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PARTE UNO

Platone
Platone nacque ad Atene da una nobile famiglia, possiamo elencare i suoi scritti nel seguente
modo;
A. Scritti giovanili o socratici; Apologia a socrate, critone, etifrone, carmide, liside, ippia
maggiore, ippia minore, protagora.
B. Dialoghi della maturità ; gorgia, monone, fedone, menesseno, clitofonte, repubblica,
cratilo, simposio, fetro.
C. Dialoghi della vecchiaia; Teeteto, parmenide, sofista, filebo, temeo, leggi.
Platone è il primo erede della grande tradizione culturale che lo precede. Nelle sue opere tale
tradizione da luogo a un’ampia e articolata teoria del linguaggio ma non produce allo stesso
tempo, una separata teoria del segno, come invece avverrà in Aristotale e in genere nelle scuole
filosofiche successive. Parleremo di Platone riferendoci ad alcuni testi ed esaminando il segno e i
vari usi;

IL FEDRO; scritto da Platone probabilmente nel 370 a.C., è un dialogo tra due personaggi, Socrate
e Fedro. Il dialogo è composto da tre discorsi sul tema dell'amore che servono come metafora per
la discussione del corretto uso della retorica. Esse comprendono discussioni sull'anima, la follia,
l'ispirazione divina e l'arte. Il mito di Theuth (o mito di Thamus) è presente nel Fedro di Platone.
Sul finire del dialogo, Platone affronta il problema del discorso scritto e, più precisamente, della
differenza che intercorre tra conoscenza e sapienza. Appare interessante notare che, nonostante
l'autore approdi a un giudizio negativo sulla scrittura, il filosofo delle Idee abbia sempre utilizzato
la forma scritta (contrariamente all'antico maestro Socrate) per veicolare le sue tesi filosofiche.
Il tema della memoria qui è molto evidente, infatti nel mito Socrate racconta infatti che i segni
alfabetici sono un dono che il Dio Theuth offre al re di Tebe, secondo il Dio infatti essi sarebbero
stati ‘’una medicina per la sapienza e la memoria’’. Thaumus però non accoglie senza riserve il
dono, convinto che i segni della scrittura abbiano un effetto contrario rispetto a quello previsto.
Quando Theuth propose a Thamus l'arte della scrittura, la divinità si espresse con queste parole:
«Questa conoscenza, o re, renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare,
perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza»

La risposta del re non tardò ad arrivare:


«O ingegnosissimo Theuth, c'è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di
giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora
tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che
essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza
nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a
ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi:
dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, del richiamare alla memoria. Della
sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza e non la verità: infatti essi,
divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere
conoscitori di molte cose, mentre come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e
sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece
che sapienti.»
Qui Socrate raggiunge una contrapposizione tra ‘’ le parole scritte’’ e ‘’il discorso scritto
nell’anima’’. Quest’ultimo, è vivente e animato, è scritto nell’anima. Posto il primato del
discorso scritto nell’anima, si istaura tuttavia una relazione semiotica tra i due termini:
Come propone Fedro le parole scritte possono essere considerate un’immagine del
discorso scritto dell’anima. Richiamare alla memoria: è questo il ruolo che ha
effettivamente la scrittura, paragonabile – in quanto imperfezione – alla pittura.
Nel secondo testo che andiamo a esaminare del Fedro parlerà dell’autonomia del testo, e
paragonerà la scrittura alla pittura che effettivamente qualcosa in comune ce l’hanno,
cioè ovviamente che sono oggetti visibili.
<<SOCR. La scrittura (graphē) presenta questo inconveniente, Fedro, che si ritrova del
resto anche nella pittura (zōgraphia). I suoi prodotti ci stanno davanti come esseri viventi:
ma se uno li interroga, loro tacciono in modo davvero solenne. E lo stesso vale per i
discorsi: potresti credere che parlino, come se ragionassero; ma se uno li interrogasse
perché vuole capire che cosa dicono, dichiarano una cosa sola, sempre la stessa. Una
volta che sia stato scritto, ogni discorso rotola da tutte le parti, ( si scriveva sui papiri per
questo dice che rotola) indifferentemente, nelle mani di chi se ne intende e in quelle di
chi non è interessato... E se è offeso o ingiustamente vituperato, ha sempre bisogno del
soccorso del padre... (Fedro 275d-e)>>.
Tacciono perché ancora non c’è l’idea in mente che ci possano essere significati impliciti.
Qual è il rapporto tra il discorso scritto e il discorso interiorizzato? Ci dice Socrate che
sono fratelli legittimi, il rapporto è quello di una rappresentazione iconica, il discorso
scritto è una rappresentazione del discorso interiore.

CRATILO; Il Cratilo (Κρατύλος) è un dialogo di Platone. In esso è trattato il problema


