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CICERONE FILOSOFO

LA FILOSOFIA IN CICERONE
I latini non hanno mai elaborato un pensiero filosofico: non avevano una lingua adatta a
parlare di concetti astratti. Cicerone dunque inventò una lingua proprio per fare ciò e lo
fece con opere di tipo dialogico (come modello aveva Platone, sulla cui scia scrisse tutte le
sue opere). In queste opere vengono ribattute le tesi delle scuole filosofiche epicuree. Con
Cicerone si parla di eclettismo (non possiamo collocarlo in un sistema filosofico preciso):
propone il meglio di queste scuole filosofiche. Già in Grecia molte scuole filosofiche si
incontrarono concordando su diversi punti; ma Cicerone, dopo aver esposto le tesi su un
problema ben preciso, era solito indicare quella che reputasse migliore.
Cicerone si dedica dal 46 a.C. al 44 a.C. al componimento compulsivo delle sue opere
filosofiche: parliamo del biennio della dittatura di Cesare.
Quando si parlò di schierarsi tra Cesare e Pompeo, dopo Farsalo abbandonò Pompeo, stette
un po’ in Grecia poiché si era compromesso, ma Cesare non stilò le liste di proscrizione dei
nemici poiché decise di porre fine a queste guerre civili tra soldati che in campagne
precedenti avevano combattuto insieme. Utilizzò il criterio della clementia nei confronti dei
suoi avversari e perdonò tutti.
A Cicerone viene preclusa la possibilità di ricoprire cariche politiche: in questi anni di
allontanamento forzato dalla politica, si dedicò alla filosofia.
Qualche anno prima di lui, Lucrezio col De Rerum Natura cercò di far conoscere ai romani il
pensiero di Epicuro.
L'eclettismo era una tendenza già presente nelle scuole ellenistiche. Cicerone pensa che
l’eclettismo sia la corrente filosofica più adatta a Roma e tutte le sue opere lo esaltano nella
struttura: sono dialoghi, come quelli di Platone, il quale usava la forma dialogica per esporre
le sue tesi (sono la mimesi di Socrate).
Le scuse che espone per giustificarsi del suo essersi dedicato compulsivamente alla scrittura
di opere filosofiche possono essere trovate sia nelle sue opere filosofiche che nelle lettere.
L’originalità di Cicerone non risiede nel fatto che abbia fatto conoscere la filosofia greca ai
Romani (molte opere sono la traduzione di dottrine filosofiche), va però riconosciuto un gran
valore culturale in queste opere perché ha compiuto un’operazione linguistica importante
perché ha forgiato la lingua (latino filosofico) adatta ai Romani per la filosofia, in quanto la
lingua latina non era adatta a esprimere concetti astratti. Non ha fatto altro che tradurre
dottrine e teorie filosofiche dei grandi sistemi (come Platone).
Possiamo cogliere l’originalità di Cicerone nell’aver lui, da romano e col suo eclettismo,
scelto quei valori etici applicabili e da applicare (adatti all’aristocrazia, gli homines boni,
nell’ambiente socio-politico) che potessero rispondere meglio alle esigenze di un civis
romanus. Ha proposto tra le varie dottrine filosofiche greche quei principi adeguati a
rispondere a quei interrogativi che il civis romanus si poneva nella vita di tutti i giorni.
Dunque è estremamente pragmatico: ha messo da parte tutto ciò che non era applicabile
perché il suo intento era l’utilità, che non va sempre a braccetto con l’astratto.
OPERE FILOSOFICHE
Tutte le opere si collocano nel biennio della dittatura di Cesare.
Le prime furono i cosiddetti Paradoxa stoicorum, composta nel 46 a.C., in cui Cicerone
cerca di dimostrare alcune affermazioni degli stoici, che possono sembrare indimostrabili
(paradossi), ma invece lo sono (“solo il saggio è ricco”, che in realtà può essere dimostrata: la
spiegazione fa leva sul significato di ricco). Sono l’unica opera superstite di questo gruppo di
opere minori. Ad affiancare quest’opera vi era una Consolatio rivolta a se stesso del 45 a.C.,
che fu scritta per la morte della figlia Tullia (forse morta di parto): parleremo in maniera
diffusa del genere delle consolationes quando parleremo di Seneca (questo genere letterario
nacque in Grecia per dare supporto per superare i momenti tristi della vita, come l’esilio e la
morte di un parente). Tuttavia questo testo non ci è giunto.
Un altro scritto di questo gruppo era l’Hortensius (45 a.C.), che era un’esortazione alla
filosofia che però non ci è giunta (queste opere di esortazione erano detti propertici).
Nel 45-44 a.C. scrisse gli Academica, in due libri, che sono una sintesi di due opere più
grandi, gli Academica priora in due libri e gli Academica posteriora in quattro libri,
entrambe andate perdute. Quest’opera sintetizza il contenuto di queste due opere:
-nel libro libro viene trattata la teoria della conoscenza, affrontato in maniera vicina alla
posizione degli scettici. Cicerone si mostra di essere vicino alla posizione della Nuova
Accademia, successiva a Platone e che si distingue in cinque Accademie. I neoaccademici
avevano escluso che, ammesso che fosse possibile una conoscenza assoluta, essa fosse
accessibile all’uomo perché non appartenente alla conoscenza sensibile. Tuttavia l’uomo, se
si lascia guidare da un corretto uso della ragione, può scegliere tra le varie opinioni quella più
probabile (probabilismo);
-il secondo libro è la storia dell’evoluzione della filosofia della scuola di Platone.
Un’altra opera importante, più tecnica, è il De finibus bonorum et malorum (“Il sommo bene
e il sommo male”, ossia qual è uno e quale l’altro); in cinque libri e in forma dialogica e
dedicata a Bruto. C’è un omaggio a Platone, punto di riferimento e che aveva usato la forma
dialogica, che meglio imitava i discorsi di Socrate. Tale forma gli permetteva di far esporre a
più personaggi le teorie delle scuole filosofiche per poi arrivare ad una sintesi. I tre dialoghi
che compongono il De finibus sembra siano stati svolti tra diversi interlocutori e in diversi
posti, ma Cicerone è sempre presente in tutti e tre i dialoghi. Nel primo e secondo libro Lucio
Manlio Torquato espone la dottrina epicurea del sommo bene, che è la felicità (che
incarna l’obiettivo fondamentale dell’uomo), ossia l’atarassia. A confutare tale teoria è
Cicerone in persona. L’unica dottrina in cui egli non si riconosce è quella epicurea, che viene
sempre confutata. Nel terzo e nel quarto libro Catone Il Giovane espone la dottrina stoica
del sommo bene, che è la felicità (che si consegue con l'esercizio della virtù, che deve
abituare l’uomo a staccarsi da tutti i beni materiali, che sono tutti falsi beni), ossia la apatheia.
Nel quinto libro Marco Pupio Pisone espone la dottrina neoaccademica del sommo bene,
che anche Cicerone accoglie perché ritiene la dottrina stoica troppo rigida e mortificante, e
quindi non adeguata all’aristocrazia romana. Tale dottrina lasciava all’uomo virtuoso spazio
anche per i beni materiali, e non solo per quelli spirituali. Tale opera sembra essere più vicina
a quest’ultima dottrina.
Questa visione viene corretta nelle Tusculanae disputationes, in cui Cicerone sembra
accogliere la visione stoica della virtù. È un’opera in cinque libri che contiene cinque
dialoghi su cinque argomenti su come raggiungere la felicità rimuovendo gli ostacoli. È
dedicata a Bruto. Questi dialoghi si svolgono in una cornice, la villa di Tuscolo di Cicerone:
non ci sono i nomi degli interlocutori. Avvengono tra un magister e un discipulus, che
rimangono però anonimi.
Quali sono gli ostacoli per raggiungere la felicità?
-nel primo libro viene messo a fuoco come primo ostacolo per raggiungere la felicità il
timore della morte, a causa della quale l’uomo non può essere felice. Epicuro aveva fornito
la dottrina del tetrapharmakon per eliminare ciò. La morte non deve essere temuta né se
l’anima è immortale né se è mortale, poiché se corpo e anima muoio nello stesso momento,
non si deve temere qualcosa che pone fine a tutto; se invece l’anima prosegue, non bisogna
temere perché cambia solo la sede dell’anima (dal corpo ad un altro mondo). Si affronta
anche il tema dell’immortalità dell’anima, a cui Cicerone tende (vi sono gli stessi esempi
forniti da Platone).
-il secondo libro mette a fuoco come ostacolo per raggiungere la felicità il dolore, che non
rende felici. Il dolore è sicuramente un male, ma la pratica e l’esercizio della filosofia
insegnano a dominare il dolore (più è lungo e meno dura).
-il terzo libro mette a fuoco come ostacolo per raggiungere la felicità gli affanni, che nascono
nell’uomo dal considerare in maniera sbagliata ciò che male non è (ancora la ragione serve a
eliminare gli affanni).
-il quarto libro mette a fuoco come ostacolo per raggiungere la felicità le passioni dell’animo
(la gioia, la paura), che nascono da una sbagliata interpretazione delle cose. Anche in questo
caso la filosofia elimina tale ostacolo.
-il quinto libro mette a fuoco come ostacolo per raggiungere la felicità il timore che
l’esercizio della virtù non basti per essere felici: il saggio è felice di per sé perché ha la
virtù, e quindi non ha bisogno di nient’altro.
Parliamo ora delle opere filosofiche di carattere più teologico, in cui si analizza il rapporto tra
uomo e divinità. Sono opere strettamente legate tra loro, e sono: il De natura deorum, il De
fato e il De divinatione in forma dialogica.
Il De natura deorum è in tre libri e si presenta come un dialogo unico (gli interlocutori non
cambiano all’interno dell’opera) fra alcuni personaggi romani adunati nella casa di Aurelio
Cotta. La questione è la natura degli dei, sulla quale l’epicureismo e lo stoicismo sono in
disaccordo.
L'epicureismo non predicava l’ateismo: gli dei ci sono e sono fatti di atomi particolari
perché sono incorruttibili ed eterni, non come l’uomo; ma per questa diversità strutturale, non
hanno nulla a che fare con l'uomo e vivono nell’Iperuranio: non seguono le vicende
dell’uomo; è una visione religiosa. Ciò ha ripercussioni sull’etica e sul rapporto tra la divinità
e l’uomo: l’uomo non deve aver paura degli dei e di una loro punizione poiché
quest’ultimi non hanno nulla a che fare con loro e dunque l’uomo si può liberare dalle
paure che non permettono l’ἀταρασσία. Un pensiero del genere porta ad una sorta di
determinismo che non è nelle forze dell’uomo e per salvare l’idea della libertà, viene
introdotta una forza detta clinamen, che può portare delle modifiche.
Secondo lo stoicismo invece, si crede nell’esistenza degli dei e si afferma che quest’ultimi
sono l'emanazione di un λόγος universale che impregna l’universo, la natura e l'uomo. Ciò fa
scaturire l’idea di una divinità provvidenziale che agisce solo per il bene della natura e
dell’uomo.
Velleio espone la dottrina epicurea, secondo la quale gli dei non devono essere temuti.
Lucio Balbo espone la dottrina stoica: gli dei esistono e si prendono cura degli uomini.
Aurelio Cotta, proprietario della casa in cui si svolge il dialogo, espone la dottrina scettica
della nuova accademia mettendo in discussione le altre due dottrine: l’uomo non può dire
nulla su tutto ciò che va al di là dei giudizi dell’uomo; l’uomo deve dunque evitare di fare
affermazioni assoluti: la conoscenza dell’uomo è più probabile, ma non assoluta. La sua
posizione è quella della sospensione del giudizio: non possiamo dire nulla della natura degli
dei perché non abbiamo gli strumenti conoscitivi (tutti possono avere ragione).
Cicerone parla per ultimo, come nelle sue cause (faceva l’arringa finale), e sostiene la teoria
di Balbo: mentre in altre opere era stato vicino alle posizioni scettiche della nuova accademia,
in questo caso è in perfetta linea alla dottrina stoica, che si adattava meglio ai valori etici e
politici di Roma (è un esempio lampante del suo eclettismo: per alcuni problemi è vicino allo
scetticismo, in altri allo stoicismo).
Il De fato parla del destino, la sorte. È un dialogo incompleto in cui si affronta la visione
provvidenzialistica degli stoici, che credevano in un destino stabilito a priori dalla divinità:
di conseguenza è possibile conoscere questa sorte da parte di alcuni. È una premessa logica
per la teoria logica della predestinazione (la capacità dell’uomo di poter comprendere e
conoscere la volontà divina.
Nel De divinatione è in due libri e affronta il problema dell’attendibilità dei segni
premonitori divini (esistono delle persone capaci di interpretare i segni premonitori che la
divinità mostra agli uomini in relazione al proprio futuro: è l’arte degli aruspici). La teoria
provvidenzialistica stoica viene esposta dal fratello di Cicerone Quinto, ma viene confutata
da Cicerone stesso, che si mostra molto scettico sull’esistenza di questi segni premonitori e
sull'attendibilità delle persone che ritenevano che esistessero questi segni, che loro sapevano
interpretarli. Cicerone si chiede se sia opportuno per l’uomo conoscere il proprio futuro: fa
degli esempi finti di quello che potrebbe accadere se l’uomo conoscesse il proprio
destino. Per quanto sia scettico su questo argomento, dice però che è importante che gli altri
ci credano perché capisce che se il popolo crede in questi segni rivelati da pontefici e figure
istituzionali, diventando così più facilmente controllabile (religio instrumentum regni).
Il De officiis (“sui doveri”) è un’opera diversa dalle altre perché è un trattato in tre libri
dedicato al figlio Marco, e non un dialogo, sul comportamento dell’uomo che vive in
società con altri uomini.
È ispirato al Περὶ τοῦ καθήκοντος (“sul dovere”, “su ciò che è conveniente”) di Panezio
di Rodi. In quest'opera si realizza il fine della riflessione filosofica di Cicerone: la
conoscenza delle dottrine filosofiche era una premessa per delineare una linea concreta del
comportamento dell’uomo. L’uomo che mira a far parte della classe dirigente politica di
Roma deve seguire i precetti di quelle teorie selezionate nel corso delle altre opere da
Cicerone e i doveri.
-nel primo libro si tratta l’honestum (onestà), che per Cicerone è il massimo bene morale.
Questa onestà è perseguibile seguendo le quattro virtù stoiche (sapienza, giustizia, fortezza e
temperanza), che se praticate, rendono la persona onesta. La sapienza è il desiderio di
conoscere ed è innata. La giustizia è il fondamento del vivere civili (nel descrivere questa
virtù, Cicerone insiste sull’importanza della proprietà privata, connaturata in ogni uomo: in
questo periodo storico da parte dei populares era sempre più incessante la richiesta della
distribuzione di terre da sottrarre agli aristocratici, cosa che secondo cicerone non è giusta).
La magnanimità, o fortezza, si manifesta in un desiderio sano di primeggiare (si sta
delineando il comportamento dell’uomo molto simile a Cicerone, uomo che sviluppa dentro
di sé un senso innato della verità, e che pratica una giustizia che non cerca di equiparare tra di
loro le persone e che non deve essere limitato nel suo desiderio di primeggiare, poiché se non
gli si da la possibilità di emergere, l’uomo non riesce a esprimere se stesso a pieno).
La temperanza è il desiderio innato di armonia e equilibrio, e si traduce nella moderazione in
una sorta di senso della conoscenza del senso della convenienza, indispensabile nelle
relazioni con altri .
(è una persona che sa comportarsi correttamente in ogni situazione: è una persona che sa cosa
è il decorum, ovvero il senso dell'opportunità e della convenienza).
-nel secondo libro si tratta il tema dell’utilità, che non si contrappone all’honestum, ma è
estremamente legato a questo, quando l’utile mira alla gloria. Parliamo di utilità collettiva,
che non deve essere in contrasto con la collettività.
-nel terzo libro Cicerone ci dice che utile e onesto coincidono poiché niente che sia onesto
non è utile e niente che sia utile non è onesto.
Da questo libro viene fuori l’aristocratico romano, che può ambire a migliorare la sua
posizione sociale ed economica purché rispetti le regole dell’honestum e dell’utile.
La parte finale diventa una sorta di galateo dei doveri: vengono indicati dettagliatamente alla
classe dirigente romana i comportamenti dettagliati che permettono la realizzazione di questa
virtù. Parte dalla classificazioni delle professioni decorose (dalla più decorosa alla meno
decorosa), per seguire poi con i precetti sull'eleganza nel vestire, come si deve arredare una
casa. È una sorta di guida che lascia alla società romana dopo le guerre civili, ma i boni cives
furono travolti dagli eventi storici e l’opera rimase come punto di riferimento per le
generazioni successive quando l’aristocrazia ha cercato di salire al potere.
Le due opere minori per le dimensioni e per la specificità dell’argomento (anche in realtà non
lo sono): sono il tema dell’amicizia e il tema della vecchiaia. Queste opere furono apprezzate
maggiormente e sono: Cato Maior De Senectute e Laelius De Amicitia. I nomi rispettano le
persone più adatte a presentare questi argomenti. Cato Maior è Catone Il Censore e Lelio è
l’amico più caro di Scipione (del Somnium Scipionis), con il quale aveva condiviso non solo
la vita pubblica, ma anche in quella privata. Si immagina che i dialoghi siano avvenuti
precedentemente. Queste opere sono dedicate ad Attico, amico più caro di Cicerone, e sono
ambientate nella Roma del II secolo a.C., che aveva idealizzato nella figura di Scipione
Emiliano, aperto alla cultura greca e difensore dell'autorità civile e morale degli optimates, di
cui lui faceva parte.
Cato Maior de Senectute è un dialogo che si immagina essersi volto nel 150 a.C. tra Catone
Il Censore, Scipione Emiliano e Lelio. L’argomento è la vecchiaia: Catone nel 150 a.C. aveva
84 anni (morirà l’anno dopo) ed era una persona rigorosa, importante nella storia della
letteratura latina (introduce l’abitudine di trascrivere i discorsi che pronunciava nei luoghi
della politica: inizia l’oratoria e la storiografia con le sue Origines). Si era speso come uomo
politico: aveva coperto tutte le cariche del cursus honorum (anche la carica di censore, grazie
alla quale è ricordato). Chi meglio di Catone, ormai avanti negli anni e prossimo alla morte,
poteva parlare meglio della vecchiaia? Il circolo degli Scipioni viene inaugurato da Scipione
Emiliano quando Roma era entrata in contatto coi greci: dopo di lui, tutti i giovani vennero
mandati in Grecia per terminare gli studi (tutto ciò grazie alla sensibilità di Scipione, che fece
di tutto per colmare le differenze tra Romani e Greci). Catone era contrario e sostenitore del
mos maiorum: lancia le sue invettive contro l’aristocrazia, che ormai si stava corrompendo.
Secondo Catone, i costumi greci erano una minaccia per il mos maiorum (si propose come
promotore della cacciata degli oratori e dei filosofi da Roma). Col suo atteggiamento censorio
e rigoroso, egli era agli antipodi rispetto a Scipione. Lelio sarà il protagonista anche dell’altra
opera: diventerà secondo Cicerone l’unica persona in grado di trattare il tema dell’amicizia.
In questo dialogo confuta tutte le accuse lanciate alla sua età: si difende dicendo che non è
vero che l’uomo anziano non possa più essere abile o dedicarsi alla politica e allo studio,
anche se il fisico è indebolito (queste mancanze vengono ricompensate dall’attività spirituale
e dall’esperienza). Pur essendo l’anziano privato di molti piaceri di cui godono i giovani,
questo è un bene più che un male. Anche se l’anziano è più vicino alla morte, non significa
che l’anziano sia vicino alla morte più di un giovane perché non sappiamo quanti anni ci sono
dati da vivere.
Laelius De Amicitia si immagina svolto nel 129 a.C., pochi anni dopo la morte di Scipione
Emiliano (morì in circostanze non sospette: gli autori descrivono la sua morte, non dovuta
alla vecchiaia, e dicono che la sera prima aveva parlato in un discorso pubblico e non
sembrava che stesse per morire, ma di notte morì. Cicerone riteneva che fosse stato uno dei
suoi familiari). Si svolge tra Lelio, amico di Scipione, e i suoi due generi (Fannio e Scevola).
Il tema è l’amicizia: Lelio è ancora addolorato per la morte dell’amico e sembra fosse la
persona più adatta a rispondere a domande sull’amicizia.
Nella parte iniziale i due generi chiedono a Lelio come si sentisse e se fosse addolorato di
questa morte: lui, per quanto ammetta di esserlo, cerca di dimostrare di sbagliare con una
serie di ragionamenti filosofici (morto all’apice del successo, Scipione non poteva aspettarsi
di meglio poiché lo aveva già). Svolto l’argomento, si va ad indagare questo sentimento
dell’amicizia:
Secondo Lelio l’amicizia non nasce da una condizione di bisogno (come pensavano gli
epicurei: due persone diventano amiche quando uno dei due ha bisogno), ma dal desiderio di
condividere le proprie virtù coi propri simili in uno scambio reciproco e disinteressato.
Da questa affermazione ne deriva che l'amicizia può esserci soltanto tra persone ugualmente
virtuose (le stesse virtù). Il dilemma su cosa fare se un amico ti chiede di fare qualcosa di non
giusto non viene neanche concepita perché verrebbe meno la conditio di bonus, che farebbe
venir meno l’amicizia.
LUCIO ANNEO SENECA

INTRODUZIONE ALL’ETÀ IMPERIALE


La ricostruzione dell’età imperiale l'abbiamo grazie a Svetonio e Tacito (che iniziò prima a
narrare questo periodo, poi con gli Annales tornò indietro: dal regno di Tiberio).
Augusto aveva fatto leva sul suo carisma e la sua abilità di riuscire a coinvolgere nel suo
programma anche intellettuali di varia estrazione (gli fu riconosciuta anche l'auctoritas).
Tuttavia si dovette rivedere tutto alla morte di Augusto: per una ragione di morti
precocissime (i nipoti morirono tutti bambini), Augusto non trovò nessun altro a cui affidare
questo fardello dell’impero, se non a Tiberio. Nessuno aveva ottenuto l'auctoritas come
Augusto: ma era frutto di una successione dinastica (cosa singolare che Roma abbia accettato
la successione di Tiberio).
Sempre di più ci si accorse che la Repubblica aveva lasciato il posto ad una forma di
monarchia: all’intellettuale non rimase che sottomettersi alla figura del princeps o opporsi in
nome della libertà (con la certezza che il suo dissenso sarebbe andato incontro alla censura e
alla condanna: l’intellettuale perde la libertà di espressione, a maggior ragione se contro il
consenso politico). Questo dissenso serpeggiava anche tra le opere che circolano dei circoli
filo-repubblicani. Era molto diffuso il mito di Catone Il Censore (uccisosi a Utica), che
divenne la figura più importante e di riferimento, dal momento che molti si suicidarono come
egli fece: Lucano, Seneca e Petronio.
Sul piano storico letterario sono due gli elementi che caratterizzano questo periodo: la
ripresa degli studi di retorica frequentati da scrittori e poeti (grande attenzione alla
forma, anche a discapito dei contenuti, che ora sono limitati) e l’impulso che diede alla
letteratura Nerone (appassionato di musica e poesia: nel suo principato sono attivi il
maggior numero di scrittori), tanto che alcuni parlano di rinascita neroniana (Nerone non si
oppose alle sperimentazioni, ma è chiaro il disagio interiore degli autori, segnati da questo
cambiamento politico).
Finisce così il Classicismo: precedentemente gli intellettuali si esprimevano in maniera piana
e serena poiché si pensava fosse possibile dire a parole ciò che si pensava; invece quando ciò
non fu più possibile, la lingua venne ritenuta incapace di far coincidere il pensiero con la
parola (l’uso di metafore e termini di settori linguistici che non era mai entrati nella
letteratura, le frasi e il periodare che nascondeva due livelli di lettura, fecero sì che la scrittura
fosse nervosa e più difficile da decodificare). Si perde la corrispondenza tra pensiero e
chiarezza espressiva.
In Nerone troviamo un rapporto schizofrenico tra l’intellettuale e Nerone: si ingelosiva nel
momento in cui queste persone della sua corte fossero più brave di lui e reagiva in maniera
violenta, tanto da trovare pretesti per accusarli di lesa maestà o di partecipazione a congiure.
BIOGRAFIA
La fonte principale che riporta la vita di Seneca sono soprattutto le sue opere: parliamo delle
Epistulae Morales ad Lucilium, in cui l’autore rievocò gli esordi storiografici.
Nacque a Cordoba nel 4-2 a.C. da Seneca Il Retore e Elvia. La sua famiglia apparteneva alla
grande nobiltà romana (gli Anni, gens Annea), che si era trasferita in provincia ed era entrata
nell’élite socio-culturale.
Uno dei due fratelli di Seneca, Mela, fu il padre dello scrittore Lucano.
Anche Seneca giunse a Roma per portare a termine gli studi (non si andava quasi più in
Grecia per terminarli, ma a Roma); ma dopo un’infelice esperienza con un anonymous
grammaticus, mollò questa scuola e iniziò a frequentare la scuola di Papirio Fabiano, uno
dei massimi retori del tempo e con una grande passione alla filosofia (questo fu un maestro
che Seneca ricordò con grande ammirazione).
Seguì poi le lezioni di Attalo (arrivato da Pergamo) e del pitagorico vegetariano Sozione di
Alessandria (che viene citato da Ovidio nel X libro delle Metamorfosi).
Il padre gli consigliò spesso di non dedicarsi alla filosofia, ma di dedicarsi alla retorica.
Questo fatto è importante perché, convinto nella metempsicosi come tutti i pitagorici e nel
non mangiare carne per avere benefici, seguì una dieta vegetariana che lo fece diventare
pelle e ossa.
Questa fase pitagorica finì nei primi anni di Tiberio, quando i culti stranieri e le pratiche
pitagoriche alla cultura greca furono condannati e messi al bando. Nell’Epistola 108 ricorda
l’insistenza del padre ad abbandonare il pitagorismo non tanto per la repressione politica, ma
perché Seneca Il Vecchio si dichiarava contro tutte le filosofie. Questa è un’epistola in cui
Seneca per la prima volta sottolinea in maniera velata una forma di dissenso col potere.
Il padre di Seneca non riuscì però a soffocare questa vocazione del figlio, che decise di
rivolgersi allo stoicismo, diffuso nella scuola dei Sestii (fondata da Quinto Sestio
nel 40 a.C.), chiusa nel 19 d.C. da un editto di Tiberio. In questo periodo soggiorna in Egitto
per qualche anno, per alcuni per ragioni di prudenza, per altri per curare la sua salute (disturbi
respiratori che gli fecero balenare l’idea del suicidio, come ci dice nell’Epistola 78;
quest’idea venne accantonata in considerazione del dispiacere che avrebbe prodotto nel padre
e perché si sarebbe sentito un traditore degli studi filosofici che aveva praticato: la filosofia è
un φάρμακον per la sua salute). In Egitto fu affidato alle cure della zia materna (moglie
del prefetto d’Egitto Gaio Valerio), che lo aveva accompagnato da giovane da Cordoba a
Roma, e grazie al quale iniziò il suo cursus honorum (ricoprì la carica di questore, la più
bassa).
A questo periodo risalgono delle opere geo-etnografiche sull’Egitto, di cui abbiamo i titoli,
ma non il testo vero e proprio. Intorno al 31 d.C. torna a Roma: sembra ristabilito e inizia la
carriera politica, mettendosi in luce in senato per l'abilità oratoria. Tuttavia l’imperatore era
Caligola e sembra che, da quanto ci raccontano i biografi, fosse invidioso della sua abilità e
di conseguenza sembra che prese ad odiarlo e voleva dunque condannarlo a morte. Tuttavia
Seneca riesce a sfuggire alla condanna a morte nel 39 d.C. grazie all’intercessione di una sua
amica, che distolse Caligola dalla condanna a morte dicendo che le condizioni di salute di
Seneca erano precarie e che mancava ormai poco alla morte. Nel 41 d.C., sotto Claudio, la
condanna ha come conseguenza l’esilio doloroso in Corsica, durato 8 anni. L’accusa formale
era quella di adulterio con la sorella di Caligola, Giulia Livilla, rivale di Messalina, moglie di
Claudio, che voleva toglierla di mezzo perché la vedeva come una possibile concorrente. Alla
fine Seneca finì coinvolto: Giulia Livilla fu confinata in esilio sull’isola di Ventotene e due
anni dopo fu uccisa; invece Seneca continuò a cercare di accettare questo suo esilio in
Corsica. Qualcuno attribuisce la causa dell’esilio all’aver manifestato in senato un pensiero
di opposizione nei confronti di Claudio. Seneca ha composto tre consolationes, e sembra
che per individuare questo motivo nella Consolatio ad Marciam, scritta tra il 37 d.C. e il
41 d.C., potrebbe esprimere questa sua opposizione.
Marcia era la figlia dello storico Cremuzio Cordo, in opposizione già al regime augusteo,
che si lasciò morire di fame dopo che Tiberio lasciò andare in fiamme i suoi Annales. Seneca
scrisse questa consolatio per consolare Marcia per la perdita del figlio Metilio utilizzando
tutti i τόποι della letteratura consolatoria nata in Grecia (la morte, qualunque sia il destino
dell’anima, non va temuta). L’altro argomento è che la morte deve essere giudicata come
pietosa se impedisce all’uomo di vivere in tempi terribili e tristi. Il ricordo del passato gioioso
e felice deve consolare il male del presente.
Accanto a questi motivi consolatori nei confronti di Marcia, Seneca trova il modo di elogiare
il padre di Marcia. Questo scritto ci autorizza a pensare che la ragione dell’esilio nascondeva
ben altro.
In esilio scrive altre due consolationes: Consolatio ad Helviam matrem e Consolatio ad
Polybium. Le consolationes erano un sottogenere della letteratura filosofica diatribica (la
diatriba era un modo di comunicare tipico della scuola stoico-cinica: era una discussione che
partiva da un argomento non dei massimi sistemi, che la persona, che lo svolgeva, pensava
fosse scaturito dalla domanda di qualcuno: “Perché i buoni soffrono più dei cattivi?”.
Attraverso una serie di domande si trattava l’argomento con un tono pacato, discorsivo,
calmo e che dovesse essere credibile. Era una discussione su temi filosofici non di livello
troppo elevato). Le consolationes erano degli scritti con i quali si consolava il destinatario
con questi τόποι elaborati dalle filosofie e che portavano alla sopportazione della morte e
della sofferenza. Qui è già presente il pensiero di Seneca. L’idea di fondo è che il dolore sia
connaturato alla natura dell’uomo, ma l’abbandonarsi al dolore è un vitium poiché la ragione
ci deve allenare alla sofferenza (una persona preparata a sopportare, soffre di meno: la morte
libera le catene del corpo). La Consolatio ad Helviam matrem consola la madre per l'esilio,
che è solo un cambiamento di luogo e non può turbare la serenità del saggio, il quale deve
saper dare il giusto valore alle cose. Il saggio porta sempre dietro le virtù, che aiutano a
sopportare le sventure: seguono esempi di personaggi, come Bruto il cesaricida e
l’anticesariano Marcello che rifiutò la clemenza di Cesare e decise di vivere in esilio (come
nel Pro Marcello di Cicerone: indirizzata a Cesare, Cicerone chiede di perdonare i personaggi
ritenuti da lui di alto profilo; e Cesare, utilizzando la clementia, perdonò molte di queste
persone, che andarono a costituire i congiurati che lo uccisero). Marcello morì al Pireo
mentre stava per imbarcarsi a Roma a seguito dell’orazione in cui Cicerone caldeggiava la
revoca dell’esilio. Marcello stesso accolse con calma la revoca e si decise di rientrare a Roma
un anno dopo aver ottenuto il perdono, ma non riuscì mai a tornare.
La Consolatio ad Polybium rappresenta un unicum nella produzione di Seneca perché è un
discorso indirizzato a Polibio, liberto di Claudio e che perse il fratello, ma poi diviene una
supplica a Claudio per revocare l’esilio. È uno scritto che sembra incoerente con le altre
opere, caratterizzate dall’invito costante ad essere al di sopra delle sventure in linea coi
principi dello stoicismo. Alcuni hanno ritenuto spuria questa consolatio perché non è
possibile che abbia scelto di adulare il princeps, che lo aveva esiliato. Forse questo scritto ci
mostra le contraddizioni che non mancano sia nella vita che nelle opere di Seneca (nelle
tragedie sembra una persona totalmente diversa da quella che scrisse le opere filosofiche).
L’esilio viene revocato nel 49 d.C. grazie alla volontà di Agrippina, nuova moglie di
Claudio, che lo scelse come precettore di Nerone, figlio avuto da un precedente matrimonio
ed erede al posto di Britannico, legittimo figlio di Claudio. Nel 50 d.C. Agrippina deve
adottare Nerone. Nel 54 d.C. Claudio morì, si dice (Tacito) avvelenato da Agrippina con un
piatto di funghi, e Nerone prese il posto di Claudio. Seneca rimase il suo precettore fino al
62 a.C., in cui a Seneca sfugge di mano Nerone e capisce che ha sconfitto la sua opera di
precettore di un princeps. Seneca festeggiò quest’evento con uno scritto satirico,
Apokolokyntosis, una satira menippea in cui viene derisa senza ritegno la figura di Claudio. È
un componimento divertentissimo da leggere che testimonia l’ostilità nei confronti di
Claudio, simile alle satire menippee, chiamate così perché si dice fossero state iniziate da
Menippo di Gadara nel III secolo a.C.: erano caratterizzate dal prosimetro (alternarsi di
prosa e versi), dal spoudaiogeloion (tono tra il comico e il serio; σπουδαῖος e γελοῖος; come
a Roma Petronio nel Satyricon), dallo svolgersi dell’azione su più piani (Inferi, Terra,
Olimpo), dall’utilizzo di vocaboli stranieri e dall’ambientazione fantastica e anche
grottesca. Il titolo di questa opera è il prodotto di: ἀποθέωσις (“deificazione”: l’apoteosi si
aveva quando la trasformazione in dio) e κολόκυνθα (“zucca”, che sostituisce in ἀποθέωσις
lo θέωσις: non si parla di nessuna trasformazione in zucca, ma la deificazione dello zuccone
di Claudio). L’opera è una caricatura della figura di Claudio, ormai decisa di dover essere
deificata (era necessario che una persona dicesse di aver visto un miracolo).
Nella parte iniziale c’è tutta la satira di questa prassi e c’è un atteggiamento ironico.
Claudio riceve un trattamento molto particolare: dopo aver ironizzato sulle dichiarazioni di
chi sostiene di averli visti salire dopo in cielo, Seneca sposta la narrazione al mondo degli dei
e descrive le Parche, che tessono il filo della vita delle persone.
A queste Parche si chiede di recidere il filo della vita di Claudio per concedergli la cessazione
delle sofferenze. Ne domani uno lunghissimo per il successore Nerone. La scena continua
sull’Olimpo, dove Giove, e Tutti gli dei tra cui era le, non riescono a capire cosa dice e
dubitano che sia un essere umano. Eracle dice di aver avuto a che fare con mostri di ogni
genere, ma questo essere non lo aveva ancora incontrato (ironia di trovarsi di fronte ad
un’entità che non si sapeva se fosse un mostro, un animale o altro). Essendo balbuziente, non
si capiva che lingua parlasse. Eracle si rivolge a lui in greco e chiede che divinità deve
diventare. Tra le divinità c’è la Febbre, che lo aveva accompagnato per tutta la vita, e si fa
garante della sua identità. C’è poi una lacuna nel testo, ma la narrazione riprende con gli dei
che sono perplessi su che Dio deve diventare, non un Dio epicureo (perché se ne dovrebbero
fregare) o stoico (dovrebbe essere di forma sferica). C’è Giano che rifiuta la divinizzazione
degli esseri umani perché stanno deificando persone che non se lo meritano. Diespiter
propone la divinizzazione come tutti gli altri imperatori. Augusto si oppone denunciando le
condanne a morte fatte senza un processo e chiede di farlo cacciare dal cielo, e riesce nel suo
intento.
Nel passare dal cielo agli Inferi, deve passare per la terra, dove Claudio si imbatte nel suo
funerale (vede gran parte della popolazione gioiosa perché sentono di aver riacquistato la
libertà: vi sono gli avvocati corrotti pagati per eliminare gli avversari politici e sono tristi).
Claudio viene introdotto agli Inferi dal liberto Narciso, ma trova tutti i suoi condannati a
morte, che lo conducono da Eaco, che lo condanna ad un supplizio ridicolo: giocare a dadi in
un bossolo, un contenitore che poteva contenere senza fondo). Compare Caligola, suo nipote,
che lo reclama come suo schiavo perché in vita fu preso più volte a schiaffi dallo zio.
Caligola lo avvisa come servo al liberto Menandro. Da morto diventa lo schiavo di un suo
liberto. è un libello satirico: ce n’erano molti in circolazione sotto banco, non in maniera
pubblica.
La libertà della circolazione di quest’opera è che è stata scritta col favore della corte e perché
era rivolta ad un nemico uscito di scena. Viene definita una vendetta privata di Seneca contro
Claudio, o con la complicità con Agrippina e Nerone (veri incisori materiali di Claudio);
allora sarebbe una giustificazione indiretta dei colpevoli di un delitto contro una persona
definita un mostro (assoluzione dei veri colpevoli).

Tutte le opere di Seneca sono una riflessione sulla virtù, e dunque una guida lungo il
percorso che bisogna fare per arrivare a questa virtù attraverso la pratica nel quotidiano:
questo è il contenuto di tutte le opere.
Il pensiero di Seneca è molto vicino allo stoicismo dell'età imperiale (nea stoà): una stoà che
ha messo da parte i problemi che riguardano la coscienza e la gnoseologia, ma che si
concentrava sull’eticità. è lo stoicismo della scuola dei Sestii e di Attalo di Pergamo, che era
imbevuto di neopitagorismo, anche se quest’adesione allo stoicismo non gli impedì di
guardare anche alle altre filosofie (epicureismo compreso). Non abbiamo opere concentrate
su un argomento specifico, ma il suo pensiero è distribuito senza sistematicità nelle sue opere
(asistematicità). Si incentra sui seguenti principi dello stoicismo:
-la convinzione che il mondo è guidato dalla ragione universale (principio razionale), che
imbeve di sé sia la natura, dandole ordine sia armonia, sia nell’uomo, che realizza se stesso
quando conforma la sua natura in questo principio razionale.
-il saggio realizza pienamente la virtù, che coincide con la felicità (non è l’appagamento
del piacere, ma il conseguimento della virtù vivendo secondo ragione e quindi secondo
natura). Il vivere secondo natura si realizza sconfiggendo le passioni (l’ira, che è la peggiore
e a cui dedica un’opera in tre libri e che è l’opposto della ragione, le sofferenze, i dolori, le
paure) e gli istinti irrazionali, mostrandosi superiori alle offese (clemenza), accettando il
destino e la realtà dell’esistenza nella consapevolezza che non esiste nulla che miri alla
sofferenza dell’uomo stesso, liberandosi dalle occupazioni inutili e dai pregiudizi della folla
per sfuggire dal taedium vitae (le persone che si dedicano a queste attività disperdono il
proprio tempo), valorizzando il tempo della propria vita (ci avviciniamo all’epicureismo e
quindi al carpe diem). Il tempo per Seneca non è quello geometrico che si misura, ma è una
dimensione interiore (per la prima volta ne sentiamo parlare; l’unica dimensione percepibile è
il presente, in cui si annullano passato e futuro). Questo tempo interiore ci permette di
mettere a frutto la nostra vita; tutto il resto è iactura (perdita). Ad aiutarci a spendere bene il
tempo sono gli amici (che condividono la stessa esigenza), i libri (che contengono le
riflessioni di autori di ogni tempo che ci insegnano a vivere e a morire: gli stoici e gli epicurei
con la dottrina del tetrapharmakon), dedicarsi a diffondere agli altri le proprie riflessioni
guidandoli (sembra un’incoerenza relativamente alla folla, individuata come qualcosa di cui
liberarsi: il singolo individuo che fa parte di questa folla, in quanto partecipe del λόγος
universale, è un potenziale saggio se si fa guidare dal saggio o dal filosofo; la folla in sé
invece può essere un male). Se ogni uomo è partecipe del λόγος universale, non esistono
differenze tra gli uomini né geografiche (cosmopolitismo stoico) né di carattere sociale:
Seneca elabora un concetto più ampio di humanitas (tutti gli uomini sono uguali). Il saggio,
ovvero il filosofo, si deve impegnare in politica per sostenere chi governa aiutandolo ad
utilizzare virtù e giustizia (contenuto molto bene nel De Clementia, insieme alla quale c’è il
De beneficiis, che ci è giunta insieme alle Naturales Quaestiones fuori dai dialogi; sono
opere più classificabili come opere politiche).

Di Seneca ci sono giunte moltissime opere perlopiù in prosa, che contengono la sua
riflessione etica nei suoi aspetti più disparati. Generalmente si dividono in:
-dialogi: dieci opere suddivise in 12 libri. Non sappiamo quando si sia formata questa
raccolta né se il titolo sia stato dato da Seneca. Non sono come i dialoghi di Platone o
Cicerone, che sono incentrati su una discussione tra due o più personaggi di cui si dicono i
nomi e sono perlopiù inseriti in una cornice che contestualizza il momento in cui si svolge il
dialogo; in Seneca non c’è la cornice e parla sempre in prima persona (ha come
interlocutore, che è spesso fittizio, il dedicatario): tre di questi dialoghi sono le
consolatione, ma sono diatribe che risentono della tradizione stoico-cinica. Abbiamo 72
epigrammi, alcuni di dubbia paternità, e i titoli di opere perdute citate dagli autori cristiani, i
cui argomenti si trovano nelle opere che ci sono giunte. tra le opere attribuite ci sono anche
sei epistole a San Paolo, suo contemporaneo, ma quasi sicuramente sono una falsificazione
di epoca cristiana nata nel momento in cui la pittura cristiana si era diffusa anche a Roma e in
cui si voleva cercare nel pensiero di molti intellettuali romani, tra cui Seneca, punti continuità
tra la cultura classica e gli insegnamenti cristiani).
Invece di seguire il criterio cronologico, si segue quello tematico.
La difficoltà di stabilire una cronologia, suggerisce una ripartizione delle sue opere per temi:
si riconoscono almeno quattro tematiche:
-consolare i sofferenti, ovvero le consolationes,
-le virtù politiche, che devono essere possedute da chi governa, ovvero il De Clementia, il
De Beneficiis e in qualche modo il De Otio;
-il rapporto con la divinità e il tempo, ovvero il De Providentia, De Brevitate Vitae,
Naturales Quaestiones per la concezione stoica;
-il dominio delle passioni e la vita del saggio, De Ira, De Constantia sapientis,
De Tranquillitate animi molto legato per i temi al De Otio e De Vita Beata.
Sono categorie molto arbitrarie: non essendoci sistematicità, ogni opera presenta
sconfinamenti con gli altri temi (sono categorizzate per il tema dominante).

Il De Clementia è scritta in tre libri, di cui secondo alcuni avremmo solo l’inizio del primo e
del secondo libro, secondo altri l’opera sarebbe completa (sulla base del fatto che Seneca dice
di aver suddiviso la materia in tre step: la prima riguardante la personalità di Nerone, nella
seconda della natura e atteggiamenti propri della clemenza, e il terzo nel modo con cui
abituare l’animo alla clemenza). Fu probabilmente composta durante il quinquennium felix
(54-59), durante il suo essere precettore di Nerone: è una sorta di manifesto del progetto
politico che Seneca voleva realizzare attraverso Nerone. A differenza di altri intellettuali che
continuavano a guardare con nostalgia il passato e pensavano di poter riportare a Roma le
libertà repubblicane, Seneca non guarda questo passato con nostalgia, ma non mette in
discussione il regime autocratico del princeps. propone un modello di principato con una
certa apertura nei confronti del ceto senatorio e in cui il filosofo diventa consigliere del
princeps in quanto saggio e garante del princeps (monarchia filosofica illuminata guidata da
un princeps istruito dal filosofo ed educato secondo i principi dello stoicismo).
Partendo dall’affermazione “La crudeltà dei sovrani è più dannosa di quella dei cittadini
comuni”, Seneca indica che la principale virtù di chi comanda è la clemenza, che non è né
pietà e misericordia (che lascerebbero impunite le colpe), ma è l’atteggiamento di chi punisce
con giustizia e senza violenta gratuita. Tutto ciò viene esposto sotto forma di elogio (non
adulazione) ed esortazione a Nerone. Seneca esordisce dicendo di voler assolvere alla
funzione di uno specchio, così che Nerone possa riconoscersi nella descrizione che lui fa del
princeps. C’è chi ha interpretato quest’opera come opera preventiva. Si trasforma in
un’esortazione a Nerone a continuare ad essere così com’era già. La clemenza è la prima
virtù di un re, che è assimilabile agli dei perché questi riescono ad essere clementi. è
importante perché gli procura l’amore dei cittadini e assicura la sicurezza e stabilità
dell’impero, più della paura. Nerone, clemente per natura, è dunque più grande di Augusto,
che era stato clemente solo in vecchiaia. A differenza del tiranno che viene temuto e odiato, il
re clemente è come un padre per i suoi sudditi, che vengono puniti solo se è indispensabile e
a fine di bene. Le pene inflitte con crudeltà, invece di far ridurre i delitti, li aumentano perché
impauriscono i buoni, che diventano più cattivi e buoni, e tolgono ai colpevoli la possibilità
di riscattarsi (riflessione molto moderna); ritroviamo questo nel diritto astratto di Hegel. La
clemenza è un comportamento mite nel momento in cui chi comanda deve infliggere le
punizioni: non è in contrasto con la severità, ma è l’opposto della crudeltà, che è la
degenerazione della severità. La compassione è un eccesso di clemenza; è diversa dal
perdono, che rinuncia a punire una colpa giusta e necessaria, mentre la clemenza risparmia il
colpevole per ricondurlo sulla retta via: è una virtù che rende più sicuro il clemente, che viene
anche onorato e amato. Tutto ciò è già presente in Nerone (finora non ha mai dato prova di
crudeltà), che lascia ben sperare per il futuro. Passa poi all’esortazione a Nerone di continuare
a coltivare queste sue doti naturali perché un sovrano clemente sarà sempre amato e
benvoluto. Dal piano individuale si passa al piano collettivo: qualunque persona deve essere
clemente. La clemenza significa tolleranza, comprensione dei motivi che possono spingere
una persona a compiere un male, solidarietà e produce pace e giustizia per la collettività.
Esprime un’aspirazione di Seneca, che sperimentava quanto fosse difficile mantenere un
equilibrio tra i suo ruolo e la sua saggezza. La parte finale contiene riflessioni più importanti
ed altrettanto moderne: scrive che i parricidi erano meno frequenti quando non esisteva la
legge che li prevedeva. I legislatori di un tempo preferivano non contemplare tale delitto:
l’esistenza di una legge avrebbe dimostrato la possibilità dell’esistenza di queste colpe. Con
questa legge i parricidi aumentarono.
Il De Beneficiis, insieme al De Clementia e natura è un’opera giunta fuori dai dialogi e
potrebbe risalire agli anni dal ritiro dalla vita politica (62-69). È un trattato in sette libri
dedicato a Ebuzio Liberale, ma l’unico dato cronologico che possiamo ricavare è quello
della morte di Claudio. Il tema è quello dei rapporti sociali, che sembra essere una sorta di
ripiego di Seneca nel momento in cui si era reso conto del fallimento del suo progetto
politico; ciò ci fa pensare agli anni posteriori dal suo ritiro dalla politica. Se la vita umana
deve poggiare sulla virtù e se essa non è riconducibile al princeps, la società umana deve fare
riferimento soprattutto ai ceti dominanti, che hanno una responsabilità morale nei confronti di
quelli sottoposti. I benefici si traducono in solidarietà sociale, che può e deve essere garantita
da atti di beneficenza, che devono essere elargiti ai meno fortunati. Quando il princeps non
può governare con virtù e saggezza, solo la classe dirigente può governare. I cristiani
parlerebbero di caritas. Dopo aver indicato la funzione dell’utilità della concessione della
benevolenza, Seneca descrive cosa può consistere in questa benevolenza. Il beneficio viene
analizzato in tutte le sue forme e in tutte le occasioni in cui può essere concesso. Gli esempi
sono spesso tratti dalla storia antica o moderna. Descrive poi i legami che si stabiliscono tra il
benefattore (deve agire gratuitamente, non deve aspettare la riconoscenza e non deve odiare il
beneficato) e il beneficato (ha il dovere morale di essere riconoscente, e la riconoscenza è un
legame che legherà sempre il beneficato al benefattore). Tutti possono essere soggetti e
oggetti di benefici (anche lo schiavo, anche se realisticamente ha meno possibilità). Il
beneficio è tale sempre, poiché prescinde dall’utilità, così come la gratitudine.

Il De Otio risale al periodo immediatamente antecedente al ritiro dalla vita politica, secondo
altri immediatamente posteriore. Intorno al 62 Seneca scrisse questo trattato completamente
opposto ai due precedenti, in cui Seneca fornisce dei precetti in maniera attiva. Esso invece
esprime un atteggiamento di segno opposto. L’otium è l’atteggiamento opposto alla nostra
idea di ozio, ovvero l’inerzia totale. Esso era il momento in cui chi lasciava l’azione politica,
lo faceva per dedicarsi a se stesso e a tutto ciò che non avrebbe potuto svolgere nella vita. Si
contrappone al negotium, ovvero la vita sociale attiva. è un’apologia (difesa, elogio) della
vita intellettuale. Se lo stato è troppo corrotto, il saggio deve essere almeno utile a se stesso,
cercando di aiutare sia i contemporanei che i posteri, che trarranno beneficio dalle sue
riflessioni. Secondo Seneca esistono due res publicae, minor (dove vive il saggio) e maior
(ovvero il mondo interno): quando non riesce più a stare bene nella prima, può farlo nella
seconda. Ci è giunta con delle lacune. Si rivolge a Neo Sereno (interlocutore del De
Tranquillitate animi e De Constantia Sapientis) e affronta il problema dell’impegno e del
disimpegno chiedendosi se il saggio può affrontare la vita politica. Secondo gli stoici, il
saggio deve impegnarsi attivamente finché le condizioni glielo permettono. Secondo gli
epicurei il saggio non deve impegnarsi affatto, a meno che le circostanze non glielo
impongono. Dunque conviene dedicarsi da subito all’otium.

