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Platone 1

Il platonismo come risposta filosofica a una societa e a una cultura in crisi


Il platonismo si colloca durante un periodo di crisi politico culturale che travaglio la storia nel
periodo in cui Platone nacque. Infatti in quel periodo vi fu il tramonto dell'età periclea, con la
sconfitta della Grecia nella guerra del Peloponneso, il fallimento dell'esperimento dei Trenta
tiranni, e la restaurazione di una democrazia ben diversa da quella precedente, che si macchi anche
della morte di Socrate; ciò fece sì che questo fu un periodo di profonda decadenza. Platone visse
questo periodo come la crisi dell'uomo, non solo politica, ma in senso totale, e per questo idealizza la
figura di Socrate, come simbolo della crisi e della speranza di superarla: infatti per lui da una parte la
morte del suo maestro rappresenta il punto-limite raggiunto dal malessere della società, dall’altra
invece Socrate per Platone è come una luce nelle tenebre, perché voleva rinnovare eticamente
l'uomo sotto il punto di vista umano. Platone pensa che la crisi deriva da una crisi di tipo
intellettuale, per questo egli ritiene che ci sia bisogno di una riforma globale dell'esistenza umana,
una vera e propria rivoluzione culturale in un progetto politico riformatore. Platone registra dunque
la crisi della propria epoca in modo filosofico, ritenendo che soltanto nuove certezze di pensiero
potesse offrire solide basi per una riedificazione esistenziale e politica dell'uomo e di conseguenza
progetta una rifondazione della politica alla luce del sapere.
La vita di platone
Platone (Aristocle) nacque ad Atene nel 427 a.C. e secondo Aristotele fu scolaro di Cratilo. A
vent'anni cominciò a frequentare Socrate, divenendone un discepolo. La morte del suo maestro per
lui fu un evento decisivo, perché considerò la fine di Socrate come un'ingiustizia imperdonabile,
portandolo a una condanna generale della politica del tempo, da qui scaturisce la visione della
filosofia come l'unica via per poter condurre l'uomo verso la giustizia. Dopo la morte Socrate, Platone
si recò a Megara, poi in Egitto e a Cirene. Nei suoi scritti non parla di questi viaggi, ma si dedica
soprattutto a quelli che fece in Italia, dove strinse amicizia con Dione, il cognato di Dionigi il vecchio il
tiranno di Siracusa. Poiché sospettato di aver progettato delle riforme politiche, Platone venne
venduto come schiavo e fu riscattato da Anniceride di Cirene, ma una volta scoperto chi fosse, il
denaro fu utilizzato per fondare l'Accademia, la scuola di Platone, organizzata come un'associazione
religiosa, un tiaso. Alla morte di Dionigi il vecchio, Platone fu richiamato da Dione a Siracusa, alla
corte di Dionigi il Giovane, ma poiché i rapporti tra Dione e Dionigi il giovane erano contrastanti, ogni
tentativo di Platone di poter consigliare la riforma di Stato fu vano. Anni più tardi Dionigi richiamò di
nuovo Platone, ma non riuscì neanche questa volta. Platone quindi lasciò Siracusa e ritornò ad Atene,
dove si dedicò all’insegnamento e dove infine morì nel 347 a.C.
Le opere e le dottrine non scritte
Platone è il primo filosofo dell’antichità di cui ci siano rimaste tutte le opere, ossia: L’apologia di
socrate, 34 dialoghi e 13 lettere, che furono organizzate in 9 gruppi di quattro scritti ciascuno. Tra le
varie opere di Platone gli studiosi sono stati in grado di riconoscere delle spurie (non autentiche),
come l’Alcibiade II, il Minosse e il Teagete, mentre su altre si è ancora dubbiosi, ad esempio
sull’Alcibiade II, l’Ippia Maggiore, e il Clitofonte. Per poter riconoscere l’autenticità di un’opera e
collocarla cronologicamente gli esperti valutano vari criteri: la tradizione e le testimonianze antiche, il
contenuto dottrinale, il valore artistico e soprattutto la forma linguistica, che serve a determinare
l’ordine cronologico. L'attività letteraria di Platone, in base allo studio delle opere, può essere
suddivisa in diversi periodi:
- Il primo periodo (scritti giovanili o socratici) come ad esempio Apologia, Ione,Cratilo, Ippia
maggiore, Ippia minore, Gorgia, Repubblica I, Protagora;
- Il secondo periodo (scritti della maturità), Fedone, Simposio, Repubblica II-X, Menone,
Fedro;
- Il terzo periodo (scritti in vecchiaia), Parmenide, Sofista, Politico, Timeo, Crizia, Leggi.

Fonti antiche ci riferiscono che Platone tenne anche dei corsi intitolati intorno al bene, che non volle
mettere per iscritto, ritenendo più opportuna, per la profondità degli argomenti trattati, la
dimensione dell'oralità dialettica. In queste egli sviluppa una sorta di metafisica, a sfondo Pitagorico,
fondata sui concetti di uno e di diade.
I CARATTERI DELLA FILOSOFIA PLATONICA
La fedeltà all'insegnamento e alla persona di Socrate è il carattere dominante dell'intera attività
filosofica di Platone. Tuttavia, lo sforzo costante di Platone è quello di rintracciare il significato vitale
dell'opera e della figura di Socrate; e per rintracciarlo e renderlo esplicito il filosofo non esita a
procedere al di là del patrimonio dottrinale "ereditato" dal maestro, formulando principi e teorie
che Socrate, è vero, non aveva mai insegnato, ma che vogliono esprimere ciò che la sua persona
incarna. La ricerca platonica tende dunque a configurarsi come uno sforzo di interpretazione della
personalità filosofica di Socrate. La stessa modalità espressiva, il dialogo, rappresenta un atto di
fedeltà al silenzio letterario di Socrate: l'uno e l'altro hanno lo stesso fondamento, cioè la concezione
della filosofia come sapere "aperto", che ripropone incessantemente i suoi problemi e le sue
soluzioni. Il dialogo è il solo mezzo attraverso il quale si possa esprimere e comunicare agli altri la
modalità dell'indagine filosofica. Esso riproduce l'andamento stesso della ricerca, che procede di
tappa in tappa, e soprattutto riproduce quel carattere di socialità e comunanza che rende solidali gli
sforzi di chi coltiva la filosofia. Questa concezione ha fatto sì che egli, nonostante una forte tendenza
assolutistica, abbia di fatto praticato la filosofia come un infinito sforzo verso una verità che l'uomo
non possiede mai totalmente, ma sulla quale è doveroso continuare incessantemente a interrogarsi.
Un'altra delle caratteristiche salienti dell'opera platonica e l'uso dei "miti", ossia di racconti fantastici
attraverso cui vengono esposti concetti e dottrine filosofiche. Si può dire che il mito, in Platone,
rivesta due significati fondamentali:
- in un primo senso, il mito è uno strumento di cui il filosofo si serve per comunicare in
maniera più accessibile e intuitiva le proprie dottrine all'interlocutore;
- in un secondo senso, più profondo il mito è un mezzo di cui il filosofo si serve per poter
parlare di realtà che vanno al di là dei limiti entro i quali l'indagine rigorosamente razionale
deve contenersi. Il mito è dunque qualcosa che si inserisce nelle lacune della ricerca
filosofica.
Interessi e motivazioni del filosofare platonico
Nella Lettera VII dichiara che la passione che lo ha spinto a filosofare è stata la ricerca di una
comunità in cui l'uomo potesse vivere in pace e in giustizia con i suoi simili, ossia la politica.
Esplicitando l'interesse pedagogico-formativo legato a quello politico, è stata poi delineata la figura di
un Platone "educatore" diverso da quello tradizionale, ossia un pensatore soltanto metafisico e
religioso. I progressi degli Studi platonici permettono di dire che Platone fu una mente poliedrica e
universale, che spazziò dalla gnoseologia alla metafisica, dalla religione all'etica, dalla pedagogia alla
matematica.
