Sei sulla pagina 1di 13

La 

Lettera VII e la delusione politica
All'epoca della condanna a morte di Socrate, nel 399 a.C., Platone ha poco meno di trent’anni: era nato
intorno al
427 a.C. da genitori entrambi appartenenti all'aristocrazia ateniese. Fin da ragazzo pensava di dedicarsi alla
vita politica, ma questa sua convinzione entra in crisi inseguito ai tragici eventi che seguono alla sconfitta di
Atene nella Guerra del
Peloponneso (404 a C.) Platone racconta in prima persona tali vicende in una lettera di carattere
autobiografico che tradizionalmente prende il nome di Lettera VII. Sebbene sia altamente probabile, non è
del tutto certo che questo documento sia davvero stato scritto da Platone; in ogni caso, fornisce preziose
informazioni sulla biografia di Platone, mostrando come le tesi principali della sua filosofia risultino
strettamente intrecciate con gli accadimenti più rilevanti della sua vita. Nella Lettera VII Platone racconta di
come la sconfitta nella Guerra del Peloponneso avesse portato a un netto cambiamento nella politica
ateniese, con la caduta del governo democratico, colpevole di aver condotto Atene alla disfatta, e la sua
sostituzione con una commissione di trenta magistrati con pieni poteri, i cosiddetti Trenta tiranni. Platone
ripone inizialmente fiducia nei nuovi governanti, tra i quali vi erano alcuni suoi famigliari e amici, ma la
condotta del nuovo governo, corrotto e dispotico, si rivela presto assai deludente e mol-to al di sotto delle
aspettative che aveva suscitato. La situazione peggiora ulteriormente con la caduta dei Trenta tiranni (403
a.C) e il ripristino della democrazia. Platone assiste con rabbia e impotenza al processo che il nuovo governo
intenta contro il suo maestro Socrate, di cui era discepolo da ormai circa una decina d'anni, e si rende conto
che la società ateniese è guasta e votata alla rovina.
Di fronte a una situazione così compromessa, cercare di intervenire direttamente nella vita politica con
l’obiettivo di riformarla sarebbe una mossa destinata alla sconfitta. Platone si convince così che il modo
migliore per rendersi utili alla propria comunità non consiste nell'attività politica, bensì nella filosofia. La
vita pubblica potrà migliorare soltanto se in futuro ci saranno cittadini migliori e in particolar modo, tra
questi, governanti migliori; ma perché ci siano cittadini migliori occorre educarli appropriatamente, e la
filosofia per Platone è l’unica disciplina che sia in grado di fornire una formazione adeguata: «fui costretto a
limitarmi a fare gli elogi della retta filosofia, come quella da cui sola può venire la capacità di scorgere ciò
che è giusto nella vita pubblica e in quella privata» (Lettera VII, 326 A). Partendo dall'insegnamento di
Socrate, Platone si propone dunque di sviluppare questa «retta filosofia», la sola in grado di risanare la
società.

La fondazione dell’Accademia e i viaggi a Siracusa


Dopo la morte di Socrate, Platone lascia Atene e visita varie città del mondo greco; a Taranto stringe
amicizia con il pitagorico Archita, mentre a Siracusa frequenta la corte del tiranno Dionisio il Vecchio. È in
questa fase che inizia a scrivere le sue prime opere e tracciare le linee guida della sua filosofia. Nel 387 a.C.,
all’età di circa quarant'anni, torna stabilmente ad Atene e fonda la sua scuola filosofica, l’Accademia, così
chiamata perché aveva sede in un giardino dedicato all’eroe Acadèmo. Platone rimane ad Atene per una
ventina d'anni, dedicandosi principalmente all'insegnamento, alla scrittura e alla ricerca filosofica. Tuttavia,
nel 367 a.C. decide di tornare a Siracusa, su invito del suo allievo e amico Dione, che gli chiede di fornire
un'educazione filosofica adeguata al nuovo tiranno Dionisio il Giovane, salito al potere alla morte del padre.
Platone può finalmente applicare la sua filosofia allo scopo per il quale era stata primariamente concepita:
l’educazione dei governanti in vista della creazione di una società giusta. In pratica, però, l'esito
dell'insegnamento di Platone a Siracusa è fallimentare; il giovane tiranno si rivela un allievo pigro e
superficiale, incapace dell'impegno e della disciplina necessari per lo studio della filosofia. Per giunta, si
dimostra prepotente e iracondo, al punto da costringere il suo consigliere Dione all'esilio.
Dopo due anni di delusioni, Platone lascia Siracusa nel 365 a.C.; vi fa nuovamente ritorno nel 361 a.C., nella
speranza di un ravvedimento di Dionisio, che si conferma invece un despota ottuso, presuntuoso e
arrogante.
Nel 360 a.C. Platone, ormai quasi settantenne, rientra definitivamente ad Atene. Da questo momento si
dedica principalmente all’insegnamento e alla ricerca nel contesto dell'Accademia. Nel frattempo, a
Siracusa, Dione continua a perseguire l’ideale platonico di un governo dei filosofi, e nel 353 a.C. riesce
finalmente a deporre Dionisio il Giovane divenendo lui stesso il nuovo tiranno. Ma dopo pochi mesi viene
assassinato in una congiura: fallisce così anche questo tentativo di introdurre principi filosofici nella vita
politica. Platone rimpiange di non essere potuto accorrere in aiuto dell'amico, in onore del quale scrive la
Lettera VII, indirizzata proprio ai congiunti di Dione. A pochi anni di distanza da questi eventi, intorno al 347
a.C., Platone muore ad Atene all’età di circa ottant'anni.