Il De tranquillitate animi è dedicato a Anneo Sereno (prefetto dei vigiles urbani di Roma; era
un epicureo, che Seneca voleva portare allo stoicismo), come il De Otio, che gli manifesta
questa sua condizione di malattia dell’animo, che viene sintetizzato con displicentia sua
(scontentezza di sé stesso), e chiede a Seneca di dargli dei rimedi (stessa malattia che
ritroviamo in Lucrezio e Orazio): tutto ciò che fa non allevia questa sua condizione. è legata
anche per la cronologia della composizione: probabilmente si colloca negli anni dopo il ritiro,
ma forse anteriore al De Otio perché c’è ancora l’idea che l’uomo possa guarire se fa
qualcosa per gli altri. è vicino anche per il contenuto, dal momento che affronta come
raggiungere questa tranquillità interiore (euthymia). Seneca risponde che bisogna combattere
e sconfiggere le inquietudini, l’incostanza e tutti i vizi che ci affliggono. Nel De Otio ci dice
che ciò avviene nell’ozio. Anche Sereno, come Orazio, manifesta la ναυσία (termine ripreso
da Sartre per indicare disgusto e sofferenza per tutto ciò che uno fa), che lo soffoca e lo fa
star male, tanto da sentirsi come il passeggero di una nave. Il male di Sereno è la mancanza di
euthymia (buona disposizione d’animo), tradotta da Seneca con mancanza di tranquillità
d’animo. Seneca trova varie strade dopo aver chiesto in maniera dettagliata le manifestazioni
di questo male (la descrizione ci ricorda quello che ci hanno già detto Lucrezio e Orazio: si
manifesta o con volubilità o con frenesia, ovvero un attivismo eccessivo proprio di quello che
non sa che fare, o con totale passività, tipica di chi si arrende e si lascia vivere. L’instabilità è
legata al fatto che l’uomo ha dentro di sé desideri inconfessabili di realizzare cose ma che
sono censurati dalla verecondia, ovvero il Super Io di Freud. Ciò si apre verso due sbocchi:
-o induce alla passività;
-se supera, nel caso di insuccesso, fa precipitare l’uomo nella più profonda depressione, che
si traduce nell’incapacità di agire e nell’invidia verso gli altri. Il depresso crede di essere
vittima di una congiura universale: tutti lo odiano e lo superano, e ciò aumenta per la sua
incapacità di combattere.
Seneca consiglia l’impegno alla vita attiva per il bene comune, la frequentazione di amici che
sappiano capirti, vivere una vita non alla ricerca di piaceri strani (vita frugale), l’accettazione
che porta l’uomo ad accettare le avversità, la morte e le paure in generale. Da questo punto di
vista Seneca è uno degli analizzatori più precisi del male di vivere. Questa continuità su
questo tema ci indica che questo taedium vitae sembra essere la condizione diffusa in tutti gli
strati della società umana e, soprattutto, delle classi più elevate (la pax augustea, il principato
e il benessere sono tutte possibili cause di una società opulenta). Seneca anticipa quello che
sarà analizzato da Leopardi, Schopenhauer, Kierkegaard, Heidelberg e Sartre.
Comincia col definire una categoria di persone in preda al male di vivere e i vari
comportamenti: i primi sono i volubili ma attivi, i secondi sono gli apatici, che sono incapaci
di agire e si lasciano vivere. Abbiamo poi gli agitati (si rigirano nel letto senza trovare la
posizione adatta e si addormentano solo presi dalla stanchezza o per la vecchiaia): per far
capire chi intende, Seneca istituisce un confronto con dei comportamenti quotidiani. I quarti
sono gli inflessibili, che non si adattano, e che sono tali per una pigrizia congenita che
impedisce loro qualunque cambiamento.

Il De Ira appartiene al dominio delle passioni. è composto da tre libri composti certamente
poco dopo il 41 d.C. (anno della morte di Caligola, spesso citato come esempio di iracondia).
è un dialogo dedicato al fratello Novato, che si chiamerà Gallione adottato da un retore amico
del padre. è affrontato il problema dell’ira, la più terribile delle passioni umane (passione è
contrario della razionalità). L’ira consiste nella negazione della razionalità e sconvolge la
tranquillità dell’animo e deforma persino i lineamenti del volto, quasi a dimostrare l’orrore di
quando ci facciamo vincere dall’ira (vengono meno i freni della ragione). Viene analizzata in
maniera quasi medica, a partire dalle cause, dagli effetti e dalle conseguenze. Seneca poi ci
dice come evitare di farci sopraffare da essa (l’uomo è ragione poiché ha una porzione di
logos: l’uomo sopraffatto dall’ira non è più uomo). Seneca si pone in polemica con la dottrina
peripatetica, che in alcuni casi giustificava l’ira. Seneca afferma che essa non è mai
accettabile: ha manifestazioni molto simili a quelle della follia. In questo dialogo la prima
domanda posta è come sia possibile che un uomo si faccia sopraffare dall’ira fino a diventare
un animale feroce (l’ira è come una pazzia momentanea, brevem insaniam:è la sensazione di
aver subito un’offesa, un’iniuriam). La prima reazione sarebbe un moto di rabbia, un impetus,
paragonato alle vertigini davanti al vuoto. Questa sensazione incontrollabile non è ancora
l’ira, che subentra quando nasce la volontà consapevole di nuocere agli altri (tra i vari esempi
c’è Caligola). Vengono poi indicati i rimedi, che devono essere tempestivi: i mezzi per
prevenirla e placarla (eliminare dai turbamenti l’offesa, che è la causa scatenante). L’offesa
per il saggio non esiste, e dunque deve rendersi imperturbabile affinché il suo animo non
venga sconvolto. è necessario che l’uomo si renda impermeabile a tutto ciò che potrebbe
turbarlo.

Il tema viene approfondito nel De Constantia Sapientis. Quest’opera è dedicata ad Anneo


Sereno all’amico epicureo che Seneca voleva convertire allo stoicismo. Seneca approfondisce
l’idea che l’uomo debba diventare impermeabile all’offesa: l’uomo deve iniziare il dialogo
con se stesso per interiorizzare l’idea che nessuna offesa possa insediare la nostra anima. Il
ridimensionare le cose che accadono e dare il giusto valore alle parole che ci sono rivolte e
l’uso della ragione ci permettono di tenere a bada gli impulsi. Dimostra poi la tesi stoica
secondi cui l’uomo non può essere colpito da nessun oltraggio poiché la sua superiorità
morale lo rende impermeabile. L’unico bene per il saggio è la virtù, a cui nessuno può
attentare. Tra i modelli si cita Catone Uticense, di cui viene consolidato il mito.

Il De Vita Beata è datato al 58 d.C., quando Seneca era al culmine del suo potere di fianco a
Nerone (ultimo anno del quinquennium felix). Si ritiene sia stato composto per rispondere
alle accuse mosse da Suillo, che, secondo Tacito, gli rinfacciava di vivere in maniera coerente
rispetto ai suoi precetti filosofici. è dedicato al fratello Gallione. Nella prima parte esprime la
dottrina morale stoica, che fa coincidere la felicità col vivere secondo natura e secondo
ragione (il sommo bene è la virtù, e non il piacere). La virtù consiste nella sua capacità di
farsi guidare dalla ragione nel pensiero e nell’azione. Essa può essere oscurata da due cose:
l’ignoranza e il cedimento alle passioni. Il saggio deve imparare a lottare contro questi due
nemici dell’anima, così sarà in grado di affrontarli. Nella seconda parte risponde alle accuse
mosse, respingendo le critiche, che accusavano di incoerenza i filosofi in generale. Il filosofo
non nega che lui viva una vita secondo un alto tenore di vita, ma si difende ammettendo di
non essere riuscito ancora a raggiungere gli obiettivi prefissati. Quando parla della virtù, non
parla di se stesso; quando parla dei vizi, parla anche dei suoi. Si autodefinisce come la
persona che ha trovato la strada da percorrere e quindi può indicarla agli altri, ma non l’ha
ancora percorsa fino in fondo. Il filosofo non deve cercare la povertà, come dicevano i cinici,
per esercitare la virtù. Il saggio non ama le ricchezze, ma non soffre quando ne è privato;
l’usare bene le ricchezze gli dà la possibilità di utilizzare la virtù in un campo più vasto (è più
difficile essere virtuosi quando si è più ricchi).
Il De Providentia fu composto secondo alcuni all’inizio dell’esilio, secondo altri tra il 64 e il
65 d.C. Affronta il problema del bene e del male, partendo dalla domanda posta da Lucilio,
dedicatario dell’opera: Per quale ragione ai buoni capitano molte disgrazie?. Eschilo dice
che quello che accade all’uomo non deriva dalla divinità (c’è il rapporto colpa-punizione:
l’uomo paga le sue colpe e la divinità ripristina l’idea di giustizia); Sofocle è più riflessivo
(l’uomo può fare solo ciò che il destino ha scelto per lui, come nell’Edipo re; siamo agli
antipodi rispetto ai sofisti); Euripide non parla di dei, ma di divino (augurandosi fosse
qualcosa più serio degli dei omerici ed olimpici; l’uomo è artefice di ciò che fa). Seneca
risponde che all’uomo buono non può mai accadere qualcosa che sia veramente male, poiché
i contrari non possono mischiarsi. Quello che gli uomini chiamano male, non è tale per i
saggi, ma è un mezzo con cui la divinità li mette alla prova (provida sventura, come in
Manzoni). Per esprimere questo atteggiamento della divinità, Seneca utilizza la similitudine
del padre severo coi figli, che agisce per renderli migliori, e del maestro coi suoi scolari, che
pretende di più da coloro su cui conta di più. I mali della vita sono prove necessarie che ci
fortificano, e diventano mali solo a chi non riescono a sopportarli. La buona sorte può
capitare a chiunque, ma solo l’uomo forte può vincere le disgrazie e le paure. Passare i mali
significa ignorare una buona metà; i veri infelici sono colore che esagerano nell’infelicità. La
nostra vita si svolge secondo una legge precisa e divina: il destino ci guida e la nostra vita è
già stata stabilita. Tutto ciò che avviene ha sempre una causa, anche se a noi incomprensibile.
I veri mali sono i delitti, i vizi; quelli che sono ritenuti felici, non hanno valore. Questi
pseudo-mali, si superano sopportandoli con coraggio e disprezzando la morte e la sorte.

Il De Brevitate Vitae è un dialogo dedicato a Paolino, forse suocero di Seneca (della seconda
moglie) e praefectus annonae (per gli approvvigionamenti dell’urbe). Secondo alcuni è
composto tra il 49 e il 50, secondo altri intorno al 62. In questo dialogo Seneca nega che la
vita sia troppo breve, sostenendo che appare tale a chi non ne fa buon uso (è fin troppo lunga
per chi sa usarla bene). Il titolo è dunque antifrastico: penseremmo ad un’opera incentrata su
quest’argomento, ma invece sostiene il contrario. Siamo noi a far diventare breve la vita
perché la impegniamo in attività pubbliche e private o agli altri, togliendo tempo a noi stessi.
Torna il tema dell’otium, ovvero l’unica via per vivere una vita lunga e ben spesa. Sembra
quasi un elogio dell’egoismo: gli altri sono presentati come ladri del nostro tempo. Anche
morendo centenari, una vita spesa per gli altri riduce a piccole briciole il tempo che noi
dedichiamo a noi stessi. Gli uomini occupati vengono paragonati agli acrobati del circo che si
esibiscono per mettere in luce le capacità (anche Luciano riprenderà quest’immagine). A
questi indaffarati contrappone il saggio, l’unico a saper usare il tempo in modo corretto.
Oppone la vita interiore del saggio al tempus cronologico ed oggettivo, che viene sprecato
negli impegni quotidiani. L’uomo che vive nel tempus non riesce a dominare nessuna delle
sue tre dimensioni (il passato è ritenuto concluso; il futuro lo sgomenta e il presente viene
vissuto in questa paura attesa angosciante del futuro). Il saggio vive pienamente queste tre
dimensioni dialogando attraverso i libri con chi è venuto prima di noi e nel presente col
dialogo. Il tempo non è una durata oggettiva (non è quello che si misura in minuti ecc), ma è
una dimensione interiore; spreca il tempo colui che non ricerca la verità è la saggezza (chi
ripone gli obiettivi nelle cose ouk efemin, si priva dell’autarkeia, ovvero la libertà dalle cose
esteriori). Anche Sant’Agostino nelle Confessiones affronta il problema del tempo: nega
l’esistenza del tempo cronologico (il passato non esiste perché è passato; il futuro non esiste
perché non c’è ancora; il presente non esiste perché è un attimo che diventa subito passato).
Se il presente fosse sempre il presente, sarebbe eternità (il presente del passato è memoria;
presente del presente è attenzione; il presente del futuro é attesa). Il tempo è solo estensione e
vita dell’anima nella sua interiorità.

Le Epistulae Morales ad Lucilium affrontano il tema del tempo. Sono l’opera principale di
Seneca e sono state scritte tra 62 e 65. È l’opera del corpus senecano più nota. Raccolta di
lettere filosofiche indirizzate a Lucilio, amico e in qualche modo allievo , a cui aveva già
dedicato, oltre che il de providentia, re anche le Naturales quaestiones. Di Lucilio solo quello
che ci dice l’io. Apprezzato per le sue qualità, eleganza della scrittura, molte amicizie buone,
era più giovane di Seneca, era un cavaliere Roma e procuratore in Sicilia. Originario della
Campania, probabilmente di Pompei.
Non sappiamo se sia una vera e propria corrispondenza tra i due. Riferimenti continui alle
lettere mandate all’amico da Seneca fanno pensare che siano lettere vere, almeno in parte.
Tuttavia, come altri autori di epistole (primo tra tutti Cicerone), le epistole hanno anche
intento letterario. Sono state scritte in vista di una possibile pubblicazione: testamento
letterario, come afferma nell’epistola 8. Scrive per i posteri perché vuole essere utile con i
suoi consigli che paragona a ricette del medico di cui ha sperimentato l’efficacia sulla sua
pelle. Troviamo le epistole già nel mondo greco (Platone, Epicuro che si avvalse quasi
unicamente delle epistole per esporre il sistema filosofico che era così reso più facilmente
comprensibile, altrimenti non sarebbe stato comprensibile si non addetti ai lavori, una sorta di
primo incontro con la filosofia erano, sintetizza i punti salienti della sua dottrina; Erodoto
Meneceo Pitocle. Poi i Papiri di Ercolano ci hanno permesso di confrontare il pensiero
epicureo originario con quello romano.
Le epistole sono un contenitore di contenuti espressi in modo comprensibile (Plinio il
giovane e Cicerone utilizzano l’epistola non a scopo letterario); non sono uno scambio
epistolare, ma una modalità di scrittura per parlare di altro. Queste lettere non sono state
scritte per informare Lucilio di qualcosa, ma servono per costruire un percorso di formazione
spirituale insieme con l’amico destinatario. Seneca va oltre Epicuro stesso, il quale voleva
invece comunicare un pensiero formato. Ogni epistola è tassello di un percorso da compiersi
con gradualità insieme con l’amico. Seneca voleva essere chiamato guida, non maestro.
Conosce la strada e può guidare qualcuno. Partendo da un episodio tratto dalla vita
quotidiana, seguendo il modello della letteratura diatribica, si può procedere sul cammino
verso la Sapienza. Ci sono lettere in cui ci sono riferimenti continui di lettere mandate da
Lucilio a Seneca, come quella in cui si capisce che c’è una persona che ha intentato una causa
a Lucilio. Ci fanno capire che, all’interno dell’ epistolario di 124 lettere, ci sono lettere di un
vero e proprio scambio epistolare. Associò a queste epistole un intento letterario: pensava di
pubblicare queste lettere per lasciare ai posteri un testamento spirituale (Epistula 8). Alcune
sono uno scambio epistolare, altre sono uno strumento per dare consigli utili, delle ricette
mediche, che lui stesso ha sperimentato sulle sue ferite. Ha introdotto a Roma l’epistolografia
filosofica, cosa che avevano fatto Platone nella settima epistola ed Epicuro per facilitare la
fruizione del pensiero anche ai non addetti ai lavori (per fornire un primo incontro alla
filosofia con una sintesi delle linee principali del pensiero, tramite le tre lettere: ad Erodoto
sulla fisica, a Pitocle sulla conoscenza e a Meneceo e sull’etica epicurea). Non sono la sintesi
di un pensiero già concluso, ma l’insieme di tasselli che si aggiungono l’uno dopo l’altro con
continuità. Gli argomenti trattati sono per lo più gli stessi che Seneca aveva già esposto negli
altri scritti; qui gli argomenti non sono raggruppati secondo un tema, ma vengono esposti
gradualmente senza sistematicità (asistematicità). Il caso preso dalla vita quotidiana poteva
avere più spunti di riflessione: quel caso poteva dare vita a più riflessioni, che si sviluppano
secondo modalità imprevedibili rispetto all’intento di partenza. Alla sistematicità sostituisce
la gradualità, che parte da concetti più semplici per guidare Lucilio verso livelli più alti, in
vista del raggiungimento della virtù. A confermare ciò interviene la stessa struttura
dell’epistolario. Queste 124 lettere sono state distribuite in 20 libri, ma Celio fa riferimento
ad un’ epistola del 22 libro (cosa che ci fa pensare che fossero di più). Nei primi tre libri
abbiamo lettere più brevi e di impatto più immediato. Andando avanti, troviamo lettere più
lunghe e impegnative. Nel primo libro si affrontano alcune regole di vita; nel secondo libro
si tratta il tema della felicità, che può essere conseguita attraverso la filosofia; nel terzo libro
gli ostacoli nello studio e come superarli. Nei primi tre libri spesso termina le epistole con
una sententia, una massima che sintetizza tutto (seguendo l’esempio di Epicuro). Seneca è
cosciente di essere debitore a Epicuro di queste modalità: non gli interessa chi ha detto cosa,
ma cosa è stato detto. Esprimono la piena maturità di Seneca per l’importanza che lui dà alla
dimensione dell’otium e al secessum, ovvero l’allontanamento dalla vita politica nel
momento in cui il saggio non è più utile allo Stato, diventando utile alla res publica maior,
ovvero il mondo (deve starsene lontano). Il suo interlocutore non è più il princeps, ma
l’allievo Lucilio, che diventa un interlocutore fittizio perché rappresenta tutta l’umanità. Solo
lontano dall’attività politica, maestro e allievo posso colloquiare a bassa voce e proseguire
insieme verso la virtù. Tutti i temi stoici sono presenti nelle epistole: cosa è dio e cosa la
natura (epistola 41), il concetto di humanitas e uguaglianza tra gli uomini (epistola 47, in cui
esorta a trattare con più umanità gli schiavi), l’amicizia, la virtù, il vero bene, il superamento
delle passione, il dolore e i rimedi, l’atteggiamento da avere davanti alla morte (diventa
sempre più insistente: Seneca sente che la fine della sua vita si sta avvicinando).

Seneca scrittore di tragedie: è stato autore di poesia tragica. Le tragedie di Seneca sono le
uniche giunte pressoché complete in lingua latina. Sono contenute nel Manoscritto etrusco, il
più importante, che ci ha trasmesso tutta l’opera di Seneca e che contiene 10 tragedie, da cui
titoli (Octavia, Hercules Oetaeus, Hercules Furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra,
Oedipus, Agamemnon, Thyestes). Le Phoenissae è l’unica tragedia incompleta. Delle 10
tragedie senecane, 9 sono cothurnatae, mentre l’ultima (Octavia) è una praetexta. Le prime
testimonianze della letteratura latina si volgerà ad imitare la letteratura greca; tra i vari generi
ci fu sicuramente la tragedia. Di queste tragedie ci sono pervenuti solo i titoli e alcuni
frammenti. Le tragedie di Seneca ci sono giunte integre: sono le uniche testimonianze della
tragedia latina giunte fino a noi. I titoli ci rivelano la distinzione tra cothurnatae e
praetextae: le fabulae cothurnatae erano tragedie di argomento e ambientazione greca (i
coturni erano i sandali indossati dagli attori greci). Le fabulae praetextae (o praetextatae)
erano le tragedie di argomento ed ambientazione latina (la praetexta era la toga indossata
dagli uomini più importanti). Il teatro tragico, rispetto a quello comico, non ebbe a Roma la
stessa fortuna: tutta la tradizione tragica ci è giunta in titoli presso più. Questo teatro tragico,
già in crisi nell’ultima età repubblicana (abbiamo solo menzione di un Thyestes di Vario Rufo
e di una Medea di Ovidio, che venivano lette nelle pubbliche recitationes, ma non venivano
rappresentate), sopravvisse in questa forma anche in età imperiale ed andò a costituire l’unica
possibilità per descrivere nei personaggi dei miti, presenti in quasi tutti i titoli, le inquietudini
e sentimenti anti-tirannici che non avrebbero potuto esprimere apertamente. Le tragedie di
Seneca divennero un paradigma tragico per le opere successivo: furono loro ad insegnare al
teatro tragico europeo del ‘500 e al teatro elisabettiano la struttura della tragedia (avente un
prologo e 5 atti intervallati da 4 cori; tuttavia il coro non ha più l’aspetto di un vero e proprio
personaggio). Rimasero un modello fino ad Alfieri e Manzoni. Sicuramente Seneca fu
debitore alla tradizione latina precedente: la Medea di Ovidio e la Thyestes di. Riprende
l’utilizzo di figure retoriche (allitterazioni, iperboli), il gusto del macabro (indulgere a
scegliere all’interno della mitologia greca gli episodi in cui era più facile mettere in evidenza
questo senso del macabro) e il πάθος. Sono un corpus molto originale di 10 tragedie, di cui
almeno 2 la paternità è dubbia. Sicuramente l’Octavia non è senecana a causa della presenza
di Seneca come personaggio e la profetizzazione da parte del fantasma di Agrippina
della morte di Nerone nel 69 con la descrizione così accurata, cosa impossibile perché morì
nel 65. Ottavia era la moglie giovane che Nerone fece uccidere per sposare Poppea.
Nonostante questa certezza, è un documento molto importante perché è l’unico dramma di
argomento romano a noi raggiunto. È molto vicina alle tragedie di sicura attribuzione a
Seneca; per questo si pensa che chi ha composto questa tragedia sia stato ammiratore e
imitatore dello stile di Seneca e che l'abbia composta a partire dal 69. Si ipotizza che l’abbia
scritto Pomponio II, che conosceva bene lo stile di Seneca. Descrive molto bene il furor
(follia, l’abbandonarsi agli istinti) del tiranno, il gusto horror, l’inascoltabilità del saggio, che
non viene mai ascoltato e la scarsa azione dei drammi (mancanza di azione). Forti dubbi di
autenticità si nutrono anche per l'Hercules Oetaeus perché è lunga quasi il doppio delle altre
e perché ha un finale positivo, rispetto alle tragedie di Seneca che finiscono male. Racconta la
morte di Eracle e riprende le Trachinie di Sofocle, che raccontano la morte di Ercole causata
dalla gelosia della moglie perché l’eroe, dopo una lunga assenza, era tornato con la giovane
concubina Iole. La moglie allora decise di cospargere un filtro amoroso su una tunica che
avrebbe fatto indossare a Eracle: il centauro Nesso, ucciso da Eracle quando cercò di
violentare Deianira, aveva consegnato a Deianira un calice con un unguento che fece passare
come filtro d’amore in grado di farle riconquistare l’amore di Eracle. Ovviamente era un
inganno perché Deianira fece indossare questa tunica intrisa del potente veleno ad Eracle, che
morì tra indicibili sofferenze. Allora Deianira si uccise. Tuttavia il finale non è così tragico,
dal momento che Eracle fu deificato e assunto tra gli dei. Le altre 8 tragedie sono incentrati
tra miti greci molto famosi. Nell’Hercules Furens Eracle torna a casa dopo una delle sue
imprese e uccide il tiranno Lico, che durante la sua assenza, stava per uccidere la moglie, il
padre Anfitrione e i figli. Allora Eracle arriva, uccide Lico e libera i suoi famigliari. Tuttavia
su di lui si batte l’ira di Giunone, che lo fa diventare folle, e con questa follia uccide la
moglie e i figli. Tornato in sé, vorrebbe uccidersi, ma rinuncia grazie alle preghiere del padre.
Le Troades (donne troiane) è il dramma di Ecuba e Andromaca, vedova di Ettore, che vedono
portare a morte Ecuba la figlia Polissene e Andromaca il figlio Astianatte. Sono argomenti
trattati nelle Troiane e nell’Andromaca di Euripide. Le Phoenissae si ispirano allo stesso
dramma di Euripide, e raccontano l’odio reciproco tra i due figli di Edipo, Polinice ed
Eteocle, che si uccidono a vicenda. Purtroppo il testo di Seneca è interrotto (abbiamo solo
664 versi senza le parti del coro, che doveva essere costituito dalle donne fenice che si
stavano recando al santuario di Delfi). La storia della Medea si rifà a quella di Euripide: è
una strega della Colchide che uccise il fratello ed ingannò il padre Aeta per seguire Giasone a
Corinto. Tuttavia fu abbandonata perché Giasone sposò Creusa, figlia del re Creonte. Medea
farà morire prima la nuova moglie e suo padre Creonte grazie ad un vestito nuziale che le fa
recapitare dai figli come dono di nozze; tuttavia l’abito è intriso di un filtro magico che fa
prendere fuoco prima lei, poi il padre, ed infine tutta la reggia. Uccide poi i suoi figli davanti
a Giasone. La Phaedra racconta la storia dell’Ippolito di Euripide: Teseo era disceso negli
Inferi con Piritoo per accompagnarlo in questa impresa e in questi 4 anni di mancanza, la
moglie si innamorò del figliastro. Teseo passò tutta la vita in devozione ad Artemide, e quindi
non ha alcun interesse nei confronti dell’amore. Fedra confessa lei stessa l’amore ad Ippolito;
invece in Euripide la nutrice fa da mezzana. Racconta, mentendo, poi a Teseo di essere stata
lei ad essere stata vittima di un abuso da parte del figlio Ippolito. Invoca poi una preghiera a
Poseidone, il quale manda due mostri marini che attaccano i cavalli e il padrone Teseo, che
muore. Fedra si confessa a Teseo . L’Oedipus viene tradotto in una chiave più horror. Edipo
vuole sapere cosa ha causato l’infinita epidemia a Tebe. In questa ricerca scopre la tragica
verità, ovvero che lui stesso è il colpevole perché aveva infranto due tabù: uccidere il proprio
padre e sposare la propria madre, generando 4 figli. Rispetto a Sofocle, l’indagine avviene
mediante il coinvolgimento di Tiresia, che inizialmente non vuole esortare Edipo ad andare
avanti con quest’indagine, qui c’è questa descrizione di un’esperienza soprannaturale
(avviene mediante l’invocazione del fantasma del padre Laio e mediante due interrogatori
con due servi che sapevano la verità sulle sue origini). Saputa la verità, Edipo si trafigge gli
occhi e Giocasta si uccide. L'Agamemnon fa riferimento all’Agamennone di Eschilo, prima
tragedia dell’Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi), unica trilogia tragica che ci è giunta
della tragedia greca. Lo sviluppo del mito non trovava compimento alla fine del dramma, ma
continuava nei drammi successivi. Agamennone, tornato a Troia dopo dieci anni di guerra,
viene assassinato da Clitemnestra ed Egisto, cugino di Agamennone. Riesce a rivendicare il
delitto del padre Atreo nei confronti della propria famiglia. Questo mito fa parte della
famiglia degli Atridi, si rifaceva al ciclo troiano e ci racconta il perpetuarsi di una serie di
delitti nella famiglia, conformemente con la visione arcaica colpa-punizione, in cui inizia
l’eredità della colpa (non si esaurisce col colpevole: non è detto che ad essere punita sia la
persona che l’ha compiuta. La colpa si riversa su tutti i discendenti ed è un peccato originale
che si estinguerà quando la stirpe si estinguerà). Questa vendetta, queste faide, continuava nei
figli fino all’estinzione della dinastia. È la tragedia meno riuscita: Agamennone appare solo
per uno spazio molto breve sulla scena in un dialogo che lo vede parlare con Cassandra. La
parte più interessante è la descrizione di Euribate della tempesta che aveva colpito la flotta di
Agamennone al ritorno, da cui Agamennone era scampato appena. C’è la descrizione degli
elementi della natura che rispecchiano la calamità che si sta abbattendo sulla famiglia degli
Atridi. Il Thyestes aveva un tema già trattato da Ennio ed Accio: presuppone una serie di odi,
tradimenti e vendette che dividono Atreo e Tieste. Raccontano l’ultima vendetta di Atreo, re
di Micene, che invita Tieste per riappacificarsi: sospettoso, viene convinto dai figli,
lasciandogli vedere la possibilità di poter porre fine a queste vendette. Atreo fa uccidere di
nascosto i figli, li fa a pezzi e, dopo averli fatti cucinare, li fa mangiare al fratello durante il
banchetto di conciliazione. Ritroviamo dunque il macabro e l’horror. Seneca riprende
elementi dei primi poeti tragici: indulgere nella descrizione di particolari non gradevoli.
Anche Lucano si esprimerà con gli stessi toni per descrivere alcune scene della sua
Pharsalia. La struttura della tragedia senecana è tradizionale: un prologo iniziale, tre o più
episodi, intervallati da un canto corale, e l’esodo. Se sono solo 3 episodi, ci sono 5 atti,
ognuno dei quali è separato da un canto corale, che non partecipa all’azione in Seneca. In
ogni tragedia il coro aveva una funzione prevalente.in Seneca non incide sull’azione, è una
voce fuori campo che si limita a fare osservazioni su cosa accade e a commentare gli eventi,
riporta eventi mitici, fa riflessioni dal carattere morale o rivolge preghiere agli dei per
risolvere la situazione. Non esprime neanche la voce dell’autore.
Per molto tempo le tragedie di Seneca sono state oggetto di due dispute: la prima riguarda la
destinazione. Erano destinate o meno alla rappresentazione? Se non erano rappresentate,
come erano fruite? Attraverso le recitationes pubbliche o private? Il problema fu posto per
dare un senso a queste tragedie. Per lungo tempo si è negata la possibilità che fosse
rappresentato; il teatro fu dunque ritenuto non rappresentabile, in quanto incentrato perlopiù
sulla parola (teatro della parola), più che l’azione. Sicuramente questa caratteristica
rappresenta una diversità, ma non è sufficiente a definirle non rappresentabili. Quando
Seneca divenne il modello per la tragedia del Cinquecento e del teatro elisabettiano, tutte le
sue tragedie furono messe sulla scena. La questione più seria riguarda il senso. In realtà
abbiamo detto che c’è questo cubo pessimismo, che fa a pugni con la cieca fiducia stoica di
Seneca in un ordine provvidenziale che agisce nel mondo. Questo cupo pessimismo si
giustifica con l’ottimismo tipico degli stoici, nell’idea che il male non esiste perché il mondo
è retto da un logos razionale che agisce solo a fin di bene. E quindi qual è il legame tra le
tragedie e le opere filosofiche? Sarebbe stato utile conoscere la cronologia delle opere per
definire i rapporti tra le varie opere e per capire se appartengono al periodo neroniano a
quello precedente o successivo. Il Manoscritto etrusco ci ha restituito i titoli e i testi, ma non
l’ordine cronologico, allora sono state fatte due ipotesi: che siano state composte tra il 43 e il
49 (anni dell’esilio in Corsica. Questo perché non è possibile altre opere se non le
Consolationes. Se sono state scritte in questo periodo, ci troviamo davanti ad un teatro di
opposizione al princeps Claudio, adombrato nella figura dei tiranni); la seconda ipotesi è
che le abbia scritte quinquennium felix (54-59), in questo caso, come ci dice Traina, ci
troviamo davanti ad un teatro di esortazione al princeps Nerone, invitato a respingere il
modello dei tiranni descritti (come nel De Clementia). Le conclusioni sono che: le tragedie
non possono che essere paradigmi negativi all’interno dell’esportazione al princeps di
tenersi lontano dagli atteggiamenti tirannici. Dunque il legame con le opere filosofiche
sarebbe lo scopo didattico sia sul piano etico sia su quello politico. Si parla dunque di
drammi didattici, che mostrano in negativo gli effetti del crollo della ragione e l’emergere di
quelle passioni (irrazionali) che trasformano gli uomini in mostri. La tragedia era per invitare
gli interlocutori a tenersi lontano da queste passioni. Se a quest’uomo generico si sostituisce
il princeps, questo fine didattico si posta sul piano politico per spiegare cosa accade quando a
perdere la ragione è un uomo al potere. C’è da dire che non tutti i personaggi protagonisti
rispecchiano la figura del tiranno malvagio e sanguinario: Edipo non ha nessuna colpa dei
delitti che ha commesso, così come Ercole Furens, che era stato reso folle dalla divinità, ma
che vorrebbe essere punito; e Fedra. Sono personaggi che hanno compiuto azioni
inconsciamente e non secondo la propria volontà. Sono personaggi che suscitano un
sentimento di compassione, più che di condanna. In questi casi il legame starebbe
nell’incapacità dell’uomo di affrontare da saggio le avversità della sorte. Queste
interpretazioni non tengono conto che la tragedia sia un’opera poetica, e non un trattato etico.
Tutto sommato la poesia potrebbe aver affrancato Seneca da ogni dovere didattico: non
sempre deve contenere un messaggio didattico. Nel rappresentare con questo pessimismo
cupo l’impraticabilità di ogni valore etico e che lui predicava in ambito filosofico e il trionfo
assoluto del male, sembra di togliersi i panni del maestro moralista e che abbia riversato nella
poesia tutte le sue paure da uomo, che deve vacillare nella realtà le sue incertezze sulla
razionalità del mondo che lui predicava. Ci mostrano il Seneca uomo, e non il Seneca
precettore. Lo stile è molto eccessivo, ripetitivo e disperato: esprime le paure e le angoscie di
un uomo che ha scoperto quanto il male sia radicato nella realtà è quanto possa essere
seducente e quanto l’uomo sia fragile nei confronti di questa seducità.

Le Naturales Quaestiones sono un trattato in 7 libri dedicato a Lucilio (“optimus Lucilius),


stesso dedicatario delle Epistulae. Fu scritta probabilmente nello stesso periodo delle epistole,
tra il 62 e il 64; si pensa siano state la prima opera organica che compose dopo il ritiro dalla
vita pubblica. L’opera tratta dei fenomeni naturali (non ha nulla a che vedere con un’opera
scientifica: è simile ad un trattato di prosa scientifica). La ragione principale che allontana
l’opera dai moderni trattati scientifici è che non riporta il frutto degli esperimenti, ma si basa
sugli scritti delle fonti che aveva a disposizioni: Posidonio di Apamea, a cui aggiunge
spiegazioni di altre fonti e interpretazioni personali; è un’opera piena di riflessioni dal
carattere morale. L’interesse per la scienza è dovuto al fatto che essa è legata alla filosofia:
quasi in tutte le scuole filosofiche ellenistiche, la fisica era una parte dello studio. La fisica è
lo studio del mondo e della φυσις. L’intento principale è quello di liberare, attraverso la
descrizione dei fenomeni che avvengono in natura (in cui c’è una porzione di λόγος), gli
uomini dalla paura e dalla superstizione, che impediscono all’uomo di vivere una vita
tranquilla e serena (la felicità è il raggiungimento dello virtù). I fenomeni naturali, se visti
come espressioni del logos divino e provvidenziale e che impregna la natura, dovrebbero
farci passare le paure perché tutto sarebbe dovuto all’attuazione del logos, che non vuole di
certo il male.
A causa di questi fenomeni che possono distruggere quanto sia stato costruito, Seneca
sottolinea la precarietà dell’uomo e di tutto l’universo, ovvero il ridimensionamento del
potere che l’uomo pensa di avere (invita l’uomo a prendere coscienza della propria
limitatezza).
Nel primo libro gli argomenti sono i fuochi celesti (corpi celesti, pianeti e stelle); nel secondo
libro si parla dei fenomeni atmosferici; il terzo libro delle acque terrestri; il quarto libro si
divide in due parti: il 4a parta del Nilo e degli straripamenti e il 4 b delle nubi; il quinto
libro parla dei venti; il sesto libro del terremoto e il settimo libro delle comete. In ogni libro,
eccetto il secondo e il 4b, c’è sempre una prefazione, in cui Seneca parla dell’utilità dello
studio e della conoscenza della natura, che rispecchia Dio. In queste prefazioni sottolinea
l’importanza della sua opera e i rimedi contro questi fenomeni del tutto naturali. L’opera
richiama lo stesso scopo del De Rerum Naturam, in cui Lucrezio voleva liberare l’uomo
dalle paure, soprattutto nei momenti in cui Seneca ripone la propria fiducia nei progressi della
scienza e nella capacità dell’uomo di andare a fondo. L’uomo violenta la natura nel momento
in cui estorce le risorse per suo uso e consumo, per soddisfare i suoi bisogni e il suo lusso.
Sono state date due risposte sul perché Seneca scrisse l’opera: perché sentisse la necessità di
utilizzare lo studio della natura come rimedio alle sue infermità fisiche e morali (scienza
come medicina); la seconda ragione potrebbe essere che gli sia venuta la voglia di scrivere
l’opera per testimoniare il bisogno di elevarsi dal sapere fisico ad un sapere superiore. La
terza ragione è legata al suo mettersi al sicuro da alcune accuse di Nerone, pubblicando
un’opera che non avesse più a che fare con la politica. Seneca vorrebbe dunque mostrare a
Nerone come lui non scriverà nulla in opposizione a Nerone, e dunque il suo volersi dedicare
esclusivamente alla filosofia, che non ha nulla a che fare con la politica. Le Naturales
Quaestiones erano un’opera che lo mettevano al riparo da qualche provvedimento censorio da
parte di Nerone, che lo aveva messo nelle condizioni di non potergli più stare a fianco
(Nerone non era più controllabile e Seneca avrebbe dovuto abbandonare troppi principi che
seguiva). Come la Naturalis Historia di Plinio Il Vecchio, si allontana dalla concezione
moderna di opera scientifica: sono opere compilate e che riportano quanto detto da altri.
Spesso queste fonti si rifacevano ad altre fonti o a credenze che si erano consolidate come
scienze, ma non provate sul piano scientifico (spesso queste teorie erano sbagliate). Ad
inficiare la scientificità vi è poi il legame tra fenomeni naturali col sistema filosofico di
riferimento: la scienza viene letta in base al sistema filosofico adottato dallo scrittore (per
Seneca lo stoicismo). Studiare la natura è un modo per avvicinarsi a questo logos razionale, a
cui l’uomo deve tendere e a cui deve conformare la propria condotta di vita.
Spesso anche oggi scienza e pensiero si intrecciano. La natura diventa uno strumento di
conoscenza del λόγος. Essenziale è insegnare ad utilizzare in maniera corretta i doni che la
natura dà agli uomini, criticando chi violenta la natura per accrescere i propri vizi.
Nella prefazione ci dice perché è importante lo studio della natura: eleva le capacità di
conoscenza dell’uomo perché l’uomo, in questo studio, esercita la sua intelligenza;
ridimensiona le varie aspirazioni degli uomini, ricordando loro la loro piccolezza rispetto
all’universo; ci avvicina a dio attraverso la contemplazione dello spettacolo della natura; fa
conoscere all’uomo il λόγος, principio razionale e provvidenziale; libera l’uomo dalle paure
che gli impediscono di vivere felicemente; permette all’uomo di accettare con indifferenza
ciò che accade nella vita. Tra filosofia e scienza c’è lo stesso legame che lega fisica e
metafisica (realtà che concerne gli dèi), che è più profonda ed audace. La metafisica non si è
accontentata di ciò che accade sotto gli occhi. La fisica ci insegna cosa dobbiamo fare; la
metafisica ci spiega cosa accade in cielo. C’è molto Platone nella prefazione (mito della
caverna). Platone aveva differenziato i due tipi di conoscenza: sensibile ed intellettiva,
esplicitate nel mito della caverna. Il processo di conoscenza culmina nella persona che riesce
ad arrivare alla contemplazione delle idee, una volta uscito dalla caverna. Lo studio della
natura eleva le capacità conoscitive dell’uomo e dal confronto tra l’immensità della natura e
la piccolezza dell’uomo ridimensiona le aspirazioni degli uomini. Il collegamento è con il
Somnium Scipionis, in cui c’è il monologo in cui Scipione si deve rendere conto della
piccolezza del mondo umano (dal mondo delle anime dei beati, da cui cui la terra sembra un
granello di sabbia). Questo studio libera l’uomo dalle paure, che gli impediscono di vivere
sereno e quindi seconda virtù e ragione. La condizione di pace coincide con l’apatheia
(condizione di indifferenza), e quindi con l’eliminazione di tutto ciò che potrebbe
sconvolgerla. Limitarsi ad una vita vegetativa, seppure secondo i principi che lui aveva
indicato nelle opere morali, non rende l’uomo virtuoso.limitarsi ad osservare i principi etici
suggeriti non è sufficiente perché è come gloriarsi in un ospedale di essere meno malato di un
altro. L’immagine delle formiche ricorda Meriggiare pallido e assorto di Montale: c’è
affaccendarsi degli uomini come una processione di formiche che si affannano in un angusto
spazio. C’è l’idea che il corpo sia la tomba dell’anima, che deve purificarsi per liberarsi
(Pitagora e Platone). La conoscenza si completa quando l’uomo si volge alla conoscenza
della natura, che ci porterà a sorridere degli artefici dell’uomo, piccolissimi rispetto
all’universo.