L’ apologia di socrate e i primi dialoghi
Il primo periodo di attività filosofica di Platone è dedicato all’illustrazione e difesa delle dottrine
socratiche, e alla polemica contro la sofistica. In particolare l’ Apologia di Socrate e il Critone
descrivono l'atteggiamento di Socrate di fronte all’accusa, al processo e alla condanna per empietà, e
il suo rifiuto di sottrarsi alla morte con la fuga:
- L'Apologia di Socrate esalta l'ideale socratico di una vita dedicata alla ricerca filosofica,
perché secondo il filosofo “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta” Dunque
Socrate dichiara che non abbandonerà mai il suo dovere Divino di filosofo, insegnando agli
altri la virtù e aiutandoli a condurre la via del sapere;
- Il Critone mostra Socrate che accetta la morte per il rispetto che l'uomo giusto deve alle leggi
della propria città, infatti per Socrate la ricerca della verità è talmente importante che egli
non può cercare di tradirla fuggendo e svuotandola, così di significato.
Nei dialoghi, invece, Platone ribadisce i capisaldi dell'insegnamento socratico, ovvero:
1. La virtù è una sola e si identifica con la scienza;
2. Solo come scienza, la virtù è insegnabile;
3. Nella virtù come scienza consiste la felicità dell'uomo.
Queste tesi sono esposte nel Gorgia e nel Protagora, ma vengono presentate negativamente in
alcuni dialoghi minori, abbatte tutte le tesi opposte a quelle socratiche. Il metodo usato da Platone è
quello dialettico che consiste nell’ ammettere in via d’ipotesi la tesi opposta per far poi vedere che
essa non conduce a nulla o dimostrare che sfoci nell'assurdità, confermando dunque quella di
Socrate. La tesi fondamentale, la virtù è scienza, implica che la virtù sia unica, se infatti esistessero
più virtù diverse esse non potrebbero essere definite senza rapportarla alle altre o alla scienza
(dall’Eutifrone e Lachete). Se la virtù è unica, unico dovrà essere pure il valore che essa tende a
realizzare, dunque non esistono valori indipendenti e diversi ma solamente l’unico valore che
comprende e assomma in sé tutti gli altri è il bene (dall’Ippia maggiore e Liside). Altri dialoghi dello
stesso periodo insistono sull’esigenza di riconoscere la propria ignoranza come primo passo per
intraprendere la ricerca che deve condurre alla scienza, come lo Ione dove Socrate dimostra che
poeti non sanno nulla delle cosa di cui parlano; e l’Ippia minore che mostra l’identità tra la virtù e
scienza, perché se così non fosse l’uomo che fa male consciamente è superiore all’uomo che lo fa
involontariamente, ciò è assurdo perché il male è sempre ignoranza, come la virtù è scienza.
Il protagora
Nel protagora Platone analizza e dimostra l’unità della virtù e la sua riducibilità al sapere, ponendola
positivamente, diversamente dai dialoghi minori.In questo dialogo rivolto a Protagora, che si dice
“maestro di virtù, Socrate:
- critica la concezione sofistica delle virtù, non definendole come tali ma come insieme di
abilità acquisite involontariamente attraverso l'esperienza, che quindi non possono essere
insegnate e trasmesse agli altri. In verità infatti la virtù è una e comunicabile solo se è
congruente alla scienza (intesa come calcolo dei piaceri), in quanto è l’unica che si possa
insegnare;
- nega che gli insegnamenti impartiti dai sofisti abbiano un valore realmente formativo, perciò
esalta gli insegnamenti di Socrate per contrasto;
L’Eutidemo
Nell’Eutidemo Platone polemizza invece contro l'eristica, ossia l’arte di combattere a parole senza
tenere in alcun conto la verità o la falsità di ciò che si dice. I protagonisti del dialogo sono i due fratelli
Eutidemo e Dionisodoro, che si dilettano nel utilizzare le loro capacità retoriche per appoggiare tesi
assurde e contraddittorie, l'eristica si fonda infatti sull'idea che l'errore in realtà non esista, e quindi
che qualsiasi cosa si dice sia vera. A questa idea Socrate ribatte che se tutto fosse vero non ci sarebbe
nulla da insegnare e da apprendere, perciò la stessa eristica sarebbe inutile. L'unica cosa che si può
insegnare, per Socrate, è la sapienza: secondo Platone, infatti, che parla per bocca del suo maestro, il
vero compito della filosofia non è soltanto quello di apprendere conoscenza ma soprattutto
insegnare ad utilizzare il sapere a vantaggio dell’ uomo.
Il Gorgia
Nel Gorgia Platone attacca la retorica, l'insieme delle tecniche persuasive impiegate dai sofisti,
definendola una pura pratica adulatoria. A questa Platone oppone l’idea secondo cui ogni arte o
scienza è veramente persuasiva solo se si esprime riguardo all’oggetto che le è proprio, dunque la
retorica non avendo oggetto proprio consente di parlare di tutto riuscendo a persuadere solo gli
ignoranti. In questo stesso dialogo, Platone condanna il relativismo morale dei sofisti, derivante dalla
loro tendenza a considerare la giustizia come il frutto di una semplice convenzione umana.In
cotrapposizione all’idea sofistica, Platone intende la giustizia come un presupposto fondamentale per
la nascita e la vita dello Stato, che va al di là del rispetto di leggi convenzionali, e consiste
nell’armonia tra le classi dei cittadini dello Stato e tra le parti dell’anima di un individuo.
Egli inoltre comincia a delineare la sua concezione del bene intesa come capacità di imporre una
misura razionale agli istinti e alle passioni umane. Al discorso sul bene si legano non soltanto questa
ripresa e rielaborazione dell'intellettualismo etico socratico, ma anche la difesa del eudemonismo
tipico della mentalità greca in generale: questo viene sviluppato da Platone in modo originale, ovvero
in direzione di un'etica dell'aldilà, in cui la felicità possa essere intesa come la giusta remunerazione
del bene, di cui l'uomo ha la certezza di godere, se non in vita, almeno dopo la morte.
Il Cratilo
Il Cratilo è dedicato al problema del linguaggio, ossia se il linguaggio sia veramente un mezzo per
comunicare la vera natura delle cose, come affermano Cratilo, i sofisti e Antistene. Platone si oppone
all'idea che esso sia puramente convenzionale, e ritiene che debba essere adatto a farci discernere la
natura delle cose, e dunque ogni nome, salvo i numeri che sono puramente convenzionali, deve
esprimere attraverso lettere e sillabe la natura della cosa significata. Il dialogo inoltre contiene
l’enunciazione delle tre alternative fondamentali che caratterizzeranno costantemente la storia della
teoria del linguaggio:
- la tesi sostenuta da eleati, megarici, sofisti e Democrito secondo cui il linguaggio è pura
convenzione, cioè si deve esclusivamente alla libera iniziativa degli uomini;
- la tesi sostenuta da Cratilo, propria di Eraclito e dei cinici, secondo cui il linguaggio è
naturalmente prodotto dall’azione casuale delle cose;
- la tesi difesa da Platone, secondo cui il linguaggio è la scelta intelligente dello strumento che
serve ad avvicinare l’uomo alla conoscenza delle cose.
Possiamo allora dire che secondo Platone il linguaggio è sì una produzione umana, ma non del tutto
arbitraria, poiché, per quanto è possibile, è diretta ad avvicinare l'uomo alla conoscenza delle
essenze, cioè alla vera e profonda natura delle cose. Il linguaggio per Platone dunque può essere più
o meno esatto, o anche sbagliato, cioè “può dire il falso”.