del linguaggio, o meglio, della correttezza dei nomi. Protagonisti
del dialogo sono Socrate, Ermogene e Cratilo. In generale nella cultura greca il segno è
concepito come un elemento percepibile che rimanda a un elemento che non è
manifesto, come abbiamo visto, del resto, nel caso della medicina e prima ancora, della
divinazione il segno costituisce la meditazione tra il piano delle cose accessibili ai sensi e il
piano delle cose non accessibili. Proprio con questi caratteri si presenta il segno linguistico
nei dialoghi Platonici , soprattutto nel Cratilo e nel Sofista.
Il problema fondamentale che viene affontato nel Cratilo è quello della ‘’ correttezza dei
nomi’’. Esso è posto fin dall’inizio del dialogo al centro di una disputa che oppone Cratilo
a Ermogene e per il quale Socrate è scelto come giudice. Cratilo sostiene una tesi che
possiamo definire ‘’ naturalistica’’ Ermogene invece ‘’ convenzionalista’’.
Ci sono tre livelli del discorso sul quale dibattono;
1. Il discorso che riguarda l’atto della nominazione; Per Ermogene tale atto è frutto di
convenzione e nasce dall’accordo tra uomini. Per Cratilo invece, avviene in
maniera naturale.
2. Il discorso rappresentato dall’analisi dello stesso fenomeno; In questo caso
propongono la stessa soluzione, sostenendo che i nomi sono sempre
correttamente riferiti alle cose. L’unica differenza tra le due posizioni consiste nel
fatto che per Cratilo la correttezza dei nomi segue una legge naturale, mentre
Ermogene sostiene il carattere convenzionale delle regole che stabilisticono la
correttezza.
3. Il discorso che scaturisce direttamente dal precedente, è quello he riguarda
l’estensione della validità del rapporto di correttezza. Per Cratilo la correttezza del
nome è ‘’universale’’, vale tanto per i Greci che per i barbari. Per Ermogene,
invece, sembra che tale correttezza debba essere limitata alla comunità linguistica
particolare che ha adottato la convezione.
Accanto a quelle di Ermogene e di Cratilo nel dialogo è presente anche una terza teoria
sviluppata dallo stesso Socrate. Socrate come al solito è portavoce delle opinioni di
Platone, infatti se Cratilo o Ermogene avessero ragione la via della dialettica come mezzo
per raggiungere la conoscenza risulterebbe impercorribile. La teoria di Ermogene si
presenta all'inizio come una teoria convenzionalista classica, sostenendo il principio
secondo cui la convenzione è l'accordo costituiscono il criterio di correttezza dei nomi.
Subito dopo Ermogene sostiene anche che; qualsiasi nome uno imponga ha una cosa,
questo è quello corretto.
precisando che; se uno sostituisce quel nome con un altro non usando più il precedente il
secondo nome non è affatto meno giusto del primo.
A questo punto Socrate costringe Ermogene a effettuare un cambiamento di
focalizzazione. Ne risulta una dottrina degli idoletti autonomi tanto parcellizzati da
coincidere con la parlata di un solo uomo che fa scoppiare il convenzionalismo di
Ermogene in un soggettivismo totale tanto che Socrate non manca di metterlo in parallelo
con il relativismo di Protagora.
Tutta via anche la posizione di Cratilo conduce altrettanto a un impossibilità della
dialettica. Egli infatti elabora una teoria che ha le caratteristiche di un ‘’iconismo
assoluto’’; cioè il nome rivela la natura della cosa che nomina, imitandola. Ma questa
imitazione o è totale o è un nosenso. Poiché per Cratilo la produzione linguistica sembra
dare luogo in certi casi a imitazioni corrette, in altri a dei nosensi in entrambe l'evenienza
la dialettica verrebbe ridotta a uno strumento sprovvisto di senso. la dialettica, per
quanto debba giungere a giudizi veri deve avere la possibilità di enunciare giudizi falsi che
devono essere corretti nel corso del dibattito. ed è appunto questa possibilità che viene
eliminata dalla teoria di Cratilo.
Uno dei punti fondamentali del dialogo platonico è costituito dalla ricerca di un criterio
oggettivo che permetta di assegnare un valore di verità tanto agli enunciati quanto ai
nomi. Per raggiungere questo scopo, Socrate sposta temporaneamente il discorso dal
piano linguistico al piano ontologico, affermando che le cose hanno in loro stesse una
stabile essenza e non dipendono dal giudizio soggettivo. Una tale caratteristica di