I dialoghi e la loro classificazione
I dialoghi di Platone sono solitamente suddivisi in tre gruppi, in base alle ipotesi più plausibili sul periodo nel
quale sono stati scritti e a una certa uniformità di stile e temi: dialoghi giovanili o socratici; dialoghi della
maturità; dialoghi della vecchiaia o dialettici.
1. I dialoghi del primo gruppo sono definiti “dialoghi giovanili o socratici” essendo stati scritti dal giovane
Platone negli anni successivi alla morte di Socrate, con l'obiettivo principale di fornire un resoconto
accurato della vita e della dottrina del suo maestro. Fra queste opere viene solitamente inclusa anche
l'Apologia di Socrate, che non è propriamente un dialogo bensì il discorso che Socrate tiene in propria
difesa di fronte al tribunale ateniese che lo condannerà a morte.
2. I dialoghi del secondo gruppo vengono definiti “dialoghi della maturità” perché Platone li scrive all'incirca
tra i quaranta e i sessant'anni, nel ventennio trascorso ad Atene prima di recarsi a Siracusa per istruire
Dionisio il Giovane. Fra questi dialoghi vi sono alcuni dei capolavori letterari di Platone: la Repubblica, il
Menone, il Fedone, il Simposio, il Fedro. Il principale protagonista delle discussioni presentate resta
Socrate, ma Platone non si limita più a riportarne il pensiero, e propone invece una propria visione
filosofica originale, che si spinge molto oltre la dottrina del maestro. In questi dialoghi l'autore ricorre
frequentemente alla modalità narrativa del mito: un racconto che spesso riguarda vicende straordinarie di
dei ed eroi, o il destino ultraterreno delle anime. Sebbene il mito non abbia la sottigliezza dell’analisi
dialogica condotta mediante domande e obiezioni, la sua vividezza produce importanti effetti pedagogici.
Platone lo usa allo scopo di esprimere efficace-mente e persuasivamente una posizione filosofica (ad
esempio, come abbiamo visto, la tesi della superiorità del discorso orale sul testo scritto, nel Fedro, è
supportata dal mito di Theuth). Il mito è impiegato inoltre con funzione divulgativa, per comunicare in
modo più accessibile dottrine complesse, esemplificandole vividamente; può essere utilizzato poi per
alludere a realtà che vanno al di là della comprensione razionale: in tal senso, interviene a supportare la
ricerca filosofica quando questa si spinge ai confini del pensabile.
3. I dialoghi del terzo gruppo sono presumibilmente scritti da Platone negli ultimi vent'anni della sua vita,
una volta ritornato ad Atene dopo la fallimentare esperienza siracusana. Essi vengono definiti “dialoghi
della vecchiaia”, o anche “dialoghi dialettici” perché è in queste opere che Platone sviluppa compiutamente
la dialettica, il procedimento razionale di cui si avvale l’indagine filosofica, volto alla ricerca della definizione
delle cose. Egli la utilizza per rivedere criticamente le dottrine esposte nelle opere precedenti e per
affrontare le obiezioni che gli erano state sollevate. Nei dialoghi dialettici, che risentono significativamente
dell’influenza delle dottrine eleatiche e pitagoriche, la figura di Socrate perde progressivamente centralità,
fino a scomparire del tutto nell'ultimo scritto di Platone, le Leggi. Anche lo stile tende ad allontanarsi dal
modello socratico: si privilegiano lunghi interventi che sviluppano complessi argomenti filosofici,
sacrificando il rapido susseguirsi di domande e risposte che era tipico del modo di discutere di Socrate.
Una distinzione trasversale ai tre gruppi di dialoghi è quella fra “dialoghi diretti” (o “drammatici”) e
“dialoghi indiretti” (o “narrati”): nei primi (ad esempio Critone, Ippia maggiore, Gorgia) le battute del
dialogo sono presentate come se si susseguissero nel presente della narrazione, mentre nei secondi si ha la
mediazione di una cornice a sua volta dialogica, in cui alcuni personaggi rievocano un dialogo che ha avuto
luogo in passato e che viene riferito da un narratore. La maggior parte dei dialoghi platonici sono diretti, ma
tra i dialoghi indiretti troviamo alcune opere della massima importanza filosofica (contrassegnate da un
asterisco nello schema seguente), come il Protagora, il Simposio, il Fedone, la Repubblica e il Parmenide.

