fiumi e fiumi di inchiostro.
Basti pensare che uno dei motivi di maggiore interesse del libro sopra citato di Gianfranco Ravasi è proprio
il capitolo intitolato I mille Qohelet, solo per dare una misura delle possibili rifrazioni prismatiche originate
da questo diamante della storia della letteratura. Se fosse stata un’opera scritta da un filosofo ellenistico di
orientamento cinico o scettico, il Qohelet sarebbe, con ogni probabilità, apprezzato solo da un ridotto
numero di studiosi. In questo caso il libretto non solleverebbe grandi stupori o imbarazzi interpretativi. Lo
stesso varrebbe se si trattasse di un libro biblico paragonabile ad altri. A segnarne l’enorme fortuna,
pertanto, è il fatto stesso che il Qohelet si presenti come «una paradossale alterità interna» al grande Libro,
sfruttando però il linguaggio universale della sapienza, rintracciabile nell’ordine stesso del mondo, che si
presenta uguale per tutti. Cfr. Stefani P. (a cura di), Qohelet, cit., pp. 3-5.

114
Cfr. Stefani P. (a cura di), Qohelet, cit., p. 17

115
Hugonis Grotii Adnotationes ad Vetus Testamentum, Tomus I, Parisiis, 1644, citato in Mazzinghi L.,
Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, cit., p. 19.

39
Franz Delitzsch fornisce un solido punto fermo: «se il libro del Qohelet fosse del tempo
antico di Salomone, non esisterebbe storia della lingua ebraica». 116 Il contesto storico ci
fornisce anche un altro indizio importante, oltre a quello linguistico: in tempi antichi
(quando si doveva fare a meno dell’invenzione della stampa), l’espediente della
pseudonimia era molto frequente, così da favorire una maggiore circolazione delle proprie
idee sotto l’auctoritas di altri nomi che avevano già scavato solchi profondi nella storia
del pensiero.

Chi era allora questo Qohelet? Partendo dall’etimologia del nome abbiamo visto che il
modo più calzante di tradurlo potrebbe essere “colui che raduna”. Eppure, rischiamo di
ritrovarci davanti al paradosso di un radunatore senza oggetto, poiché soltanto nelle
ultime righe (quelle attribuite all’epiloghista) si dice che Qohelet insegnò al popolo (Qo
12, 9). La mancanza di un vasto pubblico, peraltro, risulterebbe coerente con il tono di un
libro che ha ben poco di predicatorio. Come nota Pietro Stefani, «le riflessioni sulla
vacuità dell’operare e sull’ inconsistenza del conoscere non sono moneta corrente
nell’oratoria assembleare. Si è, però, suggerito che ci si riferisca non al radunarsi di una
folla, ma a quello, più ristretto, di un circolo di dotti»117. Tuttavia, Qohelet all’inizio del
libro non si descrive come un maestro, bensì come un re raccolto nel suo meditare, «in
una specie di monologo diaristico»118, cosparso di molti «chissà?». La forma interrogativa
e talvolta volutamente contraddittoria delle sue riflessioni ci restituisce uno dei pochi
indiscutibili connotati di questo misterioso autore: quello dell’ironia, parola derivante dal
greco eirōneía, “dissimulazione”. Quella dell’antico re potente e saggio è solo una
maschera, dietro la quale non si cela realmente un’autorità di tipo politico o religioso.

Roland E. Murphy, ponendosi sulla scia di Norbert Lohfink, ha difeso con forza l'idea
che il vero volto del sapiente fosse quello di «un saggio giudaico, influenzato dallo spirito
ellenistico del suo tempo». 119A supporto di questa tesi, la maggioranza dei filologi ritiene
che il Qohelet vide la luce nella Gerusalemme tolemaica della metà del III sec. a.C., e

116
Delitzsch F., Kohelet, in Biblisher kommentar uber die biblischen Bucher der A. Ts., Leipzig, 1875, IV,
citato in Mazzinghi L., Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, cit., p. 19.

117
Cfr. Stefani P. (a cura di), Qohelet, cit., p. 19.

118
Ibidem.

119
Murphy R. E., L’albero della vita. Una esplorazione della letteratura sapienziale biblica, Queriniana,
Brescia, 2000, p. 222. Cfr. Lohfink N. (a cura di), Qohelet, Morcelliana, Brescia, 1997, pp. 21-22.

40
quindi in una città che, volente o nolente, era costretta a confrontarsi con la cultura
ellenistica.120 Ecco perché tra le righe del libro si insinua una visione individualista e
disillusa, che apparenta il divino al Fato dei filosofi; 121 così come si fa largo «un approccio
razionale che, pur ancorato al mondo biblico, si avvicina al carpe diem greco»122 (come
vedremo meglio più avanti), pur senza poter parlare di un approccio filosofico in senso
stretto, per la voluta asistematicità del discorso.

A tal proposito, è opportuno sottolineare come vari studi contemporanei dedicati al


Qohelet, di fronte alla sua discontinuità, abbiano immaginato di ricomporre il quadro
d’insieme in uno sviluppo dinamico e circolare, in cui vengono proposti in modo critico
(e per alcuni aspetti addirittura dissacrante) alcuni temi della letteratura sapienziale, cui
l’autore continua ad appartenere. In questo andamento circolare i suoi ragionamenti non
approdano a una meta certa, o meglio Qohelet nega l’esistenza di una causa finale. Non
a caso fin dalle battute iniziali, egli collega il girare dei venti e lo scorrere dei fiumi
all’incapacità del linguaggio di pervenire a una conclusione sicura: «Si spinge verso il
meridione e gira verso il settentrione, girando e rigirando se ne va il vento e sui suoi giri
ritorna. / Tutti i fiumi scorrono verso il mare, ma il mare non si riempie, al luogo verso
cui scendono i fiumi, là essi tornano per scorrere ancora. / Tutte le parole si logorano e

120
Nel 332 a.C. Alessandro invase l’Egitto. Cammin facendo conquistò anche la Galilea, la Samaria e la
Giudea. Questi eventi fecero sì che l’ebraismo entrasse in contatto con il mondo culturale greco. Si trattò
di un impatto del tutto nuovo che nulla aveva da spartire con gli scambi culturali dovuti a dominatori
precedenti (assiri, persiani, babilonesi, persiani). Dopo la morte di Alessandro (323 a.C.) i suoi generali,
denominati diadochi (successori), si spartirono i territori dell’immenso impero e la regione siro-babilonese
passò a Seleuco, ma dopo alterne vicende il governatore d’Egitto, Tolomeo, riuscì a occupare nel 312 a.C.
la Giudea e Gerusalemme, strappandola alla famiglia dei Seleuicidi. La Giudea restò sotto il dominio
tolemaico per più di un secolo, infatti fu solo tra il 201 e il 200 a.C. che i Seleucidi tornarono in possesso
della regione. Il processo di ellenizzazione non fu omogeneo in tutta l’area dell’ex impero macedone: fu
molto forte soprattutto in Egitto (anche in relazione alla popolazione ebraica là residente) ed ebbe dei sicuri
influssi anche in terra d’Israele, malgrado il ruolo svolto dal Tempio di Gerusalemme come baluardo della
sacralità e della cultura tradizionali. Seppur in diversa misura, si può comunque affermare che i popoli
conquistati subirono il fascino dell’ellenismo e della diffusione di alcune grandi scuole di pensiero, come
quella stoica, epicurea, scettica e cinica. Cfr. Stefani P., Qohelet, cit., p. 42.

121
Il Dio di Qohelet è Elohim (con cui indica genericamente la sfera del divino), non YHWH
(l’impronunciabile nome del signore che in Giobbe ricorre per ben 32 volte e qui mai). Se Giobbe, messo
alla prova, si spinge a protestare col sommo dandogli addirittura del “Tu”, questa visione di un Dio
personale – che era solito dialogare con i protagonisti del Vecchio Testamento - scompare completamente
nel Qohelet, dove invece Dio è avvertito come lontano e imperscrutabile e quindi non troppo diverso dal
semplice concetto di Fato.
122
Stefani P. (a cura di), Qohelet, Garzanti, Milano, 2014, p. 48.

41
all’uomo è precluso pronunciarle fino in fondo» (Qo 1, 6-8). Pertanto, addentrandosi nel
Qohelet, il lettore è catturato «nelle spirali evanescenti del suo vivido pensare». 123

La più grande sfida lanciata da questo libro consiste nel fatto che ci costringe «ad
osservare le cose dal punto di vista del loro finire»; per tale ragione il suo protagonista
non può che essere il vivente.124 In questo testo biblico, infatti, non si parla mai
dell’estinto, del morto: per il fatto stesso di non esserci più esso cade fuori dall’orizzonte
della dicibilità. «Su ciò di cui non si può parlare bisogna tacere», afferma Wittgenstein
nel suo Tractatus logico-philosophicus (1921), e la morte rientra evidentemente in
quest’ambito, dal momento in cui «i vivi sono consci di dover morire, mentre i morti non
sanno proprio niente» (Qo 9, 5). Nel Qohelet non è dato scorgere alcun riferimento al
teschio, che nel corso del XVI e del XVII diventò cifra sintetica del concetto di vanitas,125
al centro di nature morte moralizzate, allegorie ed immagini di santi. Dunque, laddove gli
“indicatori” della morte sono mostrati in tutta la loro evidenza, si demarca una
significativa distanza rispetto al clima più proprio del Qohelet.

Per coglierne il senso più autentico e profondo ogni interprete del testo deve innanzitutto
prendere confidenza con il termine ebraico hevel, il vero e proprio sigillo del Qohelet,
vuoi per la frequenza delle sue ricorrenze (ben 38 volte lungo i 12 capitoletti del testo),
vuoi perché, nella sua forma superlativa (havel havalim), si ripete all’inizio e alla fine del
testo.

L’essere umano è hevel in quanto il soffio che lo anima è destinato ad esaurirsi. Nella
Bibbia ebraica ci si imbatte di frequente nella parola ruach (generalmente tradotta con
“spirito”), il cui significato primitivo è quello di vento e di respiro, o meglio di
respirazione. La ruach indica quindi il principio datore di vita che consente a ogni
individuo di sussistere. In un certo senso si potrebbe perciò affermare che l’hevel
costituisce l’estremo opposto del soffio vitale o, più precisamente, esso rappresenta il

123
Ivi, p. 25.

124
Stefani P., Dies irae. Immagini della fine, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 23.

125
E’ indubbio che il teschio, la «testa della morte», costituisca la presenza più esplicita e ricorrente nelle
vanitates secentesche, ma è altrettanto vero, come precedentemente anticipato, che risulta limitante e
sbrigativo considerarle solo una rappresentazione della morte e dei suoi devastanti effetti o la semplice
illustrazione di un tema moraleggiante. Spesso, infatti, come la critica ha più volte rilevato il significato più
intrigante e universale è quello della semplice rappresentazione del tempo.

42
depotenziarsi stesso della ruach, che si illanguidisce poco a poco fino a diventare alito
spirante.

Nella maggior parte dei testi biblici, in effetti, hevel è impiegato in chiave metaforica per
affermare la fugacità della vita umana: «Un soffio (hevel) sono i miei giorni» (Gb 7,16;
Cfr. Sal 39, 6-7; 62, 10; 144, 4). Va detto, però, che in qualche salmo (cfr. Sal 39) e in
alcuni libri sapienziali (cfr. Pr 21,6) il tema della transitorietà del vivere è legato a quello
del peccato, argomento del tutto estraneo al Qohelet.

La comprensione di hevel in relazione a questo testo risente della polarità che sussiste tra
l’uso di un stesso termine e la gamma di significati da esso assunti all’interno del libro.
Forse una delle ragioni del consolidato dominio della parola “vanità” sta proprio nel fatto
che essa, per quanto largamente inadeguata, è nelle condizioni di venir riproposta con più
regolarità lungo l’intero libro di quanto non accada per: soffio, vuoto, nulla, fumo.126

Una volta appurato, fin dall’incipit, che «tutto è hevel», Qohelet cerca di calare l’hevel in
tre situazioni concrete, dato il valore imprescindibile dell’esperienza, l’unico modo
concesso al sapiente per poter dire qualcosa.

La prima attesta che la fatica e il duro lavoro umano non portano mai frutti imperituri e,
come se non bastasse, alla fine il prodotto del proprio faticare passerà ad altri, con il
rischio che sia abbandonato all’incuria: «Mi volsi a tutte le opere compiute dalle mie mani
e alla fatica che feci per attuarle: ed ecco il tutto è un povero soffio e pascersi di vento»
(Qo 2,11); «Dopo aver considerato tutte le opere da me compiute con fatica sotto il sole,
fui indotto a consegnare il mio cuore alla disperazione. L’uomo che ha faticato con
saggezza, intelligenza e buona riuscita cederà la sua parte a chi di tutto ciò non si prese
affatto cura; anche questo è un soffio prossimo a estinguersi e un gran male. Infatti per
l’uomo cosa mai ne è di tutto il faticoso lavoro e del tormento del cuore da lui sperimentati
sotto il sole?» (Qo, 2,19-22); «[…] vi è un individuo a cui Dio diede ricchezza, beni e
gloria, nulla gli manca di quanto desidera, ma a lui Dio vieta di gustarli; un estraneo infatti
li assaporerà, ciò è soffio che si dilegua e un malvagio malanno» (Qo 6, 1-2).

La seconda situazione pone in rilievo che ai saggi e ai giusti tocca la stessa sorte degli
stolti e degli empi: «C’è una situazione assurda che si verifica sulla terra, i giusti sono
trattati come malvagi, mentre i malvagi sono trattati come giusti» (Qo 8,14): alla fine dei

126
Stefani P. (a cura di), Qohelet, cit., p. 29.

43
conti tutti muoiono allo stesso modo: «il saggio ha gli occhi aperti, mentre lo stolto vaga
nell’oscurità; tuttavia io ho anche appreso che entrambi andranno incontro a un’unica
sorte. E io dissi in cuor mio: anche a me toccherà la stessa sorte dello stolto. Perché allora
fui saggio? Che ne ricavo?» (Qo 2, 14).

Infine il terzo ambito tocca l’insuperabile caducità che attanaglia ogni vivente: «La sorte
degli uomini e quella delle bestie è infatti un’unica sorte per tutti loro, come c’è morte
per gli uni, c’è morte per le altre, per tutti vi è un unico respiro. Poiché non c’è qualcosa
nell’uomo più di quanto non avvenga per le bestie, tutti sono un soffio che svanisce. Tutti
provengono dalla polvere e tutti tornano alla polvere; chi sa se l’alito di vita [la ruach]
degli esseri umani salga verso l’alto e se l’alito di vita delle bestie scenda verso il basso
per sprofondare sotto terra?». (Qo 3, 19-21).127

Vi sono solo due realtà sottratte alla sfera dell’hevel. La prima è quella della terra, che
funge da immoto fondale su cui si sussegue l’andirivieni delle generazioni: «Una
generazione se va, una generazione giunge, mentre la terra sta immobile per sempre» (Qo
1, 4). L’altra è nei cieli ed è Dio, cui Qohelet si rivolge sempre e solo con il nome generico
di Elohim (che può indicare tutta la sfera del divino). Il suo agire incomprensibile,
costituisce la ragione più profonda della limitatezza umana. Nelle sue parole non vi è
traccia del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio della salvezza, il Dio dell’alleanza
con il popolo d’Israele: nell’hevel che ispira ogni pagina non vi è posto per la storia sacra
e per le promesse rivolte alla casa di Davide, né, quindi, per un senso lineare, progressivo
e finalistico del tempo come quello tipico dell’ebraismo.

Al contrario, se il mondo è sempre stato e sempre sarà (Qo 1, 4), se «Sotto il sole non si
dà nulla di nuovo» (Qo 1, 9),128 se uomini e bestie tornano alla polvere da cui provengono
(Qo 3, 20) è perché, tutto scorre e fluisce nella circolarità di un tempo interamente
compreso nel ciclo perenne di nascita e morte.

Da questo punto di vista è possibile avanzare un parallelo con il precetto della fisica
democritea ed epicurea, secondo cui «nulla diviene dal non essere e nulla perisce nel non
essere», come è riportato dalla Vita di Democrito e dalla Vita di Epicuro (Epistola a

127
Come vedremo, quest’affermazione di Qohelet sarà ripresa a sostegno dell’eterodossa teoria della
mortalità dell’animo, propugnata da diversi “spiriti forti” dell’età moderna.

128
Cfr. Epicuro, Sentenze vaticane, 25: «Nulla di nuovo si compie nell’universo rispetto all’infinito tempo
già trascorso».

44
Erodoto) di Diogene Laerzio (III sec. d.C. ca.)129 e, ancor prima, dal De rerum natura di
Tito Lucrezio Caro (I sec. a.C.), il sublime poema didascalico nato con l’intento di
divulgare l’epicureismo a Roma addolcendolo «col miele della letteratura»:

Bisogna dunque ammettere che nulla può prodursi dal nulla,

poiché le cose necessitano di un seme [l’atomo] 130 dal quale ognuna,

una volta generata, possa espandersi nei dolci aliti dell’aria.

[…] Aggiungi che la natura disgrega di nuovo ogni corpo

nei suoi elementi essenziali, ma non può annientarlo del tutto.

[...] E dunque nessuna sostanza ritorna nel nulla, ma tutte

dissolte ritornano alle particelle elementari della materia.

Si perdono infinite le piogge quando l’etere padre

le effonde a rovesci nel grembo della madre terra;

ma sorgono le splendide messi e verdeggiano i rami degli alberi,

questi si accrescono e piegano al peso dei frutti;

qui si alimenta la specie degli uomini e delle fiere,

[…] Dunque ogni cosa visibile non perisce del tutto,

poiché una cosa dall’altra la natura ricrea,

e non lascia che alcuna ne nasca se non dalla morte di un’altra.131

129
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, Laterza, Bari, 2010, pp. 369; 413-428.

130
Cfr. Odifreddi P., Come stanno le cose, Il mio Lucrezio, la mia Venere, Rizzoli, Milano, 2013, p. 36:
«La parola atomos significa “indivisibile” e fu introdotta verso il 450 a.C. da Democrito. Ma il concetto di
“elemento indivisibile” era precedente: di qualche anno, nell’opera del suo maestro Leucipp, e di più di un
secolo, nel pensiero delle varie scuole atomiste indiane (Ajivika e Giaina in particolare). Come scrisse
Heinrich Zimmer nelle Filosofie dell’India, “il mondo era già molto vecchio, molto saggio e molto istruito,
quando la speculazione dei Greci produsse i testi che nelle nostre università si studiano come se fossero i
primi capitoli della filosofia”. E lo era ancora di più, ovviamente, quando Epicuro riprese il concetto un
secolo e mezzo dopo Democrito e due secoli e mezzo prima di Lucrezio».

131
Lucrezio, La Natura delle cose, traduzione di L. Canali, BUR Rizzoli, Milano, 2020, vv. 205-207; 215-
216; 248-254; 262-264.

45
In definitiva «nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma» 132 e in questo senso
l’essere consegnati al regno dell’estinzione diventa un passaggio imprescindibile affinché
altri possano iniziare a sussistere e affinché la natura possa perpetrare lo status quo delle
sue leggi eterne, assicurando il ciclico rinnovarsi della vita. Non ci è dato sapere quanto
a fondo Qohelet sia stato influenzato dal diffondersi del verbo epicureo (che in epoca
ellenistica era professato in lungo e in largo per le terre dell’ex impero macedone,
arrivando a toccare anche la Giudea), fatto sta che nelle sue parole l’hevel assume tutta la
portata abissale di un inarrestabile declinare inscritto nell’ordine naturale delle cose. 133
Un concetto che è stato espresso al meglio dalla veemenza della penna di Guido Ceronetti:

Ho cercato di rendere, per smania di totalità, in modo più adeguato il qoheletico havel
havalim – due aspirate e due labiali che s’incalzano, un soffio che va tra i denti – dal quale
tutto il vuoto della vita che una parola umana può trattenere, sembra in un filosofico sputo
precipitarsi fuori. […] Meglio di vanitas in latino gli corrisponderebbe labes, più
pregnante e più grave, rovina in atto, difetto organico, vizio congenito: tuto è difetto, tutto
è caduta, tutto è flusso perpetuo. […] Fluire, fluire! Tutto fluisce! (generazioni, astri
fiumi, tempo, sforzi) – di cui la vanità non sarebbe che l’essenza giudicata. […]
Qoheletico è la coscienza violentissima di tutto il fare e l’andare che non arrivano a niente,
priva di una gnosi che guidi oltre il buio, perché la hokhmàh [conoscenza] non lo è: la sua
luce illumina il ventre e qualche cosa intorno, ma non aiuta a uscire nell’Aperto. Mentre
hevel non ha tempo, e la sua interpretabilità è infinita, vanitas ha un tempo e un senso
limitato. Vanitas è cristianesimo, la campana di un chiostro tirata da uno spettrale
Ecclesiaste. Ai monaci, casti o dannati nella carne, era sempre compagna, con le sue vuote
occhiaie, la Vanitas […] Vanità è sinonimo mistico di Distruzione. Havel havalim,
Distruzione di Distruzioni… Pensate alle stelle di neutroni, ai buchi neri delle galassie, ai
cimiteri d’atomi spenti dell’universo. […] La speranza cristiana non ammette la realtà
assoluta dell’havel havalim di Qohelet […] Havel havalim oltrepassa pessimismo
cristiano e ottimismo ebraico, e qualsiasi altra cosa. Questa parola è veramente senza

132
«Nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma» è una massima coniata per la prima volta da
Empedocle, nel V sec. a.C. Trovò il suo sviluppo nella filosofia di Democrito, Epicuro e Lucrezio e, secoli
dopo, nella chimica moderna, quando un’analoga Legge di conservazione della materia fu enunciata nel
1748 da Michail Lomonosov e riformulata nel 1789 da Antoine-Laurent Lavoisier nel Trattato di elementi
di chimica: «In una reazione, la somma delle masse dei reagenti è uguale alla somma delle masse dei
prodotti della reazione». Cfr. Odifreddi P., Come stanno le cose, Il mio Lucrezio, la mia Venere, Rizzoli,
Milano, 2013, p. 38.

133
Cfr. Qo 3,19-21.

46
limiti, e questo spiega la paura di toccarla e la riluttanza a sviscerarla. La mano umana
cerca sempre di acchiappare un punto, e nel fluire qoheletico non ci sono punti […]. 134

Ma la parola chiave per comprendere il Qohelet è davvero solo hevel? Accanto a


questa assume un peso straordinario anche la parola ‘ani, (io), che torna per ben 29
volte. «Per la prima volta, da quanto se ne sa, nella letteratura sapienziale ebraica
(con l’eccezione di Pr 24, 32) il Saggio dà la precedenza all’ “Io”». 135 In queste pagine
vi è molta più empiria che trascendenza. Per questo chi parla è, o finge di essere,
vecchio, ponendosi in tal modo nelle condizioni di chi ha molto vissuto e indagato. 136
In particolare due direzioni hanno contraddistinto il suo esistere: la ricerca della
sapienza e la via del piacere. Ecco perché nessun altro personaggio della Scrittura
deve essere sembrato più adatto di Salomone ad incarnare il duplice cammino di
Qohelet, che si presenta sotto la veste di un re sapiente ma anche sensibile al
godimento e al fasto. Sulla base di un antico testo midrashico si diffuse, dunque, la
secolare leggenda (messa in discussione solo nel XVII da Grozio), secondo cui
Salomone avrebbe scritto da giovane il Cantico dei cantici, da uomo maturo il libro
dei Proverbi e, nella sua disincantata vecchiaia, proprio il libro del Qohelet. 137 Ma
poco o nulla si comprenderebbe dello spirito di questo libro se si pensasse – piuttosto
superficialmente - che nel corso dell’esistenza il desiderio di appagamento debba
necessariamente precedere quello volto alla ricerca di senso, come se il primo
attenesse esclusivamente alla giovinezza e il secondo alla maturità e alla vecchiaia.
Fin dal primo capitolo la confessione di Qohelet sull’ambiziosa e utopica vastità del
suo sforzo conoscitivo lascia immaginare, infatti, che egli vi si consumi da molto
tempo, se non da tutta una vita: «Rivolsi il mio cuore a indagare con saggezza su
tutto quanto si compie sotto il cielo», aggiungendo immediatamente che si tratta di
«brutto affare rifilato da Dio agli uomini perché vi si esauriscano» (Qo 1, 13). Per
chi, come lui, si è dedicato con ogni fibra di sé stesso al comprendere e al conoscere,

134
Ceronetti G., Qohélet. Colui che prende la parola, Adelphi, Milano, 2001, pp. 117-119.

135
Bickerman E.J., Quattro libri stravaganti della Bibbia, Giona, Daniele, Koelet, Ester, Paltron,
Bologna, 1979, p. 166.

136
Cfr. Stefani P., Dies irae. Immagini della fine, cit., p. 27.

137
Mancuso P. (a cura di), Qohelet Rabbah Midras sul libro dell’Ecclesiaste, Firenze, Giuntina, 2004, p.
1; riferimento citato in Mazzinghi L., Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, cit., p. 19: «Quando un
uomo è giovane compone canti, quando è maturo compone affermazione assennate, quando diviene vecchio
discute della vanità delle cose».

47
«il piacere appare, alla fine, una specie di rifugio per le delusioni patite nella vana
ricerca del vero, anche se si tratta di un anfratto di cui si riconosce a priori la
precarietà»:138

Indirizzai il mio cuore a conoscere saggezza e scienza, conobbi insensatezza e stoltezza


e anche questo non è che un pascersi di vento. In molta saggezza vi è infatti un grande ed
esacerbato tormento ed accrescere la conoscenza comporta moltiplicare gli affanni. Io
dissi nel mio cuore: “Suvvia proviamo con la gioia e stiamo a vedere dov’è il bene”, pure
ciò è povero soffio (Qo 1, 17-18; 2, 1).

Da queste affermazioni si evince innanzitutto come la maschera di Qohelet sia priva di


pathos: in lui c’è grande distacco, tanto che lo slancio dell’ultimo verso si tinge di un tono
ironico e rievocativo, piuttosto che di un’affannosa e disperata imperatività. Dopo aver
sperimentato la delusione del sapere, Qohelet ricorda di essersi volto a cercare la gioia,
ammettendo che le poche note di gaudio che è riuscito a comporre hanno comunque una
flebile tonalità rispetto al cupo suono di basso dell’inestinguibile hevel di sottofondo.

Se sul piano universale gioia e conoscenza sono apparentate in un «povero soffio», sul
piano esistenziale, invece, Qohelet nutre il convincimento che tra le due cose esista
un’antitesi insanabile. Capita di essere felici, ma ciò avviene solo nei brevi attimi in cui
il saggio abdica alla sua insopprimibile volontà di conoscere. Non ha tutti i torti Elias J.
Bickerman quando sostiene che il cruccio di Qohelet «è di non saper essere edonista»,
poiché non riesce a spogliarsi integralmente del proprio abito sapienziale. 139

La superiorità del saggio sta semplicemente nel fatto che «E’ solo la ragione sorretta
dall’esperienza e non il cieco procedere dello stolto a saper cogliere la portata dell'hevel,
cioè a essere consapevole che non si comprende mai tanto a fondo la realtà come quando
la si guarda nella prospettiva del suo estinguersi». 140

138
Stefani P., Dies irae. Immagini della fine, cit., p. 28.

139
Bickerman E.J, op. cit. p. 168.

140
Stefani P., Dies irae. Immagini della fine, cit., p. 29. Per quanto Qohelet esorti al piacere come a un
momento di dimenticanza, in fondo, come tutti i saggi, lui per primo non è disposto a rinunciare alla
consapevolezza.

48
1.4 La presenza della vanitas nella filosofia antica
Ad ogni evidenza, le radici del tema della vanitas non sono solo bibliche e religiose. Nel
XVII secolo la meditazione sulla fugacità di tutte le cose (e la sua multiforme traduzione
figurativa), pur essendo legata a filo doppio all’Ecclesiaste, è talmente pervasiva da
estendersi fino alla ripresa di alcune posizioni filosofiche antiche, affermate come codici
etici.

Dato che esistono esercizi spirituali cristiani, si crede che gli esercizi spirituali siano di
ordine religioso. Invece gli esercizi spirituali cristiani sono apparsi nel cristianesimo a
partire dal II secolo proprio come conseguenza della volontà del cristianesimo di
presentarsi come una filosofia sul modello della filosofia greca, cioè come un modo di
vivere […]. Le religioni greche e romane, che non implicavano un’adesione interiore
dell’individuo, ma erano soprattutto fenomeni sociali, ignoravano completamente la
nozione di esercizi spirituali. […] Per quanto mi riguarda, considero, forse a torto, che si
debba impiegare il termine “religione” per designare un fenomeno che comporta
immagini, persone, offerte, feste, luoghi consacrati a Dio o agli dei. Cosa che non esiste
assolutamente nella filosofia. Mi si dirà: ma allora come la mette con la religione in spirito
e in verità, la religione liberata dagli aspetti sociologici e rituali e ridotta a un esercizio
della presenza di Dio? Risponderò: è della stessa specie della saggezza o della filosofia. 141

Ad ispirare fortemente queste parole di Pierre Hadot, come lui stesso dichiara, è stato il
saggio Direzione delle anime. Metodo degli esercizi nell'Antichità (1954) di Paul
Rabbow, che ha il grande merito di mostrare come gli Esercizi spirituali di sant'Ignazio
si inseriscano nella tradizione dell’«esercizio morale» praticato dai filosofi antichi, ed in
particolare da stoici ed epicurei. Hadot, però, nota anche come Rabbow abbia la tendenza
a limitare l’estensione di questo fenomeno al periodo ellenistico e romano, valorizzando
in primis l’aspetto etico di quello che chiama «l’orientamento verso l’interiorità» che si
verifica nel secolo III a.C., mentre «è la filosofia stessa che gli antichi hanno concepito
come esercizio spirituale».142

141
Hadot P., La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson,
Einaudi, Torino, 2008, p. 52.

142
Hadot P., Esercizi spirituali e la filosofia antica, Einaudi, Torino, 2005, p. 69. Cfr. Hadot P., La filosofia
come modo di vivere, cit., p. 128: «La filosofia era l'esercizio effettivo, concreto, vissuto, la pratica della
logica, dell'etica e della fisica. La vera logica non è la teoria pura della logica, ma la logica vissuta, l'atto di
esercitare il proprio pensiero in modo corretto nella vita di tutti i giorni. […] Evidentemente ciò è vero
anche per l'etica. L'etica autentica non è la teoria dell'etica, ma l'etica vissuta nella vita con gli altri uomini.
Lo stesso vale per la fisica. La vera fisica non è la teoria della fisica, ma la fisica vissuta, cioè un certo
atteggiamento nei confronti del cosmo».
49
Inoltre Rabbow parla dell’esercizio morale degli antichi, come del «gemello» di quello
spirituale proprio del cristianesimo.

E’ vero che l’esercizio spirituale cristiano assume nuovo significato a causa del
carattere specifico della spiritualità cristiana, ispirata dalla morte di Cristo e dalla
vita trinitaria delle persone divine. Ma parlare di semplice “esercizio morale” per
indicare gli esercizi filosofici dell’antichità equivale a ignorare l’importanza e il
significato di tale fenomeno. […] questi esercizi intendono realizzare una
trasformazione della visione del mondo, una metamorfosi dell’essere. Dunque
hanno un valore non solo morale, ma esistenziale. Non si tratta di un codice di
buona condotta, ma di una maniera di essere nel senso più forte del termine. E
quindi la denominazione “esercizi spirituali” è in ultima analisi la migliore, poiché
sottolinea come si tratti di esercizi che impiegano tutto lo spirito. 143

Del resto, già la tradizione degli Apologisti, sviluppatasi tra il II e il III secolo, cerca di
assimilare il cristianesimo alla filosofia, pur non considerandolo come una filosofia
accanto ad altre, ma come la filosofia in possesso del Logos incarnato da Cristo. «Se
filosofare è vivere conformemente alla legge della ragione, i cristiani filosofano perché
vivono conformemente alla legge del Logos divino».144 Più tardi, quando a partire dal IV
secolo il monachesimo apparirà come la perfetta realizzazione dell’ideale cristiano,
anch’esso verrà considerato filosofia. Come osserva Jean Leclercq: «Nel Medioevo
monastico, come nell’antichità, filosofia non indica una teoria o una maniera di conoscere,
ma una saggezza, una sapienza vissuta, una maniera di vivere secondo la ragione». 145 Qui
i precetti filosofici sono sostituiti dai comandamenti, come regola di vita evangelica, ma
ciò non toglie che gli insegnamenti degli antichi avessero ancora un valore. In effetti un
filo rosso che lega la filosofia greca e romana, l’anacoresi medievale e gli Esercizi
Spirituali di Ignazio da Loyola è la centralità dell’esercizio della morte.

143
Hadot P., Esercizi spirituali e la filosofia antica, cit., p. 70.

144
Ivi, p. 72.

145
Leclerq, Pour l’histoire de l’expression «philophie chretiènne», in «Melanges de Science Religieuse»,
IX, 1952, pp.221-226.

50
Dice Socrate nel Fedone: «E’ dunque vero che coloro i quali filosofano direttamente si
esercitano a morire, e che la morte è per loro cosa meno paurosa che per chiunque altro
degli uomini». 146 È da questa massima che si avvia la riflessione di Hadot sulla filosofia
come «esercizio spirituale» e modo di vivere, piuttosto che come mera costruzione di
sistemi teoretici. È per la sua vita e la sua morte che gli antichi ammiravano Socrate, più
che per la sua dottrina non scritta, così come chiamavano “filosofi” i cinici che
incarnavano le loro idee senza fare alcun discorso scritto. Esercitarsi a morire, dice Hadot,
per la filosofia antica è esercitarsi a vivere davvero, cioè a superare «l’io particolare e
parziale», a elevarsi a una «visione dall’alto», a una «prospettiva universale». 147 Il che
esula radicalmente da qualunque fascinazione per la morte, dal memento mori cristiano,
come da qualsivoglia esegesi che consideri la morte preferibile alla vita:

Per esempio, nella Repubblica, Platone elogia l'indole filosofica dicendo che chi è
naturalmente filosofo contempla la totalità della realtà, non teme la morte, dunque si
colloca precisamente a un livello, a un'altezza da cui vede l'insieme dell'universo,
l'insieme dell'umanità, vede le cose non al suo livello individuale, ma a un livello
universale. Negli stoici si ha un movimento analogo, anzitutto perché, molto chiaramente
in Epitteto e in Marco Aurelio, si vedono le cose dal punto di vista della Natura con la N
maiuscola, della Natura universale, cioè si inseriscono gli eventi nella prospettiva di ciò
che essi apportano all'universo, del contributo che noi apportiamo all'equilibrio e
all'armonia dell'universo. 148

Anche gli epicurei, in tal senso, non si discostano dagli stoici: se Lucrezio, nel suo poema
sulla Natura, elogia Epicuro come suo modello è perché ne apprezza in particolar modo
la saggezza insita nella sua ardita visione cosmica. Come sostiene anche Bernard
Groethuysen, Epicuro «ha costantemente il Tutto presente allo spirito» 149; nella coscienza
di un ruolo da svolgere nei confronti degli altri uomini per liberarli dalla loro ignoranza,
dai loro terrori e dalle loro passioni, facendo loro scoprire il cosmo che ha rivelato.

146
Platone, Fedone, 67e.

147
Hadot P., La filosofia come modo di vivere, cit., pp. 184-187.

148
Ivi, p. 184.

149
Groethuysen B., Anthropologie philosophique, Paris 1952, p. 80. Citato da Hadot La filosofia come
modo di vivere, cit., p. 158.

51
Dalla prospettiva di un «sentimento oceanico» e nella consapevolezza del carattere finito
dell’esistenza si avverte ancor più l’importanza dell’istante presente, l’unico tempo e
l’unico luogo su cui abbiamo presa nell’immensità dei tempi e degli spazi di cui siamo
parte. A questa ricchezza dell’istante, ripetutamente espressa da stoici ed epicurei, è legata
quella che Hadot chiama «la pura felicità di esistere». 150

«Agire, parlare, pensare sempre come qualcuno che possa essere in punto di morte» dice
Marco Aurelio.151 Vivere ogni ora come fosse l’ultima, ma anche la prima, come se si
guardasse questo mondo ingenuamente per la prima volta: è il verso senso del carpe diem
dell’epicureo Orazio: «Supponi che ogni giorno che brilla sia per te l’ultimo; sarà allora
con gratitudine che riceverai ogni ora insperata». 152 Dallo sprecare questa occasione ci
mette in guardia il sofista Antifonte:

Ci sono persone che non vivono la vita presente: è come se si preparassero, consacrandovi
tutto il loro ardore, a vivere non si sa quale altra vita, ma non questa, e mentre agiscono
cosi, il tempo se ne va ed è perduto. È impossibile rimettere in gioco la vita come si fa
con un dado che si torna a lanciare».153

Parole che si accordano perfettamente al seguente aforisma epicureo:

Non si nasce che una sola volta, due volte non sarebbe permesso. Non potremo dunque
essere per tutta l'eternità, ma tu, pur non essendo padrone del domani, è ancora al domani
che rimandi la tua gioia. E cosi la vita si consuma invano, in questo rinviare, e ognuno di
noi muore senza avere mai assaporato la pace154.

Sembra quasi di sentire Seneca: «Mentre si aspetta di vivere, la vita passa».

Nel corso della trattazione l’eco della filosofia ellenistica tornerà più volte a farsi sentire,
rendendo ancor più stimolante la densità delle implicazioni iconologiche di alcune opere
in cui la vanitas riceve il bacio dell’antica saggezza.

150
Hadot P., La filosofia come modo di vivere, cit., p. 10.

151
Marco Aurelio, I ricordi, II, 11.

152
Orazio, Epistole, I, 4, 13-14.

153
Citato da Hadot P., Che cos’è la filosofia antica, Einaudi, Torino, 2010, p. 182.

154
Epicuro, Gnomologio vaticano, 14.

52
2. PARADIGMI DELLA VANITAS “A FIGURE” NEL
CONTESTO ITALIANO

2. 1 Il putto e la morte
Una delle iconografie della vanitas secentesca che meglio esemplifica il legame con
l’antico, in un’immediatezza comunicativa che la rende tutt’oggi universale, è quella del
putto con il teschio (e talora la clessidra). Dal punto di vista filosofico l’idea di fondo è
quella racchiusa nel motto senechiano del «cotidie morimur», 155 secondo cui fin dalla
nascita ogni passo ci avvicina alla morte, giorno dopo giorno. Al contempo, però, si tratta
di un’iconografia che ha origini complesse e «non può quindi essere ridotta alla
dimensione di semplice illustrazione della massima citata».156

Per meglio comprendere quest’affermazione di Laura Stagno basti isolare il motivo del
putto: dietro all’apparente innocenza di un bambino si cela la figura mitologica di
Eros/Amor, con tutta la ricchezza del suo bagaglio polisemantico.

Per Omero Eros simboleggia il desiderio, quell’impulso irrefrenabile, che si trasforma in


azione, in «espressione fisica del sentimento». 157 In Esiodo è anche qualcosa di più: è
quella forza arcana, «quella potenza che domina la natura»158 e che contribuisce a dare
forma al mondo facendolo uscire dal limbo nero del caos: «Dunque, innanzitutto, fu
l’Abisso, poi Terra (…) e Amore»159. Ad Esiodo si deve poi il celebre motivo di Eros
come figlio e paredro di Afrodite. I caratteri peculiari che lo definiscono sono due
capisaldi dell’estetica greca, la giovinezza e la bellezza efebica: «E’ il più bello perché è

155
Seneca, Ad Lucilium, 24.20: «Ogni giorno moriamo: infatti ogni giorno siamo privati di qualche parte
della vita ed anche quando cresciamo, la vita va diminuendo. Abbiamo perduto l’infanzia, poi la
fanciullezza, poi l’adolescenza. Tutto il tempo trascorso fino a ieri, è andato perduto; anche la giornata, che
oggi viviamo, la dividiamo colla morte. Come non è il cadere delle ultime gocce che vuota la clessidra, ma
tutta l’acqua che è scesa prima, così l’ultima ora, nella quale cessiamo di esistere, non è sola a produrre la
morte, ma è sola a compirne l’opera: allora giungiamo al termine della vita, verso il quale già da un pezzo
eravamo avviati».

156
Stagno L., Vanitas: percorsi iconografici nell'arte genovese tra Cinquecento ed età barocca, cit., p. 72.

157
Neri C., Eros e Narciso. Sulle accezioni dell’amore nella letteratura greca da Omero ai Cristiani,
Appunti delle lezioni per il Collegio Superiore, Università di Bologna, 2015, p. 4.

158
Ibidem.

159
Esiodo, Teogonia, 120-122.

53
il più giovane, il più tenero, delicato, umido, docile, languido» si legge nel Simposio di
Platone.160

In termini figurativi trovò la sua massima espressione in epoca ellenistica, quando la


scultura romana ne esplicò le potenzialità decorativo-simboliche (nell’equivalente Amor,
Cupido) soprattutto in ambito funerario, nell’eterna fusione tra Eros e Thanatos. Ecco che
allora sciami di eroti pervadono i rilievi dei sarcofagi romani (specialmente durante il III
secolo d.C.), per lo più in qualità di membri del corteo bacchico. 161 Intenti a reggere
festoni carichi di fiori e frutti, oppure colti nelle loro giocose attività, essi partecipano alle
rappresentazioni dell’abbondanza e della fecondità della terra, definendo un’atmosfera
idilliaca, alludendo a un momento di pace e gaudium eternamente sospeso nel tempo.

Passano i secoli e la predella della nicchia dei Santi Quattro Coronati (1406 -1416/17),
realizzata da Nanni di Banco per la chiesa fiorentina di Orsanmichele, mostra uno scultore
intento a dar prova della sua abilità nel modellare non un’icona sacra, ma un putto.
Un’immagine di cui il Rinascimento si è appropriato fin dai suoi albori, abbracciandola
in una logica sincretista che la vede spesso in associazione all’angelus puer.162

Anche se, di norma, gli Amorini rinascimentali condividono la stessa joy de vivre di quelli
antichi, non mancano significative eccezioni. Ne è un esempio il Putto che incorona un
teschio di Lorenzo Lotto (conservato all’Alnwick Castle e databile al 1525), dove l’artista
non si limita a raffigurare un tenero bimbo paffuto, ma vi getta un’ombra di morte che
incupisce la rosea tonalità delle sue morbide carni infantili. Ad accrescere il fascino
inquietante dell’opera vi è la difficoltà di individuarne il preciso significato, 163 poiché la
tela rientra nel novero di quelle allegorie profane destinate alla contemplazione e alla

160
Platone, Simposio, 195a-196b.

161
Zanker P., Ewald B.C., Vivere con I miti: l’iconografia dei sarcofagi romani, a cura di G. Adornato,
Bollati Boringhieri, Torino, 2008, p. 115: «Nell’età degli imperatori-soldati, quando molte cose che
sembravano incrollabili cominciavano a incrinarsi, le immagini di morte e di lutto venivano rimosse e si
preferiva ordinare alle botteghe visioni di felicità […]. Come intendere questo fenomeno? Forse le
immagini destinate ai morti vogliono esortare a un godimento più intenso della vita proprio perché è
cresciuta l’incertezza collettiva?». Pur nella completa asistematicità dell’iconografia funeraria romana (che
si ispirava a una varietà quasi illimitata di credenze e di esperienze), stando a questa spiegazione, non è
difficile immaginare perché durante l’età degli Antonini «le immagini del tiaso dionisiaco erano di gran
lunga il tema preferito sui rilievi dei sarcofagi».

162
Collavo L., Angelus Puer: la rivoluzione del Quattrocento: dal fanciullo al putto. Ricostruzione per
immagini di un percorso storico-culturale, Le Lettere, Firenze, 2002.

163
Bergamo. L’altra Venezia. Il Rinascimento negli anni di Lorenzo Lotto (1510-1530), a cura di F. Rossi,
Catalogo della mostra (Bergamo, Accademia Carrara, 2001), Skira, Milano, 2001, pp. 98-99.

54
comprensione di un’elite di iniziati. Analizzati singolarmente, i vari attributi sono
riconducibili all’iconografia funeraria classica e rinascimentale. Il cuscino offriva
appoggio alla testa del defunto nei monumenti sepolcrali quattro-cinquecenteschi e il suo
significato funebre si associa all’immagine del teschio, che assume una posizione
dominante. Probabilmente, le sembianze gentili del putto aiutano a superare il terrore che
la morte incute anche agli uomini del Rinascimento, come ben esemplificano i versi di
Lorenzo de’ Medici: «Natura insegna a noi a temer la morte, / ma Amor poi mirabilmente
face / suave a’ suoi quel che ad ogni altro è amaro».164 In questa singolare interpretazione
lottesca del connubio Amore-Morte, Maurizio Calvesi coglie un’allusione ottimistica alla
resurrezione e alla vita eterna nell’ossimoro dulce amarum e nel serto sempreverde
sostenuto dal bimbo.165 Un ruolo determinante ai fini della comprensione dell’iconografia
del dipinto è rivestito proprio dal ramo di olivo che il putto piega in forma circolare a
incoronare il cranio. Tito Barbieri associa tale corona al fatto che «la Pace si può trovare
solo nella Tomba»166, in linea con il significato attribuito alla pianta nelle Sacre
Scritture.167

Interrogandosi su una possibile origine antica del soggetto, gli studiosi sono giunti alla
conclusione che il modello potesse invece risalire, in maniera più prossima, ad una
medaglia eseguita dal veneziano Giovanni Boldù nel 1458 [fig. 10], che Janson ricorda
come fondamentale punto d’avvio dell’iconografia del putto col teschio. Il verso della
medaglia presenta infatti un giovane nudo che piange seduto su una roccia ed un putto
alato che poggia su un grande cranio, posto significativamente al centro. 168 L’opera di
Boldù fu in seguito presa a modello da un medaglione in marmo (1498) che orna la
facciata della Certosa di Pavia e che reca l’iscrizione «INNOCENTIA E MEMORIA
MORTIS». Il putto, in questo nuovo contesto, forse più aderente al significato del dipinto

164
Lorenzo Lotto, a cura di G. C. F. Villa, Catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 2011),
Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2011, p. 270.

165
Calvesi M., Caravaggio o la ricerca della salvazione, in «Storia dell’arte», 9-10, 1971, pp. 93-135.

166
Bergamo. L’altra Venezia. Il Rinascimento negli anni di Lorenzo Lotto (1510-1530), cit., pp. 98-99.

167
Levi d’Ancona M., The Garden of the Reinassance. Botanical Symbolism in Italian Painting, Olschki
Editore, Firenze, 1977.