La dottrina delle idee
Nei dialoghi del primo periodo vediamo che Platone illustra e difende le teorie di Socrate. In seguito
ha però rielaborato gli concetti facendoli suoi e soffermandosi su alcuni aspetti che riteneva più
importanti di altri. In particolare, dà molta importanza al metodo socratico delle definizioni,
interpretandolo come il primo passo verso un sapere assoluto capace di superare il relativismo
sofistico. Ed è proprio nell'ambito di questa battaglia antisofistica che Platone giunge ad elaborare il
concetto di "idea" e a sviluppare la cosiddetta "teoria delle idee", che segna l'avvio della seconda
fase della sua speculazione, ovvero di quella fase in cui il filosofo va esplicitamente al di là delle
dottrine che Socrate aveva insegnato, elaborando un proprio pensiero. Nei dialoghi platonici la teoria
delle idee non è mai esposta in modo organico, anche se essa rappresenta il cuore stesso del
platonismo maturo, tant'è vero che a Platone parve di risolvere i massimi problemi della filosofia solo
dopo averla elaborata.
La genesi della teoria
L'origine della "teoria delle idee" è da ricercare nel concetto di scienza (episteme, sophia) secondo
Platone. In antitesi ai sofisti e procedendo oltre Socrate, Platone ritiene che la scienza debba avere i
caratteri della stabilità e dell’immutabilità, e quindi della perfezione. Inoltre, egli sostiene che il
pensiero rifletta l'essere, ossia che la mente sia uno "specchio" di qualcosa che esiste. In base a
questa concezione, detta realismo gnoseologico, Platone si propone di trovare un "oggetto" della
scienza assoluta e stabile che corrispondesse alla definizione cercata dal suo maestro (che cos'è?).
Secondo Platone, l'oggetto della scienza sono le idee: mentre per noi l'idea denota un pensiero,
frutto del nostro intelletto, per Platone indica un'entità immutabile e perfetta, che esiste per conto
proprio, e che insieme alle altre idee costituisce una zona dell'essere diversa da quella in cui viviamo,
chiamata iperuranio, termine che in greco significa "al di là del cielo" Le idee sono quindi diverse
dalle cose anche se tra di loro esiste uno stretto rapporto che Platone sostiene essere un rapporto
modello-copia. Per il filosofo, infatti, le cose sono copie, o imitazioni imperfette, delle idee. L'idea
platonica è dunque il modello unico e perfetto delle cose molteplici e imperfette di questo mondo.
Per Platone esistono dunque due gradi di conoscenza, l’opinione e la scienza (dualismo
gnoseologico), a cui fanno riscontro due tipi d’essere, le cose e le idee ( dualismo ontologico).
Possiamo vedere da ciò come la filosofia platonica rappresenti una sorta di integrazione tra
l’eraclitismo e l’eleatismo: infatti da Eraclito Platone accetta la teoria secondo cui il nostro mondo è il
regno della mutevolezza, mentre da Parmenide trae il concetto secondo cui l’essere autentico è
immutabile, e i vari caratteri essenziali dell’idea propri dell’essere parmenideo, ossia eterna,
immutabile e perfetta. Dall’eleatismo inoltre deriva anche il dualismo gnoseologico tra sensibilità e
ragione e quello ontologico tra le cose e l’essere.
Quali sono le idee?
Secondo il pensiero platonico della fase di maturità si distinguono fondalmente due tipi di idee:
- le idee-valori, corrispondenti ai supremi principi etici, come ad esempio il bene, la bellezza,
la giustizia che forma tutto ciò che rappresenta un ideale o un valore;
- le idee matematiche che sono quelle dell'aritmetica e della geometria, infatti secondo
Platone vi sono delle idee dei principi matematici in quanto non troviamo mai un uguaglianza
perfetta o il quadrato perfetto di cui parla il matematico ma solo copie imperfette di essi;
- inoltre Platone parla anche di idee di cose artificiali (il letto) e naturali (l'umanità), intorno a
queste ultime tuttavia rimane a lungo piuttosto incerto.
Nella fase di vecchiaia tuttavia vedremo che Platone abbandonerà la nozione etico-matematica
delle idee, finendo per intenderle come forma unica e perfetta di qualsiasi gruppo, o classe di cose.
Pur essendo molteplici, le idee costituiscono una trama di essenze che hanno un ordine gerarchico
piramidale, con le idee ei valori in cima e le idee del Bene al vertice, che è l’idea delle idee, il
supremo valore e la perfezione massima di cui le altre idee sono imitazione o riflesso. L'idea del bene
è stata talora assimilata a Dio, tuttavia questa concezione non trova verifica nei testi platonici. Infatti
pur essendo al di là dell’essere, il bene non crea le idee che sono tutte eterne, ma ne comunica la
perfezione. Per Platone non esiste un Dio persona, ma solamente il divino, denominato
impersonalmente da lui therion, termine che designa una molteplicità di cose diverse, per il filosofo
infatti divine sono le idee, il bene, gli astri eccetera.
Il rapporto tra le idee e le cose
Se da un lato Platone afferma la distinzione tra idee e cose, dall’altro ne sostiene lo stretto legame. Il
rapporto tra idee e cose si configura in una duplice direzione, dal momento che le idee sono:
- criteri di giudizio delle cose, in quanto noi, per formulare i nostri giudizi sugli oggetti, non
possiamo fare a meno di riferirci alle idee. In questo senso, possiamo dire che le idee sono la
condizione della pensabilità degli oggetti;
- cause delle cose, poiché gli individui sono in quanto imitano le idee o partecipano, sia pure
imperfettamente, di esse. In tale prospettiva possiamo affermare che le idee sono la
condizione dell'esistenza degli oggetti, o la loro ragion d'essere.
Nella tarda antichità ellenica il concetto di idea come paradigma delle cose, sarà tradotto con la
nozione di archetipo e le idee verranno definite come le essenze archetipe delle cose.Il rapporto tra
le idee e le cose viene configurato da Platone in almeno tre modi diversi:
- le cose imitano le idee (mimesi);
- le cose partecipano, seppure in misura limitata, alla costituzione delle idee (metessi);
- le cose hanno in se stesse le idee (parusia).
Dove e come esistono le idee
Le idee platoniche sono trascendenti, in quanto esistono "oltre" la mente e le cose. Sono state date
diverse interpretazioni alla parola "oltre", tra le quali quella di stampo cristiano che vedeva il mondo
delle idee in analogia con l’empireo dantesco, mentre ci sono altre interpretazioni di alcuni studiosi
neokantiani del Novecento che vedevano le idee come modelli di classificazione delle cose. Questa
interpretazione viene generalmente rifiutata assieme a quella cristiana, in quanto il mondo platonico
delle idee non consiste né unicamente in degli schemi della nostra mente, né deve essere
interpretato come un universo di “super-cose” esistenti in un qualche cielo metafisico, bensì soltanto
come un ordine eterno di forme o valori ideali. Stabilire con certezza quale interpretazione sia quella
giusta è impossibile, ma la cosa certa è che le idee costituiscono una zona dell'essere diversa da
quella delle cose.