MARCO ANNEO LUCANO

BIOGRAFIA
È il primo poeta dell’epoca di Nerone. È un personaggio particolare. Due sono le fonti per
ricostruire la biografia: una biografia pervenuta mutila che sembra ostile a Lucano (contenuta
nel De Poetis di Svetonio, dove viene presentato come un personaggio permaloso). Svetonio
è più attento ai gossip, rispetto a Plutarco che delinea il quadro complessivo, mettendo in
evidenza anche particolari minimi ed illuminanti (elimina il pettegolezzo). È una vita un po’
ostile: è permaloso e quando deve descrivere le ragioni della sua morte, che avvenne dietro
invito a togliersi la vita da parte di Nerone (come Seneca) e a descrivere le ragioni dell’
ostilità nei confronti di Nerone, ci dice che fu lui stesso la causa della sua disgrazia perché
iniziò ad essere ostile a Nerone dopo che questi interruppe una sua recitato con la scusa di
una convocazione improvvisa del senato, a partire del quale Lucano iniziò a calunniare
Nerone. Abbiamo inoltre una vita di Vacca, che è più favorevole a Lucano e dice che la causa
della sua disgrazia è Nerone stesso. Concordano entrambe sulla nascita a Cordoba il 3
novembre del 33 a.C. (era nipote di Seneca: figlio di Mela Seneca); sul trasferimento a
Roma e sull’istruzione presso i migliori maestri dell’epoca, tra cui Anneo Cornuto (maestro
anche di Persio). Altro elemento su cui concordano è l’interesse di Nerone per la sua abilità
poetica e l’invito a corte, dove rimase per cinque anni. Lucano morì venticinquenne. Da
questo punto in poi le vite divergono e danno una vita diversa per giustificare la
partecipazione alla congiura dei Pisoni del 65: come Seneca e Petronio, il 5 aprile del 65 fu
costretto a suicidarsi col taglio delle vene (Tacito ce la descrive). È probabile che ciò che lo
fece aderire alla congiura fu l’insegnamento ricevuto da Cornuto libertario e anti-tirannico. È
un insegnamento che sembrerebbe in contrasto con la novizia, ricavata da Svetonio e ripresa
da Tacito, secondo cui, una volta scoperto i congiurati, avrebbe fatto la spia e avrebbe
denunciato la madre pur di avere uno sconto della pena). Ciò si può spiegare con la debolezza
giovanile e un cattivo rapporto con la madre, ma ciò contrasta con gli insegnamenti stoici di
Cornuto. Stando a quanto ci racconta la vita di Vacca, avrebbe composto moltissime opere: ci
riporta una lunga serie di titoli di opere (Iliacon Libri, ovvero un’opera sulle vicende di Troia,
una Medea incompiuta, Katactinion sugli interferì, Saturnalia sulle feste, uno sull’incendio di
Roma, dieci libri delle Sibilie, 14 fabulae festucae, ovvero versi recitati come
accompagnamento ai panormidi, epigrammi, due orazione controversie e suasorie, ovvero
un’accusa e una difesa contro Ottavio Sagitta che avrebbe ucciso la propria amante), che non
ci sono giunte tanto che ci si chiede come abbia fatto a comporle in così poco tempo. Ci è
giunta la Pharsalia, o Bellum Civile. Molto probabilmente si interruppe al decimo libro (ci
ricorda Cesare). È scritta in esametri ed è un poema epico storico che si inserisce nella
tradizione nata con Nevio (Bellum Poenicum, dove aveva isolato una vicenda di Roma e lo
rese in poesia, rendendolo così materiale dell’epos), Ennio (annales, in cui iniziò a raccontare
in poesia dalla fondazione di Roma fino ai suoi tempi) e con l’Eneide di Virgilio, che parte
dalla venuta di Enea in Lazio per unificare la storia della Grecia con quella di Roma e per
celebrare la nuova epoca iniziata con l’avvento di Auguro (c’è più che l’epocizzazione,
l’umanizzazione del mito: storia fatta di morti che producono sentimenti funesti). Non
includiamo Ovidio poiché le Metamorfosi sono un poema epico mitologico). L’argomento è
la guerra civile tra Cesare e Pompeo e termina con la battaglia di Farsalo (dove vediamo
cittadini romani contrapposti a cittadini romani), che troviamo nel settimo libro.
Sono in totale 8100 versi. Probabilmente incompiuta per la morte e c’è lo mostrano
l’interruzione brusca al verso 596 del decimo libro della guerra alessandrina (in cui Cesare
combatte una volta raggiunto l’Egitto per inseguire Pompeo, che viene ucciso con Tolomeo, e
si allea con Cleopatra), ed è la stessa raccontata nell’ottavo libro del De Bello Gallico, che
non si pensa sia stata opera di Cesare ma di Aulo Irzio, suo luogotenente a cui si attribuisce
un Bellum Alexandrinum. La seconda ragione è che abbiamo molte ragioni per credere che il
suo intento fosse scrivere un’opera sul modello dell’Eneide, e dunque doveva avere almeno
12 libri e si concludeva o con la morte di Catone Uticense, ultimo difensore della repubblica
morto ad Utica nel 46 a.C., o con la battaglia di Munda del 45 a.c., quando furono sconfitti gli
ultimi pompeiani, o con la morte di Cesare nel 44 a.c. (la meno probabile perché considerato
il ritmo narrativo molto lento, difficilmente sarebbe arrivato in due libri alla morte di Cesare).
La guerra civile è raccontata come una storia dell’auto-distruzione della repubblica romana
(storia della prevalenza della follia di un popolo che decise di abbandonare la conquista di
altri popoli per rivolgere le armi contro se stesso): è una storia documentata della follia, che
ad un certo punti si impadronì dei popoli esterni (come si dice nel proemio). Tutto ebbe
origini col passaggio del Rubicone da parte di Cesare, a cui seguì la coalizione contro di
lui e quindi affianco a Pompeo del senato e di Catone Il Giovane, che dovette scegliere per
coerenza, obtorto collo, di seguire Pompeo (come Cicerone). Dopodiché il racconto continua
con la fuga di Pompeo in Epiro col tentativo di Cesare di seguirlo (rinuncia
momentaneamente per coprirsi le spalle e va a eliminare le resistenze pompeiane in Francia
con la battaglia di Marsiglia e in Spagna), la battaglia di Farsalo, dove Pompeo venne
sconfitto, la fuga di Pompeo in Egitto, la sua morte per mano dei sicari di Tolomeo, la fuga di
Catone in Africa per congiungersi col re Giuba (pompeiano), la morte ad Utica di Catone, la
guerra alessandrina di Cesare contro Tolomeo (fratello di Cleopatra), e così l’opera si
interrompe. Le critiche più severe rivolte alla struttura furono espresse dal grammatico e
studioso Macrobio (V secolo), che individuò come debolezza la scansione cronologica
temporale degli eventi, che era doverosa in un’opera storica, ma non in un poema epico
caratterizzato dalla narrazione non cronologica dei fatti (si parte in medias res e poi si
ricostruisce la storia, proprio come l’Eneide, dove la distruzione di Troia viene raccontata da
Enea a Didone del III e IV libro). In realtà quelli che apparvero come limiti dell’opera, forse
sono i tratti più originali e sperimentali. È stato a lungo interpretato come lo sfogo di un
giovane imbevuto dagli ideali di libertà individuali tipici dello stoicismo e vissuto in un
ambiente in cui nessuno, neanche tra i maestri, aveva vissuto i tempi della repubblica.
Quindi lui, come gli altri, avevano idealizzato un’epoca che poteva essere contrapposta
all’epoca scusa di Nerone. Preso da questo sogno di vivere in quest’epoca, non si rese conto
che i suoi ideali erano diventati anacronistici e non più applicabili nel presente. Come già
Seneca, vive la crisi dello stoicismo, i cui valori non sono più applicabile all'epoca di Nerone:
Seneca aveva scelto il secessus dalla vita politica; invece Lucano si illude poiché di fronte
alla consapevolezza dell’impossibilità di realizzare questo suo sogno di essere utile
all’umanità, sprofonda in un pessimismo totale e cosmico (lontanissimo dallo stoicismo e
che forse abbiamo visto adombrato nelle tragedie di Seneca). Questo suo pessimismo supera
l’entusiasmo giovanile: riversa questa cupezza anche nello stile e nella lingua. Ciò è dovuto
al fatto che, se gli stoici identificavano la libertà con la capacità del saggio di
auto-determinarsi (persuasi della razionalità del λόγος, che ispirava tutti gli eventi), Lucano
identifica la fine di questa libertà con la fine dell’uomo stesso: nel momento in cui perde
la sua libertà, l’uomo cessa di essere uomo. Dunque la fine della repubblica viene vista non
come il passaggio da una forma di governo ad un altro, ma con la fine della libertà
individuale e collettiva (e quindi la fine di Roma stessa e dell’uomo stesso). Imbevuto di
precetti stoici, non può accettare che il logos abbia potuto di permettere che il male trionfasse
sul bene, che la libertà soccombesse e che l’uomo fosse privato della sua essenza (quale
divinità ha permesso che l’uomo perdesse la sua essenza?). Anche Paolino aveva posto a
Seneca questa domanda (rispose che i mali che capitano ai buoni non sono dei mali, ma delle
prove che la provvidenza impone come un padre nei confronti dei figli per fortificarli). Subito
dopo il prologo lungo 33 versi, c’è la dedica a Nerone (vv.33-66), che è un fulmine a ciel
sereno: sembra contraddire questo pensiero e le ragioni che lo avevano spinto a scrivere
quest’opera. Arriva a dire che in questa guerra civile non ci si deve lamentare se aveva
portato nel tempo al luminoso principato di Nerone (sembra un cavolo a merenda). Ciò si
spiega in vario modo: perché l’opera di composta prima che si guastassero i suoi rapporti con
Nerone e perché era stato costretto a scriverla (Nerone non gli avrebbe permesso di
pubblicare l’opera sennò). Sul piano storiografico è attendibile o no? Ovviamente è viziata da
quest’ideologia del mondo è non è un racconto storico obiettivo poiché è una sua
interpretazione: se i fatti storici è più che confermata dal confronto col De Bello Civile di
Cesare, la Pharsalia non coglie tutte le ragione della crisi della repubblica romana, ma
individua solo due colpevoli: Cesare per la sua avidità di potere e la sorte, che per suo
capriccio ha scelto di favorire Cesare, che per lui era l’incarnazione stessa del male. È dunque
considerato un poema epico tragico: le guerre civili specialmente tra parenti erano materia
della tragedia più che della storiografia, come disse Aristotele nella Poetica. La guerra fu
anche una guerra tra parenti: Pompeo aveva sposato Giulia, figlia di Cesare. L’opera di
Lucano è priva di qualunque prospettiva positiva è ha più i connotati di una tragedia che
dell’epos: per questa è stata definita l’Anti-Eneide sul piano del contenuto e della morale.
Lucano si distacca dalla tradizione perché i valori che lui esalta non sono valori eroici, come
Nevio, Ennio. Non è un’opera epica: è l’opera anti-epica per eccellenza poiché presenta la
visione di una guerra senza trovare nessun valore etico da esaltare (legge questo momento
della storia di Roma come la caduta di tutti i valori che avevano reso grande Roma: fin dal
proemio c’è un tema fortemente anti-epico). Non nega la guerra in sé come qualcosa da
evitare, ma non riesce a capacitarsi di come Roma non abbia rivolto le proprie armi contro i
popoli esterni, ma, in preda di questo furor (follia), si è fatta guerra all’interno. C’erano altri
popoli, e cita la guerra contro i Parti, che era ancora un conto aperto (cita i Parti con una
perifrasi). I Parti non volevano istaurare rapporti di convivenza con l’impero romano: nel 62
a.C. Roma subisce un’altra sconfitta e quindi il fronte orientale era molto caldo (Crasso
muore). Su quel fronte ci sarebbe stato un fronte da celebrare. Nella guerra civile si è
combattuto senza vinti e vincitori: è una sconfitta per tutti. Con molte perifrasi indica i vari
punti cardinali: Nord, Sud, Est ed Ovest (Roma aveva terre da conquistare in tutte le
direzioni). C’è la poetica delle rovine: la visione perfetto della guerra di un mondo in cui al
posto delle città fiorenti si accumulano le rovine, su cui si potenzia un nemico. La prima
parola del testo contiene l’argomento: bella (vedi Iliade odissea e enemies). I poemi epici
avevano come oggetto qualcosa di eroico (l’ira di Achille, Odisseo e le guerre combattute da
Enea). Non si può celebrare una guerra civile, ma solo una guerra che comporti qualcosa di
positivo, non qualcosa che ricalchi la follia è il venire meno dell’idea che esista una
provvidenza divina che ha scatenato il male e la fine della libertà dell’uomo. C’è
immediatamente l’orrore dell’argomento. Poi, c’è una domanda come negli altri poemi epici,
che esprime lo stupore del poeta rispetto a questa guerra e ricalca i modelli (chi ha causato
l’ira degli dei in Iliade, nell’Eneide chi abbia causato il peregrinare infinito di Enea. C’è la
sottolineatura della differenza poiché nei poemi omerici riguarda il rapporto dell’uomo con la
divinità. Non vengono nominate Muse e divinità perché l’ambito divino è escluso.
L’apostrofe ai cittadini romani dà inizio ai versi successivi, in cui Lucano esprime la sua
condanna della guerra civile, che ha disperso forse che potevano essere impiegate contro
nemici lontani (accenni alla dimensione tragica della storia recente e che rinnova le differenze
rispetto ai modelli precedenti, in cui gli autori diventavano narratori ispirati; qui invece egli
racconta la storia del passato recente della vita di Roma) e molti uomini. Già nel proemio si
evidenziano queste diversità tra poemi classici e Pharsalia, ma esse sono così forti che viene
detta anti-Eneide per la lingua e i contenuti. Nell’Eneide c’è un verso equilibrano e sereno, la
Pharsalia ha versi nervosi, spezzati, sentenze e interventi che rompono l’impersonalità del
verso tragico. L’ideologia di fondo è opposta: nell’Eneide la fine della repubblica è vista
come inizio e anticipazione della rinascita di Roma (momento indispensabile per la rinascita
di una Roma migliore di quella repubblicana; nella Pharsalia invece la fine di Roma
corrisponde alla fine della libertà e quindi dell’uomo e del mondo. Nell’Eneide il principato è
visto come la fine delle guerre civili (pax augustea); nella Pharsalia il principato è il punto di
quel disastro (era il peggio che potesse accadere: l'instaurazione di un regime
semi-monarchico). Nell’Eneide il principato rappresenta il progresso della romanità; nella
Pharsalia rappresenta la fine di Roma. Nell’Eneide gli dei guidano l’azione di Enea (è pius:
manifesta continuamente la pietas ed è attuatore del volere degli dei; nella Pharsalia non ci
sono dei (l’unica che agisce è la fortuna capricciosa che ha scelto il male per i Romani: la
presenza degli dei è incerta e ambigua, ma non ci sono le divinità del pantheon romano).
Nella Pharsalia gli dei non ci sono e agiscono forze malefiche della magia nera (con divinità
degli inferi) e il fato e fortuna, mentre nell’Eneide sono giusti e buoni. Gli dei sono
inaffidabili perché hanno deciso di sostenere le ragioni dell’ingiustizia e della violenza:
lucano mette in discussione l’idea stoica che esista un logos provvidenziale che giustifica
tutto ciò che accade all’uomo (come può una divinità che agisce a favore dell’uomo
permettere che avvenga ciò che è successo a Roma? È lo stesso che hanno detto alcuni
studiosi ebrei al momento della Shoah). A sottolineare questa antitecità ci sono delle
sequenze di versi disseminati in tutta l’opera. Esemplare è la scena del sesto libro che è
speculare alla catabasi di Enea nel sesto libro dell’Eneide. Enea vuole conferma di essere
arrivato nel posto giusto e se le sofferenze che ha patito sono quelle che lui voleva realmente
affrontare. Enea dunque per avere conferma interroga il padre attraverso questa discesa
guidata dalla sibilla: percorre questo regno dell’oltretomba fino ad arrivare nei campi elisi
dove incontra Anchise, che gli dice tutta la sua discendenza (che arriverà fino ad Augusto) e
gli mostra le anime dei discendenti che fremono per incarnarsi. Questo episodio si colloca a
metà. Anche nel sesto libro della Pharsalia abbiamo un’evocazione dei morti (necumantheia:
profezia che viene attraverso l’interpellazione di un morto, come Laio nell’Oedipus Rex).
Questo a confermare che il progetto iniziale di Lucano era di arrivare a 12 libri. Sesto
Pompeo, figlio di Pompeo Magno, viene indicato ad interrogare i morti per conoscere l’esito
della battaglia di Farsalo e l’esito della guerra. Non scende nel regno dei morti, ma si reca
dalla strega di Tessaglia Eritto, molto simile alla furia e quindi lontana dalla sibilla di
Virgilio: la voce di un soldato appena morto resuscitato con due riti poiché il primo non
funziona. È il morto a salire verso i vivi. Il sangue si mette a circolare nelle vene
velocemente. Nell’Eneide Enea è pius (epiteto caratterizzante e che lo accompagna quasi
sempre); nella Pharsalia Sesto Pompeo viene descritto come appartenente ad una prolis
indigna. Enea è guidato dalla sibilla, sacerdotessa di Apollo legata al culto degli dei celesti;
erutto invece è una specie di vampiro che ha una relazione con gli dei inferi. Enea incontro
Anchise nei campi elisi, zona descritta come un locus amoenus dove vivono i beati e quindi
gli animi degli eroi. Sesto incontro dritto in un locus horridus (bosco senza luce), e non
incontra uno spirito magno, ma un soldato senza nome appena morto. L’incentrare un’opera
su tre personaggi: Catone che compare nel secondo e nono libro. È un personaggio monolito
e unidimensionale. Rimane immutato dall’inizio alla fine ed è l’incarnazione del bene, del
saggio, della libertà e del pensiero stoico. Pur con una serie di riserve perché non ama la
guerra, fa una scelta di campo e non combatte: disprezza la guerra civile, però scende in
campo per salvaguardare la libertà, nonostante sappia che la sua sia una causa persa. non
combatte per lui, ma per la patria. La guerra civile viene vista come la fine della libertà e
dell’uomo stesso: per gli stoici, quando all’uomo viene tolta la facoltà di autodeterminarsi,
egli perdeva la sua essenza e del suo essere uomo. Questo pessimismo viene tradotto nel
linguaggio classico e baroccheggiante. Abbiamo un ripercorrere la storia della fine di
un’epoca, di un mondo.
Eserciti che avevano combattuto a fianco fino a ieri, oggi sono schierati contro. Catone
prende una scelta di campo, in cui sembra quasi non credere. Tuttavia non resterà lì inerte nel
desiderio di annullarsi. Catone nel secondo e nono libro sarebbe stato probabilmente
protagonista dei libri che dovevano completare l’opera (doveva arrivare a 12 libri, ma si
interrompe al 10). È un personaggio unidimensionale: rimane sempre uguale, immutato nella
narrazione (è un personaggio monolitico). È l’incarnazione del bene, del saggio, del pensiero
stoico di cui comincia a manifestarsi la crisi. Catone, a differenza di Seneca, pur consapevole
dell’inefficacia del suo contributo, non accetta di ritirarsi e quindi di procedere col suo
impegno. È l’uomo che non combatte per sé, ma per la patria; disprezza sicuramente la
guerra civile (come dice Lucano nel proemio). Anche Catone mostra di disprezzarla, ma
nonostante questa sua repulsione, scende in campo per un tentativo di salvaguardare la
libertà, pur sapendo che la sua fosse una causa persa. Questo impegno e non ritirarsi, il rifiuto
del secessus, è un chiaro indizio della crisi dello stoicismo. Come nel primo libro Lucano
dice “victrix causa diis placuit sed victa Catoni -la causa vincitrice piacque agli dei, ma
quella dei vinti a Catone”: è un Catone che mostra dei valori etici più forti di questo principio
razionale che dovrebbe guidare il mondo secondo la dottrina stoica (l’uomo stoico doveva
accettare tutte le sventure perché fiducioso che il mondo fosse guidato da questo logos
razionale e provvidenziale: i mali in realtà sono delle prove per rafforzare l’uomo). Pur non
amando Pompeo, decide di seguirlo nel caso di una vittoria e quando si allontanerà dalla
battaglia dopo Farsalo, lo sostituirà a capo del suo esercito (a Utica, dove si tolse la vita per
non cadere nelle mani di Cesare”). Cesare è un personaggio altrettanto unidimensionale, ma
è l’Anti-Catone in negativo dall’inizio alla fine: è diverso da quello dei commentarii e da
quello che gli storici hanno costruito. È l’incarnazione del male che con la sua forza malefica
e la protezione del fato non aveva avuto scrupoli né verso i cittadini né verso i romani né
verso la patria. C’è la descrizione della traversata dell’Epiro per recuperare le forze militari
che aspettava. Siccome non giungevano perché guidate da Marco Antonio (c’era il mare
agitato e non se la sentiva di far fare la traversata), Cesare sfida la violenza del mare e delle
forze della natura, ed esclama che nessuna forza della natura potrà danneggiare la barca che
porta Cesare (sicurezza che lo contraddistingue). Lucano deve ammettere e riconoscergli le
sue eccezionali doti di generale, la sua determinazione, che immortala nella sua opera,
andando ad aggiungersi a quella serie di scrittori latini che avevano dato vita al ritratto
paradossale (come Sallustio con Catilina o Livio con Annibale). Anche Lucano, che dice
di tutto e di più di Cesare, non può non riconoscergli questa forza e questo carisma, e le
straordinarie doti di generale. Pompeo ha una personalità più umana, non è monolitico e
mostra le fragilità. Si sente ormai vecchio, vive nella gloria che ha acquisito nel passato è
sente pesantemente su di sé l'onere di affrontare una guerra e un nemico che lo spaventa.
Affronterà la morte con rassegnazione. All’inizio viene descritto come assetato di potere,
come Cesare, ma nel corso della narrazione si distingue perché si è posto a difesa della patria
e delle istituzioni repubblicane. Alla fine dunque riabilita Pompeo, che si era posto a capo del
partito della libertà. Inizialmente sono uguali, poi alla fine elogia Pompeo e arriva
all’apoteosi, che viene fatto divinità. In questa apoteosi finale Catone viene descritto come
una persona che dall’altro mondo è pronta a incoraggiare Bruto e Catone a continuare questa
lotta per la libertà. Questa trasformazione di Pompeo da denigrato ad osannato. Nel delineare
Pompeo, c’è la partenza in cui Pompeo viene assimilato a Cesare, e poi addirittura
l’assunzione di Pompeo tra gli dei. Come è possibile che Lucano sia passato da un giudizio
positivo ad uno negativo? La Pharsalia sarebbe il frutto di vari stadi cronologici di
composizione, e quindi rappresenterebbe la trasformazione di giudizio; o questo personaggio
rappresenta la personalizzazione irrealizzata degli ideali di Lucano. Partito da questa realtà di
due contendenti colpevoli, alla fine si identifica in Pompeo, in cui vede la possibilità di
realizzare i suoi ideali. Pompeo viene descritto perlopiù come un uomo angosciato, ma
umano: ci sono momenti molto teneri in cui Lucano, vedendolo oscillante e preoccupato,
diventa suo difensore, anche contro l’evidenza dei fatti (come quando descrive la fine della
battaglia di Farsalo, quando Pompeo scappò in Egitto, anche Lucano parla di
allontanamento dal campo di battaglia e non di fuga, facendolo passare come un atto di
altruismo nei confronti dei suoi uomini dicendo che se fosse rimasto lì, i suoi uomini
avrebbero continuato a combattere fino alla morte: la fuga di Pompeo avrebbe così come
scopo la sopravvivenza dei suoi soldati). La visione del mondo confuso, rabbioso e
disperato si riflette nell’espressione e nel modo di scrivere ed è definita anti-classica e in
perfetta linea col mondo in crisi dipinto, in cui il poeta ha perso il rapporto equilibrato con
la realtà, e per questo non può utilizzare la stessa lingua dei poeti augustei. C’è questo gap
quando si parla tra quello che c’è fuori dal poeta e quello che è in sé: non c’è corrispondenza
fra le due. Il linguaggio, anche se risente degli studi di retorica che aveva alle spalle (le
declamationes), è molto più esasperato: la scrittura di Lucano è stata definita
espressionistica: proponeva una trasformazione della forma di descrizione e di espressione
della realtà. Si passa da un linguaggio basato sulla oggettività (mimetica) alla soggettività
dell’espressione (esprime questo sentimento individuale, più che rappresentare
oggettivamente la realtà). La scrittura di Lucano lo è perché esprime la sua percezione della
realtà, il suo mondo interiore angosciato di fronte al prevalere del male e della follia nel
mondo. È tutto sovrabbondante: il gusto dell’orrido e del macabro (già presenti nelle
tragedie di Seneca) rappresenta l’accanimento della descrizione dei corpi deformati dalla
morte e che rendono l’uomo morto irriconoscibile. Lucano pensa che l’annullamento della
forma fisica sia proprio una metafora della distruzione anche morale dell’uomo. A questa
ridondanza di descrizione, quasi in antitesi con la sua verbosità nelle descrizioni, si aggiunge
l’uso della sententia (frase breve che sintetizza un pensiero e agli antipodi rispetto alla
ridondanza). In realtà ridondanza e sententia sono complementari perché la sententia è il
punto di arrivo di questo processo descrittivo, che si concretizza in un’unica frase.

AULO PERSIO FLACCO

Petronio attraverso Encolpio sembra esprimere un’idea della poesia agli antipodi rispetto a
Lucano, nella cui opera non ci sono più le divinità e le scene tipiche dell’epos: Lucano non
poteva accettare che una divinità buona potesse proteggere il male rappresentato da Cesare.
Petronio si rivela estremamente critico nei suoi confronti: la poesia di Lucano non è in linea
con la traduzione.
Persio era sulla buona strada, ma per la sua condizione cagionevole morì prima dell’invito di
darsi morte. Nacque nel 34 e morì nel 62. Fonte della ricostruzione della sua biografia è una
vita che per alcuni risalirebbe al grammatico Probo e per altri di epoca medievale e quindi
non attendibile. Aulo Persio Flacco nacque a Volterra nel 34 da una famiglia agiata del ceto
equestre e di origine etrusca (molto tradizionalista e fedele agli antichi costumi). Rimase
orfano in giovane età e a 12 anni si trasferì a Roma con la madre per studiare presso ottimi
maestri. Alla scuola di Anneo Cornuto, maestro di Lucano, studiò filosofia: sembra che
Corntuo abbia pubblicato le sue opere togliendo riferimenti troppi evidenti al princeps. A
differenza di Lucano, Persio si tiene lontano dal mondo dei poeti cortigiani e si lega agli
intellettuali anti-neroniani e conobbe Cornuto, che fu esiliato da Nerone, Seneca, che non
apprezzo perché secondo lui colluso col potere, e fu amico di Trasea Peto, oppositore di
Nerone e che finì male, di Lucano, più giovane di lui di 5 anni. Ogni tanto amava ritirarsi
nella casa della madre a Luni. Morì nel 62 per una grave malattia allo stomaco, che
probabilmente lo sottrasse alla morte simile dei suoi amici. L’insegnamento di Cornuto
influenzò moltissimo la formazione culturale e ideologica di Persio, che, come Lucano,
mostra nelle sue satira la sua adesione agli ideali di libertà dello stoicismo (condivisione
totale esasperata forse da.la giovane età, e quindi disposta a nessun compromesso). Mentre in
Lucano lo stoicismo si espresse nella Pharsalia e nella critica stoica al potere tirannico
incarnato da Cesare e che aveva annientato la libertà (denuncia sul piano storico-politico), in
Persio lo stoicismo si espresse nelle sue satire nella critica solo sul piano etico della società
contemporanea e, indirettamente, di Nerone, che era il modello di questa società. Non c’è una
critica politico-sociale, ma solo etica (è un fustigatore di costumi: punta il dito e giudica gli
uomini che vivono male il rapporto con la divinità, ecc).
Di Persio ci sono giunte 6 satire, per un totale di circa 650 versi. Questa raccolta secondo
alcuni sarebbe preceduta o seguita da un prologo o epilogo rappresentato da 14 versi
poliambi (o trimetri giambici scazonti), in cui Persio fa delle dichiarazioni di poetica.
Secondo alcuni facevano da prologo all’edizione delle satire, per altri da epilogo. Ci dice che
innanzitutto rifiuta di iniziare quest’opera con l’invocazione alla Musa, che non può ispirare
il poeta perché la poesia nasce dall’Inter irrita personale del poeta che sente l’esigenza di
esprimere quello che ha dentro di sé (la vera poesia nasce da questo desiderio, e non quello di
arricchirsi e acquisire potere e fama, come invece facevano i poeti cortigiani contemporanei,
che, pur essendo abili poeti, mettevano da parte la loro vera ispirazione per stare dietro ai
gusti del pubblico. Persio afferma che la poesia cortigiana è priva di qualunque ispirazione
personale). La prima satira contiene la critica contro la poesia, la letteratura e il pubblico del
suo tempo, che apprezzava una poesia altrettanto vuota di principi morali e talento poetico.
Nel Satyricon anche Eumolpo e Encolpio fanno una critica alla poesia contemporanea ed
Eumolpo si distingue con il Bellum Civile e la Troiae Halosis (dicendo che questi fossero
saggi di vera poesia). Quindi anche in Petronio troviamo questa critica. La seconda satira ha
forma epistolare ed è una critica contro la religione del tempo, ipocrita e interessata.
Quest’idea della religione faceva sì che gli uomini vedessero gli dei simili a loro nei desideri
e nelle pretese; ma Persio dice che bisogna rivolgersi alla divinità con cuore puro e onesto. La
terza satira critica quelli che disprezzano la filosofia e si fanno sopraffare dai vizi, a questi
contrappone i veri insegnamenti della saggezza, che aiuta ad affrontare la vita vivendo bene.
È una sorta di protrettico per studiare filosofia. È una critica a chi si fa beffa di questi principi
filosofici. La quarta satira è un’esportazione a conoscere sé stessi soprattutto prima di
entrare in politica: dall’esempio negativo di Alcibiade passa a parlare del gnothi seauton di
Socrate, precetto che gli uomini rifiutano per vedere i difetti degli altri (ma bisognerebbe farsi
un esame di coscienza prima di entrare in politica) e non auto-analizzarsi. Nella quinta
satira, la più lunga, Persio elogia Cornuto e i valori stoici; affronta poi il tema della vera
libertà, che è quella interiore e che ci rende liberi dai veri tiranno che stanno tutti dentro di
noi (avidità, lussuria, ambizione, pregiudizi, che rendono schiavo l’uomo: nulla esterni
all’uomo può renderlo schiavo). La sesta satira, in forma epistolare come la seconda, è
rivolta all’amico e poeta lirico Cesio Basso e contiene un elogio all’amicizia e alla misura
(si avvicina alle satire orazione, in cui criticava la mediocritas del mondo latino: bisogna
godere dei propri beni senza eccedere). Per un amico bisognoso ci si può privare di una parte
dei propri beni senza preoccuparsi di cosa direbbe l’erede.
Secondo la vita Persio avrebbe composto anche una serie di opere non giunte e pubblicate
dopo la sua morte o dal maestro o dall’amico. Sarebbero una tragedia di argomento romano
(praetexta) Vescio, un racconto di viaggio, un elogio del suicidio di Aria Maggiore (suocera
del suo amico Trasea Peto, che di fronte alla morte del marito si uccise davanti col pugnale
dicendo Pete non dolet). La satira, di cui Quintiliano dice che è tutta nostra e non copiata
dai greci, inizia con Lucilio e prosegue con Varrone (non giunte) e Orazio (seccatore).
Satur in latino significa abbondante o vario; era persino un piatto unico che presentava una
serie di cibi. In realtà nelle satire letterarie che ci sono giunte, ci sono entrambi gli elementi,
sia la varietà sia la pienezza (genere che potesse accogliere tanti argomenti). La satira di
Lucilio, rispetto a quella di Orazio, era più moralistica e personale (racconta tante sue
esperienze e parte sempre da una sua esperienza personale). L’atteggiamento di Orazio è
meno fustigante nei confronti del do-protagonista e ha un atteggiamento più bonario poiché il
suo atteggiamento è quello “nessuno è senza difetti”: c’è la descrizione bonaria dei difetti
altrui (è meno aggressivo). Persio si professa seguace dei suoi predecessori, ma si distacca da
loro: mette da parte la sfera personale e il quotidiano (non prende mai spunto dal
quotidiano o dalla sua vita), e la sua presenza si manifesta solo come voce critica e non
come protagonista di ciò che racconta; si dedica alla critica di costumi corrotti del suo
tempo, a cui contrappone la saggezza del filosofo (descrive e dà un’alternativa). Le sue satire
non presentano la varietà tematica tipica del genere (il termine satur rimanda proprio alla
pienezza). Usa un tono sarcastico e severo, opposto alla bonarietà della satira di Orazio (in
cui c’è più humanitas). Evidentemente è cambiato il rapporto tra intellettuale e società:
Orazio tutto sommato si riconosceva in essa e la accettava, Persio no perché era considerata
ormai corrotta, incivile e quindi legata a valori come la ricchezza e l’ambizione. Altro che
callidae iunctura, lui parla di acris iunctura: crea strutture che a noi moderni potrebbero
piacere, ma agli antichi no. È un esempio di scrittura personale e creativa. È così tanto
difficile che San Girolamo le buttò via nel fuoco dicendo “se non vuoi farti capire, io non
perdo tempo nel cercare di comprenderti”. Abbina la materialità a concetti astratti. È già
evidente dai coliambi, quei 14 versi che secondo alcuni sarebbero da collocare all’inizio
(prologo), secondo altri alla fine. In questi capiamo quali siano le motivazioni del suo
messaggio poetico. Si definisce poeta semi-paganus (semi-rustico): polemizza i poeti del
suo tempo che, pur in successo di un certo talento, lo subordinano ai gusti pessimi del
pubblico per racimolare denaro e successo (in questo modo risultano falsi, vuoti, cortigiani,
non originali e concentrano il loro messaggio poetico su temi mitologici triti e ritriti con una
voce melensa e strascicata). A questi poeti contrappone la sua poesia vera, autentica e che
scaturisce dalle sue esigenze interiori: non scrive aria fritta per dare peso al fumo e parla
sottovoce (secreti loquitur), non è roboante. Non gli interessa il successo, ma solo la coerenza
coi suoi principi morali: qualcuno ha visto la sua poesia come espressione di uno che non ha
mai vissuto la vita cruda del suo tempo (ha vissuto in un’atmosfera ovattata: è facile quindi
giudicare gli altri). Secondo altri questa è una lettura non corretta perché la sua poesia
esprime la sua lettura della realtà a luce delle sue forti esigenze morali che lo portano essere
pessimista davanti a questo vivere squallido (prima satira). A questo programma poetico si
accompagnano uno stile e una lingua innovativa: lo stile piano e tranquillo di Orazio è
sostituito con uno spezzato e nervoso con interventi di interlocutori immaginari,
esclamazioni, passaggio intuitivi con collegamenti indiretti da un tema all’altro (è una sorta di
monologo con pausa, digressioni e scambi di parole senza segni diacritici, che generano
spesso confusione nel capire chi sta parlando). Lo stile assomiglia un po’ a quello della
diatriba stoico-cinica (lettere di Seneca a Lucilio, ma Seneca ci fa capire che il discorso viene
interrotto dalla domanda di un possibile interlocutore). Forse per questo Persio è molto
moderno. Questo stile riflette una realtà che lui evidentemente ritiene priva di logica e che
riproduce in questo suo stile: L’ illogicità del suo stile è legata al fatto che riflette quello che
lui vede. L’espressione linguistica è originale e spiazzante: è il sermo quotidianus (latino
comune del romano colto), a cui aggiunge grecismi, parole dei bambini, onomatopee,
accostamenti arditi (iunctura acris: padella di parole ecc), che consentono a Persio di fornire
una forse funzione emotiva al suo messaggio, difficile da trovare nella letteratura prima di lui.
Sono immagini espressionistiche, spazianti e che uniscono termini reali in contesti
lontanissimi tra loro, creando espressioni più surreali che reali.

PETRONIO

Possiamo parlare del Satyricon Libri poiché la traduzione ci ha trasmesso quest’opera che è
forse l’opera più originale della letteratura latina. Rappresenta più di un enigma: il titolo
(cosa vuol dire?), l’autore, quando è stata scritta, la lunghezza (quanto era lunga?), il genere
letterario e il rapporto di questa opera coi i generi letterari preesistenti (sia in Grecia che a
Roma). Il titolo Satyricon deriva dal greco e significa “libri che raccontano cose di satiri” (il
satiro nella letteratura greca era un personaggio grottesco metà uomo e metà capresco con
grandi impulsi sessuali). Se invece il termine è scritto con la i e non con la y, Satiricon
significherebbe “libri di satire” (la satira è un genere che nasce con Lucilio e continua con
Orazio, Persio e Giovenale), che trattavano molti temi ma con un intento moralistico (come la
Satira del seccatore di Orazio). Non mancano caratteristiche anche delle satire: così si chiude
il problema. Non sappiamo con certezza chi sia l’autore perché i manoscritti dicono che sia
Petronius Arbiter, identificabile con Gaius Petronius, appartenente alla corte di Nerone e
proconsole in Bitinia nel 60 d.C. e di cui Tacito ci ha fornito un ritratto molto dettagliato.
Tacito inserisce il ritratto quando sta parlando dei vari personaggi importanti che pagarono
con la vita l’opposizione a Nerone (ci parla anche della morte di Seneca e Lucano).
Inizialmente afferma che per descrivere la sua morte, deve fare un passo indietro e raccontare
la sua vita. Dormiva di giorno e di notte lavorava e si dedicava ai piaceri: aveva scambiato la
notte con il giorno. Con questo suo modo di vivere aveva raggiunto la fama che molti non
avevano raggiunto: Tacito procede con contrapposizioni (è un ritratto paradossale, che c’è
in Sallustio, Livio, Plutarco: si mette in luce di un personaggio la grandezza nel bene e nel
male; che ci sarà in Manzoni col ritratto dell’Innominato e della Monaca di Monza). Non era
un dissipatore di patrimonio: si dava alla bella vita con raffinatezza. Era una persona dalla
grande personalità perché sembrava comportarsi da persona libera, piacendo sempre di più
alle persone. Tacito lo definisce elegantiae arbiter (definito Arbiter anche nei manoscritti).
Divenne un personaggio richiestissimo da Nerone al punto che, ritenendolo elegante e
raffinato, non faceva nulla senza aver prima chiesto l’opinione di Petronio. Questo rientrare
in maniera ravvicinata nelle grazie di Nerone suscita invidia: Tigellino, prefetto del pretorio
(capo delle guardie dell’imperatore) che Nerone sostituisce ad Afranio Burro dopo averlo
fatto uccidere. Tigellino spalleggiava Nerone in tutte le sue azioni, costringendo Seneca a
ritirarsi a vita tirata. Di Tigellino Tacito sottolinea la crudeltà, che gareggiava con quella di
Nerone. Tigellino lo accusa di essere amico di Scevino, personaggio non gradito, e per averne
le prove aveva corrotto uno schiavo di Petronio affinché lo denunciasse. Nerone era molto
sensibile e quindi Tigellino cercò di provocare la crudeltà dell’imperatore, di fronte alla quale
tutte le altre passioni si eclissano. Quando Petronio si rende conto di essere vittima di questa
congiura contro di lui e che presto gli arriverà l’invito a suicidarsi, a Cuma decide di darsi la
morte con modalità agli antipodi rispetto alla morte di Seneca (simile a quella di Socrate). Gli
ultimi istanti della sua vita sono caratterizzati da: si taglia le vene e se li ricucia, non parlò
dell’immortalità dell’anima ma volle sentire canti leggeri e versi facili. Non scrisse
un’adulazione a Nerone per evitare la confisca dei beni e la persecuzione della famiglia, ma
cominciò ad elencare tutte le scelleratezze dell’imperatore, le sue perversioni sessuali e i
nomi delle sue amanti. Fatto ciò ruppe il sigillo per evitare che potesse rovinare altre persone
e che si potesse sostituire a quella lettera un’altra. Può corrispondere questo ritratto
all’autore?
Il dubbio riguarda al praenomen Gaio, poiché alcuni lo identificano con Tito Petronio,
effettivamente proconsole in Bitinia. Tacito però ci dice che questo Petronio era campione di
gusto ed eleganza; come mai nel manoscritto non figurano praenomen, nomen e cognomen?
È possibile che questo soprannome che troviamo in Tacito sia diventato così famoso da
trasformarsi come un cognomen per antonomasia? L’unico ostacolo all’identificazione di
questo Petronio è la mancata citazione della composizione di questo romanzo. C’è solo
qualche accenno a qualche pagina che scrisse per denigrare tutti i vizi di Nerone, accenni che
secondo alcuni studiosi avrebbero delle relazioni col romanzo. Non si fa alcun accenno al
Satyricon. Il problema dell’epoca di composizione è legato alla paternità dell’opera: se il
Petronio di Tacito è l’autore, sappiamo collegarlo. Se invece non è quello, non lo sappiamo.
Molti ritengono che sia stato composto nell’età di Nerone per altre ragioni: c’è la polemica
letteraria contro la poesia del tempo (sembra concordare con le idee di Persio e aver nel
mirino l’έπος di Lucano nello specifico poiché ritenuto senza fantasia, valori ispiratori
dell’έπος tradizionale, eroi e divinità; e le opere di Nerone stesso), i riferimenti a personaggi
pubblici come mimi o cantori che hanno lo stesso nome di attori o citaredi vissuti negli stessi
anni, e la polemica sulla decadenza dell’eloquenza, delle arti e delle scuole di retorica
(polemica che si sviluppa a partire da Seneca Il Vecchio e fino al 2 secolo d.C., che restringe
ed allarga il momento di composizione). È un problema che non si esaurisce con l’età di
Nerone, ma continua nel secolo successivo. Di questa opera abbiamo solo 141 capitoli,
appartenenti ai libri 14-15-16. Si è decisa questa collocazione perché ci immergono in una
storia in cui compaiono riferimenti ad avvenimenti già raccontati, i capitoli centrali di questi
141, il capitolo 15 ci racconta la cena di Trimalcione e si inserisce perfettamente tra gli
avvenimenti raccontati nel 14 libro è il 16 libro, che presuppongono vicende avvenute nei
libri precedenti e che proseguiranno in uno spazio non quantificabile. Perché ci sono giunti
solo questi capitoli che non sono né all’inizio né alla fine? Forse perché, essendo molto
estesa, già nell’antichità circolava già in estratti: era già stata epitomizzata perché troppo
lunga, o perché si sono conservati solo le parti di argomento meno licenzioso (nella censura
moralistica del tempo e nelle scelte fatte dai cristiani su cosa tramandare). Infatti quando
c’era un’opera enorme, ricopiarla per farla sopravvivere richiedeva troppo tempo, e quindi
veniva ridotta già nell’antichità.
I protagonisti all’inizio sono due personaggi: Encolpio e Gitone, una coppia omosessuale
che sembra far parodia della copia eterosessuale del romanzo greco e che si trova in una
graeca urbs che non viene nominata (Cuma, Neapolis, Pozzuoli). Forse questa coppia è
giunta qui dopo esser partita da Marsiglia, da dove Encolpio era stato cacciato via come
φαρμακός (aveva fatto qualcosa come capro espiatorio: un rito propiziatorio che si faceva
annualmente per allontanare il malocchio e le calamità successe durante l’anno. Inizialmente
si faceva con una persona, successivamente con un animale. Andando avanti col tempo, si
smise di uccidere e ci si limitò ad allontanare dal paese). Encolpio sembra infatti scontare lo
scotto di una sua colpa forse dei confronti del Dio Priapo (altro elemento parodico rispetto al
romanzo greco, dove il Dio offeso è normalmente Eros). La coppia già eseguito un viaggio
per mare per sfuggire alla giustizia forse per aver ucciso un uomo. Nei primi capitoli abbiamo
Encolpio che discute sotto un portico con un tale Agamennone (poetae maestro di eloquenza,
che nell'opera viene spesso schernito dagli ascoltatori): parte con un discorso polemico sullo
stato dell’arte e della letteratura tenuto da Encolpio, voce narrante del racconto. Le cause
della decadenza dell’eloquenza partono da Seneca Il Padre e continuerà con Quintiliano e
fino all’Anonimo del Sublime. Encolpio attribuisce la decadenza allo scollamento che c’era
nelle scuole tra ciò che veniva insegnato e ciò che la pratica quotidiana richiedeva. Questi
giovani erano istruiti su argomenti che non riguardavano affatto il mondo reale attraverso
suasorie e controversie (discorsi fittizi). Di conseguenza da qui la critica rivolta ai maestri
di retorica, che spesso sono cattivi e il loro insegnamento era basato sull'esercizio delle
expositiones piene di esercizi e che limitavano il talento naturale degli studenti. La posizione
di Agamennone è diversa: i maestri si adeguano alle richieste dei genitori, che sono
colpevoli di non voler per i figli una preparazione dignitosa e lunga (vogliono che si
insegnino solo gli rudimenti necessari per farli entrare presto nel mondo del lavoro). Da
bambini si trastullano nelle scuole, da adulti a farsi deridere nei fori e da vecchi a
continuare??. Petronio si inserisce anche egli nel dibattito. Per dare un assaggio della sua
cultura Agamennone ripete in versi il contenuto di questo suo pensiero: è il primo
inserimento di versi all’interno di quest’opera in prosa. In questi versi dice che prima bisogna
cambiare le letture dei genitori. Al termine del discorso, Agamennone viene deriso da una
turba di scolari che irrompono nel portico. Alla coppia Encolpio e Gitone nel corso del
romanzo si unisce un altro compagno, Ascilto, che attenta alle virtù del giovane Gitone,
innescando più volte scene di gelosia in Encolpio. Nella conversazione con Agamennone,
Encolpio non si è accorto della sparizione di Ascilto, e, arrivati gli scolari, scappa per cercare
Ascilto. Non conoscendo la via per tornare alla locanda, si ritrova nel punto da cui era partita
e quindi chiede aiuto ad una vecchietta. La vecchietta lo guarda e, beffandolo, lo porta in un
lupanare, un bordello, da cui Encolpio, resosi conto della beffa, riesce a sfuggire dall’entrata
posteriore, imbattendosi in Ascilto, adescato da uno che sembrava un buon padre di famiglia.
Dopo aver litigato con questo seccatore, vedono alla fine del vicolo Gitone, che denuncia ad
Encolpio le avance di Ascilto. Encolpio va su tutte le furie e quindi lo picchia. Ascilto si
discolpa incolpando a sua volta Encolpio. Si calmano e Encolpio chiede ad Ascilto perché
fosse scappato (non voleva ascoltare Agamennone. C’è una tregua momentanea, poi
Encolpio, memore dell’indulto di essere uno che per guadagnarsi una cena è disposto ad
ascoltare stupidaggini, gli propone di separarsi per evitare futuri litigi. Ascilto accetta, prende
la sua roba e cerca un nuovo alloggio dopo la cena presso la casa di Trimalcione. Tornato
nella locanda, Encolpio si riappacifica con Gitone. Ascilto, scoperto in flagranza, accusa
Encolpio di non rispettare il patto secondo cui si dovesse condividere tutto prima della
separazione (anche Gitone). In serata vanno a vendere un pallio rubato (si parlava del furto
nei libri non pervenuti). Un campagnolo con la moglie si fa avanti per comprarlo, ma
Encolpio e Ascilto riconoscono sulle sue spalle una tunica che Encolpio aveva perso in un
luogo solitario. Ascilto, con disinvoltura, comincia a tastare la tunica, e si rende conto che
non si era reso conto delle monete d’oro cucite dentro la tunica. Ci sono varie vie: andare per
vie legali, rubarlo o barattare (opzione scelta perché la moglie del campagnolo ha
riconosciuto nel pallio in vendita un loro indumento e la lite seguita aveva attirato un po’ di
gente per ristabilire la giustizia). Il baratto mette tutti d’accordo. Recuperato il tesoro, i due
se ne tornano in albergo. Finita la cena, si sente bussare alla porta la moglie del campagnolo.
Si presenta come serva di Quartilla, che poco prima aveva turbato i sacrifici davanti alla
cripta (luogo segreto in cui pare si svolgessero sacrifici in onore di Priapo; questa parte non ci
è pervenuta). Quartilla è contenta di averli ritrovati poiché pensa sia una benedizione del
cielo. Devono pagare il conto di averla spiata con la loro disponibilità a sottoporsi ad
un’orbita con lei, la schiava psiche e la moglie del campagnolo. La scena si sposta forse a
casa di Quartilla, dove inizia l’orgia. Terminata la veglia per Priapo, si rimettono a tavola e
dopo riprende l’orgia, a cui prendono parte anche altre persone (anche una servetta di 7 anni).
Il terzo giorno arriva il servo di Agamennone per ricordare l’invito alla cena di Trimalcione.
È un vecchio calvo con una tunica rossa che giocava a palla con dei ragazzi coi capelli
lunghi. Altri due personaggi che suscitano l’attenzione sono due eunuchi. Mentre ammirano
tanta magnificenza, giunge Menelao per mostrare l’ospite che stava per dare inizio alla scena.
Ad uno schiocco di dita, uno dei due eunuchi porta il pitale a Trimalcione, che chiede ad un
altro dell’acqua per lavarsi le mani asciugate sulla testa di un giovane. C’è poi la descrizione
del portinaio, delle pitture e della cena. Trimalcione è un liberto ricchissimo che organizza
cenere restore pirotecniche tra invitati con le stesse caratteristiche morali e di vita. Questi tre
ospiti vengono accolti con calore e rispetto poiché sono ritenuti più signori, ma questi tre non
resistono molto a questo sfoggio di lusso pacchiano e ai dialoghi insulsi e vuoti tra i
commensali. Sfuggiranno dalla cena solo quando arriverà un reparto dei vigili del fuoco,
attirati dalle urla dei commensali e convinti ci fosse un incendio. La cena è raccontata in 53
capitoli dalla voce narrante, Encolpio. Appaiono altri personaggi, tutti liberti come lui ma
meno fortunati. Emerge uno spaccato della classe sociale dei liberti, che in età neroniana
aveva ottenuto ruoli importanti. In questo spaccato di vita dei liberti emergono i valori
morali, il modo di pensare e giudicare, le paure di una classe sociale che viene descritta in
maniera precisa anche sul piano linguistico. Questo realismo è ai limiti di tutto il realismo
antico perché questa classe sociale non è trattata tragicamente, seriamente o
problematicamente, come invece avviene nel mondo moderno. Ogni volta che ci sono questi
affondi nella società più bassa, l’atteggiamento è sempre comico (cosa che Erich Auerbach
ci dice in Mimesis). Il profilo di Trimalcione viene anticipano nelle pitture che ci sono a casa:
viene raffigurato come giovane schiavo giunti a Roma, poi al servizio dei suoi padroni, come
esecutore degli incarichi di fiducia attributi dal padrone, come erede del suo patrimonio e
come abile imprenditore nel gestirlo e aumentarlo. Pur arricchitosi, rimane legato
all’orizzonte culturale da cui vorrebbe emanciparsi: vorrebbe essere colto come gli
aristocratici, ma la sua incultura glielo impedisce. La comicità di questo personaggio nasce da
questa contrapposizione tra ciò che lui è e ciò che vorrebbe essere, anche se si dichiara
sempre fiero della sua condizione sociale. Ermerote si dichiara fiero di essere diventato
cittadino romano. L’altro elemento che fa da contrattare a questa esistenza orientata verso la
materialità, esaltazione di ciò che è materiale è la paura della morte, della fragilità della vita
umana. Sono paure che vengono descritte durante la cena e che riflettono aspetti della società
romana complementari tra loro (dove non ci sono valori etici nasce l’esorcizzare la paura
della morte con il lusso e il divertimento, che sono forme di compensazione). Fortunata è la
moglie di Trimalcione, ritenuta artefice della sua fortuna. Abin è l’architetto della tomba e del
suo mausoleo. Sono entrambi partecipi dei valori di Trimalcione. Petronio fa un po’ la
caricatura di questi personaggi che si erano arricchiti a dismisura. È come Mazzarò in La
Roba di Verga. Questo sfoggio di ricchezza che si manifesta nella presentazione dei cibi
segnala la ricchezza di questo personaggio: non c’è cibo che non provenga dai suoi poderi.
Abbiamo un altro dramma nella storia tra Encolpio e Gitone, che ha scelto Ascilto per i suoi
attributi sessuali (era più appetibile). Encolpio vive il dramma della gelosia è nelle sue
peregrinazioni incontra Eumolpo in una pinacoteca, poeta amante di ragazzini (non c’è
l’amore eterosessuale). Si inserisce qui il vero primo componimento poetico dell’opera:
Eumolpo canta la presa di Troia prendendo ispirazione da una pittura della pinacoteca (come
la poesia, anche l’arte era decaduta). Troiae Halosis è un componimento di 77 versi ben
costruito e di fattura pregevole e raffinata, modellata molto sulla poesia di Virgilio (esempio
di quello che doveva essere la poesia per Petronio: piena di fantasia, elegante e raffinata; agli
antipodi degli errori della poesia del suo tempo). Troveremo questa stessa idea e polemica
con la poesia contemporanea nelle Satire di Persio (tutta la sua poetica si esprime in maniera
polemica alla poesia contemporanea cortigiana, fondata su argomenti che non scaturiscono
dal bisogno di trasmettere un messaggio, ma che va incontro alle richieste di un pubblico
incolto). Questi versi non hanno lo scopo di parodiare la poesia, ma si mostrano come
esempio della poesia opposta a quella circolante (si coglie sicuramente quella consonanza con
il Persio della prima satira). Forse c’è da cogliere un'allusione ad personam di Nerone, che ha
mostrato a teatro una sua Troiae Halosis (era stato acclamato nel teatro). Encolpio e Eumolpo
si recano alle terme, dove ritrovano Gitone e Ascilto. Quest’ultimo si è pentito di aver
abbandonato Encolpio e gli chiede di fuggire con lui. A notte fonda vengono raggiunti da
Eumolpo che racconta la sua prosecuzione alle terme. Era stato ingiuriato per il suo
verseggiare da ragazzini che applaudivano un tale nudo ben dotato che acclamava il nome di
Gitone (Ascilto). Ascilto scompare; Eumolpo e Encolpio fanno pace e decidono con Gitone
di partire per Taranto alla ricerca di fortuna. Questo viaggio introduce nel romanzo
un’ulteriore tema già forse presente nelle parti non giunteci: il tema del viaggio. Partono per
Taranto e sulla nave Encolpio e Gitone ritrovano due vecchie conoscenze: Lica, proprietario
della nave, e la moglie Trifena, che hanno dei motivi di rancore nei loro confronti (non
sappiamo esattamente il perché). Questo viaggio si trasforma in una sorta di trappola, da cui
non è possibile sottrarsi senza pagare un prezzo. Per motivi che non sappiamo, questi
cercando di non farsi riconoscere e, per non essere riconosciuti, cercano delle vie di uscita
fallimentari. 1) chiudersi in un sacco ?????? 2) Eumolpo propone di radere la loro testa come
schiavi fuggitivi per non essere riconosciuti. Anche questa via avrà i suoi pericoli. L’idea di
Eumolpo non si rivela buona poiché la rasatura di capelli, segnalati da un passeggero, viene
visto come un segno di malaugurio poiché i marinai offrivano agli dei i capelli in segno di
tempesta. Encolpio e Gitone vengono sognati da Lica, e, dopo essere riconosciuti, vengono
obbligati a 40 frustate. Encolpio resiste a 4 frustate, Gitone dopo 1 urla e quindi Trifena
riconosce la voce del giovane. Questa inimicizia si ricompone con la stipulazione di una pace,
a cui segue un festino. Scoppia la gelosia perché Trifena si è invaghita di Gitone e Eumolpo
comincia a raccontare la favola Milena della matrona di Efesa (novella di argomento spinto e
fatta diventare genere letterario da Aristide di Mileto e fatte conoscere a Roma da parte si
Cornelio Sisenna). Questa matrona era ammiratissima, ma, da quando le muore il marito, non
vuole più vivere. Decide quindi di lasciarsi morire di fame per seguire il marito. Nessuno
riesce a farle cambiare idea; si porta con sé una serva per farsi controllare, ma ad un certo
punto vengono crocifissi tre ladroni e l’ordine era che nessuno potesse avvicinarsi per
seppellire questi soldati esposti. Il soldato fa la guardia, ma vicino al luogo c’era la tomba. Di
notte, vede una lucina dentro l’ipogeo e, attratto, va a vedere chi c’è: vede la donna che si sta
lasciando morire e, rimasto estasiato dalla sua bellezza, cerca di dissuaderla. Non fa breccia e
quindi cerca di guadagnarsi la simpatia della servetta, che, attratta dal vino, riesce a far
breccia sulla padrona, che, prostrata dal digiuno, si lascia convincere a seguire le indicazioni
della guardia. Si mettono a mangiare e inizia la tresca. Nel fare questa storia, succede che lui
diminuisce le ore di guardia e i parenti di uno di questi crocifissi vanno, smontano uno dei
decapitati e lo seppelliscono. Visto ciò, va a salutare la matrona perché morirà per non aver
fatto la guardia. Va a togliere il marito dalla tomba e lo fa mettere al posto del crocifisso.
Scoppia la tempesta, la nave si inabissa e Lica muore annegato. Invece che arrivare a Taranto,
giungono a Crotone (famosa per i costumi molti libertini), dove vengono a sapere che è la
patria dei cacciatori di eredità, persone disposte a tutto per accaparrarsi l’eredità di un
vecchio ricco. Encolpio si finge un riccone in pessima salute, in attesa che i suoi servi in
Africa gli mandassero un bagaglio con le ricchezze. Gli altri due erano schiavi superstiti, in
modo tale da essere sotto l’attenzione di quelli di Crotone. Prima di arrivare Eumolpo
affronta il tema del poema storico, criticando tutti quelli che hanno eliminato la fantasia in
nome della verità (allusione a Lucano, che aveva costruito un poema epico-storico). Come
saggio di un poema con fantasia e tutti gli elementi classici, Eumolpo declama un suo Bellum
Civile, inserimento poetico di 291 esametri. In questi inserimenti poetici, Petronio dimostra
di essere un conservatore e un ammiratore dei modelli del passato (Virgilio, Orazio, di cui ci
dà un verso della prima ode del terzo libro: Petronio non apprezzo l’epos snaturato e
disepicizzato di Lucano; in concordanza con Persio). Nell’ultima parte dell’opera viene
raccontata la defaillance erotica di Encolpio (Polieno era nome del finto schiavo di Encolpio),
vendetta del Dio Priapo, che lo rese impotente con questa matrona Circe. Cerca invano di
eliminare questa maledizione ricorrendo alle streghe , ma forse solo le preghiere a Mercurio
risolvevano i risultati. Nell’ultimo capitolo si legge il testamento di Eumolpo: chi voleva la
sua eredità doveva mangiare le sue carni, escamotage per fregare i Crotoniati, che non si
lasciano illudere da questa clausola. Non sappiamo se stesse realmente per morire o meno,
perché il romanzo finisce qui.
Un altro enigma è il riuscire a classificare quest’opera in un genere letterario in base alle
caratteristiche. È un’opera mista di prosa e versi (come Apokolokyntosis) a carattere
realistico, satirico (cena di Trimalcione). Viene chiamata col termine moderno di romanzo per
le somiglianze esterne con i modelli romanzi. Questa denominazione deve essere precisata
perché nella storia della letteratura classica non esiste un genere letterario codificato che
corrisponda a quello che noi intendiamo con romanzo. Esistono diverse opere a cui i greci
diedero nomi diversi (Muthoi, drama, syntagma), ai quali non attribuirono mai dignità di
genere letterario. Queste opere sono opere che per le caratteristiche prevalenti sono state
raggruppate. Ci sono opere in cui è prevalente il tema dell’amore e dell’avventura, sotto cui
vengono raggruppati il romanzo di Nino (due lunghi frammenti), le avventure di Cherea e
Calliroe di Caritòne di Afrodisia, le avventure di Abrocome e Anzia di Senofonte Efesio,
le avventure di Leucippo di Claudio, le etiopiche di eliodoro. Di questi abbiamo quattro
romanzi interi. I romanzi che avevano il tema avventuroso sono il romanzo di Alessandro di
Callistene (non lo abbiamo, forse era incentrato sulle avventure). Al genere erotico-pastorale
le avventure pastorali di Dafne e Cloe di Longò Sofista. Ci sono anche la Storia Vera di
Luciano e Lucio o l'Asino d’oro di Luciano o Pseudo-Luciano. Le ragioni per cui non
venne fissato un nome preciso per questa narrazione è forse legata alla scarsa considerazione
(genere basso, letteratura di evasione destinata a pagare gusti poco raffinati). Né Aristotele né
i grammatici/filologi alessandrini parlano di questo tipo di narrazione perché fu successiva a
loro (siamo alla fine dell’ellenismo). La critica letteraria successiva non valuto positiva,e te
questa produzione letteraria perché forse la riteneva letteratura di evasione.forse questo
valeva solamente per le prime quattro categorie. Questo giudizio negativo si spiega perché
era visto come un genere ibrido, una cattiva rivisitazione o contaminazione di altri generi
letterari. Il termine romanzo non esisteva nel mondo antico perché è di epoca medievale e
deriva dal francese Roman, abbreviazione di Romanicae loqui, ovvero parlare in lingua
romanza (derivate da latino, i volgari, che si opponevano alla lingua dotta: il latino).
Romanizzare significava tradurre in una lingua romanza testi epici greci e latini. Romanzo fu
chiamato l’opera stessa una volta tradotta, il prodotto finale.
Si possono individuare le caratteristiche di questi romanzi: la trama stereotipata con al centro
le avventure, il tema del viaggio e dell’amore eterosessuale (no omosessuale), l’assenza di
approfondimento psicologico dei personaggi (sono dei tipi: ragazza innamorata), atemporalità
(il tempo è indeterminato e non dà luogo a nessuna trasformazione dei personaggi, che
risultano uguali dall’inizio alla fine), assenza di messaggi etico-religiosi (amore e fedeltà
sono sentimenti definiti, inalterabili da qualunque avversità e sono valori che non riflettono
necessariamente la mentalità dell’autore), politico-sociali, aspazialità (soprattutto nella storia
vera; la spazio è indeterminato, astratto, molto ampio e ogni tanto i luoghi non sono
caratterizzati sul piano geografico, politico e sociale). Questo nome di romanzo viene
attribuito dai romani a questi cinque romanzi greci, e a due latini (Satyricon e Asino d’oro).
La trama comprende il tema dell’avventura, del viaggio, dell’amore, i personaggi sono
stereotipati (non c’è l’analisi psicologica), l’atemporalità, ricorda molto il romanzo greco (in
età moderna è il Candido di Voltaire). I personaggi passano ogni sorta di peripezia ma non
lasciano nessun segno né sul piano morale né su quello fisico. Le città che vengono nominate
in realtà potrebbero essere qualunque città del mondo ellenistico. Nessuno di questi romanzi
vuole trasmettere un messaggio socio-politico o etico-religioso che rispecchino la mentalità
dell’autore.
Il Satyricon cosa ha in comune? L’unica cosa è la trama stereotipata con al centro le
avventure, il tema del viaggio e dell’amore. Balza subito la prima differenza: il fatto che
l’amore vero è omosessuale, il Dio che è stato offeso da uno dei due della coppia non è Eros,
Dio dell’amore, ma Priapo, il Dio del sesso (elementi parodici). Altre differenze: i
personaggi del Satyricon non sono dei tipi, ma personaggi ampiamente caratterizzati e
realistici immersi in una realtà poco nobile e quotidiana, e ognuno ha le proprie
caratteristiche. Sono tutti individui che manifestano una loro peculiarità. L’altra differenza è
che l’amore e gli altri valori morali non sono idealizzati, puri e inalterabili; c’è una
visione della vita disincantata, ironica, ma molto viva della realtà (riflette il modo di
pensare dell’autore; non ha trattato questi temi in maniera asettica). Lascia trasparire la sua
idea di questi valori: Encolpio e Gitone si giurano eterno amore continuamente, ma nessuno
dei due si sottrae ad altre relazioni. È assente l’aspazialità: i luoghi sono molto ben connotati
(atmosfera che si respira alla cena, alle terme, sotto il portico, ai bordelli). La funzione del
tempo non è assolutamente neutra: le esperienze dei personaggi producono dei cambiamenti,
anche se non riusciamo a seguire tutto il racconto e quindi quante cose abbiano imparato
dalle esperienze del passato. A queste differenze ne vanno aggiunte altre, che rendono
quest’opera unica: sul piano strutturale c’è il prosimetro (inserimento di sequenze poetiche
all’interno della narrazione in prosa), novelle milesie (racconti estranee alle vicende, un
racconto nel racconto), dispute letterarie e morali. Tutte queste particolarità rinvia ad altri
modelli. Da chi ha appreso questi ingredienti? I carmina priapea (dal nome del Dio Priapo,
che erano dei componimenti in versi che ruotavano intorno alla figura di questo Dio legati ai
riti di fertilità, intorno a questa figura nacque una serie di componimenti in versi che avevano
la stessa funzione scaramantica o apotropaica con un linguaggio osceno e pornografico; erano
dediche, preghiere o maledizioni; in questi componimenti Priapo vive spesso da vittima
situazioni in cui deve dimostrare la sua potenza sessuale: trattavano il tema dell’amore con
comicità e realismo), le fabulae milesiae (racconti comico-realistici a carattere malizioso,
chiamati così da Aristide di Mileto, che aveva dato dignità letteraria a queste novelle popolari
che circolavano tra le persone; quando gli eserciti romani andarono in oriente, Cornelio
Sisenna li porto a Roma e li fece conoscere in latino al popolo romano. Nel Satyricon ci sono
queste 5 novelle raccontate da diversi personaggi che affermano di aver assistito a queste
storie; due sono di carattere magico, Nicerote racconta la storia del lupo mannaro,
Trimalcione delle due streghe, poi c’è l'aneddoto dell’uomo che aveva scoperto il segreto del
vetro infrangibile; Eumolpo racconta quella della donna di Efeso e un’altra all’inizio
all’incontro in Pinacoteca .
Nel Satyricon alcuni critici hanno visto la parodia a scopo comico dell’Odissea, del viaggio
di Ulisse. Encolpio è perseguitato da Priapo, Ulisse da Poseidone per aver accecato
Polifemo. Un punto chiave è il fatto che il Satyricon sia ricalcato sull’Odissea,
rappresentandone il rovescio poiché, a differenza del viaggio di Odisseo che ha una metà
(nostos), questo viaggio non ha nessuna meta precisa. È compiuto da eroi che non sono eroi e
i pericoli che affrontano sono la parodia di quelle eroiche di Odisseo. Odisseo raggiunge la
sua Itaca dove si riappropria del suo ruolo di re marito e padre; invece l’approdo degli eroi
del Satyricon è il punto di partenza di altre avventure, non la meta definitiva. Il viaggio di
questi giovani è privo di significato preciso, e quindi rovesciamento del viaggio di Odisseo. Il
viaggio di questo romanzo da questo punto di vista è stato visto come una sorta di metafora di
quella che è la vita dell’uomo: un viaggio di cui nessuno sa quale sarà il punto di approdo.
Altri generi letterari sono la satira (le dispute letterarie ecc, che però erano più brevi e quindi
non inserite in un racconto lungo e la cena di Trimalcione richiama quella di nasidieno, satira
2, 8), satira menippea (parodia letteraria di altri generi letterari), il prosimetro ha due scopi
diversi (funzione realistica o tragicomico quando Encolpio trasforma il suo racconto in versi).
Presenta questa varietà di elementi ed è stato definito un pastiches raffinato, forse perché
uno dei modelli di riferimento è la vita stessa dell’uomo nei suoi aspetti di romanzo di
avventura, amore, comicità e tragicità (elemento peculiare unico del Satyricon). È evidente
che Petronio non abbia seguito nessun fine morale e moralistico, ma aveva come scopo solo
quello di divertire il pubblico per cui scriveva (gli aristocratici romani suoi contemporanei
e forse Nerone stesso, definito come arbiter, maestro di buon gusto). Aveva in comune con
questi anche ogni sorta di piacere estetico ed erotico. Raccontare questo mondo reale e non
della letteratura è il fine di quest’opera. Questo non ci deve portare a parlare di realismo
simile a quello della letteratura più recente perché Petronio, come tutti gli altri letterati
romani, tratta comicamente gli aspetti più bassi della vita (sesso, imbroglio e classi inferiori
della societa). Lo fa per riderci sopra: questa è la differenza tra realismo antico e moderno,
come dice Auerbach in Mimesis. Bisogna attendere gli autori cristiani per veder trattati con
più serietà gli umili e i poveri. Un altro elemento del realismo di Petronio sono le modalità di
narrazione: Petronio racconta le vicende da punti di vista specifici (il suo ironico, divertito
e distaccato di quando parla dei liberti alla cena). Nel romanzo moderno si fa sentire il meno
possibile la presenza del narratore (Verga). Un’altra differenza è la presenza di queste dispute
letterarie e critiche: il romanzo diventa un espediente per denunciare la decadenza della
poesia e dell’arte. Sicuramente Petronio supera l’idea di realismo diffusa al suo tempo
perché si immerge nella realtà più bassa ma vitale della Roma del suo tempo più di
quanto abbiano già fatto gli altri per superare i luoghi comuni del moralismo ipocrita
della società neroniana (quando lui racconta questa realtà bassa, lo fa senza giudizi morali e
ipocriti: dice le cose come stanno). Il suo atteggiamento è quello di una persona colta, un
esteta che prende di mira questo perbenismo (c’è una sorta di allocuzione di Encolpio ai falsi
Catoni): c’è quindi forse un legame con la filosofia epicurea. Questa idea che la vita sia una
successione di eventi in un gioco casuale consiste la sua visione giocosa del mondo, che
rende il Satyricon un’opera unica nella letteratura occidentale. In questo quadro i personaggi
sono continuamente raccontati da Petronio, e, anche se non hanno un grande spessore
psicologico, sono dei tipi perfettamente coerenti con i loro comportamenti (legame tra azioni
e psicologia). Encolpio è il narratore, un giovane fresco di studi, un po’ ingenuo e pronto ad
affrontare ogni sfida, anche erotica a dispetto della fedeltà promessa a Gitone. Ascilto è un
uomo senza morali e scrupoli, non tanto scaltro da essere giocato da Gitone, è appassionato di
poesia tanto da farsi bastonare da chi lo ascolta e di bei fanciulli. Sono strumenti della
comicità di Petronio utilizzati per fare la parodia letteraria di generi letterari seri. Petronio ha
fatto l’esperimento di far parlare ai personaggi la lingua che avrebbero parlato
veramente: si parla di linguaggio mimetico (cerca di riproporre sia il modo di agire sia
quello di parlare). È quindi un documento importantissimo per conoscere la lingua parlata
realmente dalla gente. È un latino lontano da quello letterario e scritto utilizzando la sintassi e
il lessico di questa lingua parlata tutti i giorni. Il Petronio descritto da Tacito è veramente
l’autore di questo romanzo? Al Petronio del Satyricon non mancano certamente la ricerca
della bellezza, questo falso moralismo, la semplicità, l’ironia, il distacco dalle cose; ci sono
tanti elementi che ci indurrebbero a identificare col Petronio di Tacito, ma non abbiamo
alcuna certezza. L’ostacolo più grosso è che Tacito non abbia fatto menzione di
quest’opera abbastanza lunga. Secondo alcuni, l’allusione al sigillo rotto potrebbe riferirsi
al romanzo, in cui sotto certi personaggi e situazioni si nascondevano cose viste presso la
corte di Nerone.