168
Janson H. W., The putto with the Death’s Head, cit. pp. 423-449 (traduzione inedita). L’elaborazione di
questa medaglia in chiave più laica segue quella di un’altra medaglia dello stesso anno e già citata nel primo
capitolo come uno dei primissimi esempi in cui il teschio viene ad assumere il valore di una pars pro toto
rispetto all’intero scheletro assumendo il significato simbolico di memento mori in chiave cristiana.

55
di Lotto, diviene l’emblema della purezza: la consapevolezza dell’invariabilità della
morte induce a conservare lo stato di innocenza della fanciullezza.

Un altro passaggio importante, a detta di Janson, per il diffondersi dell’iconografia del


putto col teschio, è costituito da un’influente incisione italiana del tardo Quattrocento,
esemplata sull’invenzione di Boldù del 1458:

L’immagine del putto con il teschio, ripresa dalla medaglia di Baldù, si diffuse come
iconografia a sé stante, come attesta una xilografia italiana quattrocentesca [fig. 12]. Lo
scopo della sua composizione è quello di impressionare lo spettatore sottolineando il
breve intervallo che intercorre tra la nascita e la morte. Il teschio al quale il putto è
nuovamente appoggiato è stato evidentemente ripulito dai rospi e dalle lucertole in primo
piano. L’iscrizione avverte «L’ora passa» e la clessidra ripete lo stesso concetto. Il
contrasto tra la vita e la morte è ulteriormente sottolineato dall’albero verde alle spalle
del putto e dal tronco appassito su cui è posto il teschio, un’allegoria derivata dal
Pelegrinage de l’âme, di Guillame Deguilleville, un trattato mistico del XIV secolo
piuttosto conosciuto nella Venezia del tardo Quattrocento. L’albero appassito del
Pelegrinage è il melo del Giardino dell’Eden, appassito per il peccato dell’uomo, che
portò la morte al genere umano e a tutti gli esseri viventi; mentre l’albero verde è il mistico
melo del Cantico dei Cantici (2, 3-5), e i suoi frutti sono il simbolo di Cristo. Nelle
illustrazioni del trattato le anime dei beati, rappresentate come putti apteri, giocano infatti
con le mele di un florido albero. Per questo il putto della xilografia incarna, in una certa
misura, le anime dei beati del Pelegrinage. Il putto della medaglia di Boldù, essendo stato
privato delle sue ali, ha assunto le sembianze di un semplice bimbo. Ma come molti putti
dell’antichità si comporta come un adulto gettando uno sguardo addolorato alla clessidra
davanti a lui, in una posa di melanconica meditazione. 169

In una statuetta bronzea del XV secolo (d’area italiana, ma di autore anonimo), il putto
ha assunto una posa ancor più filosofica: col gomito destro appoggiato ad una clessidra,
si sorregge il capo mentre contempla il teschio che sorregge col ginocchio sinistro.
L’iscrizione sul suo basamento recita: «Il tempo passa e la morte vien / Perduto [è] colui
che non fa ben / Facciamo mal e speriamo il ben / Il tempo passa e la morte vien». Uno
strano ammonimento, quando viene da un putto, ma che ci consente di pensare
quest’opera e le sue parole in riferimento alla prima invenzione di Boldù - già citata nel
primo capitolo in quanto uno dei primi memento mori cristiani - in cui fondamentale è

169
Ivi, p. 432, traduzione inedita.

56
l’attitudine melanconica del personaggio al centro, diviso tra il Fato/Provvidenza e la
Penitenza. 170

Un medaglione bronzeo sulla tomba di Marc’Antonio Martinengo, nel Museo Cristiano


di Brescia, realizzato da Maffeo Olivieri nel 1526, ripete invece la seconda e più pagana
medaglia di Boldù (accostata all’opera di Lorenzo Lotto), ibridandola con alcune
significative modifiche riprese dalla xilografia de L’ora passa. L’albero frondoso ora
appare dietro il giovane seduto e disperato, mentre il putto alato, con la fiaccola ardente
da un lato e il teschio dall’altro, poggia la schiena contro l’albero appassito, dai cui rami
penzolano la clessidra e un ulteriore teschio con ossa incrociate. 171

L’influenza de L’ora passa sarà alla base anche della modalità moraleggiante con cui
l’iconografia del putto col teschio si diffonderà nel Nord Europa, divenendo
particolarmente resistente in area germanica, dove è attestata sino al XVIII secolo.

Ma tornando all’Italia, la Stagno rileva come tale soggetto abbia particolare fortuna in
ambito genovese, a partire dal repertorio funerario: «in particolare in fondazioni
francescane, ma anche in chiese di diversa appartenenza, il motivo ricorre dal XVI secolo
nelle lapidi sepolcrali». 172 Va soprattutto segnalato, però, il nuovo impulso che ricevette
in pittura da Luigi Miradori, detto il Genovesino, autore di varie redazioni del tema
ampiamente diffuse tramite copie e incisioni.

Di particolare rilievo è il Cupido dormiente con teschio e vaso di fiori [fig. 13], un dipinto
del 1650 circa, conservato presso il Museo Civico di Cremona. L’opera rappresenta una
delle tante prove di come - dopo essere stato attivo nella città natale e a Piacenza - il
pittore (a partire dal 1647) riuscì facilmente ad imporsi nel panorama artistico cremonese,
grazie alla totale mancanza di artisti autoctoni di rilievo, dando così il via ad una lunga e
prolifica attività nella città lombarda fino al 1656, l’anno della sua morte. Qui si dedicò
frequentemente al genere della vanitas, che come sappiamo vive spesso di forti contrasti.
Nella tela sopracitata il piccolo Cupido, riconoscibile come tale per i classici attributi

170
Ivi, p. 443-444.

171
Ivi, p. 444.

172
Stagno L., Vanitas: percorsi iconografici nell'arte genovese tra Cinquecento ed età barocca, De Luca
Editori d'Arte, Roma, 2012, p. 79.

57
delle ali e della freccia, rappresenta la vita e le passioni che la muovono 173, ma l’Amorino
è caduto in un sonno profondo, mentre se ne sta seduto su un libro chiuso, e dunque ormai
privo di parola. Il capo è poggiato ad un teschio, dalla cui bocca spalancata fa capolino
un rospo, animale saprofago che tradizionalmente rimanda al sottosuolo e alla
decomposizione delle carni (già presente nella xilografia de L’ora passa). A corredare il
tutto, infine, un vaso accoglie dei fiori freschi e colorati, caratterizzati più di ogni altra
cosa da una vita intensa ma fugace. Sulla base di questo inserto di natura morta Mario
Marubbi ha proposto di datare la tela al 1652, data riportata sulla cornice dipinta con putti
e fiori che Genovesino realizzò per l’altare di Sant’Antonio da Padova nella chiesa di S.
Maria delle Grazie a Codogno.174

Nell’analisi del contesto da cui nasce l’opera, però, è importante soprattutto segnalare che
intorno alla metà del secolo il macabro fa irruzione nella pittura italiana e Genovesino si
trova, nel praticare il filone, in compagnia di artisti del calibro di Salvator Rosa, con cui
condivide, se non altro, la propensione per il bizzarro e l’eccentrico. In un ritratto del
figlio, Rosa aveva messo in mano al giovinetto un teschio iscritto con il motto «morti
praeludit infantia» (alla morte prelude l’infanzia) 175. Tali parole, che offrono un
commento perfetto anche all’opera di Genovesino, si riallacciano al concetto senechiano
del «cotidie morimur», che conosce una crescente fortuna nel XVII secolo, quando il
motivo della vicinanza concettuale tra la culla e la tomba raggiunge il suo apice. 176 In

173
Il saggio di Janson chiarisce l’origine rinascimentale e umanistica del putto col teschio e il carattere
laico della seconda elaborazione di Boldù da cui tale soggetto verrà poi ripreso in forma isolata, quindi non
deve sorprenderci che Genovesino abbia fatto del putto un Amorino.

174
Marubbi M., La pinacoteca Ala Ponzone. Il Seicento, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2008, p.
189.

175
Queste stesse parole ritornano in forma cifrata anche nell’ Humana Fragilitas di Salvator Rosa, databile
al 1656 e conservata presso il Fitzwilliam Museum a Cambridge. Questo singolare memento mori affida
gran parte del suo messaggio allegorico alla presenza dei due putti - rispettivamente intenti a fare di bolle
di sapone e a tenere accesa la flebile fiaccola della vita - così come al bambino che sta incidendo sul cartiglio
retto dallo scheletro alato la seguente iscrizione: «Conceptio culpa, nasci pena, labor vita, necesse mori»,
che riecheggia quanto scrive in quegli stessi il poeta Giovan Battista Ricciardi all’amico pittore: «Rosa il
nascere è pena / il vivere è fatica / et il morir necessità fatale / così forte catena / ambo gli estremi implica
/ che distinguer non so morte o natale». L’idea della stretta connessione tra la culla e la tomba viene poi
ripresa anche da un componimento dello stesso Rosa: «Chi cerca di piacer solo al presente / Non creda mai
d’ haver a far soggiorno / In mano a i dotti, e a la futura gente. / Anzi havrà culla e tomba, in un sol giorno».
Cfr. Salvator Rosa tra mito e magia, a cura di AA. VV., Catalogo della mostra (Napoli, Museo di
Capodimonte, 2008), Electa, Napoli, 2008, p. 40; Salvator Rosa, Poesie e lettere edite e inedite di Salvator
Rosa, Forgotten Books, Londra, 2018, p. 34.

176
Tapié A., Petite archeology, in Les Vanités dans la peinture au XVIIe siècle. Meditations sur la richesse,
le dénuement et la rédemption, p. 72.

58
ambito spagnolo Francisco de Quevedo ne fa l’argomento di un suo importante trattato,
La cuna y la sepoltura (1634). Sul fronte della poesia italiana, invece, il benedettino
genovese Angelo Grillo si esprime dicendo «Un continuo morire / E’ questa nostra vita;
E da che huom nasce / Morir comincia: e sono le prime fasce, / e la cuna feretro al gran
ritorno».177

Parlando invece di modelli iconografici, il rapporto del pittore con le stampe, è stato più
volte ribadito: per quanto riguarda la Vanitas conservata a Cremona e l’origine di questo
tipo di composizione Mina Gregori ricorda due celebri incisioni di Hendrick Goltzius,
dell’ultimo decennio del XVI secolo, con putti che fanno le bolle di sapone accompagnati
dall’iscrizione «Quis evadet?» («Chi la scamperà?»): in una lo scultoreo e
classicheggiante fanciullo è appoggiato al teschio, mentre nell’altra lo cavalca. 178

Come chiarisce la Stagno, però, il motivo del putto col teschio a Genova era ben noto da
tempo e il Miradori, prima ancora di perfezionarne la conoscenza tramite Goltzius,
doveva averlo visto scolpito a rilievo su varie lastre sepolcrali nelle chiese cittadine. Tra
queste, un esemplare cinquecentesco, conservato nella chiesa di San Francesco della
Chiappetta, mostra il putto già alato come in Genovesino: «piuttosto estraneo alla
tradizione lombarda, il tema di questa Vanitas aveva invece precedenti liguri ben presenti
all’artista e recuperati all’occasione»179.

Se incerto resta il destinatario dell’opera, forse il vescovo cremonese Pietro Martire


Ponzone, sembra sicuro che il dipinto avesse in origine un pendant e formasse con esso
una specie di dittico sul tema del sonno, dell’infanzia e della morte. Lo si ricava da due
copie già in collezione Koelliker, una derivata dal quadro cremonese, e l’altra da un
dipinto sconosciuto, anch’esso probabile originale miradoriano. Il fanciullo addormentato
in questo caso giace supino fra arbusti fioriti, su un libro aperto, mentre stringe ancora
una delle sue frecce e dalla bocca schiusa lascia fuoriuscire un raccapricciante sciame di

177
Grillo, Rime, 1599, Canzon I; Ivi, Pompe di morte, Sonetto I. Riferimento presente in Stagno L., Vanitas:
percorsi iconografici nell'arte genovese tra Cinquecento ed età barocca, cit., p. 84.

178
Gregori M., Riflessioni sulle origini della natura morta. Da Leonardo al Caravaggio, a cura di A.
Cottino, Catalogo della mostra (Roma, Musei Capitolini, 1995), Electa, Napoli 1995, p. 19

179
Genovesino. Natura e invenzione nella pittura del Seicento a Cremona, a cura di F. Frangi, V. Guazzoni
e M. Tanzi, Catalogo della mostra (Cremona, Museo Civico Ala Ponzone, 2017-2018), Officina Libraria,
Roma, 2017, p. 50

59
insetti (forse api) 180. Anche in questo caso non mancano precedenti nella tradizione
genovese, 181 tra i quali possiamo annoverare una Vanitas di Giovanni Battista Paggi,
impreziosita da una ghirlanda di fiori che circoscrive il putto addormentato con la schiena
contro un albero, i cui rami spogli disegnano una trama scura sul blu del cielo, in un
recupero della simbologia dell’albero secco che già connotava l’incisione L’ora passa.
La mano destra poggia su una grande clessidra, che qui riassume in sé l’intero messaggio
di memento mori, nella «sostituzione indifferente tra il teschio e la clessidra,
contemporaneamente e alternativamente oggetti di meditazione e di sostegno». 182 Tanto
nella tela del Paggi quanto in quelle di Genovesino il significato morale delle
composizioni floreali può essere ricondotto ai sopra citati versi di Angelo Grillo, che
esprimono il «continuo morire» cui è sottoposto il fiore appena reciso così come il bimbo
ancora in fasce. Un concetto che il Miradori arricchisce affiancandolo a quello del sonno
che prefigura la morte, rintracciabile anche nell’Iconologia di Cesare Ripa: «come il
sonno è una breve morte, così la morte è un longo sonno, e nelle sacre lettere spesso si
prende per la Morte il sonno medesimo». 183

Il tema del bambino addormentato torna in un’altra Vanitas del genovese, nota attraverso
alcune copie (di cui un dipinto nella sopracitata collezione Koekiller). In questo secondo
caso il putto aptero giace prono su un cuscino prezioso, con il capo appoggiato ad un
teschio e un braccio avvolto in un panno bianco simile a un sudario, presso una clessidra
che ha appena iniziato a contare il tempo della vita. Una xilografia settecentesca di Frans
Pilsen, riproduce l’opera incorniciandola in un cartiglio a trompe l’oeil che commenta un
verso di Giovan Battista Marino: «dalla cuna alla tomba è un breve passo»184 e che reca
l’indicazione «Guido Reni pinx». L’errore attributivo probabilmente ebbe origine a
Roma, dove di Miradori si sapeva poco o nulla, mentre erano ben noti i vari Gesù

180
Ibidem.

181
O meglio, come specifica accuratamente la Stagno, la formula della ghirlanda racchiudente una o più
figure arriva a Genova dalle Fiandre ed è protagonista di una vera e propria moda locale, sostenuta anche
dagli esempi di originali fiamminghi nelle quadrerie cittadine. Cfr. Stagno L., Vanitas: percorsi
iconografici nell'arte genovese tra Cinquecento ed età barocca, cit., p. 73.

182
Veca A., in Vanitas. Il simbolismo del tempo, cit., p. 131.

183
Ripa C., Iconologia, Roma, 1593, ed. critica a cura di S. Maffei, Torino, 2012, p. 401.

184
E il verso finale del sonetto Apre l’uomo infelice, allor che nasce (La lira, parte prima, Morali, I).
Riferimento presente in Genovesino. Natura e invenzione nella pittura del Seicento a Cremona, cit., p. 51.

60
Bambino dormienti dipinti da Reni (più o meno sul tipo di quelli del Genovesino). Sembra
che un esemplare della Vanitas genovesiniana appartenesse alla collezione Doria
Pamphili, se vale l’identificazione con un dipinto omonimo ricordato negli inventari a
partire dal 1682 e non più reperibile («un putto che dorme appoggiato con un braccio
sopra una testa di morto con lettere memento mori alto palmi due incirca»).185 Nobilitata
dal nome illustre, l’immagine divenne popolare soprattutto per la semplicità commovente
dell’invenzione e del messaggio: la morte allunga la sua ombra sul fanciullo, abbandonato
a un sonno carico di presagio.

Nel complesso, i memento mori del Genovesino sono estremamente lontani dalla
freddezza funerea di quelli fiamminghi, così come dal lucido orrore di quelli di Jacopo
Ligozzi. 186 Le variazioni sul tema del Miradori sono tutte contraddistinte da un sapiente
gioco di contrasti, in cui accanto al macabro figura sempre un elemento delicato che
addolcisce la scena, contribuendo a catturare l’attenzione dell’osservatore su ogni singolo
dettaglio della composizione.

185
Cfr. Dieci quadri seicenteschi per la Biennale, a cura di M. Di Penta, Catalogo della mostra (Firenze,
Palazzo Corsini, 2019), Miriam Di Penta Fine Arts, Firenze, 2019, p. 67.

186
Negli anni Trenta del XIX secolo ricomparvero in Inghilterra due tavolette, dipinte su entrambi i lati,
che suscitarono grande clamore per la loro originale iconografia. I due dipinti (eseguiti nel 1604 e ora in
collezione privata), raffigurano sul recto i ritratti, maschile e femminile, di due giovani eleganti e di
bell’aspetto, mentre voltando le tavolette si rimane impressionati da un’immagine alquanto raccapricciante
costituita dalle loro teste mozzate, in evidente stato di putrefazione, circondate da alcuni oggetti di valore
simbolico alludenti alla vanitas. Del resto, la fama di Ligozzi, artista di corte del Granduca Franscesco I
de’ Medici, è legata in particolar modo alla sua attività di ritrattista del mondo naturale.

61
2.2 La Maddalena: beata peccatrix

Messa da parte ogni sopravvivenza pagana, l’illustrazione per eccellenza del messaggio
della vanitas è quella che pone al centro il distacco dal mondo. Ciò che il nord
dell’Europa riformato esprime attraverso il discorso indiretto delle nature morte
simboliche, la parte d’Europa controriformata lo esprime privilegiando la figura umana
ed in particolare le immagini di santi penitenti, come la Maddalena e il suo pendant
maschile, san Girolamo.187

La Maddalena è, nella tradizione occidentale, «l’incarnazione di un ossimoro: magna


peccatrix, santa gloriosa. La tensione tra questi poli opposti è la radice stessa della forza
indiscussa della sua immagine». 188 Tutt’oggi, ben inchiodato nella mente di chi abbia un
minimo di cognizione della cultura cristiana, sopravvive lo stereotipo che la classifica
come una prostituta redenta da Cristo. La sua è una «storia di equivoci»189, cristallizzata
da Gregorio Magno, alla fine del VI secolo, quando fece coincidere più figure evangeliche
in una sola persona simbolica: «Crediamo dunque che questa donna, che Luca definisce
peccatrice e Giovanni chiama Maria, sia quella stessa Maria dalla quale erano stati
scacciati sette demoni» 190. L’ossessa a cui si riferisce il padre della Chiesa è Maria di
Magdala191, la discepola presente ai piedi della Croce192 e al sepolcro con le pie donne193,

187
Chastel A., Glorieuses “vanités”, in Les Vanités dans la peinture au XVIIe siècle. Meditations sur la
richesse, le dénuement et la rédemption, cit., p. 14.

188
Stagno L., Vanitas e santità. Maddalena, beata peccatrix, speculum poenitentiae, in Vanitas. Lotto
Caravaggio Guercino nella collezione Doria Pamphilj, a cura di A. Mercantini, Catalogo della mostra
(Roma, Palazzo Doria Pamphilij, 2011), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2011, pp. 21-30.
189
Ravasi G., Gli equivoci sulla Maddalena, in «Il Sole 24 Ore», 21/07/2013,
https://st.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-07-21/equivoci-maddalena-084359.shtml?uuid=AbXFk6FI,
ultimo accesso 12/06/2021

190
Gregorio Magno, Hom. XXXIII, I, in Patrologia Latina, LXXVI, col. 1238. Citato da Haskins S., Mary
Magdalene. Mith and Metaphor, Harcourt, San Diego, 1994, pp. 16, 94-95

191
Lc 8, 2.

192
Mt 27, 55-56; Mc 15, 40-41; Lc 23, 49 ; Gv 19, 25.

193
Mt 28, 1-10 ; Mc 16, 1-8 ; Lc 24, 1-10 ; Gv 20, 1-10.

62
la prima a cui è concesso il privilegio di testimoniare la Resurrezione di Cristo,
assurgendo al rango di apostola tra gli apostoli.194

Come mai la tradizione, mille volte ripetuta dalla storia dell’arte e perdurante fino ai nostri
giorni, ne ha fatto una prostituta? Per provare a capirlo lo stesso Gregorio Magno ci
suggerisce di partire dal Vangelo di Luca, e, più precisamente, dalla parabola del convito
in casa di Simone, il fariseo:

Ed ecco, una donna, una peccatrice […] saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò
un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli
di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo.
Vedendo questo, il fariseo che l'aveva invitato disse tra sé: "Se costui fosse un profeta,
saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!" […] E,
volgendosi verso la donna, [Cristo] disse a Simone: "Vedi questa donna? Sono entrato in
casa tua e tu non mi hai dato l'acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le
lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da
quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio
capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo io ti dico: sono perdonati i
suoi molti peccati, perché ha molto amato. (Lc, 7, 36-47).

Quando nella Bibbia una donna è definita “peccatrice”, di solito questa accusa ha un
significato molto preciso, che la connota come una prostituta. D’altro canto, sempre
rimanendo nel solco del linguaggio biblico, i “sette demoni” legati a Maria di Magdala
(considerando che il sette è il numero della pienezza) potrebbero indicare «un gravissimo
male morale» che gli esegeti, senza alcun collegamento testuale, assimilarono al
meretricio della peccatrice anonima, azzardando un’ipotesi che finì col rendere
sovrapponibili due donne del Nuovo Testamento originariamente distinte. 195 Ciò che
veramente le accomuna è che entrambe sono state assolte e salvate da Cristo, pur essendo
apparentemente irrecuperabili (stando alla mentalità giudaica dell’epoca), ed entrambe
hanno manifestato un amore incondizionato verso il loro Salvatore. È su questo che
l’interpretazione patristica volle porre l’accento, a dispetto della loro specifica identità.

194
Nei vangeli gnostici – come il Vangelo di Maria (II sec.) – la Maddalena riassume in sé il cosiddetto
ciclo del ritorno alla luce, alla verità, alla gnosi, attraverso la quale si realizza il superamento della materia,
il divenire puro spirito, nella sua perfetta unità. Per tale ragioni alcune correnti gnostiche si spinsero ad
esaltarla al di sopra degli apostoli e talvolta della stessa Vergine. Al contempo i Padri della Chiesa
ridimensionarono una simile concezione facendo della Maddalena il modello della donna cristiana,
portatrice, non più della menzogna della vita mondana, ma della verità, anzi apostola tra gli apostoli.

195
Cfr. Ravasi G., Gli equivoci sulla Maddalena, cit.

63
Un’identità ulteriormente sfumata dall’entrata in gioco di una terza attrice, la sorella di
Marta e Lazzaro: un’altra Maria che ripete il gesto di ungere i piedi di Gesù in segno di
venerazione:

Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli
aveva risuscitato dai morti. E qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era
uno dei commensali. Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai
prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si
riempì dell'aroma di quel profumo. (Gv 12, 1-8).

Ed ecco che Maria di Magdala, già confusa con la prostituta del Vangelo di Luca, venne
identificata anche con questa Maria di Betania citata dal Vangelo di Giovanni. 196

Quest’ultima compare anche nell’episodio che Luca ambienta in casa di Marta:

Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la
sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse:
«Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi
aiuti». Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma
una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà
tolta» (Lc 10, 39-42).

Questo racconto si rivelò fondamentale per la costruzione dell’iconografia maddaleniana,


trovando il suo più classico sviluppo agli inizi del X secolo, in un sermone di Odone,
secondo abate di Cluny:

Maria [Maddalena], seduta ai piedi del Signore, con spirito attento ascoltava la sua parola,
è il simbolo della dolcezza della vita contemplativa, il cui sapore, quanto più è gustato,
tanto maggiormente induce l’animo a distaccarsi dalle cose visibili e dai tumulti delle
preoccupazioni del mondo. 197

La fusione della peccatrice di Galilea, di Maria di Magdala e Maria di Betania nell’unica


figura di “Maddalena” innervò per secoli i testi eruditi, salvo alcune rare eccezioni: ad
esempio, il teologo francese Lefebvre d’Etaples, nel De Maria Magdalena et triduo
Christi disceptatio (1518), sosteneva che bisognasse guardare alle tre donne dei Vangeli

196
Ibidem

197
Odone di Cluny, In veneratione S. Mariae Magdalenae, in Patrologia Latina, col. 133,721.

64
come a tre persone a sé stanti, ma la sua tesi non fu accettata dall’università di Parigi, né
da diversi teologi del Concilio di Trento.

Al di là del complesso dibattito sulla distinzione o sull’unità dei tre personaggi -


oggigiorno negata in seguito al Concilio Vaticano II 198- rimane intatto il fascino esercitato
da questa figura di donna:

simbolo del femminile, rimosso dalla cultura patriarcale ebraica, e accomunata alle donne
emarginate dalla società alle quali Gesù dà la parola come mezzo di riscatto: alla
Samaritana immersa nei piaceri della carne, offrendo l’acqua dello Spirito 199, alla
emorroissa vivente ai margini della società facendosi toccare200, e lasciando conscia
l’adultera di non essere la sola a peccare in un mondo dominato dall’angoscia della colpa
e dell’espiazione201. I tre interrogativi dell’amore, della sessualità, della colpa, posti da
queste tre donne vengono riproposti dalla figura della Maria Maddalena, il cui nome
stesso, Maria, la bella, l’amara, Maddalena, la magnifica, è allusivo alla doppia natura
ascetica e terrena, spirituale e materiale, al pari della doppia natura umana e divina del
Cristo.

Se la Samaritana riceve dal Nazareno l’acqua della fede, alimento dell’anima, Maria di
Betania, beve la parola illuminante del Maestro, mentre Maria di Magdala, la discepola
facente parte del gruppo delle Marie, lo segue fin sotto la croce, animata da un amore
ardente come il fuoco, inarrestabile come il flusso di sangue dell’emorroissa; ad essa si
accomuna la peccatrice che osa penetrare a casa del Fariseo in un consesso riservato
tradizionalmente ai soli uomini, per toccare non già la veste, ma i piedi stessi del Cristo,
con i capelli, i lunghi capelli impuri come il sangue mestruale della donna ebraica. 202

Se già i testi del Vangelo stimolarono e stimolano tutt’oggi una simile complessità di
lettura, i profili iconografici della Maddalena vennero ulteriormente moltiplicati dal

198
Quando il calendario dei santi venne rivisto, nell’ambito del Concilio Vaticano II (1969), accanto al
nome di Maria Maddalena venne annotato che il giorno a lei dedicato «celebra solo colei a cui Cristo
apparve dopo la resurrezione e in nessun modo la sorella di S. Marta, né la peccatrice alla quale il Signore
perdonò i peccati» (Calendarium Romanum Generale, 1969).

199
Gv 4,4.

200
Mt 9, 20; Mc 5, 25 e Lc 8, 43.

201
Gv 8 1-2.

202
Mosco M., La Maddalena, un’identità velata e violata, in La Maddalena tra sacro e profano. Da Giotto
a De Chirico, Catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Pitti, 1986), a cura di M. Mosco, La casa di Usher,
Firenze, 1986, p. 17.

65
diffondersi delle leggende agiografiche. La più antica di esse, la Vita eremitica, risalente
al IX secolo, ne delineò l’immagine anacoretica, contaminandola con quella di una santa
di origine alessandrina, vissuta a cavallo del V-IV secolo: un’altra “prostituta pentita”
nota col nome di Maria Egiziaca. Secondo la storia tramandata dal patriarca Sofronio di
Gerusalemme (VII secolo), quest’ultima fu una donna oltremodo lussuriosa, tanto che il
suo viaggio in Terra Santa potrebbe definirsi come una sorta di “anti-pellegrinaggio”,
intrapreso solo per soddisfare la smania di piaceri terreni. Giunta sulla soglia della basilica
della Santa Croce, però, una mano invisibile le impedì l’ingresso. In seguito a questa
epifania decise di cambiare radicalmente condotta, intraprendendo la via dell’eremitaggio
nel deserto del Giordano, ove restò fino alla morte, passando quarantasette anni in
ascetico digiuno, vestita solo della sua irta chioma. Di fatto non cambiava l’intensità del
suo ardore, ma se questo prima la conduceva a farsi adescatrice di uomini, «ora veniva
convogliato verso l’amore timorato della grazia divina» 203. Ecco spiegato il nocciolo dei
racconti delle “prostitute” divenute sante, ed ecco perché in epoca medievale Maddalena
e Maria Egiziaca divennero sostanzialmente la stessa cosa.

Inizialmente la devozione verso la figura di Maddalena era limitata soprattutto


all’Oriente, ma nell’XI secolo si diffuse esponenzialmente anche in Occidente,
imperniandosi attorno alla romanica abbazia benedettina di Vézelay, in Borgogna, che
nel 1050 iniziò a vantare il possesso delle spoglie della santa, divenendo la quarta meta
di pellegrinaggio del mondo cristiano, dopo Roma, Gerusalemme e Compostela. A partire
dal XII secolo prese piede un’altra leggenda che individuava l’eremo della Maddalena
nella Bassa Provenza, in un antro scavato nel massiccio della Sainte-Baume (“della Sacra
Grotta”). Attorno a questo romitorio venne a costituirsi un nuovo e ancor più celebre
santuario, legato alla vicina basilica gotica di Sainte-Maximin e al convento domenicano
ad essa adiacente.204 Pur trattandosi solo di «un ben riuscito tentativo di localizzare un

203
Cfr. Piantoni L., «Lasciva e penitente». Nuovi sondaggi sul tema della Maddalena nella poesia religiosa
del Seicento, in «Studi Secenteschi», vol. 54, 2013, p. 43.

204
La basilica di Vezelay e quella di S. Maximin entrarono presto in contrasto per il possesso delle
autentiche reliquie. Nel 1279, Carlo II d’Angiò, re di Napoli e di Provenza, architettò un vero e proprio
falso storico, sostenendo di aver rinvenuto i sacri resti presso S. Maximin e nel 1295 papa Bonifacio VIII
ne certificò l’autenticità. Da quel momento la fama del santuario provenzale si irradiò in tutta Europa,
oscurando quella del santuario borgognone.
Per approfondire le vicende legate alla nascita del culto occidentale della Maddalena vedi Saxer V., Le culte
de Marie Madeleine en Occident, des origines à la fin du moyen âge, Clavreuil, Paris, 1959; Saxer, V.,
Maria Maddalena, voce del settimo volume della Bibliotheca Sancta Sanctorum, Città Nuova Editrice,
Roma, 1966, cc.10178-1104.

66
episodio agiografico, benché di pura immaginazione e senza alcun fondamento nella
realtà»,205 su di esso si fondò il fulcro del culto maddaleniano in Europa. Un culto
consacrato ad immensa fortuna dalla Legenda Aurea (1298) del priore domenicano
Jacopo da Varagine, che - ponendosi lungo la scia tratteggiata dalla Vita eremitica e dal
ciclo agiografico provenzale - finì col trasformare l’apostola in eremita, trapiantandola
sulle coste marsigliesi, dove sarebbe stata sospinta da un nubifragio. Stando alla colorita
narrazione (che indagava l’evangelizzazione della Gallia Narbonese attraverso il filtro del
mito), una volta approdata su queste sponde, la Maddalena si sarebbe dedicata alla
conversione dei governatori locali, per poi eleggere a sua ultima dimora il solitario ed
aspro monte della Sainte-Baume.

Al di là del dato avventuroso, uno degli aspetti che assicurò l’enorme successo della
Legenda Aurea è l’accento posto sulla completa metamorfosi della santa, che arriva ad
abnegare sé stessa e il mondo dopo essere stata introdotta come una donna di origini
illustri, intenta a crogiolarsi nell’opulenza e nella libidine:

Maddalena, trovandosi colma di ricchezze, dato che all’abbondanza dei beni si


accompagna la voluttà, quanto brillava di ricchezza e bellezza, altrettanto sottoponeva il
suo corpo al piacere, al punto che aveva ormai perso il suo soprannome di “Maddalena”
per acquisire quello di “La Peccatrice”.206

Una simile descrizione non potrebbe contrastare più nettamente con quella, altrettanto
vivida, dell’inospitalità del romitorio, dove «non v’erano fiumi d’acqua né sollazzo
veruno d’arbori o d’erbe», affinché la donna ricca e corrotta di un tempo potesse saziarsi
«solamente delle vivande del cielo», sino alla fine dei suoi giorni. 207

Nell’età della Controriforma il diffondersi del culto della Maddalena si accompagnava


all’esigenza d’indagare nella leggenda con uno spirito maggiormente filologico e austero.

205
Saxer, V., Maria Maddalena, in Bibliotheca Sancta Sanctorum, cit., c. 1089.
206
Da Varazze Iacopo, Legenda Aurea (1261-1266), a cura di A. e L. Vitale Bovarone, Einaudi, Torino,
1995, pp. 516-526.

207
Per l’evoluzione delle leggende agiografiche qui sinteticamente riassunte si veda Saxer V. Le culte de
Marie Madeleine en Occident, des origines à la fin du moyen âge, cit., pp. 24-30; Saxer V., Maria
Maddalena, in Bibliotheca Sancta Sanctorum, cit., cc. 10178-1104; Haskins, Mary Magdalene. Mith and
Metaphor, cit., pp. 98-133; Vannucci V., Maria Maddalena: storia e iconografia nel Medioevo dal III al
XIV secolo, Gangemi, Roma, 2012; Brasa F., Maria Egiziaca. Nudi seguire Cristo nudo, in Maddalena. Il
mistero e l’immagine, catalogo della mostra (Forlì, Musei di S. Domenico, 2022), a cura di C. Acidini, G.
Brunelli, F. Mazzocca, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2022, pp. 56-61; Gatta S., Maria Maddalena
Provenza tra pia fraus e affare di Stato, in Maddalena. Il mistero e l’immagine, cit., pp. 48-51

67
I padri conciliari infatti, avevano a cuore lo sviluppo di un’arte religiosa secundum
historiam, fedele cioè alla lettera del Vangelo e alle fonti scritturali certe. Ad esempio lo
spagnolo Luis Vivès lanciò un grido d’allarme: «l’ignoranza degli antichi autori corrompe
le arti!» scagliandosi violentemente contro la Legenda aurea, vero e proprio repertorio
d’immagini per pittori e commediografi: «Si può vedere qualcosa di più vergognoso di
questo libro? Quale umiliazione per noi cristiani che gli atti memorabili dei nostri Santi
non siano trasmessi alla storia con vera sincerità, con religiosa fedeltà, in modo da farli
conoscere ed imitare». 208
Egualmente, nel 1564, l’esegeta Giovanni Andrea Gilio
raccomandò ai pittori di evitare la lettura di Jacopo da Varagine, fonte decisamente troppo
fantasiosa per essere credibile. 209

Teoria e prassi, tuttavia, corrono su strade non di rado parallele: «la Maddalena che la
Controriforma impone […] è una Maddalena dogmatica, quando non è mondana» 210 e
nell’arte, come nella letteratura, continua ad essere accompagnata dal suo persistente
corredo leggendario. Ad esempio, sia quando si voleva restituire l’immagine di una
Maddalena/cortigiana, sia quando l’intento era quello di raffigurare una
Maddalena/romitessa, la Legenda Aurea costituiva ancora un imprescindibile serbatoio
di topoi letterari e figurativi, che nella loro sospensione tra favola e racconto devozionale
erano penetrati a tal punto nell’immaginario collettivo da non poterne quasi fare a meno.

In seguito al Concilio di Trento la Chiesa cattolica, che pur mal sopportava alcune
“licenze” degli artisti, sbandierò ancor più energicamente la «politica figurativa» che
l’aveva sempre contraddistinta. Il «libro popolare» delle arti visive, considerato come uno
strumento didascalico e propagandistico essenziale, trovava una nuova ragion d’essere e
una nuova diffusione in reazione a certi orientamenti della Riforma. Il calvinismo, in
particolare, nella venerazione dei santi non vedeva il mezzo di una catechesi adatta ad

208
Vivès L., Causas de la corruptción de las artes in general, Valencia, 1532, digitalizzato in Biblioteca
Valenciana
Digital, https://bivaldi.gva.es/es/corpus/unidad.do?posicion=1&idCorpus=1&idUnidad=11439, ultimo
accesso 11/05/2021.
Riferimento presente anche in Delenda O., Il sermone attraverso l’immagine: la Maddalena in Francia nel
XVII secolo, in La Maddalena tra sacro e profano. Da Giotto a De Chirico, cit., p.178.

209
Cfr. Gilio G.A., Dialogo nel quale si ragiona degli errori e degli abusi de’pittori circa l’istorie,
Camerino, 1564, in https://archive.org/details/bub_gb_ukrbQeuK89YC, ultimo accesso 11/05/2021.
Riferimento presente anche in Delenda O., Il sermone attraverso l’immagine: la Maddalena in Francia nel
XVII secolo, in La Maddalena tra sacro e profano. Da Giotto a De Chirico, cit., p.178.

210
Delenda O., Il mito della Maddalena nella Controriforma, in La Maddalena tra sacro e profano. Da
Giotto a De Chirico, cit., p. 82.

68
istruire, moralizzare e convertire il popolo, ma l’idea di un culto idolatrico da combattere
ed estirpare.211

Data l’esigenza di rivolgersi a quanti più fedeli possibili e di riportare all’ ovile le
pecorelle smarrite nell’eresia, il clero controriformato sfruttava la potente mediazione
delle immagini, della retorica, della lirica e del teatro, finendo persino per avvalersi di
alcuni codici espressivi tradizionalmente profani, «con la conseguente
rifunzionalizzazione in chiave cristiana di una langue estetica altrimenti poco adatta ai
rigori della fede»212: ne è un chiaro esempio la rappresentazione dell’estasi. Al tempo
stesso, emerge da più fonti il tentativo di irreggimentare l’illustrazione di quei temi e di
quelle figure che attenevano alla sfera del sacro. Nel Discorso intorno alle immagini sacre
e profane (1582), il cardinale Gabriele Paleotti, ad esempio, lamenta che certe
raffigurazioni della Maddalena possano «fomentare affetti lascivi»; 213 in modo non
dissimile, qualche anno prima, il sopracitato cardinal Gilio, nel Dialogo nel quale si
ragiona degli errori e degli abusi de’pittori circa l’istorie (1564) si scaglia sia contro
coloro che dipingono la santa «nuda sopra gli altari», sia contro quelli che «la fanno tutta
pulita, profumata, piena di gioie, di catene d’oro, con veste di velluto e piena di vanità,
non avvertendo che più peccatrice non era, ma in fervore discepola». 214

Come afferma Giovanni Getto, il «chiaroscuro antitetico» di una storia sospesa «sul
contrasto fra l’antica vita di lusso e di lussuria della donna e la vita attuale di penitenza e
di pentimento della santa»215 non poteva che determinare il ricorso a soluzioni
ambivalenti. Basti citare un passaggio del Trattato dell'arte della pittura, scoltura et
architettura di Giovan Paolo Lomazzo (1584), in cui egli elargisce una serie di precetti
che finiscono per proporre la “corretta” raffigurazione della Maddalena come una vera
propria sfida. Innanzitutto, per rendere l’idea della sua vita eremitica «è necessario

211
Cfr. Piantoni L., op. cit., p. 26.

212
Ivi, p. 27.

213
Paleotti G., Discorso intorno alle immagini sacre e profane, Bologna, 1582, p. 267,
http://www.memofonte.it/home/files/pdf/scritti_paleotti.pdf, ultimo accesso 20/06/2021

214
Gilio G.A, Dialogo nel quale si ragiona degli errori e degli abusi de’pittori circa l’istorie, cit., p. 33.

215
Getto G., Il Barocco letterario in Italia. Barocco in prosa e in poesia. La polemica sul Barocco,
Mondadori, Milano, 2000, p. 77.

69
rappresentarla ignuda», per cui «conviene usar grandissima destrezza» per esprimerne il
decoro:

Conviene usar grandissima destrezza nell’esprimere i suoi gesti […] sì che ella si vegga
di fianco, tenga le braccia in oratione, & copra più che si può ogni altra parte che appare:
facendo che i capelli con bellissimi atti li sparga sopra le spalle, il petto & le poppe […];
che con tali vie si mostra la verità, tuttavia osservando l’onestà. 216

Malgrado la difficoltà di tenere insieme «verità» e «onestà», l’immagine della Maddalena


si impose più di altre tra Cinque e Seicento: essa, infatti, si fece emblema «della guerra
intellettuale tra cristiani», dal momento che «come penitente premiata distruggeva il
concetto di giustificazione per sola fede di Lutero ed esaltava la dottrina tridentina dei
meriti». 217Ecco perché, in polemica con le posizioni protestanti, la Chiesa della
Controriforma promosse quelle rappresentazioni della santa in cui risultava
particolarmente accentuato il ruolo della conversione e della conseguente penitenza,
«cerniera tra le opposte identità riunite nella sua figura».218

Quel che rende tangibile la scelta di un diverso cammino è innanzitutto la rinuncia ai beni
mondani, a partire dal ripudio delle gioie e degli ornamenti, tema che trovò un’enorme
cassa di risonanza tanto nella pittura (come vedremo), quanto negli innumerevoli
riferimenti letterari, come attestano i versi di Erasmo da Valvasone: «Al suo liberator
tutta si volta / Et le catene d’or getta repente / Et dal collo, et dal crine, et da le braccia
/Onde in prigion sua castitade allaccia». 219

Ma ancor più importante, in questa “messa a nudo” letterale e metaforica della


Maddalena, è la sublimazione nell’amore per Cristo di «tutti i membri tutti del corpo suo,
i quali avevano servito alla vanità»:

216
Lomazzo G.P., Trattato dell'arte della pittura, scoltura et architettura (1584), pp. 365-366,
https://books.google.it/books?id=woLXoLDqh1sC&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summar
y_r&cad=0#v=onepage&q=maddalena&f=false, ultimo accesso, 20/06/2021

217
De Maio R., Il mito della Maddalena nella Controriforma, in La Maddalena tra sacro e profano. Da
Giotto a De Chirico, cit., p. 82

218
Stagno L., Vanitas e santità. Maddalena, beata peccatrix, speculum poenitentiae, cit., p. 22.

219
Valvasone E., Lagrime di S. Maria Maddalena, in Le lagrime di S. Pietro e del sig. Luigi Tansillo. Di
nuovo ristampate con nuova gionta delle lagrime della Maddalena del signor Erasmo Valvassone…, in
Genova, appresso Girolamo Bartoli, 1587, p. 169. Riferimento riportato da Stagno L., Vanitas e santità.
Maddalena, beata peccatrix, speculum poenitentiae, cit., p. 22.

70
Con gli occhi aveva cose vane riguardato; con la bocca aveva parole superbe e lascive
favellato; co i capegli si aveva il capo vanamente ornato; e con unguenti sensualmente il
corpo suo nutricato. Ma poscia che nella sua conversione, e gli occhi, e la bocca, e i capelli
e l’unguento, con umile ossequio intorno a’piedi del Salvatore ebbe adoperato, ne diede
forma e esempio di verace e intima soddisfazione. 220

L’«amata amante / bellissima pentita»221, che «di tutte le cose, le quali erano state
instrumenti di peccato, si servì come di rimedi contra li peccati», 222 è indubbiamente
un’immagine di fortissimo impatto, destinata a dare forma a un vero e proprio mito.

Un mito che deve la sua straordinaria capacità di irradiamento alla possibilità di servirsene
per indagare la femminilità «sia nella direzione di una sua drastica negazione, sia in quella
di una sua conturbante riabilitazione in senso profano», tanto che la beata peccatrix risulta
«uno dei migliori compromessi tra spinte centrifughe potenzialmente eterodosse e
rigoroso disciplinamento».223

220
Razzi S., Vita, e laudi di santa Maria Maddalena, di san Lazzero, e di santa Marta, Bartolomeo
Sermartelli, Firenze, 1587, p. 4; digitalizzato da Google,
https://books.google.it/books?vid=IBNR:CR000230995&redir_esc=y, ultimo accesso 10/05/2021
Le parole espresse in questo brano del domenicano Serafino Razzi ricalcano un’omelia di Gregorio Magno,
sulla quale si modellarono le successive dissertazioni teologiche sulla santa (almeno fino al Concilio
Vaticano II): «[…] in precedenza quella donna dedita ai suoi atti illeciti aveva usato l’unguento per sé, per
profumare il proprio corpo. Dunque ciò che prima aveva vergognosamente offerto a se stessa, ormai lo
offriva lodevolmente a Dio. Con i suoi occhi aveva bramato le cose terrene, ma adesso umiliandoli
attraverso la penitenza piangeva. Aveva mostrato i capelli per ornamento del suo aspetto, ma ormai con i
capelli asciugava le lacrime. Con le sue labbra aveva detto parole superbe, ma baciando i piedi di Gesù le
imprimeva sulle orme del suo Redentore». (Gregorio Magno, Hom. XXXIII, I, in Patrologia Latina,
LXXVI, col. 1238, col. 1240).

221
Sarriano A., De la Croce schiodato, in Il sacro Parnaso, R. Mollo Napoli, 1645, p. 58. Citato da Stagno
L., Vanitas e santità. Maddalena, beata peccatrix, speculum poenitentiae, cit., p. 22.

222
Pedro de Ribadeneira, Flos Sanctorum, Niccolò Pezzana, Venezia. Citato da Eusebio D., Introduzione,
in Brignole Sale A. G., Maria Maddalena peccatrice e convertita, a cura di D. Eusebio, Ugo Guanda
Editore, Parma, 1994.

223
Fiaschini F., Temi libertini ne La Maddalena mantovana di Giovan Battista Andreini, in Maestranze,
artisti e apparatori per la scena dei Gonzaga (1480-1630), Atti del convegno internazionale di studi
(Mantova, 26-28 febbraio 2015), Edizioni di Pagina, Bari, 2016, p. 339.