oggettività è attribuita da Socrate anche alle azioni, che al pari delle cose sono delle
specie di enti.
Infatti per Socrate anche il dire e il denominare costituiscono delle forme di azione e di
conseguenza devono essere compiute in maniera non arbitraria. Costruisce un
parallelismo tra varie azioni che noi compiamo su un determinato oggetto materiale e che
producono determinate conseguenza. Come il tagliare, che è il primo esempio che porta
Socrate, cioè noi non possiamo tagliare un pane con un filo di cotone, dobbiamo
assecondare la natura del pane e trovare uno strumento adeguato come il coltello che
deve essere fatto di metallo e non di plastica, dobbiamo assecondare la natura è questo il
punto. E lo stesso vale per il dire. Qui troviamo la prima definizione di nome ; Il nome è
uno strumento atto a insegnare qualcosa e a distinguere l’essenza. Quindi il nome non
solo nomina ma insegna anche. Avanza anche l’idea che il linguaggio deriva dalla
proposta di un’autorità ( Onomoteka),che è in grado di guardare l’essenza delle cose e di
forgiare la materia fonica in nomi adeguati per esprimere i contenuti. Il nome non è solo
uno strumento ma deve anche assomigliare alle cose, qui parliamo dell’imitazione, serve
a mostrare quindi, anche il nome viene considerato come atto estensivo di una cosa
perché è imitazione.
Come ci propone il Manetti seguendo l'interpretazione di Donatella di Cesare si possono
rintracciare nel Cratilo due diverse teorie semantiche che si riferiscono: la prima ha una
situazione di un linguaggio ideale e la seconda una situazione di un linguaggio come realtà
storicamente data.
esaminiamo brevemente la prima;
a un certo punto nel dialogo Socrate sostiene che ciò che è veramente importante per il
nome è di significare l'essenza della cosa, la quale viene chiaramente espressa dal nome.
Ehi l'esempio che viene portato è quello del nome di una lettera dell'alfabeto il beta esso
nomina la lettera B ma essa aggiunge eta(E), tau (T), e Alpha (A), nonostante questa
giunte esso nomina correttamente il B, in quanto fa comparire il valore della lettera che
doveva essere nominata. i nomi sono corretti se nominano l'essenza della cosa di cui sono
nomi il significato e dunque identificato con questa essenza della cosa più avanti Socrate
introduce il concetto di valore che sembra anch'esso identificarsi con il significato.
Dunque il significato del nome è dato da entrambi gli elementi l'essenza della cosa
nominata e il valore del nome.
Esaminiamo ora la seconda;
Socrate nella parte centrale del dialogo parla della riflessione sull'origine del linguaggio il
risultato e che il linguaggio non rispecchia la struttura oggettiva del reale ma piuttosto
espressione dell'idea che che del reale si è formato il nomoteta ehm il significato dunque
viene essere identificato con la rappresentazione del reale che si forma nell'oggetto
rappresentazione che il risultato delle opinioni, delle sensazioni, delle impressioni che
vengono esercitate sul soggetto dagli oggetti della realtà. il linguaggio dunque non
rispecchia il mondo delle idee cioè l'essenza delle cose ma piuttosto il mondo empirico
esso costituisce una realtà storica che contiene la visione del mondo che avevano i primi
nomoteti.
Arrivati a questo punto l’interlocutore di Socrate cambia e si passa a Cratilo infatti la
prima parte del dialogo era stata dedicata alla confutazione delle teorie convenzionalità.
L'ultima parte invece è dedicata alla confutazione delle teorie del rispecchiamento
sostenuto da Cratilo. A questo punto Socrate introduce l’argomento del doppio; se nella
mimesi tutti i caratteri dell’originale venissero riprodotti, non si avrebbe un imitazione ma
una occorrenza identica dello stesso oggetto. Prendiamo Cratilo e un’immagine di cratilo,
e pensiamo che questa immagine abbiamo tutte le caratteristiche di Cratilo, anche
l’interno, il moto, l’anima ecc. In questo caso l’immagine sarebbe ancora immagine o
sarebbero due cratilo? Ci sarebbero due Cratilo. L’immagine se deve essere corretta se
manca di qualcosa, non ha tutte le caratteristiche della realtà. Quindi possiamo
ammettere che qualche nome non sia ben fabbricato, non è possibile che il nome sia
un’immagine perfetta della cosa.

