Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Fonti antiche ci riferiscono che Platone tenne anche dei corsi intitolati intorno al bene, che non volle
mettere per iscritto, ritenendo più opportuna, per la profondità degli argomenti trattati, la
dimensione dell'oralità dialettica. In queste egli sviluppa una sorta di metafisica, a sfondo Pitagorico,
fondata sui concetti di uno e di diade.
I CARATTERI DELLA FILOSOFIA PLATONICA
La fedeltà all'insegnamento e alla persona di Socrate è il carattere dominante dell'intera attività
filosofica di Platone. Tuttavia, lo sforzo costante di Platone è quello di rintracciare il significato vitale
dell'opera e della figura di Socrate; e per rintracciarlo e renderlo esplicito il filosofo non esita a
procedere al di là del patrimonio dottrinale "ereditato" dal maestro, formulando principi e teorie
che Socrate, è vero, non aveva mai insegnato, ma che vogliono esprimere ciò che la sua persona
incarna. La ricerca platonica tende dunque a configurarsi come uno sforzo di interpretazione della
personalità filosofica di Socrate. La stessa modalità espressiva, il dialogo, rappresenta un atto di
fedeltà al silenzio letterario di Socrate: l'uno e l'altro hanno lo stesso fondamento, cioè la concezione
della filosofia come sapere "aperto", che ripropone incessantemente i suoi problemi e le sue
soluzioni. Il dialogo è il solo mezzo attraverso il quale si possa esprimere e comunicare agli altri la
modalità dell'indagine filosofica. Esso riproduce l'andamento stesso della ricerca, che procede di
tappa in tappa, e soprattutto riproduce quel carattere di socialità e comunanza che rende solidali gli
sforzi di chi coltiva la filosofia. Questa concezione ha fatto sì che egli, nonostante una forte tendenza
assolutistica, abbia di fatto praticato la filosofia come un infinito sforzo verso una verità che l'uomo
non possiede mai totalmente, ma sulla quale è doveroso continuare incessantemente a interrogarsi.
Un'altra delle caratteristiche salienti dell'opera platonica e l'uso dei "miti", ossia di racconti fantastici
attraverso cui vengono esposti concetti e dottrine filosofiche. Si può dire che il mito, in Platone,
rivesta due significati fondamentali:
- in un primo senso, il mito è uno strumento di cui il filosofo si serve per comunicare in
maniera più accessibile e intuitiva le proprie dottrine all'interlocutore;
- in un secondo senso, più profondo il mito è un mezzo di cui il filosofo si serve per poter
parlare di realtà che vanno al di là dei limiti entro i quali l'indagine rigorosamente razionale
deve contenersi. Il mito è dunque qualcosa che si inserisce nelle lacune della ricerca
filosofica.
Interessi e motivazioni del filosofare platonico
Nella Lettera VII dichiara che la passione che lo ha spinto a filosofare è stata la ricerca di una
comunità in cui l'uomo potesse vivere in pace e in giustizia con i suoi simili, ossia la politica.
Esplicitando l'interesse pedagogico-formativo legato a quello politico, è stata poi delineata la figura di
un Platone "educatore" diverso da quello tradizionale, ossia un pensatore soltanto metafisico e
religioso. I progressi degli Studi platonici permettono di dire che Platone fu una mente poliedrica e
universale, che spazziò dalla gnoseologia alla metafisica, dalla religione all'etica, dalla pedagogia alla
matematica.
L’ apologia di socrate e i primi dialoghi
Il primo periodo di attività filosofica di Platone è dedicato all’illustrazione e difesa delle dottrine
socratiche, e alla polemica contro la sofistica. In particolare l’ Apologia di Socrate e il Critone
descrivono l'atteggiamento di Socrate di fronte all’accusa, al processo e alla condanna per empietà, e
il suo rifiuto di sottrarsi alla morte con la fuga:
- L'Apologia di Socrate esalta l'ideale socratico di una vita dedicata alla ricerca filosofica,
perché secondo il filosofo “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta” Dunque
Socrate dichiara che non abbandonerà mai il suo dovere Divino di filosofo, insegnando agli
altri la virtù e aiutandoli a condurre la via del sapere;
- Il Critone mostra Socrate che accetta la morte per il rispetto che l'uomo giusto deve alle leggi
della propria città, infatti per Socrate la ricerca della verità è talmente importante che egli
non può cercare di tradirla fuggendo e svuotandola, così di significato.