PLINIO IL VECCHIO

BIOGRAFIA-DINASTIA DEI FLAVI


Plinio Il Vecchio colloca a metà della dinastia Giulio-Claudia e a metà dei Flavi. Plinio
nacque a Como nel 23-24 in piena età degli imperatori della dinastia Giulio-Claudia, ma
diventò attivo durante i Flavi. L’età dei Flavi va dal 69 al 96. Morto Nerone nel 68, si verificò
un anno di anarchia politica (longus et unus annus), in cui ciascuna delle legioni più
importanti dell’impero proclamò imperatore il proprio generale: scoppiò dunque questa lotta
tra Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano. Fra tutti prevalse Vespasiano, che governò dal 69
fino al 79. Rafforzò le finanze dissestate dalla politica di Nerone e cercò una riconciliazione
col senato. Promulgò la Lex de imperio Vespasiani, la quale stabiliva che il princeps fosse
absolutus ex legibus e rese stabile l’ordinamento dello Stato che si era determinato con i
poteri conferiti ad Augusto e ai suoi successori. A Vespasiano successe il figlio Tito, che
regnò per soli tre anni: dal 79 fino all’81. Era un abile militare e si era distinto in Oriente
quando nel 70 diresse la distruzione di Gerusalemme e fece attuare la distruzione del
tempio di Salomone. Venne definito da Tacito amore e delizia del genere umano perché in
questo suo regno fu apprezzato per la sua generosità e per gli sforzi atti ad instaurare un clima
di collaborazione col senato. Nell’80 fece inaugurato il Colosseo (anfiteatro massimo).
Durante il suo regno si verificarono alcune calamità: l’eruzione del Vesuvio nel 79 e nell’80
un incendio a Roma. In queste situazioni agì generosamente e offrì ai sopravvissuti i suoi
beni per tamponare i danni. Morì nell’81 per malattia. A lui successe il fratello Domiziano,
che regnò per quasi 15 anni: dall’81 al 96. Si autodefinì dominus ac deus (è chiaro che vi sia
concessione del potere imperiale diversa da quella di Tito; siamo quasi alla divinizzazione del
princeps). Consolidò le conquiste romane in Britannia, arrivando fino alla Scozia
(Calidonia), e rafforzò il limes romanus. Domiziano si attirò l’odio dei senatori e di tutte le
classi sociali, e persino alcuni membri della sua famiglia, tra cui anche la moglie Domizia.
Nel 96 rimase vittima di una congiura ordita dai pretoriani e dai senatori, e probabilmente
favorita anche dalla moglie Domizia. Vespasiano voleva una classe dirigente capace ed
efficiente: per rafforzarla fonda la prima scuola di retorica pubblica e finanziata dallo stato, a
cui mette a capo Quintiliano. Arricchì Roma di numerose biblioteche (tra cui quella del Foro
della Pace). Si affianca all’atteggiamento piuttosto chiuso nei confronti di una letteratura
dissenziente rispetto alle idee dell’impero: voleva rafforzare il suo potere e fu attento ad
eliminare il dissenso politico (soprattutto Domiziano), perseguitando le voci di coloro che
non accettavano di non poter esprimere le proprie idee (come nel ventennio fascista). Si
ricorreva alla censura o alla repressione violenta. Vi è la formazione di poeti cortigiani, che
per poter continuare il proprio ruolo di poeti scrissero poemi epici su argomenti mitologici
lontanissimi dall’epoca attuale. Marziale si rifiutò di essere cortigiano (Stazio, Flacco e Silio
Italico), e preferì rivolgere la sua attenzione alla vita caotica della città, di cui ci offre uno
spaccato superficiale ma divertente. Come lui, Persio e Giovenale criticano la poesia dei poeti
loro contemporanei che si sono venduti pur di assecondare i gusti e le direttive dell’impero.
Questi si impegnarono in una prosa tecnica. I due intellettuali più importanti furono Plinio Il
Vecchio, che si impegnò nella traduzione dei suoi interessi scientifici. Era un generale fedele
dei Flavi ma anche un grande erudito che ci lasciò quest’opera enciclopedica, che è un
compendio di tutto lo scure umano fino a quel momento. Quintiliano affrontò le regole per
insegnare come scrivere e leggere bene (l’Institutio oratoria è l’unica opera pedagogica che ci
è giunta dall’antichità; molti dei suoi principi sono alla base dell’odierna didattica). I poli
della cultura furono dunque questi due: da un parte c’è il potenziamento dell’istruzione,
dall’altra la cultura dei Flavi va ad eliminare ogni dissenso. Questi due compongono opere
utili ai cittadini perché contribuiscono alla formazione pedagogica e culturale di una classe
che sarà in linea col potere. Giovare agli altri, questo significa rendersi divino (Plinio).

La prosa dell’età dei Flavi fu tecnica e a carattere manualistico ed informativo; puntava


all’utilità pratica e non era finalizzata ad esprimere il pensiero dell’ intellettuale. Aveva come
scopo la formazione della classe dirigente.
Gaio Plinio (detto il vecchio per distinguerlo dal nipote da lui adottato) nacque a Como nel
23-24. Le notizie più importanti ci provengono dal nipote, che profondamente legato a lui è la
fonte più importante per la ricostruzione della sua biografia. Studio retorica a Roma e fece
una brillante carriera militare e amministrativa: sotto Claudio, che segui in una spedizione in
Germania; poi sotto i Flavi: fu procuratore delle rendite imperiali in Spagna e ???’’. Fu poi un
fedele collaboratore di Vespasiano: prefetto della flotta imperiale a Misano; e all’edizione del
Vesuvio, spinto dalla sua curiositas e dal desiderio di portare soccorso, morì a Stabia secondo
il nipote per asfissia (per essersi avvicinato troppo alle bocche dell’eruzione), secondo i
moderni per apoplessia (collasso cardiaco).
Nell’epistola 5 il nipote ci descrive le circostanza della morte, nella terza il lavoro di analisi
di cui si occupava lo zio (la cui attività occupava tutto il tempo libero dalle occupazioni
dell’amministrazione pubblica: spesso passava la notte a catalogare e a fare sintesi di ciò che
leggeva). Di Plinio sono molte le opere perdute che trattavano gli argomenti più vari e che
riflettevano questa varietà di interessi. Un gruppo di opere storiografiche furono le fonti per
Tacito: venti libri di Storie germaniche e 31 a fine ad Aufidii bassi (libri di storia che si
agganciavano e che continuavano dal punto in cui Aufidio Basso aveva terminato le sue
storie germaniche, ovvero il regno di Caligola, e che giungevano fino a Vespasiano). L’unica
opera giunta è la Naturalis Historia (ricerche sulla storia, o scienze naturali), un’opera
enciclopedica in 37 libri che il nipote descrive come un’opera varia non meno erudita della
natura stessa. Il primo libro conteneva gli indici e le indicazioni delle fonti (repertorio
bibliografico); nel secondo libro si parla di cosmologia, geografia fisica, sismologia,
vulcanologia e meteorologia; dal terzo libro al sesto si parla di geografia descrittiva e
etnologia (Europa Africa e Asia); il settimo libro di fisiologia umana, dall’8º libro all’11° di
zoologia (dai mammiferi agli insetti), dal 12º libro al 19º di botanica e agricoltura, dal 20º
libro al 27º dell’uso delle piante, la botanica medica e officinale, dal 28º libro al 32º di
zoologia medica, dal 33º libro al 37° di mineralogia (il 34º di metallurgia, il 35º di pittura e
di come i colori vengono estratti dai minerali, il 36° di temi vari tra cui scultura ed
architettura e il 37° di pietre preziose). È un’opera che manca di classificazione: non rispetta
la classificazione scientifica di Aristotele. Il criterio visibile in tutti i libri è antropocentrico:
sembra che la natura sia stata fatta a uso e consumo dell’uomo. Tutti gli ambiti sono
analizzati in base a quanto siano vicini o lontani all’uomo (anche negli animali: parte
dall’elefante perché è il più vicino all’uomo).
Nella lettera dedicatoria a Tito (non ancora imperatore), che si trova nella prefazione, fu
scritta nel 77. In questa prefazione Plinio sottolinea diversi aspetti: la novità della sua
impresa, che è senza precedenti nella storia latina; si scusa con Tito per l’umiltà degli
argomenti trattati e della loro aridità (in queste scuse si riconosce la funzione subordinata
della scienza alla letteratura nella cultura latina: sente che si accinge a dedicare un’opera non
letteraria vera e propria. C’è l’idea che la prosa scientifica sia inferiore); si scusa per la lingua
rozza con alcuni grecismi e termini stranieri (il suo scopo è di giovare alla collettività, non di
dilettare. Ma quest’opera è destinata ad una consultazione, come una vera e propria
enciclopedia, non ad una lettura continua). Altra precisazione è quella in cui lui dice
orgogliosamente di aver raccolto nel suo thesaurus 20.000 argomenti meritevoli di essere
conosciuti, presi da 2000 volumi di 100 autori. L’incompletezza è legata all’essere un uomo
pieno di impegni e che si è dedicato a questo lavoro di notte. Quest’opera, pur nelle sue
proporzioni enormi, ha un carattere compilativo. È l’opera di un erudito (di uno che ha letto,
sintetizzato ed archiviato), e non di uno scienziato. La differenza con Seneca è che l’opera di
Seneca è più l’opera di un filosofo. L’opera mira a descrivere le cose, e non a ricercarne le
cause. Spinto dalla curiositas (che ha delle finalità pratiche, poiché l’ignoranza costituisce un
uomo incompleto). Come in Seneca, è visibile l’assenza di rigore scientifico e l’approccio
filosofico allo studio della natura. Questa impostazione filosofica riconducibile allo stoicismo
o all’eclettismo è più incoerente rispetto all’approccio filosofico di Seneca: è meno filosofo
di Seneca e questo crea incertezze e contraddizioni che si riflettono sull’interpretazione della
realtà. Per quanto lui abbia la concezione stoica alla base della sua interpretazione, succede
che la natura da madre diventa matrigna l’uomo nasce in una condizione di estrema fragilità);
questo bios diventa una forza che lega gli uomini in un rapporto di simpatia e solidarietà. In
linea col pensiero stoico è il rispetto della natura, che è al servizio dell’uomo a meno che non
si usurpi per avidità e lussuria, dalla sacra fame auris. L’uomo ha messo da parte l’amore
della scienza tipico degli scienziati che volevano essere utili ai posteri, ma che erano riusciti a
dedicarsi allo studio della natura più dei contemporanei. Quest’avidità (auri sacra fames) ha
portato l’uomo ad usurpare la natura, non accontentandosi dei doni che la natura già gli offre.
Non può essere un’opera scientifica perché è un'opera compilativa (non è l’insieme di
risultati ottenuti da Plinio dopo aver fatto ricerche scientifiche) e perché anche l’impostazione
dell’opera risente del pensiero filosofico di riferimento, principalmente lo stoicismo, ma
anche l'eclettismo tipico della cultura romana a partire da Cicerone e Seneca. Vi è una
predisposizione inferiore rispetto alla filosofia: vi sono incoerenze sulla teologia (l’idea del
logos per gli stoici) e quindi sull’interpretazione della realtà. Questo Dio stoico porta l’uomo
ad affermare la solidarietà tra gli uomini (divinità come identificazione dell’uomo che aiuta
l’uomo. Dio si manifesta attraverso il modo in cui ci comportiamo con gli altri, e non con la
ragione. A Dio non importa degli uomini, e per questo l’uomo è infelice: l’uomo deve dunque
aspirare a non essere troppo infelice e quindi a vivere una vita meno breve. In linea con il
pensiero stoico è la concezione della natura, che è al servizio dell’uomo a meno che egli non
la usurpi). L’avidità delle persone che amano il progresso alla tecnologia è maggiore.
L’opera non segue il principio della sistematicità: prosegue per contiguità (vicinanza),
analogia, opposizione, grandezza e importanza (sia quando parla di animali, sia quando parla
di piante; il tutto con una visione antropocentrica della natura). Mette in rilievo l’uomo e poi
parla di ciò che è più vicino e lontano all’uomo (nel settimo libro parla dell’uomo, nell’ottavo
parla degli animali distinguendoli in terrestri, acquatici e aerei). Troviamo sempre l’idea
ecologista: quando parla dell’elefante, condanna la lavorazione dell’avorio. Parla poi del
serpente, che uccide l’elefante; parla poi dei boidi poiché il boa succhia il sangue della vacca.
Una certa dose di ambiguità è presente anche nei confronti dei monstra e dei mirabilia,
ovvero i fatti straordinari da cui egli è attratto per la sua curiositas e, come uomo di scienza,
ritiene che l’uomo possa controllare la forza dei prodigi (le maledizioni non hanno effetto su
chi non ci crede). Si dilunga una serie di pratiche volte ad allontanare questo affetto malefico
delle imprecazioni (non ci credo ma è vero). Come uomo di scienza non dovrebbe parlarne,
ma elenca una serie di antidoti per esorcizzare l’effetto malefico delle imprecazioni. Un altro
atteggiamento ambiguo è nei confronti della medicina e dei medici greci e stranieri (privi di
scrupoli, avidi di guadagno e pronti ad incolpare il malcapitato se fosse morte): se l’obiettivo
è di essere utile all’uomo, è ovvio che avrebbe offerto un trattato anche di farmacopea (rimedi
vegetali e animali, di cui parla dal 28° libro al 32°). Le ricette farmacologiche provengono
dalla farmacia popolare ed empirica (Catone Il Censore aveva già criticato la medicina greca
che si basava su un metodo più sperimentale). I medici sono dunque mascalzoni, avidi per il
guadagno ed avvelenatori. Ambiguo è anche l’atteggiamento nei confronti della magia dei
maghi, che lega strettamente alla medicina: riconosce un potere maligno in pratica queste
formule magiche come cure. Plinio non capisce come una persona faccia a dedicarsi a
qualcosa per il proprio interesse e non per quello della collettività. Afferma che sarebbe stato
meglio che Livio fosse andato avanti a scrivere l’opera non per esigenze personali, ma per il
popolo romano (questo pezzo delle Storie di Livio non ci è giunto). Dedicava lo spazio
minimo richiesto per il sonno poiché la maggior parte delle sue ore la metteva a frutto nella
stesura di quest’opera (sono attivo non al negotium, ma all’otium per essere utile
all’umanità).

LA POESIA CORTIGIANA

Sono poeti che sacrificano il loro talento per la ricchezza e la fama. Sono in netta
contrapposizione con Lucano e Persio: Stazio, Valerio Flacco, Silio Italico e Marziale. È una
poesia elevata epica, ma cortigiana, e quindi non di opposizione alla politica dei Flavi.
Questa poesia è incentrata su vicende mitiche lontane dalla contemporaneità (Stazio scrive le
Tebaide, che riprende il tema dei Sette Contro Tebe; Flacco riprende le Argonautiche di
Apollonio Rodio) o si lega alla contemporaneità con un’ideologia generica non sentita da
parte del poeta con l’esaltazione di Roma (Silio Italico scrive Punica, il cui argomento è la
seconda guerra punica: si cerca di instaurare un legame ideale e ideologico con l’argomento
attraverso l’esaltazione di Roma a partire dalla vittoria su Annibale). Sicuramente sono prove
di una poesia elevata, dal momento che mostrano un certo impegno formale. Tuttavia non
nasce da motivazioni ideali profonde, ma sono frutto del virtuosismo e del talento di alcuni
poeti, che per persona le disposizioni, scelta consapevole o per i tempi scrivono per dare
lustro alla corte imperiale o allietare gli ascoltatori in occasione di pubbliche recitationes.
Sono opere piene di dediche ed elogi dei Flavi, che non erano interessati alle lodi e ad avere
una poesia di propaganda del loro regime (a differenza della dinastia giulio-claudia). I Flavi
non pretendevano che esistessero poeti del regime né che altri poeti inserissero lodi nelle loro
composizioni. A loro interessava non ciò di cui si parlava, ma ciò di cui non si poteva
parlare (che si parlasse o meno di loro non importava, ma non dovevano parlare male di
loro). Nasce una poesia sganciata dalla realtà presente, priva di ispirazione autentica, in cui
gli unici momenti gradevoli sono quelli incentrati sulla descrizione delle avventure e in cui
manifestano la curiositas e il gusto dell’esotico da parte del poeta. Questo continuo richiamo
a Virgilio, visto come modello, fece parlare di classicismo flaviano, che si concretizza più in
un rifiuto del presente (poesia di Lucano ed assolutamente ostile all’epos virgiliano) che
prendere Virgilio come modello: i poeti cortigiani recuperano l’έπος virgiliano come modello,
mentre Lucano lo aveva rifiutato e aveva proposto una poesia anti-epica e anti-virgiliana.
Questo recupero manifesta più il rifiuto dell’έπος di Lucano che non una vera e propria
adesione all’έπος virgiliano. Ci si volse a temi mitologici e storici positivi piuttosto che
incorrere nello stesso destino di Lucano. Sono però opere ibride: si richiamano per i contenuti
e gli argomenti dell’έπος virgiliano, ma usano una lingua altamente anti-classica e non più
virgiliana, ma vicina al manierismo e barocchismo di Lucano e alla lingua di Seneca. Non è
più possibile riprendere la lingua di Virgilio anche perché il rapporto tra il poeta e la società è
cambiato: Lucano e Seneca non sono più in sintonia con la realtà in cui vivono e questa
mancanza di sintonia si riflette nella lingua. Accanto a questa poesia epica, c’è un tipo di
poesia che troviamo in Silvae di Stazio, una poesia d’occasione che descrive la vita agiata a
Roma della classe dirigente in sintonia col potere. È una poesia di altro genere, non più
mitica, e che descrive la contemporaneità, diventando autoreferenziale, poiché non va al di là
dell’a,niente chiuso in cui si muovono questi poeti (una realtà poco stimolante). C’è poi la
poesia disimpegnata di Marziale, ovvero una poesia leggera e di intrattenimento, che esce
fuori dal mondo chiuso della Roma bene e descrive il mondo di tutti i giorni, facendo entrare
la gente comune e descrivendo avvenimenti quotidiani e sentimenti personali (trasmettono
qualcosa in toni satirici/ironici o più elegiaci/intimi in cui l’autore parla di sé stesso). La voce
di Marziale, spesso criticata per la sua superficialità nel descrivere questo mondo degli umili,
è l’unica poesia di questa età che ha conservato la sua dignità nei secoli.

PUBLIO PAPINIO STAZIO


È il rappresentante più tipico di questa poesia cortigiana. Figlio di un maestro di retorica,
dovette la sua formazione al padre stesso. Nacque a Napoli tra il 40 e il 50, ma visse a Roma,
dove il padre si trasferì per lavoro. Nell’ambiente cortigiano dimostrò presto le sue abilità
poetiche con una serie di recitationes, fino a vicende nei ludi Albani, dove aveva elogiato le
guerre condotte da Domiziano in Germania contro i Daci. Fu apprezzato sia dal pubblico che
dagli imperatori. Fin dall’80 iniziò a lavorare strenuamente alle Tebaide, che gli chiese 12
anni di composizione. Nel 91-92, quasi in contemporanea all’ultimazione dell’opera, furono
pubblicate le prime Silvae, poesie di argomento vario che ci mostrano uno Stazio integrato
nella classe dirigente della corte dei Flavi. La partecipazione ai ludi capitolini nel 94 fu
segnata da una sconfitta, che gli fece maturare l’idea di tornare a Napoli. Nonostante il
successo delle Tebaide, non si arricchì mai più di tanto. A Napoli riprende l’attività di poeta e
comincia a comporre l'Achilleide, che lasciò incompiuto per la morte avvenuta nel 96. Molte
notizie biografiche vengono dalle Silvae, dove parla spesso di sé. Le Tebaide sono un poema
epico in esametri dedicato a Domiziano. La stesura richiese 12 anni e lo scopo era di
ritornare al classico (riportare a Roma l’έπος virgiliano contro il Bellum Civile di Lucano).
Come nella tragedia di Eschilo, la guerra è condotta dai sette, che insieme a Polinice
contengono ad Eteocle il possesso di Tebe. Questo assedio si concluse con la sconfitta
dall’esercito di Polinice e col duello in cui i due fratelli si uccidono a vicenda. Stazio aveva
una serie di modelli: Tebaide di Antimaco di Colofone, Eschilo e Sofocle, Fenicie di
Euripide, Edipo e Fenicie di Seneca, Eneide di Virgilio. Le Tebaide sono un’opera virgiliana
perché è divisa in 12 libri, suddivisi in due esadi, proprio come in Virgilio. I primi seis o o
concentrati nella descrizione dell’antenato; gli ultimi sei la guerra che si scatena presso le
porte di Tebe. Rimette in scena gli dei olimpici, assenti in Lucano, e presenta scene di
excursu epici (concilio degli dei, cataloghi,catabasi, sogni, apparizioni), ma queste scene sono
poco integrate nell’azione centrale e spesso risultano posticce (sembra che l’unico scopo sia
ritardare lo svolgimento della narrazione). Ci sono l’inclusione notturna, il duello finale, la
morte di giovani; ciò che non c’è in Virgilio è che alla fine del poema, quando Stazio si
congeda, augura all’opera di rimanere in vista senza aver la pretesa di emulare la gloria
dell’Eneide di Virgilio. Non è più un’opera virgiliana nello spirito e nella forma: è lontana
dalla religiosità e dall'ideologia del poema, ma anche dalla linearità con cui Virgilio si era
espresso. Già Ovidio e Lucano non potevano non aver lasciato il segno su Stazio. D’altra
parte, sul piano ideologico Stazio, in entrambi i poemi, non ha uno spessore ideologico e
politico come Virgilio (e non ha una visione religiosa che aveva fatto sì che Virgilio
individuasse in Enea pius un personaggio che realizza il destino provvidenziale di Roma, già
stabilito dagli dei). Forse qualcuno ha voluto sottolineare la scelta del contenuto (lotta
fratricida), che poteva avvicinare l’opera al Bellum Civile di Lucano, come se Stazio volesse
comparare la lotta tra Pompeo e Cesare a quella di Eteocle e Polinice. Stazio inserisce il gusto
dell’orrido: ci sono morti e cadaveri con descrizioni accurate. Sicuramente Stazio paga un
debito alla tecnica delle recitationes, che avevano lasciato un segno in lui. Anche in questo
poema c’è una visione pessimistica della vita e del mondo: c’è un cupo fatalismo e una
presenza eccessiva del fato (di cui tutti gli uomini protagonisti sono vittime). Il pessimismo di
Stazio, a differenza di quello Lucano, non ha alcuna intenzione polemica: è assolutamente
allineato al potere, ed inserisce anche lodi. Pur essendo legati al porgere, questo pessimismo
cupo indica che forse la penosa tessa dei tempi era avvertita da tutti. L’Achilleide fu scritta a
partire dal 95, ed è un testo giunto incompiuto. C’è solo il primo libro e l’inizio del
secondo fino al verso 167. È dedicato a Domiziano e avrebbe dovuto cantare tutto quello che
Omero non aveva detto di Achille: le gesta di Achille prima del suo arrivo a Troia e
probabilmente anche del contributo che diede fino alla morte. Si prefiggeva di colmare i
vuoti della figura di Achille presenti in Omero. Le Silvae sono un’opera in cui Stazio si
dedicò fino alla morte: sono 32 componimenti poetici in esametri distribuiti in 5 libri (a
cui primizia una lettera dedicatoria, ognuna delle quali è destinata ad un destinatario diverso
e in cui riassumeva i carmi). L’ultimo libro fu pubblicato post mortem. Secondo alcuni le
silvae ricalcherebbero ulai (materiali da lavorare), e quindi delle bozze, degli spunti da
limare. Secondo Gelio il termine silva deriva dal latino (“bosco”), e quindi rimanderebbe
all’idea di mescolanza di varie cose. Queste sue spiegazioni ci danno l’idea della poesia delle
Silvae. Sulla base di quanto dichiarato da Stazio nelle epistole, questa poesia viene presentata
sia come materiale grezzo da elaborare sia come mescolanza di tanti temi. Gli argomenti
trattati sono vari: descrizioni (ekphrasis) di monumenti ed opere, celebrazioni di opere d’arte,
epicieli di animali, epitaffi, inviti, auguri, carmi di saluto, farmi consolatori, lettere ad amici.
Le poesie migliori sono quelle in cui parla di sé stesso, abbandonando l’intento di
dimostrare le sue virtù poetiche ed esprimendo i suoi sentimenti personali. I rimanenti testi
poetici delle Silvae sono un documento che ci illustra la società della Roma imperiale.

VALERIO FLACCO
Sappiamo molto poco della sua vita. Forse era nativo di Setia (odierna Sezze). L’unica notizia
che lo riguarda ci viene fornita da Quintiliano, che nella sua opera ci parla di Valerio Flacco
come già morte (ci suggerisce come termine della sua vita il 90-91). Proveniva da un
ambiente sociale elevato, e lo si vede dall’indicazione iniziale ad Apollo, in cui ricorda di
essere stato magistrato addetto alla custodia dei libri sibilline. Scrisse le Argonauticà, poema
mitologico in esametri ed incentrato sul viaggio di Giasone e gli Argonauti alla ricerca
del vello d’oro. Si interrompono all’ottavo libro nel momento clou della vicenda: dopo che
Giasone ha compiuto tutte le prove, approdato nell’isola di Feuce, gli argonauti vengono
raggiunti dai Colchi. A questo punto si interrompe. Manca l’uccisione di Absirto da parte di
Medea di Giasone e tutto il seguito del viaggio di ritorno a Iolco. Manca anche tutta
l’evoluzione del rapporto di Giasone e Medea, che sfociò nel gradimento di Giasone e
nell’uccisione dei figli (di cui non si parla neanche in Apollonio). A differenza delle
Argonautiche di Apollonio Rodio, l’opera è dedicata a Vespasiano e ai Flavi, a partire dalla
loro militanza dall’età di Claudio fino all’elogio di Domiziano e delle guerre da lui
combattute nell’87. Il mito degli argonauti era sicuramente uno dei più celebri, ma l’opera di
Apollonio è l’unica che ci è giunta intera riguardo a quest’argomento. Nell’età di Cesare,
Varrone Atacino aveva redatto un’opera dallo stesso titolo, e sicuramente è stata modello di
Valerio Flacco. Valerio Flacco o arricchisce o sintetizza i modelli di partenza con digressioni,
e excursus, assenti in Apollonio, che non ci parla del conflitto tra Eeta e il fratello Perse. Non
sappiamo quale fosse il progetto completo di quest’opera, probabilmente 12 libri come
l’Eneide, sempre divisi in due esadi (il viaggio di andata e la lotta per la conquista del vello
d’oro). Sicuramente è probabile che avrebbero trovato posto in quest’opera anche le vicende
successive. Riprende di Virgilio l’apparato mitologico, gli abbinamenti dei personaggi
(Giasone e Medea come Enea e Didone, il rinvio di Eeta a Mesenzio). Tuttavia prevale lo
spirito romanzesco, lo spirito di avventura e una maggiore caratterizzazione psicologica dei
personaggi, come Medea. In Apollonio Giasone è l’anti-eroe che non sa fare, in Flacco
invece è il comandante romano pieno di virtus, a capo di questa spedizione oltremare
(molto vicino ad Enea) e che assume il ruolo di portatore di civiltà verso queste zone ritenute
selvagge fuori dall’impero (presenta quella che era l’ideologia imperialista di Roma, che
intraprese questo ruolo di diffusione di civiltà e diritto). La spedizione di Giasone permetterà
anche di ampliare gli orizzonti geografici. Il tutto rientra nel progetto divino di Giove.

SILIO ITALICO
Il modello formale è sempre più Virgilio. Invece che rispolverare il mito e mettere al centro
della sua poesia il mito e l’έπος, compose un’opera epica-storica, mettendosi sulla scia di
Nevio, che aveva scritto il Bellum Poeenicum, ed Ennio, che aveva scritto in versi gli
Annales. Vide nella seconda guerra punica l’inizio della grandezza di Roma: vinti i
cartaginesi in una guerra epica, Roma inizio l’escalation senza interruzione della sua
grandezza (contrariamente a quanto pensavano Sallustio e Livio). Si potrebbe vedere una
motivazione più profonda perché si potrebbe cogliere un nesso molto esile tra lo scopo di
celebrare l’impero in cui lui viveva riportando la situazione attuale al momento a partire dal
quale Roma aveva inizia questa storia progressiva e positiva fino ad arrivare agli imperatori
del principato adottivo. È una motivazione esile pensare di creare questo nesso tra il passato
politico e il principato adottivo attuale. Il tema su cui si sofferma maggiormente è quello della
virtus che era riuscita a prevalere sulla barbarica dei cartaginesi ed in linea con la
politica moralista e tradizionalista dei Flavi. Anche Virgilio con l’Eneide aveva inserito in
qualche modo il mito alla storia di Roma, collegamento il mito di Enea alla storia di Roma.
Plinio Il Giovane ci descrive la sua morte poiché erano stati amici (Marziale lo cita in diversi
epigrammi): nacque nel 25-26 forse in Campania e sotto Nerone, di cui fu l’ultimo console
nel 68, si era macchiato di un brutto episodio di delazione (aveva denunciato qualcuno). Fu in
buoni rapporti coi successori di Nerone e nel 77, sotto Vespasiano, fu proconsole in Asia: qui
si riscattò del suo passato vergognoso. Terminato questo suo negotium, si ritirò a vita privata
e iniziò a dedicarsi allo studio (era un cultore di statue ed oggetti d’arte, con i quali decorò le
sue ville). Ammirava così tanto Virgilio e Cicerone tanto da acquistarne le ville a Tuscolo e
Napoli. Fu colpito da un tumore e nel 101 si lasciò morire di inedia (rifiutò di curarsi), con
un bilancio della sua vita che Marziale definisce positivo. Questo poema è la d’iscrizione in
poesia della Guerra Annibalica di Livio. I Punica di Italico sono in 17 libri in esametri ed è il
poema epico più lungo della letteratura latina: probabilmente il progetto prevedeva il 18esimo
libro, affinché l’opera venisse suddivisa in 3 esadi. L’ultimo libro pervenutoci manifesta una
certa agitazione e velocità di composizione forse a causa della malattia. Lavorò a lungo: già
dal 90 iniziò a leggere degli stralci considerati terminati agli amici. La seconda guerra
punica di allineava alle direttive culturali dei Flavi e degli altri imperatori: collegava anche
lui le origini di questa inimicizia tra Roma e Cartagine a quanto ci dice Virgilio nel IV libro
dell’Eneide (maledizione di Didone contro i romani e i loro discendenti). I modelli sono
Virgilio e Omero: la presenza di questi modelli è evidente nella presentazione delle divinità, i
sogni, i cataloghi dei popoli che parteggiavano, l'έκφρασις (descrizione dello scudo di
Annibale che ricorda quella di Enea è Achille), la catabasi, i giochi funebri, i prodigi e le
predizioni. Cerco, come gli altri poeti, di riportare in voga il poema pre-lucaneo. Molti
personaggi ricalcano la tipologia di quelli virgiliani : Annibale è presentato come l’anti-Enea
(ricalcano Turbo e Mesenzio di Virgilio); anche la lingua è molto simile a quella di Virgilio.
La fonte storica sono i libri della terza decade delle Storie di Livio. Si richiama a Ennio anche
per il numero di libri, per l’assenza di un protagonista unico a favore del l’esaltazione
collettiva dello spirito e dei valori umani: nonostante l’intento di imporsi e allontanarsi
dall’epos di Lucano, l'influsso di Lucano è visibile anche qui soprattutto nella struttura, nello
stile, nelle descrizioni piuttosto espressionistiche delle morti dei personaggi, nella
personificazione dei segnali astratti e nell’indulgere all’horror.