Mondo sensibile e mondo intelligibile


Se ci guardiamo attorno possiamo osservare oggetti con un contorno più o meno circolare, ma non
possiamo osservare la “Circonferenza”, cioè l'idea stessa di circonferenza, la caratteristica essenziale che
tutti i contorni circolari condividono o dovrebbero condividere, ovvero l'equidistanza dei punti dal centro.
Analogamente, guardandoci attorno possiamo osservare azioni più o meno virtuose, e persone più o meno
virtuose, ma non possiamo osservare la “Virtù”, ovvero l'idea stessa di virtù, la caratteristica essenziale che
tutte le azioni virtuose e le persone virtuose condividono o dovrebbero condividere, la virtù oggetto del
sapere cui faceva riferimento Socrate. Da questo genere di constatazioni Platone trae una conseguenza
radicale: le osservazioni che effettuiamo con i nostri occhi (e più in generale con i nostri sensi) non ci
permettono di cogliere la vera realtà, ma soltanto un'apparenza di realtà, che Platone definisce mondo
sensibile. Nel mondo sensibile troviamo le cose concrete, delle quali facciamo quotidianamente esperienza
mediante i nostri sensi: oggetti di varie forme e dimensioni ed esseri viventi di vario tipo, tra i quali gli esseri
umani, che si comportano in vari modi e compiono azioni talvolta buone talvolta malvagie. Platone ritiene
che le cose che si trovano nel mondo sensibile e gli avvenimenti che vi accadono siano configurati e
organizzati secondo principi generali, le “idee”, che non si trovano all'interno del mondo sensibile
medesimo, ma a un livello di realtà superiore, che Platone chiama mondo intelligibile. Innanzitutto, mentre
le cose del mondo sensibile sono entità materiali, cioè fatte di materia, le idee, in quanto principi astratti,
sono immateriali. Inoltre, mentre le cose del mondo sensibile esistono in molteplici esemplari, le idee sono
uniche: esistono varie cose dal contorno circolare, ma una sola idea di Circonferenza; esistono varie azioni e
persone virtuose, ma una sola idea di Virtù; esistono tante cose o persone belle, ma una sola idea di
Bellezza. Infine, mentre le cose del mondo sensibile sono osservabili mediante i sensi, le idee sono tali da
non poter essere conosciute mediante i sensi ma soltanto mediante una facoltà cognitiva superiore,
l’intelletto (da cui la locuzione “mondo intelligibile” per designare il dominio delle idee).

Che cos'è un'idea


Il modo in cui Platone usa la parola “idea” non è lo stesso che usiamo nel linguaggio ordinario. Quando
usiamo la parola “idea”, ad esempio quando si dice “mi è venuta un'idea”, ci riferiamo solitamente a
pensieri nella nostra mente. In effetti le idee platoniche hanno una caratteristica in comune con i pensieri:
in entrambi i casi si tratta di qualcosa di immateriale, qualcosa che non si può osservare da qualche parte
nello spazio intorno a noi; lo si può soltanto pensare. Tuttavia le idee platoniche, a differenza dei pensieri,
esistono indipendentemente da quello che accade nelle singole menti. Se così non fosse, ognuno avrebbe
le proprie idee — così come ha pensieri soggettivi -, che potrebbero essere diverse da quelle degli altri, e
quindi le idee non potrebbero funzionare come principi di riferimento, validi per tutti, in tutte le
circostanze. Inoltre, se le idee fossero pensieri nella mente delle persone, il mondo intelligibile
dipenderebbe dal mondo sensibile in cui le persone si trovano. Invece per Platone il mondo intelligibile
configura e organizza il mondo sensibile, cioè gli dà forma: stabilisce come è e come dev’essere; quindi il
mondo intelligibile non può dipendere dal mondo sensibile, proprio come un progetto non può dipendere
dall'edificio progettato. In sintesi, le idee platoniche sono immateriali ma non soggettive: non si trovano
nello spazio intorno a noi, ma nemmeno nelle nostre menti, sebbene le nostre menti siano in grado di
conoscerle mediante la facoltà dell’intelletto. Le idee esistono nel mondo intelligibile, che è al di fuori dello
spazio e del tempo, e pertanto risulta eterno e immutabile. In tal senso Platone, servendosi di un'immagine
“mitica”, caratterizza il mondo intelligibile come un iperuranio, cioè uno spazio che sta “al di là del cielo”,
ovvero al di là del mondo sensibile in cui noi stessi ci troviamo. Non si tratta di uno spazio in cui ci si può
muovere e ci si può guardare attorno come facciamo nello spazio fisico; sì tratta invece di uno spazio
astratto, costituito dall’insieme delle idee: «la realtà vera, che non ha colore né forma e non si può toccare,
che può essere contemplata [...] soltanto dall’intelletto, e su cui verte la vera scienza, occupa questa
regione» (Fedro, 247c-d).
Idea: forma perfetta e immutabile, modello di Iperuranio: regione sovraceleste che si identifica
organizzazione delle cose, conoscibile con con il mondo intelligibile, lo spazio astratto in cui
l’intelletto; di conseguenza, principio di risiedono le idee perfette, immutabili ed eterne
riferimento universale, criterio di giudizio delle
cose e situazioni del mondo sensibile.