71
2.3 La Maddalena lasciva e penitente di Giovan Battista Andreini

In virtù delle sue straordinarie potenzialità “a doppio taglio” l’icona della Maddalena
conobbe un’eccezionale fortuna non solo nelle arti figurative, ma anche nel campo del
teatro. Uno degli esempi più significativi in tal senso è rappresentato da una «sacra
rappresentazione», interamente scritta in versi, stampata a Milano nel 1652: La
Maddalena lasciva e penitente del fiorentino Giovan Battista Andreini. 224

Costui fu quello che oggi verrebbe definito un “figlio d’arte”, essendo il primogenito di
Francesco Andreini e Isabella Canali, celebri comici della Compagnia dei Gelosi. I
talentuosi genitori erano riusciti a nobilitare il ruolo degli attori di professione presso le
corti europee come mai era stato fatto prima di allora. Il loro erede, dunque, avrebbe
dovuto portare lustro e gloria non solo al cognome Andreini, ma ad un’intera categoria
lavorativa che per molto tempo era stata considerata al fondo della scala sociale, appena
un gradino sopra mendicanti, saltimbanchi, buffoni e prostitute.225 Anche dopo che molte
compagnie erano, nel frattempo, divenute le beniamine delle più prestigiose corti europee,
«a Bologna il cardinale Gabriele Paleotti fulminava i comici perché uomini “vagabondi,
di mal nome, che conducono seco donne di mala vita” […]».226 Isabella Andreini, in tutta
risposta al Paleotti e ai pregiudizi di una larga parte della cultura ecclesiastica
controriformata, rappresentò una figura chiave per l’emancipazione femminile nel mondo
del teatro. Grazie alla sua intraprendenza e alla sua abilità nella scrittura scenica e in
quella letteraria, fu fra le prime attrici professioniste che velarono e sublimarono il corpo
e la recitazione con uno studio accurato del linguaggio di stampo petrarchesco (il

224
La Maddalena lasciva e penitente di Andreini essendo un’opera di argomento sacro testimoniava la
versatilità che contraddistingueva l’offerta della Commedia dell’Arte. Come chiarito da Benedetto Croce,
il termine “Arte” vuol dire mestiere, artigianato, una modalità produttiva quindi e non uno specifico genere
teatrale. Cfr. Carandini S., Prefazione, in Andreini G. B., La Maddalena lasciva e penitente, a cura di R.
Palmieri, Palomar, Bari, 2006, p. 11.

225
Il mondo dei comici dell’Arte e quello dei ciarlatani furono, sin dalla loro nascita, considerati come
modi attigui ed affini se non addirittura, spesso, erroneamente identificati come membri di un’unica, grande
famiglia: «[…] i signori virtuosi e i cerretani formavano una sola famiglia […]». Facile, quindi, intuire
come i pregiudizi riservati ad una categoria si riversassero, quasi per osmosi, all’altra, anche se le due
professioni, negli anni, avevano preso strade completamente diverse. Cfr. D’Ancona A., Origini del Teatro
Italiano, Torino, Loscher, 1891, vol. II, p. 474.

226
Ivi, p. 183. Se per gli attori di sesso maschile, persistette l’accostamento alla categoria professionale dei
ciarlatani, non deve stupire, invece, che per le comiche, l’accostamento più frequente rimase quello al
mondo delle cortigiane, dato l’uso improprio e scandaloso del corpo.

72
riferimento principe della convenzione aulica vigente) 227. Curò relazioni con intellettuali
di fama, tra cui spiccano Tasso 228 e Giovan Battista Marino 229, dei quali imitò, oltre allo
stile, le opportune strategie editoriali per promuoversi come fine letterata (nell’egloga
Mirtilla e nelle diverse sue composizioni poetiche). Il suo primo spettacolo largamente
documentato risale al 1589, quando, per le nozze di Ferdinando I e Cristina di Lorena, a
Firenze, la Compagnia dei Gelosi mise in scena la Pazzia d’Isabella, ideata e interpretata
dalla stessa Andreini, che riscosse un successo trionfale. Diffuse così, di sé stessa e della
sua compagnia di appartenenza, un’immagine d’eccezione che continuò ad imporsi dopo
la sua scomparsa, a partire dalla lapide apposta nella cattedrale di Lione, nel luogo della
morte, per continuare con le molte edizioni postume che edificarono un mito ineguagliato
in tutto il teatro di antico regime.

Il figlio si dimostrò un degno successore rivelandosi un acuto capocomico e brillante


drammaturgo.

Mirabile e lungimirante, egli, sin dai suoi esordi come autore teatrale, intorno all’anno
1604230, seppe cogliere e sviluppare le potenzialità artistiche di tutti i generi letterari che
ebbe modo d’incontrare lungo il suo cammino di poeta, un cammino durato la bellezza di
mezzo secolo. Che si trattasse di tragedia, commedia o pastorale, Giovan Battista non
tralasciò nulla del panorama drammaturgico del suo tempo, mescolando, rivoluzionando
e, spesso, inventando persino stili e modelli completamente nuovi. La sua vena creativa
assorbì tutto ciò che lo circondava, facendo della sua produzione letteraria una sorta di
mitologica creatura, onnivora e vorace. Non stupisce, pertanto, che, fra i molteplici e

227
Ferrone S., La Commedia dell’Arte. Attrici e attori italiani in Europa (XVI-XVII secolo), Einaudi,
Torino, 2014, pp. 43-44.

228
Per approfondire il rapporto con Tasso si veda il fondamentale saggio di Taviani F., Bella d’Asia,
Torquato Tasso, gli attori e l’immortalità, in «Paragone letteratura», XXXV, 1984, pp. 3-76.
229
Per approfondire il rapporto con Giovan Battista Marino si veda Santuosso S., Le ecloghe boscherecce
di Isabella Andreini nelle opere di Giovan Battista Marino, in «Studi Secenteschi», 54, 2013, pp. 49-57.
L’autore si concentra sul fertile scambio poetico tra i due, al punto che lo stesso Marino si lasciò ispirare
dai versi di Isabella.

230
Giovan Battista Andreini, nel 1604 pubblicò la sua prima opera teatrale, una tragedia intitolata Florinda,
messa in scena dalla Compagnia dei Fedeli, che egli aveva appena fondato, in concomitanza allo
scioglimento della Compagnia dei Gelosi. Protagonista della pièce fu sua moglie, Virginia Ramponi, dal
cui titolo ella avrebbe poi preso il nome d’arte di Florinda.

73
proteiformi impulsi culturali a lui coevi, Andreini colse anche quello derivante dai teatri
in musica.231

Sono diverse le interconnessioni tra Andreini e l’universo performativo musicale barocco.


In primis si evidenziano i legami personali: l’aver sposato Virginia Ramponi, la celebre
interprete di Arianna, protagonista dell’omonima tragedia per musica monteverdiana, gli
diede modo di stringere amicizia con entrambi i fratelli Monteverdi. Sul piano delle
relazioni professionali, invece, di fondamentale importanza fu la sua assidua
frequentazione degli ambienti cortigiani, quali quello fiorentino e mantovano, ove la
musicale spettacolarità era cosa assai apprezzata. 232

Il filo conduttore attorno al quale si intreccia la sua vita itinerante e la molteplicità delle
sue esperienze è senza dubbio l’afflato sperimentale. Nelle invenzioni scenografiche,
nella definizione degli intrecci narrativi, nella descrizione dei personaggi, l’obiettivo
dell’autore era quello d’ottenere un prodotto che fosse unico ed originale, in grado di
distinguersi, soddisfacendo gusti e bisogni variegati. Nel perpetuo processo osmotico tra
esperienza professionale, vissuto quotidiano e tradizioni culturali, capitava spesso che
egli desse vita a un testo che era sì, innegabilmente, un’opera teatrale, ma che faticava, al
contempo, a rientrare in una specifica categoria drammaturgica: una commedia molto
musicale a metà tra teatro dell’Arte e opera lirica, oppure un’opera che era tragedia,
commedia e pastorale e nessuna dei tre, una sacra rappresentazione “cortigiana” e così
via. Del resto, l’unica vera regola che il barocco ammetteva era quella
dell’incommensurabilità, della rottura delle prassi all’insegna di una trasformazione
continua.

L’apogeo del suo spirito innovatore Andreini lo raggiunse in Francia, presso la corte di
Luigi XIII, la cui madre, Maria de’ Medici, mostrava una straordinaria passione per il
mondo della Commedia dell’Arte italiana.

Al prolifico periodo parigino risale la singolare commedia Amor nello specchio (1622),
che potremmo definire come un variegato caleidoscopio di piaceri erotici. Andreini
mostra dunque di inserirsi in uno dei filoni d’elezione del libertinismo secentesco: quello

231
Bragato A., La drammaturgia sperimentale di Gio. Battista Andreini fra Commedia dell’Arte, poesia e
teatri per musica, Tesi di dottorato in Studi teatrali e Cinematografici, Università di Bologna, Relatore Prof.
G. Guccini, 2013, pp. 3- 4.
232
Ivi, p. 1.

74
legato all’eros, in cui «l’amore viene scandagliato e analizzato alla luce di un’etica laica
che consente […] di restituire alle favole antiche tutta l’originaria carica erotica e
ludica». 233 In questo caso Eros si serve del mito di Narciso, alias Florinda, che si guarda
nel «consigliere delle grazie». Ma più ancora che di Narciso Florinda è la personificazione
stessa della Commedia andreiniana, speculum vitae humanae, in cui trovano spazio anche
quei temi dell’inconscio sentiti allora come “mostri” (l’omosessualità, l’ermafroditismo,
l’autoerotismo), altrimenti tenuti lontani dai luoghi di rappresentazione. 234

Si capisce allora l’interesse dei “libertini”, tra cui Theophile e Saint Amant, per questo
tipo di spettacoli, nei quali la Cultura (fondata dagli antichi eroi, solari vincitori delle
tenebre dell’inconscio) viene a contatto con la Natura (produttrice di forme visivamente
e moralmente “disoneste” e “oscene”). Reprimere la natura significa però causare quella
Malinconia nella quale Prospero Bonarelli [drammaturgo contemporaneo di Andreini]
riconosceva l’origine dei mostri e delle chimere che frequentano il teatro dell’“io”.
Tramite i riferimenti al platonismo, all’alchimia, e grazie all’artificio tipicamente teatrale,
ma anche iniziatico (si pensi alla sua presenza nei celebri affreschi pompeiani della Villa
dei Misteri) di una superficie riflettente, Andreini suscita dunque problematiche che
hanno una forte risonanza psicoanalitica. 235

Il tema dello specchio, come vedremo, ricoprirà un ruolo fondamentale dal punto di vista
«iniziatico» anche nelle rappresentazioni incentrate sulla Maddalena, la figura senz’altro
più ricorrente della produzione di Andreini.

Questa «ingannante sirena» lo avvinse tra le sue spire fin quasi dagli esordi della sua
attività. Le numerose composizioni che le dedicò contano l’iniziale poema pubblicato a
Venezia nel 1610 (poi ristampato a Firenze nel 1612, con dedica a Maria Maddalena
d’Austria) e ben tre versioni teatrali, dal debutto mantovano del 1617, all’edizione
viennese del 1627, fino all’ultima edizione milanese del 1652 (quella qui presa in
esame).236

233
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, Einaudi, Torino, 2016,
p. 29.

234
Cfr. Lombardi M., Processo al teatro. La tragicommedia barocca e i suoi mostri, Pacini Editore, Pisa,
1995, p. 217.

235
Ivi, p. 219.

236
Cfr. Fiaschini F., Temi libertini ne La Maddalena mantovana di Giovan Battista Andreini, in
Maestranze, artisti e apparatori per la scena dei Gonzaga (1480-1630), Atti del convegno internazionale
di studi (Mantova, 26-28 febbraio 2015), Edizioni di Pagina, Bari, 2016, p. 339.
75
La ricerca sul mito maddaleniano, iniziata a Venezia, aveva trovato nuovi motivi
d’interesse in Francia, la terra da lui tanto amata che aveva eletto l’apostola a sua santa
patrona. Inoltre, fu proprio Maria de’ Medici in persona, durante il primo soggiorno
parigino di Andreini, nel 1611, a consigliargli di trasporre il poemetto scritto l’anno
precedente in una forma rappresentabile. 237

Tra la prima e l’ultima edizione teatrale della Maddalena l’opera in musica conobbe una
straordinaria fortuna, fino a fuoriuscire dal ristretto ambito delle corti, affermandosi a
Venezia quale spettacolo pubblico alla fine degli anni ’30, per poi diffondersi anche
all’estero. Ecco allora che, per rispondere alla concorrenza rappresentata dal novello
genere dell’opera lirica, il dramma del 1652 tende nei propri versi alla misura di un
libretto operistico e introduce più elaborati cambi di scena e meraviglie meccaniche, come
il congegno che solleva in aria la penitente durante l’estasi e le sue visioni. 238

Il maggior pregio di quest’opera, però, sta innanzitutto nel saperci restituire

Una figura di eroina cortigiana e santa, votata a professare i riti d’amore, dall’eros profano
al delirio sacro, che costituisce un nuovo modello estremo di femminilità, un paradosso
[…] in cui l’età della Controriforma concentra le contraddizioni ultime del fascino che
esercitano «lascivia» e «penitenza».239

Le scene più efficaci, infatti, sono costruite attorno alla creazione di un’immagine che
non conosce scale di grigio, la cui duplicità si esprime a tinte forti: dalla «cerasta
d’amore», ossia dal serpente tentatore della prima parte - che si presenta come
l’ammaliante regina di una corte di servitori e di amanti240 - si passa alla Maddalena umile
e penitente della scena finale, «navicella sdrucita» che giunge solitaria al porto della
conversione.

237
Andreini parla esplicitamente del suggerimento avuto dalla Christianissima Maria dei Medici nella
lettera al lettore introduttiva alla rappresentazione teatrale del 1617, la cui stesura si era concentrata nel
biennio francese del 1613-1614. Cfr. Fiaschini F., L’«Inaccessabil Agitazione». Giovan Battista Andreini
tra professione teatrale, cultura letteraria e religione, Giardini Editori e Stampatori, Pisa, 2007, p. 115.

238
Cfr. Carandini S., Prefazione, in Andreini G. B., La Maddalena lasciva e penitente, cit., pp. 13-16.

239
Ivi, p. 17.

240
L’idea della regalità della Maddalena era stata particolarmente diffusa dalla Leggenda aurea, dunque in
Andreini permane il filtro della leggenda e dell’agiografia.

76
Più in generale, possiamo leggere questa pièce teatrale come la «resa scenica di una teoria
che ambiva a riformare la Commedia dell’Arte, facendo delle passioni il fuoco
rigeneratore di spettatori e attori». 241 Ma pur inserendosi all’interno di questa teoria,
Andreini riuscirà a muoversi, come di consueto, sul nicodemico e sottile confine della
mediazione tra ufficialità e licenziosità, proprio in virtù dell’irrisolto contrasto con cui ci
presenta i due volti della protagonista.

Se riesce difficile pensare alla collocazione di Maddalena nel contesto della Commedia
dell’Arte, popolata da maschere e istrioni, non bisogna dimenticare che nella letteratura
della metà del Seicento riveniamo le molteplici tracce di una contestazione morale che
aveva messo in discussione l’esistenza stessa di questa forma teatrale. Per far fronte alla
sua fascinazione carnevalesca e dunque “diabolica”, come sostiene Ferdinando Taviani,
le gerarchie ecclesiastiche sentivano la necessità di «risacralizzare» il tempo
dell’intrattenimento.242 Particolarmente significativo, in tal senso, fu l’esempio dettato
dai Gesuiti, che, partendo da un insegnamento principalmente rivolto all’oralità, seppero
declinare la loro abilità retorica in drammaturgia, facendosi promotori di una riforma
interna al teatro barocco. I loro spettacoli volevano, di fatto, rappresentare il contraltare
dei lazzi della Commedia dell’Arte, proponendosi come scuola di valori e di virtù da cui
apprendere la disciplina dell’anima e del corpo, in linea con gli Esercizi spirituali di S.
Ignazio. 243 Alla luce di tutto questo, quando si legge a più riprese nelle cronache di tenersi
lontani dalla lascivia e dalla trivialità dei teatri, si comprende dunque lo sforzo degli autori
per rendere sacro il mestiere dell’attore nobilitandolo con finalità pedagogiche e
catartiche.

Per Andreini, però, secondo la tesi di Laura Falavolti, l’insistere su tematiche religiose
significava essenzialmente appropriarsi del cattolicesimo come di una «nuova mitologia»
che potesse conferire dignità all’opera. 244 Nel tendere a questo scopo, il drammaturgo,

241
Palmieri R., Giovan Battista Andreini, la Maddalena e il tempo Barocco, in Andreini G. B., La
Maddalena lasciva e penitente, cit., p. 21.

242
Taviani F., La fascinazione del teatro, Bulzoni, Roma, 1696, pp. 6-43.

243
Cfr. Pfeiffer H., La radice spirituale dell’attività teatrale della Compagnia di Gesù negli esercizi
spirituali di Sant’Ignazio, in Chiabò M., Doglio F. (a cura di), I Gesuiti e i primordi del teatro barocco in
Europa, Atti del XVIII Convegno Internazionale (Roma, 26-29 ottobre 1994; Anagni, 30 ottobre 1994),
Roma, 1995, pp. 31-37.
244
Falavolti L. (a cura di), Commedie dei Comici dell’Arte, UTET, Torino, 1982, pp. 47-51.

77
infatti, si preoccupava costantemente di alzare il registro dei suoi componimenti: per
elevarli al di sopra di una cultura teatrale comunemente sentita come “bassa”, ricorreva a
quanti più spunti possibili desunti dalla cultura “alta”, in cui le sacre scritture convivevano
con gli echi della cultura classica. Nel dramma in questione, ad esempio, ricorre l’idea
del labirinto, che salda gli intrighi amorosi della Maddalena al mito di Teseo e Arianna.
Alcuni studiosi, poi, riconoscono nei vistosi artifici retorici de la Maddalena lasciva e
penitente una spia della propensione di Andreini per un gusto «asiano», che sembra
preponderante rispetto alla sua adesione alla morale cristiana. 245

Di certo, già la rappresentazione mantovana del 1617, come sostiene Silvia Carandini, è

la più efficace metafora […] per lanciare una proposta di riforma, per rispondere alle
violente offensive contro la seduzione diabolica della donna attrice nelle rappresentazioni
dell’arte.246

In altre parole, pur essendo un autore fondamentalmente comico, Andreini negli ultimi
anni si era dedicato alla scrittura di opere a soggetto sacro soprattutto con l’intenzione di
riabilitare gli esponenti della sua professione, al di là delle loro vili apparenze, rivalutando
in particolar modo il ruolo delle attrici, sulle orme della madre Isabella. 247

La figura di Maria Maddalena, una donna che sebbene avesse praticato il mercimonio del
proprio corpo per buona parte della sua esistenza, s’era infine redenta, giungendo
addirittura ad elevarsi al grado di santa, era l’emblema di una parabola ascendente che
non poteva lasciare indifferente il figlio d’Isabella Andreini, la prima donna attrice capace
d’emanciparsi da alcuni pregiudizi legati alla figura della comica di professione che, non
di rado, veniva accostata a quella della cortigiana. Equivoco, questo, nato dal fatto che
entrambe, erano ritenute, dalla società d’allora, “colpevoli” di fare un lavoro in cui la
fisicità era, spesso, eccessivamente centrale. […] È lecito, pertanto, supporre che con
Maria Maddalena, l’Andreini, potesse percepire una sorta, si potrebbe dire di “familiare”,
connessione.248

245
Palmieri R., Giovan Battista Andreini, la Maddalena e il tempo Barocco, cit., p. 27.

246
Carandini S., Inchiostri, sudori e lacrime: il teatro sacro di Giovan Battista Andreini comico dell’Arte,
in Chiabò, Doglio (a cura di), I Gesuiti e i primordi del teatro barocco, cit., pp. 441-456.

247
Cfr. Smith W., G.B. Andreini as a theatrical innovator, in «The Modern Language Rewiew», XVII
(1922), pp. 31-41.
248
Bragato A., op. cit., p. 193.

78
Lo strumento essenziale che egli indicò per il riscatto artistico e sociale della presenza
femminile sul palco è quello della contaminazione dei generi. Nella fattispecie della
Maddalena del 1652, la protagonista era chiamata a destreggiarsi con un’aulica
declamazione amorosa, ma ciò non toglie che in altri ruoli minori venissero comunque
mantenuti degli accenti comico-burleschi, basti pensare alle serve che si esibiscono sulle
note di una grottesca e improbabile danza della scopa. 249 Andreini mirava ad ottenere un
prodotto che, per quanto si attenesse ai fondamenti della performance tragica, fosse al
contempo inscrivibile nella propria tradizione culturale, quella della spettacolarità,
carnale ed umanissima, dei comici di professione. 250

Tanto è chimerico lo stile drammaturgico di quest’opera quanto lo è il fascino della


Maddalena. Particolarmente emblematico è il passaggio in cui la cortigiana si trasfigura
nella fenice che sa rinnovarsi nel fuoco rigeneratore: «o qual fenice d’alta legna in rogo /
per fare, o gran pietate / ch’entro le sacre al fin ceneri tue / al risorge con te fossimo
due». 251 La scena-madre del pentimento, quella a più alta densità di pathos, ci mostra la
donna in preda al furore, mentre si strappa di dosso ori e monili per attestare un altro atto
di rinascita: «che Maddalena io sia / folle è ben chi lo stima; / Maddalena già fui / […]
Maddalena io non son». Cosa implica l’antitetica contrapposizione tra «l’essere stata» e
il «non essere più» se non la duplicità intrinseca nella sua natura? E non è un caso che sia
l’aria, l’elemento impalpabile per eccellenza, a connotarla prima e dopo la conversione:
se inizialmente è accarezzata dai venti di levante che soffiano su «un Egeo d’inganni»,
viene infine paragonata al vento di bora, che porta con sé un’aria tersa e limpida. 252

La sua fuggevole essenza è ribadita anche dagli attributi dei fiori, dei capelli e dello
specchio. Come abbiamo già osservato nelle accezioni simboliche di molte nature morte,

249
Così recita la didascalia della scena quinta del primo atto: «Ciascuna con iscopa in mano, con duo schiavi
mori, con innaffiatori faranno una danza spazzando e annaffiando».
250
Già alla fine del Quattrocento, era comparsa: «una produzione [di drammi sacri] di carattere diverso,
orientata soprattutto verso la scelta di soggetti agiografici […] nella quale si insinuano delle componenti di
matrice laica e spesso comica». Cfr. Ventrone P., La Sacra Rappresentazione fiorentina: aspetti e problemi,
in Chiabò M., D’Oglio F., Esperienze dello spettacolo religioso nell’Europa del Quattrocento, Atti del
Convegno Roma-Anagni 1992, Union Printing, Viterbo, 1993, pp. 67-99.
Inoltre, più in generale, la tragicità, intima parente della religiosità, se opportunamente associata ad una
proba comicità, era all’epoca ritenuta fonte di un piacevole contrasto – da questo connubio, in fondo, era
nata anche la pastorale, definita, per l’appunto, tragicommedia – e non cosa disdicevole.

251
Atto terzo, scena nona, vv. 3336-3339.

252
Atto secondo, scena nona, vv. 1959-1961: «In questo Egeo d’inganni / con fortunati auspici / gonfino i
lini tuoi gli Euri felici»; atto terzo, scena settima, v.2945: «Maddalena già vostra, bora di Cristo».

79
il fiore è metafora della transitorietà e, nel caso specifico del suo legame con Maddalena,
«di una versatilità che è propria delle donne, virata a un’evoluzione perpetua e
caratterizzata in particolar modo dal carattere fuggitivo della bellezza». 253 I capelli, che
prima erano contorti labirinti per irretire gli amanti, vengono poi tagliati a dispregio della
vanità e dei desideri sensuali, raccogliendosi a terra in un «fastoso raccolto, in or
gemmato».254 Le accezioni più complesse sono quelle di cui si carica il motivo dello
specchio, l’ossessione della Maddalena sin dal suo palesarsi in scena. L’oggetto esige e
svela l’inganno di maschere sempre nuove, riflettendo tutte le sfumature del processo di
trasformazione della donna: dapprima ne rimanda un’immagine algida e siderale,
contaminata di un certo stilnovismo improntato alle varianti del bianco; poi un’immagine
sensuale, dal cromatismo più spiccato, e infine un’immagine contrita e cinerea.

A suggellare la redenzione della Maddalena vi è poi la trasparenza perlacea delle sue


lacrime. Nel cristianesimo si può individuare una vera e propria teologia del pianto. A
cominciare da Antonio Abate, nel IV secolo, il pianto fu ufficialmente riconosciuto come
forma di adorazione. Anche Gregorio Magno, lo stesso a cui si deve la definizione
canonica della Maddalena, considerò la compunzione come di una forma di preghiera. 255
Nella letteratura patristica il pianto è inoltre simbolo visibile della purificazione
dell’anima, che segue al riconoscimento della finitudine umana e della colpa. Questa
tradizione di pensiero, recepita e rielaborata dalla mistica medievale e moderna, investì
con particolare forza la figura di Maria di Magdala, da quando venne associata a quella
peccatrice che piangendo lavò i piedi di Cristo nella casa di Simone. Nei testi postridentini
l’episodio narrato nel Vangelo di Luca diventa solo l’inizio di un profluvio di lacrime: ne
Le Lagrime della Maddalena di Erasmo Valvasone (1586) ogni momento saliente della
vita della santa – ai piedi della Croce, presso il sepolcro, nel momento dell’incontro con
il Risorto, nella grotta del suo eremitaggio provenzale – è segnato dallo spargimento di
«sante lagrime».256 Attingendo da simili fonti, Andreini dimostra di conoscere

253
Chevalier J., Gherbrant, Dictionaire des symboles, Mithes, reves, costumes, gestes, formes, figures,
coloeurs, nombres, Paris, 1699, p. 361.

254
Atto terzo, scena quarta, v. 2731.

255
Apostolos-Cappadona, “Pray with tears and your request will find a hearing: on the Iconology of the
Magdalene’s tears, in Holy Tears: weeping in the religious imagination, a cura di K.C. Patton e J. Stratton
Hawley, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2005, p. 207.
256
Valvasone E., Lagrime di S. Maria Maddalena…cit., passim.

80
particolarmente bene un romanzo di Anton Giulio Brignole Sale, Maria Maddalena
peccatrice e convertita (1636), dove il tema del pianto ricorre con grandissima frequenza,
e dilagano «fiumi», «torrenti», «onde» di lacrime salvifiche, che diventano «mare» e
«diluvio».257

Anche nel dramma di Andreini vi è un continuo rimando metaforico, con indubbi esiti
teatrali, alle lacrime che si fanno fiumi o fontane258, a caratterizzare una Maddalena
indissolubilmente santa e attrice allo stesso tempo.

Tale binomio «sembra, quindi, destinato a non trovare soluzioni a favore dell’una o
dell’altra, ma anzi a caratterizzarsi nel suo avvolgersi intricato […]». 259 Il risultato è che,
in filigrana, emerge intatto il potere seduttivo della peccatrice, identificata fin da subito
nel tipo della cortigiana - dedita non solo alla lussuria, ma anche al lusso sfrenato di gioie,
profumi, abiti preziosi e fastosi conviti - in linea con una tradizione letteraria che assume
toni particolarmente vividi nell’Umanità di Cristo di Pietro Aretino (1535).260

A stemperare la sacralità di quest’opera contribuisce poi la spettacolarità ridondante,


evidente fin dal primo momento, all’aprirsi del sipario: «l’apparato tutto esser dovrà mare
e scogli; e nel lontano dello stesso mare alcuna barchetta vedrassi, prima però, che
apparisca prologo».

In queste indicazioni sceniche si riverbera l’eco fiabesca delle immagini marittime del
poemetto del 1610, a loro volta ispirate alla Legenda aurea, che narra il rocambolesco e
provvidenziale approdo della Maddalena sulle coste della Marsiglia, dopo essere stata
perseguitata e abbandonata su una zattera senza remi, in balia delle tempeste. Da un punto
di vista visivo, però, un simile apparato rifletteva anche le memorie di naumachie e tempi

257
Eusebio D., Introduzione, in Brignole Sale A.G., Maria Maddalena peccatrice e convertita (1636), a
cura di D. Eusebio, Ugo Guanda Editore, Parma, 1994.

258
Si vedano le iperboliche immagini delle scene terza, quarta e nona dell’atto terzo, v. 2437: «farsi fonte
una fronte»; v. 2755: «col pianto allagarò valli e foreste»; v. 3501: «La fontana del pianto».

259
Palmieri R., Giovan Battista Andreini, la Maddalena e il tempo Barocco, cit., p. 37.

260
Aretino P., I quattro libri de la humanita di Christo, Venezia, 1535, soprattutto pp. 55- 58. Citato da
Fiaschini F., Temi libertini ne La Maddalena mantovana di Giovan Battista Andreini, in Maestranze, artisti
e apparatori per la scena dei Gonzaga (1480-1630), Atti del convegno internazionale di studi (Mantova,
26-28 febbraio 2015), Edizioni di Pagina, Bari, 2016, p. 340.

81
gloriosi, seducendo il pubblico di allora non meno di quanto facesse la stessa eroina al
centro dell’azione teatrale.

A seguire apparirà il regale “giardino delle delizie”, anch’esso derivante dal medesimo
repertorio agiografico (che tanta parte aveva avuto già nelle edizioni precedenti):

Subbito alzata l’antitela, si dovrà sentir da tutte le parti del Teatro uccelletti garrire,
quaglie, cucchi; e queste voci imitate da quelli istrumenti di terra, che d’acqua s’empiono,
da quagliaruoli e cucchi di terra; e sempre dovran suonare, finché la nuvola dov’è il Favor
Divino sia discesa, accompagnando li suoni di questi uccelli, l’armonica delle sinfonie; e
così finito il prologo, alor la nube ascenderà pur delle sinfonie al suono, dovransi gli
uccelli sentire.261

Ecco una descrizione che sembra adattarsi perfettamente anche alla rappresentazione
salisburghese della Maddalena, tenutasi nel 1628 (sulla base di un riadattamento ad hoc
dell’edizione mantovana del 1617): al suggestivo sfondo del giardino del castello di
Helbrunn si univa la magia di congegni capaci di riprodurre il canto di tre differenti
varietà d’uccelli. 262

In sostanza, la formula sperimentata dalla pantagruelica creatività dell’autore è: «un


pizzico di religiosità in meno, un tocco ingegneristico-musicale in più»263, cui si aggiunge
la contaminazione tra sacro e profano portata ai suoi massimi livelli. Era questa la matrice
formale e contenutistica che perennemente contraddistinguerà i suoi lavori sino
all’estremo saluto, all’ultimo applauso, l’innovazione che nessun altro avrebbe mai
nemmeno immaginato possibile.

261
Andreini G. B., La Maddalena lasciva e penitente, a cura di R. Palmieri, cit., p. 160.

262
Cfr. Grazioli C, Le incoronazioni praghesi del 1627 e la tournée imperiale dei fedeli, (1627-1629), in
Artioli U., Grazioli C. (a cura di), I Gonzaga e l’Impero. Itinerari dello spettacolo Itinerari dello spettacolo,
Le Lettere, Firenze, 2005, pp. 451-491.
263
Bragato A., op. cit., p. 231.

82
2.4 Le Maddalene di Guido Cagnacci: tra i sensi e lo spirito

La Maddalena lasciva e penitente di Andreini, già dal titolo, offre un interessante


contrappunto musicale e teatrale alle Maddalene dipinte da Guido Cagnacci, protagonista
di una delle vicende più straordinarie di tutto il Seicento.

Il primo evento espositivo dedicato alla sua riscoperta - la mostra riminese del 1993 curata
da Daniele Benati e Marco Bona Castellotti – si sofferma sulla provenienza del pittore da
Santarcangelo di Romagna, evidenziando l’importanza della “provincia” quale luogo
privilegiato per elaborare soluzioni di inusitato sperimentalismo: 264

Un’operazione di mediazione come quella attuata da Cagnacci tra gli opposti del
naturalismo caravaggesco e dell’idealismo reniano […] non poteva di fatto avvenire che
da parte di un “provinciale” di genio, che si muove al di fuori delle regole autoprotettive
imposte dalla logica delle botteghe cittadine. 265

Al netto di queste osservazioni, resta soprattutto l’erotismo senza precedenti a rendere


così unica e coraggiosa la sua pittura, attraversandone tutte le stagioni, senza soluzione di
continuità. Ma, come avverte Antonio Paolucci,

Non è vero, come a volte si è scritto, che in certi suoi quadri destinati al collezionismo
privato, rasenta la pornografia. Non ci sono allusioni o obliqui sottintesi o sollecitazioni
morbose nelle Cleopatre morenti o nelle Lucrezie trafitte [o nelle Maddalene]. Egli è
erotico nel senso letterale del termine. Avverte ed esprime […] la pulsione dell’eros che
batte, incessante e profondo.266

Il caso del romagnolo sembra dei più adatti a dimostrare il rapporto tra arte e vita: la
devota e costante celebrazione delle grazie femminili lascia chiaramente trasparire
l’amore che l’artista nutriva per le donne. Un amore capace di alimentare il mito che lo
voleva circondato da modelle che immancabilmente diventavano sue amanti, stando al
carteggio settecentesco tra il pittore riminese Giovan Battista Costa e i gentiluomini

264
Cfr. Benati D., Guido Cagnacci: il corpo e l’anima, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra
Caravaggio e Reni, a cura di D. Benati e A. Paolucci, Catalogo della mostra (Forlì, Musei di San Domenico,
2008), Silvana editoriale, Cinisello Balsamo 2008, p. 30.

265
Ibidem.

266
Antonio Paolucci, Modernità di Guido Cagnacci, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra
Caravaggio e Reni, cit. p. 23.

83
Nicolò Gaburri e Giampiero Zanotti. 267 Quest’ultimo, ad esempio, afferma di aver
conosciuto a Bologna

alcuni vecchi che avevano avuto amicizia col Cagnacci, e dicevano che seco si conduceva
sempre una giovinetta vestita da uomo, e che sembiante facea di essere suo servidore, e
diceano che da questa ricopiava quante femmine facea. 268

Fingendosi un servitore, la ragazza, dunque, celava il suo reale status di modella/


concubina (che a quei tempi era considerato quanto di più disdicevole), pur di potersi
accompagnare al pittore per tutto il tempo del secondo soggiorno bolognese 269, all’inizio
degli anni Quaranta, prima che l’esistenza errabonda di quest’ultimo lo portasse a Forlì.
Il trasferimento improvviso fu dovuto, probabilmente, a quelle maldicenze che lo
avrebbero condotto a cambiare più volte residenza, spingendolo a riparare a Venezia 270,
dove sarebbe rimasto dal 1650 al 1658, per poi tornare per un breve periodo in Romagna
prima della definitiva partenza per Vienna, dove la sua presenza è attestata dal 1660 al
1663, l’anno della morte.

Il “peccato originario” che determinò il suo continuo peregrinare risiede nello sfortunato
legame con una nobildonna riminese, la contessa Teodora Stivivi, con cui Guido, nel
1628, aveva scambiato una formale promessa di matrimonio. I due innamorati stavano

267
Cfr. Costa G. B., Lettere varie e documenti autentici intorno le opere e vero nome e cognome e patria
di Guido Cagnacci pittore in «Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici», XVLVII, Venezia, 1752, pp.
117-161.

268
Zanotti, rispondendo ad una precisa richiesta del Costa, afferma che dell'artista a Bologna esistono poche
opere e che alcune sono state nascoste o vendute dai loro proprietari «per certo scrupolo», cioè perché i
loro soggetti troppo audaci scandalizzavano. Dopodiché non può trattenersi dall'aggiungere il suddetto
pettegolezzo, per meglio porre l’accento sulla trasgressività dell’artista. Cfr. Costa G. B., Lettere varie e
documenti autentici intorno le opere e vero nome e cognome e patria di Guido Cagnacci pittore, cit., p.
136.

269
Il primo periodo bolognese del pittore si colloca ancora nel periodo della sua formazione, dal 1618 al
1621.

270
Durante il soggiorno nella città lagunare, per sfuggire al peso dei pettegolezzi, Cagnacci cominciò
persino a usare la nuova identità di Guido Canlassi da Bologna, stando a questa testimonianza indiretta
fornita dal Costa: «Il sig. Antonio Baldini uomo […] cittadino tra i primi in S. Arcangelo ora vivente, dice
di aver inteso dal sig. Giovanni Pedroni suo zio materno raccontarsi che, essendo esso insieme col dottor
Niccolò Bartoli andato in Vinegia intorno all’anno 1650, era in quel tempo colà il pittore Guido, e avendo
essi voluto andare a salutarlo come paesano, stentarono molto a trovare la casa dove abitava, e dopo averla
trovata, chiesto del sig. Guido Cagnacci da S. Arcangelo, alcuni giovani di lui scuolari risposero che ivi
abitava il sig. Canlassi pittore bolognese […], onde credettero essi di aver preso sbaglio, mentre stavano
per partirsi sopraggiunse Guido, che era fuori, e riconobbero per vero Cagnacci». Costa G. B., Lettere varie
e documenti autentici intorno le opere e vero nome e cognome e patria di Guido Cagnacci pittore, cit., p.
146. Cfr. P. G. Pasini (a cura di), Guido Cagnacci pittore (1601-1663), Catalogo generale, Luise, Rimini,
1986, p. 17.

84
per fuggire insieme nell’intento di convolare a nozze, malgrado il pittore non potesse
certo vantare un lignaggio paragonabile a quello della fidanzata. A mandare in frantumi i
loro piani intervenne lo stesso padre dell’artista, Matteo Cagnacci, il quale, essendo
fortemente ostile a quell'unione, denunciò al vescovo le intenzioni della coppia. La
nobildonna fu arrestata mentre si apprestava a partire e, per il disonore causato alla
famiglia, venne rinchiusa in un convento (dal quale uscì solo due anni dopo), mentre
Guido fu bandito da Rimini. Egli tentò per anni di far valere le proprie ragioni in sede
processuale, senza riuscirvi, e, per di più, nel 1643, si vide addirittura diseredato dal
padre.271

Lo scandalo del “negotio” di Guido e Teodora272 fu tale che la fama della sua tentata
impresa amorosa lo seguì ovunque andasse, alienandogli le simpatie dei committenti più
benpensanti, agli occhi dei quali Guido appariva come un incallito corruttore di giovani.
Questa cattiva nomea non lo abbandonò nemmeno dopo la morte, colpendolo con una
damnatio memoriae che l’avrebbe espunto per più di due secoli dalla storia dell’arte, fino
alla completa riabilitazione arrivata alla metà del Novecento.273

Altre donne avrebbero comunque seguito l’artista in diversi momenti della sua vita: un
documento del 1636 attesta che una certa Giovanna, figlia di un muratore di Serravalle,
donò tutti i suoi beni al pittore, forse per legittimare una relazione irregolare. E ancora
una sua amante, Maddalena Fontafredda da Cesena, visse con lui a Venezia e lo
accompagnò a Vienna. 274

Se l’evidente confidenza con il genere femminile contribuì ad alimentare l’appassionato


interesse verso i nudi muliebri, i frequenti spostamenti furono invece la base per declinare
questo interesse secondo nuove forme.

271
Dal testamento risulta che Matteo Cagnacci fece donazione dei propri averi alle figlie Virginia e Lucia,
salvo la parte legittima spettante al figlio Guido, decurtata delle spese sostenute per mantenerlo nei suoi
studi di pittore. Cfr. Benati D. (a cura di), Regesto biografico, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento
tra Caravaggio e Reni, cit., p. 342.

272
Per l’intera vicenda cfr. Masetti Zannini G. L., in Guido Cagnacci pittore (1601-1663), Catalogo
generale, a cura di P. G. Pasini, cit., Appendice. Cfr. Giannini F., Guido Cagnacci. I sensi e lo spirito, in
«Finestre sull’Arte», n. 7, 2020, pp. 56-59.

273
L’incipit della riscoperta di Cagnacci è da far risalire alla piccola ma intensa Mostra della pittura del
‘600 a Rimini, voluta nel 1952 da Francesco Arcangeli.
274
Cfr. Benati D. (a cura di), Regesto biografico, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra
Caravaggio e Reni, cit., pp. 341; 343.

85
Desideroso di aggiornare la sua maniera – dopo essersi formato tra la Romagna inferiore
e le Marche275 - Guido si trasferì a Roma, la meta più ambita da ogni artista del suo tempo.
Per avere una qualche idea degli estremi cronologici di questo soggiorno romano si sono
rivelate fondamentali due fonti dirette: da un lato uno “stato delle anime” romano,
risalente al 1622, dal quale si viene a sapere che il pittore era ospite della casa del
Guercino in Strada Paolina (l’attuale via del Babuino); dall’altro il testamento di Matteo
Cagnacci, da cui vengono defalcate le spese sostenute per gli studi artistici del figlio, tra
le quali anche quelle per i viaggi a Roma.276 Solo il secondo viaggio è datato, al 1621,
quindi possiamo facilmente intuire che Guido si fermò a Roma per almeno due anni. Ma
non abbiamo, purtroppo, notizie su cosa fece dal 1622 al 1627, ovvero dall’ultimo
soggiorno romano documentato fino all’anno in cui troviamo l’artista vicino Rimini,
com’è attestato dalle carte d’archivio relative ai pagamenti per la decorazione della
cappella del Sacramento di Saludecio. 277

A proposito del movente che lo spinse a partire, è molto probabile che egli volesse seguire
il Guercino a Roma per trarre profitto dal clima favorevole che si sarebbe creato intorno
a quest’ultimo. Secondo il Malvasia, infatti, il pittore centese si trasferì nell’Urbe nel
maggio 1621, confidando nell’affidamento di importanti commissioni da parte del suo

275
Benati D., Guido Cagnacci: il corpo e l’anima, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra
Caravaggio e Reni, cit., p. 30: «Il forlivese Scanelli, che ne scriveva quando il pittore era ancora vivo, lo
diceva infatti allievo di Ludovico Carracci [l’ultimo dei Carracci ancora vivo nel 1618, alla data del primo
trasferimento di Cagnacci a Bologna]. Malvasia, che, ormai parecchi anni dopo la sua morte, giudicava
sulla base dei dipinti delle quadrerie bolognesi, di Guido Reni. In entrambi i casi si dovette trattare di
incontri avvenuti allorché la sua carriera di pittore era già cominciata, e in nessuno dei due dovette trattarsi
di un vero e proprio discipulato. Aveva ragione Costa, che lo voleva autodidatta? Si e no, visto che qualcuno
che gli insegnasse ad usare i pennelli e a macinare i colori sulla tavolozza dev’esserci pur stato; ma più di
quello sconosciuto, il cui nome ora non ci direbbe probabilmente nulla, dovette poi contare il rapsodico
vagabondaggio culturale tra esperienze diverse e complementari che Cagnacci poté compiere in proprio, al
di fuori di ogni nozione istituzionalizzata di scuola, frequentando le chiese tra la Romagna inferiore e le
Marche». Il ruolo delle Marche assume una particolare rilevanza se consideriamo che in questa regione, dal
1613 al 1620, era attivo Orazio Gentileschi. Quindi è altamente probabile che Cagnacci avesse conosciuto
le novità introdotte da Caravaggio attraverso la mediazione del pisano (il quale proponeva uno stile
“intermedio” tra il naturalismo caravaggista e il manierismo toscano ispirato a Michelangelo) ancor prima
di recarsi a Roma. Cfr. Giannini F., Guido Cagnacci. I sensi e lo spirito, cit., p. 17.

276
Cfr. Benati D. (a cura di), Regesto biografico, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra
Caravaggio e Reni, cit., p. 342.
277
Cfr. Benati D. (a cura di), Regesto biografico, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra
Caravaggio e Reni, cit., pp. 339-340.

86
protettore, Alessandro Ludovisi (già arcivescovo di Bologna), eletto al soglio pontificio,
nel febbraio di quello stesso anno, col nome di Gregorio XV. 278

Più ancora che per il Guercino la conoscenza della Roma caravaggesca si rivelò
fondamentale per il pittore di Santarcangelo, che poteva in questo modo ricollegare tra
loro, nel grande nome del Caravaggio, i molteplici fili ai quali aveva già attinto la sua
prima giovinezza, allorché studiava i dipinti marchigiani di Gentileschi e Guerrieri. Il
reperimento della documentazione citata279, che, contro ogni previsione anticipa di un
decennio la data ipotizzata da Arcangeli per il soggiorno del pittore a Roma, non ha
tuttavia mutato il senso delle considerazioni da lui svolte circa il carattere personale del
suo “caravaggismo”. «Certo, la grandezza del Caravaggio», scriveva Arcangeli, «il
crescere di quella sua gigantesca parabola dalla più lucida obiettività al dramma naturale
più disperato, eran cose lontane; e il Cagnacci ebbe bisogno, come tutti i seguaci del
Merisi, di “temperamenti del modo caravaggesco”». 280

In altre parole, più che a Caravaggio stesso, la pittura di Cagnacci si rifà a quella di
caravaggeschi del calibro di Orazio Gentileschi, Orazio Borgianni, Simon Vouet. Tali
“mediazioni” sono particolarmente evidenti nella Maddalena penitente [fig.14],
convenzionalmente datata tra il 1622 e il 1627 e conservata presso le Gallerie Nazionali
d’Arte Antica, nella sede di Palazzo Barberini.

Si tratta di un quadro dalla storia piuttosto controversa, dal momento che fu a lungo
attribuito a Francesco Trevisani, un pittore settecentesco ben più freddo e manierato di
Cagnacci, la cui reale paternità venne riconosciuta solo a partire dal 1988, grazie al parere
di Gianni Papi:

278
Malvasia C.C., Felsina Pittrice. Vite de’pittori bolognese, Bologna, 1678 (ed. Bologna 1841),
digitalizzato da Google,
https://books.google.it/books?id=d545AAAAcAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summar
y_r&cad=0#v=onepage&q&f=false, ultimo accesso 20/05/2021, p. 260.

279
Gli “stati delle anime” del 1622 sono stati divulgati da Bousquet J. Documents sur le séjour de Simon
Vouet à Rome, in «Melanges d’archeologie et histoire publiées par l’École française de Rome», LXIV,
1952, pp. 287-300; mentre il documento notarile del testamento del padre di Cagnacci è stato reso noto da
Zuffa M., Novità per Guido Cagnacci, in «Arte antica e moderna», 24, 1963, pp. 357-381. Entrambe le
fonti si trovano citate da Benati D. (a cura di), Regesto biografico, in Guido Cagnacci, protagonista del
Seicento tra Caravaggio e Reni, cit., pp. 339; 342.

280
Benati D., Guido Cagnacci: il corpo e l’anima, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra
Caravaggio e Reni, cit., p. 34. Cfr. Arcangeli F., La pittura del ‘600 a Rimini, in Mostra della pittura del
‘600 a Rimini, a cura di F. Arcangeli, C. Gnudi, C. Ravioli, Catalogo della mostra, Rimini 1952 (ed. a cura
di P. G. Pasini, Bologna, 1982), p. 10.