MARCO FABIO QUINTILIANO

Parlando di Plinio Il Vecchio, abbiamo nominato Quintiliano come uno degli autori più
importanti nell’età dei Flavi. Vespasiano, oltre a voler rafforzare il regime imperiale romano
nella politica estera e interna, è un imperatore che tiene molto alla formazione culturale
della classe dirigente: si fa promotore della prima scuola in cui gli insegnanti venivano
pagati dallo stato, c’è l’esigenza di formare una classe dirigente organica al potere: anche
nell’età dei Flavi l’intellettuale ha la libertà di dire ciò che vuole, purché non sia contro il
governo. Ci sono i poeti cortigiani e due figure: Plinio Il Vecchio (occupatosi di un settore
letterario che non poteva andare in rotta di collisione con le direttive dei Flavi) e Quintiliano
(che con la sua opera di pedagogia ci dice come deve essere istruito un oratore, maestro dei
futuri funzionari dello Stato, a partire dall'infanzia). Fu messo a capo di questa scuola, e fu
addirittura pagato da Vespasiano come preside. Non scrive storia; si dedica ad un ambito
letterario che serve a realizzare quello che per Vespasiano doveva essere il compito
dell’intellettuale: formare i futuri funzionari dello Stato.
Fu oratore e professore di retorica e ci lasciò l’Institutio oratoria, il trattato più completo e
sistematico della letteratura latina. Nasce tra il 30 e il 40 d.C. a Calagurris Iulia Nasica (in
Spagna). Studiò a Roma, dove divenne un abilissimo avvocato; si dedicò all’attività di
insegnante dal 68 all’88 con uno stipendio di 100.000 sesterzi. Nel 94 Domiziano lo incaricò
dell’educazione dei suoi due nipoti che dovevano succedergli e grazie a questo Quintiliano
ottenne le insegne consolari (premio che assicurava a chi aveva queste insegne dei privilegi
enormi). Terminata la sua attività di maestro, scrisse De causis corruptae eloquentiae, che
non ci è giunta, e poi l’Institutio oratoria, scritta prima della morte di Domiziano, il quale
celebrato nel quarto e decimo libro. Nelle Lettere a Traiano Plinio Il Giovane parla di
Quintiliano come un uomo che era già morto (dopo il 96).
L’Institutio oratoria significa letteralmente “formazione dell'oratore”: è un trattato in 12 libri
dedicato all’amico Marco Vitorio Marcello. In questo trattato Quintiliano espone e mette a
cura tutta la sua dottrina insieme a tutta la sua esperienza di insegnante. Già nel proemio
dichiara di voler scrivere un’opera completa e sistematica sulla formazione
dell'oratoria. Lo scopo è offrire una definizione e dei precetti sulla formazione
dell'oratore (nel mondo latino già Cicerone nel De oratore e nel Brutus). Il De oratore,
composto da quattro personaggi, non è un trattato (tre libri in forma dialogica, in cui Cicerone
espone la discussione sull'oratore ideale che si svolge nella villa di Lucio Licinio Crasso a
Tuscolo nel 91 a.C.). Si svolse tra grandi oratori presenti alla generazione di Cicerone (Marco
Antonio, Sulpicio Rufo, Mucio Scevola, Lutazio Catullo). Nel primo libro gli interlocutori
sono Licinio Crasso, che riporta il pensiero di Cicerone, e Marco Antonio, portatore di un
concetto più ristretto e realistico (secondo lui l’oratore deve saper parlare bene e convincere,
poi l'esperienza forense gli darà il resto delle conoscenze). Per Crasso l’oratore non è solo
questo, ma anche una persona colta in grado di affrontare ogni argomenti e in cui la cultura
ha agito sui valori morali. La differenza tra i due interlocutori sta nel fatto che Marco Antonio
dice che le conoscenze si facciano nel tempo, mentre l’idea di Cicerone è quella di una
persona con una cultura ad ampio raggio. Gli oratori erano o avvocati o uomini politici, che
coincidevano col modello dell’oratore ideale di Cicerone. Tuttavia ci sono anche gli improbi
viri (uomini ingiusti) che erano abilissimi oratori, ma che persuadevano su proposte
moralmente e politicamente non corrette.
Quando Quintiliano si mise a comporre quest’opera, non scelse un tema originale: la novità
assoluta sta nel fatto che per Quintiliano la formazione dell’oratore parte dall’infanzia e
quindi non parte semplicemente da quando il bambino comincia ad andare a scuola.
Dopodiché tratta tutti i problemi e gli argomenti teorici e pratici che un oratore deve
conoscere e ne indica l’utilità rispetto all’attività che dovrà svolgere. Sul piano formale e
strutturale, diversa dalla forma dialogica di Cicerone (retorica di ????), parte col proposito di
comporre un vero e proprio trattato simile ad un manuale scolastico (quello che i latini
chiamavano ars). Sul piano del contenuto, segue l’ideologia di Cicerone: quest’opera serve a
formare non solo l'oratore, ma anche un uomo morale e cittadino.
Dopo il proemio viene affrontato il rapporto tra retorica e filosofia, dibattuto già dai sofisti
(secondo i quali prevalesse la retorica), Socrate (filosofia), Platone (nella Repubblica: quale
deve essere la disciplina principale nell’educazione dei giovani? La filosofia. Nel Protagora
o nel Gorgia definisce la retorica una seducente adulazione, come un bel piatto che il cuoco
ti mette davanti: corrisponde alla cura che un malato potrebbe ricevere da un cuoco rispetto
alla cura che potrebbe avere da un medico, che corrisponde alla filosofia. Tutti vorrebbero
andare dal cuoco, ma il medico invece dà la certezza di dare cure meno gradevoli, ma
sicuramente più efficaci) e Isocrate (no retorica). La filosofia è una delle scienze che
appiattiscono la cultura enciclopedica dell’oratore; solo chi cura l’eloquenza sa trattare con
cura la filosofia (scienza di cose fondate che non servono a nessuno). La retorica ti prepara a
raggiungere certezze su cose che servono. La filosofia diventa uno strumento per affinare gli
argomenti da esporre, ma non è il fine delle allocuzioni perché insegna cose che non servono.
A contrario di Cicerone, Quintiliano si mostra molto avverso ai filosofi, dietro ai quali si
celano i vizi più vari. I greci avevano un’idea della cultura legata all’utilità. Cicerone era
aperto alla filosofia perché affina il ragionamento. Quintiliano dice che questi filosofi,
secondo una visione catoniana (il censore), predicano bene e razzolano male e la messa in
discussione continua di alcuni valori è pericolosa. Non è detto che non ci sia una frecciatina a
Seneca: nel decimo libro passa in rassegna tanti autori per fornire i contenuti di studio sui
quali formare gli studenti (Orazio sì ecc; su Seneca traccia un giudizio negativo sull’esempio
di eloquenza). Seneca con questo stile molto moderno riusciva a comunicare di più con questi
giovani. Secondo altri, Quintiliano, che vive all’interno della cultura di corte e in linea con le
direttive dei Flavi, non poteva che allinearsi a quest’idea. Nel proemio si presenta
l’argomento. I primi tre capitolo del primo libro contengono precetti padagogici ancora
apprezzati.in questi primi capitoli esprime la convinzione che la formazione dell’oratore
(colui che occuperà incarichi funzionari dello Stato). Questi primi capitolo ci presentano un
Quintiliano educatore molto aperto. Nelle famiglie romane più antiche i bambini venivano
affidati prima alla cura della madre, poi del padre perché questi aveva il compito di impartire
i primi e rudimenti del sapere (soprattutto al figlio maschio) e trasmettergli i principi del mos
maiorum, a partire dal 2 secolo avanti cristo (circolo degli Scipioni), i figli furono affidati ad
una maestro di professione (paideia greca). Le famiglie più benestanti avevano a disposizione
un precettore greco spesso schiavo molto istruito, come Polibio, che fu precettore di Quinto
Fabio Massimo e i figli di Scipione. Le meno agiate mandavano i bambini nel ludus
litterarius, dove c’era un solo maestro (ludi magister), che impartiva l’insegnamento a più
bambini. Erano sempre scuole private a pagamento: fino all’illuminismo l’educazione era
vista come un compito della famiglia, non dello Stato. Secondo Plutarco, il primo ludi
magister ad aprire una scuola a Roma fu Spurio Calvisio. Non erano scuole come le nostre,
perché spesso si insegnava in luoghi squallidi, all’aperto sotto un porticato. Mal pagati come
erano, non potevano permettersi luoghi adatti. L’anno scolastico iniziava a Marzo (dopo la
festa del quinquartus, cinque giorni di festa dedicata a Minerva, e durante la quale nacque
Ovidio), si interrompeva nella stagione calda. Altre vacanze coincidevano con queste feste
solenni civili o religiosi, e ogni nove giorni c’era un giorno di festa (le nundine, in cui c’era il
mercato). Le lezioni si svolgevano nella mattinata nell’arco di sei ore, durante il pranzo
tornavano a casa e poi a scuola. Dopo la scuola, i ragazzi passavano alle terme e poi
tornavano a casa. I metodi educativi erano molto rigidi: l’utilizza la frustra (come ci dice
Orazio). Il figlio di buona famiglia aveva tra gradi di istruzione: se il bambino non poteva
permettersi un precettore, usciva di mattina presto perché le lezioni iniziavano presto; erano
accompagnati da un pedagogus, uno schiavo accompagnatore, che spesso assisteva il
bambino. Le bambine potevano andare a scuola, ma era preferibile tenerle a casa. Il magister
ludi insegnava a leggere, scrivere (magister litteratur) e a fare i calcoli (magister calculator).
Dopo questa scuola passava alla scuola del grammaticus, basata sullo studio della lingua e
letteratura latina e greca, con lo studio di testi originali, tradotti, analizzati e commentati. Si
usciva da questa fase con un’ottima conoscenza di queste due lingue e letterature. Si
coltivava in questi momenti la lettura espressiva, la memorizzazione ed esercizi di stile
preparatori alla retorica. La lezione si teneva in una bottega del foro ed aveva un guadagno
più alto. L’ultima tagga riguardava un numero più stretto ed era la scuola dei rhetores, in cui
l’insegnamento rimase molto tecnico e formale. A coronamento di questo percorso di studi,
c’era il soggiorno all’estero per ascoltarti i maggior maestri. Novità assoluta è che
l’educazione del futuro dirigente doveva iniziare da bambino. Quando nasce un figlio, il
padre deve nutrire per lui la più alta speranza nella speranza di un futuro oratore. Le nutrici
devono parlare correttamente (le persone devono essere istruite, moralmente corrette, parlino
correttamente: Crisippo le voleva sapienti; chi sta a contatto col bambino deve avere quindi
una giusta cultura e deve comportarsi in maniera corretta perché il bambino imiterà per prime
queste persone). Nel primo capitolo Quintiliano non paragona la mente del bambino ad un
contenitore, ma ad un ricettore di esperienze cognitive ed affettive, che modificano la
struttura del bambino. Le esperienze dei primi anni di vita sono quello che lo influenzano di
più. Il bambino non è un vaso di terracotta, perché esso è fatto in modo tale che quello che
viene messo dentro permei nelle pareti (se metti aceto, l’aceto permea nelle pareti e lascerà il
retrogusto). Il fallimento e l'insuccesso scolastico è connesso ad errori nel processo
formativo, e non alle limitate capacità del singolo. Nel secondo capitolo Quintiliano si chiede
se, quando inizia il distacco dalla famiglia, sia meglio affidarlo ad un precettore privato o ad
un magister ludi. Riporta le perplessità di alcuni genitori rispetto all’insegnamento collettivo.
La prima ragione è la paura che i propri figli possano essere corrotti moralmente a contatto di
bambini e maestri cattivi; l’altra ragione era la superiore qualità dell’insegnamento privato ed
individualizzato. In questo capitolo confuta queste idee: l’insegnamento collettivo non
presenta meno rischi rispetto a quello individualizzato (il bambino può avere il rischio di
avere un cattivo maestro: ci sono le stesse percentuali di rischio). Passo poi a enumerare i
vantaggi dell’insegnamento collettivo: esso sviluppa l’autonomia rispetto al maestro e allo
studio (in un rapporto di gruppo e quindi meno stretto col maestro, si sviluppa più autonomia
perché il maestro non può badare a tutti contemporaneamente), sviluppa la socievolezza e
l’autostima (qualità indispensabili per l'oratore), fa vincere la timidezza e nelle scuole con
insegnamento collettivo si intrecciano amicizie durature poiché nascono in questo percorso di
crescita comune. Nel terzo capitolo inizia a delineare il profilo del buon maestro: quali sono
le sue qualità? È colui che è capace di osservare e capire l’indole e le capacità comprensive
del bambino (lo fa mettendolo alla prova). Così imposta un lavoro didattico personalizzato
che risponde alle esigenze di ogni alunno, dopo una valutazione oggettiva. Queste capacità
consentono di individuare un’altra caratteristica: il maestro deve essere moralmente integro e
privo di vitia. Deve saper instaurare un rapporto positivo col bambino perché possiede
pazienza, capacità di moderazione e un metodo adatto per rendere i ragazzi partecipanti della
loro formazione. In questo processo la vox viva del maestro impenetra negli alunni. I precetti
letti su un libro non hanno la stessa efficacia di quelli spiegati dal maestro. Vi è
l’assimilazione del maestro alla figura di un padre e della famiglia, con cui il maestro deve
collaborare. Quintiliano diffida dei bambini prodigi, e li paragona alle spighe di grano, che
biondeggiano prima delle altre, ma poi risultano vuote, sono importanti anche i momenti di
intervallo e di gioco (Plutarco, in uno dei suoi Moralia, De Pueris Educandis, valorizzerà
questi momenti nel percorso formativo), considerato un momento importante per osservare e
capire l’indole del bambino (il maestro che osserva capisce se un bambino è timido, pigro o
prepotente). Quintiliano rifiuta le punizioni come strumento educativo perché sono inutili e
mortificanti per l’essere umano di qualunque età; chi ricorre alle punizioni lo fa per
negligentia e per non perdere tempo (è più facile usare la frusta che spiegare perché hanno
sbagliato). Il bambino diventerebbe così un bambino insure, vocato alla depressione è
violenza. L’infanzia deve essere difesa da ogni violenza, morale e fisica. Tratta poi lo studio
della grammatica, che occupava i primi anni del curriculum scolastico. In questa parte
propone metodologie didattiche precise per l’apprendimento. Il secondo libro accompagna il
ragazzo al passaggio della scuola di retorica, delineando la figura del retore ideale e gli
esercizi da proporre. Si spiega cos'è la retorica. Nel terzo libro, dopo un excursus sulla storia
della retorica, enumera le 5 parti in cui veniva divisa questa materia (5 momenti del lavoro
esposti da Cicerone nel De oratore): inventio, dispositio, elocutio, memoria e actio. Vengono
individuati i tre tipi possibili di discorsi: deliberativo (impiegati nel Senato, nei comizi),
giudiziario (nei tribunali) e epidittico (laudativum, pronunciati in occasione di feste ed eventi
particolarmente importanti), già individuati da Aristotele nel De Rhetoricam, e spiegandone
anche le caratteristiche. In Grecia sono Lisia (giudiziario), Demostene (deliberativo) e
Socrate (epidittico). Il terzo libro prosegue con la trattazione dell’inventio, che è il
momento in cui la persona che deve costruire il discorso va a costruire gli argomenti a
sostegno della tesi che si vuole dimostrare durante un processo. L’inventio prosegue fino al
sesto libro. Il settimo libro è incentrato sulla dispositio, ovvero il momento in cui l’oratore
metteva in ordine gli argomenti trovati durante la prima fase. L’ottavo e il nono libro trattano
l'elocutio, ovvero lo stile oratorio da utilizzare (bisogna adeguare lo stile all’obiettivo da
raggiungere); è incentrato sulle figure retoriche da utilizzare. Il decimo libro parla della
facilitas, ovvero la fluidità del discorso, e contiene dei commenti sugli autori greci e latini
che i maestri devono proporre (è forse una delle prime opere di critica nel mondo in latino; è
simile al lavoro dell’Anonimo del Sublime in Grecia). Un metodo di insegnamento
imprescindibile è l’imitazione. Dice su quali testi i ragazzi si debbano concentrare. Ogni volta
esprime un proprio giudizio (questo va bene perché… questo non va bene perché…), che
spesso è ancora valido e viene sostenuto. L’unico giudizio negativo, e si è chiesti il perché, è
quello sullo stile di Seneca: Quintiliano è un seguace di Cicerone anche sul piano stilistico
(rappresenta il massimo dell’abilità oratoria), che cerca di imitare. Seneca invece aveva
dismesso quel periodo basato sull’ipotassi: ha uno stile più immediato e spezzettato,
caratterizzato dalla paratassi e non da quel periodare architettonico. Questo forse perché
Seneca era più immediato agli occhi dei suoi allievi, che leggeva discorsi concisi e diretti.
Definisce il suo stile corrotto. Nel resto del libro espone la teoria dell’imitazione, gli esercizi
da fare gli esercizi e per allenarsi nell’arte dell’improvvisazione. L’undicesimo libro parla
dell’actum, ovvero della capacità di adattare il discorso alle circostanze (affinché il discorso
sia adeguato). Tratta della memoria: vengono indicate le tecniche di memorizzazione di ciò
che si doveva dire (l’oratore non poteva leggere il discorso). Infine si parla dell’actio (o
pronunciatio), ovvero i gesti e la tonalità della voce (modulazione, dizione) che dovevano
accompagnare il discorso. Nel dodicesimo libro viene delineata la figura del perfetto oratore,
che riprende la definizione di Catone Il Censore, e stabilisce quali siano i mores e gli officia.
Quintiliano è in perfetta sintonia con Cicerone (l’oratore è vir bonus dicendi peritus). A
mettere in crisi l’educazione nel mondo greco furono i sofisti, che arrivarono poiché c’era
un’ampia richiesta di maestri come conseguenza dell’ampliamento delle ricchezze elargite. I
sofisti integrarono il loro progetto educativo: misero al primo posto la retorica (preparavano
ad avere successo in ambito politico e giudiziario). I sofisti dicono che bisogna essere pratici:
ai giovani che hanno l’ambizione di farsi strada nel mondo della politica e del diritto manca
l’arte del dire, che è essenziale per persuadere della bontà della propria proposta e quindi per
avere successo. Una prima sofistica puntava sulla felicità (Socrate andò contro: la retorica e i
suoi strumenti erano dunque essenziali per essere felici). Nelle Nuvole Aristofane dice che i
sofisti volevano inizialmente imporre in ambito politico decisioni che potevano sembrare
meno appetibili rispetto ad altre, ma che erano le migliori in quelle circostanze. Ad un certo
punto la parte etica dell’uomo politico perse sempre più valore etico, e quindi i sofisti
iniziarono ad essere gli insegnanti di persone che puntavano solo al successo. Nel V-IV
secolo si affianca la proposta educativa di Socrate, secondo il quale l’educazione non doveva
venire dall’esterno, perché ogni persona ha già tutto dentro (questo tutto deve essere tirato
fuori tramite la maieutica). Socrate apri la propria scuola, e poi fu seguito da Platone,
Aristotele, Epicuro, ecc. Platone ci dice che la materia principale è la filosofia (la retorica
viene definita una seducente adulazione e viene paragonata all’aiuto che un cuoco può dare
ad un malato rispetto al medico). Isocrate si inserisce in questa situazione abbastanza calda ad
Atene, e dice che bisogna di nuovo dare la priorità all’arte della retorica, perché la filosofia è
sicuramente una filosofia che porta all’επιστήμη (ci guida ad avere una certa conoscenza
stabile) di cose che non servono a nessuno. La retorica invece ci permette di comunicare
un’idea, una proposta su cose legate al mondo in cui l’uomo vive. Il maestro, secondo
Isocrate, deve avere tuttavia certi prerequisiti e si avvicina moltissimo al maestro secondo
Cicerone. Cicerone si allinea al pensiero e ricalca l’idea del maestro isocratea. L’Institutio
oratoria mette in luce gli obiettivi che devono conseguire i ragazzi e i prerequisiti che il
maestro deve avere. Oltre al suo valore pedagogico, è anche una sintesi di tutta la storia della
retorica antica, che viene ricostruita attraverso la riproduzione delle teorie dei predecessori,
sui quali esprime un giudizio sereno. I pregi solo la chiarezza, la concretezza (un maestro
deve farsi capire), la discorsività delle argomentazioni portate per sostenere una tesi e
facilmente seguibili/condivisibili. In ambito retorico, è importante perché affronta due
problemi dibattuti e che saranno ancora dibattuti: la funzione nuova dell’oratore e le nuove
tendenze stilistiche che si stanno affermando. Quintiliano affronta questi problemi utilizzando
sia per trattare il tema della nuova funzione dell’oratore sia quando descrive delle nuove
mode utilizzando la decadenza, la corruzione. C’è già un’impostazione mentale con la
trasformazione dell’oratore nella società: quello nell’età di Cicerone aveva un ruolo diverso
rispetto a quello dell’età di Seneca. Si potrebbe dunque parlare di cambiamento, anziché di
decadenza. Si deve partire parlando di regresso: la lingua, invece che rimanere negli standard,
viene sentita come se fosse stata impoverita. L’eloquenza, secondo Quintiliano, è decaduta
per due ordini di fattori: fattori tecnici (carenza di buoni insegnanti e la scollatura tra
insegnamento scolastico e vita reali) e fattori morali (degenerazione dei costumi, a cui fa
seguito lo scadimento del gusto e dello stile). Tra decadenza di costumi e dell’eloquenza c’è
un legame (come già ci dice Persio e Petronio). La fine della Repubblica ha comportato un
cambiamento del ruolo dell’oratore: i momenti in cui poteva esprimere il suo pensiero si
ridussero notevolmente. Il dibattito politico era stato molto limitato, se non del tutto azzerato
(l’oratoria deliberativa che aveva come luogo di utilizzo il senato e i comizi non aveva più
quel ruolo, ed esisteva solamente nelle oratorie fittizie, come le suasoriae di Seneca Il Padre).
L’oratoria giudiziaria continuò ad esistere: non si smise mai di celebrare processi, anche se i
tribunali erano controllati da funzionari del principe, a cui spettava l’ultima decisione.
L’oratoria epidittica, d’occasione e dell’elogio di potenti, continuò ad esistere
tranquillamente. Nonostante questa diminuzione di spazi in cui la persona poteva fare sfoggio
della sua abilità oratoria, le scuole di retorica continuarono a proliferare poiché servivano ai
futuri avvocati, funzionari dello Stato, maestri e chi voleva dedicarsi alla letteratura. Queste
scuola, da luogo in cui l’oratore entrava per formarsi, divennero spesso luogo di arrivo: chi
usciva da queste scuole rientrava come maestro. Di fronte a questo, molti parlano di
decadenza dell’eloquenza: ciascuno dice cause diverse, tra cui quella dell’Anonimo del
Sublime e nel Dialogus de Oratoribus di Tacito: questa connessione della decadenza
dell’eloquenza con la fine delle libertà repubblicane. L’oratoria nel mondo greco ha il suo
picco nel momento in cui il dibattito politico era fortissimo (Lisia, Demostene e Isocrate),
ovvero quando la persona era libera di esprimere il suo pensiero. L’altra posizione afferma
che la fine delle libertà repubblicane abbia influito notevolmente sulla decadenza
dell’eloquenza: senza dibattito non poteva esistere la vera oratoria. Quintiliano, che non è uno
storico, non guarda questa causa e denuncia quindi la decadenza morale legata alla decadenza
delle scuole. Per ovviare alle sue ragioni, da una parte ripropone la figura catoniana e
ciceroniana dell’oratore, puntando sulla moralità del maestro, dall’altra rimodula tutto il
percorso formativo, che deve partire dalla nascita e deve accompagnare fino alla fine di
questa formazione tecnica e culturale a 360 gradi. Anche per Quintiliano formare l’oratore
significa formare l’uomo. È ovvio che, mentre per Cicerone l’oratore sarebbe stato
protagonista della politica viva, per Quintiliano è il buon maestro, avvocato o funzionario.
Alcuni hanno visto in questo pensiero i modelli di oratori come non più proponibili, e quindi
anacronistici: soprattutto quando dice che dovrà riportare il popolo sviato sulla retta via
(fingerebbe così di ignorare che nel mondo in cui vive il senato e il popolo non contavano più
nulla). Ci sarebbe dunque della malizia o un voler fingere di sapere, in realtà solo perché
appoggia i Flavi. Questo suo fingere di non sapere è ancora più esplicito nel condividere con
Cicerone l’idea di vir bonus, ovvero il cittadino appartenente ad un certo livello sociale e che
difendeva i cittadini (ai tempi di Cicerone apparteneva agli optimates; per Quintiliano ha
anche una totale disponibilità nei confronti dello Stato, che si identifica con l’imperatore: il
perfetto oratore è dunque il fedele collaboratore del princeps). Esorta quindi l’oratore alla
moderazione, alla misura e all’equilibrio; indica dunque i nomi degli stretti collaboratori del
princeps. Secondo altri il modello di oratore ciceroniano utilizzato da Quintiliano non è
quello politico, ma solo quello morale e stilistico: seguire dunque le norme etiche indicate da
Cicerone è possibile anche in età imperiale, tanto che si può ubbidire con dignità e mettendosi
a disposizioni della comunità, salvaguardando così i propri principi. Secondo quest’altra
visione di condivisione da parte di Quintiliano del vir bonus sul piano morale, non sarebbe
così anacronistico. Non fa nessun accenno tra la fine della libertà di parola e la decadenza
dell’eloquenza. Non è assolutamente un modernista e non apprezza affatto Seneca. Cerca di
riportare la lingua latina a quella che era quella di Cicerone, anche se questa non è imitazione
poiché gli stili sono diversi comunque. Quello che troviamo in Quintiliano è l’equilibrio tra lo
stile ciceroniano e il buon senso e l’equilibrio.

FEDRO E MARZIALE

INTRODUZIONE - FEDRO E LA FAVOLA


Inseriamo Marziale nel percorso della poesia realistica. Questo percorso attraversa tre generi
letterari: favola, satira ed epigramma. In questo percorso sembra che i poeti abbiano messo
a fuoco nella loro poesia la realtà umile che fino a quel momento non aveva trovato posto
nella letteratura (spesso la letteratura latina è stata strettamente legata al potere,
dimenticandosi dei problemi dell’uomo umile). Italo Lana dice che la poesia realistica è “la
voce di chi non ha voce”: anche quando sembra autentica, questa voce è sempre filtrata dalla
letteratura e dal modo di pensare di chi decide di descrivere la realtà (questo è il limite del
realismo antico, proprio come Teocrito nella letteratura greca). Anche nell’esaminare la
poesia di Marziale e di Giovenale e della favola di Fedro, dobbiamo tenere presente questo
limite di tutta la letteratura antica. Il concetto di uomo comune è una sorta di astrazione,
poiché escludeva alcune categorie di uomini (schiavi, stranieri, ecc..), dal momento che non
avevano mai avuto una coscienza di classe (ognuno pensava alla propria condizione e basta).
Questa attenzione alla realtà quotidiana non comporta che il poeta si identifichi con essa. In
Giovenale gli schiavi vengono visti con un classismo raccapricciante (parla con disprezzo
anche degli ebrei, degli stranieri e delle donne: c’è una lunghissima satira che assomiglia
moltissimo a quella di Simonide contro le donne). C’è la richiesta di una maggiore umanità
nei rapporti sociali: in realtà le richieste di Marziale riguardano solo gli uomini come lui.
Solo la favola esopica proposta a Roma da Fedro aveva proposto l’ottica degli schiavi: Fedro,
liberto di Augusto, diede per la prima volta dignità al genere poetico della favola. Nella
favola di Fedro c’era questo punto di vista dei ceti subalterni, sottomessi ai potenti e privi di
qualunque speranza di emancipazione sociale. La mancanza di denuncia e protesta (e anche
una sorta di rassegnazione e fatalismo) allontana il realismo della favola di Fedro dal
realismo moderno, che mette in risalto il disagio sociale lasciando però prevedere un percorso
per riscattarsi da questa situazione. Il realismo della favola sta solo nella cornice e in questa
istanza di denuncia e nel sottolineare la situazione di disagio. Non si può parlare di realismo
descrittivo poiché raramente i personaggi delle favole appartengono alla realtà: il mondo è
astratto e popolato da animali, che parlano, ragionano ed esprimono solamente le qualità
morali che li contraddistinguono. La favola esprime il male attraverso simboli, la satira
attraverso spezzoni della realtà. La vita di Fedro è collocata tra il 20 e il 50. Era uno schiavo
di origine tracia e divenne poi liberto di Augusto, che probabilmente gli affidò mansioni
amministrative o di insegnante. Nell’età di Tiberio si mise a tradurre in latino le favole
esotiche. Forse a causa di questa sua attività letteraria, cadde in disgrazia presso il prefetto
Seiano, che gli intentò un falso processo dal quale Fedro non uscì più. Cercò altri liberti lì
come lui, a cui dedico altre favole. Ci sono stati tramandati 5 libri di favole in senari. Le
dimensioni ridotte del secondo e del quinto ci fa pensare che alcune siano state perdute o
siano all’interno dell’Appendix Perottina, che ci ha fornito una trentina di favole non
contenute nei libri. La favola è un apologo privo di elementi descrittivi: in questi racconti
fantastici con animali parlanti (il leone è la forza, la volpe l’astuzia) c’è una verità, espressa
da questi animali che in realtà sono allegorie. La morale può trovarsi all'inizio (promitio) o
alla fine (epimitio). La favola in Grecia è raggiunta dal mondo orientale e trovò una grande
fioritura con la figura di Esopo, anche lui schiavo di origine frigia e ucciso dagli abitanti di
Delfi per un presunto furto (ci sono giunte 400 favole di Esopo, che presentano
personificazioni di significati astratti, insegnamenti reali, ecc..). Nel mondo latino, la favola
fu un genere molto coltivano: ci sono in Lucilio (padre della satira), Orazio (favola del topo
di campagna e topo di città) e in Fedro ovviamente (il quale compose una raccolta specifica
di favole poetiche). Le caratteristiche della favola sono la brevitas, gli elementi astratti e la
morale.

MARZIALE
Nacque a Bilbilis tra il 38 e il 41. Di questa città conserva sempre un bel ricordo: tornerà qui
in fin di vita, dopo 34 anni a Roma. Era stato avviato dalla famiglia agli studi letterari, e nel
64 venne a Roma, dove si aspettava di fare fortuna. Una volta a Roma, si fece ospitare presso
le famiglie spagnole in vista (gli Annei) e cercò l’appoggio di questi personaggi importanti
(fu a contatto di Lucio Catullo Pisone e altri personaggi che furono molto importanti per lui).
Nel 65 fu scoperta la congiura dei Pisoni di Nerone, che eliminò quasi tutti i suoi contatti. Si
ritrovò dunque senza appoggi ed amicizie: iniziò la vita del cliens, costretto ogni mattina a
correre presso la casa di un patrizio per il vana salutandi labor (cit. Quintiliano) per ricevere
la sportula (cesto con gli avanzi della cena). Nell’80, quando Tito inaugurò il Colosseo, si
fece notare con la pubblicazione di una raccolta di epigrammi: il Liber Spectaculis, poesia
di occasione. Tito è il dedicatario di questo canzoniere e gli concesse il ius trium liberorum:
codeste così di alcuni privilegi e immunità. Nonostante questa onorificenza, non ottenne
quella sicurezza economica a cui aspirava. Domiziana gli concesse il titolo tribunus militum,
che gli permise l’entrata al ceto dei cavalieri. Pubblicò i Xenia, componimenti che
accompagnavano i doni, e gli Apophoreta, accompagnati da doni che si scambiavano nella
festività dei Saturnali. Conobbe Quintiliano, Plinio Il Giovane, Silio Italico e Giovenale:
non strinse amicizia con Stazio per la differente visione della poesia e forse per inimicizie
personali. Nessuna di queste amicizie gli consentì di ottenere la sicurezza economica a cui
aspirava: un amico gli regalò un podere vicino a Roma, ma nella Urbs continuò a vivere in un
appartamento al terzo piano con uno stile di vita umile. Fra l’85 e il 98, anno dell’avvento di
Traiano, pubblicò 11 libri di epigrammi, al ritmo di quasi un libro all’anno, pubblicati tutti a
Roma, tranne il terzo, pubblicato a Forum Cornelii (l’attuale Imola, dove andò per
allontanarsi dal caos cittadino). Si aggiunse un dodicesimo libro, scritto probabilmente in
Spagna. Con l’avvento di Nerva, tra il 96 e il 98, Marziale cercò di accattivarsi le simpatie
del nuovo imperatore con una serie di epigrammi contenuti all’interno del decimo e
dell’undicesimo libro, ma non servì a nulla. Tornò dunque a Bilbilis, dove una donna
facoltosa, Marcella, sua grande ammiratrice, gli regalò una casa con un podere annesso:
iniziò così a vivere nello status economico che desiderava. Tuttavia si sente il rimpianto di
Roma, che allo stesso tempo è odiata e amata. Morì abbastanza triste e malinconico tra il 102
e il 104. La sua opera è composta da 1161 epigrammi, per un totale di 9800 versi, distribuiti
in 15 libri (il 13esimo contiene gli Xenia, il 14esimo gli Apophoreta, il 15esimo il Liber
Spectaculis). Ogni libro è preceduto da una prefazione o in prosa o in versi: gli epigrammi
non seguono nessun criterio metrico, cronologico o tematico. Il metro è il distico elegiaco,
metro dell'epigramma, ma anche esametro, ecc. In tutti i 14 libri di epigrammi, Marziale si
professa poeta epigrammista e contrario alla poesia del suo tempo (epico-tragica e
cortigiana). Questa sua scelta di un genere poetico minore riflette il suo programma poetico
di voler esprimere il proprio mondo interiore con toni personali e stretti. Colto il motto
callimacheo μέγα βιβλίον μέγα κακόν, la brevitas (ovvero l’oligostichia che i Telchini
riprovano a Callimaco) diventa garanzia di autenticità di una poesia vera e sincera, che parla
al cuore degli uomini affrontando temi concreti e reali, e non avulsi dalla realtà. La sua opera
è hominem nostra pagina sapit (“la nostra pagina ha il sapore di uomo”): il suo realismo
non è descrizione oggettiva della realtà, ma attenzione per la realtà minore del suo tempo
(che è sempre filtrata attraverso gli occhi del letterato, che molto spesso esagera e calca gli
aspetti grotteschi, utilizzando il paradosso, la licenziosità, la battuta e una goccia di fiele
amaro per sottolineare in maniera ironica dei comportamenti frequenti nel suo mondo). Senza
tutti questi elementi la sua poesia sarebbe sine salem, insipida. Marziale, pur inserendosi
in questo genere con tutti i suoi temi, porta il suo contributo di unità portando la descrizione
ironica di situazioni ed essere umani: ci offre così una serie di caratteristiche ai suoi
personaggi. I temi sono:
1) la città di Roma (ricca, potente e caotica, in cui ha vissuto per 34 anni come poeta di
successo, ma non ricco: è una poesia scommatica e caricaturale, che si focalizza su
medici, avvocati, imbroglioni, cacciatori di eredità, barboni, vecchie libitinose, ecc..;
tutto ciò senza piglio moralista, e questo lo distingue dai poeti satirici. Non propone
alternative di comportamento a questo marcio che vede intorno a sé, contrariamente a
Persio);
2) la poesia d’occasione (Xenia e Apophoreta), legata a nozze e compleanni, ecc..
3) epigrammi epigrastici
4) temi biografici che riguardano la sua vita, la sua attività poetica, la sua convenzione
dell’arte e della poesia, la polemica contro i plagiari e contro i pessimi recitato re delle
sue poesie
5) tema della decadenza del mecenatismo e del pessimo trattamento del poeta nella
concezione contemporanea, secondo la quale il poeta valeva meno di un auguriga
6) dedicati alle cene, che offrono lo spunto per parlare dell’amicizia, del rapporto tra
cliens e patronus e per descrivere i cibi e le bevande sulle mense
7) epigrammi funerari (come ad Erosio, bambina morta a 6 anni).

Il contributo originale è calcare gli aspetti grotteschi delle persone. Sul piano stilistico
aggiunse alcuni espedienti letterari a quelli caratteristici dell’epigramma: l’attesa, in cui
descrive la situazione è il personaggio, creando la suspense attraverso domande che
l’interlocutore pone secondo la tecnica della diatribe; e la conclusione, spesso inattesa
(ἀπροσδόκητον) con una battuta (fulmen in clausula, ovvero un fulmine a ciel sereno).
Tutto questo è arricchito con giochi di parole e paronomasie. Si serve di vari registri
espressivi, grecismi, neologismi. Accanto a questo Marziale comico, c’è un Marziale più
riflessivo, che dà sfogo alle sue disillusioni e alla sua interiorità, da cui scaturiscono
riflessioni sull’esistenza umana. Queste riflessioni riguardano soprattutto lo scorrere del
tempo (Orazio e Seneca). La campagna di Marziale non è un paesaggio ideale o
idilliaco/bucolico di Teocrito/Virgilio, non è un locus amoenus orazioni: ci sono gli animali,
gli odori cattivi, il contadino che prepara i cibi rustici, genuini e introvabili nelle tavole più
sontuose della città. Nonostante questo vagheggiamento, Marziale, quando non sarà più a
Roma, sentirà la nostalgia della città: ripensa alla vita passata con grande nostalgia.

PLINIO IL GIOVANE

Plinio Il Giovane è un esponente di spicco di oratoria e epistolografia dell’età di Traiano.


Nacque nel 61-62 a Novum Comum. Era figlio della sorella di Plinio Il Vecchio. Rimase
orfano e fu adottato dallo zio, morto nel 79 quando il Vesuvio eruttò. Alla morte dello zio,
rimase erede di possedimenti in Etruria e Campania. Plinio continuò gli studi a Roma e fu
allievo di Quintiliano. Ricoprì cariche anche sotto Domiziano, giungendo a diventare consul
suffectus sotto Traiano, che lo volle sotto il suo consilium principis. Nel 110-111 fu nominato
governatore della Bitinia, dove nel 112 morì (poiché non abbiamo più notizie dopo
quest’anno). Fu un oratore molto famoso: pubblicò orazioni giudiziarie e discorsi epidittici
non pervenuti. Scrisse versi ed epigrammi, inserendosi nella tradizione dei poeti che fanno
poesia per lusus (divertimento), a cui si aggiungevano anche Cicerone (suo modello in
campo oratorio ed epistolografico) e Cesare. L’unica orazione giunta è il discorso di
ringraziamento (gratiarum actio), esposto il primo settembre del 100. Il discorso giunto fu
rielaborato in vista di una pubblicazione. Il discorso si risolve in un panegirico
all’imperatore, e come tale divenne il modello di tutta questa modella encomiastica. Prima di
Plinio, Patercolo nel secondo libro della Historia Romana aveva elogiato Tiberio. In questo
panegirico, Traiano (che a differenza di Domiziano non pretese mai di essere onorato come
una celebrità) è presentano come l’optimus princeps, un dono degli dei ai romani e artefice e
promotore della volontà divina, che è indirizzata al bene. Di Traiano vengono passate in
rassegna le vicende che portarono alla sua elezione ad imperatore (prima le origini, ovvero
primo imperatore di origine provinciale spagnola, veniva da una famiglia di rango senatorio e
aveva vissuti in un ambiente vicino sia al senato che agli eserciti). Dopodiché Plinio esalta il
principio di successione per adozione, che aveva permesso la sua elezione. Passa ad
elogiare le sue qualità come comandante militare (generosità, magnanimità, modestia), e lo
paragona sempre a Domiziano, presentato come tiranno, a cui contrappone le virtù pubbliche
e private di Traiano. A differenza di Domiziano, che odiava quelli stimati dal senato, ora
princeps e senatus approvano e disapprovano le stesse cose. Dietro a queste parole, voleva
esortare Traiano a mantenere questo atteggiamento filo-senatorio, che avevamo visto nel
De Clementia di Seneca. Al contrario di Seneca, Plinio non propone un programma di
governo seppure utopistico e astratto; Seneca invece propone l’idea di un principato
illuminato da un princeps filosofo o che si faccia guidare da un filosofo: approva
incondizionatamente la politica di Traiano poiché la sua figura non è quella di un consigliere
o collaboratore del princeps, ma di funzionario subalterno e si fa portavoce delle decisione
del princeps al senato e agli altri. Di Plinio, accanto a questo panegirico, ci è giunto
l’epistolario. L’epistolografia è un genere antichissimo (Platone, Epistola VII; Isocrate per
esprimere il suo parere sulle forme di governo e dare consigli) che nasce col compito di
trasferire a distanza delle notizie: quando diventa un genere letterario, non ha ovviamente
solo il compito di favorire la comunicazione a distanza tra mittente e destinatario. Plinio
utilizza questo genere e come modello prende Cicerone piuttosto che Seneca (su Seneca ci
siamo chiesti: Le sue lettere sono state scritte per scambiare notizie sulla sua vita, e quindi
reali? O utilizza l’epistola per non vincolare il pensiero?). L’epistolario di Cicerone è misto:
è costituito anche da notizie che riguardano la quotidianità. Le sue lettere non mirano ad
esprimere il suo pensiero. Vuole riproporre alcune scene di vita, che ci fanno capire alcuni
aspetti della sua personalità e l’ambiente in cui vive. È composto da dieci libri: i primi nove
libri (250 lettere) contengono lettere varie indirizzate agli amici e pubblicate tra 103-105 fino
a 110-111: i destinatari sono molti (più di 100 destinatari, tra cui anche Svetonio e Tacito). Il
decimo libro contiene 124 lettere e risale al suo governatorato della Bitinia: sono un
carteggio con Traiano e vertono su questioni amministrative e ci dicono quali mansioni erano
quelle di un governatore in provincia. Importanti sono le epistole 96 e 97 poiché
costituiscono una delle prime testimonianze pagane sulla diffusione del cristianesimo.
Affronta il problema amministrativo con Traiano, chiedendo consigli o opinioni su che
cosa fare. I cristiani si presentarono come una grande preoccupazione pubblica perché si
sottraevano ad alcuni riti pubblici importantissimi, come l’esaltazione dell’imperatore. Plinio
non sapeva come comportarsi coi cristiani e come punirli (cosa fare con un bambino o con un
vecchio: denunciati i cristiani, devo atteggiarmi allo stesso modo a prescindere dall’età o
no? Se un cristiano si pente, deve essere punito comunque perché è stato cristiano o no?
Deve essere punito il nome di cristiano in sé e per sé o solo le infamie associate a questo
nome?). Il cristianesimo fu visto come un pericolo per l’ordine pubblico perché i cristiani
rifiutavano il culto del genio dell’imperatore: questo contravveniva ai precetti di Cristo; i
cristiani che si rifiutavano di adempiere a questi riti, commettendo un reato di lesa maestà,
diventavano persone che si macchiavano di un reato punibile da parte dello Stato. Plinio
chiede dei consigli a Traiano e un assenso rispetto ai provvedimenti che ha già preso. Nella
sua risposta, notiamo che Traiano concorda con tutti i provvedimenti presi da Plinio:
ribadisce che non bisogna tenere conto delle denunce anonime. Non c’è un atteggiamento
persecutorio, ma di apertura. Le denunce partivano perché, quando il cristianesimo si
diffonde, ha conseguenze di carattere economico. Queste due lettere sono importantissime.
Plinio sottolinea che ha verificato che queste persone, quando si riuniscono, lo fanno non per
progettare azioni criminali, ma, anzi, si impegnano ad osservare dei principi morali che tutti
dovrebbero osservare. Le epistole agli amici invece costituiscono un tipico epistolario
letterario, che era espressamente pensato e scritto in vista di una pubblicazione (come risulta
dalla dedica a Sulpicio Piano, prefetto del pretorio sotto Adriano e dedicatario anche delle
Vite di Svetonio). È probabile che accanto a lettere destinate solo alla pubblicazione (mai
recapitate), altre siano state recapitate realmente ai destinatari (stesso discorso delle Epistulae
Ad Lucilium di Seneca e dell’epistolario di Cicerone, dove però la maggior parte delle
lettere sono state realmente recapitate). Sicuramente, tutto ciò che Plinio ci racconta è vero.
Per quanto riguarda l’ordine, a differenza di quanto dice Plinio, ovvero di averle inserite
casualmente, questo ordine non è casuale, ma è ispirato al criterio della varietas dei temi
trattati (alternanza), forse per compensare la ripetitività degli argomenti e della vita di Plinio.
Infatti, Plinio, come Cicerone, si proponeva di delineare un quadro ampio di tutte le sue
attività e anche dell’ambiente storico e del clima in cui vive, rendendosi conto che la sua vita
è molto meno brillante di quella di Cicerone. Vertono anche su i discorsi tenuti in tribunale o
in senato, le recitationes, gli inviti a cena, le condoglianze per lutti, gite in campagna, scambi
di giudizi letterari con amici, descrizione delle sue ville, la morte dello zio durante l’edizione
del Vesuvio. Da queste epistole emergono molte qualità positive di questo uomo: l’onestà
morale, la cultura raffinata, l’humanitas e il suo compiacimento del successo ottenuto dagli
amici. In queste lettere manifestano anche i suoi limiti: la vanità che lo porta ad avere un
bisogno costante di riconoscimenti ed approvazione da parte degli altri (limite/qualità anche
di Cicerone), un ottimismo un po’ ingenuo (è l’unico a lodare le recitationes; Quintiliano,
Persio e Marziale pensano che siano la causa della decadenza dell’eloquenza). Fu anche
animatore di un circolo letterario in casa sua, dove promuoveva ed incoraggiava tutti quelli
che si dedicavano alla letteratura.

GAIO SVETONIO TRANQUILLO

Nella πράξις storiografia di Tacito si afferma sempre di più il trattare la storia per blocchi
(come negli Annales) incentrandosi sulla figura dei singoli imperatori: si legge la storia
attraverso la figura dei singoli imperatori (contaminazione tra storiografia e biografia:
Plutarco sottolinea la differenza tra i due, ovvero la biografia si occupa delle persone e il loro
ethos, la storia invece deve descrive tutti i fatti importanti che hanno sancito un cambiamento
e hanno prodotto una serie di provvedimenti). Tacito mette insieme questo due momenti,
facendo emergere da uno sfondo storiografico la figura che ha inciso su quegli avvenimenti,
ma si differenzia perché non riporta tutte le notizie (a volte manca anche il ritratto fisico),
perché non pertinenti all’interno di un processo storico.
Svetonio è il biografo latino. Abbiamo notizie biografiche piuttosto incerte e poche, e ci
provengono o da lui stesso o da qualche lettera scambiata con Plinio o con qualche notizia
sparsa. Non sappiamo le origini: secondo alcuni sarebbe l’Africa perché in Algeria ad Hippo
Regius è stata ritrovata un’epigrafe onoraria in cui compare il suo nome, secondo altri
Ostia perché in quella stessa epigrafe è ricordato come pontefice del Dio Vulcano
(particolarmente onorato ad Ostia), secondo altri ancora il Lazio genericamente. L’anno di
nascita è altrettanto incerto: secondo alcuni intorno al 70 perché nella Vita di Nerone Svetonio
definisce se stesso adulescens nell’88. Probabilmente apparteneva al ceto equestre e di
condizione socio-economica più modesta di quello di Plinio. Fu protetto da Sulpicio Piano
(prefetto del pretorio di Adriano e dedicatario dell'epistolario di Plinio) e da Plinio stesso, che
lo portò con sé in Bitinia nel 102 e gli fece concedere da Traiano il ius trium liberorum,
anche se Svetonio non aveva figli. Grazie a queste due amicizie importanti, Svetonio percorse
un’ottima carriera di funzionario: fu promotore a studiis (procuratore degli archivi imperiali),
a biblioteches e ad Epistulis. Ebbe la possibilità di leggere documenti utilizzati per
ricostruire le sue biografie: per questo risulta un testimone attendibile. Egli stesso cita questi
documenti, contrariamente a quanto avveniva nella tradizione storiografia. Nel 122 questa
carriera amministrativa si interrompe forse perché anche Sulpicio Piano cadde in disgrazia, e
ovviamente con lui tutti i suoi protetti. Non si sanno le ragioni di questa improvvisa caduta,
ma ufficialmente si disse che tutti e due avevano trattato con eccessiva familiarità
l’imperatrice moglie di Traiano. Incerta è anche la data di morte, dal 126 al 141. Quello che
ci aiuta a ricostruire la personalità è il carteggio con Plinio, dal quale emerge un
temperamento indeciso, titubante e molto superstizioso (Plinio ci dice che si rifiutò di
pubblicare una sua opera già completata e rivista, sintomo della sua insicurezza e del suo
perfezionismo; e che, dopo aver chiesto una raccomandazione per ottenere il tribunato
militare, chiede a Plinio di trasferirla ad un suo parente; infine, chiede di spostare la data di
un processo perché aveva avuto un brutto sogno durante la notte). L’opera più importante,
giunta quasi per intero (con una piccola lacuna all’inizio della Vita di Cesare), è il De Vita
Caesarum, che raccoglie le biografie dei primi 12 imperatori romani (da Cesare a
Domiziano). Sono 12 perché lui inserisce anche Giulio Cesare, considerato il primo
imperatore di Roma, anche se Cesare rifiutò sempre anche l’appellativo di re. Secondo gli
interessi del genere biografico, Svetonio si propone di far conoscere i protagonisti, e di queste
figure illustra non solo le azioni pubbliche, ma anche e soprattutto quelle private, il carattere
e l’aspetto fisico, ritenendo più efficace invece che procedere per tempora (in ordine
cronologico), per species (per categorie). Di ogni personaggio dice prima il comportamento
nel privato, nel pubblico, i comportamenti positivi, i negativi, i vizi, le virtù, abitudini
curiose, abitudini sessuali (è il biografo più pettegolo) ecc. Descrive il tutto con esempi
conosciuti. Dunque c’è una sorta di profilo frammentario perché distingue in maniera a
catalogica. Non deve mai essere confrontato con Plutarco, in cui abbiamo la visione
d’insieme del personaggio. Le biografie dei Cesari presentano una struttura comune, ma con
qualche differenza. In genere le biografie incominciano con le notizie delle origini e della
famiglia del princeps, poi la cronologia delle imprese prima di essere princeps (fino a qui c’è
il criterio per tempora); a questo punto il criterio cronologico si interrompe ed inizia la
descrizione delle caratteristiche dell’imperatore e del suo regno (raccontate per species). Per
gli imperatori crudeli e mostruosi (Caligola, Nerone e Domiziano), le abitudini curiose si
configurano con crudeltà. Nell’ultima sezione, riprende il criterio cronologico per raccontare
gli ultimi momenti e la morte del personaggio, ma la parte centrale è relativa al carattere del
princeps. Si tratta di uno schema flessibile e in relazione a diversi elementi (il materiale a
disposizione riportato alla lettera e non parafrasato). Tutte queste fonti riportate ad litteram
sono attendibili proprio perché lui aveva accesso a questo materiale. Questa parte di gossip
che riguardava le abitudini, i vizi e le virtù è elastica (dove c’è più materiale, è più corposa).
Per quanto riguarda gli aneddoti, le fonti senatori e sono caratterizzate da un punto di vista
negativo nei confronti del princeps. Un altro elemento flessibile è il giudizio globale per i
singoli imperatori. Tutte le vite presentano come tema centrale la figura dell’imperatore,
caratterizzato attraverso il suo operato storico e attraverso episodi di poco conto. Svetonio
non scredita mai l’operato pubblico dei principes. Abbondano aneddoti curiosi e piccanti
(gli adulteri di Augusto, giustificati col carpire i segreti degli avversari nell’intimità con le
mogli degli avversari o il fatto che la moglie gli procurasse giovani ragazze per soddisfare i
suoi desideri sessuali), battute, descrizioni di abitudini stravaganti (Domiziano si divertiva a
infilzare le mosche quando era da solo, così qualcuno poteva dire “con Domiziano non c’è
neanche una mosca”), prodigi e presagi (proprio per il carattere superstizioso di Svetonio).
Questi sono tutti ingredienti in parte propri del genere biografico, ma da Svetonio vengono
accentuati e rispondevano agli interessi propri dell’epoca. Una peculiarità specificamente
svetoniana è l’attenzione rivolta agli interessi culturali e letterari (gli studia) dei principes,
di cui presenta le opere, discusse e giudicate con una certa competenza. Questi interessi
eruditi si vedono quando Svetonio scende in interessi particolari. I prego delle biografie di
Svetonio sono lì attendibilità delle fonti e la marea di dati; i difetti sono che queste biografie
ritraggono principes spesso dalla personalità incoerente (dovuta alla narrazione per species) e
gli accostamenti di vizi e virtù producono profili frammentati e spesso slegati dal contesto
storico. Il suo intento era comporre un’opera di catalogazione, e in questo ci è riuscito
pienamente. Non si preoccupò di essere elegante nello stile e non abbracciò nessuno stile in
voga al momento. Scrisse in maniera semplice, lineare, non evita termini tecnici laddove sono
richiesti, e non abbellì il suo discorso è le parole dei suoi personaggi.
Scrisse anche il De viris illustribus, che prende il titolo della raccolta di biografie di Cornelio
Nepote (strutturata in 8 categorie di persone: politici, condottieri, oratori, ecc.., ma di
quest’opera abbiamo solo le biografie di condottieri stranieri), ma Svetonio, a differenza di
Nepote che aveva strutturato ogni libro in coppie (in un libro condottieri romani e nell’altro
stranieri), si limita al mondo romano e ai solo letterati, suddivisi in cinque categorie (poeti,
oratori, storici, filosofi e grammatici e retori). Non riporta esempi di letterati stranieri. Di
quest’opera si è conservata la sezione dei grammatici e dei retori, che ci dà l’idea di come
fossero strutturate anche le altre sezioni. Inizia con un indice che indica gli autori trattati (21
grammatici e 5 retori in ordine cronologico), un’introduzione con la storia delle due
discipline fino all’età contemporanea e poi i profili brevi di questi illustri maestri, con
l’esclusione dei viventi (l’ultimo grammatico è Probo e l’ultimo retore Quintiliano). Delle
altre sezioni rimangono solo biografie isolate, alcune delle quali furono inserite nei codici
contenenti l’opera intera di un autore (per esempio Terenzio, Orazio e Lucano dalla sezione
De poetis). Da una parte c’è chi ritiene Svetonio un erudito, un antiquario, una persona
desiderosa di fare studi approfonditi, metodico, perfettamente inserito nel suo tempo. C’è chi
lo ritiene non l’autore di un’opera letteraria (come Plutarco), ma c’è chi intravede un motivo
ideologico (il fatto che avrebbe voluto compiacere l’imperatore Adriano denigrando tutti gli
imperatore del primo secolo, valorizzando solo le virtù che vedeva rispecchiate in Adriano).
C’è chi ha trovato un filo conduttore che darebbe unità al profilo dei singoli personaggi.
L’uso del genere biografico aveva delle caratteristiche formali (struttura) e degli scopi molto
diversi (sia nel mondo greco che in quello latino). Fino al IV secolo a.C, la biografia non
esisteva come genere a sé, ma era inserita all’interno delle trattazioni storiche: Erodoto nel
terzo libro delle sue Storie inserisce una monografia sul re persiano Cambise, corrotto.
Successivamente vengono composte delle opere elogiative, encomiastiche su un personaggio
storico: l’Agesilao e la Cirofilia di Senofonte, che narrano le vicende di personaggi
importanti (Agesilao era un personaggio spartano a cui Senofonte si attacco dopo la
spedizione dei 100; e di Ciro Il Grande); Isocrate compone l’Evagora, biografia del sovrano
di Cipro. I Bioi socraticoi nacquero tra i discepoli di Socrate per farne capire la vita e il
pensiero (non ci sono giunti); abbiamo i Filippikai (su Filippo II di Macedonia, la cui
biografia diventa uno strumento per interpretare le vicende politiche della contemporaneità).
Nel Peripato di Aristotele la biografia inizia a separarsi dalla storiografia, ma non abbiamo
testimonianze di questo genere biografico. Abbiamo una Vita di Pitagora composta da
Aristosseno di Taranto (discepolo del Peripato), che scrisse altre Bioi (forse grazie a questa
testimonianza possiamo capire che sviluppò la biografia come uno strumento di ricerca e
valido di per sé). Questi Bioi di Aristossene avevano uno scopo informativo (ci raccontavano
la vita e le azioni), ma soprattutto formativo (le vite diventavano exempla di ordine morale, in
quanto le azioni di questi personaggi erano un prodotto dell’ethos del personaggio stesso). In
età ellenistica, il genere biografico si diffonde seguendo vari filoni, assumendo sempre più un
valore educativo-morale (in questo filone ci sono Cornelio Nepote nel mondo latino e
Plutarco nel mondo greco). Nel mondo latino le origine vengono ricondotte ai carmina
triumphalia (commissionati dalle gentes in onore di Generali che celebravano il trionfo a
Roma) e gli elogia funebra (accessibili solo dalle testimonianze epigrafiche sui sarcofagi di
epoca antica). La società romana, diversamente da quella greca, valorizzò nel racconto della
storia alcune figure di personaggi (i greci invece privilegiavano la storia eroica e pensavano
che la storia fosse l’azione di personaggi eroici). Anche Tito Livio inserisce un elevato
numero di biografie (spesso i ritratti paradossali, come quello di Annibale o quello di Catilina
in Sallustio), ma anche il profilo etico, mettendo a fuoco i personaggi che diventavano esempi
da seguire o da respingere. Affianco al filone ellenistico-peripatetico, ci fu un filone
alessandrino, caratterizzato da erudizione e aneddotica (si faceva sfoggio della propria
dottrina: l’esponente principale è Svetonio, che inserisce eventi secondari, particolari che
nessuno conoscenza e scandalistici, e che, insieme a Tacito, inquadrerà il suo focus
all’interno dell’arco cronologico della vita del princeps, non seguendo la successione
annalistica). Era un genere molto fluido: in queste biografie così diversificate tra loro ci sono
echi di vari generi letterari diversi (encomio, elogio funebre, ecc). Il compito del biografo
antico fu quello di mantenere la traccia che i personaggi avevano lasciato nella loro epoca,
consegnando l’opera alla memoria dei posteri. All’inizio del ‘900 Friedrich Leo scrisse
un’opera sul genere biografico e fece una distinzione tra la biografia plutarchea (ethos e
praxeis strettamente legate ed interdipendenti: fu impiegato soprattutto per personaggi e
uomini politici, ed era organizzata per tempora, seguendo cronologicamente la vita a scopo
etico e morale) e la biografia svetoniana (ethos e praxeis sono rigorosamente distinte:
organizzata in species e con un mero scopo informativo). In realtà questa teoria non può
essere applicata a Plutarco perché le biografie di provenienza peripatetica riguardano
soprattutto letterati (e non uomini politici); in Plutarco questo dosaggio di ethos e praxeis
varia da una biografia all’altra, a seconda dell’importanza e del ruolo che il personaggio ha
avuto nella storia (la Vita di Focione ad esempio è piena di aneddoti).