Il mondo intelligibile: la gerarchia delle idee


All'interno del mondo intelligibile (0 iperuranio), le idee si distribuiscono su due livelli.
1. A un livello inferiore vi sono le idee che costituiscono un modello per le cose del mondo sensibile. Nel
Fedone, Platone menziona a questo proposito idee di qualità fisiche come Caldo e Freddo, nozioni
matematiche come Pari e Dispari, e anche la nozione logica di Uguaglianza, che vale sia per la matematica
sia per la fisica. Se nel mondo sensibile incontriamo una molteplicità di cose calde oppure fredde, quantità
pari oppure dispari, e cose uguali sotto certi riguardi, è perché nel mondo intelligibile vi sono idee quali
Caldo, Freddo, Pari, Dispari e Uguaglianza.
2. A un livello superiore vi sono poi le idee che permettono di valutare quello che ha luogo nel mondo
sensibile, e in tal senso prendono anche il nome di “valori”. Come esempi di valori nel Fedone si
menzionano la Bellezza e la Giustizia. Queste idee organizzano il mondo sensibile nel senso che specificano
come il mondo sensibile “dovrebbe essere”; sta poi agli esseri viventi, e in particolar modo agli esseri
umani, agire in modo che il mondo sensibile sia effettivamente come dovrebbe essere secondo quanto
stabilito dalle idee che contano come valori. Al vertice del livello dei valori si trova l'idea del Bene, che per
Platone è il principio supremo che permette a tutte le altre idee di valere come principi di configurazione e
organizzazione del mondo sensibile. Così inteso, il Bene si impone come l’idea stessa di Idea, di Modello, di
Valore, di Norma. Tutte le altre idee, in fondo, si limitano a stabilire quello che è bene che sia; dunque il
Bene è il principio fondamentale che spiega il funzionamento di tutte le altre idee e, tramite queste, di tutto
quello che esiste. Non soltanto l’esistenza delle idee ma anche la nostra possibilità di conoscerle si basano
sull'idea del Bene. In tal senso, nella Repubblica Platone paragona il Bene al sole: come il sole illumina le
altre cose del mondo sensibile e ci permette di vederle, così il Bene - l’idea di quello che è bene che sia —
“illumina” le altre idee del mondo intelligibile, ci fa capire come sono fatte e ci permette di conoscerle.

Il mondo sensibile: cose e immagini


Nel mondo sensibile si trovano cose come le pietre, le piante, gli animali, gli uomini — e poi anche gli
artefatti che gli uomini realizzano, ad esempio tavoli e sedie; tutte queste entità sono cose concrete a pieno
titolo. Tuttavia vi sono anche cose che sembrano concrete ma non lo sono realmente, come le immagini
che ci appaiono nelle ombre, negli specchi e nei dipinti. Queste immagini si basano su supporti reali l muro
su cui si proietta l'ombra, la superficie riflettente dello specchio, la tela del dipinto) e raffigurano oggetti che
possono essere reali (ad esempio una persona di cui riconosciamo l’ombra, o il riflesso, o il ritratto), ma
quello che vediamo nell'immagine di per sé non è reale: è una mera apparenza. Platone ritiene che,
all’interno del mondo sensibile, la differenza tra cose e immagini sia utile per comprendere la relazione che
intercorre tra il mondo sensibile nel suo complesso e il mondo intelligibile. Le idee funzionano come
modello (0 “paradigma”, o “archetipo”) per il mondo sensibile allo stesso modo in cui, nel mondo sensibile,
le cose funzionano come modelli per le loro immagini. Una certa cosa concreta determina come deve
essere fatta un'immagine per poter raffigurare proprio quella cosa. Ad esempio, una certa persona
determina come deve essere un suo ritratto: un'immagine che non somiglia per nulla a quella persona non
può esserne il ritratto — e se non esistesse quella persona, non potrebbero esistere suoi ritratti.
Analogamente, un’idea stabilisce come deve essere una cosa del mondo sensibile per contare come caso
particolare di quell'idea. L'idea di Circonferenza stabilisce come deve essere un certo particolare contorno
per valere come circonferenza: se non esistesse l’idea di Circonferenza, non potrebbero esistere contorni
circolari. L'idea di Bellezza stabilisce come dev'essere una cosa bella: se non esistesse l'idea di Bellezza, non
potrebbero esistere cose belle.