87
Se l’ubicazione a Palazzo Barberini, con provenienza dalla collezione Torlonia, è tentante
per avanzare una realizzazione per un committente romano, nel biennio 1621-1622 (ma
non è detto che la residenza romana non possa essere durata più a lungo, visto che la
notizia successiva riguardante il pittore romagnolo data al settembre il 1627, quando lo
ritroviamo a Saludecio, in provincia di Rimini), il forte naturalismo di questa Maddalena
deporrebbe altresì per un coinvolgimento col clima romano della prima metà del terzo
decennio. Il rapporto diretto col Merisi vi è espresso come in nessun’altra opera […]; ma
le convergenze col naturalismo caravaggesco si possono cogliere anche nell’evidente
illuminazione artificiale della scena, con la fonte di luce ortodossamente piazzata a
sinistra, che forma un’ombra decisa della mano e del teschio sulla pelle della penitente.
Mentre il cielo, di un blu intenso, quasi viola, che si ritaglia un suo spazio nello studio
buio del pittore, è un chiaro, precocissimo omaggio al colore dei cieli del Guercino e
testimonia, come nessuno degli altri quadri giovanili di Guido [...], la realtà e il significato
di un sodalizio che era finora documentato solo da un censimento pasquale. La
combinazione di elementi caravaggeschi e guercineschi, trasfigurati dal linguaggio
personalissimo del Cagnacci, che perviene a un risultato di esplosiva sensualità, colloca
il pittore in una posizione di punta sulla scena dei primi anni del terzo decennio, quando
si assiste ad altre, ugualmente efficaci rivitalizzazioni del verbo caravaggesco. Alludo
naturalmente a Giovanni Serodine e a Simon Vouet, entrambi capaci […] di attualizzare
il naturalismo severo e introverso dei primi caravaggeschi. Attualizzarlo con una nuova
energia turbinosa e pre-barocca, che anima le figure dall’interno, o con una sensualità
esibita, che non ha più timore di espandersi anche nelle scene destinate alla devozione
(come nel caso delle tele del Vouet nella cappella Alaleona in San Lorenzo in Lucina).
Un’insistita e sontuosa sensualità sarà anche fra i contenuti del secondo soggiorno romano
di Artemisia negli anni Venti, con dipinti come [...] la Cleopatra di collezione Morandotti
a Milano, che ha più di un punto di contatto con la tela Barberini del Cagnacci. 281

Le argomentazioni di Papi sono di grande aiuto per contestualizzare la modernità


dell’opera, e appaiono più che convincenti quando ne collocano la genesi nel clima di
fervore artistico che si respirava a Roma nei primi anni Venti del Seicento. Eppure,
rispetto ai modelli, appare comunque sorprendente lo sfrontato naturalismo con cui
Cagnacci ci restituisce uno dei nudi più belli della storia dell’arte. La concreta fisicità
risulta accentuata dalla torsione innaturale del collo, così come dai rossori del volto e, pur
essendo parzialmente nascosta da un ruvido panneggio, la donna offre allo spettatore un

281
Papi, G., La Maddalena penitente di Guido Cagnacci a Palazzo Barberini, in «Paragone», XLVI, 39-
40, 1993, pp. 96-97.

88
seno pieno e vero - che fa quasi da perno all’intera composizione - in una provocante
visione dal basso.

Altri artisti temporalmente vicini al nostro artista, come Caravaggio e i Gentileschi


avevano preferito raffigurare Maddalene sobriamente o riccamente vestite, e nel caso di
Orazio Gentileschi i lunghi capelli della Maddalena di Fabriano (datata al 1615)
contribuiscono a nasconderne ulteriormente le forme, quasi come fossero le fronde di un
salice piangente. Una soluzione di antica memoria, se si pensa alla trecentesca Maddalena
di Pietro Cavallini, in un affresco della chiesa di S. Domenico Maggiore a Napoli, o alla
quattrocentesca Maddalena orante di Donatello, ospitata dall’Opera del Duomo di
Firenze. A differenza di questi precedenti, neppure un capello va ad intaccare la
perfezione statuaria della Maddalena di Cagnacci. Le morbide onde dai riflessi dorati,
che le ricadono all’indietro, qui le fanno da ornamento, stando a sottolineare l’identità
con la peccatrice evangelica, la “peccatrice anonima” di cui parla il Vangelo di Luca,
colei che in casa del fariseo aveva lavato i piedi di Cristo con le sue lacrime, per poi
asciugarli con quella stessa chioma che fino a quel momento era stata solo strumento di
lussuria e seduzione.

Quasi un secolo prima, tra il 1531 e il 1535, anche Tiziano realizzò una Maddalena [fig.
15] che colpisce per la sua prorompente carnalità. La fortunata invenzione - più volte
riprodotta dal cadorino e dalla sua bottega - è oggi nota soprattutto grazie all’esemplare
conservato a Palazzo Pitti, che molto probabilmente coincide con quello ammirato dal
Vasari nel guardaroba del duca Guidobaldo II della Rovere, ad Urbino. La santa ci viene
mostrata come un’eremita che volge al cielo gli occhi pieni di lacrime, mentre si offre a
Dio e allo spettatore in un gesto che imita quello della Venus pudica. Come nel prototipo
classico, il tentativo di coprirsi la rende ancor più vulnerabile e ne amplifica la carica
erotica, ulteriormente esaltata dalla soffice cascata di capelli biondo-rame, che si apre sul
petto per mettere il seno in pieno risalto. Giovan Battista Marino rimase talmente estasiato
dalla grazia di questa figura da “esporla” nella sua Galeria (1619), dedicandole un lungo
componimento poetico, in cui, al pari del pittore, indugia sulle «cadenti chiome» che
fanno da «aureo monile» alla pelle color alabastro e che, nel loro «diluvio d’oro»
consentono persino un accostamento con la bella Danae. 282 Giovanni Battista
Cavalcaselle nel 1881, insistendo sul carattere “pagano” dell’icona, la definisce «dea

282
Marino G.B., La Galeria (1619), a cura di M. Pieri, Liviana, Padova 1979, pp. 71-74.

89
dell’amore», ma sarebbe più corretto dire che Tiziano mette in luce tanto la sensualità
della Venere terrena quanto la santità della Venere celeste, sottolineando così la duplicità
del personaggio.283 Del resto, l’immagine si inserisce perfettamente nel quadro della
pittura rinascimentale, avente sullo sfondo gli scritti neoplatonici di Marsilio Ficino 284 e
quelli di Baldassarre Castiglione, che nel Cortegiano si riferisce alla Maddalena come
all’esempio di un amore così potente da legare la terra al cielo.285 Inoltre, va considerato
che nelle prime decadi del Cinquecento, prevale la raffigurazione della bella peccatrice
associata a Venere, la cui nudità non è solo allusione allo stimolo dei sensi, ma anche alla
verità dell’anima nuda di fronte a Dio.286

Erano altri tempi rispetto a quelli che visse Cagnacci e ne abbiamo riscontro anche con
un’altra Maddalena del cadorino, attualmente conservata presso il Museo di
Capodimonte e dipinta intorno agli anni ‘50 del XVI secolo, ossia nel pieno svolgimento
del Concilio di Trento. La donna in questo caso viene prudentemente avvolta da un’umile
veste (che in ogni caso le scivola voluttuosamente da una spalla) e, se prima era
accompagnata solo dal caratteristico vaso di unguento, adesso Tiziano si preoccupa di
inserire nella composizione anche il teschio e la Bibbia, i consueti veicoli della
meditazione sulla caducità della vita terrena.

Con la Controriforma, infatti, dopo alcuni esemplari ancora legati alla bellezza
conturbante e peccaminosa (come la Maddalena dipinta tra il 1560 e il 1570 da Jacopino
dal Conte per San Giovanni in Laterano) si tenterà di bandire il nudo, illustrando

283
Cfr. Mosco M., in La Maddalena tra sacro e profano. Da Giotto a De Chirico, Catalogo della mostra
(Firenze, Palazzo Pitti, 1986), a cura di M. Mosco, La casa di Usher, Firenze, 1986, scheda 68, p. 192.

284
La figura di Venere, nella filosofia neoplatonica si collega tanto all’amor profano, quanto all’amor sacro,
inteso come slancio vitale, come desiderio di bellezza che muove l'uomo a intraprendere un cammino di
perfezionamento, di ascesa spirituale, intellettuale e morale, che lo solleva dalle cose terrene per diventare
humanus Deus, secondo la definizione di Giovanni Pico della Mirandola. Cfr., Agnoletto S., Ruffiani e
seduttori, ovvero l'inganno d'amore. Una proposta di interpretazione della base del fondale della Calunnia
di Apelle di Botticelli, in «Engramma», gennaio 2016,
http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=2711, ultimo accesso 20/05/2021.

285
Cfr. Castiglione B., Il libro del Cortegiano, Manuzio, Venezia, 1528, (ed. Le Monnier, Firenze, 1834),
digitalizzato da Google,
https://books.google.it/books?id=Tj72L6Q6PwoC&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary
_r&cad=0#v=onepage&q&f=false, ultimo accesso 20/05/2021. Cfr. Mosco M., in La Maddalena tra sacro
e profano. Da Giotto a De Chirico, cit., scheda 68, p. 194.

286
Cfr. Mosco M, Penitenza e meditazione, in La Maddalena tra sacro e profano. Da Giotto a De Chirico,
cit., p. 189. Tale interpretazione trova conferma nell’iconografia della Nuda Veritas codificata dalla figura
Veneris della Calunnia di Botticelli del 1495, ora agli Uffizi

90
soprattutto i temi del peccato, della conversione e della penitenza. 287 Temi su cui
l’Iconologia di Ripa torna più volte, fornendo un vero e proprio repertorio di immagini
per artisti italiani e stranieri, soprattutto con l’edizione illustrata del 1611.

[…] dopo aver distinto la penitenza in «contrizione» (aspetto doloroso e malinconico),


confessione (faccia rivolta al cielo), soddisfazione (sopportazione della pena), il Ripa
illustra l’aspetto della penitenza: «donna macilenta vestita di cilicio che tiene nella mano
destra una sferza e nella sinistra una croce alla quale guarda fissamente per la conformità
che la penitente acquista con lo stesso Cristo e per il dispregio del mondo». Oltre a ciò il
Ripa ricorda che la stessa «testa di morto» indica la tendenza filosofica dell’uomo
prudente che pensa alla mortalità».288

Mostrando una grandissima libertà di sentimento ed espressione, l’artista romagnolo va


ad ibridare i precedenti modelli iconografici ante e post Controriforma, giungendo ad un
risultato di incredibile audacia e intensa drammaticità.

La sua Maddalena è ancor più discinta di quella creata da Tiziano negli anni Trenta del
Cinquecento ed è innegabile la sua «esplosiva sensualità», come afferma Papi, ma il dato
erotico - il solo che puntualmente viene esaltato dalla critica sopra ogni altra cosa - va
messo in rapporto all’affermazione di una spiritualità che tenta di tradurre nel sensibile le
astratte verità della fede. In tal senso, l’opera di Cagnacci, così come quella di altri artisti
secenteschi, si pone come un ossimoro che cerca di rendere visibile ciò che per
definizione non può essere visto 289: in questo caso la bellezza di un’anima purificata, che
si rivela nella bellezza del corpo, nudo come la verità. L’avvenenza della figura del
Cagnacci, inoltre, contribuisce a drammatizzare maggiormente l’ideale di vita ascetico. Il
valore della rinuncia, infatti, è tanto più grande quanto più si sottolinea l’eco della
precedente vita mondana a contrasto con la durissima esistenza di espiazione ed
eremitaggio. L’ex cortigiana, un tempo «avvezza agli agi / di uno stato regal, tra ancelle,
et manti, / et ori, et gioie, et splendidi palagi, / otii, feste, armonie, conviti, amanti», 290

287
Cfr. Mosco M, Penitenza e meditazione, in La Maddalena tra sacro e profano. Da Giotto a De Chirico,
cit., p. 189.

288
Ibidem.

289
Antonio Paolucci, Modernità di Guido Cagnacci, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra
Caravaggio e Reni, cit. p. 20.
290
Chaves P., La conversione, confessione, et penitentia di Santa Maria Maddalena, Gio. Maria Scotto,
Venezia, 1561, pp.12-19. Citato da Stagno L., Vanitas e santità. Maddalena, beata peccatrix speculum
poenitantiae, in Vanitas. Lotto, Caravaggio, Guercino nelle collezioni Doria Pamphilj, a cura di A.
91
viene qui immortalata al termine della sua parabola esistenziale, mentre raggiunge l’acme
del suo soliloquio con Dio tra i ruderi di un ambiente indistinto, forse riconoscibile in un
castello diroccato che allude alla transitorietà delle glorie umane.

L’itinerario mistico compiuto dalla Maddalena si esplica poi negli attributi simbolici
caratteristici di questa figura: il vasetto di unguento e il crocifisso, abbandonati a terra in
un angolo a sinistra del quadro, il teschio, adagiato enfaticamente sul suo grembo, e la
sferza di ferro che regge ancora nella mano destra.

Il primo elemento, che la accompagna fin dalle sue più antiche rappresentazioni, contiene
in sé sofisticati rimandi teologici:

se i re Magi portano la mirra come omaggio al nuovo Re dell’umanità, la Maddalena


[negli episodi evangelici ascrivibili a Luca e a Giovanni] 291, la Maddalena si serve del
nardo per consacrare il nuovo re di Gerusalemme, prefigurando la morte dell’uomo e la
rinascita del Cristo, dell’Unto.292

Il crocifisso e il teschio, incarnano rispettivamente l’assimilazione alla passione di Cristo


e il memento mori ed entrambi alludono alla contemplazione e alla riflessione, nei tipici
termini della vanitas.

La sferza, infine, qui come non mai, non è solo veicolo di espiazione, ma anche di
un’ascesi che passa per lo sfinimento per poi culminare in quello stato di «quiete» di cui
parlavano Santa Teresa d’Avila e San Giovanni della Croce, la grande coppia mistica del
Cinquecento spagnolo.293 Il flagello, quindi, si fa rappresentazione visiva di una vicenda
dell’anima così estrema da coinvolgere in rapporto inscindibile il corpo e lo spirito,
trasfigurando la passione amorosa per Cristo nel languore di un «totale naufragio dei
sensi». 294 In altre parole, in questo simbolo trova la sua ragion d’essere l’energia di quel

Mercantini, Catalogo della mostra (Roma, Palazzo Doria Pamphilj, 20 maggio 2011- 8 gennaio 2012),
Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo), 2011.

291
Lc 7, 36-50; Gv 12, 1-8.

292
Mosco M, La Mirrofora, in La Maddalena tra sacro e profano. Da Giotto a De Chirico, cit. p. 67.

293
Cfr. Mosco M, Penitenza e meditazione, in La Maddalena tra sacro e profano. Da Giotto a De Chirico,
cit., p. 191. Cfr. Michelini Tocci F., Giovanni della Croce e la notte oscura dell’anima,
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/giovannitocci.htm, ultimo accesso
21/05/2021.
294
Cfr. Antonio Paolucci, Modernità di Guido Cagnacci, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra
Caravaggio e Reni, cit. p. 20.

92
corpo pulsante e madido di sudore, spossato ed estatico al tempo stesso, che si abbandona
all’indietro, lasciando cadere il capo sulla spalla.

Nella posa il pittore si richiama direttamente ad una Maddalena caravaggesca, ad oggi


nota attraverso diverse copie, tra cui quella del fiammingo Louis Finson presso il Musée
des Beaux- Arts di Marsiglia [fig. 16]. Quest’immagine viene tradizionalmente associata
a quella dipinta per i Colonna nel 1606, ma secondo le ultime considerazioni di Papi
andrebbe invece messa in relazione con una versione appartenente all’estrema maturità
del percorso del Merisi:

La Maddalena ha l’aspetto di un quadro tardo, drammaticissimo, disperato, eseguito con


febbrile sobrietà di mezzi, con un rosso violento e sanguigno che domina la partitura
cromatica. Lo stesso rosso che si accende nella Salomè del Palazzo Reale di Madrid […]
o nel Martirio di Sant’Orsola di Banca Intesa […]. L’immagine con la santa reclinata
all’indietro, col collo nudo tutto esposto e il volto scorciato in un’espressione sofferente
e arresa, è uno sviluppo compositivo –verso un assoluto oltranzismo – della posa di
Lazzaro nella Resurrezione del Museo di Messina, mentre il gesto delle dita incrociate,
come già notava la Gregori, lo si ritrova in uno degli astanti del Seppellimento di santa
Lucia di Siracusa.295

Caravaggio, nel dare forma alla prima di una lunga serie di sante estatiche, si inserisce a
sua volta in quel filone teologico postridentino secondo cui «colei che non era stata che
amore doveva essere rappresentata nei trasporti della contemplazione divina». 296

Come scrive Emile Mâle, l’epoca della Controriforma vede sostituirsi all’esaltazione del
miracolo quella dell’estasi come testimonianza della santità ed apice dell’esperienza
religiosa. 297 A tal proposito, una figura di riferimento fondamentale per la dimensione
spirituale e artistica del XVII secolo, è quella della già nominata Santa Teresa d’Avila
(beatificata nel 1614 e canonizzata nel 1622):

295
Papi G., Riflessioni sulla Maddalena napoletana di Caravaggio, in Caravaggio a Parigi. Novità e
riflessioni sugli anni romani, catalogo della mostra (Parigi, Istituto italiano di Cultura, 2019), a cura di F.
Cappelletti, Paparo, Roma-Napoli, 2021.
Scrivendo queste righe Papi si discosta dall’opinione critica più inflazionata, secondo cui la Maddalena in
questione andrebbe associata a quella che Caravaggio dipinse per i Colonna nel 1606.

296
Delenda O., in La Maddalena tra sacro e profano. Da Giotto a De Chirico, cit., scheda 59, p. 164.

297
Cfr. Mâle E., L’arte religiosa del ‘600: Italia, Francia, Spagna, Fiandra, cit. Cfr. Mosco M, Penitenza e
meditazione, in La Maddalena tra sacro e profano. Da Giotto a De Chirico, cit.

93
Vorrei saper spiegare con l’aiuto di Dio che differenza c’è tra unione e rapimento o
elevazione o volo di spirito o trasporto che sono un tutt’uno. Voglio dire che questi diversi
nomi indicano tutti la medesima cosa che si chiama anche estasi. Il Signore prende su
l’anima così come le nubi prendono su i vapori della terra, la distacca tutta quanta dalle
cose del mondo e salendo in cielo se la porta dietro facendole vedere le cose del suo regno
che ha preparato per lei. Durante tali rapimenti si direbbe si direbbe che l’anima non
dimori più nel corpo, tanto che si avverte benissimo che questo perde il suo calore naturale
e si raffredda progressivamente seppure con grandissima gioia e dolcezza.298

Così la santa carmelitana, nella Vita scritta nel 1575, descrive lo stato dell’estasi
soffermandosi più avanti sull’immagine «dell’angelo dal volto infuocato», che le conficca
«una lunga freccia d’oro nel cuore, fin dentro le viscere». E’ da simili visioni che il
Bernini, tra il 1645 e il 1652, trarrà ispirazione per il famoso gruppo scultoreo in Santa
Maria della Vittoria, preceduto dallo stesso Cagnacci, quando, tra il 1629–1631 circa,
realizzerà la pala de La Madonna col Bambino e i santi Carmelitani per la chiesa di S.
Giovanni Battista a Rimini (dov’è tutt’ora collocata), dando una prova altissima della sua
maturità artistica proprio nell’immagine della transverberazione di Santa Teresa.
Gabriello Milantoni osserva come l’ordine carmelitano, con i nuovi modelli di santità
proposti alla devozione popolare, possa aver esercitato un ruolo importante per
determinare con maggiore lucidità quelle inclinazioni che diventeranno caratteristiche
della poetica cagnaccesca: il prodigioso viaggio nell’universo del corpo, nella centralità
che esso ricopre nell’ascesi mistica. 299 Daniele Benati rinforza questo concetto,
sostenendo che nel caso di Cagnacci «“corpo” e “anima” sono vissuti come facce di una
stessa medaglia, […] tali da integrarsi e sollecitarsi a vicenda».300

I prodromi di tale poetica sono già perfettamente rintracciabili nella Maddalena penitente
ascrivibile alle influenze del periodo romano: «dominio del Vero visibile sofisticato fino
al virtuosismo e capacità perfettamente empatica di dare immagine alle emozioni e alle
passioni». 301 Nasce di qui il “teatro interiore” di un pittore che è il primo ad emozionarsi

298
Teresa d’Avila, Vita (1575), trad. it. a cura di I. Alighiero Chiusano, San Paolo Edizioni, Roma, 2015,
cap. XX.

299
Cfr. Milantoni G., Guido Cagnacci, in La scuola di Guido Reni, a cura di M. Pirondini, E. Negro, Artioli,
Modena, 1992, p. 90.

300
Benati D. Il corpo e l’anima, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni, cit.
p. 28.
301
Antonio Paolucci, Modernità di Guido Cagnacci, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra
Caravaggio e Reni, cit. p. 20.
94
di fronte alle sue rappresentazioni; un teatro che non ha bisogno di troppi orpelli, a
differenza di quello di Andreini.

Come il drammaturgo, anche il pittore diede prova per tutta la vita di saper camminare
sul filo del rasoio, tra ciò che era tollerato e ciò che invece era condannato, ma la sua era
comunque una religiosità autentica, che promana dalle sue opere con un grado di verità e
intensità che non appartiene ad Andreini. Quest’ultimo, infatti, era mosso soprattutto
dall’obiettivo di promuovere una proposta alternativa al rigido dualismo di modelli
culturali apparentemente inconciliabili: «la commedia e la “spiritual tragedia” dell’attore
diabolico e dell’attore santo».302 Ricorrendo al mito della redenzione della Maddalena,
Andreini, dunque, si preoccupava essenzialmente di redimere lo stesso mondo teatrale da
cui proveniva, conquistando la palma di una nuova ricchezza concettuale, linguistica e
scenica. Abbiamo visto, inoltre, come la passione dell’autore per l’abile innesto di
elementi discordi non riguardi solo il piano formale, ma anche quello morale: nella sua
Maddalena Eros ed Ethos esistono come entità non separabili, ma non necessariamente
poste l’una dall’altra. Al contrario, nella Maddalena penitente del pittore di Santarcangelo
queste stesse entità trovano una perfetta fusione: la bella cortigiana è tanto più peccatrice,
quanto più santa.

Lo stesso concetto innerverà anche, la Conversione della Maddalena, [fig. 17] ora nel
Norton Simon Museum di Pasadena, capolavoro supremo e forse estremo della
produzione di Cagnacci, eseguito tra il 1661 e il 1662, quando egli era a Vienna in qualità
di pittore di corte dall’imperatore Leopoldo I. Il dipinto, come già notato da Gabriello
Milantoni, 303 si pone volutamente in dialogo con il testo teatrale della Maddalena lasciva
e penitente, all’epoca molto in voga.

Lasciamo che sia lo stesso artista ad introdurci a quest’opera, attraverso una lettera
indirizzata a un certo Francesco Gionima di Venezia (nota solo attraverso una trascrizione
che ne fece Francesco Algarotti nel 1761:

302
Fiaschini F., Temi libertini ne La Maddalena mantovana di Giovan Battista Andreini, cit., p. 345.

303
Cfr. Milantoni G., Guido Cagnacci, in La scuola di Guido Reni, cit., p. 166.

95
Io non posso più venire fatte pascha, perché S.M. Imperiale ha voluto che io li promette
di far un quadro di S. Maria Maddalena pentita, con quattro figure intere con li piedi, dove
che io non sapendo far li piedi, sarà meglio, che il Cavalier Libero li venga a farli lui. 304

La lettera ci informa innanzitutto del fatto che il pittore manteneva ancora stretti contatti
con Venezia e che forse non aveva intenzione di rimanere a lungo nella corte austriaca,
pur vedendosi costretto a rinviare il suo rientro (inizialmente fissato dopo la Pasqua del
1660 o, più probabilmente del 1661). Per cogliere meglio il senso delle altre affermazioni
sopra riportate, dobbiamo aprire una breve parentesi sul «Cavalier Libero»: questi era
Pietro Liberi, un pittore di origine padovana di cui si ricorda soprattutto la forte rivalità
sviluppata nei confronti del nostro artista, ai tempi del soggiorno veneziano. Facendo sue
le critiche espresse dal Boschini, nella Carta del navegar pittoresco (pubblicata a Venezia
nel 1660), egli sosteneva che il romagnolo, specializzato in mezze figure, non sapesse
«far li piedi». Ecco perché Cagnacci, con una punta di orgoglio e di ironia, sottolinea che
sta lavorando ad una prestigiosa commissione richiestagli espressamente da «S. M.
Imperiale», ove le figure «con li piedi» sono ben quattro. In effetti i veri protagonisti della
tela di Pasadena corrispondono proprio a questo numero: la Maddalena, sua sorella Marta,
l’arcangelo Michele e il diavolo, che viene cacciato dall’alcova; mentre sono solo
accessorie le figure non «intere» delle ancelle, in origine tre a suggellare il rapporto con
il dramma di Andreini. 305

Il quadro risponde molto meglio di qualsiasi parola alle critiche dei rivali, dimostrandoci
come queste fossero prive di qualsivoglia fondamento. Esso, infatti, acquista il significato
di una summa delle soluzioni sperimentate dal pittore, piegate alle esigenze di un soggetto
“di storia”, in cui l’azione teatrale si fa riconoscibile per i gesti dei numerosi personaggi
che vi prendono parte.

304
Le lettere spedite da Cagnacci a Francesco Gionima, tra il 1660 e il 1661, vennero donate da Giampiero
Zanotti a Giovan Battista Costa con il consiglio di non pubblicarle, perché considerate troppo malevole, e
trascritte poi da da Francesco Algarotti. Cfr. Algarotti F., Lettera al Sig. Giovanni Mariette, Bologna, 10
giugno 1761, in Bottari G., Tizozzi S., Raccolta di lettere artistiche, VII, Milano, 1822. Citato da Benati
D. (a cura di), Regesto biografico, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni,
cit., p. 344.
305
Benati D. Il corpo e l’anima, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni, cit.
p. 49.

96
L’episodio della conversione della Maddalena per opera della sorella Marta, desunto dai
vangeli apocrifi, assume una valenza spiccatamente allegorica, in ordine a una sensibilità
che è propria del pittore:

il particolare della cacciata del diavolo da parte dell’arcangelo Michele, che pure compare
in altri passi dell’azione teatrale di Andreini […], risulta di fatto una sua invenzione e non
ha precedenti in altre trattazioni seicentesche del tema. 306

Roberto Longhi sosteneva che «i buoni caravaggeschi traducevano ogni mito e ogni
allegoria con un metodo letterale, ma appunto perciò terribilmente concreto»307. E’
dunque la componente naturalistica della sua formazione ad impedirgli di incorrere nella
fatuità elegante che connota certe raffigurazioni di Pietro Liberi, e a conferire al dipinto
quel tono di sospensione e di magica attesa che costituisce indubbiamente il motivo più
segreto del suo fascino.

Marco Bona Castellotti giunge persino a dire che qui Cagnacci

giunge ai confini di una sensibilità più oggettiva e nel contempo pensosa, al limite di una
malinconia silente, che si avvicina nei colori trasparenti a qualcosa di prossimo a
Vermeer. Cagnacci: una specie di Vermeer adriatico, pervaso da una passionalità ora
contenuta entro la sfera della mestizia, e sempre più cosciente della vanità delle cose
terrene. 308

Ancora una volta, al di là dell’affollamento, del dinamismo della scena, degli


accorgimenti allegorici e teatrali, l’accento viene posto su qualcosa che accade
nell’intimo del personaggio. In quest’ottica lo stesso ricorso al nudo, in genere assente da
questo specifico episodio della vita di Maddalena, appare funzionale ad evidenziare la
dialettica tra l’anima e il corpo cui sopra si alludeva:

un corpo levigato e purissimo, quello della Maddalena, non offeso dal peccato nel
momento in cui la donna si converte e fa proprie le ragioni di Marta, colei che, secondo
l’esegesi biblica, incarna le prerogative della vita contemplativa e spirituale. 309

306
Ibidem.

307
Longhi R., Ter Brugghen e la parte nostra in «Vita artistica», II, 6, 1927, p. 167.

308
Bona Castellotti M., Da Venezia a Vienna, in Guido Cagnacci, Catalogo della mostra a cura di D. Benati,
M. Bona Castellotti, (Comune di Rimini, 1993), Milano, Electa, 1993, p. 39.
309
Cfr. Benati D. Il corpo e l’anima, in Guido Cagnacci, protagonista del Seicento tra Caravaggio e Reni,
cit. p. 49.
97
Nell’organizzazione del grande dipinto, la luce, intercettata dall’alta finestra che si apre
sulla sinistra, gioca un ruolo fondamentale: una luce tersa e cristallina, che spicca sul
pavimento ombre nitidissime e asseconda la lettura in chiave morale dell’episodio. Grazie
ad essa, infatti, si attua la diversa messa a fuoco dei piani visivi su cui si articola il
racconto: le ancelle in lacrime e il demonio appartengono al passato, da cui la Maddalena
viene liberata, e dunque sfumano nella penombra; mentre il fuoco visivo è tutto
sull’intenso colloquio di gesti e di sguardi che intercorre tra le due protagoniste, di cui
Cagnacci contrappone simbolicamente «il volto in ombra e il volto in luce». 310In primo
piano le vesti sontuosamente ricamate, le pantofole di foggia orientale, i bracciali e le
collane che la donna si è appena strappata dal collo, facendone sfilare le perle, acquistano
il valore di rinuncia alle vanità.

Difficile non pensare, per questo meraviglioso brano, al precedente della Maddalena
Doria di Caravaggio (1594-1595), con i monili sparsi a terra.

Il confronto dimostra peraltro bene come, passando dalla dimensione realistica a quella
di un teatro allegorico impeccabilmente recitato, che gli derivava piuttosto da Guido Reni,
il tema del superamento delle passioni, così centrale nel Seicento, non perda di intimità e
concentrazione, lasciando a entrambi i poli che ne costituirono l’inesauribile dialettica, il
corpo e l’anima appunto, la propria importanza. Una sorta di spiritualità del corpo,
verrebbe da dire, o di fisicità dell’anima, attraverso la quale Cagnacci traccia una strada
che, pur con tutti i condizionamenti del suo secolo, che non fu dei più facili, punta verso
la nostra ambigua e provvisoria “modernità”. 311

310
Cfr. Ivi, p. 50.

311
Ibidem.

98
2.5 La prostituzione a Roma tra XVI e XVII secolo e la diffusione
dell’iconografia della Maddalena

Tra i motivi per cui la Controriforma promosse così tanto l’immagine della Maddalena,
stereotipata in una prostituta redenta, non è certo da trascurare il dilagare della
prostituzione tra il Cinque-Seicento, quando il “mestiere più antico del mondo” era
diventato endemico, soprattutto nella Roma papalina, «città cinica e gaudente»312, e nella
“libera” Venezia. Volendo rimanere in ambito romano, basti pensare che il censimento
del 1526, ripreso da Umberto Gnoli, registra che vi fossero 4900 prostitute su 55035
abitanti, ossia quasi il 10% della popolazione;313 Jean Delumeau, sulla base dei dati forniti
dai censimenti degli anni 1599-1605, attesta che dovevano esserci 17 cortigiane ogni
1000 abitanti di sesso femminile. 314 Per spiegarsi queste cifre bisogna tenere presente che:

[…] in parte proprio per il sistema politico-burocratico della corte pontificia, molti uomini
che risiedevano nella città erano celibi: «non soltanto ecclesiastici, ma anche membri
della nobiltà che avevano acquisito uffici connessi alla Curia, artisti e intellettuali,
cortigiani e parassiti. Se poi aggiungiamo a questi il gran numero di uomini soli “di
passaggio” a Roma, come banchieri, pellegrini e ambasciatori si può avere un’idea
precisa della composita popolazione romana. Popolazione che, quindi, presentava una
peculiarità: una netta preponderanza dell’elemento maschile su quello femminile. Mentre
nelle altre città dell’Italia rinascimentale il numero delle donne spesso superava di gran
lunga quello degli uomini, a Roma la proporzione era inversa.315

Tale rapporto rimase invariato per tutto il XVI secolo e anche oltre, quando gli uomini
oscillavano ancora intorno al 60% della popolazione della città. 316 La domanda di
prostituzione, dunque, era decisamente sostenuta.

312
Spini G., Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura nelle religioni del Seicento italiano (1950), La
Nuova Italia Editrice, Firenze, 1983, pp. 11-12.

313
Cfr. Gnoli U., Cortigiane Romane, Edizioni della Rivista «Il Vasari», Arezzo, 1941.

314
Cfr. Delumeau J., Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVI siècle, De Boccard,
Paris 1957, cit. p. 110,
https://www.persee.fr/doc/abpo_0003-391x_1958_num_65_3_4473_t1_0396_0000_3, ultimo accesso
14/06/2021.

315
Mantioni S., Cortigiane e prostitute nella Roma del XVI secolo, Aracne, Ariccia, 2016, pp. 22-23,
https://www.academia.edu/32333161/Cortigiane_e_Prostitute_nella_Roma_del_XVI_secolo_Aracne_Ro
ma_2016, ultimo accesso 14/06/2021.

316
Cfr. Delumeau J., op.cit., cit., p. 111.
99
Proprio a Roma inizia un processo di «slittamento semantico» che ci interessa
sottolineare: dalla fine del XV secolo la prostituta (o almeno un particolare tipo di
prostituta) inizia ad essere identificata con il termine di “cortigiana”, parola che fino a
quel momento aveva indicato semplicemente le dame di compagnia delle corti
principesche. Tutti gli storici convengono nello spiegare questo slittamento semantico
con la riforma della Curia (ai tempi dei papi umanisti, come Niccolò V e Pio II) che
condusse all’interno della Corte romana un numero sempre maggiore di intellettuali, i
quali nelle ore di libertà si riunivano per affrontare problemi di ordine culturale. A poco
a poco l’istanza dei curiali, quella cioè di far partecipare alle loro riunioni donne colte che
potessero essere le loro potenziali interlocutrici, venne esaudita. Così all’interno della
Curia entrarono donne che mostrarono di possedere tutti i requisiti richiesti: bellezza,
eleganza, intelligenza, spirito. Il fenomeno era tipicamente rinascimentale ed esprimeva
anche la nuova sensibilità culturale dei curiali, i quali volevano richiamarsi alla classicità
e avevano ben presente il mondo delle etere greche dell’età di Pericle. Così a queste
giovani venne dato il nome di curiales, termine che in italiano traduciamo con
“cortigiana”, appunto. Nulla di anomalo in questo se curia designava la corte e curialis il
cortigiano. Tuttavia, ben presto le riunioni conviviali dei cortigiani, in un clima di
promiscuità e gaiezza, si trasformarono in veri e propri baccanali in cui le cortigiane,
donne sole oppure di famiglia modesta, iniziarono a instaurare rapporti di dipendenza
economica verso i loro “colleghi” uomini, con tutte le conseguenze del caso. “Cortegiana,
hoc est meretrix honesta”: così Burckard, maestro di cerimonie di Alessandro VI (papa
Borgia), traccia una linea di demarcazione fra cortigiane e prostitute; ma di fatto, l’unica
differenza esistente fra queste due categorie è quella che egli chiama “onestà”.
L’accostamento delle parole “meretrix” e “honesta” può sembrare un ossimoro, ma non
lo è: l’aggettivo, in questo caso, non si riferisce infatti alla “castità”, quanto alle buone
maniere, all’eleganza, a tutti quei prerequisiti, cioè, di cui si accennava in precedenza. 317

Il fenomeno della prostituzione nella Roma del Rinascimento ha destato interesse in molti
studiosi «fino a che si è potuto alimentare un mito, quello della donna indipendente, sia
da un punto di vista economico che intellettuale», un mito legato esclusivamente a questa
tipologia di “cortigiana onesta”. 318 Ma accanto ad essa, nel corso del XVI e del XVII

317
Mantioni S., op. cit., pp. 23-24.

318
Cfr. Rodocanachi E.P., Cortigiane e buffoni di Roma: studio dei costumi romani del XVI secolo,
Pervinca, Milano, 1927. Lo studioso, spiegando i motivi per cui la sua ricerca verta sulla prostituzione nella
sola prima metà del Cinquecento, scrive: «E’ perciò che è parso ozioso condurre oltre questo studio. La
cortigiana di Venezia, o di Firenze, o di Parigi è incontestabilmente più interessante di quella di Roma»
(p.115).

100
secolo, si affermò un’altra figura di cortigiana ben più diffusa, quella “da candela”, così
chiamata perché per farsi riconoscere accendeva un lume alla finestra. A questo
appellativo corrispondevano moltissime donne del popolo che si prostituivano per far
fronte alle loro ristrettezze economiche, divenendo, per usare un termine di Delumeau,
delle «cortigiane provvisorie»319, lontane dai lauti guadagni delle colleghe più
“altolocate” e dalla loro larvale forma di emancipazione (comunque sottoposta agli incerti
del “mestiere”).

Con l’elezione al soglio pontificio di Paolo IV Carafa, avvenuta nel 1555 [appena un anno
prima dalla scomparsa di Tullia d’Aragona, una delle ultime grandi cortigiane della corte
pontificia], tutti i segni di quella peculiare civiltà del Rinascimento paganeggiante, che
aveva eretto la bellezza (anche quella femminile) a vero e proprio culto, scomparvero
dalla città eterna. Ad ereditare quel ruolo sociale abietto ma necessario nell’immaginario
collettivo […], rimasero solo le prostitute di più basso rango, quelle cioè che la
storiografia ha sinora deliberatamente ignorato perché troppo volgari e ignoranti rispetto
alle grandi etere rinascimentali. 320

Senza troppe distinzioni di sorta, entrambe le categorie furono particolarmente avversate


sotto il pontificato di Pio V Ghislieri, il primo papa ad essere eletto dopo la chiusura del
Concilio di Trento. In un suo avviso del 3 agosto 1566 leggiamo parole di puro livore nei
confronti dell’incontrollato fenomeno del meretricio:

[…] l’infamia che dalle meretrici siano habitate le più belle strade di Roma santa, ove è
sparso il sangue dei martiri, ove sono tante reliquie, tante devotioni, ove è la Santa Sede
Apostolica et tanta religione: città, che per specchio del mondo tutta doverà esser monda
da vicii et peccati a confusione d’infedeli et heretici […]. 321

Nell’estate dello stesso anno Pio V ordinò che le cortigiane più in vista della città
abbandonassero lo Stato Ecclesiastico e che tutte le altre rimanenti nell’Urbe fossero
radunate in Trastevere. Ma Roma entrò in subbuglio a causa di questo provvedimento,
così l’unico risultato che il papa riuscì ad ottenere alla fine della vicenda fu quello di
imporre alle cortigiane di abitare in Campo Marzio, assegnandogli il quartiere
dell’Ortaccio, che non molto tempo prima era stato un vasto giardino di proprietà Chigi,

319
Delumeau J., op.cit., cit., p. 111.

320
Mantioni S., op. cit., p. 90.

321
Cit. in Von Pastor L., Storia dei Papi, vol. VIII, Città del Vaticano, Desclée, 1951.

101
nei pressi di piazza del Popolo.322 Nonostante le ferme intenzioni di papa Ghislieri,
l’esperimento della ghettizzazione non andò a buon fine: «il muro attorno al serraglio
dell’Ortaccio non venne mai portato a compimento e le cortigiane avevano continuato in
discreto numero ad abitare fuori dal quartiere loro riservato: talune risiedevano addirittura
in Borgo».323 L’offensiva papale contro la prostituzione proseguì con Sisto V Peretti,
deciso ad epurare la zona dell’Ortaccio fin quando, «preoccupato che l’esodo in massa
delle prostitute avrebbe provocato gravi perturbazioni economiche in una città priva di
industrie e in cui i capitali delle cortigiane contribuivano massicciamente a muovere
l’economia, rinunciò al suo progetto».324 Nel 1586 si limitò a vietare alle prostitute
l’accesso ad alcune strade principali, di uscire in carrozza e di circolare in strada dopo
l’Avemaria. Sporadiche manifestazioni di rigore si riscontrano infine al volgere del
secolo, sotto il pontificato di Clemente VIII Aldobrandini, quando la prostituzione
trionfava nuovamente nella Roma alle soglie del Giubileo del 1600. 325

L’intervento del governo pontificio non si esauriva, però, nei soli provvedimenti
legislativi a scopo repressivo, ma si esprimeva anche attraverso una politica
assistenzialista volta a dare una risposta operativa al problema. Nel 1520 Leone X istituì
il Convento delle Convertite presso l’antica chiesa di Santa Lucia al Corso, che per
l’occasione, non a caso, prese il nome di S. Maria Maddalena delle Convertite. 326 A dire
il vero, simili istituzioni presero piede già in epoca medievale, su iniziativa dell’ordine
domenicano, particolarmente legato alla figura della peccatrice redenta fin di tempi di
Carlo II d’Angiò. Il termine “convertite” stava appunto ad identificare quelle meretrici
che avevano deciso abbandonare l’esistenza dissoluta fino ad allora condotta, per ritirarsi
in clausura, così come la Maddalena, secondo la leggenda, si era ritirata nell’eremo della
Sainte-Baume.
In epoca controriformata, nel 1537, per volontà di Ignazio da Loyola, al Convento delle
Convertite, si affiancò il Conservatorio di S. Caterina della Rosa (detta anche dei Funari),
preposto ad accogliere le figlie delle cortigiane e le fanciulle povere che rischiavano di

322
Mantioni S., op. cit., pp. 109-111.

323
Ivi, p. 113.

324
Ibidem.

325
Cfr. Ivi, p. 114.

326
Cfr. Ivi, p. 89.

102
doversi prostituire. Una volta entrate in quelle mura le “figlie del luogo” potevano uscirne
solo in tre circostanze: per maritarsi, monacarsi e nella festa di S. Caterina del 25
novembre. Le loro richieste di ammissione passavano ad un vaglio piuttosto severo:
dovevano essere di gradevole aspetto, residenti a Roma da almeno due anni e di età dai
nove ai dodici anni. 327 Anche il Convento fondato da Leone X poneva delle significative
restrizioni all’accoglienza delle ex cortigiane: esse, infatti, dovevano convertirsi e
rinunciare al mondo finché la loro giovinezza era ancora in fiore. Se invece avessero
atteso di appassire, allora le braccia della Chiesa si sarebbero serrate – proprio nel
momento di maggior bisogno - considerando il loro “pentimento” troppo tardivo. Va da
sé che la maggior parte delle prostitute, quindi, non fosse messa realmente in condizione
di essere “recuperata”. Dagli studi emerge in maniera concorde come gli sforzi dei papi
della Controriforma e degli ordini religiosi, di fatto, naufragarono nell’incapacità di
affrontare ed arginare concretamente l’esercizio della prostituzione:

L’unica maniera valida per lottare contro la mendicità e la prostituzione — scrive


Delumeau — sarebbe stata mettere la città al lavoro e crearvi una vera industria. Alcuni
papi si sono resi conto di questa verità e lo sforzo della Controriforma è stato diretto in
tal senso. Ma per mancanza di tempo o di continuità, il governo pontificio ha fallito
nell’impresa. Risultato: alla fine del secolo mendicità e prostituzione continuavano a
imperversare nella città dei papi più che in qualsiasi altra parte d’Italia. 328

Di conseguenza, se volessimo esprimerci metaforicamente, giovani e meno giovani


cortigiane “da candela” continuavano a rimpinguare le fila dell’esercito di quelle
Maddalene “lascive” che sopravanzavano in gran numero quelle “penitenti”.

327
Sistema informativo Archivio di Stato di Roma, Enti pubblici e privati, famiglie e persone, raccolte e
collezioni, Confraternita delle vergini miserabili di S. Caterina della Rosa,
http://ricerca.archiviodistatoroma.beniculturali.it/OpacASRoma/guida/IT-ASROMA-AS0001-0002298,
ultimo accesso 15/06/2021

328
Delumeau J., op.cit., cit., p. 112.

103
2.6. La Vanitas di Caroselli: “una camaleontica fisionomia”

Con ogni probabilità, è da indentificarsi come una prostituta anche la protagonista di un


noto dipinto di Angelo Caroselli, la Vanitas [fig. 18] di Palazzo Barberini, eseguita
intorno al 1620-1625. La figura a mezzo busto è colta nell’atto di voltarsi verso di noi e
tutto in lei vuole attrarre la nostra attenzione. Indossa un abito vivacemente tinto di rosso,
corredato dal vezzo di uno scialle con frange argentee che le raccoglie i capelli a mo’ di
turbante, per poi ricaderle sulle spalle. Accanto a questi dettagli, che esprimono una certa
cura, le maniche arrotolate sugli avambracci chiariscono l’estrazione popolare, che ben si
sposa al sorriso provocatorio, almeno secondo i codici della pittura del tempo.

Il piccolo e curioso olio su tavola, sicuramente destinato ad un acquirente privato, è


attestato per la prima volta in due inventari ottocenteschi dei beni di Giovanni Torlonia. 329
Il primo (del 1817-1821) ce lo presenta in questi termini: «Altra testa di donna che ride,
ed ha una cartella in mano in cui si legge “Vanitas vanitatum et omnia vanitas”, del
robusto pennello del Caravaggio». 330 Il secondo (del 1855) recita: «Una donna che affigge
un cartellone – Manfredi scuolaro di Caravaggio». 331 Sarà Roberto Longhi ad assegnare
l’opera a Caroselli e tale attribuzione verrà condivisa da tutta la critica successiva.
L’antico riferimento a Caravaggio e a Manfredi può parzialmente spiegarsi attraverso
l’iniziale propensione “caravaggesca” dell’eclettico percorso del nostro pittore romano.

Giovan Battista Passeri, nelle Vite de 'pittori, scultori ed architetti, che hanno lavorato in
Roma: morti dal 1641 fino al 1673 (opera edita postuma nel 1772), ci descrive un giovane
autodidatta, figlio di un rigattiere, che «pensò di applicare questo suo unico figliolo alla
pittura, e lo importunava ad esercitarsi in ciò senza alcuno indirizzo di Maestro, né di
disciplina». Da subito dotato di uno spirito ricettivo rispetto ai maggiori stimoli del suo
tempo, Caroselli elesse prontamente la natura come «l’unico esemplare da seguitarsi

329
Il pezzo, assieme ai dipinti della collezione Torlonia, viene donato allo Stato nel 1892. Cfr. Vodret R.,
Primi studi sulla collezione di dipinti Torlonia, in «Storia dell’Arte», 82, 1994, pp. 348-424; Rossetti M.,
Angelo Caroselli, 1585 – 1652, pittore romano. Copista, pasticheur, restauratore, conoscitore, Campisano
Editore, Saggi di Storia dell’Arte, Roma, 2015, pp. 244-247.

330
Guattani G. A., Descrizione ragionata degli oggetti d’arte esistenti nel palazzo di Sua Eccellenza il
Signor Don Giovanni Torlonia Duca di Bracciano, 1817-1821, Roma Biblioteca Nazionale centrale, Fondo
Vittorio Emanuele, sala III, n. 45. Cfr. Venturi A., La Galleria Nazionale in Roma, I, Quadri e statue, in
«Le gallerie nazionali italiane», II, 1896, p. 103.
331
Catalogo delle sculture e quadri esistenti nella galleria del Principe Alessandro Torlonia, Tipografia
forense, Roma, 1855, n. 256. Cfr. Vodret R., Primi studi sulla collezione di dipinti Torlonia, cit., p. 404.