DECIMO GIUNIO GIOVENALE

Abbiamo poche notizie biografiche di Giovenale, che ci vengono dai suoi scritti o dagli
epigrammi di Marziale. Nacque ad Aquino dopo il 50 a.C.; fu educato da un ricco liberto (o
suo padre o un ricco protettore), ed ebbe una buona educazione retorica (nella prima delle 16
Satire ce lo dice). Conobbe Stazio, fu forse allievo di Quintiliano e amico di Marziale, poco
più vecchio di lui. Esercito probabilmente l’avvocatura, con modeste soddisfazioni
economiche, adattandosi alla condizione di cliens. Anche lui, come Marziale, non riuscì a
trovare un mecenate (Satira 7, in cui lamenta la triste condizione degli eventuali del tempo).
Ebbe una casa a Roma e due poderi (Tivoli e Aquino). Marziale lo definisce fecundus e
inquietus, alludendo forse alla sua condizione di cliente costretto a mendicare l’asporto dal
padrone. Non abbiamo cenni relativi all’attività poetica: Giovenale forse iniziò a scrivere in
età matura (dopo il 100). Una biografia antica ci dice che ad 80 anni, all’età di Adriano, per
aver offeso un pantomimo dell’imperatore, fu mandato in Egitto, dove morì di depressione
(nelle ultime due Satire ci sono accenni: nella quindicesima c’è un commento su un episodio
di cannibalismo a cui ha assistito, e nella sedicesima vengono trattati temi relativi alla vita
militare). Le Satire sono 16, per un totale di circa 4000 esametri; sono disposte in 5 libri:
1) Dalla Prima alla Quinta;
2) Sesta Satira, filippica contro le donne, che avevano perso la pudicizia;
3) Dalla Settima alla Nona;
4) Dalla Decima alla Dodicesima;
5) Dalla Tredicesima alla Sedicesima.
Le sue satire contengono un’aspra critica a tappeto nei confronti di tutti gli aspetti della città
cosmopolita, in cui si sono smarriti i valori antichi (società degradata): si scaglia contro tutte
le tipologie umane (donne, ladri, stranieri, in primis greci, omosessuali: un atteggiamento da
leghista ante litteram). In questa società non c’è posto per un intellettuale di sani principi
come lui, che è costretto a vivere la vita del cliens umiliato dai padroni ricchi e crudeli, che
umiliano con sadismo persone come lui. Si inserisce all’interno di una tradizione iniziata da
Lucilio e continuata da Orazio e Persio: anche Giovenale esprime le dichiarazioni di poetica
all’inizio della prima satira. Si dichiara stanco ed annoiato a morte di dover ascoltare i poeti
del tempo, e quindi questa poesia epico-mitologica o tragica, completamente lontana dal
mondo e dall’uomo contemporaneo. Sono poeti che si sono formati alle scuole di
declamazione attraverso susoriae, controversiae e recitationes, e quindi sono poeti con cui lui
è stato a contatto. Per vendicarsi delle torture di queste scuole, indica le motivazioni che lo
hanno portato ad utilizzare contenuti e mezzi espressivi completamente diversi da quelli
appresi a scuola: vuole immergersi contro questa letteratura che non toccava nessun aspetto
della realtà, immergendosi nel pieno della vita e cogliere tutti gli aspetti di questo farrago
(impasto), i cui attori sono gli uomini comuni coi loro sentimenti corrotti (per questo esprime
duramente il carattere della nuova società, in cui agiscono donne che fanno le gladiatrici,
schiavi che sono diventati potenti e ricchi). Giovenale conclude che dinanzi ad uno spettacolo
simile, sarebbe uno scandalo non scrivere satire: non si può rimanere indifferenti davanti a
questo spettacolo di aberrazione e corruzione. Per queste ragioni, ha optato per la satira. In
realtà questo verum che vuole descrivere non coincide col quotidiano: dipende solo da una
realtà esagerata, in cui agiscono solo esseri quasi mostruosi (non è un’analisi propriamente
realistica). Questa realtà terribile descritta grida vendetta e sdegno: l’indignatio (al posto del
lusus, usato da Orazio e Marziale, ovvero un atteggiamento bonario) è la molla che lo ha
portato a scrivere le sue satire e che sarà la cifra stilistica che caratterizza la sua poesia (sarà
la satira a fargli esporre questo contenuto). Sarà anche lo stile con cui esprimerà i suoi
contenuti, sarà il contenuto stesso e sarà il mezzo attraverso cui esporrà il contenuto. Il
comportamento umano negli aspetti più deteriori sullo sfondo di una Roma condotta è il suo
tema principale, che lo avvicina a Persio (a differenza del quale non si propone di educare e
correggere, ma denunciare i vizi e la calpestazione dei valori: è più dunque vicino a Lucilio).
La fase più importante di questo moralismo di Giovenale è rappresentata nelle prime sette
satire, caratterizzate da una visione negativa della realtà: in esse inaugura la satira moderna,
pronunciando questo attacco impietoso contro i principali aspetti della società
contemporanea, denunciando proprio il marcio. La pietra di paragone per il confronto tra la
società contemporanea e quella passata è il mos maiorum (lo era stato in tutti i moralisti, i
laudatores temporis acti), che però non viene descritto sempre, ma semplicemente evocato
(basta una parola o un piccolo commento per capire che i suoi valori erano del mos maiorum,
che non viene citato poiché tutti lo conoscevano). Tende a mettere in discussione non tanto la
dimensione individuale, quanto le ripercussioni sulla società (ad esempio non biasima il
possesso delle ricchezze, che per il saggio stoico era assolutamente indifferente in confronto
al fine ultimo dell’uomo, ovvero la virtù, ma era invece importantissimo il disprezzo delle
ricchezze: il ricco avido era un povero e il povero senza desideri un ricco; in Giovenale viene
considerato per le conseguenze sul vivere associato: è un’ingiustizia sociale poiché vi sono
disparità nella distribuzione delle ricchezze. La ricchezza infatti è alla base di comportamenti
negativi di chi la possiede, ed è un elemento di discriminazione sociale. I ricchi sono potenti
ed ingiusti possessori di denaro a causa di azioni indegne, immorali o criminali). Si lega la
condizione del cliens, trattato da Marziale, che aveva spiritosamente descritto gli
inconvenienti della vita del cliens: viene descritta la salutatio, a seguire la giornata umiliata
dei clientes, che spesso si concludeva con un mancato invito a pranzo. È presente anche nella
terza satira, dove l’amico Umbricio diventa narratore di secondo grado e pronuncia un atto di
accusa contro Roma, in cui la sopravvivenza del cliens è danneggiata dagli stranieri e dai
greci, pronti a tutto per un pezzo di pane. Si affianca il tema della profonda avversione per
tutti i popoli dell’oriente, già radicata fin da Catone e consolidata sulla base della convinzione
che la cultura greca avesse messo in discussione i valori del mos maiorum. Per questi motivi
Umbricio si ritira in provincia. La condizione del cliens si ritrova nella quinta satira, dove
viene raccontato il banchetto di Barrone, in cui si sottolinea la diversa distribuzione dei cibi ai
commensali (in base all’importanza). Nei restanti componenti del primo Giovenale, egli
focalizza l’attenzione sugli altri aspetti: nella quarta satira attacca la corte imperiale non
contemporanea, ma racconta un avvenimento sotto l’impero di Domiziano, a cui era stato
regalato un rombo, per la cui cottura la corte non disponeva di una padella tanto grande: il
principe convoca il consilium principis per decidere quale provvedimento prendere per la
cottura del rombo. La seconda e la sesta satira mirano a colpire i mores romani: la seconda si
scaglia contro l’omosessualità maschile; la sesta (661 versi, la più lunga) è una filippica
contro le donne, che hanno tradito l’importante struttura della società romana che era il
matrimonio. La sesta satira è una risposta all’amico Postumo, che vuole sposarsi: Giovenale
dice che è meglio il suicidio; la pudicizia dell’età dell’ora ha cominciato a sparire già nell’età
dell’argento (non è possibile però segregare la donna in casa poiché chi sorveglia i
sorveglianti?): la donna è prepotente (a causa della ricchezza), autoritaria, mascolina, ormai
dedita alle affinità sportive e culturali, maga, particolarmente affascinata per tutto ciò che è
greco. Quando c’erano povertà e paura, c’erano i boni mores; ora invece ci sono mali
mores. Giovenale esalta dunque lo stato repubblicano (contro il principato, avallando i
suoi legami con la tradizione), nato e ingranditosi fino a quando c’erano stati il metus
hostilis e quindi i buoni costumi (parsimonia, pudicizia, ecc..). La settima satira è
complementare a quelle che trattano le condizioni della clientela: tutto è reso più grave
dall’avarizia di ricchi e dall’assenza di mecenati e dal confronto degli alti guadagni dei
campioni sportivi (l’unica speranza è il mecenatismo dell’imperatore, per il quale bisogna
diventare servile). Dopo la settima satira, in cui Giovenale ribadisce la denuncia della
precarietà e delle ristrettezze economiche in cui vivono gli intellettuali del tempo (situazione
aggravata dall’avarizia dei ricchi e dai guadagni degli sportivi), le satire di Giovenale
cambiano un po’ il tono: è come se questa sua forte vis polemica fosse esaurita. Ciò induce
Giovenale a svolgere lo sguardo verso la tradizione del genere satirico, dal quale caratteri
meno rigidi. Nelle ultime satire si stempera la lettura della realtà totalmente negativa e
vengono proposti modelli corretti e positivi. Queste satire contengono i temi moralistici della
diatriba stoico-cinica. Si esaltano, ridimensionata questa descrizione della realtà negativa, i
veri beni (ovvero quelli interiori: la virtù) e si rifiutano quelli esteriori, che sono solo
apparenza e non contribuiscono al raggiungimento della felicità. La ricchezza era stata vista
come fonte di potere spesso ingiusto e criminale, ora invece è fonte di differenziamento
sociale, e dunque un falso bene desiderabile solamente dagli stolti. Queste satire diventano
più pagate e sono indirizzato anche contro l’errore è gli illusi: l’atteggiamento non è più
censorio e giudicante, ma ironico, scherzoso. Adesso all’indignatio si sostituiscono l’ironia è
la derisione degli illusi. L’ottava satira è incentrata sull’idea che l’unica vera nobiltà è la
virtù: si rivolge a Pontico, un nobile, e Giovenale nega ogni valore alla nobiltà di nascita che
non sia sostenuto dalla nascita (le statue degli avi non valgono nulla se i successori vivono tra
i vizi: un nobile deve essere virtuoso). La nona satira è una conversazione con Nevolo, un
cliens corrotto, deluso e bollato come adultero e amante del ricco Varrone. È composta di 150
versi ed è in forma dialogica. Nevolo si lamenta del suo mestiere: Giovenale immagina di
incontrarlo per strada e di chiedergli perché avesse quella faccia da funerale (perché ora è
così trasandato e dimagrito? Prima era uno degli adultero più noti di Roma). Nevolo dice di
aver scelto un mestiere infame e nulla è più mostruoso di un effeminato avaro (i suoi clienti,
che sono diventati braccino corto). Chiede al poeta di non confessare cosa gli sta dicendo
perché rischierebbe di essere licenziato, ma Giovenale dice che i ricchi non possono avere
segreti perché i servi sono portati a svelarli. La decima satira tratta di quale dovrebbe essere
l’oggetto delle preghiere degli uomini (come aveva fatto Persio), mostrando la stoltezza delle
aspirazioni umane attraverso le richieste delle preghiere degli uomini. L’unica cosa che
dovrebbe chiedere è mens sana in corpore sano, obiettivo che possiamo raggiungere da soli
se cammineremo sempre sul sentiero della virtù. L’undicesima satira tratta della ghiottoneria
e Giovenale riprende il tema del giusto mezzo, riprendendo Orazio e invitando l’amico
Persico a mangiare da lui in campagna: è un’occasione per lamentare il peccato di gola. Le
cene elaborate devono essere lasciate a chi ha denaro, ma ci sono persone che, impoverite,
cercano ancora di mangiare cibi pregiati in piatti di poca ricchezza. Nella dodicesima satira
viene espressa l’autenticità del suo sentimento di amicizia, contrapposto ai falsi amici che
circondato le persone ricche in prospettiva di diventare i loro eredi. L’amico Catullo ha perso
tutti i suoi beni, ma la sua nave era riuscita ad arrivare al porto di Ostia: Giovenale dice di
voler compiere un sacrificio per ringraziare la divinità di averlo fatto tornare sano e salvo a
casa. Sottolinea che questo suo ringraziamento non è legato alla speranza di ereditare
qualcosa da Catullo, che ha già tre figli, ma il piacere di aver recuperato vivo il suo amico:
nessuno riesce a capire i sentimenti dell’amicizia. La tredicesima satira è rivolta ad un amico
Cautino che è stato truffato: è una satira dello scherno, in cui schernisce l’ingenuità
dell’amico che ha prestato 10.000 sesterzi ad uno senza testimoni. Non deve vendicarsi
perché prima o poi questo sarà punito: la Pizia ha detto che basta pensare al male affinché sia
fatto. La massima più famosa della quattordicesima satira è maxima debetur puero
reverentia: bisogna educare col migliore esempio i figli (non bisogna litigare davanti ai figli,
ecc perché imitano, come già ha detto Quintiliano). È indirizzato contro Fuscino e lamenta il
cattivo esempio che i genitori danno ai figli: i vizi non devono essere trasmessi anche ai figli.
Si scaglia principalmente contro gli ebrei: riporta tutti i pregiudizi già emersi ad Alessandria
(si sottolinea la separatezza degli ebrei, che non si sono mai integrati nella società romana per
osservare i loro riti e le loro leggi). La quindicesima è dedicata ad un atto di cannibalismo in
Egitto (potrebbe avallare un atto biografico) nell’anno del consolato di Rufo (127). La
sedicesima satira, incompiuta, è dedicata a Gallio e il poeta elenca i privilegi di un soldato:
quando infrangono la legge vengono giudicati da un tribunale militare (chi oserebbe
testimoniare contro un soldato presentandosi davanti ad un officiale in un campo militare?
Nessuno); i civili devono attendere che la causa venga istruita in tribunale, i soldati invece
ottengono subito giustizia. Il soldato ha diritto di alienare il proprio patrimonio da quello
paterno e, ancora col padre in vita, si poteva sottrarre dalla patria potestas, potendo far
testamento prima che il padre morisse (sarà il padre a farsi la corte per diventare suo erede).
La distinzione tra i due Giovenale non ci deve portare a giudicarne uno più autentico
dell’altro. Giovenale ha questa varietà di tono nelle satire e ha aperto la strada alla satira
moderna, dal momento che, come Persio, abbandona la satira come genere di divertimento ed
esprime una visione deformata e iperbolicamente negativa del mondo. Il rifiuto di utilizzare
la poesia per raccontare la poesia porta Giovenale a proporre una visione distorta della realtà,
che fa rappresentare i comportamenti umani esasperando i toni realistici e con una
deformazione espressionistica dei personaggi, che diventano simili ai personaggi dei miti. La
realtà eccessiva viene descritta con i toni tipici dell’epos, e non con il sermon medio della
conversazione urbana; le satire di Giovenale ora utilizzano uno stile epico ed elevato, ora uno
più vicino all’oratoria; vengono utilizzate perifrasi, paradossi, iperboli, sentenze così efficaci
da diventare proverbiali ecc.

PUBLIO CORNELIO TACITO


BIOGRAFIA
È ritenuto il più grande storico latino. Raccoglie e reinterpreta in maniera originale la
tradizione storiografica latina. Dopo di lui la storiografia sarà soppiantata dalla biografia
(Svetonio), ovviamente con uno sviluppo legato all’accertamento politico dell'imperatore. Le
notizie biografiche sono incerte: lo sono l’anno di nascita, il luogo di nascita e il praenomen.
Probabilmente nacque tra il 54 e il 58 (poco prima di Plinio, il quale definisce Tacito quasi
pari a sé per età e posizione sociale, precisando che quando per adoluscendulus, Tacito era
già famoso come oratore). Ci sono due ipotesi sul luogo di origine: Terni (l’imperatore
successivo Marco Claudio Tacito era nativo di Terni e diceva di essere suo discendente) o
dalla Gallia Cisalpina o Narbonese, poiché in quelle zone era molto presente il cognomen
Tacitus. Elementi certi sono il matrimonio attorno al 78 con Giulia Agricola, figlia di Gneo
Giulio Agricola, console nel 77. La sua corriere politica, insieme ad aver sposato la figlia di
un console, ci indica che fosse di condizione piuttosto elevata. Alla sua carriera politica
accenna lui stesso nel proemio delle Historiae, con un certo imbarazzo quando dice che fu
durante la dinastia dei Flavi (il massimo della sua carriera politica fu sotto Domiziano;
nell’88 ottenne la pretura, sotto Nerva divenne consul suffectus). Intorno al 112 ebbe il
governatorato in Asia. Morì verso il 120 sotto il principato di Adriano. La prima opera fu una
monografia, l’Agricola: Tacito inizia a scrivere in età matura, sicuramente dopo la morte di
Domiziano nel 96. È molto importante poiché proprio Tacito lega la sua attività letteraria
all’esperienza negativa della tirannide di Domiziano (da cui però non aveva ricevuto nessun
danno). È una biografia encomiastica/elogiativa del suocero e fu pubblicata nel 98 (sotto
Traiano): è una laudatio funebris, una sorta di epitaffio, lode del suocero morto. Iniziò a
scriverla nel 96: comprende 43 capitoli. La lode è preceduta da 3 capitoli, ovvero la
prefazione, che serve a giustificare l’opera e a presentare sé stesso come scrittore, chiarendo
la sua posizione nei confronti del regime passato ed esponendo i suoi intenti letterari. In
questa prefazione sottolinea la differenza enorme tra presente e passato (tra sé e gli
scrittori antichi: oggi ci si deve giustificare di voler descrivere le azioni memorabili di un
uomo che si è distinto per i suoi meriti. I tempi moderni sono ostili alla celebrazione della
virtù, prima invece la persona che celebrava qualcuno acquisiva fama). Domiziano, con la
soppressione della libertas, aveva impedito di fatto ogni attività letteraria. Solo con la sua
morte e l’avvento della nuova era iniziata da Nerva, “si inizia a respirare”. Tuttavia i rimedi
agiscono più lentamente dei mali: c’è il doloroso rimpianto dei 15 anni perduti del mondo
culturale, anni trascorsi nel silenzio forzato (principato di Domiziano); tuttavia il rimpianto
si unisce al proposito di tramandare il ricordo della passata servitù e la testimonianza
dei temi presenti. Tacito però non celebra un oppositore di Domiziano, ma un uomo
prudente che aveva collaborato con tutti gli imperatori da Nerone a Domiziano: con le sue
qualità di obsequium (obbedienza) e modestas, era arrivato ad essere governatore della
Britannia proprio grazie a Domiziano. Subito dopo, Tacito si accinge a celebrare l’elogio di
Agricola, che era stato convivente col potere che Tacito sta criticando aspramente. Utilizza
due espedienti: presenta Agricola come vittima innocente di Domiziano, sottolineando le
gelosie di Domiziano nei confronti di Agricola per i suoi successi militari, fino a dare
consistenza alle voci che sostenevano l’ostilità di Domiziano, e addirittura il rumor che la
morte di Agricola nel 93, quando aveva solo 53 anni, fosse causata da un veleno
somministrato per volere di Domiziano. Sono rumores che Tacito pone in maniera così abile
da mimetizzarli quasi. Tra le fonti che lui citerà nell'opera, inserisce sempre questi rumores.
Ci si accorge che l’inserimento di questi rumores è messo in un modo tale che favorisca
l'accreditamento come vere le voci che ha sentito qua e là. L’altro espediente è che, di fronte
al problema, tra opporsi ostinatamente o collaborare con un princeps malvagio, sceglie la
seconda possibilità (difendendo il suocero e sé stesso). In tutta l’opera serpeggia questa
polemica indiretta contro gli oppositori del principato e degli storici che li avevano
inutilmente esaltati. Tacito giustifica dicendo che Agricola non cercava una morte gloriosa e
che sotto cattivi principi ci possono essere grandi uomini. Nel delineare la biografia in
ordine cronologico del suocero, Tacito, dopo notizie brevi sulla patria e l’educazione, fa
seguire le tappe della carriera fino al consolato nel 77; contemporaneamente fa quindi
emergere i tratti più importanti della sua personalità: il ritratto procede su due campi
(famiglia e origini, molto brevi, e i tratti più importanti, che sono sicuramente la prontezza
nell’azione, l’attitudine al comando, la prudenza verso i superiori, il senso della misura). Fino
all’84 ebbe il consolato in Britannia, e le sue imprese qui vengono esposte dettagliatamente
anno per anno dopo un excursus geografico e un elenco dei consoli che lo avevano preceduto.
Il racconto incomincia a dilatarsi quando si giunge al settimo e ultimo anno di consolato di
Agricola, e quindi alla sue vittoria contro i Caledoni: il momento più importante è quando
vengono riportati i discorsi ricostruiti in base al principio di verosimiglianza (utilizzato anche
da Tucidide) di due comandanti: Agricola e Calgaco, prima dello scontro finale. Il discorso di
Calgaco riporta le accuse dei romani, definitivi conquistatori, avvitatori, a cui si contrappone
l’orgoglio e la fierezza di chi è riuscito a preservare i propri valori pur essendo lontani
dall’impero romano. I discorsi che contengono accuse contro i romani non sono tanti: queste
accuse erano state già sviscerate da Carneade nel 105, quando aveva sostenuto in una
conferenza le vere ragioni che spingevano Roma a fare le sue conquiste (questo discorso
aveva suscitato scalpore e lo troviamo nel terzo libro del De Re Publica di Cicerone). I
precedenti più illustri sono Cesare, Sallustio e Livio, che avevano dato voce alla propaganda
contro romana: nel capitolo 77 del De Bello Gallico c’è il discorso di Critognato ai suoi
uomini prima della sconfitta decisiva (indica l’insaziabile brama di conquista di Roma). In
comune ha anche il sottolineare l’importanza della resistenza, decisiva per le sorti della
Gallia. La vittoria viene identificata in entrambi i casi come initium libertatis. In Sallustio c’è
il discorso di Giugurta, che esorta Gotolo di Mauritania ad allearsi con i romani (definiti
avidi, insaziabili e dominanti tanto da mettere in ballo anche altre popolazioni). Stessa
aggressività si trova nelle Historiae di Sallustio, nella lettera di Mitridate VII ad Arsace, in
cui Mitridate afferma che l’unica causa che ha spinto Roma a fare guerra è la cupido
profunda imperii et divitiarum. Anche Livio ricorre al topos della lettera di Antioco di Siria a
??’ per dirgli che i romani abbattessero tutti i domini per far prevalere il loro. Degli ultimi 9
anni di vita di Agricola, viene descritto il progressivo aggravarsi del sentimento di gelosia di
Domiziano nei suoi confronti: si dà sempre più peso ai rumores sulla causa della sua morte.
L’opera si conclude, negli ultimi 4 capitoli, con un bilancio complessivo della vita del
defunto: rappresenta il primo esempio di epitaffio e apostrofe che ritroveremo anche nelle
altre sue opere. La biografia di Agricola è particolare perché mancano gli aneddoti e tutta la
vita privata; non c’è neanche il ritratto fisico. La biografia si concentra in modo esclusivo
sull’aspetto pubblico. Presente l’excursus geo-etnografico sulla Britannia e la rassegna di tutti
i consoli precedenti. C’è l’inserimento di discorsi di peso e importanza diverso di Agricola,
che lo avvicinano di più ad un’opera storica (De Catilinae coniuratione). L’elogio finale di
Agricola è più vicino alla prosa e alle opere di Cicerone: è più oratorio che biografico.
Nel 98 (come si deduce da un riferimento al secondo consolato di Traiano) pubblica un’altra
monografia, giunta con due nomi: Alemania (“Germania”) o De origine et situ
germanorum. È uno scritto che si colloca nel solco di una tradizione di opere
geo-etnografiche, a cui appartenevano il De situ Indiae e il De situ et sacris aegyptiorum di
Seneca, non giunte. Queste opere non differivano dai vari excursus delle opere storiografiche
(ad esempio Erodoto nella letteratura greca e anche Tucidide nel parlare dell’archeologia
grecia, in cui descrive il mondo greco nel periodo mitico e storico per affermare che la Guerra
del Peloponneso non si potesse paragonare a nessun’altra guerra del passato; o Cesare quando
parla nel De Bello Gallico, in cui la narrazione inizia con la descrizione della divisione della
Germania, o Sallustio nel Bellum Iugurthinum, in cui un discorso sulla Numidia). Tacito
stesso nell’Agricola ne inserisce uno sui britanni e nelle Historiae sugli ebrei. Quest’opera di
Tacito è particolare perché è uno scritto autonomo e non inserito in un’opera
storiografica: vuole solamente mettere a fuoco la posizione geografica e l’origine dei
Germani. È l’unico scritto non inserito in un’opera storiografica di Tacito e serviva per
divulgare informazioni su un popolo che costituiva un pericolo per Roma. Nel 98
Traiano, in procinto di succedere a Nerva, dimorava sul confine del Reno come legato della
Germania superiore e sempre pronto a riprendere la guerra. Non scrive l’opera per interessi
eruditi, ma con una finalità precisa: leggendo, capiamo il senso di quest’opera. Presenta due
parti: la prima contiene la descrizione complessiva della Germania (ancora indipendente
da Roma) e dei suoi abitanti, mentre la seconda parte contiene una descrizione più specifica
delle popolazioni e dei loro costumi. Quando parla dei confini, sottolinea la separatezza e
ostilità dovuta alle barriere naturali e la mancanza di unità tra le tribù delle varie
popolazioni. Prosegue con la descrizione fisica dei Germani, del clima e dei mores (costumi:
organizzazione politica e militari, la struttura della città, ecc). La seconda parte contiene la
descrizione delle istituzioni delle singole tribù (alcune solo citate, altre trattate
dettagliatamente grazie alle sue fonti: De Bello Gallico di Cesare, unica fonte storiografica
confermata da Tacito stesso). Lo scopo di Cesare era mostrare ai romani che la sua impresa
non era stata indirizzata contro popolazioni senza istituzioni, ma aveva combattuto contro
popolazioni forti, questo per valorizzare l’esito della sua conquista. È probabile che abbia
utilizzato le Guerre Germaniche di Plinio Il Vecchio, che non ci sono giunte; ma che abbia
usato anche fonti orali (resoconti di soldati, mercanti, ecc…). Tacito non sembra mosso da
una curiosità autentica perché il suo punto di riferimento fisso è sempre Roma, con cui
le popolazioni sono sempre confrontate con un atteggiamento ambivalente: mostra una
sincera ammirazione per questi popoli ancora sani moralmente (in possesso di valori morali
simili a quelli dei romani del tempo antico) e sottolinea anche quello che i Germani non
fanno (il confronto avviene indirettamente con Roma: ad esempio non conoscono e non
praticano la limitazione delle nascita, i spettacoli, i banchetti). C’è dunque un sentimento di
ammirazione, ma anche di disprezzo. Lo scopo di quest’opera è visibile quando sottolinea e
valorizza la discordia di questi Germani, la loro incapacità di coalizzarsi contro un nemico
comune, e si augura che questa incapacità duri il più a lungo possibile per la fortuna di Roma
(“se non l’amore per noi, almeno il reciproco odio duri a lungo tra questi popoli, perché se
un destino fatale incombe sul nostro impero, nulla di meglio può offrirci se non la discordia
dei nostri nemici”). Può sembrare una forma di pessimismo per il destino di Roma, ma per
altri invece è realismo: quando i popoli germanici si uniranno, Roma sarà spacciata. Le opere
storiche vere e proprie sono due: le Historiae e gli Annales. Le Historiae sono dedicate alla
dinastia dei Flavi (69-96), ma comprendono anche gli avvenimenti dell’anno dei quattro
imperatori (anno della morte di Nerone). Forse dovevano essere comprese in 14 libri, di cui
ci sono i libri 1-4 e una parte del 5 (fino agli avvenimenti del 69-70). Per noi le Historiae si
interrompono con le elezioni di Vespasiano e la sconfitta di Vitellio. Gli Annales invece che
affrontare la contemporaneità, come sembra aver promesso nell’Agricola, narrano gli
avvenimenti della dinastia giulio-claudia (dalla morte di Augusto a quella di Nerone): Tacito
afferma che il punto da cui egli parte traeva origine dal passato, e quindi doveva analizzare la
storia del principato. Gli Annales erano forse compresi in 16 libri, di cui ci rimangono i libri
1-6 (incentrati sulla figura di Tiberio) e i libri 11-16 (relativo dal 47 al 68). Queste due opere
hanno in comune lo schema annalistico (raccontano gli anni anno per anno: ciò inserisce
Tacito nella tradizione partita dai sacerdoti massimi), il racconto prima delle vicende
interne e poi di quelle esterne. Le Historiae iniziano con una prefazione, in cui da una parte
c’è l’elogio degli storici repubblicani, dall’altra c’è la condanna degli storici successivi,
inaffidabili per servilismo o ostili a causa di pregiudizi. Il suo obiettivo è produrre una
narrazione storica onesta e obiettiva, e non viziata dai pregiudizi. A questa dichiarazione
di intenti segue l’argomento, scelto in base all’importanza e all’eccezionalità in negativo
(Erodoto scelse di parlare della guerra tra greci e barbari perché la riteneva un momento in
cui entrambe le popolazioni avevano compiuto imprese degne di essere ricordate; Tucidide
motiva la scelta dicendo che la guerra del Peloponneso è stata la guerra più impegnativa e
senza uguali nella storia; Tacito motiva la sua scelta dicendo che questo periodo ha avuto
un’importanza e un’eccezionalità in negativo che merita di essere conosciuto). Il periodo è
quello dal 69 al 96: sono anni che sono stati scanditi da una lunga ed impressionante serie di
atrocità (delitti, tradimenti, scandali, congiure), che gli fanno dire che gli dei si sono
preoccupati più della loro posizione che della loro salvezza. Si analizza poi il 69 e le
motivazioni che portarono alla guerra civile. Nei primi tre libri gli avvenimenti vengono
legati a tre luoghi (Roma, Germania e Oriente): a Roma agiva Otone, e poi Galba, in
Germania Vitellio e in Oriente Vespasiano. A Roma Galba, succeduto a Augusto, designa
Visone come successore; Galba organizza un colpo di stato e diventa imperatore. In
Germania scoppia una rivolta capeggiata da Vitellio contro Otone, e Vitellio vince (Otone si
uccide), e marcia su Roma mostrando la sua inciviltà. In Oriente Vespasiano viene acclamato
imperatore da tutte le truppe in Oriente, che mandate in Italia, sconfiggono i seguaci di
Vitellio, e, una volta estinte le resistenze, il popolo di Roma presenzia la morte di Vitellio
come uno spettacolo di circo. Nel quarto libro viene raccontato il consolidamento del regime
dei Flavi ad opera di Muciano, legato di Vespasiano. C’è poi la rivolta di Giulio Civile, capo
dei Batavi in Germania. Nella parte conservata del quinto libro, vengono raccontati i
preparativi per l’assedio di Gerusalemme ad opera di Tito, figlio e futuro successore di
Vespasiano, con un excursus sui giudei, che lascia trasparire una grande ostilità contro questo
popolo. Accanto a questo excursus, c’è la descrizione della fine della rivolta di Giulio Civile,
che sembra essere vittoriosa per Roma. Tacito racconta per blocchi narrativi paralleli (prima
Roma, poi Germania e poi Oriente). È evidente un andamento asimmetrico, con un forte
rallentamento dell’esposizione, soprattutto nei primi tre libri, dove il tutto viene narrato con
toni drammatici e discorsi diretti.
Gli Annales si aprono con un proemio breve che contiene un breve riassunto della storia
delle istituzioni di Roma dalla monarchia alla repubblica e al principato. C’è poi un
nuovo giudizio di condanna degli storici del principato, caratterizzato da adulazione o
odio dei potenti. Viene indicato poi l’argomento: gli ultimi anni del principato di Augusto, il
principato di Tiberio e gli avvenimenti successivi. Tacito inizia a raccontare il principato di
Tiberio, distinti in due parti per tre libri ciascuna: questo racconto viene distribuito in due
momenti, ciascuno dei quali occupa tre libri (sono gli anni dal 14 al 22, in cui è affiancato da
Germanico, che riesce a sedare le rivolte in Pannonia e in Germania, provocando la gelosia di
Tiberio, al quale viene addebitata la morte per avvelenamento secondo i rumores). La
seconda parte tratta gli anni dal 23 al 27, in cui Tiberio viene affiancato dal prefetto del
pretorio Seiano, malvagio, corrotto e pericoloso, a cui Tiberio lasciò per lungo tempo grande
potere. Sembra voler sostenere le mire ambiziose di Seiano, quando appunto si ritira prima
prima in Campania e poi a Capri. Seiano cerca allora di scalzare Tiberio, il quale si
abbandona ad ogni sorta di crudeltà dopo la condanna di Seiano. Morto Seiano, Tiberio inizia
a dare segni di follia. Termina con un epitaffio al contrario (nell’Agricola c’era l’epitaffio
celebrativo e riassuntivo della figura del suocero), in cui Tacito ripercorre tutte le tappe della
degenerazione del comportamento di Tiberio, facendo affiorare la sua natura viziosa e
crudele. I libri 11-12 trattano la seconda parte del regno di Claudio (47-54): Claudio è un
principe debole, incapace e alla mercé delle mogli. Nella descrizione del principato di
Claudio, le vicende private prevalgono anche sugli atti di governo positivi (Tacito diventa più
biografo pettegolo che storico). Gli ultimi libri trattano il principato di Nerone, utilizzando lo
stesso schema utilizzato per Tiberio: segue l’evoluzione crudele della sua indole. I due
elementi principato di questa evoluzione sono sul piano morale la morte della madre, in
seguito alla quale Nerone dà inizio alle sue sfrenatezze, e la morte di Burro nel 62, a cui
segue il ritiro di Seneca e l’ascesa di Tigellino (da questo momento la rimozione fisica degli
oppositori diventa una pratica consueta). Tutto ciò porta alla rivolta di Gaio Calpurnio Pisone,
smascherata da un servo e seguita da una serie di condanne e morti. Le differenze con le
Historiae sono: l’accelerazione del racconto, l’utilizzo di blocchi narrativi (ogni blocco
narrativo corrisponde al regno di un singolo princeps, ma i vari blocchi sono visibili) e il
fatto che gli imperatori siano affiancati da numerosi personaggi, inquadrati per le azioni
che hanno condizionato o interferito con l’agiredel principe.

IDEA DELLA STORIA DI TACITO È IL METODO UTILIZZATO


Tacito manifesta di accettare sul piano storiografico tutti i principi fissati dalla tradizione
storica latina, in cui tutti fanno professione di imparazialità e autenticità dei fatti narrati,
che Tacito afferma di seguire. Il cercare di ricostruire in modo oggettivo gli eventi è
confermato dalla sua scrupolosità e dal suo citare le fonti scritte e orali. Anche se
l’imparzialità e l’autenticità sono principi che troviamo nelle prefazioni di entrambe le opere,
questi principi sono utilizzati in modo particolare: lo scrupolo di registrare tutte le versioni di
un fatto, anche i rumores, rende il racconto ambiguo e condiziona notevolmente
un’interpretazione dei fatti asettica. In linea con la tradizione, non sfugge al moralismo e ai
severi giudizi di condanna dei personaggi che cita. È molto ostile nei confronti degli
imperatori perché ha utilizzato fonti filo-senatorie, scartando le fonti storiografiche
filo-imperiali. Emerge una concezione molto pessimistica della natura umana, che lo porta ad
accreditare di ogni atto umano sempre le motivazioni meno nobili (oggi lo definiremmo un
complottista). Non ha molta fiducia nella natura umana. Se ci sono due fonti che hanno
prodotto una decisione, lui sceglie sempre la peggiore, o comunque c’è sempre un retro
pensiero (“ha agito così ma voleva fare..”). L’impoverimento della sua opera rispetto ai
predecessori è causato dall’impoverimento politico a partire dal principato. Il suo compito è il
cercare le cause piccole e spesso trascurate da cui si generano grandi avvenimenti. Non sono i
grandi avvenimenti al centro del racconto, ma lo scadimento dei valori, gli intrighi di corte e
le lotte per il potere. Tacito focalizza la sua indagine sul declino dei valori morali nella
politica, esasperando il moralismo di Sallustio e Livio. Il principato diventa quindi causa ed
effetto della decadenza morale, politica ed intellettuale di Roma e della classe dirigente,
sempre più incline all’adulazione e al servilismo verso il princeps. È sottolineata la difficoltà
nei rapporti con lo Stato e la difficile esistenza di un princeps che esegua veramente il suo
compito. È convinto che le libertà repubblicane si possano rimpiangere, ma non resuscitare. Il
principato è un processo irreversibile, ma Tacito non riesce ad aderirvi perché mette in luce
solo gli aspetti negativi dell’operato dei principi. Tacito non rinuncia a descrive con ferocia e
aggressività la realtà rappresentata. Il suo modo di realizzare la realtà, ritenuta il prodotto
delle azioni umani e non del divino, gli fa porre in primo piano il personaggio da cui
dipendono i fatti che racconta (come già Sallustio): la storia di Tacito si avvicina molto alla
biografia, da cui si allontana perché nei ritratti dei principi vengono esclusi i fatti futili e non
c’è la distinzione tra pubblico e privato dei suoi personaggi. L’attenzione all’individuo lo
porta ad analizzare le passioni che muovono l’agire umano: la brama di potere (potentiae
cupido), l’invidia è la paura. C’è una grande analisi psicologica dell’individuo, che si avvale
di due espedienti narrativi: la tecnica del ritratto morale, non fisico, che compare subito o
viene posticipato al momento della morte (epitaffio). Tacito è attratto dai personaggi misti,
contraddittori e che presentano qualità opposte fra loro e apparentemente inconciliabili. A
movimentare l’azione ci sono le descrizioni di molte morti tragiche, ora crudeli (Vitellio) ora
nobili (Otone o Seneca), e i racconti di supplizi che producono orrore per come la vittima
viene straziata, la descrizione dei mutamenti rapidi del fato di una persona (come Seiano). Lo
stile da una parte rispecchia la drammaticità di ciò che racconta, dall’altra utilizza elementi
tratti dalla tradizione (descrizione dei luoghi sul modello di Livio e il preferire i termini rari e
arcaismi sul modello di Sallustio, nelle espressioni metaforiche ci sono Virgilio e Lucano),
caratteristici dello stile contemporaneo e anche scelta personale. Il linguaggio è sicuramente
elevato. La caratteristica principale è la brevitas: il periodo è ellittico, ancora più di Sallustio.
Ci sono tante frasi senza verbo, asindeti, zeugmi, infiniti descrittivi, participi (spesso
nell’ablativo assoluto non c’è il sostantivo), e la variatio. Il periodare è spezzettato, quasi che
Tacito voglia dire che non tutto si può dare per scontato. C’è spesso l’uso della sententia, che
riassume o che esprime un commento sintetico e inatteso.

Il Dialogus de oratoribus non è un’opera storiografica ed è di dubbia attribuzione. La scena


del dialogo è posta nel 75, come si deduce in un passo in cui si dice che Vespasiano era al
potere da 6 anni. Si pensa sia stata composta nel 102, anno del consolato di Fabio Giusto, a
cui è dedicata. Il tema è la decadenza dell’eloquenza: Tacito opta per il dialogo, che gli
permetteva di mettere a confronto le diverse opinioni, allargando il discorso anche al
confronto tra oratoria e poesia. L’ambientazione ricorda il De oratore: il dialogo si svolge tra
personaggi eloquentissimi. Marco Apro e Giulio II, i più noti avvocati del tempo, che vanno
a trovare Curiazio Materno, ed senatore che ha deciso di dedicarsi alla poesia tragica. Apro
rimprovera a Materno l’aver lasciato l’oratoria per dedicarsi alla poesia: questo rimprovero da
origine al primo tema (confronto tra oratoria e poesia). L’arrivo di Lipsiano Messalla
permette di far cadere il discorso sulle differenze tra oratoria antica e moderna. Apro è
l’unico difensore dell'oratoria contemporanea: nel presente non c’è decadenza, ma evoluzione
e trasformazione dell’eloquenza. Nel presente occorre uno stile più agile, ricco di sentenze e
in grado di destare l’interesse e il divertimento di un pubblico diverso da quello di Cicerone,
che al tempo era stato un innovatore e aveva ricevuto critiche. Messalla dice che bisogna
parlare di decadenza, le cui cause sono la negligenza dei genitori nell'educare i figli, il livello
scadente delle scuole e la futilità dei temi delle orazioni (stesse cause di Quintiliano, che
riporta a quello che già Seneca Padre e Petronio avevano indicato). Materno fornisce la sua
spiegazione, che è politica: l’oratoria viene paragonata ad una fiamma, che per bruciare deve
essere alimentata. In età repubblicana era alimentata dai dibattiti. La perdita della libertà
politica ha prodotto la decadenza dell’eloquenza. È la stessa posizione dell’Anonimo del
Sublime. Materno attenua la sua posizione affermando che all’eloquenza bella delle guerre
civili è preferibile la brutta eloquenza della pace. In chi si riconosce Tacito? Molti dicono
Materno, in quanto la spiegazione politica e la giustificazione finale del principato
rispecchiano il profilo di Tacito. Però materno ha abbandonato l’oratoria per difendere la
poesia, ma Tacito ha scelto la storiografia. Apro difende l’oratoria anti-ciceroniana, che
rispecchia Seneca e quindi Tacito stesso. Ogni personaggio riporta qualcosa di Tacito.