SOFISTA; Il Sofista (Σοφιστής) è un dialogo di Platone dedicato a temi ontologici e risalente al


periodo dei dialoghi cosiddetti dialettici o della vecchiaia, l'ultima fase della produzione del
filosofo.

Alla ricerca di una definizione del "sofista", figura che si rivelerà sfuggente e che agli occhi
di molti appare simile al "filosofo", o addirittura al politico, lo Straniero di Elea si ritroverà
a dover affrontare il tema del non essere e compiere un parricidio ai danni di Parmenide:
il sofista, infatti, con i suoi discorsi falsi e ingannevoli, fa apparire come essente ciò che
non è.
Qui ritorna al tema delle immagini che abbiamo visto nel Cratilo, qui non appare Socrate,
chi conduce il dialogo è lo straniero di Elea, verte sulla definizione di sofista come
creatore di immagini, di illusione. Dobbiamo distinguere due forme dell’imitazione;
1. la prima è quella del copiare che si ha quando qualcuno seguendo le proporzioni
di un modello da origine a una copia.
2. La riproduzione di apparenza che si rappresenta anche nelle statue ad esempio,
quando si fanno statue ad altezza non proporzionata. Quindi introducono una
sproporzione per andare d’accordo con l’osservatore. Si produce un’apparenza di
realtà che dal punto di vista oggettivo non è corretta. Questa è la tecnica
produttrice di apparenza.

Quindi cos’è un’immagine che non un altro oggetto dello stesso genere che ne ricopia
uno vero, un altro tale somigliante al vero. Da questo si sviluppa tutta una discussione che
ha a che fare con lo statuto ontologico con l’immagine che è realmente una copia ma non
è ciò che rappresenta perché è un altro. Successivamente prosegue con la definizione del
sofista che come abbiamo detto prima è colui che usa l’immagine per ingannare.

TEETETO; Il Teeteto (in greco Θεαίτητος[1]) è un dialogo di Platone riconducibile alla fase


della maturità, collocabile tra il 386-367 a.C. in cui il filosofo afferma che è impossibile
considerare vera la scienza se non in riferimento all'essere, cioè l'idea. Questo discorso è
finalizzato a smentire la soggettività gnoseologica dei sofisti, i quali ritenevano che
fossero i sensi a determinare la conoscenza, cosa che invece Platone nega fermamente:
per il filosofo si perviene alla conoscenza tramite la dianoia (διάνοια), la ragione
matematica e discorsivo.

ARISTOTELE

Aristotele è stato un filosofo, scienziato e logico greco antico[2]. Aristotele è ritenuto una


delle menti più universali, innovative, prolifiche e influenti di tutti i tempi, sia per la
vastità che per la profondità dei suoi campi di conoscenza, compresa quella scientifica.
[3]
 Insieme a Platone, suo maestro, e a Socrate, Aristotele è considerato anche uno dei
padri del pensiero filosofico occidentale, che però, soprattutto da Aristotele, ha ereditato
problemi, termini, concetti e metodi. alcuni testi che affronteremo: de interpretazione,
analitici primi e retorica. Dunque le due teorie che da Aristotle in avanti viaggeranno
parallele: la semantica del linguaggio (semantica linguistica) e la teoria del segno mentre
con platone le due cose vanno assieme cioè l’autore stesso che chiama onoma semeion in
Aristotele c’e anche un uso di semeion nella semantica linguistica ma è marginale. Con
Aristotele vengono innaugurati nella storia del segno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere
un notevole successo e durevolezza.