La relazione tra mondo sensibile e mondo intelligibile: imitazione


La relazione che lega il mondo sensibile al mondo intelligibile è una relazione di imitazione (mimèsi)
analoga a quella che, all'interno del mondo sensibile, lega le immagini alle cose che esse raffigurano. Come i
ritratti di una certa persona imitano il modello sensibile fornito da quella particolare persona, così le cose
rotonde imitano il modello intelligibile fornito dall’idea di Circonferenza, e le cose belle imitano il modello
intelligibile fornito dall'idea di Bellezza. Come un ritratto non potrebbe esistere se non esistesse la persona
che il ritratto imita, così una particolare cosa rotonda non potrebbe esistere se non esistesse l'idea di
Circonferenza che quella particolare cosa, essendo rotonda, imita; e una particolare cosa bella non
potrebbe esistere se non esistesse l'idea di Bellezza che quella particolare cosa, essendo bella, imita.
Invece, idee come la Circonferenza o la Bellezza possono esistere indipendentemente dall'esistenza di
particolari cose rotonde o belle, proprio come una persona può esistere indipendentemente dall'esistenza
di suoi ritratti. Per Platone l'imitazione porta sempre in sé un certo grado di imperfezione: non esiste
un'immagine talmente precisa da coincidere perfettamente con l'oggetto raffigurato. Possiamo ritrarre una
persona di profilo, oppure di fronte, oppure di spalle, ma nessuno di questi ritratti corrisponde
perfettamente a quella persona. Analogamente non esistono, nel mondo sensibile, cose capaci di
corrispondere perfettamente a un'idea. Consideriamo il caso della Circonferenza; non esiste un contorno
circolare perfetto, in cui tutti i punti sono esattamente alla stessa distanza dal centro: i vari contorni
circolari che troviamo nel mondo sensibile si approssimano più o meno a questo ideale, ma nessuno lo
realizza pienamente. Consideriamo, ancora, il caso della Bellezza: ciascuna cosa bella è bella a modo suo, ed
esemplifica la bellezza in un modo peculiare, diverso da quello delle altre cose belle. Quindi una singola
cosa non può esprimere perfettamente l’idea di Bellezza, che è il principio generale che stabilisce quali
caratteristiche comuni devono avere tutte le cose belle.

Partecipazione e presenza
Oltre che come imitazione (mimèsi), Platone caratterizza la relazione tra idee del mondo
intelligibile e cose del mondo sensibile in termini di partecipazione e di presenza. La partecipazione
(metèssi) significa che le cose, in quanto imitazioni delle idee, prendono parte all'esistenza delle idee, come
un'azione compiuta seguendo una regola partecipa all'esistenza di quella regola, o un edificio realizzato
seguendo un certo progetto partecipa all'esistenza di quel progetto. Le cose, nell'imitare le idee, cercano
insomma di adeguarsi a esse, anche se difficilmente ci riescono; sebbene il mondo sensibile non
corrisponda esattamente al modello ideale stabilito dal mondo intelligibile, non va però inteso come una
falsa copia ingannevole. Le idee stabiliscono come le cose devono essere, e le cose sono fatte in modo da
approssimarsi il più possibile a questa “prescrizione”: ad esempio, nel tracciare un contorno circolare
cerchiamo di approssimarci il più possibile all’idea di Circonferenza. La presenza (parusìa) significa che le
cose, nell'imitare le idee e nel partecipare all'esistenza delle idee approssimandosi alle loro prescrizioni,
rendono “presenti” nel mondo sensibile le idee stesse. Le idee, in quanto entità del mondo intelligibile, non
possono apparire come tali nel mondo sensibile, ma possono comunque rendersi presenti attraverso le
cose che le imitano e che cercano di adeguarvisi. Non potremmo mai vedere l'idea di Circonferenza
direttamente con i nostri occhi, ma possiamo comunque vederla indirettamente, osservando un particolare
contorno circolare che la manifesta.

