Lucrezio e la filosofia
A contatto con maestri illustri e filosofi, la diffidenza nei confronti della poesia si andava attenuando.
La fallita rivoluzione graccana e le guerre civili tra Mario e Silla, Cesare e Pompeo produssero una
sfiducia nei valori tradizionali. I Romani del I secolo a.C. trovarono nelle filosofie ellenistiche una
dimensione consolatoria.
Stoicismo
Lo stoicismo che influenzò la cultura romana fu piuttosto lontano da quello dell'antica scuola stoica
di Zenone, in quanto vittima di un ammorbidimento, dovuto a Panezio di Rodi e Posidonio d'Apamea.
I Romani recuperarono soprattutto l'etica: l'uomo e il mondo sarebbero partecipi, attraverso l'anima
che li accomuna, del logos, uno spirito superiore, razionale e divino. Conseguenze:
Sapienze e socialità vengono dunque a coincidere, così come avveniva nel mos maiorum. Lo stoicismo
divenne quindi una filosofia adatta ai Romani.
Epicureismo
Deriva da Epicuro di Samo. L'essenza di ogni cosa è formata da atomi in perenne aggregazione di
disgregazione. Conseguenza:
Massime epicuree sono “astieniti” e “vivi nascosto”, precetti che portano all'allontanamento
dall'impegno politico e sociale: vivere con gli altri è fonte di turbamento ed è inutile pregare gli dèi
senza curarsi delle cose umane.
A Roma l'epicureismo trovò grande ostilità, perché in contrasto con il mos maiorum. Nel I secolo sorsero
comunque scuole epicuree:
Al tempo stesso l'angoscia per le guerre civili e l'impossibilità di praticare politica se non in una cruenta
lotta, aveva spinto molti ad accostarsi all'epicureismo, inteso come dottrina che avvicina a una
tranquilla felicità.
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Altre correnti filosofiche
Lucrezio
Non sappiamo nulla del luogo di nascita di Lucrezio, né del suo ambiente di formazione.
Dal De rerum natura sappiamo che fu epicureo, in accordo con il precetto “vivi nascosto” λἀθε βιῶσας.
– San Girolamo che tradusse il Chronicon di Eusebio, integrandolo con notizie prese da Svetonio
(De poetis) parla di un poeta, di nome Tito Lucrezio che, impazzito per un filtro d’amore, scrisse
dei libri nei momenti di lucidità e poi si tolse la vita, intorno al 50 a.C..
– Elio Donato nella Vita Virgilii riferisce che morì nello stesso giorno di Virgilio, ma la notizia è
poco accreditata.
Il silenzio delle fonti e il ritratto geronimiano hanno contribuito alla diffusione dell’immagine di un
poeta solitario, angosciato e maledetto. Grande importanza viene data alla figura della donna, ritratta
come una ragazza perfida, l’artefice del filtro che portò il poeta alla pazzia.
– Tasso aspirava ad essere un Lucrezio cattolico, segno che conosceva questo topos.
– Lo scrittore francese Marcel Schwob (1896) scrisse Vite immaginarie e, come altri,
contraddistinse la serenità del poeta epicureo (Lucrezio) e l’angoscia dell’uomo (anti-Lucrezio),
afflitto da una psicosi maniaco - depressiva, con fasi di entusiasmo e di eccitazione e momenti
di profonda depressione.
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Es: I libro la contrapposizione tra la luminosità di Venere nell'incipit e il finale con la peste d’Atene; la
costrizione a confrontarsi con la morte e l’idea di disfacimento corporeo, del microcosmo e del
macrocosmo, dell’uomo e dell’universo, perché tutto ciò corrisponde a una necessità psicagogica e
terapeutica.
Il silenzio su Lucrezio di Cicerone nelle sue opere filosofiche è un altro problema che contribuisce al
mistero della biografia lucreziana. Egli però aveva definito l’opera di Lucrezio come ricca del bagliore
del talento naturale, ma anche di una grande arte (Tusculanae 1,5).
Probabilmente Lucrezio venne definito folle solo perché professava un credo filosofico materialistico
che il cristianesimo duramente criticava e considerava in qualche modo “pazzia”. Inoltre la follia
d'amore il suicidio sono due temi affrontati nel De rerum natura e probabilmente per questo furono
legati alla biografia del poeta.
Il destinatario dell’opera
Il dedicatario è Caio Memmio, lo stesso che in qualità di pretore condusse con sé tra il 57 e il 56 a.C.
un gruppo di intellettuali, tra cui Cinna e Catullo.
Nei libri I, II e V, forse i più antichi, Lucrezio invoca spesso il destinatario, ma nel resto dei libri la sua
figura scompare, forse perché Memmio cadde in rovina, venne accusato di broglio e nel 52 a.C. si
auto-esiliò ad Atene.