- De interpretatione;
è un trattato di Aristotele, raccolto nell'Organon, che tratta il rapporto tra linguaggio e la
logica in modo globale, esplicito e formale, delle parti del discorso (nome e verbo) e del
modo in cui esse si combinano per dar luogo a frasi o giudizi. Analizziamo il primo
capitolo;
Con l’espressione ‘’ i suoni che sono nella voce’’ cosa intende Aristotele? Non è una
domanda facile a cui rispondere, Donatella di cesare sostiene che Ari attribuisce a questa
espressione lo stesso valore che Saussure dà al termine significante quando spiega la
natura del segno linguistico.
Belardi invece aveva sostenuto che doveva riferirsi non ai significati ma alle espressioni
linguistiche intese nella loro forma compiuta di nome, verbo, discorso, come pure di
affermazione e negazione. Ora è indubbio che Aristotele intenda con l’espresisone ‘’suoni
della voce’’ qualcosa che sottolinea molto chiaramente la veste fonica e il carattere di
significante. Prosegue Aristotele dicendo << sono simboli>>, da qui deriva l’uso del
termine ‘’ Symbolon’’, che Aristotele riprende da una tradizione risalente fino a
Democrito. Le ragioni che permettono la specializzazione di questo termine nel senso di
indicare le espressioni linguistiche convenzionali, sono connesse alla sua etimologia.
Infatti nella lingua greca Symbolon indica ciascuna delle due metà in cui viene spezzato un
oggetto, in maniera intenzionale, a finché possano servire, in un momento successivo,
come segno di riconoscimento. Tiene conto anche di un altro elemento i ta graphomena
ovvero i segni scritti. Che a loro volta sono simbola di ciò che è nella voce. Aristotele sta
guardando al come sono fatte le lingue oltre al greco che sono fatti da suoni, di
trascrizioni, che sono diverse da una lingua a un'altra. La seconda nozione degna di rilievo
e quella di Pathèkata en tei psychei (affezioni dell’anima) . Ci noterà che dove ci si
aspetterebbe la nozione di significato troviamo invece un'entità psichica, qualcosa che
non è posto all'interno del linguaggio ma nella mente stessa degli utenti del linguaggio.
per di più le affezioni dell'anima concepite da Aristotele pur configurandosi come eventi
psichici non sono affatto individuali. In Aristotele dice che i Pathèkata en tei psychei Sono
le immagini degli oggetti esterni con ciò intende che tra gli oggetti e l'entità psichiche c'è
lo stesso rapporto che esiste tra l'originale e la copia. Tuttavia poi per indicare la
rappresentazione mentale usa anche l'espressione di nòèma ( pensiero), cioè pensiero
ma in questo secondo caso precisa che pensieri sotto certe condizioni possono essere veri
o falsi. Da ciò consegue che i noemata vengono concepite come forme di giudizio si tratta
di due nozioni completamente diverse. I pathemata Riguardano a una facoltà passiva
dell'anima quella di subire impressione dagli oggetti del mondo esterno e i Noèmata
rimandano a una facoltà attiva quella di elaborare giudizi. Qui ci sta un principio che sarà
il presupposto di molte teorie semantiche e cioè il fatto che noi come esseri umani
conosciamo il mondo allo stesso modo indipendentemente dalla lingua.
Nel de interpretatione Aristotele espone la sua teoria del simbolo linguistico l'articolata
secondo uno schema a tre termini i suoni della voce che sono i simboli delle affezioni
dell'anima le quali a loro volta sono le immagini degli oggetti esterni come si può
osservare dall'immagine (p. 107) tra suoni e stati d'animo c'è un rapporto immotivato e
convenzionale in quanto gli Stati d'animo sono uguali secondo Aristotele per tutti gli
uomini. ma essi vengono espressi in maniera diversa a seconda delle varie lingue culture
esattamente come avviene per le forme scritte invece tra gli Stati d'animo e gli oggetti c'è
un rapporto di motivazione che appare addirittura iconico in quanto i primi sono le
immagini dei secondi. Ora, a complicare ulteriormente le cose c’è la seconda parte di
questa citazione;
Se inizialmente parlava degli elementi semplici della voce in rapporto agli elementi
dell’alfabeto, qui sta chiaramento parlando di elementi complessi. Infatti ci dice che è il
pensiero che può essere vero o falso. Quindi qui sta ponendo la priorità del pensiero
come portatore di verità e di conoscenza, proprio perché il pensiero è la conoscenza vera.
Viene aperta la problematica circa la differenza tra; il semplice detto e l'affermazione
punto i nomi in sé costituiscono un detto così come i verbi, ma non possono da soli
costituire un'affermazione o una negazione.
vengono distinti due tipi di rappresentazioni mentali: 1. quella che e prescinde dal vero e
dal falso, 2. Ehi quella cui spetta necessariamente o di essere vero e di essere falsa. al
primo tipo di rappresentazione corrispondono i nomi e anche i verbi presi da soli i quali
possono avere un significato, ma non hanno condizioni di verità. al secondo tipo
corrispondono invece quelle entità che hanno la dimensione linguistica della
proposizione, e quando si passa agli enunciati affermativi e negativi che diviene possibile
parlare di verità o falsità. E solo in questo caso che diviene possibile parlare di
apofanticità ( enunciato vero o falso), come dimensione aggiuntiva.
Ma qual è il mezzo specifico per passare dalla semplice semantica a quella apofantica?
non ci sono dubbi che esso consiste nell'uso del verbo come predicato. del verbo
Aristotele valorizza essenzialmente la funzione predicativa quando parlando del giudizio
riduce il verbo a copula più predicato. Tuttavia affinché il verbo possa esplicare questa
sua funzione occorre che esso sia congiunta a qualcos'altro preso da solo adesso non può
affermare alcunché. Così commenta eco: pertanto quando Aristotele dice che neppure il
verbo essere da solo è segno dell'esistenza della cosa vuol dire che l'enunciazione isolata
dal verbo non è indizio che si stia affermando l'esistenza di qualcosa, perché il verbo