La conoscenza delle idee
Secondo Platone le idee non possono derivare dai sensi poiché questi ci danno testimonianza solo
delle cose materiali e quindi imperfette e mutabili. Quindi, le idee possono essere il frutto di un
processo mentale, una visione intellettuale tale per cui noi troviamo l'idea che accomuna
determinati oggetti. Per spiegare come sia possibile per l'Uomo raggiungere la conoscenza delle idee,
Platone ricorre alla dottrina-mito dell'anamnesi (o reminiscenza), cioè del ricordo: sulla base della
credenza orfico-pitagorica della metempsicosi, egli afferma che l'anima, prima di calarsi nel nostro
corpo, ha vissuto nel mondo delle idee, dove, tra una trasmigrazione e l'altra, ha potuto contemplare
gli esemplari perfetti delle cose. Una volta discesa nel nostro mondo, l'anima conserva un ricordo
sfocato di ciò che ha visto nell'iperuranio e il contatto con le cose sensibili le fornisce lo stimolo per
richiamarle alla memoria, in questo senso, secondo Platone, "conoscere è ricordare'. La teoria
gnoseologica di Platone rappresenta dunque una forma di innatismo, dal momento che si fonda sul
principio secondo cui la conoscenza non deriva dall'esperienza sensibile (come invece afferma la
concezione empiristica), bensì da metri di giudizio preesistenti nel nostro intelletto. Il fondamento
della teoria della reminiscenza è una tesi secondo la quale ognuno di noi porta dentro di sé una
verità prenatale, frutto della contemplazione delle idee nelle vite precedenti. Celebre è l’esempio di
Platone narrato nel Menone, in cui uno schiavo (ignorante in geometria) aiutato da Socrate, riesce a
intuire il teorema di Pitagora. Secondo Platone, quindi, l'uomo non possiede già tutta la verità, ma
non nasce neanche totalmente ignorante, bensì possiede una sorta di pre-conoscenza, un "ricordo"
delle idee precedenti, da cui dobbiamo socraticamente tirar fuori la conoscenza vera e propria. La
dottrina dell'anamnesi ha diviso gli interpreti in due schiere: coloro che intendono le idee come
entità iperuraniche reali prendono il mito alla lettera, pensano quindi che Platone credesse alla
preesistenza delle anime nell’aldilà; mentre coloro che intendono le idee come delle strutture ideali,
vedono nella teoria platonica un simbolo del fatto che l’anima coglie le idee a priori, ossia
indipendentemente di sensi.
L'immortalità dell'anima e il mito di Er
La teoria della reminiscenza postula di per sé l'immortalità dell'anima, dottrina mai sostenuta prima
di allora, che verrà poi ripresa da varie religioni tra cui il Cristianesimo. Nel Fedone, oltre a trattare la
dottrina dell’immortalità dell’anima, Platone propone 3 prove per dimostrare la sua tesi:
1. La prima è quella "dei contrari", ossia come in natura tutto si genera dal proprio contrario,
allo stesso tempo, secondo questa teoria, la morte origina dalla vita e la vita si genera dalla
morte e in questo senso l'anima rivive dopo la morte del corpo fisico;
2. La seconda è quella "della somiglianza" e sostiene che l'anima essendo simile alle idee, che
sono eterne, sarà anch'essa tale. Le anime e le idee sono semplici e, contrariamente a ciò che
è composto e che quindi si può distruggere, le cose semplici non possono essere né create
né distrutte;
3. La terza è quella "della vitalità" che afferma che l'anima, in quanto soffio vitale, è vita e
partecipa all'idea di vita, e pertanto non può accogliere in sé l'opposta idea della morte.
Nel Fedone troviamo anche la dottrina platonica della filosofia come "preparazione alla morte",
Infatti, se filosofare significa morire ai sensi e al corpo per poter cogliere meglio le idee, la vita del
filosofo è una preparazione alla morte, ossia il momento in cui l’anima potrà unirmi direttamente
alle idee. Il Fedone pertanto è la testimonianza di come nell’anima del platonismo vi sia un momento
fortemente religioso e allo stesso tempo un momento mondano-politico, che non viene escluso ma
integrato.
La teoria dell'immortalità dell'anima a Platone serve anche per chiarire il problema del destino.
Secondo il filosofo infatti il destino deriva da una scelta precedentemente compiuta dall'anima nel
mondo delle idee prima di incarnarsi nel corpo. Egli illustra questa sua tesi con il cosiddetto "mito di
Er" con cui si chiude la Repubblica: Er è un guerriero che, morto in battaglia e resuscitato dopo 12
giorni, può raccontare agli uomini ciò che li attende dopo la morte. Alle anime malvagie aspettano
grandi sofferenze, mentre le anime virtuose sono destinate a mille anni di felicità, trascorsi i quali si
si presentano di fronte a Lachesi, una delle tre Moire, per scegliere la loro vita futura. L'ordine della
presentazione a Làchesi è stabilito in modo casuale, mediante un lancio di numeri: le anime che
scelgono per prime hanno una possibilità di scelta più ampia, ma possono comunque preferire una
vita poco virtuosa. Una volta che l'anima ha scelto il proprio destino, Cloto e Atropo (le altre due
Moire) lo confermano e lo rendono definitivo. Quindi le anime si dissetano al fiume Lete, le cui acque
infondono il sonno e l'oblio: si risveglieranno incarnate in un nuovo corpo terreno e non ricorderanno
nulla della loro vita ultraterrena precedente. Ogni anima sceglie il modello di vita che vuole incarnare
evitando il peccato e l'infelicità anche se la scelta è influenzata dalle precedenti esperienze fatte
dall'anima nelle sue vite passate. Per Platone, dunque, l’uomo sceglie il proprio destino, benché sia
in ciò condizionato da ciò che in vita ha voluto essere ed è stato.

La teoria delle idee come antidoto al relativismo sofistico


Se la teoria delle idee costituisce il cuore della filosofia platonica, l’opposizione al relativismo
sofistico costituisce il cuore della dottrina delle idee. Infatti Platone può essere filosoficamente
compreso solo in antitesi ai sofisti. Nella schematizzazione platonica il relativismo sofistico tende a
divenire un tutto indistinto e ad identificarsi con una filosofia negatrice di ogni stabile punto di vista
sulle cose. Platone oppone al relativismo dei sofisti una restaurazione di una qualche forma di
assolutismo. Tra l'assolutismo e il relativismo estremo, ci sono pensatori come Protagora e Socrate
che hanno cercato di trovare dei punti di accordo, come l'utile comune di Protagora o la virtù come
scienza di Socrate. Ma per Platone non esistono altre vie di scampo se non la restaurazione di
certezze assolute e per questo motivo la dottrina delle idee diviene lo strumento più prezioso e
decisivo della sua filosofia. Grazie ad essa, il filosofo può affermare la presenza di strutture o
perfezioni ideali che hanno validità oggettiva e universale. L'umanismo sofistico e socratico, che
afferma che l'uomo è misura delle cose e della verità, viene messo da parte e sostituito da una
concezione in base alla quale è qualcosa di extra-umano, in questo caso la verità ossia le idee, a
"regolare" l'uomo. Analogamente, posta l’idea come superiore punto di accordo tra le menti, crolla il
relativismo conoscitivo e morale dei sofisti. La conoscenza, infatti, torna ad avere un valore assoluto
e cessa di essere relativa all'uomo e al soggetto giudicante. Esempio di ciò, per Platone, sono:
- la matematica, che in virtù delle idee matematiche parla un linguaggio che vale per tutti;
- la morale, torna ad avere una validità assoluta, in quanto le idee-valori permettono al
filosofo di delineare un discorso etico-politico universale;
- il linguaggio, che i sofisti, in particolare Gorgia, ritenevano incapace di descrivere dell'essere,
secondo Platone, fondandosi sulle idee risulta capace di rivelarci l'essere e la verità.
La finalità política della teoria delle idee
Platone ritiene che il relativismo non possa che produrre disordine e violenza, o al limite la
teorizzazione della legge del più forte. Di conseguenza, con la dottrina delle idee, Platone vuole
offrire agli uomini uno strumento per uscire dal caos delle opinioni e dei costumi e per sottrarsi alle
lotte e alle violenze in cui la molteplicità dei punti di vista li ha fatti inevitabilmente cadere.
L’assolutismo della teoria delle idee rappresenta dunque lo strumento principale di battaglia contro il
relativismo politico e contro l’anarchia sociale. Da ciò Platone ricava i termini essenziali
dell’equazione risolutiva della crisi: conoscenza delle idee = fondazione di una scienza politica
universale = pace e giustizia tra gli uomini.
La dottrina dell' amore e della bellezza
Il sapere stabilisce tra l'uomo e le idee, e tra gli uomini associati nella comune ricerca, un rapporto
che non è puramente intellettuale perché impegna l'uomo anche dal punto di vista della volontà.