104
studiosamente», per cui scelse Caravaggio come “padre ideale” e «si diede alla totale
imitazione di quello». Con una nota un po’ sprezzante il biografo aggiunge:

Come incominciò a dipingere da se medesimo alcune bagattelle, fece uso di una maniera
assai tagliente, e duretta, che nel progresso del tempo andò addolcendo, e la rese più
pastosa, a segno tale, che da Oratio Borgiani fu preso un suo quadro per lavoro del
Caravaggio, dal che Angelo pigliò grand'animo. 332

Malgrado quella «maniera un po’ duretta» (per certi versi ancora riscontrabile nella
Vanitas Barberini), dunque, anch’egli si inseriva in quella “scuola” «osservante del
vero»333, dettata dal concreto operare del Merisi e mediata, in seguito alla scomparsa di
quest’ultimo, dalla nascita della Manfrediana methodus, una sorta di «vulgata
caravaggesca», un sistema emulativo che seppe rispondere ad una precisa esigenza di
mercato.334 Al pari di Manfredi, anche Caroselli svuotò Caravaggio della sua lezione
morale e religiosa, apprezzandone la novità naturalistica e riprendendone il taglio
compositivo a mezze figure della prima produzione romana (si pensi al Ragazzo con
canestra di frutta della Borghese, alla Marta e Maddalena di Detroit, al Suonatore di
Liuto dell’Ermitage e al Concerto del Metropolitan Museum). 335

332
Passeri G.B., Vite de 'pittori, scultori ed architetti, che hanno lavorato a Roma: morti dal 1641 fino al
1673, Roma, 1772, p. 189; documento digitalizzato a cura del Getty Research Institute,
https://archive.org/details/vitedepittoriscu00pass/page/152/mode/2up, ultimo accesso: 22/12/2020

333
Mancini G., Considerazioni sulla pittura (1617-1621), a cura di A. Marucchi e L. Salerno, Accademia
Nazionale dei Lincei, Roma, 1956-1957, p. 108.

334
Cfr. Zuccari A., Il caravaggismo a Roma, certezze e ipotesi, in I caravaggeschi. Percorsi e protagonisti,
ideazione e direzione scientifica di C. Strinati, A. Zuccari, a cura di A. Zuccari, 2 voll., Skira, Milano, 2010,
p. 40. Cfr. Ivi, p. 41: «Bartolomeo Manfredi […] con la sua felice vulgata caravaggesca, espressa perlopiù
in quadri “da stanza” a mezze figure, seppe cogliere con intelligente profondità le opportunità che si erano
create nel mercato (la morte del Merisi aveva definitivamente frustrato le aspettative di coloro che ne
avrebbero desiderato un dipinto). […] Va notato, dunque, che il multiforme rinvio al maestro lombardo,
iniziato come stimolante palestra da quei pittori [tra tutti il Ribera] che ne avevano colto la spregiudicata e
avanguardistica portata, attorno al 1612-1613 cominciò a trasformarsi, per Manfredi, e per altri epigoni, in
una sorta di raffinatissima accademia […]. Se questa formula ebbe il merito di propagare il verbo
caravaggesco e indagarne le svariate potenzialità, tuttavia non mancò di tradurre in scene di genere i
cosiddetti temi “profani” e alcuni di quelli religiosi del maestro lombardo».

335
Cfr. Curti F., E tutto a cagione dell’affetto che portò sempre al maestro. La casa a Trastevere di Angelo
Caroselli, poi di Filippo Lauri, in Trastevere un’analisi di lungo periodo, a cura di L. Ermini Pani e C.
Travaglini, convegno di studi, (Roma, 13-14 marzo 2008), Collana Miscellanea della Società romana di
storia patria, Roma, 2010, p.344.

105
Affrontando la questione del discusso caravaggismo di Caroselli 336 risulta essenziale il
confronto tra la Vanitas Barberini e l’Amore Vincitore (Amor Vincit Omnia) di
Caravaggio [fig. 19] dello Staatliche Museum di Berlino, realizzato nel 1602 per il
marchese Vincenzo Giustiniani. 337 Dopo gli enigmatici sorrisi rinascimentali, e le
sfrontate risa della pittura di genere cinquecentesca, la raffigurazione di personaggi
ridenti era stata riproposta agli esordi del Seicento proprio a partire da questo Cupido
«che poco dista dalla vita». 338

Attentamente studiato per secoli da tutte le discipline, il riso conserva intatto il suo
mistero. Di volta in volta aggressivo, canzonatorio, sarcastico, sardonico, angelico,
ironico o umoristico, burlesco o grottesco, il riso è multiforme, ambivalente, ambiguo. 339

Nel riferire della collezione Giustiniani, Joachim von Sandrart si dimostra perfettamente
consapevole della carica eversiva che il riso assume in forza della sua ambiguità,
rivelandoci che, dietro suo stesso consiglio, l’Amor Vincit Omnia veniva conservato sotto
una cortina di seta verde scuro.340 Stando a quanto dichiarato ufficialmente, questa
soluzione espositiva doveva servire a mostrare il dipinto per ultimo, affinché non

336
A proposito di quanto possa risultare non privo di insidie etichettare Caroselli semplicemente come un
caravaggesco, molto significativo appare il punto di vista critico espresso da Giuliano Briganti: «[…] i suoi
due biografi, Baldinucci e Passeri, dicono che scelse per proprio genio di seguire la maniera del Caravaggio,
ma sebbene fin dai primi inizi occhieggiasse alcune soluzioni formali tipiche del naturalismo caravaggesco,
sebbene si avvicinasse talvolta a un realismo popolareggiante che ricercava temi e ispirazioni, per così dire,
alla porta di casa e ambientasse talvolta le scene sacre o bibliche, sempre per così dire, in cucina o in camera
da letto, non fu mai un vero caravaggesco. […] Pur tenendo conto che una indubbia e sia pur vaga
(certamente singolare) propensione caravaggesca è all’origine del suo stile, credo sia più esatto concludere
che Angelo Caroselli fu un isolato, un artista difficile da inserire nella pratica e nell’ideologia delle
principali correnti che si avvicendarono a Roma nei primi trent’anni del Seicento». Vedi Briganti G., Angelo
Caroselli, Madonna col Bambino e gli arcangeli Michele e Raffaele in Dal Trecento al Seicento, a cura di
G. Romano, Catalogo della mostra (Torino, Galleria Antichi Maestri Pittori di Giancarlo Gallino, Ezio
Benappi & C., 2 ottobre – 30 novembre 1991), Società Editrice Umberto Allemandi & C., Torino, 1991,
pp. 134-135.
337
Cfr. Rossetti M., Angelo Caroselli, 1585 – 1652, pittore romano. Copista, pasticheur, restauratore,
conoscitore, cit., p. 246.

338
Cfr. Vodret R., in Strinati C., Vodret R. (a cura di) Caravaggio e i suoi. Percorsi caravaggeschi in
Palazzo Barberini, Electa, Napoli, 1999, p. 78.
La definizione del Cupido è quella di Joachim von Sandrart - curatore della Galleria Giustiniani dal 1632
al 1635 - ed è riportata in Caravaggio, a cura di C. Strinati, Catalogo della mostra (Roma, Scuderie del
Quirinale, 2010), Skira, Milano, 2010, p. 141.

339
Minois G., Storia del riso e della derisione, Edizioni Dedalo, Bari, 2004 (Histoire du rire et de la
derision, Paris, 2000), p. 8.
340
Il riferimento a Sandrart è citato in Caravaggio, collana I classici dell’arte, «Corriere della Sera»,
Rizzoli-Skira, Milano, 2003, p. 124.

106
oscurasse il resto della pur splendida raccolta. Ma la reale preoccupazione del curatore
era soprattutto quella di svelarlo solo a pochi ospiti fidati, disposti a mettere da parte ogni
pudore per lasciarsi sedurre dal riso ammiccante del giovane, sospeso tra l’ingenuità di
un fanciullo e la malizia di un adulto.

Come osservato da Frascarelli, Caravaggio, memore della lezione leonardesca, è sempre


attentissimo al significato dei “moti dell’animo”, dunque sa bene quanto la sua epoca
consideri impudica una bocca dischiusa fino a quel punto e, non a caso, si sente libero di
raffigurarla solo in relazione alla dirompente carica dionisiaca del dio dell’Eros. Al
contrario, nel dipingere i suoi cantori (si osservino il Ragazzo con il cesto di frutta, il
Suonatore di liuto e il Concerto), vuole evitare di connotarli in maniera eccessivamente
lasciva, schiudendone le labbra in modo da lasciar intravedere solo la lingua, atta a coprire
la fila inferiore dei denti. 341 Tale particolare rappresentazione è stata accostata da Franca
Trinchieri Camiz alle regole “intorno al cantar” citate da Maffei, nel 1582: «La sesta
[regola], è, che si distenda la lingua in modo, che la punta arrivi e tochi le radici de’ denti
di sotto”».342

Se persino le regole del canto si preoccupavano di evitare che le bocche venissero aperte
più del necessario, questo ci dà una misura di quanto le norme del “buon costume”
disapprovassero la noncuranza del gesto di mettere i denti in bella vista. Un gesto che
appariva ancor più volgare se invece di farlo cantando lo si faceva ridendo. E se il ridere
in modo scomposto e sguaiato risultava inappropriato nel caso di un uomo, nel caso di
una donna era praticamente imperdonabile: solo le donne dissolute e prive di controllo
ridevano con la bocca aperta mostrando i denti. 343

Ecco perché la donna a mezzo busto del quadro di Caroselli ci provoca ancor più del
Cupido di Caravaggio, specialmente se consideriamo che a ridere spudoratamente è quasi

341
Cfr. Frascarelli D., «Admirabiles fructus». Nuove proposte per una lettura iconologica del Ragazzo con
il cesto di frutta e della Canestra, in «Storia dell’arte», Collana di studi 1, Da Caravaggio ai Caravaggeschi,
a cura di M. Calvesi e A. Zuccari, CAM Editrice, Roma, 2010, p. 153,
file:///C:/Users/andre/Downloads/Admirabiles_fructus_Nuove_proposte_per%20(1).pdf, ultimo accesso
14/06/2021.

342
Trinchieri Camiz F., La «Musica» nei quadri di Caravaggio, in Caravaggio nuove riflessioni, Quaderni
di Palazzo Venezia, Roma, 1989, p. 206.
343
Sanson H. L., Donne che non ridono: parola e riso nella precettistica femminile del XVI secolo in Italia,
in «Italian Studies», 60, 2005, p. 16.

107
sicuramente una prostituta che sta affiggendo (o forse staccando?) un manifesto con su
scritto il celebre motto che incornicia tutto l’Ecclesiaste (1,2; 12, 8).

Si tratta di un’iconografia assolutamente unica nel suo genere, di cui non conosciamo né
precedenti né successive riprese. Rossella Vodret, infatti, sottolinea il distacco di
quest’invenzione rispetto alla tradizionale iconografia della vanitas «codificata da Cesare
Ripa e ripetuta con poche varianti, nella pittura del XVII secolo», in cui «è costante la
presenza di una donna, per lo più seduta, spesso ornata di gioielli, che talvolta si pettina,
affiancata da un teschio e da uno specchio». Non potendo fare a meno di notare come il
dato più originale e significativo di questa tavoletta sia che la donna ride vistosamente, la
studiosa arriva a leggere tale espressione come un indice di stoltezza, relazionandola al
contenuto dell’iscrizione:

Un sorriso simile, con i denti bene in mostra, è presente anche nella Buona ventura di
Vouet e serve chiaramente a connotare la “stupidità” dell’artigiano. Non è da escludere
che, anche in questo caso, il sorriso così chiaramente esibito e sottolineato stia ad indicare
un significato simile, cioè la stoltezza di chi dà eccessiva importanza alle lusinghe della
vita terrena.344

Grazie ai molteplici stimoli ricevuti dal prezioso saggio di Frascarelli dedicato a L’arte
del dissenso345, anche chi scrive ha maturato un’interpretazione di questo sorriso ben
diversa da quella appena riportata, come verrà esplicitato alla fine di questa dissertazione
su Caroselli, al paragrafo 2.8: L’eterodossia del Qohelet e il riso della Vanitas.

Bisogna ammettere, però, che l’opera si presenta come un rebus di non facile risoluzione,
come si può intuire da un passaggio particolarmente significativo della biografia a cura
del Passeri, dal quale emerge che il pittore «Desiderava la conversazione, e molto più
dipingeva volentieri in circolo di amici, che solo; ne affaticava l'intelletto
nell'anticipazione di quello, che doveva mettere in opera». 346

Il gusto di «affaticare l’intelletto» dei suoi contemporanei - e di noi spettatori odierni –


trova un chiaro riscontro anche nella stessa produzione dell’artista. Ne deduciamo che
spesso si rivolgeva a soggetti poco frequentati o a soggetti noti, come la vanitas,

344
Vodret R., in Caravaggio e i suoi. Percorsi caravaggeschi in Palazzo Barberini, cit., p. 78

345
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., pp. 65-69.

346
Passeri G.B., op. cit., p. 192.

108
rielaborati in forma del tutto originale, anziché affidarsi alle codificazioni del Ripa e
dell’emblematica in generale.

L’originalità di Caroselli viene posta in particolare rilievo già da Luigi Salerno, che nel
1970, nel periodo in cui in Italia penetrava il metodo iconologico, pubblicava il saggio Il
dissenso nella pittura. Intorno a Filippo Napoletano, Caroselli, Salvator Rosa e altri.
Secondo questo studio,

Attraverso l’interesse per lo stoicismo e più in generale per la filosofia, a cui sono ancora
legate scienza e magia, nonché attraverso una visione totalmente nuova dell’antico, artisti
tra loro stilisticamente diversi – da Poussin al Mola, da Salvator Rosa a Caroselli, da
Pietro Testa a Giovan Battista Castiglione – avrebbero dato voce nell’arte a una «corrente
del dissenso» in opposizione al pensiero dominante, che trovava la sua rappresentazione
nella grande arte pubblica barocca.347

Come precisa Frascarelli,

Sono stati gli studi sul collezionismo, sollecitati dalla fondamentale ricerca di Haskell,
pubblicata in Italia nel 1966, Mecenati e pittori. Studio sui rapporti fra arte e società
italiana nell’età barocca, e distintivi della storiografia artistica degli ultimi decenni, a
fornire nuovi materiali che oggi possono consentirci di approfondire, in parte
correggendole, le tesi formulate da Luigi Salerno e di aprire nuove e promettenti
prospettive d’indagine. […] Il mercato dell’arte, divenuto molto complesso e articolato
nel XVII secolo a causa della straordinaria crescita della domanda e dell’offerta,
imponeva ai pittori, messi in difficoltà da una competizione sempre più forte, una
diversificazione della propria produzione culturale, necessaria per dimostrarsi in grado di
esaurire una richiesta quanto mai variegata. […] Allo stato attuale delle conoscenze,
pertanto i pittori cosiddetti del dissenso sembrano rispondere a specifiche esigenze del
mercato, ampliando i propri interessi culturali e mettendo a punto specifiche abilità
esecutive ed espressive in modo tale da poter illustrare determinati temi ricercati da
collezionisti. La partecipazione degli artisti alle accademie letterarie e scientifiche
seicentesche – ancora poco studiata – è documentata solo in rari casi, mentre ancor più
sporadica è la conoscenza di una vera e propria affiliazione di pittori a gruppi di
intellettuali in odore di libertinismo. Ma anche in presenza di queste affermazioni non
possiamo stabilire quanto tali frequentazioni implicassero un’adesione ideologica e non

347
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 21. Cfr. Salerno
L., Il dissenso nella pittura. Intorno a Filippo Napoletano, Caroselli, Salvator Rosa e altri, in «Storia
dell’arte», 5, 1970, pp. 34-64.

109
più semplicemente solo una forma di autopromozione, un modo per intercettare lavoro e
committenze. Pertanto, sembrerebbe più giusto al momento parlare di una «pittura del
dissenso», piuttosto che di «pittori del dissenso» e impostare la ricerca in modo più
complesso e articolato, partendo non dallo studio dei singoli artisti, ma da quello dei temi
iconografici […]. 348

Nell’impossibilità di determinare i precisi riferimenti culturali di Caroselli – data


l’insufficienza delle notizie biografiche in merito 349 e la totale mancanza di informazioni
sulla committenza della Vanitas Barberini – non resta che seguire le utili indicazioni
metodologiche della Frascarelli ed apprestarci, innanzitutto, a far luce sulla complessità
iconografica e iconologica cui era dedito il pittore.

Il tema della vanitas fu uno di quelli da cui l’artista rimase più affascinato, tornandovi
diverse volte. Un esempio particolarmente interessante, ai fini della nostra trattazione è
la Vanità (o Vanità Prudenza) [fig. 20] della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte di
Roberto Longhi, datata al 1615-1620. Come indica il titolo, generalmente accettato,
questa giovane donna bionda che si acconcia davanti a uno specchio (e che
fisionomicamente somiglia a quella della Vanitas Barberini) richiama un soggetto diffuso
in area veneta da Tiziano, Savoldo, Veronese e Tintoretto, eppure anche in questo caso
«l’iconografia ambigua continua a sorprendere». 350

Alla stregua delle rappresentazioni contemporanee della Maddalena, questo personaggio


femminile è raffigurato come una cortigiana, ma al modellato sensuale, alla spalla
denudata, alla scollatura e ai lacci della veste discretamente allentati all’attacco del seno
si aggiunge la presenza del giovane, che suggerisce il gioco amoroso. 351

348
Ivi, pp. 21-24.

349
Il Passeri a proposito della cultura di Caroselli scrive solo che: «Fra tante sue strane sventure fu
felicissimo nella memoria, e molto si compiacque delle poesie, e benché fosse senz'alcuno studio, ebbe però
per natural talento assai cognizione delle belle lettere». Vedi Passeri G.B., op. cit., p. 191.

350
I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria, a cura di F. Cappelletti e A. Lemoine,
catalogo della mostra (Roma, Villa Medici, ottobre-2014-gennaio 2015), Parigi (Petit Palais- Museé des
Beaux Arts de la Ville de Paris, febbraio-marzo 2015), Officina Libraria, Roma, 2015, scheda 49, p. 252.
351
Ibidem.

110
Le diverse superfici riflettenti visibili nel dipinto non corrispondono solamente a una
meditazione sulla precarietà della condizione umana, rinviando anche alle
rappresentazioni tradizionali della Virtù della Prudenza 352:

La simbologia dello specchio è ben nota: questo accessorio permette alla Prudenza
d’esaminare non solamente il presente, ma anche il passato e l’avvenire. Per estensione
lo specchio è dunque associato alla vanitas. […] Il raddoppiamento del viso del giovane
uomo nello specchio evoca la doppia faccia della Prudenza, ma può anche fare perfetta
allusione a Giano, il dio romano bifronte, che è legato al passaggio del tempo come dello
spazio (è il guardiano delle porte). 353

Ma non è tutto: Jozef Grabski dedica al dipinto un interessante articolo, definendo il


soggetto come una Vanitas «alchimistica» in cui ravvisa espliciti «elementi contrari,
fondamentali per la filosofia alchemica, così diffusa in quell’epoca» e così cara al
Caroselli:

Il giovane, elemento maschile, a sinistra, la ragazza, elemento femminile, a destra. A


sinistra il fuoco, elemento attivo associato al ragazzo, a destra l’acqua, elemento passivo,
associato alla donna. Questo concetto dell’opposizione è regola fondamentale nel
processo alchemico del “divenire”. […] Ma non solo l’acqua e il fuoco, la donna e il
giovane rimandano all’alchimia. Ci sono ancora altri elementi ricorrenti nell’iconografia
alchemica: gli strumenti, gli specchi e infine il vaso in fondo, che ha la forma di un “vas
hermeticum” [anche detto Athanor, vale a dire il forno alchemico nel quale si forma e
cresce l’androgino primordiale, fusione di tutte le polarità].354

Ne risulta che questo dipinto della collezione Longhi

rientra all’interno di una riflessione più ampia sulla trasformazione della materia: da una
parte la Vanità avverte i danni del tempo sul corpo, dall’altra i motivi alchemici rivelano

352
Jozef Grabski sostiene che la tavola sia debitrice nei confronti della Prudenza dipinta da Raffaello nella
Stanza della Segnatura, così come di una serie di opere venete del Cinquecento: la Giovane donna alla
toilette del Kunsthistorisches Museum di Vienna di Giovanni Bellini, la Fanciulla allo specchio del Musèe
du Louvre, la Venere allo specchio della National Gallery of Art di Washington, la Flora degli Uffizi di
Firenze di Tiziano, la Toilette di Venere del Cortauld Institute of Art di Londra di Paolo Veronese, la
Toilette di Venere del Paul Getty Museum di Malibu e la Susanna del Kunsthistorisches Museum di Vienna
di Tintoretto. Cfr. Grabski J., Il quadro alchimistico di Angelo Caroselli della Fondazione Roberto Longhi
a Firenze, in «Paragone», XXIX, 341, 1978, pp. 3-13.

353
I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria, cit., p. 252.

354
Grabski J., op. cit., pp. 3-13.

111
il tentativo utopico (nello spirito dell’epoca) di sospenderlo grazie alla produzione
dell’elisir di lunga vita.355

L’interesse per l’occultismo, inoltre, si rivela anche nel gesto della donna di intrecciare i
capelli, che il cardinale Gabriele Paleotti, nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e
profane (1582) associa alle «false osservazioni», dicendo che

[…] se bene in simili materie si potesse scusare il pittore, non avendo intenzione di
dipingere quelle cose se non come false, nientedimeno, significandosi la falsità tanto con
li fatti quanto con le voci, potrà essere talora ciò interpretato superstizione per quella parte
che significa cose false: onde è bene astenersene; e così, ancora nel rappresentare atti di
divinazione, come di negromanzia, augurii, sortilegi et altri simili, o, quanto
all’osservazione, nel figurare arti magiche, incantazioni, immagini con caratteri incogniti,
ligature di erbe, ossa de’morti, capegli intrecciati e simili osservazioni reprovate dai
canoni. 356

Ma Caroselli, anziché astenersene, come consiglia Paleotti, torna più volte su questo
genere di soggetti, tanto che (a partire dagli studi di Roberto Longhi) è stato individuato
un nutrito gruppo di opere di sua mano e della sua stretta cerchia 357, raffiguranti scene
negromantiche. Evidentemente Caroselli cercava di soddisfare i gusti e la curiosità di un
mercato dell’arte quanto mai eclettico, alternandosi tra vanitates, maghe e Madonne.
Come ricorda Frascarelli, infatti,

per quanto riguarda i collezionisti, non va trascurato che alcuni tra i più colti e aggiornati,
come Francesco Berberini, membro e protettore dell’Accademia dei Lincei, mecenate e
amico di personaggi eterodossi e libertini come Gabriel Naudé, Tommaso Campanella,

355
I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria, cit., p. 252.

356
Paleotti G., Discorso intorno alle immagini sacre e profane, Bologna, 1582, Cap. VIII,
http://www.memofonte.it/home/files/pdf/scritti_paleotti.pdf, ultimo accesso 20/06/2021

357
Alcuni di questi quadri negromantici, come quelli raffiguranti Circe, conservati nel Museo Statale d’Arte
Medievale e Moderna di Arezzo, sono ascrivibili al cosiddetto Pseudo Caroselli. Infatti, «sebbene siano
molto vicini allo stile e al mondo fantastico di Angelo Caroselli se ne dissociano per una qualità
indubbiamente inferiore, per una fattura meccanica, artigianesca, che insiste soprattutto sull’imitazione
materica delle stoffe operate, delle trine, dei ricami, degli sbalzi sulle medaglie, adoperando con una
precisione da orafo un corpo così spesso di colore da raggiungere decisamente il rilievo. Anche il Caroselli
usava, ma non così abbondantemente, il colore a rilievo, per esempio nelle piume di struzzo e nelle frange.
Ma in questo gruppo sembra che in quell’imitazione materica si concentri tutta l’industria dell’artista,
mentre le figure dimostrano una indubbia inettitudine». (Briganti G., op. cit., p. 137).

112
Peiresc, Gassendi, figura tra coloro che possedevano dipinti di soggetto magico-
stregonesco. 358

Anche gli stessi intellettuali che possiamo considerare vicini al libertinage e al mondo
culturale da cui scaturì la rivoluzione scientifica, dunque «non si astenevano dal
frequentare argomenti legati alla magia o alla stregoneria, anche se naturalmente usando
toni ironici e scettici». 359 I medesimi toni li riscontriamo pure in Caroselli, anche se velati
dal consueto nicodemismo che permetteva la circolazione di un certo tipo di
raffigurazioni.

Stando alla supposizione di Veronique Damian, la Vanitas della Fondazione Longhi e


un’Apprendista strega [fig. 21] di collezione privata, databile anch’essa al 1615-1620,
potrebbero

costituire dei pendants o essere stati creati [dal nostro pittore] per una serie: non
solamente sono dello stesso formato e hanno lo stesso supporto (il noce), ma in più il
dipinto di Parigi presenta un’apprendista strega spaventata dalla trasformazione appena
avvenuta.360

L’Apprendista, inoltre, rimanda molto da vicino a un’altra Negromante caroselliana, una


tavola dalla medesima datazione, custodita presso la Pinacoteca Civica di Ancona:

Entrambe propongono un’iconografia molto simile, caratterizzata dalla presenza della


figura femminile, intenta a praticare operazioni di magia nera, non identificabile in una
vera e propria e strega a causa dell’aspetto avvenente e dell’abbigliamento principesco
che la accostano a maghe e personaggi letterari, quali Circe o Armida. Le due giovani
sono atterrite dai mostruosi artigli che irrompono sulla scena a sinistra […] E’ stato
giustamente osservato che lo spavento è verosimilmente legato all’inettitudine della maga
[…].361

358
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 119.

359
Ibidem.

360
I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria, cit., p. 254. Cfr. Rossetti M., Angelo
Caroselli, 1585 – 1652, pittore romano. Copista, pasticheur, restauratore, conoscitore, cit., p. 180: «può
forse essere lavoro del Caroselli quello citato nell’inventario di Giovanni Luca de Franchis come “uno di
pittura in tela di copia d’un mezzo busto d’una donna con una testa di morto” (Inventarium, 08 marzo-23
aprile 1660) […]; e qualora l’inventario errasse nell’individuazione del supporto, allora l’ipotesi di Damian,
che definisce il dipinto già Canesso pendant della Vanitas Longhi, troverebbe corrispondenza nella realtà,
dato che dalla raccolta de Franchis proviene con tutta probabilità la stessa Vanitas Longhi».
361
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 120.

113
In entrambi i casi, infatti, questa è completamente sovrastata dalle forze demoniache da
lei stessa scatenate, finendo per suscitare ilarità.

Le due rappresentazioni del Caroselli potrebbero celare un orientamento ideologico


simile a quello sostenuto in area libertina da personaggi come Naudé, secondo il quale,
possessioni e sabba non sono mai realtà oggettive, ma prodotti soggettivi
dell’immaginazione; esistono solo negli stati di allucinazione di menti malate o in forma
di incubi. Per il libertino francese sono le paure provate dagli stessi demonologi a dar
corpo a presunte manifestazioni diaboliche che ignoranti e deboli finiscono per credere
reali. […] Tuttavia, ai due dipinti può essere accostato un brano letterario che getta una
luce completamente diversa. Si tratta della Demonologie in form of a dialogue divided
into three books, un testo […] che ebbe un enorme successo, scritto da Giacomo I Stuart
e pubblicato per la prima volta a Edimburgo nel 1597 e in una seconda edizione a Londra
nel 1603. […] Assumendo le parole di Giacomo I come chiave di lettura, le tavole del
Caroselli rappresenterebbero il momento in cui il demonio irrompe per esigere ciò che la
donna giovane e bella, a causa di un errore compiuto attraverso il rituale, gli deve
all’istante e non alla fine dei suoi giorni: la vita e l’anima. La bellezza e la gioventù, non
comuni per una strega, si spiegherebbero con la volontà di esprimere il terribile pericolo
di morire anzitempo, usato dal demonologo come un potente deterrente rivolto a chi
intende dedicarsi alle pratiche negromantiche. La caratteristica principale
dell’iconografia usata nei due dipinti sembra essere, dunque, quella di offrire una pluralità
di letture, grazie alla quale le scene negromantiche riuscirono, peraltro, ad affermarsi e a
diffondersi. 362

E’ anche in questa stessa «pluralità di letture» che risiede lo humor del pittore, che non
solo si prende gioco delle pratiche dilettantesche legate alla magia nera (ancora molto
diffuse a Roma nella prima metà del XVII secolo), ma si diverte pure a confondere le
acque sfruttando la stessa ambiguità insita nel potere delle immagini.

Riprendendo l’ipotesi della Damian, l’espressione terrorizzata dipinta sul viso della
giovane maga del dipinto parigino (derivata dal Fanciullo morso da un ramarro di
Caravaggio, nelle versioni della National Gallery di Londra e della Fondazione Longhi) 363
farebbe dunque da ironico contraltare alla Prudenza evocata in quello di Firenze. Che
siano stati o meno eseguiti come pendants o in una serie, il confronto tra i due dipinti

362
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., pp. 121-122.

363
Cappelletti F., Angelo Caroselli (Roma 1585-1652), in I caravaggeschi. Percorsi e protagonisti, cit. p.
345.

114
sembra infatti rivelare un funzionamento ben concertato: prudenza/imprudenza/,
alchimia/magia demoniaca, sotto la comune egida della vanità.

Salerno nota come la simpatia del Caroselli per il mondo magico-alchemico si estrinsechi
anche nelle sue abilità da «manipolatore di vernici e di patine» 364.

Anche Longhi, prima ancora di Salerno, mette in relazione le due cose. Confrontando lo
stile «alla prima» di Ter Brugghen e quello «flemmatico» del pittore romano, sostiene
che la personalità di Caroselli sia attraente soprattutto per il fatto che egli fu

uno dei primi “pasticceri di quadri” nella storia della pittura: uno dei primi a mostrare i
principi della forma mentale che ancor oggi si perpetua nei falsificatori e nei restauratori.
Egli dovette esser covato non già dalla pittura caravaggesca, ma dalla negromanzia di
quei tempi; e considerar la pittura non già come attività spirituale ma come industriosa
alchimia.365

La grande abilità di imitatore di maestri antichi e moderni, notata non certo con
benevolenza da Longhi, fu invece vantata da Baldinucci e da Passeri (com’è naturale che
fosse, in un’epoca in cui si ammirava sopra ogni cosa il virtuosismo).

Filippo Baldinucci, nelle sue Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua (1681),
a proposito della straordinaria versatilità e delle capacità imitative di Caroselli, dichiara:

quello che si rese più degno di ammirazione in lui, fu, che non si fermò solamente nella
propria maniera, e nell’imitazione di quella del Caravaggio, ma ebbe così obbediente il
pennello, che lo fece dipinger eziando ad intera imitazione de’maggiori pittori del mondo,
in tanto che l’opere fatte da lui furono molte, e molte volte cambiate per di lor propria
mano, per tali vendute da chi non ebbe cognizione di chi fatte l’aveva, e, quel ch’è più,
collocate per tali nelle nobili gallerie […]. 366

Il biografo, inoltre, chiarisce che non si trattava solamente di copie «cavate da pitture
d’eccellenti maestri», ma anche di quadri «che egli era solito di far di sua invenzione ad
imitazione di lor maniere».367Passeri ci fornisce ulteriori dettagli, specificando quali

364
Salerno L., Il dissenso nella pittura. Intorno a Filippo Napoletano, Caroselli, Salvator Rosa e altri, cit.,
p. 40.

365
Longhi R., Ter Brugghen e la parte nostra in «Vita artistica», II, 6, 1927, pp. 105.

366
Baldinucci F., Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua (1681), a cura di F. Ranalli, Batelli,
Firenze, 1846, vol. III, p. 743.

367
Baldinucci F., op. cit., p. 744.
115
furono i grandi nomi che l’artista seppe maggiormente emulare, premurandosi di
avvertirci che non era comunque intenzione dell’artista creare dei falsi:

Alcuna volta fece delle opere, che pose in dubbio l'artefice di quelle, anche al giudizio de'
più periti. Alcuni il calunniarono, che egli pretendesse d'ingannare colla falsità
dell'invenzione de' rari Maestri la pubblica fede, e che ardisse di voler vendere le cose di
sua mano per opere di Tiziano, del Correggio, di Raffaele, o di altro simile; ma questo
non cadde mai nella sua mente, essendo egli uomo lontanissimo da ogni interesse, ed
avidità del denaro, anzi nessuno fu più di lui trascurato, e non curante del comodo. 368

Giuliano Briganti, a proposito della controversa questione di un Caroselli falsario ci offre


un’interessante chiave di lettura:

[…] quasi nulla conosciamo delle falsificazioni fatte nel Seicento, o meglio ne
conosciamo l’esistenza attraverso le fonti letterarie […]. Ma in realtà quanti falsi del
Seicento conosciamo? […] E’ molto difficile, quindi, immaginare come fosse un falso
Tiziano o un falso Raffaello fatto da un artista del Seicento. Personalmente penso che
quei falsi fossero soprattutto delle buone copie, magari con qualche variante e
passabilmente antichizzate, ma da qui ad iscriverlo in un posto d’onore nella categoria
dei falsari, una categoria che anzi avrebbe addirittura inaugurato, mi sembra sia troppo
lungo il passo.369

A riprova delle argomentazioni di Passeri e Briganti potremmo citare l’emblematico caso


rappresentato dalla Visione di Sant’Elena della Pinacoteca Vaticana:

Il cardinale [Carlo Emanuele Pio di Savoia] chiamollo [Caroselli] […] a dar giudizio
d’una Sant’Elena, che gli era stata portata per di mano di Tiziano. Veddela il Caroselli, e
poi disse arditamente al cardinale che il quadro non era altrimenti di mano di Tiziano, ma
che egli medesimo l’aveva fatto; il cardinale a cui giunse del tutto inaspettata e nuova
quella risposta, restando forte maravigliato diede segno di non crederlo. Allora il pittore
additandogli l’orlo della camicia di quella figura, gli fece vedere segnata la sua solita
cifra, cioè una A e una C […].370

368
Passeri G.B., op. cit., p. 191.

369
Briganti G., Angelo Caroselli, Madonna col Bambino e gli arcangeli Michele e Raffaele, in Dal Trecento
al Seicento, a cura di G. Romano, Catalogo della mostra (Torino, Galleria Antichi Maestri Pittori di
Giancarlo Gallino, Ezio Benappi & C., 1991), Società Editrice Umberto Allemandi & C., Torino, 1991, pp.
136.
370
Baldinucci F., op. cit., pp. 744-745; Cfr. Rossetti M., Angelo Caroselli, 1585 – 1652, pittore romano.
Copista, pasticheur, restauratore, conoscitore, cit., p. 81.
116
In altre parole, «Caroselli non doveva temere punizioni nel rivendicare la paternità di
quadri che altri commerciavano come fossero di celebrati maestri». 371 Attraverso la sua
attività di copista - secondo una prassi nota fin dal Rinascimento e per certi aspetti
dall’antica Grecia - egli voleva misurarsi con la storia dell’arte, cercando di raggiungere
nuove vette mimetiche nella dura scalata delle logiche di mercato. Si trattava, dunque, di
«una clamorosa trovata critica e pubblicitaria»372 che gli permise di maturare una notevole
familiarità con i quadri del secolo precedente, «quadri dei quali doveva cogliere
soprattutto l’aura dell’antico, un’indeterminata maestà stilistica, un affascinante senso di
arcaismo». 373 Non ha tutti i torti Anna Ottani, dunque, nel dire che il pittore giocasse
«d’imbroglio con lo specchietto retrovisore puntato al passato». 374

Quel che più conta, ai fini del nostro discorso, è che tanto la sua attitudine stilistica a
«cambiar di pelo», quanto le articolate possibilità interpretative di alcuni suoi lavori
concorrono a determinare una personalità dalla «camaleontica fisionomia». 375 Sarebbe
quindi limitativo circoscriverla alle sole qualità di pasticheur - come si fa di consueto -
visto che le trappole più insidiose dell’«enigma Caroselli» (per usare una felice
espressione di Gianni Papi) 376, come abbiamo già potuto constatare, sono quelle
disseminate sul piano iconografico e iconologico, prima ancora che su quello delle mere
diatribe stilistiche.

In questo senso la Vanitas Barberini, a mio avviso, costituisce un esempio su tutti. A


prima vista sembrerebbe non porre troppi problemi nel suo piccolo formato e nella sua
apparente essenzialità. Ma i prossimi paragrafi dimostreranno come la sua reale
complessità emerga proprio attraverso i soli due elementi che la compongono: il riso della
donna e il cartiglio che rimanda all’Ecclesiaste.

371
De Marchi A. G., Caroselli non falsario. Il legno delle sue tavole e la nascita del restauratore, in
«Ricerche di Storia dell’Arte», n. 127, 2019, pp. 73-85.

372
Ibidem.

373
Briganti G., op. cit., p. 137.

374
Ottani A., Su Angelo Caroselli, pittore romano, in «Arte antica e moderna», 30, 1965, p. 289.

375
Ivi, p. 295.

376
Papi G., L’enigma Caroselli, in «Artibus et historiae», 65, 2012, pp. 127-150.

117
2.7 Donne che non ridono, quasi mai

Come già anticipato, all’epoca di Caroselli sarebbe stato impensabile raffigurare una
donna “onesta” nel modo in cui egli ci presenta la figura femminile della Vanitas
Barberini.
Per capire meglio il perché possiamo rifarci innanzitutto all’ampia trattatistica a
destinazione femminile del Cinquecento italiano. Questo campo d’indagine rivela un
modello socio-antropologico - che varrà anche per il XVII secolo e oltre: parola e riso
sono entrambi doni divini che distinguono uomini e donne dagli animali, ma sono anche
potenziali vie verso il vizio o, in una concezione cristiana, verso il peccato.

In primo luogo emerge come «nessuna virtù, se non la castità, sembra essere più elogiata
nella donna e nessun ornamento, se non il tacere, sembra esserle più consono»:377 principi
che vanno inquadrati nell’ambito del processo di civilizzazione e disciplinamento sociale
attuatosi nella prima età moderna. Il Concilio di Trento 378 si inserì in questo processo
giocando un ruolo essenziale nel plasmare la mentalità della parte cattolica
dell’Occidente, tramite la proposta di norme comportamentali in larga misura desunte dai
rigidi codici della cultura monastica. 379 Nello specifico, tali norme influenzarono
fortemente la condotta delle «buone cristiane», 380 chiamate innanzitutto a maturare le
virtù della modestia e della misura, all’insegna di una perfetta armonia tra interiorità ed
esteriorità.

377
Sanson H. L., Donne che non ridono: parola e riso nella precettistica femminile del XVI secolo in Italia,
in «Italian Studies», 60, 2005, p. 7.

378
Prodi P. (a cura di) Il Concilio di Trento e il moderno, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e
disciplina della società tra medioevo ed età moderna, a cura di P. Prodi, Annali dell’Istituto storico italo-
germanico, Quaderno 40, Il Mulino, Bologna, 1994, p. 101-123. Paolo Prodi lega a filo doppio tale processo
di disciplinamento sociale a quello che vede l’emergere e il consolidarsi dei nuovi Stati nazionali. Lo
studioso sottolinea inoltre l’importanza del modello pontificio rinascimentale nella costruzione dello Stato
moderno e a sostegno di questa tesi cita Kantorowicz: «l'apparato gerarchico della Chiesa romana tendeva
a diventare il perfetto prototipo di una monarchia assoluta e razionale su base mistica, mentre allo stesso
tempo lo Stato mostrava sempre più la tendenza a diventare una quasi-Chiesa o una società mistica su base
razionale» (p. 102).

379
Knox D., Disciplina: The Monastic and Clerical Origins of European Civility, in Reinassance Society
and Culture: Essays in Honor of Eugene F. Rice, a cura di J. Monfasani e R. G. Musto, Italica Press, New
York, 1991, pp. 107-135.
380
Zarri G., Donna, disciplina e creanza cristiana dal XV al XVII secolo, Edizioni di storia e letteratura,
Roma, 1996, p. 6.

118
In una diretta corrispondenza fra il silenzio e il portamento, il corpo si fa prolungamento
esterno del silenzio stesso […]: silenzio della parola e “silenzio” del corpo sono
determinati entrambi dal controllo e dalla moderazione. Se nella dottrina cristiana
medievale e rinascimentale, il contegno esterno ha la capacità di rivelare i moti
dell’animo, allora occhi, volto, capo, mani, e postura del corpo più in generale, si fanno
specchio dell’anima. […] le azioni compiute disordinatamente sono indice di una
disarmonia del corpo che riflette la disarmonia dell’anima: nulla di indecoroso o di
scomposto deve turbare il contegno esterno della donna modesta nel suo volto, nei suoi
abiti, o in qualsiasi cosa faccia o dica. 381

Il modello femminile per eccellenza era dunque quello delle «donne tacite e vergognose
con gli occhi honestamente bassi» 382: «una condotta […] ascritta a un progetto di
perfezione morale e perciò etichettata come creanza cristiana». 383

Ancora prima dei dettami conciliari, però, erano stati i trattatisti cinquecenteschi ad
assumersi il compito di normare l’esistenza quotidiana femminile, entrando nel merito di
ogni più piccolo gesto. Partendo dal presupposto che ci sia un tempo per ogni cosa e
dunque anche per ridere, come indicato dal Qohelet, (Qo 3, 1; 3,4), essi non potevano
certo ignorare il riso:

Scrive Stefano Guazzo nella Civil Conversazione (1574) che se una donna deve parlare
miri allora ad essere un perfetto esempio di equilibrio, tanto ricercato da poter sfidare
l’ingiunzione al silenzio, creando una “soavissima armonia” fra “l’altezza delle parole
[…], la soavità della voce et l’honestà de concetti […]”. Idealmente la sua conversazione
deve essere tale per cui “è tanto soave che vi pare che parlando taccia”. Se la perfezione
femminile nella parola e nei movimenti del corpo si esemplifica in un «beato mezzo»,
come lo definisce Bernardo Trotto nei suoi Dialoghi del matrimonio e vita vedovile
(1578), lontano da ogni manifestazione estrema, il riso femminile che si profila nei trattati
esaminati deve essere come quello della Beatrice dantesca, cioè un “mirabil riso […] che
mai non si sentia se non de l’occhio”. Il ridere della donna, come la sua parola, si definisce
in termini di silenzio.384

381
Sanson H. L., op. cit., p. 9.

382
Domenichi L., La nobiltà delle donne, Gabriel Giolito Ferrarii, Venezia, 1549. Citato da Sanson H. L.,
op. cit., p. 9

383
Pozzi G., Occhi bassi, in Thematologie des Kleinen. Petits themes litteraires, a cura di E. Marsh e G.
Pozzi, Fribourg, 1986, p. 162.

384
Sanson H. L., op. cit., p.10.
119
Per approfondire l’origine di tali concezioni, vale la pena fare un salto indietro nella
storia, ripartendo da Aristotele e dalla sua visione del riso all’insegna della filosofia del
«giusto mezzo» espressa nell’Etica Nicomachea. Fra una eccessiva seriosità e una
eccessiva ilarità, egli propendeva per l’attitudine di «coloro che scherzano in modo
conveniente e sono chiamati faceti: come per indicare che sono persone dallo spirito
vivace». 385 In modo non dissimile da Platone – che diffidava del riso perché troppo
ambivalente - egli sosteneva che fosse meglio ridere con parsimonia e addomesticare il
riso arcaico, rumoroso ed aggressivo (come quello della commedia di Aristofane) in un
riso appena accennato, destinato a colorire le conversazioni e a stemperarne la gravità. 386
Nella sua Poetica troviamo scritto che «la commedia vuole rappresentare gli uomini
peggiori, la tragedia migliori che nella realtà attuale». 387 Egli, dunque, deprecava quella
comicità che scade in volgarità, ma non condannava il riso in sé per sé, considerando che
questo può essere letto come un segno della nostra razionalità: «nessun animale ride,
eccetto l’uomo».388 Tale prospettiva aristotelica si configurò come una delle due posizioni
nei confronti del riso che coesistevano nel cristianesimo medievale. Di natura
essenzialmente favorevole, essa si contrapponeva ad una decisamente negativa, divulgata
dal monachesimo greco di San Basilio e San Crisostomo, e penetrata progressivamente
nel cristianesimo latino tramite Rufino d’Aquileia (traduttore dei suddetti monaci
orientali) e la scolastica parigina. 389 Questa seconda posizione escludeva il riso
dall’esistenza dell’uomo che volesse tendere ad un modello ideale di perfezione cristiana,
in quanto, stando al Nuovo Testamento, Gesù non aveva mai riso.390 Impossibile da
bandire, con buona pace di Jorge da Burgos (l’austero bibliotecario che ne Il nome della

385
Aristotele, Etica Nicomachea, IV, VIII, 3.

386
Cfr. Minois G., op.cit., pp. 75-78.

387
Aristotele, Poetica, 5.

388
Cfr. Aristotele, Le parti degli animali, III, 10.

389
Le Goff J., Le rire dans les règles monastiques du Haut Moyen Âge’, in Haut Moyen-Âge: culture,
éducation et société. Études offertes à Pierre Riché, a cura di Michel Sot, La Garenne-Colombes: Éditions
Européennes Erasme, Nanterre, 1990, p.93.

390
Ibidem. Cfr. Eco U., Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980, p. 103: Eco esemplifica la tensione
che la cultura monastica medievale incontrava quando tentava di riconciliare queste due tradizioni
nell’episodio in cui Jorge da Burgos sottolinea come Giovanni Crisostomo avesse detto che Cristo non
aveva mai riso, al che il suo interlocutore, William di Baskerville, replica puntualizzando che non vi era
nulla nella natura di Cristo che gli impedisse di ridere perché il riso è proprio dell’uomo.

120
rosa di Umberto Eco si fa interprete delle idee di S. Crisostomo), il riso, così come la
parola, nella società cristiana venne quantomeno regolamentato e inscritto in un sistema
etico. Così come la parola doveva essere disciplinata, anche il riso doveva essere
contenuto. Anche qualora le diverse regole monastiche non rifiutassero severamente e
nettamente il riso, esso restava tuttavia inaccettabile se accompagnato da movimenti
incontrollati del corpo, vale a dire se improvviso ed eccessivo. 391

Eppure, come asserisce George Minois, «il Medioevo finisce tra risate e digrignare di
denti»392. Quando nel Cinquecento l’unanimità medievale andò in frantumi, socialmente,
religiosamente e politicamente e la cristianità del Rinascimento si divise in classi,
confessioni e Stati rivali, di fronte a tutto questo scoppiò la risata assordante di Rabelais,
l’autore dei racconti di Gargantua e Pantagruele (epopea eroicomica pubblicata tra il
1532 e il 1564).