possa avere tale valore occorre che sia congiunto con gli altri termini dell'enunciato, il
soggetto e il predicato.
- Il nome è una voce in grado di significare, secondo convenzione,
indipendentemente dal tempo, perché è la caratteristica che distingue il nome da
un verbo cioè quello di essere appunto indipendente dal tempo. Nessuna parte
del nome non esiste separatamente dal contesto, fa l’esempio di ‘’calippo’’ che
separato significa ‘’ bel cavallo ’ però prende le distanze dall’etimologia perché qui
non significa cavallo. Quando una parola entra in composto con un'altra parola
può significare altro come in questo caso calippo è un nome proprio non un
cavallo.
- Il verbo secondo Aristotele è caratterizzato dall’aggiungere il tempo, e nessuna
parte significa separatamente. Nomi e verbi hanno lo stesso significato ma sono
separati da qualcosa che si aggiunge e che trasforma un nome da un verbo
quando appunto è incluso anche il tempo. E poi dice espressamente che verbi
sono nomi, e pone la priorità dei nomi rispetto ai verbi.
- Il logos, il discorso è sempre una voce capace di significare ma deriva dal fatto che
ciò di cui si compone è convenzionata, significa qualcosa separatamente ma non è
portatore di un valore di verità.
ANALITICI PRIMI E RETORICA;
Completamente in relatà rispetto alla teoria del linguaggio in Aristotele la dottrina del
segno si pone nel punto di intersezione tra logica e retorica Ehi segni sono trattati tanto
nei primi analitici quanto nella retorica.
allo stesso tempo la nozione di segno presenta due aspetti fondamentali:, ehm da una
parte infatti ha un interesse epistemologico e ontologico, Ehi in quanto si configura come
strumento di conoscenza che deve servire a condurre l'attenzione dei soggetti conoscenti
ha operare un passaggio da un fatto a un altro. dall'altra ha un carattere prettamente
logico in quanto è dotato di un meccanismo formale che presiede al suo funzionamento.
la definizione generale del segno è data nei primi analitici. Ehi prima di tutto vediamo
però ciò su cui tutte le interpretazioni del passato concordano cioè che la nozione di
segno proposta da Aristotele prevede l'instaurarsi di un rapporto di tipo implicativo il
segno coincide pressappoco con il rapporto di implicazione ‘’ P implica Q’’ accezione
questa abbastanza comune nella nozione di segno e che abbiamo già trovato operante in
altri ambiti diversi della filosofia. l'interpretazione di preti suggerisce che esso coincida in
particolare con il secondo termine cioè suggerisce che la definizione aristotelica vada letta
nel senso che ‘’ Q è segno di P’’ Ehi ora questa definizione che viene a configurare il
rapporto segnico come ‘’ Se Q allora P’’ comporta i fini della su applicazione ad
argomentazioni inferenziali un’inversione da ‘’ p implica q’’ a ‘’ Q implica P’’ Ehi d'altra
parte questo tipo di inversione sembra porsi anche alla base della richiesta ai fini della
validità del segno di un'implicazione tra q e p più stretta di quanto non sia ad esempio
l'implicazione materiale. Ehi sembra in sostanza che già nella definizione aristotelica
venga richiesta la connessione ‘’ se non q, non p’’ cioè esattamente quel tipo di
implicazione stretta che verrà dagli stoici. per un altro verso il segno è concepito come
una proposizione, in quanto un segno può costituire la premessa da cui si è sviluppato un
sillogismo. in realtà la definizione di segno come proposizione che può costituire una
premessa in un ragionamento inferenziale, è abbastanza centrale in Aristotele. infatti il
ruolo fondamentale che egli attribuisce al sèmeion è proprio quello di essere uno degli
elementi che forniscono premesse a quel particolare tipo di sillogismo che l’entimema.
Praticamente è formata con questo tipo particolare di sillogismo che l’entimema che
parte da un premessa e giunge a una conclusione. Si basa da due tipi di premesse, la
prima è quella verosimile, accettabile dalla maggior parte delle persone. La seconda è la
premessa che è dimostrativa. Il segno qui è un’entità l’linguistica, è una proposizione.
Qui sta parlando proprio del segno e il segno vuole essere una protasis, una premessa
dimostrativa che può essere necessaria o probabile. Come funziona questo segno? Sulla
base dei tre modi fondamentali del sillogismo, dove il sillogismo è una disposizione di tre
termini e due premesse la conclusione deriva necessariamente. Solo dalla posizione di
questi tre termini ( termine maggiore, termine minore, termine medio) riesce a dare una
conclusione. ‘’ tutti gli animali sono mortali, tutti gli uomini sono animali quindi tutti gli
uomini sono mortali’’
Animale è il termine medio, uomo è il termine minore e mortale il termine maggiore.
Nella conclusione il termine maggiore è predicato nel termine medio. Il segno è il
termine medio in una inferenza del tipo; questa donna ha latte quindi questa donna ha
partorito. Il segno è il latte. La conclusione deve essere sempre valido ma non vero, ciò
che garantisce è la validità e non la verità. Se è vera la premessa è vera anche la
conclusione ma se è falsa e falsa anche la conclusione. Infine possiamo vedere come
Aristotele sviluppa l'aspetto tecnico dei tre tipi disegno partendo da quello della figura di
pagina 120 come possiamo notare nella seconda e nella terza figura il termine medio e il
legame che consente l'inferenza questo fa sì che l'etichetta di maggiore e minore sia
attribuita alla seconda o alla terza figura. una volta stabilita una distinzione tra i tre tipi di
segno sulla base della posizione che prende il medio in ciascuna delle figure procede a
una ricapitolazione generale; il nome Tekerion viene riservata a quei segni che prendono
realmente la posizione del termine intermedio, invece il nome generico Semèion viene
lasciata quei segni che all'intero sillogismo hanno la posizione di un estremo sui quali cioè
si sviluppano delle inferenze in seconda e terza figura.