Questo rapporto è definito da Platone come amore (èros). Alla teoria dell'amore sono dedicati due
dei dialoghi Platonici: il Simposio e il Fedro. Il Simposio si focalizza sull'oggetto dell'amore, ossia sulla
bellezza e vuole stabilire i gradi gerarchici. Il Fedro si focalizza invece sull'amore nella sua soggettività
che aspira a raggiungere il mondo delle idee, dove vi è l'idea di bellezza. L'amore è il ponte tra
mondo intelligibile e mondo sensibile.
Il Simposio
I discorsi che gli interlocutori del Simposio pronunciano in lode di éros mettono in luce una serie di
caratteri dell'amore, che verranno poi giustificati e sintetizzati nel discorso di Socrate. Pausania
distingue tra éros volgare, che si rivolge ai corpi, ed éros celeste, che si rivolge alle anime; Erissimaco
vede invece nell'amore la forza cosmica che determina le proporzioni e l'armonia di tutti fenomeni;
Aristofane espone il mito degli "androgini", uomini primitivi composti d’uomo e divisi dagli dei per
punizione in due metà di cui l’una va in cerca dell’altra per unirsi e ricostituire l’essere primitivo.
Questo mito sottolinea come uno dei caratteri fondamentali dell'uomo rivelati dall'amore sia
l'insufficienza, o incompletezza. A questo punto inizia Socrate a fare il proprio discorso: éros, Amore,
desidera qualcosa che non ha, ma di cui ha bisogno, ed è quindi mancanza. Secondo il mito, esso non
è né un dio né un mortale, bensì un "demone", in quanto è nato dall'unione del dio Pôros
(l'abbondanza) e di Penia (la povertà): egli non ha sapienza, ma aspira a possederla, e in questo senso
è filosofo, mentre gli dei sono sapienti. Ma soprattutto l'amore non ha la bellezza, e la desidera in
quanto essa è il bene che rende felici. L'uomo, infatti, che è mortale, tende a "generare nella
bellezza", cioè a permanere attraverso la generazione, lasciando dopo di sé un essere che gli
somiglia. La bellezza è quindi il fine e l'oggetto dell'amore. La bellezza ha diversi gradi: in un primo
momento si è attratti dalla bellezza di un corpo; a questo punto si capisce che la bellezza è uguale in
tutti i corpi e così si cerca di raggiungere il secondo stadio che è la bellezza del corpo nella sua
totalità; ma al di sopra di questa c'è la bellezza dell'anima, e poi ancora la bellezza delle istituzioni e
delle leggi per poi arrivare alla bellezza delle scienze; infine, al di sopra di tutto, si trova la bellezza in
sé, quindi all'idea di bellezza che sta nell'iperuranio e che è immortale perché eterna, superiore alla
morte e al divenire, perfetta in quanto idea, sempre uguale ed è l'oggetto della filosofia. Con eros,
Platone, pur non identificandolo con il comune “amore sensuale”, ritiene che esso sia radicato nei
sensi e non spregia la corporeità, che vede come specchio della bellezza interiore, benché questo
livello venga abbandonato per giungere a quelli superiori. L’amore platonico si configura dunque
come lo strumento per una conoscenza superiore.
Il Fedro
Mentre nel Fedone ne aveva sottolineato l'unità e la semplicità, nel Fedro, Platone affronta il
problema del raggiungimento da parte dell’anima umana della bellezza suprema, e dunque parte
proprio dalla considerazione dell’anima. Platone distingue nell'anima tre parti: una razionale, una
irascibile, una concupiscibile o desiderante. Questa tripartizione viene chiarita da Platone mediante il
mito del carro alato, nel quale l'anima è paragonata a una biga alata, guidata da un auriga e trainata
da una coppia di cavalli, dei quali uno è bianco e obbediente, l'altro è nero e indisciplinato.
- Biga alata = anima;
- Auriga = parte razionale dell'anima, che deve guidare la vita dell'individuo;
- Cavallo bianco = parte coraggiosa dell'anima, che obbedisce al lògos (ragione);
- Cavallo nero = pulsioni irrazionali e impulsi corporei.
Dato il disaccordo tra i due cavalli, l'opera dell'auriga è difficile e penosa. Egli cerca di condurre il
carro nel cielo, verso l'iperuranio che è la sede dell'essere autentico. In questa regione sta la "vera
sostanza", ovvero la totalità delle idee, che può essere contemplata solo da quella guida dell'anima
che è la ragione. Ma l'anima può contemplarla solo per poco, poiché il cavallo nero la tira verso il
basso. Ogni anima contempla la sostanza dell'essere di più o di meno. Tuttavia, quando, per oblio o
per colpa, si appesantisce, essa perde le ali e si incarna nel corpo di un uomo. Allora l'anima che ha
visto di più si incarnerà nel corpo di un uomo che si consacrerà al culto della sapienza o dell'amore,
mentre le anime che hanno visto di meno si incontreranno in uomini che saranno via via più lontani
dalla ricerca della verità e della bellezza.
Amore e dialettica
L'anima, reincarnatasi, non è capace di vedere nessun'altra idea, se non la bellezza, la quale risveglia i
ricordi delle altre idee. Per questo motivo l'uomo è attratto dalla bellezza, e l'amore è espressione di
quest'attrazione. La bellezza fa dunque da mediatrice tra l'anima caduta e il mondo delle idee, e al
suo appello l'uomo risponde con l'amore, che allora si fa guida dell'anima verso il modello dell'essere
vero. L'eros diventa allora procedimento razionale, "dialettica", la quale è nello stesso tempo ricerca
dell'essere in sé e unione amorosa delle anime nell' apprendere e nell'insegnare. È quindi
“psicagogia”, guida dell'anima, con la mediazione della bellezza, verso il suo autentico destino. Alla
dialettica così intesa Platone riconduce la vera retorica, o "retorica del vero", un'arte che non cerca il
favore delle masse, ma quello degli dei. Non a caso infatti la seconda parte del dialogo è occupata
dall’analisi della retorica, scaturita dall’affermazione di Fedro secondo cui l’oratore non ha alcun
dovere di comprendere ciò che è effettivamente giusto, ma ciò che tale appare. A ciò Socrate
obietta che per gestire bene le apparenze di cui è costituito il suo discorso deve sapere esattamente
che cosa sono il bene e il male. La retorica “del vero” di Platone dunque rende "capaci di parlare e di
pensare" ed è attenta ai contenuti. Platone, tuttavia, continua a pensare che solo la filosofia possa
accedere alla verità, mentre la retorica si limita a trattare di ciò che è solo plausibile. Essa non ha una
propria autonomia, ma è soltanto lo strumento della dialettica, che è il vero metodo della filosofia.
LO STATO E IL COMPITO DEL FILOSOFO
Lo stato ideale
La descrizione platonica di Stato ideale è riassunta all'interno dell'opera più importante di Platone: la
Repubblica dove, per l'appunto, Platone sogna una comunità perfetta, uno stato ideale nel quale il
singolo individuo trova il proprio posto. Il progetto di una tale comunità è fondato sul principio
secondo il quale "i filosofi devono governare le città, o quantomeno i re e i governanti devono
interessarsi seriamente alla filosofia, altrimenti impossibile che cessino i mali delle città e anche
quelli del genere umano". La costituzione di una comunità politica governata dai filosofi presenta a
Platone due problemi basilari: quale fosse lo scopo e il fondamento della società, e quale fosse
l'identità dei filosofi.
La giustizia
Alla prima domanda (quale sia il fine di una società governata da filosofi), Platone risponde con
un'idea per lui fondamentale: la giustizia. Nella Repubblica, opera esplicitamente diretta alla
determinazione della natura della giustizia, il filosofo sostiene che nessuna comunità possa esistenza
senza la giustizia, la giustizia è dunque condizione fondamentale della nascita e della vita dello Stato.