LUCIO APULEIO MADAURENSE

È un esponente di spicco della cultura diffusa nell’impero romano nel II secolo: la seconda
sofistica, diffusasi soprattutto in lingua greca, ma che nella parte occidentale dell’impero fu
perlopiù bilingue (anche Apuleio scrive in greco). Fu chiamata così da Filostrato, il quale, per
distinguerla dalla prima, chiama alcuni scrittori della sua epoca neosofisti: le due sofisti che
hanno in comune solo l’uso della parola, ma la prima aveva anche motivazioni di carattere
filosofico (i primi portarono alla relativizzazione dei valori, i secondi furono dei cultori della
parola nel momento in cui la parola non aveva più lo stesso valore: l’oratoria aveva ora dei
luoghi specifici in cui veniva impiegata). Nel II secolo l’oratoria non ha più quel valore: la
lingua viene impiegata non nel dibattito politico (a decidere è l’imperatore, al massimo
affiancato dal consilium principis): sopravvive l’oratoria epidittica perché i discorsi elogiativi
ci sono sempre, anche se secondo molti c’era stata una decadenza (per Tacito una
trasformazione). Paradossalmente, nell’epoca in cui l’oratoria aveva meno funzioni pratiche,
viene coltivata molto perché la formazione dei giovani avveniva nelle scuole di oratoria,
diventando materia di insegnamento. Alcuni diventavano anche maestri o si esibivano in
alcune performance in cui faceva conoscere ad altri le proprie abilità, chiedendo di poter
improvvisare il discorso sugli avvenimenti più disparati e futili, ma che suscitavano il diletto
del pubblico: queste persone furono chiamate neosofisti. In Grecia Luciano è un neosofista,
anche se in lui c’è una critica ed un approfondimento maggiore: si stacca dall'oratoria fine a
se stessa. Amavano spesso definirsi filosofi, perché spesso erano cultori di questa disciplina,
e non perché erano ideatori di nuove dottrine. Percepivano la filosofia come sapienza a tutto
campo (capacità di muoversi nei vari campi del sapere), ed era essenziale per supportare le
loro performance. Nelle Metamorfosi, o L'asino d’oro, identificandosi in modo esplicito con
il protagonista, Apuleio dichiara di essere stato iniziato ai misteri di Iside. Invece
nell’Apologia dichiara di essere stato iniziato a diverse religioni, miti e cerimonie. Nei
Florida dichiara di aver bevuto ad Atene da molte coppe (poesia, geometria, musica, filosofia
universale, ecc: di aver coltivato le nove muse). Questa sua curiositas sembra realizzata per
far apprezzare di più le sue conferenze e soddisfare di più il pubblico. Conosceva i gusti del
pubblico e lo catturava con la sua ambiguità: nei suoi discorsi bilancia lo scherzo è l’ironia
con la serietà, e quindi propone racconti che ora appagano la curiosità ora spaventano chi
ascolta questi racconti, i quale si crede fossero veri. I dati biografici ci provengono da una sua
opera, il De Magia o Apologia, in cui Apuleio si difende dall’accusa di magia attentata nel
158-159. Nacque a Madaura (dell’odierna Algeria) intorno al 120. Studio a Cartagine ed
Atene. Viaggio molto e probabilmente fu anche a Roma, di cui cita alcuni luoghi. Ci dice di
essere stato iniziato a numerosi culti misterici. Svolse l’attività tipica dell’epoca, diventando
conferenziere itinerante per far conferenza della sua oratoria epidittica. Prima di essere
accusato di magia, Apuleio si descrive in viaggio per Alessandria, proveniente da non si sa
dove, e, stanco, si ferma ad Oea (Tripoli), dove ritrova il vecchio amico Ponziano, che era
stato suo compagno di studi ad Atene. Ponziano lo persuade a trasferirsi a casa sua, dove
rimase per un po’ di tempo. Dopo un po’ sposò Pudentilla, madre di Ponziano. Pudentilla
morì improvvisamente e i suoi parenti attentano un’accusa di magia ad Apuleio, accusato di
aver usato la magia per averle fatto un incantesimo per farla innamorare e rubargli i soldi. A
Sabadra Claudio Massimo esercitò la giustizia, e Apuleio, che si destreggiò bene, forse vinse
la causa perché continuò la carriera di oratore ed ottenne onori (sacerdos provinciale, statua).
Morì dopo il 170, ma prima del 190.
Il De Magia, o Apologia, è l’unica orazione giudiziaria di autodifesa che ci è giunta dall’età
imperiale, sicuramente rimaneggiata da Apuleio per la pubblicazione. Nella prima parte
sottolinea di essere stato costretto a trattare argomenti ridicoli, la differenza tra lui e il giudice
Claudio Massimo (con cui aveva in comune l’onestà morale: è una sorta di captatio
benevolentiae) e gli accusatori. Poi confuta le accuse secondarie degli avversarie, che
secondo lui sono scaturite dal fraintendimento di alcuni suoi atteggiamenti (l’aver scritto
poesie d’amore, il fare uso del dentifricio e dello specchio, di essere povero e di aver circuito
la vedova per interesse. Dal capitolo 25 inizia la confutazione dell’accusa di magia, e lo fa
differenziando la magia di bassa lega che lui non conosce con una magia nobile, che è da lui
posseduta e legata al suo essere filosofo, e quindi in una familiarità con gli dei, ma che non
gli dava l’opportunità di influire sulle cose umane, ma che lo rendeva superiore agli altri
uomini (come disse Platone parlando dei demoni): si prendente come il filosofo-mago.
L’opera termina con la lettura del testamento di Pudentilla, che nominò ereditario il figlio
Pudente, sopravvissuto a Ponziano. È anche un’orazione epidittica auto-elogiativa della
cultura filosofica e scientifica di Apuleio, che era alla base della sua professione di retore. In
questo autoelogio Apuleio cita le opere di Platone e Aristotele, i detti memorabili di filosofi,
aneddoti morali, i nomi delle donne amate da Catullo (è lui a dirci che in realtà Lesbia era
uno pseudonimo). Il modello è sicuramente Cicerone nel Pro Caelio, al cui stile aggiunge
tutti i virtuosismi appresi alle scuole di retorica. Florida era un’antologia: il nome viene da
anthos logos, ovvero un florilegium, che era la selezione di testi ritenuti più importanti di
altri, il fior fiore. Sono 23 estratti di conferenze tenute da Apuleio, che mettevano in
evidenza l’atteggiamento esibizionistico di Apuleio, che sa prendere spunto da ogni cosa,
l’abilità poetica e la sua grande cultura. Ha scritto anche opere filosofiche che non vanno
intese come opere in cui ha esposto una dottrina nuova, ma come opere in cui emerge la
sua passione per questa materia: il De deo Socratis (una conferenza di argomento
filosofico in cui parla del demone di Socrate; prendendo spunto, espone la dottrina platonica
dei demoni, intesi come mediatori tra mondo divino e umano, che si legge nel Simposio di
Platone) e due trattati: De Platone et eius dogmate (divulgò il pensiero di Platone in
Occidente durante il Medioevo, prima che venisse scoperto il codice platonico) e il De
Mundo (traduzione latina di un’opera greca anonima forse di Aristotele, ma forse una
falsificazione). L’altro titolo delle Metamorfosi è L’asino d’oro (d’oro per il successo
straordinario che riscosse: è un titolo riscontrato per la prima volta in Sant’Agostino: fu il
nome con cui si indicava il libro nel Rinascimento). Riscoperto Platone, la sua fama fu legata
a questo romanzo. Sono un romanzo in 11 libri che presenta notevoli somiglianze con Lucio,
o L’asino, conservata con le opere di Luciano di Samosata, della cui autenticità di discute
ancora (si parla di Pseudo-Luciano). È nata una questione: ci sono tre opere con lo stesso
argomento (l’altra è un’opera è Lucio Di Patre, che non ci è giunta). Quale è stata la fonte?
Chi ha scritto prima? Chi dopo? La questione è irrisolta: Apuleio e Pseudo-Luciano derivano
entrambi da Lucio di Patre; Apuleio ha ispirato Lucio Di Patre e quindi di Pseudo-Luciano;
Apuleio ha ampliato il romanzo pseudo-lucianeo. L’opera di Luciano è più breve e lineare
nell’intreccio, stilisticamente poco curata (per questo si mette in dubbio la paternità); mentre
il romanzo di Apuleio è più complesso è ha novelle al suo interno, che riporte alle fabulae
milesiae, racconti piacevoli e leggeri di solito di argomento erotico, che erano stati diffusi a
Roma da Cornelio Sisenna nel I secolo a.C. L’opera di Apuleio, per la sua struttura e il suo
messaggio religioso, differisce moltissimo dalle favole milesie, e non aveva alcun intento
didascalico, se non la letteratura d’evasione e di divertimento. Dopo il proemio, c’è la
presentazione del protagonista: Lucio racconta in prima persona (come nel Satyricon, ma qui
non c’è il prosimetro) il viaggio ad Impatta, in Tessaglia, famosa per la presenza di maghe,
dove Lucio viene spinto dalla sua curiositas di imparare la magia. In questo spostamento,
ricorre il tema del viaggio. Prima di arrivare, ha appreso da un compagno di viaggio gli effetti
paurosi della magia (gli racconta una novella). Giunto ad Ipata come ospite da Milone, amico
di famiglia, la cui moglie è una maga, Lucio, tramite la servetta Fotide, ottiene di provare le
arti magiche della padrona. Vede la padrona farsi spalmare un unguento che la trasforma in
gufo; Lucio corteggia la servetta e riesce a farsi spalmare l’unguento. La servetta sbaglia
unguento e Lucio viene mutato in asino e potrà ritornare uomo mangiando le rose, che sono
improcurabili. Cominciano le infinite avventure di Lucio, che ha conservato la sensibilità
umana. Viene catturato da una banda di briganti (che hanno svaligiato la casa di Milone e
avevano bisogno di un asino) e costretto a portare carichi pesantissimi, nel loro rifugio
ascolta la favola di Amore e Psiche (quarto, quinto e buona parte del sesto libro), raccontata
da una vecchia per tenere buona una giovane fanciulla rapita dai briganti. Psiche è la più bella
delle tre figlie di un re, tanto bella che riceve gli apprezzamenti di pretendenti che lei rifiuta.
Questi rifiuti e la sua bellezza suscitano la gelosia di Venere, che vuole punirla. Sarà suo
figlio Amore a farlo innamorare dei peggiori degli uomini. Un oracolo ambiguo di Apollo
aveva spinto il padre di Psiche ad esporre la figlia su una rupe. Arriva Zefiro che la porta via
fino al Palazzo incantato di Amore, dove viene servita da ancelle invisibili perché Eros si
innamora di Psiche e quindi escogita il rapimento. Invece che obbedire ai desideri di Venere,
le fa visita ogni notte e giace con lei, ma lei non dovrà mai vederlo. Psiche vive in questo
castello, ma inizia ad avvertire la solitudine, e quindi chiede ad Amore di poter incontrare le
sue sorelle, che, viste le condizioni della sorella, le inducono il sospetto che lo sposo sia un
mostro e la convincono a vedere il suo volto. Psiche vede una sera la bellezza di Eros, ma una
goccia di olio bollente che dalla lucerna con cui ha eliminato Amore, che si sveglia e fugge
via. Disperata, Venere le impone una serie di prove terribili, ma Eros può poi convolare a
giuste nozze con la sposa dopo aver convinto la madre di perdonarla. La critica ha cercato di
interpretare questa favola: sono stati individuato come elementi uno dei riferimenti filosofici
all’impronta platonica (Psiche è l’anima dell’uomo che si innalza grazie ad Eros: questo è il
tema del discorso di Socrate nel Simposio), prove dell’ iniziazione misterics al culto di Iside e
una storia di origine orientale a cui si rimangono l’atemporalità del racconto, l’aspazialità
(due elementi tipici della favola), il motivo dello sposo mostro, il castello incantato, il tabù e
il divieto imposto alla sposa, la malvagità delle sorelle, lo sposo perduto e le prove da
superare, l’elemento magico. Forse, considerato lo spazio occupato, la storia di Amore e
Psiche è stata introdotta come una sorta di doppio della storia di Lucio: anticipa l’incontro
con Iside e la sua redenzione. Dopo questo racconto, riprende la narrazione delle vicende:
fugge dal covo dei briganti, ma ricade nelle mani di altri uomini, tra cui anche dei sacerdoti
sconci e seguaci di una dea orientale. Continua a cambiare padrone: è venduto ad un
mugnaio, un ortolano, un soldato, un pasticciere, che lo affida ad un istruttore che organizza
notti d’amore tra l’asino e una matrona. Decide di farlo esibire nell’anfiteatro di Corinto:
deve accoppiarsi con una donna condannata a morte, ma, sbranato dalle fiere del circo, riesce
a fuggire. Esausto, si ferma in una cittadina, Cenicrea, dove gli appare in sogno Iside, che,
pietosa nei suoi confronti, gli dà le istruzioni per tornare uomo: il giorno dopo ci sarà una
festa solenne in suo onore, durante la quale potrà mangiare le rose e tornare uomo. In effetti
così interviene: da qui in poi Lucio dovrà essere devoto alla dea, e si reca a Roma, dove viene
devoto anche del culto di Osiride, al cui sacerdote era apparso in sogno il Dio in persona per
comunicargli l’imminente arrivo di un uomo di Madauro (Apuleio) per essere iniziato ai
misteri. Si possono riconoscere quattro blocchi narrativi, ognuno dotato di caratteristiche
diverse:
1) Libri 1-3: vicende di Lucio fino alla sua trasformazione in Asino. Sono incentrati sul
tema della curiositas e della magia. La trama è lineare.
2) Libri 4-6: favola di Amore e Psiche.
3) Libri 8-10: raccontano le avventure di Lucio asino, spesso con finale tragico e legate
tra loro dalla presenza costante di Lucio asino. È stata definita paratattica perché
contiene tutti gli ingredienti del romanzo che nel ‘600 ebbe fortuna in Spagna: il
romanzo picaresco, caratterizzato da una serie di episodi che potevano essere
allungati all’infinito. Comunica la confusione e l’arbitrarietà del mondo che circonda
Lucio, e per compiacere i gusti dei destinatari dell’opera.
4) Libro 11: contiene la conversione di Lucio ai misteri di Iside, il ritorno alla forma
umana e l’adesione al culto di Osiride. Il numero 11 ha un valore simbolico: nella
religione isiaca l’iniziazione avveniva nell’undicesimo giorno, dopo 10 giorni di
preparazione. È una parte completamente diversa, al punto che da alcuni studiosi è
stata considerata estranea rispetto al resto del romanzo per nobilitare la storia dopo
tutti gli eventi erotici raccontati. In questo libro, Apuleio, per bocca del sacerdote di
Iside, spiega il senso della vicenda: Lucio ha ecceduto nella curiositas e nelle servires
voluptates (la relazione con Fotide), cercando di violare le leggi della natura
ricorrendo alla magia, per questo è ricaduto nella sorte cieca, diventando l’animale
meno nobile, l’asino. Solo la provvidenza della dea Iside ha potuto aiutarlo, dandogli
nuovamente la forma umana. C’è anche un monito: nessuno si salva da solo (Iside si
è impietosita e gli ha concesso di tornare uomo). Il tema della metamorfosi di Lucio è
unificante di queste parti che sembrano slegate fra di loro.
Apuleio sceglie la forza letteraria del romanzo, che era lo strumento di intrattenimento
prediletto da molti lettori. Era un genere aperto ad accogliere temi ed era in grado di
diffondere un messaggio (in questo caso i contenuti filosofici-religiosi). Non si può negare
che nell’opera ci sia la grande capacità fabulatrice, ovvero la gioia di raccontare e di divertire
il pubblico (nel proemio dice che il lettore si divertirà). Prima c’è un’avventura erotica
vissuta da Psiche e Lucio, poi la curiositas di entrambi, che comporta la perdita della
condizione beata, le peripezie, le sofferenze, concluse dall’intervento Salvatore da parte di
una divinità, che riscatta chi è caduto non per i meriti, ma per sua spontanea volontà. C’è
anche l’elemento autobiografico: l’essere Madaurensis. Con Lucio, Apuleio ha in comune
l’iniziazione verso i culti misterici, la curiositas verso la magia e il giudizio negativo sulla
magia (nel De Magia distingue la magia nobile da quella popolare). È probabile che abbia
voluto offrire una rappresentazione simbolica del suo itinerario spirituale, che lo ha
portato dall’interesse per la magia all’adesione al culto di Iside.

ORAZIO

ODE I, 1
L’Ode 1,1 contiene il suo progetto e spiega la ragione per cui lui passa dai Giambi e dai
Sermones cambiando modalità di composizione e al suo dedicarsi alla poesia lirica.
Ci sono persone che dedicano la propria vita a rincorrere il successo nelle gare di Olimpia e
dunque mirano alla gloria o quelli che mirano a ricoprire le cariche maggiori (la questura, la
pretura e il senato). A questo modello di vita contrappone quelli che hanno posto al primo
piano della vita l’arricchimento, l’ottenimento di ricchezze (quello che raccoglie e nasconde
nel proprio granaio tutto il grano che riesce a tenere dalle aie della Libia: come esempi
troviamo il latifondista o il contadino o il mercante ricco (uomo che, quando è sul mare in
balia dei flutti provocati dallo scirocco, rimpiange l’ozium et rura sui oppidi, ossia la vita
tranquilla e i suoi campi, ma quando torna a casa restaura le navi e si rimette di nuovo in
mare dimenticandosi dei ricordi brutti).
Infine abbiamo il βίος φιλεδονός: ci sono persone che hanno messo al primo posto il piacere
della vita (bevendo un bel bicchierone di vecchio Massico, un vino campano molto pregiato).
Dunque invece di lavorare, si occupa per gran parte del giorno al piacere: per queste persone
il massimo è stare sdraiati all’ombra vicino all’acqua sacra sorseggiando il Massico. Vi sono
anche quelli che hanno fatto la scelta della vita militare o del cacciatore che si dimentica della
giovane moglie quando i cani hanno fiutato una cerva o un cinghiale (passando dunque le
notti fuori dimenticandosi dei propri famigliari).
Orazio invece mise al primo posto la saggezza (hederae praemia docaturm): si sente
realizzato se riuscirà ad ottenere la gloria di poeta (è una scelta di bios philosophos: per molto
tempo il termine sofos indicava in Grecia anche il poeta riconosciuto). Vi è l’atteggiamento
aristocratico del poeta, che vuole essere apprezzato da un’elite e non da tutto il popolo: il
concetto è espresso dall’immagine di un bosco in cui le Ninfe danzano in maniera leggera coi
Satiri. Tutto questo gli sarà possibile se avrà dalla sua parte le Muse che gli ispireranno le
Muse (Euterpe musa della poesia lirica e Polimnia musa degli inni sacri).
Gli ultimi versi evidenziano una sorta di ironia e abbassano il tono elevato con cui ha
espresso le proprie aspirazioni: Orazio toccherà il cielo con un dito diventando un poeta
glorioso solo se l’amico Mecenate (parla dell’incontro con lui nella Satira 1,9, “Il seccatore”,
in cui Mecenate era un personaggio abbastanza schivo perché sa di essere facilmente
abbindolabile: potrà essere accettato nel suo circolo grazie alle sue doti. Fino al 23 a.C.
continuò ad essere protettore degli scrittori, quando decide di ritirarsi dalla scena pubblica) lo
riconoscerà come gran poeta lirico inserirà fra i poeti lirici. Da notare l’abbinamento lyricis
vatibus (il primo è una parola greca, la seconda latina che indica il poeta vate capace di
vaticinare, attraverso la cui bocca uscivano le parole della divinità: era considerato anche un
veggente, come se leggesse qualcosa presente nella sua mente senza l’ausilio della scrittura;
questo abbinamento sintetizza l’intento di Orazio quando decide di comporre le Odi: vuole
diventare a Roma ciò che in Grecia i grandi lirici furono: Saffo, Alceo, Anacreonte, Pindaro,
Simonide, Callimaco, che rifiutò tutte le regole aristoteliche e che inserì la cura formale,
l’eleganza e la dottrina, Bacchilide; ma ci sono anche i neoteroi: per quanto semplice, la sua
poesia è colta e raffinata, con anche l’utilizzo di racconti mitologici).
Orazio usa un lavoro di rifinitura del testo che è sottolineato da una simmetria perfetta nel
canto.
I primi due versi che aprono l’ode sono indirizzati a Mecenate e sono seguiti da sei versi che
corrispondono al βίος φιλοτιμός (coloro che cercano di raggiungere la gloria e la fama),
seguiti da dieci versi sul βίος φιλοχρήματος (coloro che cercano di arricchirsi), seguiti da
altri dieci versi sul βίος φιλεδονός (coloro che cercano il piacere) , seguiti da sei versi che
sono dedicati alla scelta di Orazio (βίος θεωρητικός: scelta di Orazio, che predilige la
saggezza; i filosofi erano inizialmente i poeti) , e in conclusione abbiamo due versi ad anello
che corrispondono ai due indirizzati a Mecenate (2-6-10-10-6-2).
Questa cura formale e l’utilizzo di immagini di non immediata comprensione vengono
accostate a parole di uso comune ma lontane dall’uso quotidiano.
Si pone sulla scia dei poeti alessandrini perché sa le sue poesie per dichiarazioni di vena
poetica, per la convinzione che la poesia sia riservata ad un’elite culturale e perché anche lui,
come i poeti alessandrini, desidera conservare la tradizione e si pone in gara nei confronti di
tale tradizione in un rapporto di emulazione e innovazione, caratteristiche che ritroveremo in
Callimaco (che ispirò i neoteroi). Apporta da questa tradizione il suo contributo di novità.
Contiene questa dichiarazione di poetica: Orazio è uno dei primi poeti latini a farlo (nel
mondo greco il primo fu Callimaco per far capire agli altri gli scopi della sua poesia).
Orazio si propone di vuole essere il poeta lirico latino, vuole essere l’Alceo, Saffo, ecc,
latino.
Abbiamo visto che la letteratura latina inizia come imitazione di quella greca, i latini iniziano
ad utilizzare la scrittura a scopi letterari quando vengono a contatto col mondo greco.
Il suo modello è Alceo perché egli ha composto dei carmi che avevano vari argomenti: uno
importantissimo era la lotta politica (era accanito contro le altre eterìe, perché fra gli
aristocratici, attaccati dai ceti emergenti, spuntano dei traditori che vogliono diventare capi
del popolo, come Marsilio) e il simposio (con tutto ciò che era ad esso collegato; era il
momento dell’amicizia, si parlava della fragilità dell’uomo). Non si riconosce nel motivo
politico: il simposio non era il luogo destinato al dibattito politico, che era venuto meno
nell’età augustea (non c’erano motivi di dissenso).
Alla fine del terzo libro delle Odi Orazio dichiara la fine di questo progetto, ma, sollecitato
dalle esortazioni di Mecenate e Augusto, pubblicherà un quarto libro nel 13 a.C: (dieci anni
dopo rispetto le altre).
Vi sono poi le Odi celebrative (civili) dei valori che Augusto andava diffondendo, non della
sua persona. Le uniche odi in cui appare il motivo civile sono quelle che parlano della
sconfitta di Cleopatra o quelle in cui lui augura buona fortuna al princeps nelle sue campagne
per difendere la patria. Il simposio rispetta il suo modo personale di concepire la sua vita
basata sull’aura mediocritas (è il posto migliore in cui essa possa esserci). Gli ingredienti
indispensabili per il suo simposio sono gli amici (stare insieme con persone che la pensano
come lui), il non parlare della politica e la semplicità, con cibi semplici e vini non super
raffinati. I temi sono l’amicizia e l’amore.
Importante è il tema del carpe diem. Ci protegge dall’esterno che può cambiare perché è
possibile fermare il tempo e cogliere l’unica felicità possibile dell’uomo, ossia il cogliere e
vivere l’attivo.
Le Odi esprimono la dimensione spaziale, ossia il luogo in cui si può fermare il tempo e
godere delle piccole gioie della vita (tema già trattato nelle Satire). Il tempo è tiranno: la vita
scorre in fretta e la morte (sopor aeternus, nox, esilio, rovina) incombe sulla vita dell’uomo.
Era seguace di Epicuro (porco del gregge di Epicuro), ma non era bastato con la dottrina del
tetrapharmakon a togliergli l’angoscia della morte (ancora più evidente nelle Epistolae).
Se la morte incombe, bisogna dunque godere delle piccole gioie della vita in questo breve
attivo vivendo a pieno. I piaceri catastematici derivano dallo stare fermi, quelli che troviamo
in luogo in cui fermarsi per guardarsi dentro (lo individua col simposio, lontano dal caos della
vita cittadina).
Si può godere delle piccole gioie della vita nel simposio, che è uno spazio sicuro e lontano
dal frastuono del mondo nella sua villa Sabina o nella natura appartata.
Nelle Odi di Orazio c’è anche Anacreonte, da cui prende anche il ritrarre le figure femminili
(la donna timida, la donna gelosa) con eleganza e raffinatezza e il tono distaccato e ironico
nei confronti dell’amore.
Dunque è lontano da Saffo, la cui poesia era basato sull’amore come forza devastante (da
buon epicureo Orazio pensava che tale tipo d’amore dovesse essere bandito, poiché ci
allontanava dall’ἀταρασσία, che quasi si configurava con la felicità per l’uomo). Si rifà a
Saffo solo quando tratta il tema della gelosia.
Si vive l’amore nell’hinc et nunc, nel presente e non in prospettive del futuro angoscianti.
Descrive perlopiù esperienze amorose degli altri; delle sue parla con saggezza e distacco. Ha
imparato a non cadere nelle reti dell’amore, che vede come un naufrago che è scampato dalla
tempesta. Presenta una ricca galleria di personaggi femminili con nomi immaginari spesso
collegati a caratteristiche femminili.
Un altro tema è il tema religioso, come abbiamo già visto nella chiusura dell’Ode 1,1: spesso
si rivolge agli dèi, che secondo l’epicureismo sono composti da atomi diversi immortali e
vivono nell’Iperuranio senza occuparsi degli uomini perché non hanno nulla in comune.
Non lo fa come spirito religioso, ma come omaggio alla tradizione: nelle Odi celebrative
queste invocazioni rispettano la sua gratitudine e rispetto degli ideali religiosi di Augusto (gli
fu commissionato il Carmen Saeculare nel 13 a.C. (cantato da due cori di 7 ragazzi e 27
ragazzi) in occasione del ripristino dei giochi (ludis seculares, che si tenevano a cavallo della
fine di un secolo e l’inizio di un altro: allora un secolo durava 110 anni) che venivano
celebrati da 110 anni); altre volte invece la presenza degli dèi è secondaria. Quando queste
invocazioni si collegano alla campagna e ai riti semplici dei contadini, Orazio sembra
parteciparvi descrivendo la sincerità con cui queste persone compiono questi riti. Esaltando il
suo ruolo di poeta vate, sembra dimenticarsi di non credere alle divinità tradizionale per
affidarsi a loro come protettrici della sua arte.

ODE III, 30
La prima e l’ultima ode sono speculari: in tutti e due viene usato lo asclepiadeo minore e
anche il tema è analogo.
Il fine della sua vita è dedicarsi veramente alla poesia: se sarà riconosciuto tra i lyricis vates
(vuole essere il poeta latino che è però lirico greco) da Mecenate avrà compiuto il desiderio
della sua vita.
La propose a conclusione del terzo libro, che doveva essere la chiusura della raccolta dei
componimenti, ma dieci anni dopo aggiunse il quarto libro su richiesta di Augusto.
Nelle odi civili Orazio non esalterà Augusto, il suo operato e le sue imprese, ma mira ad
esaltare i valori che Augusto andava diffondendo e che lui condivideva.
In questa ode di commiato, dichiara di essere riuscito nell’intento posto nell’ode proemiale.
Esprime la consapevolezza di avere compiuto un’opera immortale (monumentum, da moneo
“ricordare”: ha portato a termine una sorte di mausoleo che celebra la sua gloria e renderà
immortale la sua fama).
Ha portato a compimento un’opera più duratura degli oggetti di bronzo (sul piano della
durata) e più imponente delle piramidi d’Egitto (sul piano della grandezza). Ma in questa
stessa ode esprime l’orgoglio di aver portato il canto eolico nella poesia latina.
Dopodiché c’è l’idea che la poesia eterni non solo chi viene citato nei versi, ma anche il poeta
stesso: il tema principale è quello della poesia eternatrice: Orazio dunque non morirà del tutto
perché continuerà a risultare sempre nuovo per le generazioni che verranno. Questa sua
eternità viene associata alle sue umili origini. Chiede alla Musa di riconoscergli la corona di
poeta, lasciandole il merito che lui sia riuscito a comporre questo componimento. Il valore
della poesia eternatrice non è una sua idea: i suoi modelli sono ora Pindaro e Simonide, che
nelle sue opere avevano indicato questa funzione. La poesia rende immortale non solo cosa è
scritto (gli argomenti erano vari: eroi, poeti passati e filosofi: qualcosa esiste finché viene
ricordato in qualche modo), ma anche chi ha scritto.
Nei primi quattro versi c’è uno sguardo retrospettivo: si proietta verso il passato. Grazie alla
sua opera vincerà la morte. Libitina era la dea dei funerali (per metonimia la morte). La sua
immortalità viene associata alla durata di Roma, immaginata come eterna. C’è l’idea di un
rinnovamento di generazione in generazione (sarà sempre ritenuto attuale): idea di nascita
continua nel tempo.
Associata ad una cerimonia nelle Idi di Marzo, in cui la vestale più anziana sale col pontefice
sul tempio di Giove Capitolino e chiede la protezione del popolo romano, secondo altri non
si riferisce a nessuna celebrazione particolare (quindi da tradurre col plurale).
Il suo orgoglio viene contenuto nei tre versi finali, in cui il merito è dato anche alla Musa.
Nella chiusura dell’ode c’è un’apostrofe alla Musa Melpomene, a cui chiede di essere cinto
con la corona d’allora, che sancirà la sua gloria destinata ad esserci per sempre. Attribuisce
alla divinità questo suo successo poetico, anche se vuole che esso gli venga riconosciuto.
Tutte le divinità sono greche come protettrici dell’arte. Da epicureo, Orazio, in contesti come
le Odi civili, fa rientrare le invocazioni agli dei ai valori di restaurazione religiosa voluta da
Augusto (quando ringrazia gli dei per aver permesso ad Augusto di raggiungere le condizioni
di pace); altre volte gli dei sono solo simboli della sorte e del caso che ci governano,
soprattutto in odi che ci invitano a godere l’attimo e a non interrogarci sul futuro; nelle odi in
cui vi è l’invocazione degli dei, è collegata ai riti compiuti dal contadino, ai quali sembra
partecipare con lo spirito religioso (religiosità ingenua).

ODE I, 38
In quest’ode Orazio afferma che il suo simposio non richiede suppellettili lussuosi, cibi e vini
pregiati: il simposio si vive nella semplicità e nella compostezza. Essa è l’ode di chiusura del
I libro, e ciò ha un valore simbolico (significato sottinteso). La semplicità di questo simposio,
a cui invita ad un giovane servo, rispecchia la scelta della poesia di Orazio: gli argomenti non
sono particolari; l’obiettivo era rendere grandi le cose piccole e quotidiane. Ritroveremo
questa dichiarazione poetica in Pascoli e Saba. Tutto ciò rispecchia l’aurea mediocritas, ossia
una vita lontana dallo sfarzo e il lusso: è una scelta di vita basata sulle cose essenziale della
vita e di questo simposio (amici e famiglia). Diventa un’occasione per esprimere il mondo nei
valori di Orazio. È un testo molto breve, in linea coi precetti alessandrini: può essere
assimilato ad u epigramma, ma non lo è perché la strofa utilizzata è la strofa saffica.

ODE I, 33
L’amore non è l’amore come furor, passione travolgente (saffico), un sentimento totalizzante:
è gioia e non deve trasformarsi in una condizione di sofferenza, non deve essere proiettato
verso il futuro, porta piacere solo se lo si configura nell’hinc et nunc (vale il carpe diem).
Spesso Orazio attribuisce dei nomi fittizi alle donne: sono nomi parlanti che descrivono le
loro caratteristiche. Invita a vivere l’amore come ludus, e non come amore eterno.
L’ode è dedicata all’amico Albio Tibullo, che scrisse elegie amorose (nell’ode proemiale,
dopo aver descritto le scelte altrui, parla della sua scelta di vita: lontano dalla città e
accompagnata dalla donna che amava; guardare dall’esterno ciò che avviene nel mondo
interno), in cui traspare anche la malinconia, il timore e la tristezza perché il più delle volte
gli amori degli elegiaci non sono corrisposti. Quest’ode ha una funzione di consolare
quest’amico, e questa consolazione si manifesta come un consiglio da parte di un amico, che
ha imparato a soffrire di meno accettando con saggezza di soffrire le pene. Per spiegare
questo lusus, usa la giostra: spesso la persona ama un’altra persona, a sua volta innamorata di
un’altra persona (è come un giro di giostra). Orazio si pone come una persona che è contento
di esserti tirato fuori da questa situazione. Quando descrive queste situazioni, o le descrive da
lontano, come se fosse intoccabile da questo sentimento (la vecchiaia gli impedisce di sentirsi
preso da una tale passione: si descrive come un naufrago scampato alla tempesta e che guarda
quelli travolti) o con ironia (non c’è mai corrispondenza piena nell’amore: è una sorta di
giostra). Il simposio ci fornisce la situazione spaziale in cui può verificarsi il carpe diem: la
proiezione verso il futuro non ci consente di vivere il passato, e quindi di non vivere affatto.
Offre questa sua esperienza all’amico Tibullo, esortandolo a non dolersi per l’infedeltà della
donna che ama perché l’irrazionalità e l’incostanza sono la natura stessa dell’amore perché
proprio Venere ha voluto che l’amore fosse così (sembra che si diverta a far nascere questi
amori non corrisposti o impossibili). Assistiamo ad un rovesciamento totale rispetto all’amore
nel mondo greco. In Saffo, Afrodite viene sempre in aiuto della sua sacerdotessa: la dea
tranquillizza sempre Saffo. Ciò è presente anche nella tragedia: nell’Ippolito di Euripide (la
mancata devozione nei confronti dell’amore comporta la castità: Afrodite non accetta l’amore
non corrisposto, e dunque deve essere sempre ricambiato). La Venere di Orazio invece si
diverte a tormentare gli uomini innescando nelle persone sentimenti impossibili o non sempre
corrisposti (classico esempio di un principio della poesia alessandrina: imitazione e
innovazione di un tema sviluppato da tutta la poesia).
Nella prima strofa Orazio dice a Tibullo cosa non deve fare: non deve soffrire per il ricordo di
Glicera e non deve continuare a cantare elegie lamentose in cui si chiede la ragione per cui un
giovane splende più di te. Abbiamo un trittico: Tibullo ama Glicera, che però ama uno più
giovane.
La seconda strofa serve per dire che questo triangolo è la norma: succede sempre così. Il
secondo esempio è questo Ciro, in cui è da scorgere Cornelio Gallo (pseudonimo per
indicarlo, che fu uno degli elegiaci più importanti di Roma e molto vicino ad Augusto).
Cornelio Gallo aveva chiamato la donna che gli toglieva il sonno Licòride (da questo
capiamo che è Cornelio Gallo). Licòride ama Ciro, che però è innamorato di Foloe. Si
pensava che la fronte piccola fosse un elemento di bellezza.
Prima che Venere crei questi amori impossibili, Orazio introduce un adynaton, attraverso il
quale si ritiene che avvenga in maniera più possibile ciò che è impossibile (più facile che le
capre si congiungano con i lupi dell’Apulia.
Venere si diverte a mettere sotto un giogo di bronzo corpi e animi con un gioco crudele.
L'ossimoro e l’adynaton traducono sul piano retorico il pensiero di Orazio in merito all’amore
impossibile (amore come lusus).
Nell’ultima strofa presenta se stesso: non si fa il nome dell’amore più nobile, ma la liberta
Mirtale lo impedisce.

ODE I, 11
La nostra vita è l’unica forma di immortalità concessa all’uomo: assaporare ogni istante e
farli diventare eterni. Questa ode si apre con un’apostrofe alla fanciulla Leuconoe
(leukos=bianco e nous=mente, ovvero dalla mente candida, con l’allusione all’ingenuità di
questa donna, che invece vorrebbe conoscere il futuro per assicurarsi di ciò che accadrà,
consultando anche oroscopi. è messo in dubbio quanto sia appropriata questa etimologia (in
nessun contesto leukos viene accostato all’ingenuità). Dal “tu” capiamo che c’era una certa
intimità tra il poeta e la donna, non è un rapporto occasionale.
-v.1 poliptoto tu e tibi: questo pronome fornisce un’impressione di intimità (con mihi: se gli
altri lo fanno, tu non devi farlo);
-anafora di quem con asintoto;
-enjambement di finem (della vita o del loro amore);
-nefas appartiene al linguaggio sacrale, che indica la violazione di un ordine divino quando si
cerca di sapere il futuro, generatore d’ansia (non si sa se sarà più amaro del presente);
è un’esortazione a vivere nel futuro
-I Babilonesi erano famosi per esseri esperti in astronomia (cercavano di predire il futuro coi
calcoli astronomici: idea che gli astri potessero influire sulle vicende dell’uomo; si era diffusa
a Roma questa dottrina e c’erano molti caldei che professavano questa professione. Orazio
era molto perplesso, ma molti cittadini si facevano abbindolare da questi ciarlatani)
-pati è un sopportare coraggiosamente (non passivamente)
-Iuppiter è una metonimia (per dire anno: sarebbe “più anni da vivere”)
-ultimam è predicativo
-umanizzazione sia del tempo (che debilita il mare) sia della natura (gli scogli cercano di
opporsi alla violenza del mare)
-hiemes perché i Latini erano solito contare gli anni attraverso gli inversi (hiemes metonimia
di anni). C’è anche un riferimento al fatto che questo invito a Leuconoe e questo simposio
collochi no l’ode nella stagione invernali (secondo alcuni l’inverno è il simbolo della
vecchiaia, l’inverno della vita).
Dopo i due imperativi negativi (ne quaesieris e nec temptaris), abbiamo una serie di
imperativi positivi che ci dicono cosa deve fare: sapias, liques.
Spatio brevi ha quattro possibilità di traduzione:
1) dativo:
2) ablativo di luogo senza in: “limita in un tempo breve una lunga speranza”
3) ablativo assoluto: “recidi alla vita breve la lunga speranza”
4) ablativo di separazione: “taglia via da uno spazio breve una lunga speranza”
5) ablativo strumentale: “taglia con breve spazio una lunga speranza”
6) dativo di vantaggio: “recidi a vantaggio di una vita breve una lunga speranza”

.il futuro anteriore indica che mentre si parla è già passato il tempo
-carpe è stato preso dal mondo animale e dell’agricoltura (brucare l’erba da parte del
bestiame, piluccare un grappolo d’uva o cogliere un frutto)
-sapias è la parola chiave dell’ode e di tutta la poesia di Orazio (è un’invito alla saggezza e
alla misura, all’aurea mediocritas). è usato in senso assoluto e dunque dovrebbe significare
“abbi sapore, sappia distinguere”: la persona dotata di questa capacità sa distinguere tra ciò
che è buono e ciò che non lo è (da sapere si originano tutte le parole come “sapientia”,
“sapiens”).
-liques era un’operazione fatta perché il vino era conservato nelle anfore ed era pieno di
impurità (non era filtrato): quando veniva trasferito nei vasi più piccoli, veniva filtrato
facendolo passare per una tela per farlo raffreddare e togliere le impurità (il fondo). L’invito a
questo filtraggio del vino rinvia ad un’operazione che deve fare, sulla base dell’epicureismo,
l’uomo nei confronti della vita, che deve essere liberata da parte dell’uomo delle scorie che
impediscono una visione chiara e razionale della vita stessa.

ODE I, 9
È la cosiddetta Ode a Taliarco. Ci troviamo davanti ad un nome fittizio e parlante: è il capo
della festa, il re del banchetto, la cui caratteristica principale è la giovinezza. è un’ode che ha
pochissimi riferimenti con un’ode di Alceo: ci permette di valutare in che modo Orazio
riprende Alceo. Le odi che rieccheggiano di più Alceo sono considerate le più antiche. è
un’ode che è in strofa alcaica: già l’uso del metro indica il legame stretto col modello. Sono
sei strofe:
-nella prima strofa domina il paesaggio invernale col gelo che rapprende tutte le cose, i monti
innevati
-nella seconda strofa questo paesaggio si scioglie: l’assenza di mobilità e quasi di vita si
contrappone ad un’atmosfera di calore descritta in questa strofa. Sembra che da qui in poi
riprenda la vita, che si svolge nell’angolus (il paesaggio così immobile è visto dall’inverno di
un luogo in cui c’è il fuoco che brucia). è l’occasione da cui scaturiscono una serie di
riflessioni sulla fugacità della vita, e dunque di godere i piaceri della giovinezza senza
rinviarli ad un domani che non si conosce. Il poeta si abbandona nel raccontare un’avventura
galante tra due giovani.
-vides è un presente indicativo e ha valore asseverativo, e non esortativo. L’assenza totale di
vita viene negata dalla seconda persona singolare: c’è qualcuno che deve vedere questo
spettacolo;
-stet da l’idea di star fermo e innalzarsi nella propria potenza;
L’inizio, in cui troviamo un iperbato (alta nive) e una doppia ipallage (alta per Soracte e
candidum per nive, invece Orazio crea questi legami particolari)
-umanizzazione della natura (i boschi sono affaticati, come gli uomini: immagine
personificata con laborantes e sustineant);
-flumina e constiterint è un ossimoro: i fiumi bloccati da un gelo pungente (iperbato);
-Soratte corrisponde col Monte Sant’Oreste (vicino a Roma e visibile dai colli più alti)
Il fr. 338 W. di Alceo inizia “Zeus piove”
-il vino è pregiato poiché è puro e invecchiato di quattro anni
-Sabina per ipallage dovrebbe riferirsi a vinum, non all’anfora
La terza strofa è la parte gnomica, dove ci sono le riflessioni
-forte anacoluto (brusco cambiamento di soggetto)
-Orazio invita l’amico, a cui sembra essersi sostituito a tutta l’umanità, a non darsi pensiero
né delle gioie né della sofferenza
-c’è una serie di riflessioni che rimandano ad Archiloco
-quest’invito a non preoccuparsi di quello che avviene di per sé è espresso dalla spiegazione
di ciò che devono fare gli dei (tutto avviene senza che l’uomo possa fare qualcosa: il tempo
brutto e il tempo bello è nelle mani degli dei: quando si saranno stufati anche i cipressi si
saranno stufati).
Continua la serie di imperativi (prima erano positivi, ora negativi): fuge quaerere, sperne.
Continua questa immagina che si ha descrivendo le attività dei giovani che elenca dal v.18
alla fine.
Contrapposizione tra cras e nunc: quello che non deve fare il domani e
Il Campo di Marte era sia un luogo di passeggio e appuntamenti sul corso del Tevere sia
luogo in cui gli atleti si allenavano.
Dal v.21 abbiamo tre attributi:
-latentis (puellae) genitivo
-proditor (risus) nominativo
-intimo (angulo) dativo o ablativo
Solo al verso successivo (v.22) capiamo a chi vanno collegati sul piano sintattico: serve per
creare una sospensione in chi legge (Chi sono?) e questa apparente confusione rispetta questo
gioco di nascondersi, riprendersi, farsi vedere e nascondersi. Cerca di mimare attraverso le
parole questo gioco. La ragazza sembra non stare al gioco (fa la ritrosa e finge di resistere),
ma lo fa solamente per eccitare di più il ragazzo (ci sono non ci sono, ecc..). Altro non è se
non un’esortazione a vivere nella giovinezza tutto ciò che è proprio di quest’età. C’è una
certa ironia nel descrivere questa ragazza (riso amabile di una ragazza che si nasconde da un
angolo segreto); invece il ragazzo finge di strappare dal dito il pegno dell’amore.

EPISTULAE
Sono l’ultima opera dal punto di vista cronologico: si colloca tra la fine del terzo libro delle
odi (23 a.C.) e la pubblicazione del quarto libro (dieci anni dopo). A partire dal 23 a.C.
comincia l’ultima parte della poesia e della vita: abbandona la poesia delle Odi a livello
metrico e dei contenuti e torna alle poesie delle Satire, di cui riprende il metro (esametro). A
42 anni si sente vecchio e incapace di governare i suoi difetti (volubilità e incostanza): nelle
Epistulae manifesta questo disagio e ha la consapevolezza che, nonostante gli sforzi e i
precetti epicurei, non era riuscito a domare certe angosce e paure. Questo male è funestus
aeternus, strenua inertia (è un ossimoro: un’accidia spossante e angosciante). Essendo più
vecchio, vede la fine della vita più vicina. Questo stato d’animo di consapevolezza di essere
trafitto da un male interiore è rispecchiato nelle 20 epistole del primo libro (23-20). Si
presentano come una sorta di prosecuzione delle Satire: chiama Sermones anche le epistulae.
Sono un discorso con un interlocutore non presente che dialoga lontano da lui. Sono simili
alle Satire per argomento, stile, lingua (sermo quotidianus della persona colta) e il metro
(esametro). Sono diverse per la forma epistolare (indirizzate ad amici e non sono colloqui),
per il tono (più serio: c’è meno ironia ed è molto più personale ed intimo poiché toglie la
veste di osservatore dei difetti altrui), per l’assenza dell'aggressività nella sottolineatura dei
difetti (parlando di se stesso è più indulgente). L’epistola in prosa era già un genere
letterario nato in Grecia in età ellenistica utilizzato per fare letteratura e non solo per
scambiarsi notizie a distanza. Prima dell’età ellenistica in Grecia c’erano stati Isocrate
(oratoria) e Platone (filosofia: VII lettera), che avevano utilizzato la struttura della lettera.
Epicuro la utilizzò per sintetizzare i concetti fondamentali della sua filosofia (fisica, morale e
logica); successivamente Artemone (II secolo a.C.), che pubblicò le epistole di Aristotele.
Successivamente furono promosse le epistole nelle scuole di retorica. A Roma Cicerone
pubblicò per primo le sue opere (quasi 900). Con Orazio questo genere letterario si sposta
dalla prosa alla poesia: iniziatore della epistola poetica. prima di Orazio c’era stato qualche
esempio occasionale in Lucilio e in Catullo (carmina 63 e 68). I precetti morali delle epistole
sono gli stessi delle Satire, ma non sono più inseriti in una cornica ironica, ma in una serietà
che riflette più una dimensione personale: prevale questo senso di stanchezza e disinganno.
L’oggetto di questa riflessione è la necessità di cercare ciò che è utile al raggiungimento della
saggezza: è sempre più insistente la percezione del tempo che trascorre. Ciò viene desunto
dalle filosofie contemporanee con un atteggiamento più eclettico (non vuole giurare sulla
parola di nessun maestro): accanto alla sua vicinanza all’epicureismo, ci sono riflessioni sullo
stoicismo. Da quest’analisi interiore nasce una grande insoddisfazione di sè, e dunque la
denuncia della sua incostanza e l’affermare di avere questo male interiore che lo rende
insoddisfatto (commutatio loci, che cerca di placare viaggiando, ma cambiano solo i luoghi e
non gli animi che viaggiano per i mari). Questi momenti di profonda angoscia e di soluzioni
si alternano a momenti in cui sembra più sereno e allegro (“un porco del gregge di Epicuro”).
La struttura epistolare si prestava anche ad ascoltare l’altro e a presentarsi come consigliere.
Molto spesso si può riconoscere una struttura dipartita: c’è una prima parte dedicata alla
confessione personale e poi c’è una parte per l’insegnamento o ammonimento (che culminerà
nei successivi libri delle epistole).
Il secondo libro fu composto tra il 19 a.C. e il 13 a.C. e contiene tre lunghissime epistole
(una per Augusto, una per l’amico Floro e una per i Pisoni, che sono Lucio Calpurnio Pisone
e i suoi figli). L’ultima di queste lettere è nota come Ars Poetica; in realtà la seconda lettera si
avvicina ai contenuti del libro libro: annuncia a Floro la fine della sua ispirazione poetica e
quindi il suo proposito di voler smettere di scrivere versi per dedicarsi alla filosofia (dichiara
la sua conversione alla filosofia). La prima e la terza sono più di argomento letterario: nella
prima lamenta la brutta abitudine moderna di celebrare i poeti antichi arcaici e sminuire quelli
moderni. Nell’Ars Poetica Orazio espone i principi generali della sua poetica (già applicati
nelle sue opere precedenti), che si rifanno ai precetti aristotelici e che per secoli rimarranno
come definizione dei canoni classicisti.
I suoi precetti furono tramandati fino a Manzoni, quando i precetti aristotelici vennero
accantonati.
Il primo principio è l’unità: la coerenza stilistica (un’opera d’arte per essere tale deve avere
uno stile coerente), l’equilibrio e l’armonia tra le parti di cui un’opera si compongono
(concorrono a raggiungere l’unità). Il secondo principio è quello che l’arte deve miscere utile
dulci (mescolare l’utile morale alla dolcezza): l’arte ha uno scopo educativo e quindi deve
essere espresse anche con un grandissimo rigore formale (uso della lingua impeccabile). Il
terzo principio è quello che, se l’arte deve educare, deve riferirsi alla realtà (non deve
raccontare cose inverosimili per far ridere quelli di bocca buona: non ci deve essere solo la
mitologia). Il quarto principio sintetizza quello che per Orazio è il vero poeta, ovvero colui
che sa rendere nuovo quello che è già noto. Probabilmente anche le rappresentazioni teatrali
vennero recitate e non rappresentate. Questi precetti che lui indica per i generi teatrali non da
lui praticati ebbero molto successo nel ‘500, quando cristallizzarono la tragedia fino al teatro
moderno. Siccome Manzoni fonda la sua poetica sul realismo (compone un romanzo storico e
non cavalleresco perché la letteratura deve nascondere un insegnamento: non è una letteratura
d’evasione), le sue tragedie sono storiche, non mitologiche (proprio come la sua poesia):
questo suo realismo lo porta a rifiutare i precetti aristotelici.

EPISTULA I,8
Si parla del torpore funesto, esistenziale (il funestus aeternus). Il taedium vitae, descritto
anche da Seneca, è il male di vivere, ovvero quel tema che crea un ponte tra questi autori e la
poesia moderna (Montale e Leopardi). Indirizza l’epistola ad Albinovano Celso, partito in
Gallia seguendo come segretario Tiberio Claudio Nerone nel 21 a.C., confessa il malessere e
l’insofferenza nei confronti di tutti quelli che lo circondano.
Sembra iniziare con la richiesta di notizie su Albinovano Celso, ma nel corpus centrale
diventa uno sfogo che il poeta fa presentando forse il vero motivo della lettera (il malessere
interiore). Nella parte finale c’è un recupero dell’apostrofe e una conclusione che smorza il
tono eccessivamente serio del corpo centrale. Sono esametri. L’infinito è retto da refert. La
posposizione o anticipazione del nome Celso è il risultato di anteporre in età imperiale il
cognomen alla gens. È un personaggio che conosciamo solo grazie ad Orazio: in un’altra
opera Orazio lo accusa in pratica di plagio e lo invita a scrivere versi suoi. Vive né seguendo
il bene morale né il piacere. Ci sono l’anafora e la litote per descrivere il suo modo di vivere e
il suo fallimento di seguire gli insegnamenti della morale stoica ed epicurea (aveva posto nel
piacere il raggiungimento della felicità). Questi due avverbi sono in antitesi con gaudere et
bene gerere Indica le ragioni della sua incapacità di vivere rettamente e con piacere per farci
capire che non dipende da condizioni esterne a lui. Seguono una serie di proposizioni causali:
non dipende da una sciagura caduta dall’esterno (non è stato colpito nei suoi interessi
economici). Ha consapevolezza che il suo male è il frutto della sua condizione interiore: non
è una malattia fisica, ma psicosomatica. Quelli che seguono sono congiuntivi obliqui in una
causale soggettiva che passa al congiuntivo perché siamo in un discorso indiretto. I greci
parlavano di melancolia (melan kole= bile nera, ovvero cattivo umore o letargus=torpore,
sonnolenza, che doveva essere curato con getti di acqua fredda o con bevande il cui odore
provocava starnuti). Anche Virgilio parla nelle Georgiche di veternus (vetus+morbus),
ovvero la malattia dei vecchi; è funesto perché può portare alla morte. È la condizione degli
uomini quando vivevano nell’età dell’uomo, quando non doveva preoccuparsi di nulla perché
la natura dava tutto. Dunque Giove mandò il lavoro (teodicea del lavoro) affinché l’uomo
dovesse procurarsi giornalmente col frutto del lavoro il proprio sostentamento. Viene invece
ora rappresentato come un dono divino per uscire da questo torpore. Incominciano una serie
di chiasmi. Finisce la parte riflessiva al v.12.

EPISTULA I,11
Anche in questa epistola, indirizzata a Bullazio, Orazio utilizza la stessa struttura: inizia
rivolgendosi all’amico, che sembra aver girato il mondo e al quale, partendo dal presupposto
che sia stato in tanti luoghi, chiede un giudizio sui luoghi visitati. Dopo queste domande,
inizia una sorta di monologo, in cui dichiara di essere oppresso da questo male oscuro e di
sentire il bisogno di stare da solo in un luogo sperduto (in questo caso la città di Lebedo).
Dopo aver indicato degli esempi di luoghi, Orazio dichiara questa sua consapevolezza di
essere affetto da strenua inertia (apatia estrema e agitata); dopodiché termina l’epistola
affermando che la cura deve intervenire sull’animus: se una persona ha un animus equus,
potrà vivere felice anche nell’angolo più sperduto del mondo.
Sono tutte città dell’Asia minore, molto note per essere la patria di grandi poeti (Saffo,
Alceo).
-vv.1-2: anafora di quid
-vv.5-6: anafora di an
Lebedo era una città molto florida vicino a Colofone, ma che venne distrutta da uno dei
successori di Alessandro Magno.
-v.10: poliptoto del participio perfetto oblitus e del gerundivo obliviscendus
-v.11: Neptunum è una metonimia per “mare”
Dal v. 11 inizia una serie di argomentazioni che razio porta contro sé stesso e contro il suo
desiderio di fuga ed isolamento. è una sorta di monologo interiore. Alcuni hanno visto in sed
la risposta di Orazio all’affermazione di Bullazio, ma è improbabile perché in nessuna
epistola c’è la risposta dell’interlocutore. Non esiste un luogo tale da essere la panacea del
proprio male.
-v.19: Tiberis è una sineddoche per “bagno nel Tevere”
Dal v.22 i versi legano il tema della mutationes locorum con gli elementi tipici del carpe diem
È un’epistola in cui è prevalente l’antitesi tra località celebri e esotiche e località povere e
sconosciute; a quest’antitesi si lega l’antitesi temporale tra l’oggi e il domani. La
realizzazione del carpe diem non dipende dal locus, ma dall’animus (c’è una differenza
rispetto alle Odi). Orazio si rivolge non alla condizione umana in genere, ma a se stesso
perché si rende conto che non era riuscito a controllare il disagio interiore, il suo senso di
insoddisfazione, già palese in una satira del secondo libro, in cui dialoga col servo e in cui
immagina che il servo gli rinfacci la sua volubilità e la sua incostanza. Se l’uomo riuscisse a
razionalizzare le proprie paure, vivrebbe felice.