Nei dialoghi, invece, Platone ribadisce i capisaldi dell'insegnamento socratico, ovvero:
1. La virtù è una sola e si identifica con la scienza;
2. Solo come scienza, la virtù è insegnabile;
3. Nella virtù come scienza consiste la felicità dell'uomo.
Queste tesi sono esposte nel Gorgia e nel Protagora, ma vengono presentate negativamente in
alcuni dialoghi minori, abbatte tutte le tesi opposte a quelle socratiche. Il metodo usato da Platone è
quello dialettico che consiste nell’ ammettere in via d’ipotesi la tesi opposta per far poi vedere che
essa non conduce a nulla o dimostrare che sfoci nell'assurdità, confermando dunque quella di
Socrate. La tesi fondamentale, la virtù è scienza, implica che la virtù sia unica, se infatti esistessero
più virtù diverse esse non potrebbero essere definite senza rapportarla alle altre o alla scienza
(dall’Eutifrone e Lachete). Se la virtù è unica, unico dovrà essere pure il valore che essa tende a
realizzare, dunque non esistono valori indipendenti e diversi ma solamente l’unico valore che
comprende e assomma in sé tutti gli altri è il bene (dall’Ippia maggiore e Liside). Altri dialoghi dello
stesso periodo insistono sull’esigenza di riconoscere la propria ignoranza come primo passo per
intraprendere la ricerca che deve condurre alla scienza, come lo Ione dove Socrate dimostra che
poeti non sanno nulla delle cosa di cui parlano; e l’Ippia minore che mostra l’identità tra la virtù e
scienza, perché se così non fosse l’uomo che fa male consciamente è superiore all’uomo che lo fa
involontariamente, ciò è assurdo perché il male è sempre ignoranza, come la virtù è scienza.
Il protagora
Nel protagora Platone analizza e dimostra l’unità della virtù e la sua riducibilità al sapere, ponendola
positivamente, diversamente dai dialoghi minori.In questo dialogo rivolto a Protagora, che si dice
“maestro di virtù, Socrate:
- critica la concezione sofistica delle virtù, non definendole come tali ma come insieme di
abilità acquisite involontariamente attraverso l'esperienza, che quindi non possono essere
insegnate e trasmesse agli altri. In verità infatti la virtù è una e comunicabile solo se è
congruente alla scienza (intesa come calcolo dei piaceri), in quanto è l’unica che si possa
insegnare;
- nega che gli insegnamenti impartiti dai sofisti abbiano un valore realmente formativo, perciò
esalta gli insegnamenti di Socrate per contrasto;
L’Eutidemo
Nell’Eutidemo Platone polemizza invece contro l'eristica, ossia l’arte di combattere a parole senza
tenere in alcun conto la verità o la falsità di ciò che si dice. I protagonisti del dialogo sono i due fratelli
Eutidemo e Dionisodoro, che si dilettano nel utilizzare le loro capacità retoriche per appoggiare tesi
assurde e contraddittorie, l'eristica si fonda infatti sull'idea che l'errore in realtà non esista, e quindi
che qualsiasi cosa si dice sia vera. A questa idea Socrate ribatte che se tutto fosse vero non ci sarebbe
nulla da insegnare e da apprendere, perciò la stessa eristica sarebbe inutile. L'unica cosa che si può
insegnare, per Socrate, è la sapienza: secondo Platone, infatti, che parla per bocca del suo maestro, il
vero compito della filosofia non è soltanto quello di apprendere conoscenza ma soprattutto
insegnare ad utilizzare il sapere a vantaggio dell’ uomo.