Come per l’anima, anche lo Stato secondo Platone deve essere costituito da tre parti:
- i governanti, corrispondente all'anima razionale e alla virtù della saggezza, poiché basta che
i governanti siano saggi perché tutto lo Stato lo sia;
- i guerrieri, corrispondente all'anima irascibile e alla virtù del coraggio;
- i lavoratori, o produttori, corrispondente all'anima concupiscibile e alla virtù della
temperanza (governo della ragione sui sensi e capacità di stare al proprio posto in quanto
subordinati alle altre classi), che essi tuttavia condividono anche con le altre classi.
La giustizia comprende tutte e tre queste virtù e si realizza quando ciascun cittadino svolge il proprio
compito e ha ciò che gli spetta, solo così ogni uomo sarà uno e non già molteplice, e lo Stato stesso
sarà uno. La giustizia garantisce pertanto l'unità, e quindi la forza, dello Stato. Anche nell'uomo
singolo, così come nello Stato, la giustizia comprenderà dunque le tre virtù della saggezza, del
coraggio, e della temperanza:
- la parte razionale, che ha sede nel cervello e grazie alla quale l'essere umano ragiona e
domina gli impulsi corporei;
- la parte concupiscibile, o desiderante, che ha sede nel ventre ed è il principio di tutti gli
impulsi;
- la parte irascibile, o coraggiosa, che ha sede nel petto e dà sostegno alla parte razionale,
lottando per ciò che la ragione ritiene buono e giusto.
Del principio razionale sarà propria la saggezza; del principio irascibile, il coraggio; mentre l’accordo
delle tre parti nel lasciare il comando all’anima razionale sarà la temperanza. Anche nell’uomo
singolo la giustizia si avrà quando ogni parte dell’anima svolgerà soltanto la propria funzione.
Le classi sociali
Appurato che la giustizia è l'adempimento del proprio compito da parte di ogni individuo di ogni
classe sociale, nascono due quesiti:
- Da dove deriva la distinzione degli uomini in classi sociali?
- Che cosa fa sì che un individuo appartenga a una certa classe anziché un'altra?
Al primo quesito, il filosofo risponde che la divisione in classi è obbligatoria affinché lo Stato possa
esistere perché in uno Stato vi sono compiti diversi che devono essere esercitati da individui diversi. I
governatori guideranno lo Stato, i guerrieri lo proteggeranno mentre i lavoratori produrranno beni e
servizi atti alla sopravvivenza di tutti. Per quanto riguarda il secondo quesito, Platone, riferendosi alla
tripartizione psicologica dell'anima, afferma che la diversità degli individui e la loro differente
destinazione dipende dalla prevalenza di una parte dell'anima sulle altre:
- gli individui prevalentemente razionali sono i governatori;
- gli individui prevalentemente impulsivi sono i guerrieri;
- gli individui prevalentemente soggetti al corpo e i suoi desideri sono lavoratori.
Per Platone la divisione degli individui in classi non dipende dall'essere nati in una certa classe, ma da
un'inclinazione naturale. Tutto ciò trova una spiegazione nel celebre "mito delle stirpi", secondo cui
alcuni nascono con una natura "aurea", altri con una natura "argentea'", altri con una natura "ferrea"
o "bronzea". Mentre per l'epoca non era possibile la mobilità sociale ossia il passaggio da una casta
all'altra sia salendo che regredendo, nell'immaginaria società platonica si dice esplicitamente che,
per esempio, un bambino "ferreo" nato tra gli uomini "aurei" dovrà essere retrocesso di classe e,
viceversa, che un bambino "aureo" nato da uomini "ferrei" dovrà essere innalzato tra gli uomini
"aurei" e accolto tra i custodi. Tuttavia è bene far presente che solitamente i figli assomigliano ai
padri e quindi restano nella classe di provenienza, e che la divisione della società in classi riveste, in
Platone, significati inequivocabilmente antidemocratici.
Il comunismo platonico
Affinché lo Stato funzioni bene e la giustizia sia realizzata, Platone suggerisce l'eliminazione della
proprietà privata e la comunanza dei beni per le classi superiori, così che esse attendano più
efficacemente alla gestione della cosa pubblica. I governanti-filosofi dovranno avere case piccole e
nutrirsi di cibo semplice, vivere come in un accampamento e mangiare insieme; non riceveranno
compensi, se non i mezzi necessari per vivere. L'oro e l'argento saranno proibiti, in quanto lo scopo
della città è il bene di tutti e non la felicità di una classe. Nel suo Stato ideale, quindi, non può
esistere né la ricchezza ma nemmeno la povertà, in quanto entrambe nocive. Quello prospettato da
Platone si presenta dunque come una sorta di comunismo, che tuttavia non riguarda l 'intera società,
infatti la terza classe può possedere mezzi di produzione. La classe al potere, inoltre, non avrà
famiglia. Estendendo il comunismo alla sfera degli affetti, Platone ritiene che i governanti debbano
avere in comune anche le donne, le quali dovranno godere di una completa uguaglianza rispetto agli
uomini parteciperanno alla vita dello Stato su un piano di parità. Le unioni matrimoniali saranno
temporanee e verranno stabilite dallo Stato in base a criteri volti alla procreazione di figli sani; tutti i
bambini saranno tolti fin dalla nascita ai loro genitori, e si avrà cura che questi non sappiano quali
sono i loro figli e che i bambini ignorano quali siano i loro parenti. A questo punto ci si chiede se i
governanti siano felici: il filosofo risponde sostanzialmente che la felicità risiede nella giustizia, in
vista dell'armonia e della felicità complessiva dello Stato. Non bisogna inoltre dimenticare che i
filosofi sono felici di per sé a prescindere dall'appagamento di bisogni materiali e corporei, che
costituiscono l’oggetto di desiderio da parte degli uomini “ferrei”.
Le degenerazioni dello Stato
Platone è ben consapevole del fatto che lo Stato da lui descritto sia solo un modello ideale, e questa
consapevolezza pare confermata dalla diversa prospettiva che anima la parte conclusiva della
Repubblica, in cui il filosofo puntualizza che l’edificazione dello Stato rende necessario un agire
contro la natura umana e volto a dominarne gli aspetti deteriori. La società ideale platonica può
essere definita come un modello, basato sull’aristocrazia dei filosofi, in riferimento al quale è
possibile migliorare gli Stati esistenti e giudicarne le alterazioni possibili. Platone Infatti elenca
quattro possibili degenerazioni dello Stato e, di conseguenza, del singolo individuo:
- la prima è la timocrazia, un governo fondato sull'onore, che nasce quando i governanti si
appropriano di terre e di case e cominciano a perseguire l'affermazione personale;
- una forma ancora peggiore è l'oligarchia, un governo fondato sul censo, nel quale il comando
riservato a pochi ricchi;
- un'ulteriore forma degenerata è la democrazia, il cui avvento è causato dalla ribellione del
ceto povero al ceto ricco che detiene il potere. In questa forma di governo ogni cittadino è
libero di fare ciò che desidera senza regole e con il rischio di abbandonarsi all'appagamento
eccessivo di desideri;
- infine c'è la tirannide, che nasce come reazione all'eccessiva libertà concessa dalla
democrazia. È la forma patologica più dura perché il tiranno usa la forza e favorisce gli
adulatori e gli incapaci.
Platone e la democrazia
Il progetto platonico di una riforma della comunità umana nasce in antitesi alla degenerazione della
democrazia ateniese del suo tempo. Tant'è che Platone critica non soltanto i sofisti ma anche gli
uomini politici che avevano riformato la città in senso democratico come Temistocle, Cimone,
Aristide e Pericle. Questo severo giudizio sulla democrazia e sui suoi leader va collocato nel contesto
sociale della sua epoca segnata dallo scontro tra gli aristoi e il demos, che non implica solamente
una contrapposizione di interessi, ma anche l’antitesi tra due opposte concezioni della vita
associata e della giustizia. Di queste due concezioni, quella senz’altro più vicina al pensiero di
Platone è quella aristocratica.