Il riso di Rabelais in effetti è come un manifesto, come la Confessione di fede di Augusta


o il catechismo del Concilio di Trento; esso è il grido di scherno di tutti coloro che
invitano ad un’interpretazione in chiave comica del mondo, proprio come altri invitano
ad un’interpretazione protestante o cattolica. E’ il momento della fondazione del partito
del riso che si attira subito le inimicizie dei seri di ogni tipo: “rabelaisiano” è un insulto
sia per i riformati che per i cattolici, ma anche per la gente raffinata e gli allievi di
Castiglione. Questo tipo di riso è intollerabile, poiché è una risata grassa che scoppia
come un tuono e copre le invettive settarie, scombina le pagine degli in folio teologici e
imbratta di schizzi di saliva le facce livide dei dottori, è una bestemmia un’eresia, la più
pericolosa di tutte: l’eresia comica. […] Di colpo il riso, che era già divenuto sospetto e
stridente, diventa una sfida. Il male è personificato e circoscritto: è il riso rabelesiano, il
riso volgare, osceno, che non rispetta niente e nessuno e che probabilmente – assicurano
i suoi nemici – non crede in niente. 393

Secondo la tesi di Minois «L’inizio del confronto fra partigiani e avversari del riso inizia
davvero a partire da quest’epoca».394

391
Cfr. Le Goff J., Le rire dans les règles monastiques du Haut Moyen Âge, cit., p. 101.

392
Minois G., op.cit., p. 321.

393
Ivi, pp. 321-322.

394
Ivi, p. 322.

121
Il Rinascimento si basava, fra le altre cose, sulla contraddizione lampante tra l’umanesimo
“sorridente” e il fanatismo religioso. Di fronte a questi due atteggiamenti – che
denotavano il rispettivo credo - il riso rabelesiano appariva quanto meno incongruo e ad
esso si contrapponeva tanto l’impietosa austerità della Riforma, quanto il sorriso fine ed
educato de Il Cortegiano di Castiglione (1528).

Quest’ultima opera è un perfetto esempio di come in epoca moderna la nozione del


controllo di sé si fosse estesa come modello laico, con una sfera di influenza e di
applicazione ben più ampia.395 Per dirla con Daniel Menager, «Non sono più solo i
chierici che devono mostrare in ogni loro gesto una bellezza degna del servizio divino.
Non sono più solo i cortigiani che devono ridere con grazia. L'esigenza riguarda tutti». 396

Per quanto concerne la sfera femminile, Il Cortegiano, offrendoci uno straordinario


spaccato sul raffinato ambiente delle corti, si rivela un testo imprescindibile da cui
attingere informazioni sul rapporto tra il riso e la “donna di palazzo”. A quest’ultima è
richiesto di saper intrattenere piacevolmente i propri interlocutori con motti e arguzie, ma
anche nel conversare, nel ridere, nel giocare, nel motteggiare, è tenuta ad essere misurata
e «gratiatissima». 397 Perciò deve evitare di «usar una certa dimestichezza intemperata, e
senza freno’ per voler dimostrare di essere libera e piacevole e far credere agli altri ciò
che non è; anzi, di fronte a ragionamenti tali, deve ascoltare con ‘un poco di rossore e
vergogna». 398 La donna di palazzo, così come la intende Castiglione, infatti, non è una
semplice cortigiana e deve perciò preservare le irrinunciabili doti femminili di modestia
e onore.

E’, ancora una volta, il giusto mezzo aristotelico a guidare il rispetto di un difficile
equilibrio. In questo contesto non si deve dimenticare il ruolo civilizzatore assegnato alla
donna dal Cinquecento italiano. Castiglione ricorda, infatti, come non ci sia uomo, per

395
Cfr. Sanson H. L., op. cit., p. 14.

396
Ménager D., La Renaissance et le rire, Presses Universitaires de France, Paris, 1995, p. 157 (traduzione
inedita).

397
Cfr. Castiglione B., Il libro del Cortegiano, Manuzio, Venezia, 1528, (ed. Le Monnier, Firenze, 1834),
digitalizzato da Google,
https://books.google.it/books?id=Tj72L6Q6PwoC&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary
_r&cad=0#v=onepage&q&f=false, ultimo accesso 16/06/2021.

398
Ivi, p. 220.

122
quanto «procace e insolente», che non dimostri riverenza per le donne stimate buone e
oneste, perché «quella gravità temperata di sapere e bontà è quasi uno scudo contra la
insolenzia e bestialità dei presuntuosi». Per questa ragione,

si vede che una parola, un riso, un atto di benevolenza, per minimo ch’egli sia, d’una
donna honesta, è più apprezzato da ognuno, che tutte le demostrazioni e carezze di quelle
che così senza riservo mostran poca vergogna, e se non sono impudiche, con quei risi
dissoluti, con la loquacità, insolenza, e tali costumi scurrili, fanno segno d’essere. 399

L’accostamento di Castiglione tra il riso «dissoluto» e l’impudicizia lascerà un segno


evidente anche nella trattatistica successiva. Ne è un esempio un passo tratto dal De
l’istitutione de la femina christiana (1546) - traduzione italiana di Pietro Lauro
dell’originale latino dell’umanista spagnolo Juan Luis Vives:

[…] s’alcuno le mira, ridono tutte, fingendosi di ridere d’altra cosa. Tuttavia, ciascuna si
reputa di essere sola degna per la rara bellezza di esser mirata: manifestano in questo la
loro liggerezza e pazzia. La mia vergine non harrà cura de la bellezza, né ridere per motti
frivoli e insulsi [...]. Poi che parliamo del riso, indizio di liggiero e sciolto animo,
guardandosi di ridere smasciellatamente, con movimento di tutto ’l corpo, che non possi
prendere fiatto, non rida per cause liggiere, come per difetti veduti ne li corpi d’altrui o
per parole dette a la riversia [...]. Non accade ammonirla che ella non rida contro a giovani
che ridono guardandola; il che non si fa da donna che non sia impudica o pazza.400

Il riminese Pietro Belmonte, richiamando tanto Castiglione quanto Vives,


nell’Institutione della sposa del 1587, composto per la figlia Laudomia in occasione delle
sue nuove nozze, scrive:

[sii] in ogni tua parte, alle occasioni, a i luoghi e a i tempi, tutta gentile, affabile, trattabile,
domestica, sincera e lieta: dico di quella letizia non che viene dalla sciocchezza d’un
continuo riso, il quale nasce da leggierezza di mente, perché il riso (come si dice in
proverbio) abbonda nella bocca de’ pazzi, il che s’intende sempre quando è continuato e
soverchio. Così, quando sia ben usato a tempo e con modestia, è un messaggiero della
tranquillità del cuore e fa divenire la bocca (massima in bella donna) un terreno paradiso.

399
Ivi, p 221.

400
Vives J.L., De l’Ufficio del Marito, come si debba portare verso la moglie. De l’istitutione de la femina
christiana, vergine, maritata, ò vedova. De lo ammaestrare i fanciulli ne le arti liberali, Vincenzo Vaugris,
Venezia, 1546, (traduzione di Pietro Lauro), p. 104. Citato da Sanson H. L., op. cit., p. 15. Vives dedicò il
De Institutione foeminae christianae (1524) alla regina Caterina d’Aragona, moglie di Enrico VIII, alla cui
corte egli era diventato precettore di latino della principessa Mary. La popolarità del trattato fece sì che
venne ristampato più volte nelle maggiori lingue europee (in inglese nel 1540 e in italiano nel 1546).
123
Perché i savi vogliono che il riso non sia altro, se non uno splendore dell’anima e però si
conviene alla nobile e casta donna (come si dee credere a Platone), per la dimostrazion
del suo contento, rider con modestia, con severità, con honestà, con poco movimento della
persona e con basso tuono e più tosto con rarità che con frequenza; così ridendo, si mostra
non ridere per vanità di mente, ma solo per sincerità di cuore.401

Da questi estratti si evince pertanto la già citata rispondenza fra gesto/parola e interiorità.
La preoccupazione di tipo estetico e quella di tipo etico compaiono intrecciate per
richiedere alla donna di moderare il suo riso, affinché la bocca stessa, esente da
stravolgimenti eccessivi, possa essere, come scriveva Belmonte, un «terreno paradiso».
Ciò che è esteticamente brutto è anche moralmente riprovevole. Ma il riso, come il
parlare, prima ancora di essere un riflesso dell’animo, è un fenomeno culturale: si impara
a sorridere così come si impara a rispettare il silenzio e a controllare la parola, e nell’epoca
che ci interessa solo le donne “impudiche” o “pazze” non lo fanno.

Come evidenzia Menager: «Dal momento che la risata è spesso inappropriata, poco
elegante o goffa, si preferiva un segno del viso più fine, più discreto, più riservato. Questo
segno era il sorriso. Del resto, le donne impararono a sorridere molto presto». 402 Per
avvalorare quest’ultima affermazione lo studioso cita Ovidio, che, nel III libro dell’Ars
Amatoria, tratteggia l’immagine di una donna che più che ridere, appunto sorride,
guardandosi bene dal mostrare i denti: «Le fanciulle imparano anche a ridere, e anche
questo fa parte della bellezza. Che risultino le bocche poco spalancate, e piccole entrambe
le fossette, e le labbra inferiori coprano i denti superiori» 403

Per dare un’idea di quanto a lungo perdurò la lezione di Ovidio e dei trattati rinascimentali
che la mediarono, basti pensare che Jean-Baptiste De La Salle, nelle Regole del Decoro
e della Civiltà Cristiana del 1703, scrive:

Ci sono persone che alzano il labbro superiore così in alto […] che i loro denti diventano
quasi completamente visibili. Questo va contro il decoro, che vieta che i denti vengano
scoperti, dato che la natura ci ha dato delle labbra per nasconderli. 404

401
Belmonte P., Institutione della sposa, Roma, 1587, pp. 34-35. Citato da Sanson H. L., op. cit., p. 16.

402
Ménager D., op. cit., pp. 187-188 (traduzione inedita).

403
Ovidio, Ars Amatoria, III, v. 280.

404
Jeeves N., Il sorriso nella ritrattistica,
124
Alla luce di tutto questo ci risulta ancora più evidente perché i ritratti delle nobildonne
del Rinascimento siano tutti così composti e idealizzati e perché, qualora siano vivificati
da un accenno di sorriso, questo riluca di quella stessa grazia cui si richiamava il
Castiglione nel delineare il profilo della sua dama ideale.

Va anche detto, pero, che l’arte ha saputo dimostrarsi ben più vitale della società delle
buone maniere: nel corso del XVII secolo, infatti, la risata scomposta di Rabelais torna a
farsi sentire nell’affermazione della scena di genere.

Nel secolo in cui trionfava la gloria del barocco, a Roma, cuore della cristianità e della
classicità, luogo in cui veniva teorizzato il “bello ideale”, una folla scomposta di
straccioni, bari e prostitute, ubriachi e furfanti […], invase lo spazio aureo dell’arte,
riscuotendo un enorme successo presso collezionisti e mecenati. 405

All’origine di una produzione artistica inventiva e ambiziosa, vi è dunque un’altra Roma,


in cui molti artisti, tra cui il nostro Caroselli, si barcamenavano tra la ricerca
dell’affermazione professionale, da ottenere spesso con ogni mezzo, e la partecipazione
alla vita di una città caotica,

dove si potevano osservare la grandezza dei regni e la loro progressiva decadenza, le più
alte espressioni della spiritualità cristiana e il dispiegarsi di ogni vizio e di ogni bassezza.
E’ […] la Roma cauda mundi che convive con quella caput mundi, la Roma della gloria
e quella dei pericoli, la Roma della cultura classica e della spiritualità cattolica intrecciata
all’abisso morale della corte, alle tribolazioni della popolazione e alla violenza
notturna.406

Nel catalogo della mostra I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria, a
cura di Francesca Cappelletti e Annik Lemoine (tenutasi a Villa Medici e al Petit Palais-
Museé des Beaux Arts de la Ville de Paris, tra il 2014 e il 2015), Caravaggio viene
proposto come l’iniziatore della «pittura dei bassifondi», 407 poiché è a lui che si deve
l’invenzione di nuove icone ispirate all’universo dei vicoli e delle taverne. I suoi

https://publicdomainreview.org/essay/the-serious-and-the-smirk-the-smile-in-portraiture, ultimo accesso


15/06/2021.

405
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 165.

406
Cappelletti F. e Lemoine A., Introduzione, in I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria,
cit., p. 15.
407
I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria, cit., p. 23, passim.

125
personaggi di strada, con cui aveva «commercio di vita e di giovinezza», 408 ci appaiono
come attori su un palcoscenico, tra il respiro monumentale e la teatralità propria della
nobile pittura di historia e una profonda adesione al vero naturale: è il caso dei Bari (Forth
Worth, Kimbell Art Museum, 1595) e de La buona ventura (Musei Capitolini, 1596). Il
successo fu immediato: i temi, i riferimenti e le scelte estetiche del Merisi, pur non sempre
del tutto compresi e assimilati, suscitarono una vera e propria infatuazione. Negli anni
1610-1630, italiani, francesi, fiamminghi, olandesi e spagnoli – come Bartolomeo
Manfredi, Giulio Paolini, lo stesso Angelo Caroselli, Simon Vouet, Valentin de
Boulogne, Nicolas Régnier, Gerrit van Honthorst, Dirk van Baburen, Hendrick Ter
Brugghen, Jusepe de Ribera e altri ancora, più o meno sulla scia di Caravaggio,
interpretarono le innovazioni del maestro lombardo e le plasmarono adattandole alla
propria formazione, cultura e ambizione.

Com’è stato giustamente rilevato da Francesco Porzio, alcuni dei personaggi più usuali
della scena di genere, come prostitute che adescano clienti, zingare che leggono la mano,
bari, giocatori, bevitori e ciarlatani, compaiono già in opere come il Trittico del carro di
fieno di Hyronymus Bosh, incentrato sulla condanna dei vizi. 409 Se nei Bari e ne La buona
ventura di Caravaggio sopravvive ancora un certo intento morale, questo finirà per
affievolirsi fino a scomparire in molti caravaggeschi, così come nei bamboccianti e nei
Bentvueghels. 410

Ecco perché, come sottolinea molto bene Frascarelli, parlare di pittura di genere significa
essenzialmente parlare del «tentativo di rappresentare l’attività umana alla luce di
un’etica laica che esclude ripiegamenti escatologici e finalistici». 411 Le scene che
compongono il variegato panorama di questo filone artistico, infatti,

potrebbero rispondere a quell’etica di verosimiglianza che in sede teatrale e letteraria [con


l’affermarsi nel Seicento del poema eroicomico, della poesia satirica e soprattutto del
romanzo] veniva da più parti reclamata e che va collocata all’interno di un più ampio
orientamento culturale, filosofico e scientifico, che rivendica la centralità dell’esperienza,

408
Guttuso R., Antiaccademia, in Caravaggio, «Corriere della Sera», collana I classici dell’arte, Rizzoli-
Skira, Milano, 2003, p.11.

409
Cfr. Porzio F., Pitture ridicole. Scene di genere e tradizione popolare, Skira, Milano, 2008, pp. 20-21.
Cfr. Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 170.
410
Cfr. Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 170.

411
Ivi, p. 171.
126
non solo in ambito cognitivo, ma in ogni settore del pensiero e dell’agire umano. […]
Appare in tal modo evidente come l’assenza di un dramma esistenziale e di una
rivendicazione di uguaglianza politica, economica o sociale, non coincida di fatto con
l’allineamento ai valori sostenuti dalla cultura corrente e dal potere religioso e politico.
La visione anticonformista caratterizzante la scena di genere riguarda, ad esempio, la
stessa rappresentazione della povertà che non può essere considerata unicamente come
frutto della rassicurante teoria del “buon povero”, funzionale a mantenere l’ordine sociale.
[…] Se il gesuita Daniello Bartoli nel volume pubblicato nel 1650, La povertà contenta,
esalta la serenità dei poveri, lontani dalle tentazioni del lusso, contrapponendola
all’infelicità dei ricchi mai appagati e contenti, Carlo Bartolomeo Piazza,
nell’Eusevologio romano, edito nel 1668, si rivolge alla moltitudine di mendicanti, poveri
e storpi, definendoli esplicitamente come «libertini» che, attraverso il loro modo di vivere
come «amanti di libertà scioperata», si sottraggono «al freno delle Leggi de’ Principi, e
della Cristiana Disciplina». […] Il povero, pertanto, non è visto solo come il beato a cui
è destinato il regno dei cieli, ma anche come il libertino che, noncurante di ogni paradigma
precostituito, respinge le limitazioni imposte dalla Chiesa e dal potere politico,
rispettivamente attraverso il dogma e la ragione di Stato, per abbracciare uno stile di vita
che trova i suoi fondamenti unicamente nella natura.412

Nella Vanitas Barberini l’allegoria si fonde alla pittura di genere nell’attribuire un ruolo
di primo piano ad una popolana, che ridendo in quel modo così pieno di vita - ma anche
così volgare (secondo i suoi contemporanei) - allude fin troppo esplicitamente alla sfera
dei sensi e delle passioni, incarnando quell’adesione alla natura di cui ci parla la studiosa.

Non a caso, nella sala in cui è esposta l’opera intrattiene un serrato dialogo con il Duetto
di Ter Brugghen (1629), posto sulla parete di fronte, a pochi passi da lei. In questo dipinto
di uno dei massimi “caravaggisti di Utrecht” il motivo del concerto, come accadeva di
consueto, si carica di molteplici valenze semantiche:

Le trasparenze del succinto abito della giovane e il perfetto incrocio delle braccia e delle
mani lasciano intendere come il pittore voglia far qui “risuonare” nell’immagine
un’allusiva eco erotica, sicché l’accordo degli strumenti e l’armonia musicale diventano
metafora della voluptas che presiede alla musica “mondana”, secondo un simbolismo ben

412
Ivi, pp. 171-172.

127
attestato nella cultura olandese, come testimoniano, tra l’altro, le varie raccolte
emblematiche sul genere degli Enigmata sive Emblemata Amatoria (1624).413

La sfera erotica è poi conclamata dal fatto che la donna cerchi di attrarre l’attenzione del
pubblico con un sorriso lascivo, a denti scoperti, al pari della modella di Caroselli. Nella
Vanitas Barberini il contesto cambia, certo, ma quel tipo di sorriso emblematico resta e
lascia trapelare tutta la sua disinibita “impudicizia”.

A fornirci un indizio in più circa l’identificazione del personaggio con una cortigiana vi
è poi l’estrema familiarità del pittore romano con le prostitute che affollavano l’Urbe.
Secondo la biografia di Passeri, infatti, dopo la dipartita della prima moglie (a quanto pare
non troppo sofferta), l’artista si trasferì in casa di Agostino Tassi, definita senza mezzi
termini come un «postribolo»:

Volle Iddio dar fine a queste lor gare [liti continue], e chiamando a sé la moglie il fe
rimaner libero da questo peso, della qual perdita non godè, ne si dolse. Poteva con
maggior comodo coltivar l'effeminato suo genio [la sua passione per le donne], senza lo
scrupolo di coniugale opposizione, e visse alquanto rilassato in casa di quell'Agostino
Tassi Pittore a motivo di una donna, che quegli teneva appresso di sé con pessimo
concubinato. Vivente la moglie aveva perduto totalmente l'affetto alla sua famiglia, e tutto
dedito ai piaceri di quel pessimo postribolo, trascurava ogni dovuta convenienza all'età
sua, ed al suo stato.414

All’anticonformismo delle sue scelte artistiche, dunque corrispondeva la trasgressività


dei suoi comportamenti, ascrivibili ad una «visione della vita nella quale la sfera della
felicità sembra non essere rinviata a un tempo e a uno spazio esterno a quello
mondano». 415

413
Ter Brugghen, Duetto, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, 1626, testo di Michele
Di Monte, https://romechamberfestival.org/it/duetto/, ultimo accesso 17/06/2021.

414
Passeri G.B., op.cit., p. 193.

415
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 177.

128
2.8 L’eterodossia del Qohelet e il riso della Vanitas

L’adesione alla natura, incarnata dallo stile di vita di Caroselli così come dal riso della
sua Vanitas, almeno in un primo momento, sembrerebbe stridere con il motto che aleggia
sull’opera. Tuttavia,

il riferimento biblico non deve trarre in inganno, poiché l’Ecclesiaste fu una fonte molto
utilizzata in ambito eterodosso. Considerata d’ispirazione epicurea fin dai tempi di san
Girolamo (Commentarius in Ecclesiasten), fu molto apprezzata da eretici conclamati. 416

Tra questi figura niente meno che Giordano Bruno, e Michele Ciliberto, suo grande
studioso, nota che egli, come Qohelet, «è radicalmente estraneo ad una concezione del
tempo di carattere “progressivo”»:

Il tema della veritas filia temporis si situa nel quadro di una visione vicissitudinale della
realtà espressa con chiarezza cristallina dalla ripresa e dallo sviluppo del verso
dell’Ecclesiaste, citato a più riprese dal Nolano: nihil sub sole novi, egli scrive apponendo
la sua firma nell’Albo dell’Università di Wittemberg nel 1586. È un motivo fondamentale
e affiora in termini assai netti già nella Cena delle Ceneri (a non voler citare il Candelaio).
[Secondo Bruno] la conoscenza della Verità non ascende indefinitamente, secondo un
ritmo progressivo, ma essa, come sorge, tramonta, per risorgere nuovamente nella ruota
del tempo, dopo il trionfo delle tenebre e dell’ignoranza. […].417

Se anche il Nolano cita l’Ecclesiaste è evidente che la sua lettura non può essere affatto
univoca, infatti Frascarelli ci restituisce degli esempi lampanti:

Numerosi intellettuali di matrice libertina nel corso del Seicento assunsero il Qohelet
come un modello letterario di riferimento. Cosi, ad esempio, Giulio Cesare Vanini, nel
capitolo L’opinione e gli argomenti degli Epicurei dell’Anfiteatro dell’eterna
provvidenza, pubblicato a Lione nel 1615, sostiene la mortalità dell’anima sulla base
dell’uguaglianza dei meccanismi tra uomo e animale usando parole che evocano il passo
dell’ Ecclesiaste, in cui è scritto: «la sorte degli uomini e quella delle bestie e la stessa;
come muoiono quelli, muoiono queste, e il soffio vitale è uno per tutti e la superiorità
dell’uomo sulla bestia e zero, perché tutte e due sono vanità, tutte e due vanno a finire

416
Cfr. Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 68.

417
Ciliberto M., Umbra profunda: studi su Giordano Bruno, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1999,
pp. 213-214.
129
nella medesima dimora, tutte e due sono uscite dalla polvere e tutte e due ritornano nella
polvere». 418

Nello specifico, la sferzante verve di Vanini, riecheggia quella dello stesso testo biblico
in questi termini:

[…] vediamo che gli uomini e gli animali sono concepiti, formati, nascono, si alimentano,
crescono, invecchiano e infine muoiono allo stesso modo [degli uomini], sono costituiti
di organi interni ed esterni simili e ciascuno di tali organi ha funzioni analoghe negli uni
e negli altri. Perciò se l’anima si dilegua in un animale che st morendo, altrettanto dovrà
accadere nell’uomo. 419

Sulla stessa linea di pensiero, anche monsignor Pietro Gabrielli, durante il processo che
si svolse a Roma nel 1690 contro la setta libertina dei Bianchi, per difendersi dall’ accusa
di aver sostenuto la mortalità dell’anima, cita a propria discolpa le parole dell’Ecclesiaste:

[…] parlando di Salomone ho detto, che in un passo delle sue opere, che precisamente
adesso non mi ricordo, ma parsi sia dove dice = tempus edendis, mostra di tendere alla
Mortalità dell’Anima ragionevole, parendo che non distingua in quel passo l’Anima de
Bruti dall’Anime degl’huomini.420

Tutto questo ci consente di evidenziare un vero e proprio cortocircuito innescato dal


«libro più originale e scandaloso dell’Antico Testamento»421: da un lato la Vulgata di S.
Girolamo lo aveva sposato al filone ascetico del contemptus mundi (da cui scaturiscono
il De imitatione Christi e gli Esercizi spirituali di S. Ignazio); dall’altro lo troviamo citato
da Bruno, Vanini e Gabrielli in chiave antidogmatica. Per provare a capirne il perché è
necessario addentrarsi ancor meglio nella problematicità del Qohelet.

Il primo punto critico da evidenziare è che Qohelet assume un’«atteggiamento


disincantato fino alla spietatezza»422 in cui Elohim, il vertice divino da cui tutto il resto

418
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 68.

419
Beniscelli A., Libertini italiani. Letteratura e idee tra XVII e XVIII secolo, BUR, Biblioteca Univ.
Rizzoli, Milano, 2012, p. 87.

420
Cit. in Frascarelli D., Testa L., La casa dell'eretico: arte e cultura nella quadreria romana di Pietro
Gabrielli (1660-1734) a Palazzo Taverna di Montegiordano, Ist. Nazionale di Studi Romani, Roma, 2004,
p. 173. Cfr. anche Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p.
68.
421
Ravasi G., Qohelet. Il libro più originale e «scandaloso» dell'Antico Testamento, cit.

422
S. Natoli, Stare al mondo, Feltrinelli, Milano 2002, 2008, pp. 208.
130
consegue, rimane fuori portata. Dio opera ovunque, e in modo assolutamente
imperscrutabile, «perciò noi non cogliamo con l’esperienza alcuna predilezione a favore
degli uni e non degli altri o viceversa: si sia saggi o stolti la sorte è comune per tutti.
Sarebbe ugualmente così, aggiungiamo, se Dio non fosse». 423 Per Qohelet Elohim è posto
comunque come certezza assoluta, tanto che Dio è sottratto ad ogni ricerca: a chi sta sulla
terra è concesso indagare solo quanto è sotto il sole, mentre Elohim sta in cielo (Qo 5,
1).424 Secondo il saggio: «Ogni cosa fece bella [Elohim] nel suo tempo, mise anche nel
loro cuore [degli uomini] l’idea di totalità, senza però che l’uomo comprenda l’opera
compiuta da Dio all’inizio e alla fine» (Qo 3,11). Dunque, secondo Qohelet, Dio ha posto
nell’uomo il senso della totalità eppure, nonostante in lui sia presente questo riferimento,
l’essere umano resta impastato di hevel (finitudine) e, quindi, incapace di sondare
l’operare divino: «l’uomo ignora quando toccherà a lui; come i pesci cadono nella rete;
così come gli uccelli sono presi al laccio, allo stesso modo gli uomini sono intrappolati
da circostanze infauste che si abbattono all’improvviso su di loro» (Qo 9,12). La forza
dell’accadere è grande e incontrastabile. Un giudizio molto acuto, in tal senso, è quello
che ci è offerto da Bickerman, che evidenzia come «l’Elohim di Qohelet era ineluttabile
come il Fato dei filosofi». 425

Per tale ragione lo studioso sostiene che per Qohelet «il precetto tradizionale “temi Dio”
significa stare in guardia contro Elohim», 426 ovvero tener conto della sua imprevedibilità
e della nostra impossibilità di guardare le cose sub specie aeternitatis.

Essendo insondabile tutto ciò che va dalla ruach all’hevel nella vita di ciascuno e nell’
insieme delle cose, Qohelet si limita a considerare l’azione di Elohim come il presupposto
dell’inizio e della fine della nostra esistenza. Egli parla della polvere che «tornerà alla
terra là dove era già prima, mentre il soffio vitale tornerà a Dio che lo diede» (Qo 12, 7):

Non c’è contraddizione con i versi precedenti che esprimevano un dubbio sul fatto che il
soffio vitale salga o scenda, sia simile o dissimile a quello delle bestie (Qo 3,21). Il libro

423
Stefani P. (a cura di), Qohelet, cit., p. 90.

424
«Non essere precipitoso con la tua bocca e il tuo cuore non si affretti a emettere parole di fronte a Dio,
poiché Iddio è nei cieli e tu stai sulla terra; le tue parole, quindi, siano misurate» (Qo 5,1).

425
Bickerman E.J., op.cit., p. 160.

426
Ivi, 162.

131
neppure al suo termine annuncia la presenza di qualche forma di immortalità. I due ritorni
elencati nel versetto sono simmetrici: ogni componente va di nuovo alla propria
origine. 427

Dio è posto come garanzia della necessità del Tutto, una necessità già individuata da
Democrito nel processo materialistico dell’aggregarsi e del disgregarsi di atomi: «ogni
componente va di nuovo alla propria origine» perché «nulla viene dal nulla» (come
asserisce il precetto della fisica democritea ed epicurea già espresso nel primo capitolo).

Secondo Qohelet, dunque, «Elohim è il fondale necessario rispetto al quale misurare il


venir meno del proprio esserci», 428 il motore ultimo di tutte le cose, ma non ci si può
spingere più oltre:

Qohelet rifiuta ogni proiezione antropomorfica su Dio; ciò vale per mani e piedi, occhi e
orecchi, ma anche per intenzioni e disegni. L’espressione corrente “progetti di Dio
sarebbe del tutto inintelligibile al saggio di Gerusalemme. Non basta dire che i disegni di
Eloihm sono misteriosi, che le sue vie non sono le nostre (cfr. Is 55, 8-9); questa posizione
non è abbastanza radicale. Essa, infatti presuppone pur sempre che si possa applicare a
Dio un linguaggio progettuale. E’ già troppo: non ci è dato sapere neppure questo. Forse
Dio non ha alcun disegno. L’aspetto imprevedibile di ciò che ci capita è il risvolto visibile
di un Dio inafferrabile. Nessuna categoria razionale serve allo scopo. 429

Per queste ragioni Elohim è molto lontano dal Dio della Bibbia, cui vengono assegnati
attributi di varia natura: dalla misericordia, al giudizio, dalla clemenza all’ira ecc. A
proposito degli spunti ellenizzanti presenti nel Qohelet (di cui abbiamo già brevemente
accennato), appare significativo che già Epicuro, «il greco che per primo osò guardare in
faccia la religione con i suoi occhi mortali»430, sosteneva che «Empio non è chi elimina
gli dei del volgo, ma chi applica agli dei le opinioni del volgo. Perché le affermazioni del
volgo non sono vere prenozioni o anticipazioni, bensì false supposizioni». 431 Non a caso,
Qohelet tace su tutto quel che era stato precedentemente detto su Dio. Tuttavia la nudità

427
Stefani P. (a cura di), Qohelet, cit., p. 87.

428
Ivi, p. 88.

429
Ivi, p. 86.

430
Odifreddi P., op.cit., p. 31.

431
Epicuro, Epistola a Meneceo, in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, cit. p. 440.

132
di Elohim, a ben guardare, non lo mette completamente al riparo dal possibile paragone
con un sovrano ellenistico:

Anche se non compare mai esplicitamente questo paragone, il suo agire è, in sostanza,
regale, ma si tratta di una regalità esemplata su sovrani ellenistici. Se accettiamo la
datazione più accreditata la Gerusalemme di Qohelet era sottoposta all’autorità dei
Tolomei. Il monarca era fisicamente distante, ma il suo potere non poteva essere messo
in discussione, l’unico atteggiamento consono nei suoi confronti era il timore inteso come
stare in guardia: «Osserva – io ti dico - l’ordine del re a causa del giuramento rivolto a
Dio: non sottrarti al suo cospetto e non perseverare nel male, poiché egli fa tutto quel che
gli aggrada. La parola del re, infatti, è sovrana e chi può dirgli cosa deve fare?» (Qo 8,
2-4). L’intreccio tra le due regalità è qui divenuto scoperto.432

Se Dio è un monarca assoluto irraggiungibile, «chi è in grado di raddrizzare ciò che egli
incurvò?» (Qo 7, 13). Nell’alternarsi dei giorni buoni e di quelli cattivi e nell’impossibilità
di afferrare la ragione di questo alternarsi (poiché la porta delle cause ultime resta
sbarrata), tutto dipende da un accadere sottratto al nostro controllo. Motivo per cui
sarebbe inutile agire come se da un comportamento ineccepibile derivasse sicuramente il
bene e da uno malvagio certamente il male. Mentre chi riesce a muoversi al di fuori di
una logica troppo rigorosa riesce anche ad adattarsi in modo adeguato alle circostanze. 433
In questi versi vi è dunque una contestazione della tradizionale dottrina “retribuzionista”
(se fai il bene Dio ti ricompenserà, se fai il male ti punirà) contenuta, ad esempio, in
Giobbe.

Un altro aspetto della cultura sapienziale che Qohelet mette fortemente in discussione è
il modello biblico-patriarcale che trova il proprio culmine nel morire «vecchi e sazi di
giorni, vedendo i figli dei propri figli», come Abramo (Gen 25,8). In Qohelet i fili della
trasmissione di un’eredità da una generazione all’altra si sfilacciano:

Ogni autentica eredità prende avvio da una consegna. A realizzarla è colui che, prossimo
a uscire dalla vista dei viventi, affida ad altri un messaggio che riassume il senso del suo

432
Stefani P. (a cura di), Qohelet, cit., p. 89.

433
«Nei giorni belli sii di buon animo, in quelli cattivi osserva; Dio fece sia gli uni che gli altri affinché
l’uomo non scopra nulla di quanto avverrà dopo di lui. /Tutto vidi nei giorni della mia esistenza passeggera,
c’è un giusto che perisce nella sua giustizia e un malvagio che protrae la propria vita nella sua malvagità. /
Non eccedere in giustizia e non sovrabbondare in saggezza. Perché mai esporti alla distruzione? / Non
essere malvagio all’eccesso né stolto. Perché mai morire prima del tuo tempo? / E’ bene per te essere
attaccato a una cosa senza lasciare inoperosa la tua mano neppure in un’altra, poiché chi teme Dio riuscirà
su entrambi i fronti» (Qo 7, 14-18).

133
stesso esistere. Ciò non avviene per il Qohelet; in lui l’ “io” non consegna nulla a un “tu”
o a “voi”. 434

Del resto, Qohelet non crede nemmeno alle possibilità della memoria, anch’essa scalzata
dal flusso inarrestabile dell’hevel: «Non vi è memoria di quanto avvenne nei tempi remoti
e neanche di quel che accadrà ci sarà ricordo presso chi verrà ancora dopo» (Qo 1, 11).
Anche le grandi imprese, i grandi nomi e le città che hanno fatto la storia, quindi, sono
tutti elementi invariabilmente destinati ad essere spazzati via nel tempo ciclico di Qohelet.
In questo il suo insegnamento venne perfettamente ripreso da Pietro Pomponazzi, 435 uno
degli “spiriti forti” della modernità, che nel De incantationibus (1556) scrive:

Per quanto si ponga che sebbene una città, un popolo e un’assemblea di molte persone
non rappresentino proprio una sola cosa come Socrate, tuttavia sono come una sola cosa
che, se ha un inizio, ha una fine proprio come Socrate; e in breve qualsiasi cosa che ha un
inizio – sia animata che inanimata, sia una sostanza che un accidente, sia essa una sola
cosa in sé piuttosto che una sola cosa in nome di un legame, sia che esista per natura che
per accordo - ha quelle fasi ricordate prima cioè crescita, mantenimento e declino, benché
per molte di esse questo fatto non sia ben percepibile, ad esempio per quelle che durano
436
molto tempo, come gli enti privi di anima (fiumi, mari, citta, religioni e altri simili).

Nella lontananza di Dio, nel nulla che è persino la memoria, nella completa assenza di
punti fermi nel «fluire qoheletico» (come direbbe Ceronetti), torniamo dunque alla prima
domanda posta dal nostro saggio di Gerusalemme: «Cosa ricavano gli uomini da tutto il
duro lavoro per cui si affaticano sotto il sole?» (Qo 1,2).

Come già detto nel primo capitolo, l’opera di Qohelet si risolve in un’appassionata ricerca
di senso, con la consapevolezza, però, che l’uomo non potrà mai raggiungere il senso

434
Stefani P. (a cura di), Qohelet, cit., p. 82.

435
Pietro Pomponazzi, umanista cinquecentesco e professore di filosofia presso lo Studio di Padova, si
poneva come punto di riferimento per il sopra citato Giulio Cesare Vanini e per Cesare e Cremonini, altri
epigoni del libertinismo d’area padovana e più in generale di quella «cultura antidogmatica che, affondando
le proprie radici nel pensiero rinascimentale italiano e avvalendosi delle nuove conquiste che si andavano
conseguendo in campo filosofico e scientifico, attraversa l’intero XVII secolo, come un fiume carsico che
scorre nel sottosuolo e a tratti riaffiora in superficie». Cfr. Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e
libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 4.

436
P. Pomponazzi, De incantationibus, citato da Biblioteca laica. Il pensiero libero dell’Italia moderna, a
cura di M. Ciliberto, Laterza, Bari 2009 p. 178. Il libro nasceva dall’esigenza di Pomponazzi di riportare le
cose nell’alveo dell’ordine naturale (esattamente come faceva anche nel Tractatus de immortalitate
animae), fornendo una spiegazione fisica dei fenomeni magici in diretta polemica con la letteratura
demonologica e inquisitoriale, tanto da finire nell’Indice dei libri proibiti.

134
ultimo dell’esistenza, vedendosi costretto a ripiegare sul solo bene che è alla sua portata:
il piacere.

Il rapporto tra il Qohelet e il piacere trova un’eclatante esaltazione in Voltaire, il quale,


nel Dictionnaire philosophique (1764), non esita a definire l’autore biblico come un
«filosofo epicureo», 437

[…] che ripete ad ogni pagina che il giusto e l'empio sono soggetti agli stessi accidenti;
che l'uomo non ha niente in più della bestia; che sarebbe meglio non esser nati, che non
c'è un'altra vita, e che non c'è niente di buono né di ragionevole se non il godere in pace
il frutto delle proprie fatiche assieme alla donna amata. L'intera opera è di un materialista
a un tempo sensuale e disgustato. Sembra soltanto che all'ultimo versetto sia stata
aggiunta una frase edificante su Dio, per diminuire lo scandalo che un tal libro doveva
provocare. [...] Quel che sbalordisce è che quest'opera empia sia stata consacrata fra i libri
canonici. Se si dovesse stabilire oggi il canone della Bibbia, non ci si includerebbe certo
l'Ecclesiaste; ma esso vi fu inserito in un tempo in cui i libri erano molto rari, ed erano
più ammirati che letti. Tutto quel che si può fare oggi è mascherare il più possibile
l'epicureismo che prevale in quest'opera.

Ma prima di affidarci alle lapidarie parole del filosofo illuminista (che pure non ha tutti i
torti), dobbiamo tener presente che esse sottendono l’ateismo di un Qohelet
«materialista». Abbiamo già chiarito, però, come la questione sia più complessa: Dio nel
Qohelet è tanto estremamente presente quanto radicalmente assente.438

Dal punto di vista storico, quel che Qohelet ed Epicuro condividono senza ombra di
dubbio è la dimensione dell’individualismo: uno dei fattori più centrali e rappresentativi
dell’epoca ellenistica. Epicuro si inserisce nello sfaldamento della polis generato
dall’espansione cosmopolita dell’impero di Alessandro e dei suoi epigoni. Se per Platone
e Aristotele non era concepibile l’uomo sganciato dal tessuto politico-sociale della città-
stato, ora l’uomo da cittadino diventa semplice suddito e cessa di valere per il suo antico
valore civico. Ma oltre a questo risvolto negativo, ve ne è anche uno positivo: «l’uomo,
non potendo più chiedere alla città, all’ethos dello Stato e ai suoi valori i contenuti della
propria vita, fu costretto, dalla forza degli eventi, a chiudersi in sé medesimo, e a cercare

437
Voltaire, Salomone, in Dictionnaire philosophique, Londres, 1764. Citato da Frascarelli D., L’arte del
dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 68.
438
Cfr. Mazzinghi L., Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, cit., p. 143.

135
nel suo intimo nuove energie, nuovi contenuti morali e nuovi scopi del vivere; e in questo
modo l’uomo si scoprì come individuo». 439 In linea con tutto ciò, il filosofo del
Giardino 440, si preoccupa di indicare ai suoi discepoli la via soggettiva di una felicità
secondo natura. Questa prospettiva non sembra troppo dissimile, almeno sul piano delle
premesse, dagli obiettivi perseguiti dalla ricerca sperimentale di Qohelet. Anch’egli,
infatti, è preoccupato di scoprire quale felicità sia possibile per gli uomini «sotto il cielo
nei giorni contati della loro vita». (Qo 2,3).

Ancora una volta, le lungimiranti parole di Stefani possono venirci in aiuto:

Nonostante lo sconfinato «tutto è hevel», la condotta indicata da Qohelet non è né


estrema, né totalizzante. In essa si respira piuttosto una certa moderazione. Se ci
muovessimo nel campo della cultura greca di età ellenistica, tale prospettiva troverebbe
alcuni riscontri sintonici. Gli epicurei, per esempio, erano contraddistinti da una fisica
radicale, per non dire estrema, che affermava l’infinità dello spazio e l’esistenza del
vuoto, si appellava alla necessità e al caso per spiegare tanto l’origine del mondo quanto
quella della vita e dichiarava effimera la consistenza dell’aggregato di atomi che
costituisce l’anima umana; eppure la loro etica edonistica assumeva una posizione
moderata che, deplorando ogni eccesso, invitava al piacere. Che mutatis mutandis, non
possa avvenire qualcosa del genere anche in Qohelet? 441

Ai fini di individuare i punti di tangenza, così come i dovuti distinguo tra Qohelet ed
Epicuro, è ora venuto il momento di scendere nel dettaglio di un’analisi comparata delle
loro asserzioni.

Diogene Laerzio afferma che «Epicuro scrisse moltissimo e tutti superò per numero di
libri», ma si premura di aggiungere che tutta la sua dottrina è compendiata in tre epistole
(che ci riporta integralmente): quella a Erodoto, quella a Pitocle e quella a Meneceo; la
prima riguarda la fisica, la seconda è dedicata ai fenomeni celesti, la terza espone la sua
etica. 442 Dal loro insieme si evince chiaramente che per Epicuro la conoscenza così come

439
Reale G., Storia della filosofia antica. I sistemi dell’età ellenistica, vol. III, Vita e Pensiero,
Pubblicazioni della Università Cattolica di Milano, 1987, p. 8.

440
Nel 306 a.C. Epicuro acquistò una casa ad Atene, dotata di un giardino dove i discepoli, seguivano le
lezioni del maestro, vivendo come lui in maniera semplice e frugale (ecco perché l’epicureismo è anche
detto “filosofia del Giardino”).

441
Stefani P. (a cura di), Qohelet, cit., p. 60

442
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, cit., pp. 409, 444.

136
l’etica originano dalla sensibilità, che diviene criterio di verità, e che il piacere è inteso
come «principio e fine della vita beata»443, ma la sua accezione è molto meno banale di
come si può comunemente intendere.

La pessima fama degli epicurei, considerati privi di morale, è nata da un passaggio di una
lettera di Orazio ad Albio Tibullo, dove il poeta, si descrive come un «porco del gregge
di Epicuro»: tale locuzione è stata nel tempo attribuita a chiunque appartenesse alla
tradizione epicurea o fosse semplicemente dedito ai piaceri della carne, creando non pochi
fraintendimenti. 444

Le parole di Epicuro, però, sono inequivocabili:

Quando dunque noi diciamo che il piacere è il compimento supremo della felicità, non
intendiamo riferirci alle voluttà dei dissoluti e ai godimenti sensuali, come pure vogliono
alcuni per ignoranza o dissenso o fraintendimento, intendiamo bensì l’assenza di
sofferenza fisica e l’imperturbata tranquillità dell’anima.445

Secondo il filosofo, infatti,

[…] alcuni desideri sono naturali, altri inconsistenti. E dei naturali alcuni sono necessari,
altri solo naturali; dei necessari alcuni sono necessari alla felicità, altri all’imperturbata
tranquillità del corpo, altri al vivere stesso. 446

Per comprendere ancor meglio questo concetto ci viene incontro l’utile spiegazione di
Pierre Hadot:

Sono naturali e necessari i desideri la cui soddisfazione libera da un dolore, e


corrispondono ai bisogni elementari, alle esigenze vitali. Sono naturali ma non necessari
il desiderio di bevande e cibi sontuosi, o ancora il desiderio sessuale. Non sono né naturali
né necessari, ma prodotti dalle opinioni vuote, i desideri senza limiti della ricchezza, della
gloria o dell'immortalità.447

443
Epicuro, Epistola a Meneceo, in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, cit. p. 441.

444
Per questa precisazione si ringrazia la professoressa Candida Carella, che con le lezioni del 27/04/2021
e del 04/05/2021 ha dato un prezioso contributo al workshop attualmente in corso presso l’Accademia di
Belle Arti di Roma, dedicato alla Vanitas nel XVIII secolo tra devozione e trasgressione, organizzato dalla
professoressa Dalma Frascarelli, con la collaborazione della sottoscritta.

445
Epicuro, Epistola a Meneceo, cit. p. 442.

446
Ivi, p. 441.

447
Hadot P., Che cos’è la filosofia antica, Einaudi, Torino, 2010, p. 115.
137
I piaceri non necessari, pur non essendo demonizzati, sono considerati piaceri «in
movimento», «dolci e lusinghieri», che, portati all’eccesso, contribuiscono ad incrinare
la purezza della gioia.448 Pertanto, l’invito che Epicuro rivolge a Meneceo, e più in
generale ai suoi discepoli, è quello di inseguire un piacere durevole, che consta della
capacità di saper bastare a sé stessi, di godersi ogni momento come se fosse l'ultimo,
senza preoccupazioni per l'avvenire. La condotta, quindi, deve essere improntata verso
una grande moderazione: meno si possiede, meno si teme di perdere. 449

E a questo fine indirizziamo ogni nostra azione, perché il corpo non soffra, né l’anima si
sgomenti, e, una volta che ciò abbiamo ottenuto, si dissolve tutta la tempesta dell’anima,
poiché l’essere vivente non ha da procedere ad altro con cui si possa realizzare il bene
dell’anima e del corpo.450

In questa prospettiva, il piacere, come annientamento della sofferenza, è un bene assoluto;


esso non può crescere né gli si può sommare un nuovo piacere, «cosi come un cielo sereno
non può dare una luce più viva». 451 Frederick Charles Copleston, a questo proposito, fa
un’osservazione significativa e utile al confronto con l’etica espressa nel libro
veterotestamentario:

In primo luogo, Epicuro, non intese parlare dei piaceri del momento, delle sensazioni
mutevoli, ma del piacere che dura tutta la vita; in secondo luogo, il piacere per Epicuro
consiste piuttosto in un’assenza di dolore, che in una soddisfazione positiva. 452

A questo scopo il filosofo greco conia l’aggettivo catastematico, per definire il piacere
come uno «stato di stabile e tranquilla sicurezza». 453 Per Qohelet, invece, il piacere non
può aspirare ad una portata così ampia e totalizzante, ma è piuttosto qualcosa che si
risolve nei fuggevoli intervalli di gioia che inframezzano gli affanni, facendosi sempre

448
Cfr. Hadot P., Che cos’è la filosofia antica, cit., p. 113

449
Cfr. Ivi, p. 114.

450
Epicuro, Epistola a Meneceo, cit. p. 441.

451
Hadot P., Che cos’è la filosofia antica, cit., p. 113.

452
Reale G., Storia della filosofia antica. I sistemi dell’età ellenistica, cit., p.556.

453
Isnardi Parente M. (a cura di), Opere di Epicuro, in Abbagnano N. (a cura di), I classici della filosofia,
Unione Tipografico-editrice Torinese, Torino 1974, p. 42.