La dedica non risponde a una convenzione letteraria, ma il poeta si rivolge a Memmio con l’ansia del
docente che vuole portarlo a superare i suoi pregiudizi nei confronti dell’epicureismo.
Lucrezio gli presenta i suoi insegnamenti come se fossero dei doni, destinati ad apportare un reale
vantaggio:
De rerum natura, I, 50-53 “Presta libere orecchie e animo sagace e lontano da tutti gli affanni alla vera
dottrina, affinché non abbandoni spregiati i miei doni predisposti per te, con affettuoso zelo, prima di
averli compresi”.
Lucrezio rivendica il merito di avere inventato un lessico specifico in latino per illustrare la dottrina di
Epicuro, nella speranza di godere dell’amicizia di Memmio, finalmente convertito all’epicureismo.
Questa amicizia sperata si chiarisce appieno alla luce del valore dato all’amicizia dagli epicurei, come
comunanza d’affetti e solidarietà fra esseri umani, giustificata su base filosofica (diversa rispetto
all’amicizia tradizionale che si basa sul sostentamento personale nella vita politica).
Si tratta di un poema didascalico d'argomento filosofico in sei libri e 7415 esametri dattilici, con lo
scopo di divulgare a Roma la filosofia epicurea. L'innovazione della sua opera segue due direzioni:
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1. creare a Roma un poema didascalico;
2. conciliare l'epicureismo con la poesia.
L'epicureismo fu per Lucrezio un'esperienza di vita totalizzante ed egli si fece portavoce di questa fede.
Tra i temi affrontati: la natura, le sue leggi, la formazione del mondo, il movimento degli atomi, l'uomo,
la nascita e la morte delle cose, i fenomeni del cielo e della terra.
Struttura: il poema è formato da 6 libri ed è articolato in tre coppie di libri più fortemente connessi
tra di loro (diadi).
– i libri dispari contengono le premesse teoriche per la comprensione dei fenomeni trattati nei
libri pari;
– la prima diade è dedicata agli atomi, alla fisica;
– la seconda diade è dedicata all'anima e all'antropologia;
– la terza diade è dedicata al mondo e alla cosmologia.
– un proemio
– un trapasso (ripresa della materia trattata in precedenza)
– trattazione specifica della materia
– un finale.
Tutti i libri dispari e l'ultimo (I, III, V, VI) comprendono una celebrazione dei meriti del maestro
Epicuro.
Il testo si apre con un proemio generale (Inno a Venere), presenta un elogio della sapienza e all'inizio
del IV libro, in mezzo all'opera, una dichiarazione di poetica, nella quale Lucrezio esalta la novità
della propria poesia.
Incompiutezza: il poema non ebbe l'ultima revisione da parte dell'autore, come mostrano ripetizioni
e incongruenze. Manca la trattazione sulla sostanza degli dèi e delle loro dimore, preannunciata dal
poeta stesso. Doveva essere una chiusa serena per riallacciarsi all'inno a Venere, diversamente
dall'attuale chiusa: la peste d'Atene. Secondo altri studiosi, Lucrezio, invece, voleva proprio
contrapporre l'incipit luminoso alla conclusione catastrofica con il trionfo della morte, per
sottolinearle l'inconciliabilità.
San Girolamo nel Cicero emendavit racconta che Cicerone curò un'edizione del poema e lo stesso
Cicerone ci dice di avere avuto tra le mani il De rerum natura.
Poema didascalico (tradizione letteraria): Il De rerum natura si inscrive nella tradizione del poema
didascalico, iniziata in Grecia da Esiodo e proseguita con i filosofi Senofane, Parmenide ed Empedocle.
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– Empedocle scrisse un Περὶ φύσεως, andato perduto. Lucrezio lo elogia nella sua opera (I, vv.
716 – 733);
– Epoca ellenistica: Fenomeni di Aratro (III secolo a.C.). Si tratta di un poema astronomico in
cui la dimensione mitico-religiosa si fondeva con elementi stoici. Venne tradotto anche da
Cicerone; Theriaka e Alexifarmaka di Nicandro, autore anche di Georgiche e di un trattato sulle
api.
In epoca ellenistica l'interessa per l'argomento erudito e raffinato sostituisce però l'intento didascalico.
Lucrezio si rifaceva più alla tradizione dei presocratici e fu proprio lui a restituire al genere didascalico
la sua originaria funzione propagandistica, rivolta ad un destinatario immediato ma anche a un più
vasto pubblico.
Scelta della poesia: il poema di Lucrezio è in poesia, ma Epicuro si era espresso contro questa forma
espressiva. Condannava la poesia:
Secondo Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 10,121, ad Epicuro veniva attribuita una sentenza: “In
pratica l'uomo saggio non componga poesia”. La poesia infatti era colpevole di turbare e provocare
emozioni e distoglieva l'uomo dal cammino verso la sapienza.