Il Gorgia
Nel Gorgia Platone attacca la retorica, l'insieme delle tecniche persuasive impiegate dai sofisti,
definendola una pura pratica adulatoria. A questa Platone oppone l’idea secondo cui ogni arte o
scienza è veramente persuasiva solo se si esprime riguardo all’oggetto che le è proprio, dunque la
retorica non avendo oggetto proprio consente di parlare di tutto riuscendo a persuadere solo gli
ignoranti. In questo stesso dialogo, Platone condanna il relativismo morale dei sofisti, derivante dalla
loro tendenza a considerare la giustizia come il frutto di una semplice convenzione umana.In
cotrapposizione all’idea sofistica, Platone intende la giustizia come un presupposto fondamentale per
la nascita e la vita dello Stato, che va al di là del rispetto di leggi convenzionali, e consiste
nell’armonia tra le classi dei cittadini dello Stato e tra le parti dell’anima di un individuo.
Egli inoltre comincia a delineare la sua concezione del bene intesa come capacità di imporre una
misura razionale agli istinti e alle passioni umane. Al discorso sul bene si legano non soltanto questa
ripresa e rielaborazione dell'intellettualismo etico socratico, ma anche la difesa del eudemonismo
tipico della mentalità greca in generale: questo viene sviluppato da Platone in modo originale, ovvero
in direzione di un'etica dell'aldilà, in cui la felicità possa essere intesa come la giusta remunerazione
del bene, di cui l'uomo ha la certezza di godere, se non in vita, almeno dopo la morte.
Il Cratilo
Il Cratilo è dedicato al problema del linguaggio, ossia se il linguaggio sia veramente un mezzo per
comunicare la vera natura delle cose, come affermano Cratilo, i sofisti e Antistene. Platone si oppone
all'idea che esso sia puramente convenzionale, e ritiene che debba essere adatto a farci discernere la
natura delle cose, e dunque ogni nome, salvo i numeri che sono puramente convenzionali, deve
esprimere attraverso lettere e sillabe la natura della cosa significata. Il dialogo inoltre contiene
l’enunciazione delle tre alternative fondamentali che caratterizzeranno costantemente la storia della
teoria del linguaggio:
- la tesi sostenuta da eleati, megarici, sofisti e Democrito secondo cui il linguaggio è pura
convenzione, cioè si deve esclusivamente alla libera iniziativa degli uomini;
- la tesi sostenuta da Cratilo, propria di Eraclito e dei cinici, secondo cui il linguaggio è
naturalmente prodotto dall’azione casuale delle cose;
- la tesi difesa da Platone, secondo cui il linguaggio è la scelta intelligente dello strumento che
serve ad avvicinare l’uomo alla conoscenza delle cose.
Possiamo allora dire che secondo Platone il linguaggio è sì una produzione umana, ma non del tutto
arbitraria, poiché, per quanto è possibile, è diretta ad avvicinare l'uomo alla conoscenza delle
essenze, cioè alla vera e profonda natura delle cose. Il linguaggio per Platone dunque può essere più
o meno esatto, o anche sbagliato, cioè “può dire il falso”.
La dottrina delle idee
Nei dialoghi del primo periodo vediamo che Platone illustra e difende le teorie di Socrate. In seguito
ha però rielaborato gli concetti facendoli suoi e soffermandosi su alcuni aspetti che riteneva più
importanti di altri. In particolare, dà molta importanza al metodo socratico delle definizioni,
interpretandolo come il primo passo verso un sapere assoluto capace di superare il relativismo
sofistico. Ed è proprio nell'ambito di questa battaglia antisofistica che Platone giunge ad elaborare il
concetto di "idea" e a sviluppare la cosiddetta "teoria delle idee", che segna l'avvio della seconda
fase della sua speculazione, ovvero di quella fase in cui il filosofo va esplicitamente al di là delle
dottrine che Socrate aveva insegnato, elaborando un proprio pensiero. Nei dialoghi platonici la teoria
delle idee non è mai esposta in modo organico, anche se essa rappresenta il cuore stesso del
platonismo maturo, tant'è vero che a Platone parve di risolvere i massimi problemi della filosofia solo
dopo averla elaborata.