La teoria della conoscenza


Dall’esperienza alla conoscenza: il mito della caverna
‘Come abbiamo visto, nell'ontologia di Platone — la sua teoria dell'essere — la realtà si articola in due
livelli: un livello inferiore, il mondo sensibile, in cui si trovano le cose di cui facciamo esperienza con i nostri
sensi; e un livello superiore, il mondo intelligibile, in cui si trovano le idee che possiamo conoscere soltanto
mediante la facoltà dell'intelletto. Dalla teoria dell'essere di Platone consegue dunque la sua teoria della
conoscenza: posto che ciò che esiste si articola in un mondo sensibile che è mera apparenza e in un mondo
intelligibile che è invece la vera realtà, la conoscenza consiste nell’oltrepassare l'esperienza che si fa del
mondo sensibile per elevarsi alle idee che risiedono nel mondo intelligibile. Nella Repubblica, Socrate
spiega al suo interlocutore Glaucone la differenza tra l’esperienza del mondo sensibile e la conoscenza del
mondo intelligibile, e a tal fine sfrutta la differenza che, all'interno del mondo sensibile, riscontriamo fra le
cose e le loro raffigurazioni. Nella fattispecie, Socrate chiede a Glaucone di immaginare dei prigionieri che
vivono fin dalla nascita chiusi dentro una caverna, «incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da
poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo» (Repubblica, VII,
514 a-b). Inizia così il mito della caverna, la più celebre invenzione letteraria di Platone. Alle spalle dei
prigionieri, a una certa distanza da loro, c'è un fuoco che proietta luce sulla parete di fronte. Davanti al
fuoco c'è un muro, e nello spazio tra fuoco e muro si muovono degli uomini «che portano lungo il
muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in
qualunque modo lavorate» (Repubblica, VII, 514c - 515a). Dunque, le uniche cose che i prigionieri
percepiscono sono le ombre degli oggetti trasportati dagli uomini liberi: invece che le cose come sono, i
prigionieri vedono soltanto le loro sagome riflesse sulla parete. Dal punto di vista dei prigionieri, il mondo
delle ombre appare come se fosse il mondo vero. Attraverso il mito, Socrate suggerisce a Glaucone che la
nostra esperienza quotidiana nel mondo sensibile è simile alla condizione dei prigionieri nella caverna:
come costoro credono di vedere la realtà, mentre stanno vedendo soltanto l'ombra di quanto sta alle loro
spalle, così noi crediamo di conoscere la realtà, mentre stiamo percependo soltanto l’imitazione delle idee
che risiedono nel mondo intelligibile.

L'uscita dalla caverna


La condizione dei prigionieri nella caverna non è senza rimedio. Socrate prosegue il suo racconto
prospettando l'ipotesi di un individuo che si libera dalle catene che lo tenevano immobilizzato, inizia a
guardarsi intorno, poi si muove nella caverna e infine trova un'uscita verso l’esterno. Inizialmente questo
prigioniero liberato si trova in difficoltà: risulta goffo nei movimenti, abbagliato dalla luce ed è portato a
giudicare più vere le ombre che vedeva prima rispetto alle cose che gli sono mostrate ora. Un po” alla volta,
però, riconosce che il mondo reale è proprio quello che osserva all’uscita dalla caverna, mentre quello che
gli appariva sulla parete quando stava incatenato era soltanto l’ombra di ciò che esiste realmente. Egli si
adatta gradualmente alla nuova condizione, passando dall'osservazione delle ombre, a quella delle
immagini riflesse nell'acqua, per poi contemplare le cose stesse; una volta che i suoi occhi si sono abituati
alla luce, può guardare gli astri, la luna e il cielo arrivando infine ad ammirare il sole. Socrate spiega a
Glaucone che il filosofo si trova in una situazione analoga a quella del Prigioniero liberato. Quest'ultimo si
separa dai suoi compagni, liberandosi dalle catene e uscendo dall'oscurità della caverna dove vedeva
soltanto ombre, per arrivare a contemplare la vera realtà; il filosofo, allo stesso modo, si distingue dalle
persone comuni perché si libera dall'illusione che la realtà si riduca a quello che ci appare, e riconosce che a
esistere realmente sono le idee, di cui le cose che vediamo sono soltanto imitazioni. Inoltre, se per il
prigioniero uscito dalla caverna il punto di arrivo del processo di liberazione è la scoperta del sole, dalla cui
luce dipende l’esistenza e la conoscibilità di tutte le altre cose, analogamente per il filosofo che si è
svincolato dalle apparenze del mondo sensibile il punto d'arrivo del processo di elevazione è la scoperta
dell'idea del Bene, il vertice del mondo intelligibile, da cui dipende l'esistenza e la conoscibilità di tutte le
altre idee.