Lucrezio condanna gli eccessi dalla poesia di Ennio, ma lascia due dichiarazioni di poetica sulla
necessità della poesia come strumento di divulgazione filosofica.
Lucrezio insiste sul fascino irresistibile e sulla finalità salutare della poesia. I suoi versi vengono definiti
tam lucida carmina in contrapposizione all'obscura res, la materia oscura della filosofia. Le immagini in
poesia sono più attraenti che in prosa e per questo è necessario allontanarsi da Epicuro.
Lucrezio esprime la sua ammirazione per il poeta-filosofo Empedocle e per il valore pedagogico della
poesia.
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Pessimismo lucreziano: la critica ha rivelato nell'opera di Lucrezio anche alcuni aspetti poco “epicurei”
Per i punti 1 e 2, Lucrezio dovette adattare l'epicureismo alla società romana. Il pessimismo lucreziano
invece viene associato da molti al topos della follia, in quanto la svolta pessimistica potrebbe indicare
un peggioramento della sua sanità mentale. L'ipotesi non convince: l'epicureismo in realtà non è
fondamentalmente ottimista. L'uomo anche per Epicuro è solo con se stesso, senza aiuto divino e
consapevole che la natura che lo circonda sia regolata dalla casualità di aggregazione e disgregazione
degli atomi.
Tra le maggiori conquiste del pensiero di Epicuro, vi è l’aver fatto capire agli uomini che gli dèi vivono
in una condizione di completa estraneità alle vicende umane. Quando essi credevano il contrario, la
vita umana veniva “oppressa dal greve peso della religione”.
Es: sacrificio di Ifigenia. Lucrezio scrive: tantum religio potuit suadere malorum, ossia tanto male poté
suggerire la religione.
Il termine religio significa superstizione. Non è negativa la nozione di dio, ma il fatto che sia stata
associata a inspiegabili eventi atmosferici e celesti.
Secondo la tradizione greca della poesia epica, alla quale il poema didascalico appartiene, l’opera
letteraria deve aprirsi con l’invocazione a una divinità. Secondo Epicuro, gli dèi risiedono beati
negli intermundia, imperturbabili e insensibili alle invocazioni umane.
Lucrezio propone l’invocazione solo per una continuità con il genere letterario. A Venere lascia
però solo l’aspetto estetico.
Il mito racconta che Ifigenia fu sacrificata dal padre Agamennone per placare le ire della dea
Artemide e propiziare venti favorevoli alla partenza della flotta greca per la guerra di Troia.
Il mondo non è opera degli dèi (De rerum natura 5, 146 – 173)
Gli dèi secondo la filosofia epicurea vivono beati negli intermundia, del tutto estranei alle vicende
umane. Il loro modello è quello dell’imperturbabilità (ataraxia) cui il saggio dovrebbe tendere. Se
gli dèi vivono in disparte che bisogno avrebbero avuto di creare il mondo?
- Se gli dèi non sono i creatori del mondo, la teoria fisica atomistica e meccanicistico-
materialistica di Epicuro è l’unico modo per spiegarne l’origine;
Ampia è la sezione che Lucrezio dedica alla nascita della religione. L’idea che esistano esseri divini,
superiori, è legata alle fantasia, ossia al bisogno di spiegare con la loro presenza l’ordine o il caos
dell’universo.
Lucrezio si sofferma sulle nefaste conseguenze della credenza negli dèi. Oppone alla religio deorum
una pietas laica e razionalistica, una “devozione” per la scienza e la filosofia. Lo scopo è denunciare
gli eccessi della religio nella Roma del suo tempo.
La fisica epicurea, divulgata da Lucrezio, si basa sul concetto che “mai nulla nasce dal nulla per cenno
divino) e ciò che nasce “non perisce del tutto / poiché una cosa dall’altra la natura ricrea, / e non
lascia che alcuna ne nasca se non dalla morte di un’altra”.
I principi materiali, gli atomi, possono essere di natura diversa: essi si aggregano e disgregano nel
vuoto, suscitando così la vita dei vegetali, degli animali, dell’uomo e del cosmo.
La visione della realtà è di tipo materialistico con una forte componente meccanicistica, poiché la
scienza è in grado di cogliere le leggi, i meccanismi che regolano questi movimenti.
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La scienza però è limitata dalla dottrina del clinamen, ossia della deviazione (II libro), perché c’è ca-
sualità tra i principi che regolano la “natura delle cose”.
Talora indagare sulla natura può essere fonte di angoscia. La natura è indifferente alla sorte dell’uomo
e per questo è matrigna.
È la prima legge naturale di Lucrezio che trova enunciato nella Epistola e Erodoto 38 di Epicuro.