La genesi della teoria
L'origine della "teoria delle idee" è da ricercare nel concetto di scienza (episteme, sophia) secondo
Platone. In antitesi ai sofisti e procedendo oltre Socrate, Platone ritiene che la scienza debba avere i
caratteri della stabilità e dell’immutabilità, e quindi della perfezione. Inoltre, egli sostiene che il
pensiero rifletta l'essere, ossia che la mente sia uno "specchio" di qualcosa che esiste. In base a
questa concezione, detta realismo gnoseologico, Platone si propone di trovare un "oggetto" della
scienza assoluta e stabile che corrispondesse alla definizione cercata dal suo maestro (che cos'è?).
Secondo Platone, l'oggetto della scienza sono le idee: mentre per noi l'idea denota un pensiero,
frutto del nostro intelletto, per Platone indica un'entità immutabile e perfetta, che esiste per conto
proprio, e che insieme alle altre idee costituisce una zona dell'essere diversa da quella in cui viviamo,
chiamata iperuranio, termine che in greco significa "al di là del cielo" Le idee sono quindi diverse
dalle cose anche se tra di loro esiste uno stretto rapporto che Platone sostiene essere un rapporto
modello-copia. Per il filosofo, infatti, le cose sono copie, o imitazioni imperfette, delle idee. L'idea
platonica è dunque il modello unico e perfetto delle cose molteplici e imperfette di questo mondo.
Per Platone esistono dunque due gradi di conoscenza, l’opinione e la scienza (dualismo
gnoseologico), a cui fanno riscontro due tipi d’essere, le cose e le idee ( dualismo ontologico).
Possiamo vedere da ciò come la filosofia platonica rappresenti una sorta di integrazione tra
l’eraclitismo e l’eleatismo: infatti da Eraclito Platone accetta la teoria secondo cui il nostro mondo è il
regno della mutevolezza, mentre da Parmenide trae il concetto secondo cui l’essere autentico è
immutabile, e i vari caratteri essenziali dell’idea propri dell’essere parmenideo, ossia eterna,
immutabile e perfetta. Dall’eleatismo inoltre deriva anche il dualismo gnoseologico tra sensibilità e
ragione e quello ontologico tra le cose e l’essere.
Quali sono le idee?
Secondo il pensiero platonico della fase di maturità si distinguono fondalmente due tipi di idee:
- le idee-valori, corrispondenti ai supremi principi etici, come ad esempio il bene, la bellezza,
la giustizia che forma tutto ciò che rappresenta un ideale o un valore;
- le idee matematiche che sono quelle dell'aritmetica e della geometria, infatti secondo
Platone vi sono delle idee dei principi matematici in quanto non troviamo mai un uguaglianza
perfetta o il quadrato perfetto di cui parla il matematico ma solo copie imperfette di essi;
- inoltre Platone parla anche di idee di cose artificiali (il letto) e naturali (l'umanità), intorno a
queste ultime tuttavia rimane a lungo piuttosto incerto.
Nella fase di vecchiaia tuttavia vedremo che Platone abbandonerà la nozione etico-matematica
delle idee, finendo per intenderle come forma unica e perfetta di qualsiasi gruppo, o classe di cose.
Pur essendo molteplici, le idee costituiscono una trama di essenze che hanno un ordine gerarchico
piramidale, con le idee ei valori in cima e le idee del Bene al vertice, che è l’idea delle idee, il
supremo valore e la perfezione massima di cui le altre idee sono imitazione o riflesso. L'idea del bene
è stata talora assimilata a Dio, tuttavia questa concezione non trova verifica nei testi platonici. Infatti
pur essendo al di là dell’essere, il bene non crea le idee che sono tutte eterne, ma ne comunica la
perfezione. Per Platone non esiste un Dio persona, ma solamente il divino, denominato
impersonalmente da lui therion, termine che designa una molteplicità di cose diverse, per il filosofo
infatti divine sono le idee, il bene, gli astri eccetera.