138
più radi con l’avanzare dell’età, motivo per cui asserisce: «Gioisci finché sei giovane, si
rallegri il tuo cuore nei giorni della tua giovinezza» (Qo 11, 9).

Eppure, malgrado quella fugacità e quella precarietà, che Epicuro cercava invece di
sottrargli, anche per Qohelet il piacere sensibile si presenta come sommo bene: «Non c’è
nulla di meglio per l’uomo che mangiare e bere e vedere prosperare la sua forza vitale nel
corso del suo duro lavoro» (Qo 2,24), soprattutto perché «non ci è data altra eredità» (Qo
5,17). Ma Qohelet non è affatto «un predicatore della gioia», come lo ha definito Norman
Whybray. 454 Del resto, se ogni cosa nel libro viene indagata su base empirica, portandola
fino alle sue estreme conseguenze, nemmeno il piacere potrà sfuggire a questo rigido
esame:

Quando Qohelet dice che il ridere è insensato e si chiede a cosa serva la gioia (Qo 2, 2)
sta indicando che il piacere ha valenza solo in sé per sé. Dunque non è solo il riso degli
stolti, a ben vedere, ad essere paragonato al «crepitio delle fascine accese sotto la pentola»
(Qo 7, 6), ma le risa di ogni sorta, che risuonano nell’insensatezza generale.455

Nel tentativo di eliminare la contraddizione esistente tra la deprecazione del piacere ed il


suo encomio, i commentatori generalmente attribuiscono a Qohelet la distinzione di due
tipi di piacere: uno sciocco, triviale e degenerato ed uno più profondo e quieto, come se
questo potesse portare con sé maggiore felicità. 456 In realtà l’autore non fa alcuna
distinzione tra piaceri peccaminosi e piaceri dello spirito come vorrebbe la vanitas che
«ai monaci, casti o dannati nella carne, era sempre compagna, con le sue vuote
occhiaie». 457 Anzi,

anche il piacere del vino è permesso e raccomandato. Il suo valore anestetico, del resto,
era già apprezzato dai Proverbi (31, 6 -7: «Date bevande inebrianti a chi sta per perire e
il vino a chi ha l’amarezza nel cuore. Beva e dimentichi la sua povertà e non si ricordi più
delle sue pene»). Certamente, però, come farebbe ogni saggio, anche Qohelet condanna
gli eccessi nel bere e nel mangiare (10, 16 -17: «Guai a te o terra su cui regna un ragazzo
e nella quale i capi banchettano fin dal mattino; beata te o terra su cui regna una persona

454
Whybray R.N., Ecclesiastes, Bloobsbury Publishing, Old Testament guides, London, 1989.

455
Fox M.V., Qohelet and His Contradictions, Sheffield Academic Press, 1989, p. 69 (traduzione inedita).

456
Ibidem.

457
Ceronetti G., op. cit., p.119

139
di nobili origini e nella quale i capi mangiano all’ora conveniente per rinvigorirsi e non
già per ubriacarsi».458

La moderazione cui invita Qohelet è ben diversa da quella di Epicuro essenzialmente


perché egli non ha l’ambizione di allontanare a priori tutto ciò che è transitorio: sa che
così facendo non resterebbe nulla di quel che è «sotto il sole»459. La differenza sostanziale
tra i due pensatori, infatti, è che mentre Epicuro ritiene che l’appagamento sia qualcosa
che il saggio possa ritrovare dentro di sé, scegliendo deliberatamente la distensione e la
serenità, rinnovando questa scelta in ogni momento della sua vita, Qohelet, invece non
considera la gioia come una capacità interna al proprio io, ma come una realtà esterna da
saper cogliere quando si presenta l’occasione. Da un lato, infatti, Epicuro confida nella
possibilità di raggiungere il piacere supremo dell’atarassia (assenza di turbamento), in
virtù della saggezza e dell’autocontrollo 460, dall’altro Qohelet ribalta questa posizione
lasciando intendere che il piacere non sia altro che un anestetico della coscienza 461, una
forma di oblio momentaneo. Pur non potendo fare a meno di perseguire la saggezza, egli
infatti si rende conto che in essa «vi è un grande ed esacerbato tormento» (Qo 1, 18),
perché l’unica conclusione cui porta è che gli uomini sono destinati ad arrestarsi sulla
soglia della verità, senza mai poterla veramente penetrare. Ma è altrettanto consapevole
che svestire temporaneamente i panni del sapiente per qualche attimo di leggerezza non
potrà comunque essere risolutivo, dal momento che presto o tardi tornerà ad indossarli e
a percepire di nuovo il tormento dell’olam (il senso di una totalità che sa di non poter
abbracciare) e dell’hevel.

Una simile visione contrasta profondamente con i toni trionfali della conclusione
dell’Epistola a Meneceo:

Questi precetti, dunque, ed altri a questi affini, giorno e notte, medita per te stesso e per
essere uguale a te stesso, né mai né in veglia né in sogno, sari turbato, ma vivrai come un

458
Fox M.V., op. cit., p. 70 (traduzione inedita).

459
Ivi, p. 73

460
Epicuro, Epistola a Meneceo, cit. p. 443: «[…] non può esservi vita soave senza vivere con prudenza,
moderazione e giustizia, né può esservi vita prudente moderata e giusta senza vivere soavemente».

461
Cfr. Fox M.V, op cit., p. 75. Cfr. Qo 5,19: chi è messo da Dio nelle condizioni di godersi beni e
ricchezze e di gioire del proprio duro lavoro «non si ricorderà troppo dei giorni della sua vita fugace, poiché
Dio gli darà in contraccambio la gioia del cuore».

140
dio tra gli uomini, ché in nulla è simile a creatura mortale l’uomo che vive tra immortali
beni.462

Per Qohelet non esiste alcuna vita beata, e meno che mai la possibilità di vivere la vita in
forma divina, poiché, oltre ad avere un diverso grado di fiducia nella saggezza, rispetto a
Epicuro, nutre anche una prospettiva diversa sul dolore e sulla morte. Qohelet si riferisce
continuamente a quel dolore che, in un certo senso, li contiene tutti: l’inevitabile esaurirsi
del soffio vitale. Epicuro invece ritiene che la morte non lo riguardi:

[…] nulla è per noi la morte. Ogni bene e ogni male infatti è nella sensazione, e la morte
è privazione della sensazione. Onde la retta conoscenza che nulla è per noi la morte rende
godibile la mortalità della vita, non perché vi aggiunga un tempo indeterminato, ma
perché elimina il desiderio dell’immortalità. Ché nulla di terribile vi è nel vivere per chi
abbia la schietta consapevolezza che nulla di terribile vi è nel non vivere. […] Ciò che
quando è presente non ci turba, quando è atteso arreca un dolore inconsistente. Dunque il
più rabbrividente dei mali, la morte, nulla è per noi, perché quando noi siamo, la morte
non è presente, e quando è presente la morte, allora noi non siamo. 463

Perché dunque temere ciò che non ha nulla a che vedere con il nostro “esserci”? Ma la
soluzione non tiene conto del fatto che la morte in ogni caso possa coesistere con noi,
esserci accanto quando muore qualcuno entro il raggio delle nostre intime relazioni. Per
Qohelet la morte di qualcun altro riguarda anche lui e lo interpella direttamente, poiché,
come ricorda Stefani, sa che non c’è miglior modo di comprendere la realtà se non
osservandola sul punto del suo venir meno 464. Ecco perché afferma che è preferibile
andare in una casa in lutto piuttosto che in una casa in festa «poiché in quella e non in
questa c’è la nostra fine» (Qo 7,2); nel giorno triste risuona l’invito a riflettere «Nei giorni
belli sii di buon animo, nei giorni cattivi osserva» (Qo 7,14). Il denominatore comune di
queste indicazioni è quello della crescita umana: l’esperienza del dolore non va
necessariamente allontanata (come vuole l’utilitarismo epicureo), poiché impone a
ciascuno l’uscita dalla propria superficialità.

Tanto per Qohelet, quanto per Epicuro, però, la meditazione della morte serve ad
innescare una maggiore attenzione a quello che poi diverrà il carpe diem dell’epicureo

462
Epicuro, Epistola a Meneceo, cit. p. 443.

463
Ivi, p. 441.

464
Cfr. Stefani P., Dies irae. Immagini della fine, cit., p. 29.

141
Orazio: «Convinciti che ogni nuovo giorno che si leverà, per te, sarà l’ultimo. Con
gratitudine allora accoglierai ogni inaspettata ora». 465

Ernst Hoffmann rende mirabilmente l’essenza della scelta di vita epicurea, con parole che
si sposano anche al Qohelet:

l’esistenza deve prima di tutto essere considerata come puro caso, per poter in seguito
essere vissuta totalmente come unica meraviglia. E’ necessario realizzare in modo chiaro
che l’esistenza, inesorabilmente, non si realizza che una volta sola, per poterla festeggiare
per ciò che ha di unico e di insostituibile. 466

Certo, Epicuro esorta ad una comunione con la vita e con la natura così completa da poter
festeggiare ogni attimo, in un piacere che è sostanzialmente quello dello stesso stare al
mondo, Qohelet, invece, mostra una prospettiva più ambivalente, ma che secondo
Michael Fox «è psicologicamente plausibile» (e sicuramente meno utopica di quella
epicurea):

Una persona può divertirsi a una festa mentre sente che il piacere è insignificante, persino
ridicolo: «Anche ridendo, il cuore può essere triste; e la gioia può finire in dolore» (Pr
14,13). Ma poi, la stessa malinconia che ha oscurato il divertimento, può portare a
concludere che dal momento in cui tutto il resto è così triste, il piacere è, tutto sommato,
la migliore opzione disponibile. 467

In definitiva, dopo aver volto il cuore ad esplorare tutto quanto si compie sotto il cielo
(Qo 1, 13), secondo il saggio non resta altro che saper valorizzare le semplici gioie
quotidiane alla portata di tutti: la serena convivialità, la soddisfazione di vedere i risultati
del proprio lavoro, il calore di una donna.

Ecco perché Voltaire argomenta la matrice epicurea del Qohelet ponendo l’accento
proprio sui seguenti versetti: «Godi la vita con la donna che ami, per tutti i giorni della
vita che Dio ti dà sotto il sole […] tutto quello che ti occorre di fare fallo mentre sei in

465
Orazio, Epistulae, 1.4.13. Citato da Hadot P., Che cos’è la filosofia antica, cit., p. 122.

466
Hoffamann, Epikur, in Dessoir M, Die Geschichte der Philosphie, Wiesbaden, 1925, I, p. 223. Citato
da Hadot P., Che cos’è la filosofia antica, cit., p. 123
467
Fox M.V., op. cit., p. 72 (traduzione inedita).

142
vita, perché non ci sarà più pensiero né conoscenza, giù nel soggiorno dei morti, dove stai
per andare» (Qo 9,9-10).468

Anche la giovane donna della Vanitas Barberini sembra invitarci a godere dei piaceri
offerti dall’esistenza, prima che la morte ponga fine a tutto. Un monito che Caroselli fece
proprio, a giudicare dalla testimonianza del Passeri, che lo descrive come un uomo «in
tutto il corso della sua vita molto dedito agli amori».469

Arrivati a questo punto del discorso, mi piacerebbe stimolare in chi legge questa
riflessione: siamo sicuri che il riso della Vanitas entri necessariamente in contrasto con il
messaggio del Qohelet (come vuole l’interpretazione dell’opera ormai divenuta
canonica)? A mio avviso abbiamo ormai raccolto diverse informazioni che ci consentono
di avanzare un’ipotesi antitetica: ossia che questi due elementi, invece di collocarsi agli
antipodi, possano tranquillamente convivere e rispecchiarsi l’uno nell’altro. È vero che
tutto è hevel, caducità, eterno fluire, ma proprio per questo è lo stesso saggio di
Gerusalemme a dirci di considerare il piacere come la sola eredità che ci è concessa finché
siamo in vita (Qo, 9, 9), in questo senso, dunque, il riso della donna sembra abbracciare
una delle più fondamentali lezioni del libro veterotestamentario. Ecco allora che il dipinto
di Caroselli sprigiona una sorta di “affinità elettiva” con la fonte biblica, molto più di
quanto non avvenga in tutto quel proliferare di vanitates seicentesche che insistevano
esclusivamente sulla necessità del pentimento e del contemptus mundi.

La particolare forza espressiva dell’opera presa in esame, tra l’altro, potrebbe anche
riflettere quel «dolce riso» con cui lo stesso Caroselli «soffriva con pazienza tutti colpi
della nimica fortuna»,470

468
Nel riportare questo versetto, anziché adottare la traduzione proposta da Stefani (come ho fatto fino ad
ora), ho voluto piuttosto utilizzare quella della CEI, per evidenziare come la forza inequivocabile di queste
parole, così lontane dalla tradizione del contemptus mundi, sia espressa a chiare lettere anche nella versione
canonica: https://www.bibbiaedu.it/CEI2008/at/Qo/9/?sel=9,9&vs=Qo%209,9, ultimo accesso
22/06/2021.

469
Passeri G.B., op.cit., p. 188. Cfr. Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del
Seicento, cit., p. 69.
470
Passeri G.B., op.cit., p. 192.

143
vivendo con tanta stoica Filosofia, che ebbe più del Diogene, che del Seneca morale, […]
lontanissimo da ogni interesse, ed avidità del denaro, […] non curando altra soddisfazione
che il piacere dolce della vista, e delle conversazioni di quelle che amava. 471

Tenendo conto di questi cenni biografici, mi sovviene che tra le pieghe del riso della
Vanitas potremmo addirittura intravedere una sorta di autoritratto allegorico dell’artista,
tratteggiato dai contemporanei come un outsider che viveva alla giornata, nel «disprezzo
delle pompe» e nell’ebbrezza delle «amorose delizie», preoccupandosi solo di godersi il
presente, senza ignorare che lo stesso godimento è vanità.

Ai continui rovesci del destino Caroselli sembra rispondere con la «libertà scioperata»
che Carlo Bartolomeo Piazza rimproverava ai libertini, 472 ma nel Seicento bisognava fare
attenzione a non sbandierare troppo la propria trasgressività. Pertanto - secondo uno
schema che ormai abbiamo imparato a riconoscere nella sua produzione - anche in
quest’opera il pittore si muove con fare sottile, sfruttando l’ambiguità insita nel riso
stesso, da cui si dirama un ventaglio di possibilità ermeneutiche.

In quest’ottica potremmo pensare alla Vanitas Barberini come ad un’esca in grado di


attrarre su di sé più di una lettura: in altre parole, Caroselli aveva messo in conto che
“tutto sta nell’occhio di chi guarda”. Dunque non va completamente escluso che alcuni
abbiano potuto associare il gaudio della donna alla semplice «stoltezza» di chi ignora la
gravità del monito biblico. Questo, almeno, è quanto espresso dalla sopracitata tesi di
Vodret, ricalcando la mentalità di uno spettatore medio del XVII secolo, abituato alle
prediche sul necessario disprezzo dei piaceri di questa terra.473 Limitarsi a tale visione,
però, significa affidarsi semplicemente alla superficie dogmatica della vanitas e
all’abusato proverbio secondo il quale «il riso abbonda sulla bocca degli stolti», senza
considerare che l’immagine possa rimandare anche ad ulteriori significati e suggestioni,
veicolati dalla prassi nicodemica tipica del Caroselli (e di tanta parte della pittura del
Seicento).

471
Passeri G.B., op.cit., p. 191.

472
Piazza C. B., Eusevologio romano, overo delle pie opere di Roma, Cesaretti e Paribeni, Roma 1698,
pp. III-IV.

473
Vodret R., in Caravaggio e i suoi. Percorsi caravaggeschi in Palazzo Barberini, cit., p. 78.
.
144
Per contestualizzare ancor meglio tale prassi, sarà utile ricordare che Paleotti, nel De
tollendis imaginum abusibus novissima consideratio (1596), «un memoriale in cui
proponeva la realizzazione di un Indice dell’iconografia proibita», 474 scrive:

Vogliamo però ora avvertire il lettore, che queste differenze dette, delle immagini sacre e
profane, si possono considerare in due modi: l’uno quanto alla figura per se stessa, l’altro
quanto alla persona che le riguarda. […] Di modo che la medesima immagine partorirà
più differenze, secondo i vari concetti che di essa piglieranno i riguardanti […]. 475

Le stesse affermazioni del cardinale bolognese sottintendono che le immagini, rispetto ai


libri, sono più complicate da indagare e quindi da censurare, poiché godono di una
maggiore capacità dissimulatoria.476 Una capacità che, nel caso Caroselli, tocca il suo
apice proprio nel dipinto di Palazzo Barberini, dove l’argomento della vanitas ci viene
restituito in tutta la sua ampiezza, attraverso il caleidoscopio di una pluralità di
prospettive. Di conseguenza, i moralismi di sorta non riescono ad offuscare
completamente la luce emanata dall’opera in termini laici e filosofici. Saperla cogliere ci
consente di sentirci complici della donna, di unirci al suo sorriso, piuttosto che ridere
della sua supposta stolidità. Anche perché cosa ci assicura di essere più saggi di lei?

Del resto, nel Qohelet stesso riecheggia la più grande domanda di sempre: «Cosa ci
facciamo qui?». E nelle parole del saggio non c’è soluzione, non c’è risposta, anzi,

Quel che c’è di più affettuoso, di più cordiale nel rotolo del Qohelet, è la dissoluzione di
ogni soluzione. Non averla trovata, non averla generosamente imposta, lasciando l’Essere
essere l’Essere e il destino umano senza una testa, un tronco, una coda, eppure doloroso
e frenetico animale, significa veramente aver visto, compreso tutto. 477

Si potrebbe dire che negli interrogativi e nelle contraddizioni di Qohelet il senso acuto
dell’hevel assuma la valenza di una risata cosmica.

474
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 13.

475
Ivi, p. 14. Cfr. Prodi P., Ricerca sulla teoria delle arti figurative nella Riforma Cattolica, in «Archivio
italiano per la Storia della Pietà», IV, 1962, Appendice II e Appendice III.

476
Proprio in virtù di questo non stupisce che la proposta del Paleotti di un Indice delle immagini proibite
non venne approvata, essendo considerata sostanzialmente inapplicabile. Cfr. Frascarelli D., L’arte del
dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 13.

477
Ceronetti G., Qohélet. Colui che prende la parola, cit., p. 123.
145
2.9 Il riso democriteo

Un’altra risata cosmica, ancor più potente, è quella di Democrito. Non a caso, uno dei
passaggi di maggiore interesse del saggio di Frascarelli su L’arte del dissenso è il
folgorante accostamento tra la Vanitas Barberini di Caroselli e un Democrito ridente di
José de Ribera [fig. 22], datato intorno al 1615 e attualmente in collezione privata.

Effettivamente, entrambe le opere non sembrano rimandare «a virtù cristiane» 478, ma


piuttosto ad una comune matrice materialistica: quella inaugurata dall’atomismo di
Democrito e poi ripresa dal pensiero epicureo che confluisce nel Qohelet. Inoltre, il
raffronto iconografico è motivato dal fatto che nel Seicento era proprio il riso sardonico
del filosofo di Abdera quello più sovente accostato alla vanitas.

Anche il Democrito di Ribera, come la donna del dipinto di Caroselli, ride mentre esibisce
un foglio, che questa volta è completamente bianco, quasi a voler affermare, in assonanza
con la traduzione più radicale del motto del Qohelet, che «tutto è vuoto niente». 479 Al
qoheletico invito al piacere espresso dal riso della Vanitas di Caroselli farebbe dunque da
contraltare dialettico il riso democriteo visto come

l’incarnazione di uno scetticismo integrale che non solo irride la vanità delle cose
mondane, ma rifiuta l’esistenza stessa di ogni verità assoluta. Si può ridere di tutto perché
nulla ha un senso o un fine, «tutto è vuoto e movimento infinito di atomi» come Luciano
fa dire a Democrito in Una vendita di vite all’incanto. Il filosofo di Abdera, dunque, viene
assunto come modello del sapiente moderno che, tacciato di pazzia dal volgo ignorante,
disvela la conoscenza su «un infinito numero di mondi» fatti «d’atomi erranti», misura i
cieli e descrive l’intero universo, come sostiene Jean de La Fontaine nella favola dedicata
a Democrito e gli Abderiti. D’altro canto, la follia è la condizione distintiva di chi nega
l’esistenza di Dio: «dice lo stolto in cuor suo: “Dio non c’è”» (Salmi 14 e 52). 480

478
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 69.

479
Il passaggio in apertura e in chiusura del libro veterotestamentario, che recita «Havel havalim, disse
Qohelet, il tutto è havel» (Qo 1,2 e 12, 8), viene reso dal poeta Guido Ceronetti con la seguente formula:
«Un infinito vuoto dice Qohelet, un infinito niente. Tutto è vuoto niente». L’idea che il Qohelet si affacci
sul nulla infinito ha avuto un’efficace anticipazione all’inizio dell’età moderna nella Biblia Española
stampata a Ferrara verso la metà del XVI secolo ad opera di ex marrani provenienti dalla penisola iberica.
Essa scavalca la vanità ed entra direttamente nella sfera del nulla: «Nada de nadas diro Kohelet nada de
nadas el todo nada». Cfr. Stefani P. (a cura di), Qohelet, cit., p. 31.

480
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 65.

146
Il dipinto riberesco «è la più eloquente rappresentazione di colui che “il mondo a caso
pone”, secondo il noto verso dantesco (Inferno, IV, 136) teorizzando l’esistenza di un
vuoto infinito privo di punti di riferimento».481 Questo porta Frascarelli ad avanzare un
suggestivo collegamento con un brano letterario che, pur essendo stato scritto in un
periodo successivo, ci offre comunque un punto di vista pertinente:

L’immagine di Ribera sembra dar forma a quel «Niente» che Marin Dall’Angelo, membro
dell’Accademia veneziana degli Incogniti, celebrerà nel 1634, sostenendo: «Applicatevi
al mondo. E, qual parte vi scorgerete che fastosa non glorifichi il Niente? La terra? Ed
ella è che un picciol punto, un minimo punto di un punto, un gran giardino del Niente,
che non frutta che gloria al Niente: niente l’erbe, niente le piante, niente i fiori, niente i
fiumi, e in niente alla fine non si risolvono gli animali? […] L’anima? E qual principio
dei suoi natali può vantare ella con verità? […] Né avrebbero errato Dicearco Massenio
e Sesto Empirico, s’avessero a questo scopo mirato, quando dissero: “Aninam nihil
esse”».482

Reinhard Brandt, d’altro canto, definisce l’opera di Ribera come «un pezzo di metafisica
dipinta», facendone un’analisi molto affine a quella di Frascarelli. Chiedendosi perché il
filosofo rida osserva che:

La mimica si lascia forse decifrare meglio prendendo la via traversa della pagina bianca.
Il muto gesto del sapiente – o folle? – indica il foglio non scritto, e la penna sta girata
davanti a lui: egli non scrive più niente. Questo niente tuttavia acquista forma, è la
proclamata assenza della ragione o del logos che si esprime con segni grafici e figurativi.
[…] Nella negazione di immagine e scrittura sta il centro e l’idea del quadro e a partire
da questo centro il riso del sapiente diviene interpretabile: è il riso di colui che ha perso

481
Ivi, p. 67.

482
Ibidem. Cfr. Beniscelli A., Libertini italiani. Letteratura e idee tra XVII e XVIII secolo, BUR, Biblioteca
Univ. Rizzoli, Milano, 2012, pp. 438-439. Solo uno dei massimi poli libertini dell’Italia del Seicento come
l’Accademia veneziana degli Incogniti, cui Marin Dall’Angelo era affiliato, poteva dedicarsi ad un tema
eterodosso come la glorificazione del «Niente», che aveva come punto di partenza proprio la teorizzazione
del vuoto ad opera di Democrito. Malgrado il divieto di stampa sul suolo italiano del De rerum natura di
Lucrezio o la messa all’Indice dei Dialoghi di Luciano di Samosata, queste fonti rimanevano tra i principali
veicoli della fisica democritea, continuando a circolare in un ambito eterodosso che, per divulgarle si
affidava molto all’oralità (come attesta la Glorificazione del Niente di Marin Dall’Angelo, che nasce come
discorso). Uno dei motivi per cui secondo la cultura dogmatica, poggiante sulla scolastica, era considerato
eretico parlare del vuoto è che Aristotele, nella Fisica, avversa questa teoria di Democrito. Per Aristotele,
infatti, il vuoto non può essere preso in considerazione in quanto ente immateriale, dato che la filosofia
naturale ha come oggetto solo l'essere in quanto essere. Dunque la filosofia aristotelica giunge al paradosso
di affermare un universo finito pur negando che al di là di esso ci sia il vuoto. Cfr. Il vuoto: un concetto
assurdo, Istituto e Museo di Storia della Scienza, Firenze, http://www.imss.fi.it/vuoto/iorror1.html, ultimo
accesso 25/06/2021.

147
egli stesso la ragione, il riso sommesso, inquietante della follia. Democrito mantiene
anche alla fine di tutte le cose il suo riso, che gli fa riconoscere la vanità del tutto. E non
solo il mondo si mostra si mostra privo di ragione, ma anche il soggetto che vi si riconosce
conforme. […] Democrito arriva alle sue posizioni filosofiche attraverso un’attenta
osservazione della natura, ma proprio questa gli fa riconoscere la nullità dell’essere inteso
in senso atomistico, perché una natura così intesa non ha né senso né significato. […]
Ribera, da pittore, è in grado di mostrare il non-essere di immagine e parola. La differenza
tra filosofo e pittore crea quindi la dimensione in cui può essere istituita la negazione, la
tabula rasa della ragione. Tale dimensione si crea annullando l’immagine stessa in un
punto scelto sapientemente: la carta bianca.483

Sia che esprima follia o che esprima saggezza, o entrambe le cose ad un tempo, il riso di
Democrito, in realtà, non ha niente a che vedere con il personaggio storico. Diogene
Laerzio, nella biografia a lui dedicata, non parla mai di questa sua caratteristica, ma anzi
lo descrive in termini decisamente aulici:

Nel mio Libro di metri di ogni sorta vi è questo epigramma, che composi per lui: «E chi
fu mai così sapiente? Chi portò a compimento un’opera così grande, come quella che
compì Democrito onnisciente? […]. 484

La leggenda del Democrito che ride risale ad un testo anonimo degli inizi del I sec. a.C.,
il cosiddetto Romanzo d’Ippocrate, un corpus di lettere apocrife del famoso medico,
chiamato dai cittadini di Abdera ad esaminare la presunta “pazzia” del filosofo, che li ha
abbandonati andando a vivere fuori le mura della città, per ridere di tutto da una posizione
di sopraelevato distacco.

Ippocrate, la nostra città corre ora un gravissimo pericolo; un nostro concittadino, che
abbiamo sempre creduto che sarebbe stato, nel presente e nel futuro, la gloria della città
[…], è malato per il troppo sapere che possiede, e abbiamo davvero paura che, se
Democrito perderà la ragione la nostra città di Abdera resterà realmente deserta.
Dimentico di tutto, e in primo luogo di se stesso, veglia giorno e notte ridendo di tutto,
delle piccole cose e delle grandi, e pensa che la vita non sia nulla […] E fa ricerche sulle
cose che sono nell’Ade, e le scrive, e dice che l’aria è piena di simulacri ed ascolta le voci
degli uccelli. 485

483
Brandt R., Filosofia della pittura. Da Giorgione a Magritte, Mondadori, Milano 2003, pp. 124-125.

484
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di M. Gigante, Laterza, Bari, 2010, p. 369.

485
Hersant Y (a cura di), Ippocrate. Sul riso e la follia, Sellerio editore, Palermo, 1991, pp. 33-34
148
Quando il medico gli chiede di spiegargli la ragione del suo riso di fronte alle cose della
vita e Democrito risponde:

A me fa ridere l’uomo: è pieno di irragionevolezza e privo di ragionevoli occupazioni;


tutte le sue riflessioni lo portano a delle puerilità. Lo si vede senza alcuna utilità
sopportare pene senza fine; l’esagerazione del suo desiderio lo conduce ai confini della
Terra e in luoghi imprecisati; fa fondere l’oro e l’argento senza smettere di volerli
possedere; non cessa di tormentarsi per possederne sempre di più senza altro fine se non
quello di non averne di meno e non si vergogna affatto di dirsi felice. 486

Ironiche, come il riso che mettono in scena, le epistole pseudo-ippocratiche, come osserva
Yves Hersant, pongono una domanda di grande rilievo: «Chi è pazzo? Il filosofo
solitario? A giudizio di Ippocrate il vero malato è la collettività, ingenuamente ansiosa di
guarire il grand’uomo». 487 Il ghigno che reca sul volto, e che gli Abderiti temono tanto
fortemente,

è proprio l’emblema del suo genio: il marchio della mente più penetrante […] Duemila
anni più tardi, meditando a sua volta sul riso filosofico, o sull’enigma che è il riso per
ogni filosofia degna di questo nome, la stessa metafora guiderà la penna di George
Bataille (L’esperienza interiore, terza parte): «la risata era rivelazione, apriva il fondo
delle cose […]».488

Anche Minois la pensa in maniera simile:

Il riso di Democrito [stando allo pseudo Ippocrate] si applica dunque alla vanità delle
occupazioni e delle inquietudini umane. Ma esso ha un significato più profondo poiché è
anche una critica radicale alla conoscenza, è l’espressione di uno scetticismo assoluto:
nessuno di noi conosce alcunché, non sappiamo neanche se sappiamo o se non sappiamo.
L’uomo esiste senza sapere perché, senza avere la minima idea della verità, si preoccupa,
si crea dei problemi, ha paura e se ne va dopo qualche anno. Non c’è forse di che ridere?
Il riso è saggezza e fare filosofia significa imparare a ridere. L’avventura umana è buffa,
non si può che riderne. Democrito si riallaccia qui al mito della creazione avvenuta con

486
Ivi, pp. 63-64.

487
Ivi, p. 17.

488
Ivi, p. 18.

149
uno scoppio di risate divine. Derisione suprema, che pone il riso all’apice della spiritualità
e della saggezza.489

Lo «scetticismo assoluto» della risata di Democrito, dunque, nel suo significato più
autentico, esprime una vanitas di tipo gnoseologico, restituendoci un mondo «strappato
alla provvidenza e riconsegnato al caso, privato di ogni promessa di eternità fuori da
quella insita nel ciclo perenne di nascita e morte». 490

Comprendere questo significa aver compreso l’atomismo portandolo fino alle sue più
estreme conseguenze. Ma proprio per evitare il rischio della deriva materialista e
nichilista, tale dottrina era stata bollata come eretica fin dai tempi di San Paolo di Tarso
(I sec. d.C.). In un dipinto datato al 1667 (attribuito con delle riserve a Jean- Francois
Courtois) e conservato a Roma presso il Collegio Nazareno, viene appunto illustrato
l’invito rivolto da San Paolo ai filosofi stoici ed epicurei a rinnegare il loro pensiero,

come fece Dionigi l’Areopagita, autore della frase che compare nel cartiglio
poggiato sulle ginocchia del sapiente e che respinge l’ignotus deus, ovvero quella
divinità non rivelata che finiva per identificarsi nella natura «O si distingue Dio
dalla natura o tutta la macchina del mondo si dissolverà». 491

Si tratta di un esempio significativo circa la diffidenza e la condanna del potere religioso


nei confronti dei filosofi, sentiti come «paladini della miscredenza» (con l’eccezione di
Platone e Aristotele, ovviamente). Eppure, nel XVII secolo - malgrado il persistente
tentativo di censura del loro pensiero - nei palazzi romani492, o di altri centri della
penisola, come Genova, Firenze, Venezia e Napoli,

489
Minois, op. cit., p. 62.

490
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 61.

491
Ivi, p. 51.

492
Cfr. Ivi, p. 53: La nascita della pittura filosofica venne teorizzata proprio a Roma, nell’ambiente culturale
barberiniano e si legava a filo doppio alla rappresentazione dei risultati delle più recenti indagini
naturalistiche e storiche avviate dagli intellettuali presso accademie come quella dei Lincei. «A partire dal
primo decennio del secolo il mondo dell’arte cominciò a sembrare indissolubilmente legato a quello della
filosofia». Cfr. Solinas F., La pittura filosofica e la nascita dello «stile Barberini», in Estetica barocca, a
cura di S. Shütze, Campisano, Roma, 2004, pp. 254-61.

150
essi campeggiavano in modo singolare nei quadri che decoravano le stanze di
prelati e cardinali, aristocratici ed eruditi, esponenti di quella stessa gerarchia
politica ed ecclesiastica che ufficialmente biasimava la speculazione filosofica. 493

Data la fertile contraddittorietà di tale contesto storico, di fronte ad una raffigurazione


seicentesca del filosofo di Abdera, dobbiamo sempre porci la questione di come si possa
motivare la sua presenza in una data collezione, in base agli interessi più o meno
eterodossi che vi erano dietro. Per indagare l’iconografia ddei filosofi antichi nella pittura
del Seicento il saggio pubblicato da Oreste Ferrari nel 1986, sulla rivista «Storia
dell’Arte», rappresenta ancora oggi una vera e propria pietra miliare.494 Una delle ragioni
risiede nella visione ad ampio spettro proposta dall’autore, che ha tenuto conto delle fonti
antiche e dei testi filosofici, antiquari e scientifici del Cinque e Seicento, così come delle
tendenze collezionistiche e della storia sociale e culturale di artisti e committenti. 495

Cercando di porci in linea con il metodo interdisciplinare perseguito e auspicato da


Ferrari, cominciamo intanto ad esaminare il grado di circolazione degli scritti di
Democrito. Stando a Diogene Laerzio il numero delle opere di questo filosofo superava
presumibilmente quello dei testi di Platone,

Tuttavia se ne conoscono solo pochi frammenti e l’aneddoto secondo cui Platone avrebbe
voluto bruciare gli scritti di Democrito ricava il suo senso dal fatto che Platone come
autore letterario eclissa le numerose opere non solo di Democrito, ma dei suoi
contemporanei in genere, al punto che esse non hanno nemmeno avuto la fortuna di essere
conservate. 496

Il suo pensiero, pertanto, fu tramandato soprattutto a livello dossografico e in tal senso il


decimo libro de Le Vite dei filosofi di Laerzio costituì un fondamentale punto di
riferimento, per quanto sintetico:

493
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 51.

494
Ferrari O., L’iconografia dei filosofi antichi nella pittura del XVII secolo in Italia, in «Storia dell’Arte»,
37, 1986, pp.103-181.

495
Cfr. I filosofi antichi nell’arte italiana del Seicento. Stile. Iconografia e contesti, Atti del convegno
(Roma, Istituto Storico Austriaco, 20 gennaio 2017), a cura di S. Albl e F. Lofano, Artemide, Roma, 2017,
p. 15.
496
Brandt R., op. cit., p. 80.

151
I punti fondamentali della sua dottrina sono i seguenti: i principi originari dell’universo
sono gli atomi e il vuoto; tutte le altre cose sono mera opinione. I mondi sono infiniti,
soggetti alla generazione e alla corruttibilità. Nulla diviene dal non essere e nulla perisce
nel non essere. Gli atomi sono infiniti per grandezza e per numero; si muovono
vorticosamente nell’universo e generano così tutte le cose composte. […] Tutto accade
secondo necessità; egli chiama necessità il vortice che è la causa della genesi di tutte le
cose. Il fine è la serenità dell’anima (euthymia), che non è identica al piacere (edonè),
come alcuni vollero fraintendere, ma è la condizione costante della calma e dell’equilibrio
dell’anima, non turbata da paura né da superstizioni, né da altro stato passionale. 497

Inoltre, si ricorda che nel medesimo libro viene riportata integralmente anche l’Epistola
a Erodoto, in cui Epicuro compendia la visione atomistica derivata dalla lezione di
Democrito.498

Tra il XV e il XVII secolo, in concomitanza con il recupero umanistico dei testi antichi,
la fonte di Laerzio fu riportata a nuova vita, quando, intorno al 1425, il monaco
camaldolese Ambrogio Traversari compose la prima versione in latino delle Vitae
philosophorum, rendendo così accessibili ad una più vasta cerchia di dotti i principi
democritei ed epicurei. Al 1553 risale l’editio princeps della stessa opera, stampata a
Basilea. Da quel momento in poi, le edizioni e le traduzioni in latino de Le Vitae si
susseguirono numerosissime, fino alle monumentali Animadvertiones in decimum librum
Diogenis Latertii di Pierre Gassendi, pubblicate a Lione nel 1649: il primo tentativo di
ricostruzione globale del pensiero epicureo attraverso un’analisi critica dei testi
originali. 499 Una fonte imprescindibile per quest’opera di Gassendi, e per la diffusione
dell’atomismo più in generale, fu il De rerum natura di Lucrezio, che godeva di una larga
circolazione, malgrado le restrizioni imposte dalla Chiesa. 500 Consapevole, però, che

497
Diogene Laerzio, op. cit., p. 369

498
Ivi, pp. 413-428.

499
Cfr. Alberti A., Sensazione e realtà. Epicuro e Gassendi, Leo S. Olschki editore, Firenze, 1998, p. 5.

500
Anche se il poema sarebbe ufficialmente entrato nell’indice dei libri proibiti solo nel 1718, le autorità
ecclesiastiche, a partire dal sinodo fiorentino del 1517, avevano preso alcuni provvedimenti blandamente
restrittivi, sufficienti tuttavia a impedirne la stampa su territorio italiano tanto che, dopo il notevole successo
editoriale della prima edizione aldina (1500) e di quella di Navagero, tra il 1515 e il 1647, il De rerum
natura conosceva una rinnovata fortuna solo grazie alle edizioni straniere, entrambe commentate e più volte
ristampate, di Denys Lambin (1563-1564) e di Obert van Giffen (1565-1566). Cfr. Beretta M.,
https://www.academia.edu/1442250/Gli_scienziati_e_ledizione_del_De_rerum_natura, ultimo accesso
25/06/2021, p. 181.

152
Lucrezio da solo non era sufficiente a dimostrare la validità dei fondamenti teorici della
fisica democritea ed epicurea, Gassendi si dedicò anche all’indagine delle prove
empiriche fornite dagli esperimenti della scienza a lui contemporanea: nelle sue
Animadvertiones, ad esempio, troviamo un’approfondita appendice dedicata al noto
esperimento di Torricelli sul vuoto501, e un’altra, ancora più lunga, ove si prendono in
esame le recenti teorie sul moto dei corpi, in primis quella di Galileo. Quest’ultimo, nel
1616, esaminò il fondamento matematico della teoria atomica nei Discorsi e
dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, pubblicata a Leida nel 1638.502

In una lettera inviata il 19 giugno 1636 al libertino francese Nicolas-Claude Fabri de


Peirsec, Tommaso Campanella si dice «certissimo ch’il signor Galileo in molte cose,
massime nei principii, è con Democrito […] El fra Paolo [Sarpi] ab antiquo si sa essere
stato demoritico […]». Lo stesso Campanella fu accusato, tra le altre cose, di aver
sostenuto le tesi atee di Democrito. 503

Dunque, al di là dei vincoli imposti dalla cultura ufficiale, nel secolo di Galilei e di
Gassendi – quando l’universo delle precedenti certezze «cadeva ormai in pezzi,
polverizzato in miliardi di atomi»504 - il pensiero democriteo godette di una cassa di
risonanza più ampia di quanto non possa sembrare a prima vista.

Gli arcani misteri del cosmo trovavano la loro spiegazione fuori dalla metafisica, nelle
leggi matematiche e geometriche senza le quali il sapiente avrebbe continuato ad
«aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto», secondo la suggestiva e celebre immagine
evocata dallo scienziato pisano.[…] Accantonata l’illusione di trovare cause prime,

501
Il celeberrimo esperimento dell'argento vivo fu realizzato da Torricelli nella primavera del 1644 a
Firenze. Torricelli riempì di mercurio un tubo di vetro aperto ad una delle estremità. Poi, tenendo serrata
con un dito l'estremità aperta, rovesciò il tubo in una bacinella contenente mercurio. Osservò allora che la
colonna di mercurio scendeva solo parzialmente, fermandosi ad un'altezza di circa 76 cm. Torricelli si
convinse che lo spazio lasciato libero dalla discesa del mercurio nel tubo fosse vuoto e che il sostentamento
della colonna di mercurio dipendesse dalla pressione che l'aria esercitava sul mercurio nella bacinella. In
una lettera a Michelangelo Ricci del 11 giugno 1644, Torricelli sostenne che il suo esperimento provava
due concetti fondamentali: che la natura non aborre il vuoto e che l'aria pesa (contrariamente a quanto
volevano Aristotele e la scolastica). Cfr. L’esperimento barometrico di Torricelli, Istituto e Museo di Storia
della Scienza, Firenze, http://www.imss.fi.it/vuoto/iorror1.html, ultimo accesso 25/06/2021.

502
Per approfondire il rapporto tra Galileo e la sua conoscenza di Democrito si rimanda a Shea W.R.,
Galileo e l’atomismo, in Acta philosophica, vol. 10 (2001), fasc. 2, pp. 257-272,
https://www.actaphilosophica.it/sites/default/files/pdf/shea_2001_2.pdf, ultimo accesso 26/06/2021.

503
Campanella T., Lettere, Olschki, Firenze, 2010, pp. 454-455. Citato da Frascarelli D., L’arte del
dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 64.
504
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 60.

153
perché non esistono o se esistono sono interne alla natura e comunque indifferenti alle
vicende umane, al filosofo non resta che individuare un’etica comportamentale che
consenta il conseguimento di uno stato di benessere. È questo l’obiettivo principale che
cinici, scettici, epicurei e stoici si propongono di raggiungere attraverso la propria
riflessione e con essi anche i libertini e tutti gli intellettuali che nel Seicento assumono il
dubbio come arma con la quale combattere le false certezze e gli inutili dogmi, servendosi
proprio del pensiero antico usato come comodo schermo. Sicuramente, infatti, quando
negli eruditi consessi secenteschi, come l’Accademia reale di Cristina di Svezia, gli
intellettuali dibattevano la difesa dell’antico pensiero epicureo e di quello stoico, non solo
ammettevano implicitamente l’esistenza di molteplici verità possibili, ma giustificavano
con ogni evidenza gli epicurei e gli stoici del proprio tempo. Democrito e il suo
divulgatore Epicuro, Seneca e Diogene nel XVII secolo iniziano a soppiantare Aristotele
e Platone giocando un ruolo primario nella produzione delle Weltanschauungen
moderne. 505

Nel momento in cui la storia delle idee riflette e crea «l’esistenza di molteplici verità
possibili», anche l’arte non può farne a meno e quando si dedica alla figura di Democrito
sfrutta un registro ricco di sfaccettature, in parte frutto della Weltanschauung seicentesca,
ma anche di quelle dei secoli precedenti. Di tale complessità è emblematica la stessa
varietà di tipi iconografici legati all’abderita. Come riassume Brandt, infatti,

Accanto a quello storico e a quello ridente, vi sono tuttavia un terzo e un quarto


Democrito. […] E così abbiamo prima l’atomista e l’etico storicamente identificabile,
quindi, a partire dall’ellenismo, il filosofo che ride in contrasto con L’Eraclito che piange;
in terzo luogo, nel Rinascimento, Democrito diventa il filosofo melanconico, infine, in
modo tragicomico, viene rappresentato letterariamente e figurativamente come un
filosofo ridente e allo stesso tempo melanconico, come Democrito melancholicus
sanguinicus [Democrito visto da solo, che, senza il suo antagonista Eraclito, accoglie in
se entrambi gli opposti]. 506

Per capire come si sia arrivati a parlare del Democrito malinconico o di quello
melancholicus sanguinicus, va fatto un rapido cenno all’antica teoria dei quattro umori
ippocratei, cui a sua volta si lega quella dei quattro temperamenti: ciascuno di essi
(sanguigno, collerico, melanconico e flemmatico) altro non sarebbe se non una forma di

505
Ivi, pp. 60-61. Cfr. Ferrari O., L’iconografia dei filosofi antichi nella pittura del XVII secolo in Italia,
cit., pp.103-181.
506
Brandt R., op. cit., p. 81

154
squilibrio dello stato umorale. 507 Il Romanzo dello Pseudo Ippocrate, non solo inaugura
il tipo del Democrito ridente che sembra aver perso la ragione e che vive ritirato, ma
contiene anche tutti gli indizi per una precisa determinazione del suo temperamento:
sanguigno e melanconico ad un tempo. Nel Rinascimento gli aneddoti dello scritto
apocrifo vennero messi a fuoco soprattutto attraverso la lente del temperamento
malinconico.508 Marsilio Ficino, nella Theologia platonica (1482) scrive: «[…] molti
uomini che eccellono in qualche arte o sono melanconici, come lo erano Eraclito,
Aristotele e Crisippo, o lo diventano comunque, come Democrito». 509 E’ interessante
notare che «qui si prescinde del tutto dall’epiteto di ridente e a Democrito viene assegnato
l’attributo della melanconia pura, laddove Ficino attesta nell’abderita una melanconia
acquisita, non innata, frutto della sua immensa erudizione». 510 Nel De vita triplici (1489)
Ficino, servendosi delle auctoritates di Aristotele e Platone, aggiunge poi un ulteriore
tassello alla glorificazione della melanconia in senso umanistico e riserva proprio a
Democrito un ruolo di primo piano:

Così Aristotele nei suoi Problemata: “tutti gli uomini che eccellono in qualsivoglia campo
sono malinconici” e conferma così Platone, che scrive nel suo De scientia: “gli uomini
d’ingegno sono in preda al furore”. Anche Democrito dice che “non possono essere
uomini di grande ingegno quelli che non sono scossi dal furore. Anche il nostro Platone,

507
Per capire meglio il riferimento alla teoria dei temperamenti, sarà utile riportare il compendio che ne fa
Brandt – riallacciandosi all’ormai classica pubblicazione di, R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e
la melanconia. Studi di Storia della filosofia naturale, religione e arte (Einaudi, Torino, 1983): «Il classico
schema tetradico dei temperamenti – sanguigno, collerico, melanconico e flemmatico – si sviluppa per la
prima volta nell’ambito della fisiologia medica, in particolare della fisiologia umorale [di Ippocrate]. I
quattro umori relativi constano di volta in volta di una mescolanza di caldo/ freddo e di umido/secco, quindi
assumono la loro quadruplice configurazione attraverso un semplice abbinamento degli stati naturali
fondamentali. Le due coppie complementari di caldo e freddo e di umido e secco costituiscono già i quattro
elementi, aria, fuoco, acqua e terra, che si possono quindi facilmente correlare ai temperamenti. Il
temperamento sanguigno ha un’affinità con l’aria calda-umida, il collerico con il fuoco caldo-secco, il
malinconico con la terra fredda-secca e il flemmatico con l’acqua fredda-umida. A queste solide basi dei
temperamenti corporei, e in chiara dipendenza da esse, fa seguito una corrispondente strutturazione di
fenomeni psicologici. I quattro liquidi corporei che determinano i relativi temperamenti sono in primo luogo
il sangue, quindi la bile, l’atrabile e il flegma. […] I quattro componenti possono agire in modo equilibrato
l’uno accanto all’altro e l’uno con l’altro; si può però anche giungere al predominio di uno dei quattro
umori. Allora decade l’equilibrio della mescolanza e viene a formarsi il tipo sanguigno, collerico,
melanconico e flemmatico» (Brandt R., op. cit., pp. 103-104).