STOICI
La scuola stoica è quella che nell’antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità
una riflessione semiotica. Tuttavia l’indagine degli stoici si polarizza su due ambiti
fondamentalmente distinti tra di loro; da una parte, una teoria del linguaggio in senso
stretto, che comporta anche un’analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà.
Dall’altra una teoria del segno proposizionale, connessa con la teoria dell’inferenza.
Questi aspetti della filosofia stoica trovano però un punto di convergenza nel loro comune
legame con il Lektòn, un’entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica stoica. A
fondamento di questa metafisica si pone la speciale dialettica tra entità che condividono
la proprietà di essere corpi ( sòmata) e quelle entità che sono invece corporee ( asòmata).
Ora, tanto nella teoria del linguaggio, quanto in quella del segno proposizionale, accanto
alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità incorporee, quali
i Lektà. Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fondamentali della teoria
linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne un conflitto di opinioni
intorno alla verità. È importante sottolineare però, che per gli stoici un teoria della verità ,
non può essere elaborata in maniera indipendente da una concezione della struttura del
mondo. A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici il fenomeno della significazione
linguistica può essere riconosciuto nei termini di un triangolo. Si può notare infatti come
compaiono i termini di ‘’significato’’ e di ‘’ significante’’ ma non quello di segno come
anche in Aristotele la nozione di Semeion appartiene a un altro ambito della teoria, che
non è quella strettamente linguistica.
Lekton;
Un caso assolutamente a sé costituisce il termine che si trova al vertice superiore del
triangolo cioè il Lekton. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un
confronto con Aristotele. Nella stessa posizione del triangolo della significazione Aristele
poneva delle entità psicologiche, che venivano considerate le medesime per tutti gli
uomini. Il Lekton come ci dice Sesto ha caratteri completamente diversi, in quanto i
barbari pur udendo i suoni e vedendo l’oggetto non lo comprendono. La differenza tra le
due nozioni consiste soprattutto nel fatto che mentre l’entità di Aristotele si situa a livello
della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si situa direttamente al livello del
linguaggio. Todorov interpreta il Lekton come la capacità del primo elemento di designare
il terzo. I barbari odono la sequenza di suoni ‘’ dione’’ e vedono ‘’ Dione’’ ma sono
incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento. Anche Long identifica il
lekton con tale connessione. Inoltre c’è il lekton incompleto e quello completo di per se,
che è il giudizio è quello in cui cioè dice qualcosa di qualcuno di qualche altra cosa, gli
stoici dicono che il giudizio è quello che è vero o falso, un significato completo. Quello
incompleto è il predicato che è molto vicina a quella di frege cioè di una funzione insatura
quella in cui c’è un valore che può variare. Nel modello Aristotelico della significazione le
espressioni linguistiche sono i simboli degli stati psichici o dei pensieri. In questo modo
non viene operata una chiara distinzione tra la nozione di significato e quella di pensiero.
Diversa è la concezione proposta dagli stoici in cui possiamo ricavare una nozione di
significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente con questo un certo
tipo di rapporto. Il Lekton è ciò che sussiste in conformità con una rappresentazione
razionale. Possiamo ricavare l’idea che gli stoici operassero una distinzione netta tra i
Lektà che rappresentano il livello del significato e le rappresentazioni mentali che
possiamo definire come delle forme di attività intellettiva o dei pensieri.
La definizione di segno;
Fin ora abbiamo parlato del significante, adesso andremo ad approfondire il segno; la
definizione che ci da Sesto è la seguente: il segno è una proposizione (Axioma) che è
l’antecedente in un condizionale vero e che è rivelatore del conseguente. Dunque il segno
è una proposizione, il Lektòn che abbiamo finora incontrato come elemento centrale
della teoria del linguaggio costituisce una nozione fondamentale anche in quella di segno.
Infatti i segni ( semeia) per gli stoici sono anzitutto dei lektà, in quanto sono costituiti da
proposizioni. Ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un lekton
completo, cioè come una proposizione che si pone in rapporto di implicazione con un
altro lekton, cioè con un'altra proposizione, secondo lo schema: P (U al contrario) Q.
Il segno però non è un proposizionale qualsiasi che figuri come antecedente in un
condizionale vero, ma solo quella proposizione che permette di scoprire il conseguente.
Nella semiotica stoica si registra la scomparsa della distinzione terminologica tra
Tekmerion e Semeion; il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti
denominati semei. un'ipotesi plausibile e che ciò sia legato all'abbandono del sillogismo e
della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. tuttavia il suo posto
sembra comparire un'opposizione e tra ‘’ segno comune’’ e ‘’segno proprio’’. tale
distinzione non era specificatamente storica ma appartiene a una corrente di filosofia
ellenistica. un segno comune e comune per nessun'altra ragione che è quella per cui può
esistere il segno proprio se è necessario non può esistere altrimenti che con la cosa che
noi diciamo appartenere di necessità adesso. dunque una differenza peculiare consiste
nel carattere di necessità del segno proprio che viene definito come necessario. viene
dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno necessario di Aristotele,
d'altra parte il segno comune definito come quel segno che può rimandare a qualcosa di
esistente di cui sarebbe segno, ma può anche non rimandare niente. sembra plausibile
porre in relazione il segno comune e i segni in seconda e terza figura di Aristotele, infatti
per Aristotele si poteva inferire dal pallone di una donna il suo essere gravità oppure dalla
bontà di Pittaco la bontà dei sapienti. si può giungere a una conclusione interessante:
mentre Aristotele pur negando validità scientifica ai segni non necessari ne prevedeva
comunque un uso in ambito epistemologicamente più basso come quello della retorica le
scuole post aristoteliche sembrano aver fatto definitivamente Piazza Pulita delle inferenze
del tipo non necessario. sesto riprende la distinzione tra il segno proprio e il segno
comune ma trovo un'altro posizione quella tra segno rammemorativo e segno indicativo.
Il segno rammemorativo è in sostanza frutto di un'associazione costante tra cose
comunemente osservate in connessione empirica. il segno indicativo a differenza del
precedente non è suscettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è segno in
quanto quest'ultima non è mai stata manifestata e spesso non è nemmeno sospettabile
ne sono esempi in movimenti del corpo che permettono di risalire all'anima ho il dolore
che rimanda ai pori della pelle.
La condizione di verità in un condizionale;
ritornando alla definizione stoica di segno che abbiamo visto, si devono prendere in
considerazione almeno tre cose. 1. Synemmenon che significa connesso, si tratta
dell’asserto condizionale del tipo ‘’ se p allora q’’ che è sempre vera ed è il cosiddetto
modus ponendo pones. 2. Hyghies la validità, la validità o l’invalidità dell’asserto
condizionale ‘’ se p allora q’’ dipende dal valore dell’antecendete e del conseguente di
esso. 3. La nozione di segno come antecedente ( tabella p. 151). Dunque abbiamo una
proposizione ipotetica ( condizionale) se p allora q.
Poi abbiamo una premessa ipotetica maggiore ‘’ se p allora q ma p quindi q’’ che sarebbe
il primo anapodittico o modus ponendo pones. E in fine c’è la premessa ipotetica
maggiore valida che sarebbe ( tabella v o f).