Il rapporto tra le idee e le cose
Se da un lato Platone afferma la distinzione tra idee e cose, dall’altro ne sostiene lo stretto legame. Il
rapporto tra idee e cose si configura in una duplice direzione, dal momento che le idee sono:
- criteri di giudizio delle cose, in quanto noi, per formulare i nostri giudizi sugli oggetti, non
possiamo fare a meno di riferirci alle idee. In questo senso, possiamo dire che le idee sono la
condizione della pensabilità degli oggetti;
- cause delle cose, poiché gli individui sono in quanto imitano le idee o partecipano, sia pure
imperfettamente, di esse. In tale prospettiva possiamo affermare che le idee sono la
condizione dell'esistenza degli oggetti, o la loro ragion d'essere.
Nella tarda antichità ellenica il concetto di idea come paradigma delle cose, sarà tradotto con la
nozione di archetipo e le idee verranno definite come le essenze archetipe delle cose.Il rapporto tra
le idee e le cose viene configurato da Platone in almeno tre modi diversi:
- le cose imitano le idee (mimesi);
- le cose partecipano, seppure in misura limitata, alla costituzione delle idee (metessi);
- le cose hanno in se stesse le idee (parusia).
Dove e come esistono le idee
Le idee platoniche sono trascendenti, in quanto esistono "oltre" la mente e le cose. Sono state date
diverse interpretazioni alla parola "oltre", tra le quali quella di stampo cristiano che vedeva il mondo
delle idee in analogia con l’empireo dantesco, mentre ci sono altre interpretazioni di alcuni studiosi
neokantiani del Novecento che vedevano le idee come modelli di classificazione delle cose. Questa
interpretazione viene generalmente rifiutata assieme a quella cristiana, in quanto il mondo platonico
delle idee non consiste né unicamente in degli schemi della nostra mente, né deve essere
interpretato come un universo di “super-cose” esistenti in un qualche cielo metafisico, bensì soltanto
come un ordine eterno di forme o valori ideali. Stabilire con certezza quale interpretazione sia quella
giusta è impossibile, ma la cosa certa è che le idee costituiscono una zona dell'essere diversa da
quella delle cose.
La conoscenza delle idee
Secondo Platone le idee non possono derivare dai sensi poiché questi ci danno testimonianza solo
delle cose materiali e quindi imperfette e mutabili. Quindi, le idee possono essere il frutto di un
processo mentale, una visione intellettuale tale per cui noi troviamo l'idea che accomuna
determinati oggetti. Per spiegare come sia possibile per l'Uomo raggiungere la conoscenza delle idee,
Platone ricorre alla dottrina-mito dell'anamnesi (o reminiscenza), cioè del ricordo: sulla base della
credenza orfico-pitagorica della metempsicosi, egli afferma che l'anima, prima di calarsi nel nostro
corpo, ha vissuto nel mondo delle idee, dove, tra una trasmigrazione e l'altra, ha potuto contemplare
gli esemplari perfetti delle cose. Una volta discesa nel nostro mondo, l'anima conserva un ricordo
sfocato di ciò che ha visto nell'iperuranio e il contatto con le cose sensibili le fornisce lo stimolo per
richiamarle alla memoria, in questo senso, secondo Platone, "conoscere è ricordare'. La teoria
gnoseologica di Platone rappresenta dunque una forma di innatismo, dal momento che si fonda sul
principio secondo cui la conoscenza non deriva dall'esperienza sensibile (come invece afferma la
concezione empiristica), bensì da metri di giudizio preesistenti nel nostro intelletto. Il fondamento
della teoria della reminiscenza è una tesi secondo la quale ognuno di noi porta dentro di sé una
verità prenatale, frutto della contemplazione delle idee nelle vite precedenti. Celebre è l’esempio di
Platone narrato nel Menone, in cui uno schiavo (ignorante in geometria) aiutato da Socrate, riesce a
intuire il teorema di Pitagora. Secondo Platone, quindi, l'uomo non possiede già tutta la verità, ma
non nasce neanche totalmente ignorante, bensì possiede una sorta di pre-conoscenza, un "ricordo"
delle idee precedenti, da cui dobbiamo socraticamente tirar fuori la conoscenza vera e propria. La
dottrina dell'anamnesi ha diviso gli interpreti in due schiere: coloro che intendono le idee come
entità iperuraniche reali prendono il mito alla lettera, pensano quindi che Platone credesse alla
preesistenza delle anime nell’aldilà; mentre coloro che intendono le idee come delle strutture ideali,
vedono nella teoria platonica un simbolo del fatto che l’anima coglie le idee a priori, ossia
indipendentemente di sensi.