I presupposti della conoscenza


Come è possibile che una persona che si trova nel mondo sensibile sia in grado di conoscere le idee che si
trovano nel mondo intelligibile? Il mito della caverna racconta di un prigioniero che riesce a liberarsi dalle
catene e ad uscire alla luce del sole, arrivando così a contemplare la realtà vera; ma si tratta per l'appunto
di un mito, ovvero di un racconto metaforico che per essere propriamente interpretato non va inteso alla
lettera. I prigionieri rappresentano gli esseri umani imprigionati nel mondo sensibile, e l'uscita dalla caverna
è il processo che permette di accedere alla conoscenza del mondo intelligibile. Ma che cosa significa, in
pratica, liberarsi dalle catene per poter uscire dalla caverna? E come è possibile che questo avvenga? Tali
questioni sono affrontate nel Menone, nel Fedone, nel Fedro e nella stessa Repubblica. Per Platone, il soffio
vitale che rende viva una persona, la sua anima (psyché), non appartiene al mondo sensibile, sebbene si
trovi imprigionata in un corpo che appartiene al mondo sensibile. L'anima è qualcosa di immateriale e
immortale, proprio come le idee, e, prima di calarsi nel mondo sensibile incarnandosi in un certo corpo, ha
avuto accesso al mondo intelligibile e ha conosciuto le idee. Tuttavia, una volta unitasi con il corpo, l'anima
è distratta dalla molteplicità di cose che le si presentano nel mondo sensibile, e tende a dimenticare le idee
che aveva contemplato nel mondo intelligibile. Il ricordo delle idee continua però a rimanere radicato nelle
profondità dell'anima: si tratta soltanto di riuscire a recuperarlo e riattivarlo.

La conoscenza come reminiscenza


Per Platone la conoscenza consiste proprio nella reminiscenza (anàmnesi), ossia nella riattivazione —
all’interno del mondo sensibile — del ricordo delle idee precedentemente contemplate nel mondo
intelligibile. Una persona conosce perché le cose di cui fa esperienza nel mondo sensibile risvegliano
nell’anima il ricordo delle idee contemplate nell’iperuranio, di cui le cose non sono che imitazioni. Dal
momento, poi, che le idee sono connesse tra loro, il ricordo di una di queste suscita anche la ricerca e il
ricordo delle altre. In sintesi, la conoscenza per Platone consiste in un processo di svelamento,
chiarificazione e articolazione di un sapere che è già in noi fin dalla nascita ma che è stato
temporaneamente dimenticato: conoscere le idee consiste essenzialmente nel ricordarle, “conoscere è
ricordare”. Questa assimilazione dell'apprendere al ricordare è il fondamento della teoria della conoscenza
platonica, per caratterizzare la quale si usa talvolta termine innatismo. Esso designa in generale la tesi per
cui la mente umana possiede conoscenze innate, che dunque non sono acquisite mediante l'esperienza
fornita dai sensi. Nel Menone la concezione della conoscenza come reminiscenza è illustrata attraverso
dialogo tra Socrate e un giovane schiavo che ignora completamente la matematica. Socrate disegna un
quadrato con un lato di due piedi (circa trenta centimetri) e chiede allo schiavo quanto vale il lato del
quadrato di area doppia rispetto a quello disegnato. Lo schiavo inizialmente è in difficoltà perché non
conosce la formula dell’area del quadrato, né sa fare moltiplicazioni e divisioni; ma Socrate riesce
comunque a far trovare allo schiavo la soluzione, e ci riesce ricorrendo soltanto a domande e disegni, senza
fornirgli nessuna regola. Dunque, lo schiavo non ha appreso da Socrate le idee matematiche necessarie per
dare la risposta esatta, le ha invece trovate dentro di sé sfruttando gli spunti che Socrate gli forniva: lo
schiavo ha appreso le idee matematiche ricordandole, cioè ritrovandole nella propria anima. Secondo
Platone, lo stesso processo è alla base della conoscenza di qualsiasi idea.