EPICURO

Contemporaneo allo sviluppo della riflessione stoica sul segno è il capitolo della semiotica
antica scritto dalla scuola epicurea. Uno dei cardini dell’epistemologia epicurea, infatti è il
principio semiotico del congetturare dai fenomeni visibili fatti che sono per natura non
percepibili. Epicuro rifiutava il ragionamento deduttivo, tipico di Aristotele e degli stoici,
giudicandolo vuoto e privo di utilità, ma accettava e valorizzava l’inferenza analogica che
si sviluppa a partire dai sensi. Nel periodo ellenistico gli epicurei divennero i
portabandiera di un metodo di ragionamento qualificabile come ‘’ induzione semiotica’’ e
proprio sul metodo dell’inferenza si posero in polemica con gli esponenti della scuola
stoica.

I CRITERI DI VERITà ;
L’importastazione generale della filosofia di Epicuro, dal punto di vista epistemologico, è
un tentativo di fondare la conoscenza su basi puramente empiriche. In primo piano
vengono posti i fatti o gli oggetti, ma anche le parole costituiscono una via per
raggiungere le cose. Il fondamento ultimo della conoscenza sono i criteri di verità, i quali
sono in grado di procurare all’uomo nientemeno che l’imperturbabilità. Essi sono dunque
posti alla base stessa della filosofia generale di Epicuro. Se noi pensiamo alla verità in
termini moderni, cioè come una funzione delle proposizioni, corriamo il rischio di non
comprendere il pensiero di Epicuro. In effetti, nella lingua greca in generale, l’aggettivo
alèthès ( vero) può servire tanto a qualificare la verità di una proposizione quanto a
indicare ciò che sussiste di fatto o che è reale. Epicuro considerava come criteri di verità le
sensazioni, la prolessi , le passioni. La sensazione è irrazionale e non ha una memoria, la
memoria è una funzione superiore e fa parte dell’elaborazione successiva all’impatto
della sensazione. Viene sviluppata da Epicuro facendo tesoro della teoria atomistica di
Democlito con tutte le differenze che sono state studiate da Marx. La sensazione non è
causata da fattori esterni e non può modificare in nessun modo questa causazione ed è
un qualcosa di completamente affidabile perché non c’è una sensazione che può
confutarne un'altra. Neppure può essere confutata con un ragionamento perché è
qualcosa di successivo. La sensazione è il fondamento di tutte le conoscenze e non
possiamo non affidarci nel conoscere il mondo. La sensazione è il primo passo verso
qualcosa di successivo che è il giudizio a cui possiamo attribuire un valore di verità.
La prolessi è anche chiamata retta opinione, perché prolessi di fatto si può tradurre come
anticipazione è un qualcosa che ci prende prima. Noi abbiamo fatto esperienza molte
volte di un certo oggetti e ce ne costruiamo un immagine mentale che viene conservata
nella memoria e quando ci troviamo davanti a un oggetto riconducibile a quell’immagine
mentale ecco che abbiamo una prolessi. Non siamo sicuri che quell’oggetto sia quello
della nostra immagine ma in mancanza di altre informazioni applichiamo quel concetto.
Esempio: oggetto che vedo da lontano non so bene se è un bue o un cavallo.
La prolessi è l’immagine che raccoglie tutti questi caratteri a partire dai dati della
sensazione. L’evidenza e in connessione con i nomi, posto sotto i nomi, è come se ci fosse
una gerarchia, una realtà da un lato e i nomi dall’altro, e sotto i nomi ci sono le evidenze.
Non possiamo nominare nulla se non abbiamo avuto esperienza, dobbiamo avere già in
memoria un oggetto per riconoscerlo. La prolessi ci permette di anticipare un esperienza
di fatto, che consiste proprio nel ricondurre un oggetto a un concetto più generale che da
la possibilità di nominare gli oggetti. Aggiungiamo il fatto che noi sulle prolessi
produciamo delle opinioni e dei giudizi. Ciò che noi produciamo sono opinioni che
possono essere veri o falsi, non le sensazioni ne le prolessi ne le passioni ma solo le
opinioni o i giudizi.
Le opinioni; Fino a prova contraria se un giudizio non è smentito dall’esperienza lo
possiamo tenere per vero. Ha due criteri di verità; uno molto stringente he richiede la
conferma. Questo oggetto diventa qualcosa che aspetta conferma e viene chiamato il
PROSMEON. Quando un oggetto non è abbastanza approssimato e non posso ne
confermarlo e smentirlo posso ritenerlo vero ma anche falso. Bisogna però distinguere il
dato sensoriale attendibile che ci danno le sensazioni dal giudizio che ne posso dare una
volta che l’ho acquisito e che a questo concetto è stato collegato un nome. Ci spiega poi
che questo processo di formulazione di opinioni è basato su un processo semiotico, il
verbo che viene usato è semeiosometha cioè noi inferiamo a partire dai segni, le
sensazioni sono segni a partire dai quali una elaborazione mentale di elabora un giudizio.
LE passioni; che sono il terzo criterio di verità, sono assolutamente affidabili e vere. Ci
sono quelle che sono conformi a determinati esseri viventi e quelle contrari. Piacere e
doloro si definiscono in relazione agli esseri viventi, su questa base si giudica ciò che si
deve scegliere e ciò che si deve evitare. La morale epicurea è quella fondata sul piacere e
sul dolore. Distingue molto chiaramente le passioni di base ( piacere e dolore) e il
giudizio.
Teoria dei simulacri;
Come funziona la percezione sensibili? Attraverso la concezione che ciò che è la materia è
costituita da atomi e che gli atomi sono la vera realtà delle cose, sono tutti omogenei.
Partendo dall’oggetto possiamo constatare che Epicuro aveva elaborato una vera e
propria teoria dell’immagine. Le immagini hanno la stessa forma degli oggetti solidi, ma
per sottigliezza sono molto differenti da ciò che si vede. Si producono delle immagini e
queste immagini vengono chiamate simulache, Quello che fa Epicuro è di fondare la
sensazione su una teoria meccanica del flusso di atomi che mantiene la disposizione e che
riproduce le caratteristiche formali dei corpi da cui si riparte e queste configurazioni di
atomi sono chiamate immagini delle cose. Usa la propria teoria della verità anche alla
teoria atomistica e alle caratteristiche che vengono espresse in questa teoria dicendo che
i simulache sono sottilissimi che non riusciamo a vederli perché sono talmente piccoli che
non riusciamo a concepirli. C’è un flusso continuo di simulache che è lo scorrere che
troveremo anche in Plotino. Questi flussi conservano posizioni e ordini da cui provengono
e quindi sono garanzia. Epicuro è con questa teoria impegnato a rendere conto del fatto
che gli oggetti, visti da vicino, presentano certe dimensioni, mentre ne presentano altre,
molto minori, se visti da lontano, senza entrare in contraddizione con il principio che la
sensazione è garanzia di verità in ogni caso, e ci si troverebbe di fronte veramente a una
contraddizione se la phantasia (fantasia) fosse un’immagine dell’oggetto, mentre in
realtà è un’immagine del simulacro.
La teoria del linguaggio;
Fondamentalmente distingue due momenti; un momento di reazione naturale. Nella vita
di Epicuro descrive l’origine del linguaggio, il primo momento naturalista è una reazione
spontanea il secondo è una razionalizzazione. I nomi delle cose non furono in principio
stabiliti, spiega la differenza delle lingue tra le diverse popolazioni con la disposizione
geografica. Questo viene ripreso da Lucrezio nel de rerum natura;
argomenta dicendo che è irrazionale pensare che ci sia stata una persone che imponesse
il linguaggio è i suoni è impensabile. Forse dice, dobbiamo partire dal linguaggio degli
animali, questo perché non ha senso pensare che un uomo abbiamo inventato un
linguaggio e abbia costretto i molti ad impararlo, e ci dice che il fatto che esistano diverse
lingue e vocaboli, dobbiamo paragonarlo agli animali, anche loro emettono suoni diversi
questo è dovuto al diverso clima e settore geografico. Quindi ha più senso pensare che gli
uomini hanno iniziato a dare dei nomi agli oggetti e infine di comune accordo decisero
alcune espressioni per potersi capire.

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