L'immortalità dell'anima e il mito di Er
La teoria della reminiscenza postula di per sé l'immortalità dell'anima, dottrina mai sostenuta prima
di allora, che verrà poi ripresa da varie religioni tra cui il Cristianesimo. Nel Fedone, oltre a trattare la
dottrina dell’immortalità dell’anima, Platone propone 3 prove per dimostrare la sua tesi:
1. La prima è quella "dei contrari", ossia come in natura tutto si genera dal proprio contrario,
allo stesso tempo, secondo questa teoria, la morte origina dalla vita e la vita si genera dalla
morte e in questo senso l'anima rivive dopo la morte del corpo fisico;
2. La seconda è quella "della somiglianza" e sostiene che l'anima essendo simile alle idee, che
sono eterne, sarà anch'essa tale. Le anime e le idee sono semplici e, contrariamente a ciò che
è composto e che quindi si può distruggere, le cose semplici non possono essere né create
né distrutte;
3. La terza è quella "della vitalità" che afferma che l'anima, in quanto soffio vitale, è vita e
partecipa all'idea di vita, e pertanto non può accogliere in sé l'opposta idea della morte.
Nel Fedone troviamo anche la dottrina platonica della filosofia come "preparazione alla morte",
Infatti, se filosofare significa morire ai sensi e al corpo per poter cogliere meglio le idee, la vita del
filosofo è una preparazione alla morte, ossia il momento in cui l’anima potrà unirmi direttamente
alle idee. Il Fedone pertanto è la testimonianza di come nell’anima del platonismo vi sia un momento
fortemente religioso e allo stesso tempo un momento mondano-politico, che non viene escluso ma
integrato.
La teoria dell'immortalità dell'anima a Platone serve anche per chiarire il problema del destino.
Secondo il filosofo infatti il destino deriva da una scelta precedentemente compiuta dall'anima nel
mondo delle idee prima di incarnarsi nel corpo. Egli illustra questa sua tesi con il cosiddetto "mito di
Er" con cui si chiude la Repubblica: Er è un guerriero che, morto in battaglia e resuscitato dopo 12
giorni, può raccontare agli uomini ciò che li attende dopo la morte. Alle anime malvagie aspettano
grandi sofferenze, mentre le anime virtuose sono destinate a mille anni di felicità, trascorsi i quali si
si presentano di fronte a Lachesi, una delle tre Moire, per scegliere la loro vita futura. L'ordine della
presentazione a Làchesi è stabilito in modo casuale, mediante un lancio di numeri: le anime che
scelgono per prime hanno una possibilità di scelta più ampia, ma possono comunque preferire una
vita poco virtuosa. Una volta che l'anima ha scelto il proprio destino, Cloto e Atropo (le altre due
Moire) lo confermano e lo rendono definitivo. Quindi le anime si dissetano al fiume Lete, le cui acque
infondono il sonno e l'oblio: si risveglieranno incarnate in un nuovo corpo terreno e non ricorderanno
nulla della loro vita ultraterrena precedente. Ogni anima sceglie il modello di vita che vuole incarnare
evitando il peccato e l'infelicità anche se la scelta è influenzata dalle precedenti esperienze fatte
dall'anima nelle sue vite passate. Per Platone, dunque, l’uomo sceglie il proprio destino, benché sia
in ciò condizionato da ciò che in vita ha voluto essere ed è stato.