PUBLIO OVIDIO NASONE

BIOGRAFIA
La fonte principale per la ricostruzione della sua biografia è lui stesso, in particolar modo due
opere scritte durante l’esilio a Tomi (terza fase della sua produzione poetica): i Tristia (“le
cose tristi”) e le Epistulae ex Ponto, con le quali si rivolge alle persone influenti di Roma
cercando di far breccia e di farsi perdonare da Augusto per poter tornare a Roma, o come lui
ci dice in un’elegia del secondo libro dei Tristia, di farsi trasferire in un posto meno
selvaggio. Ovidio si racconta descrivendo la sua vita. La decima elegia del quarto libro dei
Tristia, la terza del terzo libro e il secondo libro sono molto importanti. Diventa poeta
elegiaco nelle opere dell’esilio (Catullo, Tibullo e Properzio raccontano se stessi attraverso
gli episodi amorosi, invece Ovidio no).
Nacque a Sulmona (in Abruzzo) il 20 marzo 43 a.C. (ce lo dice con perifrasi: quando Aulo
Irzio e Gaio Vizio Pansa erano consoli) da una famiglia del ceto equestre (erede dell’ordine
da avi antichi: non fu cavaliere per sorte recente, ma lo è per discendenza). Aveva un fratello,
nato nello stesso giorno in cui lui era nato un anno prima. È nato nel primo giorno del
Quinquatrus, in onore di Minerva, celebrata dal 19 marzo al 23 marzo. Entrato nell’età
scolare, fu istruito a Roma per volontà del padre insieme al fratello. Il fratello manifestava
una propensione verso l’eloquenza, lasciando ben sperare nel successo nella vita politica,
invece Ovidio si sentiva sempre meno attratto da questa prospettiva e scopriva sempre
di più questa passione per le Muse. Il padre cercò di dissuaderlo dal conseguire questa
carriera dicendo che perfino Meonide, ovvero Omero, non lasciò alcuna ricchezza. Dissuaso
dal padre, cercò di scrivere eloquenza e non versi; tuttavia tutto quello che scriveva erano
versi (distici elegiaci e esametri per le Metamorfosi), e non prosa. Intanto i due fratelli
indossarono a 16 anni la toga virile, tipica degli equites importanti destinati alla carriera
politica. Il fratello morì a 20 anni, ed egli soffrì molto. Ricoprì le prime cariche, iniziando ad
essere scelto fra i triumviri. Dopo aver ricoperto le prime cariche, iniziò a coprirne altre
cariche, ma decise di abbandonare la carriera politica perché era attratto dalla poesia e dalle
Muse. Inizia a frequentare i circoli culturali di Roma: Macro gli lesse i suoi uccelli,
l’Ornithogonia; anche Properzio era solito leggergli i suoi versi; Pontico e Basso gli lessero i
suoi versi eroici. Anche Orazio affascinò le sue orecchie, e vide soltanto Virgilio. Non riuscì
a vedere Tibullo perché morì più giovane. Fa una classifica degli elegiaci: Gallo, Tibullo,
Properzio e Ovidio stesso (si pone da solo quarto). Come lui ebbe questa venerazione per gli
elegiaci più anziani, così anche lui fu molto apprezzato dai giovani. Divenne famoso e
apprezzato già da giovanissimo.
Quando lesse per la prima volta i carmina giovanili, la barba gli era stata tagliata una sola
volta. Nei suoi canti aggiunge il nome fittizio di una donna: Corinna. Scrisse molto e
gettò fra le fiamme ciò che non riteneva perfetto (come gli ellenistici; Callimaco dice μέγα
βιβλίον, μέγα κακόν): fu selezionatore delle sue opere. In esilio bruciò alcune opere che
sicuramente sarebbero piaciute. La sua attività poetica fu rivolta soprattutto alla poesia
d’amore: il suo animo non era insensibile ai dardi di Cupido. È un poeta anche di più
amori, ma nella vita privata era una persona di cui non si è mai sparlato. Da molto giovane si
sposò per la prima volta, con una donna né degna né utile (il matrimonio durò pochissimo).
Seguì un secondo matrimonio, da cui ebbe una figlia: Ovidia. A questa successe l’ultima
sposa, che sopportò il suo esilio. Il padre morì a 90 anni. I genitori morirono il giorno
prima che gli fosse comunicato l’esilio: non hanno sofferto ulteriormente. Lui parla di un
error: non ha commesso un crimine, fu solo un errore. Quando aveva cinquant’anni, la
collera di Augusto gli ordinò di andare in esilio a Tomi, ma rimane molto sul generale
riguardo alla causa (in un’elegia ci dice che c’è stato un liber, poi un error), forse perché già
tutti lo sapevano o per evitare di rinnovare il dolore in Augusto, Tiberio e Germanico; forse
era a conoscenza della tresca avuta da Giulia Maggiore, esiliata nel 7 d.C., e Giulia Minore,
esiliata nell’8 d.C. Attribuisce la causa alle cattive lingue che avevano messo in giro dicerie
sul suo conto. Quando ci fu questo provvedimento, si piegò, si fece coraggio e affrontò
questo viaggio verso Tomi (odierna Costanza, in Romania, alle foci del Danubio), descritta
come una città selvaggia. Dà valore eternatrice alla poesia. A partire dal 20 a.C. divenne
molto celebre a Roma, grazie agli Amores e all’Ars Amandi, opere molto piacevoli. Si trattava
di una fama rischiosa: non cercava appoggi e posizioni politiche (o perché non era incline alla
sottomissione ed adulazione o perché era troppo sicuro della sua fama). Desideroso di puntare
in alto, dal 2 all’8 si cimenta nelle Metamorfosi e nei Fasti, poema di carattere eziologico (ci
descrive le varie feste che scandivano il calendario romano).
La relegatio a Tomi è dovuta ad un carmen e ad un error. Non volle che la moglie lo
seguisse. Nel 17-18 morì a Tomi. Si scrisse l'auto epitaffio: si definisce cantore scherzoso
(che si è divertito) di teneri amori (tenerorum lusor amorum).
Salvo pochissimi versi ad eccezione del secondo libro della seconda elegia, non fa cenni sulle
Metamorfosi, culmine della sua poesia, probabilmente perché Ovidio si sentì e continuò a
sentirsi come un poeta elegiaco d’amore, nei cui versi era stato veramente sé stesso.
Il primo scopo è raccontare la vita quotidiana (sentimenti e situazioni che l'uomo vive tutti
i giorni): i sentimenti vengono raccontati con leggerezza e distacco. Il quotidiano non poteva
essere espresso in generi letterari nobili (έπος e tragedia, che secondo lui si occupavano di
personaggi lontani dal quotidiano) e nella novella (genere in prosa che era giudicata
sconveniente e fuori dalla letteratura romana). L’elegia (distici elegiaci) era il metro della
poesia d’amore, si adattava ad argomenti meno nobili e con la sua versatilità poteva
permettere di trattare molti argomenti (gnomica, politica, amorosa, sulla riflessione
esistenziale). All’esametro (έπος) giunge solo con le Metamorfosi (storia del mondo dalle
origini fino ad Augusto attraverso miti di trasformazione, ovvero il principio costitutivo del
mondo: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma), e forse quando concepirà la
possibilità che anche il vissuto quotidiano possa essere considerato nobile.
Compose una Medea, di cui abbiamo solo i giudizi, Remedia amoris, Medicamina faciei
feminae, Tristia, Fasti, Heroides, Amores, Ars Amandi e Metamorfosi.

AMORES
Gli Amores sono la prima opera, in preparazione delle Metamorfosi. È una raccolta di 50
elegie, prima disposte in 5 libri, poi in tre (disposti tra il 30 e il 19 a.C.). Aveva già deciso di
mettere al centro della poesia il tema dell’amore, non nuovo: si inserisce in un percorso di
poesia elegiaca amorosa, che partiva da Gallo e che era stato praticato da Tibullo e
Properzio. Fu una scelta praticamente obbligata. Pur mantenendo tutti i temi trattati da
Tibullo e Properzio, produce un prodotto lontanissimo: è diverso il modo di intendere l’amore
(per i poeti elegiaci l’amore è un’esperienza totalizzante e esclusiva), che dà un senso alla
vita solo se vissuto con leggerezza. Per Ovidio l’amore è sì un’esperienza totalizzante, ma
non esclusiva. È l’opportunità di vivere esperienze amorose diverse ed elettrizzanti
(innamoramenti, tradimenti, perdite, perdoni): se vissuto così, come un gioco, non si soffrirà
mai per amore (diventa una sorte di gioco: il traditore diventa tradito, il geloso diventa
oggetto di gelosia: non esistono né vittime né aguzzini). Ovidio descrive queste situazioni,
persone e sentimenti senza moralismo e con tanta ironia. Si crea una sorta di commedia
umana degli amori. L’Ovidio che racconta è un personaggio fittizio, che cambia
comportamento in ogni storia (desunta dalla letteratura o dal quotidiano). Più che poeta
innamorato, è il poeta dell’amore o degli amori possibili. Diventa una parodia dell’elegia
amorosa di Tibullo e Properzio, poiché tutti i τόποι sono trattati con grandissima ironia.
Si definisce poesia della propria dissolutezza: nega che il servitium amoris porti alla desidia.
All’amore esclusivo contrappone la sua tendenza ad amare tutte le donne (anche più di
una).
È visibile il distacco dalla morale tradizionale: Properzio dà valore negativo alla desidia, che
gli impedisce di compiere i doveri del civis romanus; Ovidio si compiace di essere fuori dagli
schemi della morale augustea: al marito geloso e sospettoso, dice che non è che, chiudendo in
casa la donna, eviterà di essere cornificato. Questa spregiudicatezza ci permette di vedere lo
squarcio della poesia romana: rifletteva abitudini abbastanza comuni a Roma. Rappresentano
l’addio all’elegia amorosa normale e l’inizio di un’elegia in cui il poeta racconta (quasi
didascalicamente) una dimensione specifica della vita dell’uomo, ovvero l’amore. In queste
prime opere, l’amore è un gioco non maschilista.

Gli Amores erano seguiti dalla Medea, una tragedia di cui ci sono giunti solo due versi ma di
cui Quintiliano ci dà un giudizio totalmente positivo: lasciava intuire una grande capacità di
composizione e un grande ingegno, che Ovidio avrebbe raggiunto se avesse dominato la vis
poetica (esigenza di scrivere), piuttosto che indulgere. Analizzò nel profondo l’animo di
Medea, stesso lavoro che stava eseguendo nelle Heroides.

AMORES, 9B
Il tutto va vissuto col giusto distacco: bisogna viverlo solo negli aspetti positivi. Non è
qualcosa che produce desidia, ovvero angoscia, ma è un qualcosa di totalmente energico.
Invece che imprecare contro l'amore che getta l’uomo innamorato in uno stato di
prostrazione, c’è l’invito a Eros di continuare a colpire il cuore del poeta poiché sennò la sua
vita non avrebbe senso: l’amore è una forza che dà energia. L’elegia inizia con il dialogo con
la divinità. Vi è la descrizione dell’amore come un ardore che si innesca improvvisamente
come un turbina: per descrivere ciò ricorre a due immagini descritte nei due distici successivi
(un cavallo indomabile che il padrone cerca di domare e un vento che portò lontano dalla riva
una barchetta che sta quasi per toccare la spiaggia). Il vento è paragonato alla passione che
Cupido soffia su di lui, riportandolo indietro. C’è il rifiuto delle preghiere che facevano gli
amanti elegiaci, che chiedevano di non essere così crudele. Invece Ovidio vuole essere
trafitto. Ormai le sue frecce conoscono più Ovidio che la loro faletra (l’involucro protettivo
dove venivano deposte). Inizia ora la riflessione in cui si spiega perché Amore dà vita e non
angoscia. Vi è la contrapposizione con gli innamorati che chiedevano che Amore uscisse
dalla loro anima perché li tormentava anche nel sonno. L’immagine del sonno come gelida
morte parte da Sofocle. Vi è la contrapposizione tra lo stolto che vuole dormire tutta la notte
ed Ovidio (le parole ingannevoli accendono lo stesso la speranza di poter godere di grandi
gioie). L’amore è un gioco in cui ci si inverte spesso il ruolo della vittima e dell’aguzzino.
Persino Marte è volubile all’amore.

AMORES, 10
C’è il ribaltamento dell’idea di Amore come unico e totalizzante: Ovidio si è innamorato di
due fanciulle e non sa quale scegliere. Ogni testo mostra una situazione diversa: non sono
elegie composte su un unico oggetto del desiderio (la stessa donna); ogni elegia mostra una
possibilità di intendere l’amore o di realizzare il rapporto amoroso. Grecino è un amico di
Ovidio e console nel 16. Le due fanciulle sono perfettamente equivalenti in bellezza fisica e
morale. Riproduce le situazioni che erano note: andava a rappresentare il tutto senza malizia e
senza un giudizio moralista. La vita deve essere vissuta senza un’ideologia che non muta: la
vita è cambiamento e l’uomo deve accettare di vivere in questa realtà che muta. Tuttavia lui
non è mai stato additato come una persona al centro di scandali: un conto è la vita, un altro è
la poesia.
HEROIDES
Le Heroides, o Epistulae Heroides, sono una raccolta di 21 lettere in distici elegiaci: sono
lettere poetiche, che Ovidio immagina essere state scritte da eroine del mito al proprio amato,
che è lontano. Eccetto una, scritta da Saffo a Faone (Saffo era realmente esistita), sono lettere
di eroine al proprio amato. Le Heroides possono essere suddivise in due gruppi. Al primo
gruppo appartengono 15 lettere, pubblicate tra il 15 e il 10 a.C., ma probabilmente le
compose parallelamente agli Amores. Le 6 lettere del secondo libro furono pubblicate tra il 4
a.C. e l’8 d.C. e presentano anche la risposta della lettera dell’amata all’uomo. Attua una
sorta di par condicio: l’amore è un gioco paritario in cui spesso i protagonisti si
scambiano i ruoli. Le caratteristiche sono la forma epistolare con l’intestazione iniziale (in
cui spesso c’è la superscriptio: nome del mittente e del destinatario), il saluto finale, scelta di
eroine del mito per le prime 15, a cui si aggiunge la voce maschile, il tema erotico (incentrato
sul tema dell’abbandono, della gelosia e della nostalgia dei bei momenti passati insieme). In
alcuni casi c’è invece un inizio in medias res. Questi ultimi sono elementi che si ritrovano
nelle elegie dei Tristia. Nel momento in cui racconta se stesso e manifesta questo suo dolore
di trovarsi in un luogo definito da lui inospitale, lui re-inserisce i topoi tipici dell’epistola
amorosa: le lacrime, ecc. La scelta di utilizzare l’epistola, offriva ad Ovidio diversi vantaggi:
non era vincolante sul piano del contenuto (potevano entrare temi tratti dai generi letterari più
diversi, dalla tragedia all’elegia), poteva utilizzare le risorse di forme narrative diverse (il
monologo ed il dialogo; anche se quello che traspare da queste lettere maggiormente è
l’io di queste donne: non si avverte dunque la voce di Ovidio, che è stato bravissimo a non
far sentire se stesso nelle epistole), riuscì a creare un dialogo a distanza tra le varie
protagoniste delle epistole, tra cui spesso vi sono rapporti di parentela (Fillide,
abbandonata da Demofonte, paragona il tradimento a quello del padre Teseo, che ha
abbandonato Arianna: sono la 1 e la 10 lettera. Ad Arianna corrisponde Fedra, moglie di
Ippolito, figlio di Teseo, e protagonista della quarta lettera), che danno all’opera la forma di
un romanzo. Ovidio, come nelle altre sue opere, volle essere originale: a Roma inventa il
genere dell’epistola amorosa fittizia in distici elegiaci. Non esisteva nulla del genere: erano
in prosa e non erano inseriti in una raccolta organica come le Heroides. Ovidio ebbe dei
modelli: la terza elegia del quarto libro di Properzio, in cui immagina che la ninfa Aretusa
scriva al marito Licota; il carme 64 di Catullo, la cui protagonista Arianna lamenta e
descrive l’abbandono da parte di Teseo, che la abbandonò sull’isola di Nasso dopo essere
scappato dal labirinto del Minotauro; il lamento di Didone del quarto canto dell’Eneide. Il
modello più vicino è sicuramente l’elegia amorosa alessandrina di ambientazione mitica,
di cui abbiamo un lungo frammento degli Aitia di Callimaco: Aconzio e Cidippe. Ovidio
cercava di trasferire le storie d’amore delle eroine del mito nella vita di tutti i giorni.
Ovidio accoglie maggiormente questa lezione: fare di queste storie mitiche delle occasioni
per raccontare i sentimenti vissuti dalle eroine del mito in maniera non diversa dalle donne
del suo tempo (attualizzazione del mito nella contemporaneità). A differenza degli
alessandrini, che scelsero vicende mitiche poco note (questo gusto del non noto si giustifica
col fatto che Callimaco si rivolgesse ad un pubblico elitario, di letterati, che si aspettavano di
apprendere qualcosa di nuovo e di non sentire sempre le stesse cose; per altri invece questo
nostro giudizio di pensare che la poesia mitologica fosse scelta col lanternino sia in realtà un
giudizio di noi moderni, a cui del bagaglio mitologico dei greci è giunto ben poco), Ovidio
invece racconta storie di eroine del mito molto ben conosciute: lui stesso nei Tristia ci dice
che cercava sempre di avere un ampio pubblico (amava essere apprezzato da un pubblico il
più ampio possibile, non solo da un pubblico elitario). Ciò venne fatto anche per focalizzarsi
sull’analisi dei sentimenti, e non sulle storie. Voleva far comunicare da voci femminili le
nuove caratteristiche dell’epistola amorosa romana: la sofferenza per la lontananza e
l’abbandono e la nostalgia per i bei momenti passati insieme. Il difetto più sottolineato è la
ripetitività delle situazioni: se si legge tutto il testo, ci si accorge anche dell’eccesso di
espedienti retorici (diventano dei glitché che rinnova). Le ultime sei lettere sono state definite
"susoriae o controversiae”. Le suasoriae controverse erano discorsi fittizi che venivano
richiesti ai giovani che frequentavano le scuole di eloquenza: le suasoriae erano orazioni dal
carattere deliberativo (immaginarie); le controversiae erano di carattere giudiziario
(bisognava sviluppare una tesi a favore ed una contro). Sono definite così perché all’amato
risponde l’amata (esposizione di tesi da due voci diverse). L’impiego della retorica non
toglie nulla al valore poetico dell’opera, soprattutto quando Ovidio riesce a scendere nella
profondità dell’animo femminile innamorato (come nell'epistola di Ipsitore a Giasone).

ARS AMANDI
Fa parte di questo periodo l’Ovidio erotico-didascalico. Dopo le Heroides, tra il 2 a.C. e l’1
d.C. compose l’Ars Amatoria (l mmh Ars Amandi, come la definisce nel prologo), un poema
didascalico in tre libri e in distici elegiaci sulle tecniche di corteggiamento e sulle tecniche
d’amore. Fu affrontato in poesia da Virgilio nelle Georgiche e da Lucrezio nel De Rerum
Naturam, entrambi in esametri (Esiodo scrisse in esametri) e miravano a diffondere un
messaggio educativo (Virgilio aveva indicato nel labor contadino una via da percorrere per
restaurare i valori etici che avevano reso grande Roma; Lucrezio aveva mostrato come via la
ragione per liberarsi dalle paure e per raggiungere la felicità). Ovidio utilizza il genere
didascalico con delle novità: inserisce il tema didascalico cambiando il verso (il metro
elegiaco, forse per smorzare lo scandalo della contaminazione di un genere elevato, epos, con
un tema immorale, quello di dare consigli nel campo dell’amore). In questo modo il
contenuto didascalico sono le tecniche di corteggiamento con un intento scherzoso e
ironico: non fa che fare la stessa operazione che aveva fatto con l’elegia (produce una
parodia del poema didascalico originale). Come aveva già parodiato l’elegia amorosa di
Tibullo e Properzio, ora fa la parodia della poesia didascalica. I primi due libri sono rivolti
agli uomini: nel primo libro viene insegnato come e dove si conquista una donna (quali sono
gli espedienti, i luoghi in cui è più facile incontrare le donne); nel secondo libro si concentra
su come conservare l’amore una volta conquistato (bisogna essere dolci, indulgenti, la
sottomissione e esaudire i desideri sempre, sopportare i difetti e negare sempre ogni
tradimento, anche in flagranza) e dei consigli su come dare alla donna un rapporto sessuale
soddisfacente. Il terzo libro è rivolto alle donne (in Ovidio c’è sempre questa par condicio),
alle quali fornisce questi consigli (pulizia, eleganza, correttezza nel comportamento in
pubblico, in privato e a letto, e non rifiutare mai l’amore, che è un bene prezioso come la
giovinezza e che ben presto svanisce). Il tutto va a pugni con il voler moralizzare, da parte di
Augusto, la vita e i costumi privati dei cittadini.
L’Ars Amandi è quell’opera che, secondo Ovidio, era stata una delle due ragioni che avevano
indotto Augusto ad allontanarlo.
Tra il 18 a.C. e il 9 a.C. Augusto aveva emanato una serie di leggi per contenere questi gusti
disinvolti degli uomini e delle donne (la lex Iulia de maritandis ordinibus, la lex Papia
Poppaea, la lex Iulia de adulteriis coercendis). Ci fu l’imposizione di a tutti gli uomini e a
tutte le donne di sposarsi; chi non lo faceva era considerato celebs, e come tale era punito con
la perdita di alcuni diritti (non potevano ricevere eredità); tutti dovevano avere dei figli per
evitare che ci si sposasse per evitare le sanzioni. Chi non aveva figli (gli orbi) poteva ricevere
solo la metà di quanto destinato. Le donne libere con 3 figli e le schiave con 4 figli venivano
esentate dalla tutela ius liberorum (secondo la quale dopo la tutela del marito, i figli
passavano sotto la tutela della madre). L’aborto era praticato alla grande perché le relazioni
adulterine erano molte. Erano considerate relazioni adulterine tutte le relazioni
extra-coniugali (eccetto che fosse una prostituta o una concubina), che divennero un reato
pubblico (crimen), giudicato da un apposito tribunale e perseguibile da qualsiasi cittadino nei
4 mesi successivi. Il marito della moglie poteva essere accusato di lenocinio (protettore di
una prostituta). La pena era la relegatio in insulam e altre sanzioni patrimoniali. Lo ius
occidendi poteva essere esercitato dal padre (doveva uccidere moglie e amante) e dal marito
(soltanto sull’amante, se di rango minore e se scoperto in flagrante), se il rapporto fosse stato
esercitato dentro le mura domestiche. Questa Ars Amatoria ha un piano etico? Contiene
principi etici? Questi principi, se ci sono, non sono in quelle parti in cui Ovidio elogia Gaio
Cesare, nipote di Augusto, che si accingeva in una spedizione contro i Parti per riprendere le
insegne romane abbandonate da Crasso; né quando Ovidio, ricordando le leggi sul
matrimonio, afferma di dire nulla di illegittimo (i suoi consigli sono rivolti solo alle liberte e
alle schiave, non alle matrone, ovvero le donne sposate; a favore di ciò afferma che una
persona con principi etici ben saldi non può essere influenzato da un’opera letteraria).
L’opera non risulta conforme alla morale augustea, perché per Ovidio sono importanti
l’onestà, la lealtà e l’astenersi dalla violenza; in amore non ci sono regole (le uniche sono
quelle che fornisce agli uomini protagonisti di questo suo gioco). L’opera rispecchia la
società romana libertina (valori agli antipodi dei valori virgiliani). Ci sono molti excursus
mitici, che servono ad avallare i consigli che dà, portando a sostegno le esperienze delle
eroine del mito, che diventa un exemplum nel contesto amoroso e in una prospettiva molto
diversa (prospettiva che indirizzata i fruitori dell’opera a riconoscere pregi e difetti di un
mondo mitico idealizzato, e comuni agli uomini contemporanei).
Prende le distanze dai suoi modelli e continua a manifestare i poli della sua poesia: egli vuole
raccontare la vita quotidiana senza intenti moralistici (suggerisce quali precetti hanno a che
fare con le tecniche di corteggiamento; questo metodo didascalico è ironico e scherzoso).
Produce la parodia del poema didascalico greco e latino. Non fa che rivolgersi al pubblico
del suo tempo, che apprezza questi consigli ironici che da una parte lo divertivano, dall’altra
andavano incontro alle esigenze. Il piano morale non c’è sul piano dei principi augustei
(Ovidio ha dei principi morali: onestà, fedeltà, non utilizzare la violenza, ma in amore non ci
sono regole perché è un gioco: le uniche regole che ci sono sono quelle che lui cerca di far
trasparire).

MEDICAMINA FACIEI FEMINEAE


I Medicamina Faciei Femineae sono un’opera complementare all’Ars Amandi perché sono i
trucchi per il volto delle donne. È una sorta di manualetto tecnico rivolto alle donne e
composto negli stessi anni dell’Ars Amandi. È incentrata sull’esportazione alla cura del
corpo, già presente nel terzo libro dell’Ars Amandi. Il corpo deve essere curato attraverso
l’uso di cosmetici. Ci sono cinque ricette sulla cura del viso (prescrive un uso confinato per
non eccedere nella pacchianeria). I cosmetici erano di origine naturale (come ci dice anche
Plinio nella Naturalis Historia).

REMEDIA AMORIS
Sono un’opera speculare all’Ars Amandi perché non insegna più a sedurre, ma a liberarsi da
un sentimento che potrebbe diventare insania (follia). In questo poemetto di circa 800 versi lo
scopo è quello di lenire le angosce delle vittime della passione amorosa. Qui si trasforma
in medico e ribalta i consigli offerti nell’Ars Amandi (per questo si parla di speculiarità). I
consigli che offre sono: non frequentare i luoghi frequentati da lei, vedere solo i difetti di chi
ci fa soffrire (anche gli ex-pregi sono difetti), fingere di odiare questa persona che prima si
amava fino a convincersi che quest’odio non sia finzione ma realtà (giungere all’olio della
donna amata, che deve diventare oggetto del nostro odio). L’amore si trasforma in odio
evitando di incontrarsi e concentrandosi sui difetti di questa persona.
Sono opere che confermano l’adesione di Ovidio al detto di amore epicureo, che deve essere
vissuto con leggerezza, anche se è importante. Un altro elemento di conferma è questo
definitivo allontanamento dal modello elegiaco tradizionale, in cui dall’amore non si
poteva guarire (qui viene totalmente ribaltata l’idea).

METAMORFOSI
Le Metamorfosi sono l’opera più importante di Ovidio. Il primo (preparatorio) e il secondo
periodo della produzione letteraria di Ovidio sono dedicati alle Metamorfosi.
Sono un poema epico composto tra il 2 d.C. e l’8 d.C., scritto in esametri e suddiviso in 15
libri. L’intento di Ovidio è raccontare la storia del mondo dalle origini (χάος) fino alla
divinizzazione di Giulio Cesare e la celebrazione di Ottaviano Augusto tramite i miti di
trasformazione (In nova fert animus mutatas dicere formas corpora). La consapevolezza di
aver composto un capolavoro è rintracciabile negli ultimi versi dell’opera, in cui si parla
dell’indistruttibilità e della fama che essa avrà (di aver scritto un monumento duraturo nel
tempo: Iamque opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignis nec poterit ferrum nec edax abolere
vetustas). L’opera si conclude con la premessa filosofica di Pitagora, che spiega a Numa
Pompilio la teoria del divenire: poiché tutto muta e nulla muore, l’anima trasmigra da un
essere vivente ad un altro. Nulla è immobile nell’universo; tutto si muove e cambia aspetto.
Sono scritte in esametri, e non in distici elegiaci. Al momento dell’esilio aveva già fatto
conoscere quest’opera agli amici. Ovidio fa un salto di qualità, rappresentato dall’abbandono
del distico elegiaco (col quale si descrivevano i sentimenti umani) per utilizzare il verso
nobile dell’epos (col quale egli nobilita i sentimenti umani). Questo salto avviene nel
momento in cui egli ritiene che il racconto della storia della vita umana meriti di essere
innalzato alla grandezza di questo verso. Ovidio ritiene che la vita dell’uomo può avere la
stessa dignità dei miti raccontati nell’epos. Tutto quello che lui esprimeva gli veniva già in
versi: aveva questa facilità nel comporre. Contengono circa 200 storie, che vanno
dall’origine del mondo fino alla divinizzazione di Giulio Cesare e alla celebrazione di
Ottaviano Augusto. L’impianto cronologico si perde dopo il primo libro: non riesce più a
raccontare la storia dell’uomo cronologicamente; rimane la distinzione tra storie di età
mitiche e storie di età storica (dopo la guerra di Troia, ovvero gli ultimi quattro re). Non è
un epos storico perché ci sono salti e perché la storia dell’umanità viene raccontata
attraverso questi miti di trasformazioni. I modelli sono tantissimi: la Teogonia e Le opere e i
giorni di Esiodo (dove viene trattata la storia dell’universo a partire dal Caos e le varie tappe
della storia dell’uomo), Eoie di Esiodo (che doveva essere una una continuazione degli ultimi
versi della Teogonia), gli Aitia di Callimaco (in cui nel rintracciare le origini di una
celebrazione religiosa o altro andava a spolverare miti, come la Chioma di Berenice), le
Metamorfosi di Nicandro. Le fonti sono altrettanto numerose: Esiodo, Iliade e poemi del
ciclo troiano, Odissea, Carme 64 di Catullo, Zmyrna di Cinna. Sono un’enciclopedia della
mitologia (ci sono pochi miti riportati da altri che Ovidio non ha menzionato). Fece confluire
in quest’opera tutti i racconti mitici del nostro immaginario: ci fa conoscere una serie di miti
collegati fra di loro (ha cercato di farci conoscere tutto quello che noi sappiamo sulla
mitologia greca).
Il primo libro si apre con una protasi che contiene l’argomento dell’opera (l’origine del
mondo fino al moderno attraverso forme mutate): inizialmente c’era χάος, in cui nulla era
al suo posto; dal χάος si passò al κόσμος (ordine) per il volere di un Dio (che Ovidio non
nomina) e di una benigna disposizione della natura, che hanno sanato tutti questi contrasti (ci
fu la separazione degli elementi della natura, i quali trovarono ognuno la propria
disposizione). Furono create le cinque zone climatiche, che sono speculari a quella
equatoriale, a cui seguono due zone temperate e poi due zone nevose. Segue la dislocazione
dei venti e la disposizione dell’aria limpida per avvolgere tutto. Segue la disposizione del
cielo e della vita nei vari spazi. Nel cielo vengono posti gli dei e le stelle, in acqua i pesci,
sulla terra i quadrupedi e in aria gli uccelli. Manca l’uomo, che viene plasmato da Prometeo
con acqua piovana e terra col viso rivolto verso il cielo (i quadrupedi avevano invece la testa
rivolta verso la terra). Segue il mito delle quattro età del mondo: oro, argento, bronzo e
ferro. Vi è una novità: parla di cinque età, e non di quattro, perché tra l’età del bronzo e
quella del ferro inserisce l’età degli eroi (momento di stasi in questo processo di decadenza).
Questa decadenza si trova anche nei dei del cielo: Ovidio ci parla della Gigantomachia (lotta
ingaggiata da Zeus per eliminare questo disordine). Giunti all’età del ferro, viene messo a
fuoco il fatto che Giove non sa come porre fine a questa malvagità tra gli uomini. Alla fine si
decide il diluvio universale, da cui si salveranno solamente Deucalione e Pirra (gli unici
con pietas), i quali hanno il compito di far rinascere la vita umana lanciandosi dietro le spalle
dei sassi: i sassi gettati da Deucalione divennero uomini, quelli gettati da Pirra donne. Segue
il mito di Apollo e Dafne, la quale, per sfuggire al dio, viene trasformata nella pianta d’alloro
sacra ad Apollo. Nel secondo libro Fetonte, dubbioso che suo padre fosse il Sole (Apollo),
gli chiede di esprimere qualunque suo desiderio: Apollo deve dunque esaudire la richiesta di
guidare il suo carro, ma Fetonte non è in grado, e quindi causa calamità enormi nel mondo,
costringendo Zeus a fulminarlo. Nel terzo libro vengono raccontate le vicende tebane:
Cadmo, Tiresia, ecc.. Trova collocazione la storia di Eco e Narciso, trasformato
nell’omonima fiore. Nel quarto libro sono importanti le storie delle Miniadi, figlie di Mina,
re di Orcomeno, che nelle feste di Dioniso, invece che celebrare il dio, continuarono a
tessere. Il leitmotiv del quinto libro è la presunzione degli uomini che sfidano gli dei (le
Pieridi che sfidano le Muse in una gara in chi le ninfe fanno da giudici, ma che, vinte,
vengono trasformate in gazze); nel sesto libro c’è Aracne, che, vantandosi di essere più abile
di Atena a tessere la tela, viene trasformata in un ragno; Niobe, che si fa beffa di Latona
vantandosi di aver avuto sette figli e sette figlie (Latona aveva invece solo Apollo e Diana),
ma viene trasformata in pietra e i suoi figli vengono tutti uccisi dalle frecce di Apollo;
Marsia, che, dopo aver sfidato Apollo in una gara di musica, perde e viene scorticato vivo
dal dio; il sesto libro si chiude con la storia di Filomela e Procne. Procne aveva sposato
Tereo, al quale chiese di andare a prendere sua sorella Filomela a Tebe perché non la vedeva
ormai da tempo. Nel viaggio di ritorno, Tereo violenta Filomela in una grotta, e, poiché la
donna minacciava di raccontare la verità, le mozzò la lingua. Procne pensava che la sorella
fosse morta, ma Filomela, che era stata nascosta, ricamò la sua storia su una tela e, tramite
un’ancella, la fece consegnare a Procne. Per vendicarsi, Procne uccise il figlio Iti e lo fece
Mangiare a Tereo. Terminato il pasto, Procne gli svela la verità, e Tereo allora le insegue per
ucciderle ma, egli viene trasformato in upupa, Filomela in rondine e Procne in usignolo. Nel
settimo libro si passa poi agli Argonauti e a Medea. Il resto del settimo libro e tutto l’ottavo
libro sono dedicati alle storie cretesi (Teseo ed Arianna; Dedalo, che riesce a fuggire dal
labirinto dopo aver progettato le ali, ma vede morire il figlio Icaro, che si avvicina troppo al
cielo e precipita giù poiché la cera si è sciolta). Il nono libro è dedicato alle vicende di
Ercole; il decimo contiene la storia di Orfeo ed Euridice (come nella IV egloga delle
Georgiche): Euridice, morsa da un serpente, muore. Allora Orfeo scende negli Inferi e col
suo canto convince Ade a restituirgli la moglie. C’è tuttavia un vincolo: Orfeo non può
guardare la moglie prima di essere uscito dagli Inferi. Tuttavia egli si gira, perdendo così per
sempre la moglie; nell’undicesimo libro Orfeo torna ad essere il protagonista sfortunato e
viene squartato dalle donne Tracie, le quali erano state respinte da lui; seguono le storie del
re Mida.
Il dodicesimo libro è dedicato ad alcune vicende della guerra di Troia (il ratto di Elena, ad
esempio); il tredicesimo libro riguarda alcune vicende dell’esercito greco. L’ultima parte
dell’opera è dedicata alle origine mitiche delle origini di Roma. Nel quattordicesimo libro si
parla delle vicende di Enea, il quale, dopo esser arrivato in Lazio, deve combattere per
ottenere Lavinia, figlia del re Latino, e il regno. Dovette combattere con Turno, re dei Rutuli,
e contro gli Etruschi. Il quindicesimo libro è una grande chiusa, in cui Ovidio aggiunge
quegli elementi che possono conferire unità al mondo costruito nella sua opera: entra in scena
il filosofo Pitagora, che spiega a Numa Pompilio la teoria del divenire: poiché tutto muta e
nulla muore, l’anima trasmigra da un essere vivente ad un altro. Nulla è immobile
nell’universo; tutto si muove e cambia aspetto (noi cambiamo durante la vita, l’anno assume
la forma delle quattro stagioni, ecc). L’opera si conclude con la divinizzazione di Giulio
Cesare e la celebrazione di Ottaviano Augusto.
L’intento era di raccontare la storia del mondo, dalle origini del mondo alla Roma dell’età di
Augusto. Quella che è la novità è l’utilizzo di miti di trasformazione (non racconta la storia di
Roma attraverso i miti noti, come l’Eneide di Virgilio). Il problema nel momento in cui un
autore vuole descrivere la storia del mondo è il criterio cronologico, che viene abbandonato
subito dopo la parte introduttiva sulle origini del mondo. Era un criterio abbastanza difficile
da conservare attraverso questa materia mitica, che apriva tanti collegamenti. Rimane solo la
differenza tra miti di età mitica (che finisce con la guerra di Troia) e storica. I criteri sono:
somiglianza, affinità, opposizione, parentela tra i protagonisti di miti diversi (Medea, Arianna
ecc), vicinanza dei luoghi geografici in cui i personaggi agiscono (nel terzo libro si
raccontano le storie di Tebe, nel settimo e nell’ottavo le storie cretesi) e della tecnica del
racconto del racconto da parte di un protagonista (Orfeo ed Euridice: prima Orfeo è
protagonista, dopodiché diventa narratore di altre storie), che diventa narratore stesso. È un
flusso continuo, è come la lava di un vulcano che esce fuori senza sosta. Questo flusso
continuo è sottolineato dalla continuità di un racconto anche oltre la fine del libro in cui è
raccontato (la storia di Fetonte ad esempio continua nel primo libro). Tutto ciò riflette il
principio pitagorico del divenire della vita umana, in base al quale niente si distrugge e
tutto si trasforma (c’è conformità tra la lettura offerta del mondo, che non conosce frattura, e
le modalità che lui offre per la lettura della realtà). Le storie mitiche vengono scelte in
rapporto al loro essere paradigma della rappresentazione di un sentimento: tutte le storie
mettono a fuoco un sentimento, in primis l’amore in tutte le sfumature (parentale, come
Fetonte e il padre, passionale, amicale ecc). Questo raccontare l’uomo è un elemento di
continuità rispetto alla poesia precedente: anche nell’Amores, nella descrizione dei sentimenti
corollari all’amore aveva seguito questo principio di continuità. Qui invece i sentimenti
vengono raccontati attraverso i miti di trasformazione, non attraverso fatti attuali. Ciò per
spiegare che essi sono sempre esistiti. Quello che colpisce di più è la bellezza della poesia,
che è visibile in tante storie (quella che dipinge i sentimenti del dio Sole, che viene messo alla
prova dal figlio Fetonte, il quale, recatosi dal padre, gli chiese di esaudire il desiderio di
guidare il carro del Sole: c’è l’ironia del figlio che mette in dubbio il padre, l’ansia del padre
perché aveva promesso di esaudire ogni desiderio del figlio, la disperazione e il terrore nel
momento in cui vede il figlio schiantarsi e infine il pentimento del padre, consapevole della
debolezza del figlio). Bellissima è la situazione della storia di Eco e Narciso: il tema della
solitudine umana rappresentata dai personaggi (Eco è costretta al silenzio sotto punizione di
Giunone poiché parlava troppo e spifferava le marachelle del marito, fino ad esprimersi
attraverso la ripetizione delle parole pronunciate da un altro. Innamoratasi di Narciso, che si
rende conto che qualcuno la vuole ma lui non può amare un altro perché non riesce ad uscire
da se stesso, c’è la solitudine: Eco diventa solo voce senza corpo, diventa un nulla e anche le
ossa spariscono; Narciso invece condannato a vedere sé stesso). La bellezza è visibile anche
nella trasformazione di uomini per volere degli dei o del destino (anche in Dafne non
vediamo il suo rammarico e la sua disperazione perché questa trasformazione viene accettata
perché questo è il destino tutto ciò che esiste, ovvero il non rimanere sempre se stessi). Le
trasformazioni vengono descritte con un candore e naturalezza straordinari: è come se fosse
la cosa più naturale di questo mondo perché si realizza questo necessario e naturale
compimento del destino, che è insito nella vita di ogni essere umano e del mondo interno, che
non è altro se non divenire e metamorfosi. Sul piano della lingua, essa deve adeguarsi a
descrivere questa realtà che non è statica e che non può essere definita in maniera
precisa: deve adattarsi al divenire. È difficile descrivere qualcosa che non è mai uguale: si
allontana dallo stile classico equilibrato, piano della poesia augustea poiché la lingua deve
ricalcare questa percezione della realtà come instabilità, mutevolezza e illusorietà (si parla di
manierismo ovidiano, stesso nervosismo e tipo di lingua che vediamo in Lucano per
descrivere la realtà non più stabile). Ovidio comincia a vedere la realtà come mutevole, e
anche lui si adegua. Il manierismo preannuncia i tratti della poesia di età imperiale, e fa di
Ovidio l’ispiratore di tutta quell’arte che avrà la sua stessa visione della realtà (che è continuo
divenire). Perché si dice che rappresenta l’apice della poesia di Ovidio? Perché Ovidio offre
la sua visione della realtà, che non vuole rappresentarci un unico modello di lettura, ma solo
una possibilità di conoscere la realtà in ogni suo aspetto. La metamorfosi è quindi simbolo
di questo divenire. Accanto a questo principio che condiziona la sua visione, si rende conto
che la realtà è molteplice (esiste la molteplicità, che collega le cose attraverso questa
contiguità: divenire, contiguità e continuità sono i principi). Il mondo è vario, ma tra le sue
parti (animale, umano e vegetale) c’è una prossimità, continuità: non sono mondi separati.
Proprio per questo è possibile la trasformazione e la realtà va letta e indagata con la
disponibilità ad accogliere tutto ciò che essa ci mostra e racconta di sé senza censure
moralistiche. Il moralismo etico è un altro elemento importante: è un approccio già mostrato
fin dagli Amores, ma le Metamorfosi sono il punto di arrivo. È la visione anti-ideologica
della realtà rispetto a quella di Virgilio (per Ovidio non esiste un’idea che spiega gli eventi:
relativismo morale lo spinge ad acquisire questa visione senza pregiudizi). Perché da 2000 e
più anni questa opera ha affascinato e ispirato tutti i campi dell’arte? Qual è il segreto di
quest’opera? Forse la fantasia può spiegare meglio della scienza i rapporti che esistono nella
realtà tra i vari mondi. Con le Metamorfosi Ovidio fa rivincere la fantasia della poesia (già a
partire da Esiodo) sulla razionalità della scienza e della filosofia. Nell’opera di Ovidio c’è
quindi questa sorta di rivincita della fantasia sulle indagini razionali. Sa benissimo che la
mitologia è invenzione, e spesso inserisce affermazioni che ci fanno capire che lui stesso ha il
dubbio su ciò che sta raccontando, ma questo suo razionalismo invita il lettore a credere nelle
favole, rivendicando questa validità eterna della poesia (fatti venire il dubbio se questo
contenuto spieghi meglio della scienza la parentela su tutto ciò che c’è nel mondo). Ciò non
basta per spiegare il successo dell’opera. Sono state apprezzate anche per l’operazione di
vivificare i racconti mitologici, che egli amalgama creando un mondo in cui non ci sono
storie d’arte (non è un’opera eziologica, erudita ed antiquaria, come quella dei poeti
alessandrini). La mitologia di Ovidio si muove, è viva e non è un esercizio poetico
decorativo: è concentrata sull’uomo come parte integrante dell’uomo. La metamorfosi è
dunque la legge dell’universo. È una storia che potrebbe continuare all’infinito: il mondo è
abitato del mito, che è la storia dell’uomo anche con gli dei, che non sono più gli dei
dell’Olimpo e di Virgilio (che regolano le sorti del mondo): vanno solo a regolare la vita dei
singoli vivendo insieme a loro le storie umane. Tutto è vicino: divinità, uomini, animali,
piante e cose inanimate. Tutto è in movimento sotto la spinta dei sentimenti. La
metamorfosi è una sorta di riciclaggio: nulla si crea o si distrugge. La ri-umanizzazione
della natura attraverso il mito può spiegare in parte il gradimento di quest’opera. Augusto non
si lasciò incantare dalle captatio benevolentiae di Ovidio.

FASTI
I Fasti sono paralleli alle Metamorfosi. Sono del 2 d.C. e sono un poema in distici elegiaci
sulle feste del calendario religioso romano. È un’opera eziologica nazionale. È il
momento in cui cerca di pagare il suo contributo al principato Augusteo (come aveva fatto
Orazio con le Odi Civili). Era stata concepita in 12 libri, uno per mese, ma terminò solo i
primi sei libri: le feste religiose tra Gennaio e Giugno. Probabilmente fu interrotta
dall’esilio a Tomi, a cui non riuscì a sfuggire nemmeno grazie a quest’opera di regime. A
Tomi probabilmente si dedicò alla revisione del primo libro con la sostituzione della
dedica da Augusto a Germanico, sempre nella speranza della revoca dell’esilio. Non
ebbe seguito la prosecuzione per quanto lui dica nell’unica epistola del secondo libro dei
Tristia di aver terminato anche gli altri 6 libri, di cui non c’è nessuna traccia in tutta la
tradizione manoscritta. È un poema che è molto interessante per gli studi antropologici
sull’Antica Roma e per le fonti che cita (Varrone e Flacco). Di ogni festività descrive i
particolari rituali, le origini storiche o leggendarie di questi miti, seguendo il
procedimento eziologico e andando alla ricerca della causa. Spesso si sofferma
sull’etimologia e precisa il periodo dell’anno con riferimenti astrologici molto ben precisi.
Non è un’opera gradevole per la sua struttura ripetitiva e la rigidità: gli unici momenti
gradevoli sono quelli in cui, nella ricerca della causa, si sofferma sulla descrizione di un mito,
che non trasmette un messaggio etico ma dà sfogo al suo piacere di raccontare. Non c’è quel
sentimento civile e religioso, come nell’Eneide, che avrebbe dato all’opera carattere
nazionale e civile. Sente la necessità di affiancarsi ai contemporanei, ma non ci riuscì, pur
partendo da questo bisogno, perché non è un’esigenza interiore, ma quasi un obbligo.

OPERE DELL’ESILIO
I Tristia sono cinque libri di elegie scritte tra il 2 e il 9 d.C. Il primo fu scritto durante la
navigazione verso Tomi, nel lungo mese di navigazione. Sono in totale 50 elegie. Sono le
uniche opere in cui Ovidio parla di sé con rimpianto e cercando almeno il trasferimento in un
luogo più vicino e meno pericoloso. Rivelano lo stato d’animo con cui visse questi 10 anni di
esilio. La decima elegia del quarto libro ci racconta la vita di Ovidio prima dell’esilio; nel
secondo libro ci parla dell’errore e dell’opera che secondo lui sono la causa dell’esilio
(epistola ad Augusto per ammorbidire questo suo atteggiamento, forse con molta ironia) e
nella terza elegia del primo libro ci racconta la partenza di Roma (l’arrivo della notizia, la
disperazione sua e della moglie). Le Epistulae ex Ponto sono una raccolta di lettere in 4 libri
(sono 46 epistole). A differenza dei Tristia, sono vere e proprie lettere con destinatari
dichiarati. I primi tre libri furono composti tra il 12 e 13 e il quarto libro tra il 13 e il 17.
Rispetto ai Tristia, l’elencazione dei destinatari viene esplicitata perché non temeva il
rischio di coinvolgere altre persone in questa sventura. Rievoca questo periodo terribile della
sua vita. Oltre al lamento per le proprie sventure e le preghiere (che spesso diventano
adulazione verso personaggi di cui vorrebbe l’appoggio o che vorrebbe fossero intermediari
con Augusto per una riduzione della pena), nella terza elegia del terzo libro dei Tristia viene
anche descritta la sua condizione di vita a Tomi (l’odierna Costanza, città della Romania
costruita presso le foci del Danubio), la quale viene descritta come un luogo triste, selvaggio
e con un clima insopportabile. A Tomi non c’erano cultura e qualcuno con cui scambiare
parola (l’unica risorsa per non suicidarsi era continuare a scrivere poesia). La visione di
Tomi non è asettica e oggettiva, dal momento che in realtà era un’antica colonia greca e un
importante centro commerciale. Col tempo Ovidio iniziò ad integrarsi e ad imparare il getico,
lingua del posto, con cui scrisse anche un poemetto ad Augusto (che non ci è giunto). Scrisse
inoltre una lettera al re Coti chiedendogli protezione. Essendo la lettera scritta in latino, ciò
significa che l’interlocutore non era così tanto incolto come lui diceva. A Tomi gli hanno
dedicato una piazza con una statua. La sottolineatura della condizione di disperazione che ha
vissuto in questa relegatio è strumentale e viene amplificata per cercare di far breccia
nell’animo delle persone a cui si rivolgeva e per ottenere una riduzione della pena.
Un'altra opera fu l’Ibis, forse del 12. È una specie di invettiva in distici elegiaci contro Ibis
(uccello africano che si ciba di escrementi), ispirandosi all’opera di Callimaco. È un’invettiva
nei confronti di un avversario di cui non dice il nome, dicendo che l'avrebbe fatto se non
avesse smesso. Probabilmente era uno dei falsi amici a Roma che cercavano di far sembrare
la sua colpa ancora più grande. Per i toni aggressivi, somiglia più ad un contenuto vicino al
giambo. È divisa in una prima parte di maledizioni e una seconda parte in cui c’è l’elenco di
personaggi mitici andati incontro a morti tragiche (e che augura all’avversario).
L’Halieuticà è un’opera di Ovidio sulla pesca, di cui alcuni mettono in dubbio l’autenticità.
In questi versi giunti si parla delle caratteristiche dei pesci, si accenna all’arte della pesca e si
dice la tipologia di pesci che si possono trovare in alcune zone.

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