La divisione in classi, nella Repubblica, nasce dalla necessità di una rigida diversificazione di attività,
che garantisca, contrariamente ai vari “sommovimenti” democratici, un modello statico e gerarchico
di coesistenza sociale basato su ruoli fissi e nettamente differenziati. Convinto che sia necessario
rendere consapevoli i cittadini della loro disuguaglianza naturale, Platone giustifica tutto ciò con il
precedente “mito delle stirpi”, e dunque sostiene che lo Stato è sano quando ognuno attende
all'attività che gli è propria; uno Stato è malato quando i membri delle diverse classi non sanno più
stare "al loro posto". Sotto questo aspetto la teoria platonica è una forma di organicismo politico,
poiché configura lo Stato come un organismo che, per funzionare bene, necessita dell'accordo tra le
funzioni di tutte le sue parti. In tal modo, Platone abbatte uno dei principali capisaldi teorici della
cultura democratica, ossia la tesi della necessità di una gestione comune della cosa pubblica. Egli
ritiene infatti che la politica non sia un'arte destinata a tutti, ma soltanto alla parte "aurea" della
città, la classe produttiva non può esercitare neppure una qualche forma di controllo nei confronti
dei governanti. Il rigetto della democrazia si accompagna in Platone a uno statalismo esasperato,
ossia una concezione che prevede la regolamentazione della vita della società fin nei minimi
particolari, negando la possibilità di iniziative autonome di singoli o di gruppi. Non deve essere però
confuso con l'aristocrazia comunemente intesa: lo Stato platonico è si aristocratico, in quanto vi
governano i "migliori", ma questi ultimi sono tali non per diritto di nascita, bensì per il possesso del
sapere. La ragione al potere e i filosofi al governo: lo stato di Platone è una forma di sofocrazia
("governo dei sapienti"), o di noocrazia ("governo di intelligenza").
L’importanza dell’educazione
Poiché lo Stato di cui parla Platone non prevede istituzioni di tipo democratico-assembleare ed
esclude la possibilità di un controllo popolare (“dal basso”) dell’opera dei governanti sorge spontanea
la domanda: come si può essere sicuri che i governanti realizzeranno davvero il bene comune della
città non il proprio personale tornaconto? Platone supera la difficoltà postulando che i governanti,
prima di saper custodire gli altri, siano in grado di costruire se stessi; da ciò è possibile comprendere
l'importanza rivestita dal sistema educativo dello Stato ideale. Nella Repubblica, ordinamento
educativo e ordinamento politico risultano strettamente congiunti, al punto che lo Stato, tende a
configurarsi come una sorta di grande Accademia, avente come scopo la formazione permanente di
custodi perfetti. Platone è convinto dunque che individui addestrati fin dalla nascita a pensare al
bene collettivo saranno all'altezza di agire per il bene supremo dello Stato. E’ evidente che
l’educazione al sapere e alla virtù di cui parla, non riguarda tutti gli individui ma solo quelli delle due
prime classi: egli è infatti convinto che il sapere sia una prerogativa delle classi superiori.
I gradi della conoscenza e il compito dei filosofi
Poiché l'educazione al sapere e alla virtù coincide con l'educazione alla filosofia, nella parte centrale
della Repubblica Platone delinea il compito del filosofo: filosofo è colui che ama la conoscenza nella
sua totalità. Ma che cos’è la conoscenza? Per Platone "Ciò che assolutamente è, è assolutamente
conoscibile; ciò che in nessun modo è, in nessun modo è conoscibile". Quindi, da un lato abbiamo
l'essere che coincide con la scienza, che è la conoscenza vera; mentre dall'altro abbiamo il non essere
che coincide con l'ignoranza. Al centro di questi due estremi si trova il divenire che corrisponde
all'opinione. Platone paragona la conoscenza ad una linea che viene divisa in due parti (conoscenza
sensibile e razionale), che a loro volta vengono divise in altre due parti; si ottengono così quattro
gradi della conoscenza, ai quali corrispondono quattro gradi della realtà.
La conoscenza sensibile (dôxa, opinione) rispecchia il nostro mondo mutevole e comprende:
- la congettura, o immaginazione (eikasia) ha come oggetto le immagini o le ombre delle cose
che sono impressioni superficiali e slegate degli oggetti;
- la credenza (pistis) ha per oggetto la percezione delle cose così come ci appaiono.
La conoscenza razionale (episteme) rispecchia il mondo immutabile delle idee e comprende:
- la ragione matematica (dianoia o conoscenza dianoetica), che ha per oggetto le idee
matematiche;
- l'intelligenza filosofica (noesis o conoscenza noetica), che ha per oggetto le idee-valori.
Platone riteneva che la filosofia fosse superiore alla matematica. Infatti, nonostante esalti la
matematica al punto da far scrivere sulla porta della sua Accademia "non entri chi non è
matematico", egli pensa che le discipline matematiche, da un lato, siano ancora ancorate al mondo
sensibile e, dall'altro, partano da ipotesi indimostrate. La filosofia, invece, è una scienza suprema
proprio perché parte da ipotesi terrene per elevarsi sempre e comunque verso il mondo delle idee.
Inoltre, la filosofia si occupa dei problemi dell'uomo e della società nella quale l'uomo vive, mentre
la matematica si svincola da queste problematiche. Ciò non esclude che nel sistema educativo di
Platone la matematica rivesta un ruolo fondamentale: infatti l’educazione scientifica dell’uomo ha il
suo punto critico nel passaggio dalla conoscenza sensibile a quella razionale matematica.
I gradi dell'educazione
Il passaggio dalla conoscenza sensibile alla conoscenza razionale, secondo Platone, viene effettuato
attraverso l'uso dei metodi di misura. Se l'uomo non vuole rimanere ingannato dalla parete sensibile
non può far altro che ricorrere alla misura che introduce ordine e oggettività. Le percezioni possono
essere diverse per i vari uomini e anche per un uomo stesso in momenti diversi, ma se misuriamo il
volume, la distanza, il peso ecc. degli oggetti, raggiungiamo conoscenze che non sono più mutevoli e
soggettive, ma oggettive e stabili.
Platone elenca nella Repubblica le discipline matematiche fondamentali: l'aritmetica (l'arte del
calcolo); la geometria (la scienza degli enti immutabili); l'astronomia (la scienza dei cieli e del
movimento); la musica (la scienza dell'armonia). Queste quattro discipline sono fondamentali per un
filosofo in quanto lo preparano alla scienza suprema che è la dialettica, ossia la scienza delle idee.
Platone inoltre descrive attentamente l'educazione dei giovani: dapprima i futuri filosofi-reggitori
studieranno musica e ginnastica, poi le discipline propedeutiche alla filosofia; tra i 30 e i 35 anni i
migliori si cimenteranno con la filosofia, o la dialettica; fra i 35 e 50 anni i migliori dovranno
affrontare un tirocinio pratico nelle cariche militari e civili. Solo dopo i 50 anni,
"gli ottimi", potranno elevarsi al governo dello Stato.