508
Ivi, p. 108.

509
Citato da Brandt R., op. cit., pp. 108 -109.

510
Ivi, p. 109.

155
nel Fedro, è d’accordo, quando dice che “invano si bussa alle porte della poesia se non
c’è furore”.511

Come osserva Erwin Panofsky,

I neoplatonici fiorentini avvertirono presto che questa dottrina aristotelica forniva una
base scientifica alla teoria platonica del furore divino […] Così l’espressione furor
melancholicus divenne sinonimo di furor divinus. Quella che era stata una calamità, e
nella sua forma più attenuata uno svantaggio, diviene un privilegio ancora pericoloso ma
tanto più esaltato: il privilegio del genio […]. 512

Il De vita triplici di Ficino, pertanto, si pone alla base di quella tradizione che considera
la malinconia come lo stato naturale dell’artista:

Michelangelo scrive: «la mia allegrezza è la malinconia/ E il mio riposo son questi
disagi»; mentre nella Scuola di Atene Raffaello ritrae proprio Michelangelo in veste di
Eraclito, nella posa della Malinconia.513

A metà strada tra l’Eraclito della Scuola di Atene, e il Democrito di Ribera si colloca il
Democrito in meditazione di Salvator Rosa [fig. 23], un’incisione datata al 1662, di cui
possiamo appezzare le versioni conservate nel Museum of Fine Arts di Boston e presso
l’Istituto della Grafica a Roma (tra le altre).

In questa insolita rappresentazione della vanitas, ad opera di uno dei più singolari artisti
italiani del XVII secolo, il filosofo di Abdera

è immerso nei suoi pensieri; tutt’intorno scheletri e carcasse di animali, sepolcri e lapidi.
[…] Democrito medita nel tipico atteggiamento del melanconico, reso familiare dalla
Melancholia I di Dürer, ma anche dalla figura presente in primo piano nella Scuola di
Atene di Raffaello. Il motto dell’incisione, inserito in basso a sinistra, dice: «Democritus
omnium derisor/in omnium fine defigitur». […]514

511
Centanni M., Appendice/ Lettura di Marsilio Ficino, in «Engramma», 144-146, 2017, pp. 42-47.

512
Panosfky E., Saxl F, R. Klibansky, Saturn and Melancholy, London, 1964. Citato da Calvesi M., A
noir (Melencolia I), in «Storia dell’Arte», 1/2, 1969, p. 38.

513
Papa R., Dürer, in «Art e Dossier» n.231, Giunti, Firenze, 1998, p. 36.

514
Brandt R., op. cit., p. 119.

156
Nel suo studio sul motivo di Democrito-Eraclito, Werner Weisbach scrive che Rosa
presenta «scena del tutto insolita»:

Il filosofo che ride si mostra qui come un uomo in lutto, a cui la vista della caducità e
della vanità di tutte le cose terrene fa passare ogni voglia di canzonare, quindi gioca
impropriamente un ruolo che è di solito riservato a Eraclito. Un’ autentica invenzione
barocca, che nasce per amore di un concetto arguto e cavilloso, di un effetto finale
sbalorditivo, e in modo assai caratteristico per l’indole di Salvator Rosa […] maniaca
dell’innovazione, indagatrice dell’anomalo.515

Anche Richard W. Wallace, nella sua fondamentale opera sul pittore napoletano,
condivide l’idea di Weisbach:

[il pittore] ha rovesciato l’interpretazione tradizionale di Democrito come il filosofo che


ride e l’ha trasformato in un Eraclito piangente, che siede sopraffatto dal dolore e dalla
disperazione di fronte alla futilità e alla vanità di tutte le cose. 516

In realtà, come osserva Brandt, invitandoci a guardare più attentamente l’incisione, è


evidente il contrario: Democrito ride, o quanto meno sogghigna. Considerando poi che le
linee decisive della rappresentazione partono a ventaglio dall’iscrizione, passa ad
analizzare quest’ultima, offrendoci altri spunti molto illuminanti:

«Defigere» significa: fermare, fissare, rendere immobile; «defigi»: essere rigido, privo di
moto. Una possibile traduzione (ricavata da Wallace) suona: «Democrito, il derisore di
tutte le cose, è pietrificato dalla fine di tutte le cose». […] il «defigitur» non vuol dire
necessariamente che Democrito sia immobilizzato nella scena di morte dallo sgomento o
dal lutto, ma può anche significare che egli venga immortalato dal pittore, in questa
immagine, presso la fine di tutte le cose. Con il «defigere» l’incisione si riferisce, per così
dire, a sé stessa.517

Il che permette di non entrare in contraddizione con un Democrito che ride, anche se in
maniera diversa rispetto a quando è contrapposto ad Eraclito:

515
Weisbach, Der sogennante Geograph von Velasquez und die Darstellungen des Demokrit und Heraklit,
in «Jahrbuch der preußischen Kunstammlunghen», 49, 1928, pp. 141-158, qui p. 150. Citato da Brandt R.,
op. cit., p.120.

516
Wallace R.W., The Etchings of Salvator Rosa, Princeton 1979, pp. 60-69, qui p. 61. Citato da Brandt
R., op. cit., p.120.
517
Brandt R., op. cit, p. 121.

157
Qui è immerso in un rimuginare malinconico; il gestus melancholicus è evidente e non
richiede ulteriori dimostrazioni. Qui dunque Democrito è rappresentato come
melanconico ridente, ossia sanguigno. […] Al tempo di Salvator Rosa era conosciuta
anche in Italia la corposa monografia di Robert Burton, The Anatomy of Melancholy
(prima edizione 1621). Nella Prefazione, dal titolo “Democritus Junior to the Reader”,
egli parla in primo luogo della grande erudizione dell’abderita, il quale di natura molto
malinconica, viveva ritirato, «tranne per il fatto che a volte si spingeva fino al porto
ridendo di cuore davanti alla grande varietà di ridicoli soggetti che vi vedeva». […] In
Salvator Rosa, però, non è l’agitarsi degli uomini che induce Democrito […] a ridere,
bensì la fugacità della natura vivente. 518

La scena rappresentata nell’incisione, dunque, riprende solo superficialmente la


tipizzazione del melancholicus sanguinicus tratteggiata nel The Anatomy of Melancholy,
anche perché in questo saggio (opera di un pastore anglicano) compare un’idea
completamente negativa del temperamento melanconico. Burton parte dall’assunto
ficiniano secondo cui un simile temperamento «scaccia la fiducia nella vita e instilla il
dubbio»:519dal dubbio alla miscredenza e all’ateismo il passo è breve per

quegli empi degli epicurei, dei libertini, degli atei, degli ipocriti, degli infedeli, gli spiriti
carnali, gli indifferenti, nonché gli impertinenti, gli ingrati e tutti quelli che
eccessivamente attratti dalle cose del mondo, i quali riconducono tutto a cause naturali e
non ammettono alcuna forma di potere trascendente. 520

Rosa, che molto probabilmente intendeva identificarsi nel filosofo della sua incisione 521,
contrariamente a Burton ne riconosce il genio anziché l’insania, caratterizzandolo con

518
Ivi, p. 122.

519
E’ evidente che Burton si ricolleghi alla Theologia platonica di Ficino, in cui l’umanista, dopo aver
sottolineato il collegamento esistente tra gli uomini eccellenti e il temperamento melanconico, prosegue
dicendo «L’umore malinconico è freddo, secco e scuro; si tratta di tre qualità opposte a quelle in cui consiste
il vigore vitale, ossia contrarie al calore, all’umidità e alla trasparenza. Un umore di questo tipo, essendo il
contrario della forza vitale, scaccia la fiducia nella vita e instilla il dubbio (che è il nemico della vita)
nell’anima razionale. E’ per questo che talvolta i malinconici sono preda del dubbio e mostrano di non
credere nell’immortalità dell’anima. […] Essi dubitano non perché siano eccezionalmente intelligenti o
colti, ma perché l’umore fisico in loro prevalente li rende dubbiosi e incerti». Citato da Frascarelli D., L’arte
del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 64.

520
Burton R, Anatomy of Melancholy, a cura di J.B. Bamborough, Clarendon Press, Oxford, 1989, VI, p.
261. Citato da Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 63.

521
Una delle ragioni che mi spinge a credere che Rosa voglia mettersi nei panni del suo Democrito è la sua
adesione allo stoicismo, infatti, come vedremo, sarà proprio Seneca, nel De tranuillitate animi, a proporre
il modello democriteo in senso etico, in quanto «è più degno di un uomo ridere della vita che piangerne».
Ma riprendere pedissequamente Seneca avrebbe voluto dire contrapporre Democrito ad Eraclito, invece,
nell’incisione sembra confluire la loro comune scelta di isolarsi dalla collettività e dal sentire comune, da
158
quel misto di saggezza e follia che emerge già dalla prima attestazione del Democrito
ridente, ossia dalle sopracitate lettere pseudoippocratiche (fonte alla quale si era rifatto
anche Burton, stravolgendone e strumentalizzandone il senso).522

L’esempio del Democrito in meditazione di Salvator Rosa, dunque, ci consente


immediatamente di apprezzare, in un sol colpo, la polisemia del riso democriteo, che non
ha nulla di ovvio, specialmente quando è legato al tema della vanitas, come vuole la
tradizione seicentesca.

Questa vide l’exploit di un soggetto sicuramente più diffuso del Democrito melancholicus
sanguinicus, ma che non è certo meno ambivalente: la coppia formata dal Democrito che
ride e dall’Eraclito che piange: 523

Noi, lettori o osservatori di Democrito che ride, siamo invitati a scrutare con lui dal palco
della riflessione le vicende che si svolgono sulla scena della vita e a ridere della nullità e
della follia degli intenti e delle azioni umane. Diversamente Eraclito: il suo pianto non
rimane distante dalla massa, ma lo coinvolge nella miseria che tutti possono provare. 524

cui anche il pictor philosophus (celebre autore di satire) dichiara, a più riprese, di volersi estraniare, in un
atteggiamento di superiore distacco. Si pensi ad esempio alla celebre Fortuna (1659) del pittore napoletano,
oggi conservata presso il Getty Museum, una vera e propria satira in forma pittorica, che ricalca quella in
forma scritta in cui lo stesso Rosa sostiene che «de’ poltroni è amica la Fortuna». La dea, infatti, viene
rappresentata nell’atto di rovesciare da una cornucopia i suoi doni su animali indegni, che – in linea con il
celebre volume Della fisionomia dell’uomo del partenopeo Giovan Battista della Porta – sono trattati come
personificazioni dei vizi umani e significativamente accostati alle insegne del potere. Del resto, l’artista
esplicita la sua visione profondamente scettica quando, nel componimento poetico Il Tirreno sostiene: «Ha
l’ignoranza vil secol beato/ e ascesa omai de l’universo al soglio, / tien sotto i piedi e la Fortuna e ‘l Fato».
Un simile ricorso all’immagine della Fortuna ammette implicitamente anche il crollo nella fede della
provvidenza, di fronte al quale l’insegnamento degli antichi filosofi rappresenta una via alternativa da
seguire. Cfr. Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., pp. 93-
95.

522
Cfr. Brandt R., op. cit, pp, 116; 122. Nel medesimo saggio, a p. 107, Brandt premette che «la
collocazione proprio di Democrito come melanconico e melanconico sanguigno […] se non esplicitamente
espressa, certo è stata preparata dallo scritto pseudoippocratico».
523
Per approfondire il legame tra il riso democriteo e la vanitas vedi Blankert A. Heraclitus en Democritus,
in «Netherlands Quarterly for the History of Art», vol. I, n. 3, 1966 - 1967, pp. 128-135. Cfr. Maffei S., E’
facile la censura implacabile del riso: linee della fortuna del topos di Eraclito che piange e Democrito che
ride fino al XVIII secolo, in Fornari G. (a cura di), Eraclito: la luce dell’oscuro, Leo S. Olschki, Firenze,
2012, pp. 189-221. Dal confronto tra questi due studi vale la pena citare almeno un esempio particolarmente
significativo: una delle prime nature morte apparse in Europa sul tema della vanitas, la notissima tela di
Jacques de Gheyn (già menzionata nel primo capitolo), sopra un teschio che domina l’immagina, raffigura
proprio Eraclito e Democrito che contemplano un mondo rappresentato come una bolla, simbolo per
eccellenza dell’effimero. Tuttavia, la prima testimonianza che abbiamo nella storia dell’arte dei due filosofi
ritratti insieme con le rispettive caratterizzazioni risale ad un perduto dipinto commissionato da Marsilio
Ficino, di cui egli stesso ci dà testimonianza nell’ Epistolarium (1495), come vedremo più avanti.
524
Cfr. Brandt R., op. cit, p. 83.™

159
La contrapposizione rappresentata da Democritus ridens et Heraclitus flens risale al I sec.
d.C. ed in effetti sono due brani di Seneca, tratti da De Ira e dal De tranquillitate animi i
primi e più ampi riferimenti al tema.

Nel primo leggiamo:

Eraclito, ogni volta che usciva di casa e si vedeva attorno tanti individui che vivevano
male, anzi morivano male, piangeva ed aveva compassione di quanti gli si facevano
incontro contenti e felici: era d’animo mite, ma troppo debole, era degno anche lui di
compianto. Dicono invece che Democrito non sia mai comparso in pubblico senza
scoppiare a ridere: fino a questo punto non gli pareva serio nulla di ciò che era stato fatto
sul serio. C’è posto per l’ira, in questa situazione in cui tutto è da ridere o da piangere? 525

Il secondo brano indica ancor più chiaramente la preferenza accordata a Democrito, alla
luce di una comune scelta etica che mette in primo piano l’euthymia (la buona
disposizione dell’animo) e il distacco dal mondo necessario a raggiungerla, di cui il riso
è un indice evidente:

A questo dunque dobbiamo sforzarci di aspirare: a trovare i vizi dei comuni mortali non
odiosi ma ridicoli e ad imitare piuttosto Democrito che Eraclito. Costui infatti, ogni volta
che appariva in pubblico piangeva, quello invece rideva, a costui tutto ciò che facciamo
sembravano disgrazie, a quello sciocchezze. Occorre dunque saper sdrammatizzare ogni
cosa e sopportarla con animo indulgente: è più degno di un uomo ridere della vita che
piangerne. 526

Il confronto tra riso e pianto, nell’efficacia della sua valenza simbolica, è adattissimo al
tenore moraleggiante delle satire e non è un caso che si ritrovi anche in Giovenale. Lo
scrittore condivide con Seneca una chiara propensione per il riso di Democrito e giocando
sul valore allegorico congela le rispettive condizioni dei due filosofi in un continuum
senza fine, come le maschere della commedia e della tragedia: «è facile la censura
implacabile del riso, c’è invece da chiedersi da dove l’altro trarrà sufficienti lacrime per
gli occhi». 527 Nella graffiante visione delle Saturae il topos diviene naturale strumento

525
Seneca, De ira, II, 10,5.

526
Seneca, De tranquillitate animi, 15, 2-6.

527
Giovenale, Saturae X, 31-32.

160
per un’inesorabile critica sociale, un metro per misurare il proprio tempo e per mettere in
rilievo le sue follie:

Un perpetuo riso scoteva il petto di Democrito, sebbene nelle città dei suoi tempi non vi
fossero toghe preteste e trabeate, fasci, lettighe e tribunali. Che avrebbe fatto se avesse
visto un pretore ergersi impettito in mezzo alla polvere del Circo in cima a un cocchio,
con la tunica di Giove, una toga purpurea sulle spalle ampia come un sipario, e una corona
enorme, di tale circonferenza che non c’è testa in grado di riempirla? 528

Fin dalle prime fonti letterarie, dunque, il paragone tra Democrito ed Eraclito presenta
una duplice valenza: da un lato l’ossimoro riso/pianto riguarda la vita umana nel suo
complesso, in senso universalistico, dall’altro assume un tono polemico che si scaglia in
particolare contro il sentire del volgo. 529 Un’altra importante caratteristica strutturale del
topos è che il riso e il pianto sono dati per scontati: non sono mai spiegati in relazione al
pensiero dei due filosofi, non vi è traccia di ambientazione né di dati di corredo, ed infine
il ruolo di Eraclito appare fin dall’inizio accessorio rispetto a quello di Democrito.

Unica eccezione a questo schema, che costituirà una costante anche in epoche successive,
è rappresentata da Luciano di Samosata (I sec. d.C.). In una delle sue operette più
divertenti, la Vitarum auctio (anche nota come Una vendita di vite all’Incanto), Luciano
immagina che Zeus ed Hermes improvvisino una vendita all’asta di filosofi. Così accade
che uno scrupoloso acquirente chieda di interrogare ad uno ad uno i sapienti delle diverse
scuole, per valutare l’opportunità di un acquisto vantaggioso. Dopo aver parlato con
Pitagora e Diogene, l’uomo viene invitato da Hermes a osservare una nuova merce
d’eccezione: «i due migliori filosofi, i due pensatori più saggi di tutti», che colpiscono
immediatamente il compratore per i loro opposti atteggiamenti: Democrito non smette di
ridere ed Eraclito non fa che piangere. Democrito spiega il suo comportamento, dicendo
che non c’è «nulla di serio nei problemi dell’uomo, tutto è vuoto e movimento e infinità
di atomi». Eraclito invece risponde in modo assai più complesso:

O straniero, io penso che tutte le faccende umane siano tristi e deplorevoli e nessuna si
sottrae alla morte. Per questo sento pietà per voi uomini e piango. Il presente non è una
gran cosa e il loro futuro è certo peggiore (mi riferisco alla grande conflagrazione e al
collasso dell’universo; per questo io piango, perché nulla è stabile, ma tutte le cose sono

528
Ivi, 33-40.

529
Cfr. Brandt R., op. cit., p. 84.

161
unite insieme in una specie di miscuglio e tutto, gioia e pianto, sapienza e insipienza,
grande e piccolo sono lo stesso; girano senza tregua su e giù nel gioco del tempo
circolare. 530

In Luciano, dunque, la teoria di Eraclito diviene lo strumento per spiegare il nesso


inscindibile che lo lega a Democrito. Il riso e il pianto qui funzionano come una delle
coppie oppositive in cui si manifesta il tutto: sono reali manifestazioni del continuo
rivolgimento delle cose, e al tempo stesso entità prive di consistenza. 531 Non lascia dubbi
su questo la chiusura del brano, nella quale, in una visione cara al cinico Menippo,
protagonista dei suoi dialoghi, Luciano rivela come entrambi i personaggi siano
completamente inutili all’umanità. 532 Al di là dei giochi retorici della satira menippea, il
brano di Luciano ha il merito di spiegare il topos gettando un ponte tra questo e i
riferimenti interni alla filosofia: il riso di Democrito viene ricondotto al suo pensiero
materialista e il pianto di Eraclito è presentato come il frutto di un pensiero che vede ogni
cosa destinata a perire e che ovunque applica la tensione e l’uguaglianza degli opposti,
riducendo tutto al «panta rhei». La consapevolezza che le due teorie portino allo stesso
nichilismo è resa esplicita dallo svolgersi della vicenda. Infatti il compratore rifiuta
entrambi i pensatori dicendo che uno è folle e vuoto, come il vuoto che proclama, e che
l’altro è malato di melanconia. 533

In una delle operette cinquecentesche più interessanti dedicata al tema, l’Opera nuova del
magnifico cavaliero Messer Antonio Philermo Fregoso qul tratta de doi Philosophi cioè
di Democrito che rideva le pazie di questo mondo e Heraclito che piangeva le miserie
humane, edita a Venezia nel 1506, Fregoso adatta le caratteristiche dei due filosofi al
modello letterario di Prodico di Ceo (V sec. a.C.), nel quale si racconta la scelta di Ercole

530
Luciano di Samosata, Vitarum auctio, 14.

531
Cfr. Maffei S., op. cit., p. 193.

532
Cfr. Luciano di Samosata, Filosofi in vendita, a cura di A. Iannucci, Patron Editore, Bologna, 2020, p.
43: «Una famosa pagina di Leopardi dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815),opera da cui
emerge un’approfondita conoscenza dei dialoghi di Luciano, sembra quasi una sintesi […] della
complessiva visione satirica lucianea della filosofia in età imperiale: “La filosofia degli antichi era la
scienza delle contese; le scuole pubbliche che essi avevano, erano le sedi della confusione e del disordine.
Aristotele condannava ciò che Platone gli aveva insegnato. Socrate si ridea di Antistene, e Zenone
scandolezzava di Epicuro. Pitagorici, Platonici, Peripatetici, Stoici, Cinici, Epicurei, Scettici, Cirenaici,
Megarici, Eclettici, si accapigliavano, si facevano beffe gli uni degli altri, mentre qualche vero saggio si
rideva di tutti”».
533
Luciano di Samosata, Vitarum auctio, 13-14.

162
al bivio, indeciso se seguire la strada della virtù o quella del piacere. I due filosofi allora
vanno ad esemplificare le due diverse strade che ogni uomo può scegliere: da un lato il
riso lucido e irriverente verso le follie, dall’altro la compartecipazione per le miserie
umane. 534

Un’interessante allusione di Rabelais, nel Gargantua e Pantagruele (1534), a «Democrito


eracliteggiante ed Eraclito democriteggiante»535 - andando oltre il gioco di parole (riferito
a due personaggi che di fronte a situazioni ridicole ridono fino alle lacrime) – si presta ad
indicare come al “bivio” indicato da Fregoso soggiaccia, in realtà, la medesima
constatazione dei due filosofi, ovvero che la vita umana, di per sé, è priva di senso, dunque
si può riderne quanto piangerne.

Abbiamo già visto come il riso di Rabelais fosse in fondo il riso ateo di chi non crede in
nulla, dunque facilmente accostabile a quello del Democrito nichilista. Ma l’immagine
ridente dell’abderita non avrebbe potuto godere di una così larga circolazione artistica e
letteraria, in epoca moderna, se non si fosse trovato il modo di farla convivere col
cristianesimo imperante.

Lo stesso tema del riso era delicato, non essendo stato ancora completamente rischiarato
dalle tenebre dell’avversione medievale nei suoi confronti (come abbiamo potuto
precedentemente constatare a proposito del processo di civilizzazione e disciplinamento
sociale attuatosi a partire dal XVI secolo). Nella fattispecie del presente caso di studio
sul topos di Eraclito e Democrito, alcuni testi, come il trecentesco Fulgentius Metaforalis
di John Ridewall, pongono particolare attenzione sui valori evangelici del pianto di
Eraclito e condannano le «indecenti risate» di Democrito, inadatte a un cristiano che
debba sottoporsi al «terribile tribunale di Cristo».536

Solo lentamente le porte della Chiesa si aprirono al Democrito che ride. La svolta a suo
favore, in Italia, si mosse sul terreno della critica sociale, a partire da Petrarca. Ne Le
familiari (un corpus di lettere composte tra il 1325 e il 1361) egli scrive che se Democrito

534
Maffei S., op. cit., p. 194.

535
Cfr. Rabelais F., Gargantua et Pantagruele (1534), trad. it. a cura di G. Passini e illustrazioni di Gustave
Doré, Formiggini, Roma, 1925,
https://www.liberliber.it/mediateca/libri/r/rabelais/gargantua_e_pantagruele/pdf/rabelais_gargantua_e_pa
ntagruele.pdf, ultimo accesso 26/06/2021.
536
Ridewall J., Fulgentius metaforalis, a cura di H. Liebeschütz, Studien der Bibliothek Warburg, Leipzig-
Berlin, 1926. Citato da Maffei S., op. cit., p. 198.

163
avesse potuto vedere la condotta di vita degli uomini del Trecento non avrebbe potuto
fare a meno di confessare che il suo riso era più adatto ai tempi antichi, tanto erano ridicoli
e fatui i comportamenti sia dei giovani che dei vecchi. 537

Gli umanisti ripresero il motivo petrarchesco e a Firenze il tema venne ad incarnare il


disprezzo umanistico contro le masse, in rapporto con le idee pedagogiche e con le istanze
politiche che vedevano la trasformazione della città da repubblica a principato. Ficino,
infatti, nell’ Epistolarium (1495), legge la contrapposizione tra i due filosofi in questi
termini:

Voi havete ne la mia schuola veduta depinta la sfera del mondo, e da una banda
Democrito, da l’altra Heraclito; uno de’ quali ride l’altro piange. Di che ride egli
Democrito? E di che piange Heraclito? Si ridono, e piangono del vulgo, animale
mostruoso, sciocco, e miserabile.

Ancor più della graffiante reazione alla massa, però, fu soprattutto l’interpretazione in
chiave cristiana del filosofo atomista, per quanto forzata, a produrre esiti interessanti per
la sua attualizzazione, a partire da Erasmo, che nell’Elogio della follia (1511) dichiara di
comportarsi come Democrito quando «tratta come riso le umane vicende».538 La famosa
edizione degli Emblemata di Alciato539 con il commento di Claude Mignault (pubblicata
nel 1621) costituì una fonte importante sui possibili significati del riso democriteo,
offrendo ampi riferimenti che vanno da Seneca ai padri della Chiesa. 540 Nel filone di
questa rilettura etico-religiosa, però, l’episodio più significativo è certamente l’opera di
Pierre de Besse, uno dei predicatori più famosi in Francia tra la fine del Cinquecento e il
primo Seicento, che nel proemio del suo Démocrite chrétien (1615), elogia il riso come
un punto di forza e una virtù:

Se [Democrito] ride non pensare per questo che si stia prendendo gioco di qualcuno,
perché ridendo, egli dice la verità, e pur schernendo, è comunque saggio. […]
Abbandonarsi alle lacrime significa mostrare una debolezza di cuore e diffidare del

537
Petrarca F., Le Familiari, edizione critica a cura di Vittorio Rossi, Sansoni; Firenze, 1926, vol. II, XI,
p. 349. Citato da Brandt R., op. cit., p. 89.

538
Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, a cura di E. Garin, Milano, Serra e Riva, 1984, Epistola
dedicatoria a Thomas More. Cfr. Maffei S., op. cit., p. 198.

539
L’edizione originale degli Emblemata di Alciato è del 1531.

540
Cfr. Maffei S., op. cit., p. 197.

164
proprio coraggio. Ma ridere e prendersi gioco delle afflizioni significa invece sfidare le
vanità del mondo, mostrare di essere virtuosi e di essere uomini. 541

Quando De Besse sostiene che attraverso il riso si possa mostrare «di essere virtuosi e di
essere uomini» sta evidentemente pensando al suddetto brano del De tranquillitate animi
di Seneca.

Sarà proprio quest’ultima fonte, infatti, una delle maggiori ragioni del successo
seicentesco dell’iconografia di Democrito ed Eraclito, sancendo la possibilità di
interpretarla alla luce di una saggezza antica considerata ancora più che valida, con o
senza le interpolazioni del Démocrite chrétien di De Besse.

Infatti, Giusto Lipsio, il filosofo fiammingo da cui prese le mosse la fertile corrente del
neostoicismo seicentesco, nel De vita et scriptis Senecae (1605),

aveva formulato un’interpretazione immanentistica e naturalistica dello stoicismo


romano, e nell’estremo tentativo di conciliare il pensiero antico con quello cristiano
giunse a fornire paradossalmente una sorta di “cristianesimo senza Cristo”. D’altro canto,
il filosofo fiammingo aveva negato l’autenticità del testo su cui si basava l’interpretazione
dello stoicismo romano in chiave cristiana, ovvero il carteggio tra Seneca e Paolo, e aveva
rivendicato la necessità di leggere direttamente le fonti antiche, liberate dai commenti
posteriori.542

Rubens era un diretto seguace di Lipsio 543, tanto che nella sua libreria possedeva anche
l’Opera omnia di Seneca curata da quest’ultimo.544 Sulla scorta di questa ed altre letture,
egli cominciò a rivolgersi al soggetto di Eraclito e Democrito fin dal 1603:

541
De Besse P., Démocrite chrétien, Paris, 1615. Citato da Minois G., op. cit., p. 463.

542
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 77. Sul rapporto
tra stoicismo e cristianesimo nella speculazione di Giusto Lipsio si veda anche Buzzi F., La filosofia di
Seneca nel pensiero cristiano di Giusto Lipsio, in «Aevum Antiquum», 13, 2000, pp. 365-391.

543
Un interessante prova del rapporto intercorso tra Rubens, il fratello Philip e il filosofo fiammingo è il
dipinto I quattro filosofi, databile al 1611-1612, e attualmente conservato nella Galleria Palatina di Palazzo
Pitti. Il quadro fu probabilmente eseguito per ricordare non solo il recente soggiorno romano (evocato nella
veduta con rovine antiche sullo sfondo), ma anche e soprattutto il fratello da poco defunto, nonché il
mentore di entrambi, Giusto Lipsio, scomparso già nel 1606; questi ultimi vengono raffigurati seduti ad un
tavolo assieme all’umanista Jan Woverius. L’opera offre altresì uno dei pochi autoritratti dell’artista, il
quale si ritrae stante e in disparte rispetto ai veri protagonisti della scena. Cfr. AA.VV., Il Corridoio
vasariano agli Uffizi, Banca Toscana, Firenze, 2002, p.101.

544
Cfr. Frascarelli D., Rubens, l’antico e l’Italia dei filosofi, in Rubens e la cultura italiana. 1600-1608, a
cura di R. Morselli e C. Paolini, Viella, Roma, 2020, pp. 199-201: «Dalle ricerche di Prosper Arents volte
a ricostruire la raccolta libraria di Rubens e a individuare le sue letture, emerge lo straordinario interesse
nutrito per l’Antichità confermato sia dai volumi posseduti, sia dai carteggi. Tra gli scaffai della sua libreria
165
La rappresentazione pittorica di tale iconografia, sostanzialmente inedita fino a quel
momento, se si esclude l’affresco di Bramante eseguito per casa Panigarola, ora a Brera,
e un perduto dipinto quattrocentesco commissionato da Marsilio Ficino, trova la sua
motivazione non solo nell’interesse nutrito da Rubens per i filosofi antichi […] ma anche
nell’adesione al neostoicismo. 545

Tanto la prima quanto la seconda edizione del tema rispondevano ad una committenza
spagnola e agli incarichi diplomatici del pittore: quella del 1603, dall’impostazione
piuttosto canonica, era un dono per il duca di Lerma; mentre quella del 1636-1638, entrò
nella serie di quadri realizzati per il casino di caccia di Filippo IV, la Torre de la Parada.
L’inventario settecentesco di quella collezione descrive due tele appaiate da comporre
come fossero pendants, ed è così infatti che sono attualmente esposte al Museo del Prado
di Madrid [fig. 24]. Due tele per due filosofi dalle opposte personalità, che ne stanno
seduti, alla medesima altezza, su una panchina di pietra; lo sfondo è più chiaro per
l’oscuro Eraclito, e, viceversa, è buio per Democrito, cosicché egli possa risaltare
maggiormente.

Là l’uomo infelice ripiegato su stesso, qui il filosofo che ride rivolto al mondo, che se ne
sta seduto tranquillamente; là il saio scuro con un cappuccio tirato sulla testa, qui
l’elegante veste rosso chiaro, con un ricco e maestoso drappeggio, che lascia il capo
scoperto; Eraclito tiene le gambe timidamente incrociate e i piedi accavallati, Democrito
invece sembra sul punto di andare, quasi volesse procedere verso lo spettatore. […] E’
chiaro come Rubens abbia trattato il motivo dei due filosofi: essi sono due atteggiamenti
non più riferiti all’unico soggetto comune della miseria e della follia degli uomini, poiché
Eraclito si è defilato dal mondo. Egli si occupa soltanto di sé e delle proprie angosce, il
suo lutto non ha u fondamento, perché egli non può far presa sul mondo; non si rivolge al
alcun oggetto presente, bensì ad un’antica ferita o a un cruccio senza tempo […]. Così
sembra che Rubens faccia la caricatura di Eraclito. In lui Rubens concentra, così

predominavano nettamente i testi scritti dagli autori antichi e quelli dedicati alla storia greco-romana. Era
presente l’Opera omnia di Cicerone, nell’edizione pubblicata ad Amburgo nel 1618; le Commedie di
Plauto, le Metamorfosi di Apuleio e l’opera completa di Plutarco; le Historiae di Erodoto; gli Aforismi di
Ippocrate, varie edizioni del De rerum natura di Lucrezio e l’opera completa di Luciano. Tra i libri
pubblicati ad Anversa prima del viaggio in Italia è significativo segnalare il De vita et moribus
philosophorum di Diogene Laerzio stampato da Christophorus Plantin nel 1566 […]. I libri confermano
che era il pensiero neostoico ad essere al centro degli interessi filosofici e culturali di Rubens. Erano
numerosi, infatti, i testi di Seneca, in particolare le edizioni emendate da Giusto Lipsius del quale il pittore
possedeva molti volumi […]».
545
Frascarelli D., Rubens, l’antico e l’Italia dei filosofi, cit., p. 203.

166
potremmo interpretare, la vita monastica che, afflitta, sprofonda in se stessa e non vuole
più avere niente a che fare con questo mondo. 546

Fin dal tardo Medioevo, nella tradizione figurativa dell’Eraclito piangente e del
Democrito ridente entrambi si riferiscono al mondo visto come globo, ma, come rileva
Brandt, Rubens rompe con questa unità figurativa per introdurre una novità pregna di
significato, raffigurando il globo non più al centro tra i due, ma in grembo a Democrito:

solo Democrito ha una relazione con il mondo, mentre Eraclito regredisce in se stesso.
Eraclito lascia letteralmente il mondo dietro di sé: infatti alle sue spalle si può vedere,
attraverso un varco nella roccia, un cielo serale o notturno. Il «redire in se ipsum»
decantato da Agostino viene qui denunciato: l’uomo, e qui Rubens si contrappone alla
regressione monacale nell’autoafflizione, è un essere mondano e deve rapportarsi al
mondo come chi ne prende possesso. 547

Ora che è tenuto stretto tra le mani, il mappamondo diviene espressione di quale sia la
vera grandezza del nostro pianeta per chi lo contempla alla luce di una ragione
disincantata, ma è proprio tale disincanto che permette di reagire con la vitalità
dell’abderita. Dipingendo il globo come attributo del solo Democrito, inoltre, è come se
Rubens dicesse che «il ripiegamento interiore […] appartiene al passato; all’uomo di
mondo, al contrario, appartiene il futuro».548

In un recente tentativo di riesumare la teoria dei temperamenti si dice: «Il tipo


melanconico e il tipo sanguigno, descritti per la prima volta da Ippocrate e
successivamente da Galeno, divennero, nel vocabolario di Carl Jung, l’introverso e
l’estroverso».549 Ma Rubens, in realtà, con questo dittico ha già creato il modello per
l’introverso Eraclito e l’estroverso Democrito: «Servendosi di un soggetto tradizionale
egli ha dunque compiuto un cambiamento rivoluzionario, finora ignorato: ha fatto
dell’antico motivo un programma moderno». 550

546
Brandt R., op. cit., p. 100.

547
Ivi, p. 101.

548
Ivi, p. 102.

549
Kagan J., Galen’s Prophecy. Temperament in Human Nature, New York, 1994, Preface. Citato da
Brandt R., op. cit., p. 102.
550
Brandt R., op. cit., p. 102.

167
Una delle ragioni per le quali nella produzione artistica di Rubens si avverte così
fortemente il fascino esercitato dall’antico risiede sicuramente nel suo soggiorno in Italia,
durato ben otto anni, dal 1600 al 1608 (ricordiamo che l’opera appena analizzata si
inserisce in questo periodo). La penisola, all’epoca, si configurava come

una sorta di luogo ideale – un’Arcadia, per dirla con Goethe, che in epigrafe al suo
Viaggio in Italia pose la ben nota frase «Et in Arcadia ego» - dove vivere un’antichità
fuori dal tempo storico in cui le figure del mito e quelle delle sacre scritture si incontrano
su un medesimo palcoscenico e si scambiano i ruoli. 551

Una terra, dunque, in cui non stupisce che il neostoicismo avesse facile presa. E’ nota,
infatti, l’ammirazione di Vincenzo Giustiniani per Giusto Lipsio e per la sua scuola di
pensiero552 e non è un caso che Ferrari abbia attribuito al marchese romano un ruolo
importante nello sviluppo dell’iconografia dei filosofi antichi. 553 La sua biblioteca
ospitava una serie di testi rilevanti per la letteratura stoica, da Diogene Laerzio, Plutarco
e Tacito fino ai Commentari agli Annali e alla Politica di Lipsio.554 Nell’inventario del
1638, stipulato dopo la sua morte, sono menzionati una statua di Diogene, busti di Catone,
Platone, Socrate e diciassette teste di filosofi non meglio specificati555; si parla anche di
una Stanza dei Filosofi, decorata con una serie di dipinti dedicati alle morti di Seneca,
Socrate e Cicerone ad opera di Sandrart, Giusto Fiammingo e Perrier, significativamente
accostate ad una Strage degli Innocenti di Poussin (ora a Chantilly, Musée Condé), che
fornisce una lampante chiave di lettura per l’intero ciclo:

551
Ivi, p. 202.

552
Vincenzo Giustiniani manifestò il desiderio di incontrare Lipsio in occasione di un suo viaggio a
Lovanio nel 1606, ma vi trovò il filosofo fiammingo già morto. Cfr. I filosofi antichi nell’arte italiana del
Seicento. Stile. Iconografia e contesti, Atti del convegno (Roma, Istituto Storico Austriaco, 20 gennaio
2017), a cura di S. Albl e F. Lofano, Artemide, Roma, 2017, p. 24.
553
Ferrari O., L’iconografia dei filosofi antichi nella pittura del XVII secolo in Italia, cit., p. 123¸132-134.

554
Cfr. Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., p. 79.
L’inventario dei libri è trascritto in Danesi Squarzina, S., La collezione Giustiniani, Einaudi, Torino, 2003,
Inventari I, pp. 369-83. Sulla biblioteca si veda anche Baldriga, I., La personalità di Vincenzo Giustiniani
nello specchio della sua biblioteca, in Caravaggio e i Giustiniani. Toccar con mano una collezione del
Seicento, Catalogo della mostra a cura di S. Danesi Squarzina, Roma-Berlino 2001, Skira, Milano 2001,
pp. 73-80.

555
Cfr. Strunk C., La sistemazione seicentesca delle sculture antiche di Palazzo Giustiniani, in I Giustiniani
e l’Antico, Catalogo della mostra a cura di G. Fusconi, Roma, 2001, L’Erma di Bretscheneider, Roma,
2001, pp. 57-70. Cfr. I filosofi antichi nell’arte italiana del Seicento. Stile. Iconografia e contesti, cit., p.
22.

168
Cicerone, Seneca, Socrate sono le vittime innocenti della tirannia, seguaci di quella
sapienza che ha consentito loro di non temere la morte, ma anzi di disprezzarla. Siamo
nuovamente in presenza del tentativo di formulare una dottrina laica che, attingendo alla
cultura classica, viene proposta come alternativa ad una visione finalistica.556

La passione nutrita da Giustiniani per la cultura classica, inoltre,

non escludeva atteggiamenti di stampo epicureo riscontrabili nei trattati e nelle satire
composti dal marchese, oltre che nell’esposizione delle sculture antiche nella galleria del
palazzo, qualificata da uno spiccato carattere erotico e finalizzata alla celebrazione della
gioia di vivere degli antichi.557

Se Brandt stigmatizza il Democrito di Rubens come «un epicureo votato al


godimento»,558 alla luce di quanto detto sul marchese, non è poi così improbabile che
potesse confarsi a questa definizione anche il Democrito ridente della sua galleria,
accostato ad Eraclito come di consueto: il suddetto inventario del 1638, infatti, menziona,
tra le altre cose, «dui quadri con due mezze figure, una che ride, l’altra che piange», ormai
perduti.559

Tra le numerose coppie di quadri secenteschi che affrontano il soggetto di Democrito ed


Eraclito, particolarmente interessante è quella eseguita da Hendrick Ter Brugghen,
esposta al Rijksmuseum di Amsterdam. Le tele, datate al 1628, sembrano presentare i due
filosofi non come figure opposte, ma complementari. A ciò contribuisce il fatto che le
loro diverse reazioni, contrariamente a quanto stabilito dalla tradizione iconografica, non

556
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., pp. 78-79.

557
Ivi, p. 79. Cfr. Strunk C., La sistemazione seicentesca delle sculture antiche di Palazzo Giustiniani, in I
Giustiniani e l’Antico, cit., p. 60: «Le sculture, non essendo isolate nelle nicchie, potevano essere riunite in
unità narrative […] uno di questi gruppi è particolarmente rilevante, in quanto si trovava proprio al centro
della parete principale. In questo punto cruciale ci si aspetterebbe il centro ideale della galleria, una
dichiarazione programmatica sui valori e gli ideali del signore del palazzo. E proprio qui Vincenzo
Giustiniani presentava un caprone, personificazione degli istinti animaleschi, fiancheggiato da figure non
meno lascive: due amorini, una baccante e Leda con il suo amante, il cigno. E’ quasi ironico che Giustiniani
ponesse al centro della sua galleria non un imperatore, un antico eroe o una Minerva quale dea delle arti,
ma un caprone! Mentre molte famiglie romane vedevano le antichità come una patente della loro nobiltà e,
per esempio, con la solenne presentazione di busti imperiali, alludevano alle pretese remote origini dei loro
casati, Giustiniani si prendeva evidentemente gioco di un simile modo di utilizzare le antichità. Egli, al
contrario, voleva esaltare la gioia di vivere degli antichi».

558
Brandt R, op. cit., p. 98.

559
Strunk C., La sistemazione seicentesca delle sculture antiche di Palazzo Giustiniani, in I Giustiniani e
l’Antico, cit., p. 65.

169
si articolano più intorno al solo mappamondo. Infatti, mentre Eraclito piange
malinconicamente sul planisfero terrestre, Democrito ride appoggiato ad un globo celeste.

La scelta operata dall’artista non può essere considerata marginale, a giudicare dalla
grande attenzione riservata al globo, facilmente identificabile in quello elaborato da
Jodocus Hondius e fabbricato nel 1600. Eraclito, dunque, piange di fronte alla precarietà
dell’esistenza, al continuo divenire a cui è sottoposto l’uomo, «fragil testura d’elementi»,
destinato a dissolversi e a tornare «trita polve», come afferma Giovan Battista Marino nel
testo poetico dedicato all’effige dei due filosofi antichi. Ma volgendo gli occhi alla «luce
del Ciel», come indica Marino, la disperazione generata dalla transitorietà mondana non
trova conforto, anzi raggiunge un grado tanto elevato da risultare intollerabile alla
ragione. Interviene a questo punto una tragica e folle risata che fa precipitare quel cielo. 560

A tal proposito mi sovviene un brano tratto dalla Storia della Follia, di Michael Foucault:

Bisogna accettare lo spettacolo vano, il chiasso fatuo, il frastuono di suoni e colori che fa
sì che il mondo è solo follia, bisogna persino accoglierlo in sé stesso, ma nella chiara
coscienza della fatuità che è, a un tempo, quella dello spettacolo e dello spettatore. […]
In questa mescolanza variopinta e rumorosa, in questa facile accettazione che è
impercettibile rifiuto, l’essenza stessa della saggezza si compie in modo più certo che in
tutte le ricerche della verità. 561

Al termine di questa lunga rassegna di esempi pittorici e letterari, potremmo concludere


dicendo che il tema vanitas secentesca accoglie in sé una stratificazione semantica tanto
ricca da non poter essere ridotta ai consueti riferimenti devozionali. Oltre a questi, è
essenziale considerare gli imperituri riferimenti filosofici che danno voce ad una
«spiritualità laica». 562 Ed ecco che attraverso la lezione degli antichi, mediata da un
nicodemico allegorismo, si possono cogliere nuovi modelli etici che segnano la crisi dei
dogmi, proponendo uno sguardo non più verso l’alto ma dall’alto (per dirla con Hadot).563
Nella tensione tra queste due semplici preposizioni si spalancano le vie del pensiero
moderno, infinite come gli universi di cui parlava l’abderita.

560
Frascarelli D., L’arte del dissenso. Pittura e libertinismi nell’Italia del Seicento, cit., pp. 66-67.

561
Foucault M., Storia della follia nell’età classica, a cura di F. Francucci, Rizzoli, B.U.R, Milano, 1976,
p. 23 (ed. orig., Histoire de la folie a l’age classique, Editions Gallimard, Paris, 1961)
562
Ferrari O., Le nuove vie degli studi sul Seicento, in «Storia dell’arte», I, 1966, pp. 97-116.

563
Hadot P., La filosofia come modo di vivere, cit., pp. 184-187.
170
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191
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192
7. Hans Memling, San Giovanni Battista (fronte) e Teschio o Vanitas (verso); Veronica (fronte) e Coppa
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193
8. Jacques de Gheyn II, Vanitas, olio su tavola, 1603, Metropolitan Museum di New York.

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195
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11. Giovanni Boldù, Giovanni Boldù tra l'allegoria della Fede e della Penitenza, medaglia di piombo,
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198
14. Guido Cagnacci, Maddalena Penitente, olio su tela, 1622-27 circa, Gallerie Nazionali d’Arte Antica,
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199
15. Tiziano Vecellio, Maddalena penitente, olio su tela, 1533-1535 circa, Galleria Palatina di Palazzo Pitti,
Firenze

200
16. Louis Finson, La Maddalena in estasi (copia da originale caravaggesco), olio su tela, 1613, Aix-en-
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201

17. Guido Cagnacci, Conversione della Maddalena, olio su tela, 1661-1662, Norton Simon Museum,
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202
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209
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