Lucrezio riprende i concetti di semina e primordia rerum, ossia degli elementi costitutivi delle cose.
Il poeta indica gli atomi della tradizione epicurea con questi termini.
Gli atomi hanno forme diverse e gli uomini, i pesci, gli animali e gli uccelli si differenziano tra loro
per composizione atomica e presentano diversità anche tra le loro varie specie. Esempio ricco di
pathos del dolore di una giovenca per il sacrificio cruento del proprio vitellino: essa non si appaga
della vista di altri animali, ma cerca il suo per un’affinità della componente atomica.
Tra le righe si legge ancora una volta l’empietà della religio, già denunciata nella figura di Ifigenia.
L’argomento è trattato soprattutto nel III libro, in cui si parla della liberazione dal timore della
morte che, come diceva Epicuro, è nulla.
Si afferma che l’animo (componente intellettuale) e l’anima (componente vitale) muoiono. Con la
morte viene meno ogni capacità percettiva. Quando arriva a noi, noi non esistiamo più e per questo
è un fatto che non ci riguarda.
Anche l’amore è per l’uomo fonte d’angoscia. Il sesso è secondo Lucrezio una necessità fisica. L’amore
verso e proprio invece è turbolento. Nel libro IV il poeta afferma che l’amore è infatuazione per il
simulacrum (immagine) della persona amata, che colpisce i nostri sensi e ci obbliga a desiderarla. Le
particelle di questi simulacra sono però piccole, leggere e instabili e per noi risulta impossibili catturarle
del tutto. Ciò genera un’insaziabile sofferenza, una follia
Nel secondo dei quattro elogi di Epicuro, Lucrezio ribadisce la fedeltà al maestro.
1. Primo elogio – Epicuro è visto come un eroe, il nuovo Prometeo che ha liberato gli
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uomini dal condizionamento della religione;
2. Terzo elogio – il maestro è deus che guarisce gli affanni degli uomini;
3. Quarto elogio – la lode del filosofo è intrecciata con quella di Atene, la città dove ebbe
sede la sua scuola.
Nel secondo elogio invece viene esposto brevemente il suo pensiero. La conoscenza della dottrina
epicurea provoca in Lucrezio:
Perfino Epicuro ha dovuto morire e come lui Anco Marcio, Scipione l’Africano, Omero, personaggi
che Lucrezio ha elencato nei versi precedenti. Dunque la morte deve essere accettata da tutti con
serenità. È infatti la morte a provocare continue ansie all’uomo, in quanto effetto da taedium, cioè
da un’inquietudine interiore che non riesce a superare e che lo porta a comportamenti irrazionali
e soprattutto a un continuo spostamento (commutare locum). Ma tutto ciò è vano perché non possiamo
sfuggire a noi stessi. La soluzione consiste nel naturam cognoscere rerum, cioè della scelta di vita
sapienziale, filosofica, che ci libererebbe di ogni paura.
Un impulso naturale
L’amore invece è un’esperienza fallace, poiché l’uomo si invaghisce del simulacrum, cioè di
un’immagina effimera, della persona amata, che colpisce i nostri sensi e ci porta smaniosamente a
desiderarla. L’esito di tale condizione è un allontanamento della strada verso la sapienza.
Nel IV libro della sua opera Lucrezio dedica un’ampia sezione all’amore. In accordo con il pensiero
epicureo, il poeta afferma che il sesso è una necessità fisica. L’amore invece può portare a una vera
e propria follia. Lucrezio denuncia la vita scioperata di chi è innamorato, facendo propri alcuni
costumi del mos maiorum (topos del giovane che scialacqua i beni di famiglia). Il tono è fortemente
sarcastico.
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erano impegnati nella vita politica;
- La scelta della poesia come strumento divulgativo della filosofia;
- Angoscia umana nell’impossibilità di conoscere appieno le leggi di natura;
- Infelicità dell’uomo per la natura matrigna;
- Distruzione del rapporto anima – corpo;
- Difficoltà di vincere il timore della morte e l’illusorietà dell’amore.
Lingua e stile
Lucrezio denuncia la patrii semonis egestas, cioè la povertà della lingua patria, davanti all’impresa di un
poema didascalico di contenuto filosofico. Il suo sforzo è quello di creare:
Lucrezio
1. Deve ragionare in modo logico in quanto divulgatore e quindi sfruttare nessi logici
(principio, porro, preteraea, denique…). Traduce in latino alcune espressioni greche. Ad
esempio, rerum natura corrisponde al greco physis;
2. La poesia didascalica si avvicina spesso alla poesia epica, omerica ed enniana. Lucrezio
innalza quindi il tono, quando vuole colpire il lettore e utilizza arcaismi linguistici,
ampie perifrasi, figure retoriche di suono;
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