IL MITO DELLA CAVERNA
La teoria dell'educazione e della conoscenza trova un'esemplificazione allegorica nel racconto della
caverna, uno dei miti più noti della Repubblica e del platonismo in generale. I protagonisti di questo
mito sono degli schiavi che si ritrovano incatenati in una caverna sotterranea costretti da delle catene
al collo e alle gambe a osservare solamente la parete della di fronte a sé, sulla quale si stagliano le
ombre di alcune statuette che sporgono al di sopra del muricciolo al quale sono incatenati. Dietro al
muro si muovono i portatori delle statuette e grazie al fuoco e alla luce che entra dalla caverna, gli
schiavi vedono riflesse delle immagini che, per loro, rappresentano la realtà. Se uno degli schiavi
riuscisse a liberarsi dalle catene, voltandosi, riuscirebbe a capire che quello che riteneva la verità, la
realtà riflessa era tutta una bugia, non era la vera realtà, ma la sua percezione di realtà. Una volta
uscito, lo schiavo liberato, abbagliato dalla luce del sole, farebbe inizialmente fatica a distinguere le
cose del mondo tant'è che avrà bisogno di vedere le cose riflesse nell'acqua. Solo in un secondo
tempo potrebbe vederli direttamente e ne rimarrebbe così stupefatto che vorrebbe rimanere lì in
contemplazione totale delle cose e del sole. Lo schiavo sarebbe tentato di rimanere fuori dalla
caverna, ma se, per far partecipi i suoi compagni di tale bellezza, tornasse nella caverna, i suoi occhi
sarebbero offuscati dall'oscurità e non saprebbe più riconoscere le ombre, perciò verrebbe deriso dai
suoi compagni, che lo accuserebbero di avere gli occhi "guasti". E alla fine, infastiditi dal suo tentativo
di scioglierli e portarli alla luce del sole, lo ucciderebbero.
Simboli
Il mito della caverna porta con sé tantissimi significati, tantissimi simboli che andrebbero analizzati.
● caverna = mondo delle cose;
● mondo fuori dalla caverna = mondo delle idee;
● schiavi = uomini ignoranti;
● catene = ignoranza e le passioni terrestri;
● ombre = immagini delle cose superficiali;
● fuoco = principio fisico dei primi filosofi;
● schiavo liberato = obiettivo della filosofia;
● cose riflesse nell'acqua = idee matematiche che preparano alla filosofia;
● sole = il Bene;
● contemplazione = filosofia;
● permanenza = chiusura nello stare bene;
● ritorno nella caverna = dovere morale;
● uccisione = morte di Socrate.
Nel mito della caverna si trova quindi il dualismo gnoseologico e ontologico della teoria delle idee,
ma anche l'ispirazione religiosa che spinge Platone a guardare al nostro mondo come a un regno
delle tenebre, contrapposto al regno della luce rappresentato dalle idee. Ma soprattutto è presente il
concetto della finalità politica della filosofia, cioè che tutte le conoscenze acquisite debbano essere
utilizzate per la fondazione di una comunità giusta e felice. Secondo Platone, infatti, il ritorno alla
caverna fa parte del dovere del filosofo: ritornare nella caverna significa mettere ciò che si è appreso
a disposizione della comunità. E quindi soltanto con il ritorno alla caverna, ossia soltanto
cimentandosi nel mondo umano, l’uomo avrà compiuto la propria educazione e sarà veramente
filosofo.
La dottrina platonica dell’arte
Nella Repubblica X, Platone si sofferma a descrivere l'educazione che deve essere impartita ai filosofi
affinché possano diventare i reggitori dello Stato. In particolare il filosofo presenta una digressione
sull’arte che si conclude com l’esclusione di tale disciplina dall’educazione dei filosofi, ritenendola
una “imitazione di un'imitazione", in quanto si limita a riprodurre l'immagine di cose e di eventi
naturali che sono riproduzioni delle idee. L'arte, quindi, tende ad allontanare l'uomo dal mondo
delle idee, anziché stimolare l’anima a raggiungerlo. Essa, inoltre, sostanziandosi solo di immagini,
possiede il valore conoscitivo più basso, risultando totalmente aliena alla misurazione matematica.
Questa imputazione vale fatta eccezione per la musica, la quale viene inserita da Platone nel
programma educativo dei governanti per i suoi aspetti matematici e per i suoi aspetti di rigore
morale.Per quanto riguarda il secondo motivo di condanna dell'arte, Platone ritiene che possa
corrompere gli animi, in quanto essa genera emozioni e passioni nell'animo umano e queste sono un
pericolo per il percorso verso il mondo delle idee proprio perché le passioni sono terrene. Dietro la
battaglia platonica contro l'arte, c'è il desiderio di sbarazzarsi di una forma di cultura che prima della
nascita della filosofia aveva improntato l'educazione giovanile: la poesia. Per Platone il primato dei
poeti doveva essere sostituito dal primato dei filosofi. La critica platonica contro l'arte non tocca
però i miti, visti come nobili tentativi di rappresentare alla mente contenuti che vanno al di là di ciò
che è empirico. La condanna platonica riguarda dunque gli usi impropri e distorti dell'arte e le
concezioni erronee della stessa, ma non tutta l'arte di per sé. In generale, se l'arte restasse
assoggettata alla filosofia e si proponesse come via d'accesso alle idee, allora non sarebbe certo da
rifiutare.Da questo punto di vista Platone accoglie l'ideale greco della kalokagathia, secondo il quale
la bellezza è la forma esteriore della bontà, e ciò che è bello e buono non può essere che vero. Se il
Bene coincide con il Bello, ciò che è davvero bello non può che essere buono e vero. Dove c'è
perfetta e autentica bellezza non può esserci né male né inganno: la bellezza sensibile aiuta quindi a
conoscere la bellezza superiore del mondo delle idee. Platone propone una concezione oggettiva
del bello, secondo cui le cose sono belle in virtù del loro rapporto con l'idea del bello. In altre parole,
la bellezza delle cose mondane è parziale, ma si fonda sulla bellezza perfetta che si trova nel mondo
delle idee e, proprio in virtù di ciò, è capace di riavvicinare l'anima alle idee.

Il dibattito sulla Repubblica


La Repubblica è uno dei testi-chiave della filosofia politica occidentale, e ciò ha fatto sì che si creasse
attorno ad esso un secolare dibattito riguardante la validità o meno delle sue proposte. Alcuni,
indicando nella Repubblica l’esempio più celebre di quelle teorie politiche definite “utopie”(progetti
di città ideali inesistenti), hanno considerato l’opera come il prodotto di un filosofo “sognatore”
denigrandola. Altri invece hanno esaltato l’opera, vedendo nell’utopia la vera filosofia e l’autentica
politica. Riguardo la tesi platonica dei filosofi al potere vediamo in opposizione alcuni critici: da una
parte troviamo coloro che la ritengono una innocua e ridicola affermazione di un intellettuale dalla
realtà effettiva; dall’altra invece abbiamo coloro che l’hanno presa sul serio e discussa, tra questi
ultimi c’è chi l’ha rifiutata(Kant ad esempio ritiene che sia inutile avere un filosofo come re in quanto
il possesso della forza corrompe il libero giudizio della ragione), e c’è chi l’ha esaltata ( scrive ad
esempio lo storico della filosofia Guido De Ruggiero che i filosofi sono i più atti a reggere la cosa
pubblica se si vuole considerare ogni organizzazione pratica un’organizzazione mentale). Qualcuno
ha cercato di leggere la Repubblica “da sinistra” sottolineandone il concetto di una preminenza del
bene collettivo su quello personale, dunque scorgendo in Platone un primo abbozzo, sia pure in
chiave utopistica dell’ideale socialista. Viceversa, altri studiosi di sinistra hanno visto nell’organicismo
platonico nient’altro che un'ideologia tesa a giustificare una forma di società aristocratica e
classicista. Altri ancora, leggendo il testo ”da destra”, hanno individuato il prototipo di un modello
politico radicato su dottrine analoghe a quelle neonaziste come lo statalismo, la struttura gerarchica
della società , il culto dei capi etc. D’altro canto questi stessi elementi hanno condotto alcuni filosofi
inglesi e americani a vedere in essa lo schema di ogni società liberale e totalitaria: il filosofo della
scienza Karl Popper ad esempio considera Platone come il primo e maggiore teorico di una società
“chiusa”, scorgendo nella Repubblica il paradigma di un regime autoritario e dispotico; muovendosi
in prospettiva analoga, Bertrand Russell, è giunto a considerare come un autentico “scandalo”
l’ammirazione intellettuale che l’opera politica di Platone ha sempre riscosso.

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