I gradi della conoscenza


La teoria della reminiscenza spiega come conosciamo le idee del mondo intelligibile; le cose del mondo
sensibile sono invece percepite tramite i sensi: la divisione ontologica tramondo sensibile e mondo
intelligibile per Platone corrisponde dunque, sul piano del conoscere, a una divisione tra esperienza
sensibile e conoscenza intellettiva. L'esperienza sensibile è propria del mondo materiale, mutevole e
precario, e consente una forma di conoscenza imperfetta: l'opinione o déaa; si tratta della forma di
conoscenza che, nel mito della caverna, è posseduta dai prigionieri. La conoscenza intellettiva riguarda
invece il mondo immutabile ed eterno delle idee, cui si accede mediante la reminiscenza, e permette di
raggiungere il livello della conoscenza vera e propria: la scienza o epistéme. Nel mito questa modalità di
conoscenza è conseguita dal prigioniero liberato, che esce dall'oscurità della caverna per contemplare il
mondo illuminato dalla luce del sole. Nella Repubblica Platone chiarisce come sia la déxa sia l'epistéme si
articolino a loro volta in vari livelli, gerarchicamente organizzati.
 Il grado più basso dell'esperienza sensibile è la congettura o immaginazione (eikasía), mediante la
quale non entriamo in rapporto direttamente con le cose ma soltanto con le loro immagini. Si pensi
ad esempio quando, invece che vedere dal vivo una persona, vediamo soltanto un suo ritratto,
oppure ce ne formiamo un'immagine mentale. In tal senso Platone parla di “congettura”: è una
forma di pensiero che non è in grado nemmeno di vedere come stanno le cose nel mondo sensibile,
e può soltanto, per l'appunto, fare congetture su questo. A un livello superiore si trova la credenza
percettiva (pístis), mediante la quale sperimentiamo direttamente, attraverso i nostri sensi, le cose
del mondo sensibile. La credenza percettiva è una forma di pensiero superiore alla congettura,
perché consente di entrare direttamente in contatto con le cose, non soltanto con le loro immagini.
Per Platone, tuttavia, le cose del mondo sensibile non hanno una realtà autonoma, ma dipendono
dalle idee: come ha mostrato il mito della caverna, sono imitazioni imperfette delle idee. Dunque la
credenza percettiva, in quanto si basa sull'esperienza di cose, resta bloccata al livello dell'opinione.
 Per accedere alla conoscenza vera, l'epistéme, occorre afferrare le idee, ma a questo scopo
l’esperienza sensibile non basta più. Qui entra in gioco la conoscenza intellettiva, che si articola in
due modi distinti. Il primo è la conoscenza discorsiva (diánoia), frutto di un discorso razionale che
procede mediante ragionamenti deduttivi derivando le conclusioni dalle premesse; si tratta del
modo di conoscenza che sta alla base del sapere matematico. La conoscenza discorsiva, tuttavia, ha
bisogno di premesse fondamentali, che costituiscono il punto di partenza della “catena” deduttiva e
che non possono essere ricavate a loro volta da ragionamenti, altrimenti questi ultimi avrebbero a
loro volta bisogno di altre premesse. Perché la deduzione possa avere inizio, l'anima deve afferrare
le premesse fondamentali senza ricorrere ad altre deduzioni, in modo immediato e diretto. È
questo il livello più elevato dell'epistéme, quello della conoscenza intuitiva delle idee (nóesis), che
Platone giustifica con la teoria della reminiscenza: l'anima può afferrare direttamente le idee
perché queste si trovano già al suo interno, proprio come, nel ricordare, afferriamo qualcosa che si
trova già in noi.
“Il fatto è che l’occhio della mente comincia a veder chiaro quando s’affievolisce quello del corpo.” Secondo
Platone l’epistéme, cioè la conoscenza più elevata delle forme ideali, può essere raggiunta soltanto se si
supera il piano dei sensi e l’anima è concentrata su sé stessa, senza interferenze e distrazioni esterne. In
questo modo si attiva l’«occhio della mente», la funzione razionale in grado di conseguire la visione
dell'intelligibile.

La psicologia: natura e destino dell'anima


Anima e corpo
La teoria del sapere come reminiscenza si basa sull'ipotesi che una persona non consista soltanto di un
corpo, ma anche di un'anima (in greco psyché, da cui “psicologia”, “scienza dell'anima”). Quest'ultima
contempla direttamente le idee prima di incarnarsi nel corpo e poi — una volta che si è incarnata — le
apprende ricordando. D'’altra parte, il legame tra anima e corpo complica il processo dell'apprendimento
inteso come reminiscenza delle idee: il corpo condiziona l'anima tramite bisogni, desideri, emozioni,
sensazioni di piacere e di dolore, distraendola dalla sua funzione essenziale, che è la conoscenza delle idee.
Per uscire dalla caverna, per accedere cioè al mondo intelligibile, alla realtà vera, occorre che l'anima si
purifichi dall'influenza del corpo.

Com'è fatta l’anima?


Nel Menone Platone ha spiegato che, per poter conoscere le idee del mondo intelligibile, l'anima deve
essere capace di un'esistenza indipendente dal corpo. Il Fedone ha insistito sul fatto che l'anima è
imprigionata nel corpo: essa deve affrontare un processo di purificazione che le permetta di svincolarsi
almeno in parte dai condizionamenti corporali, in modo da avvicinarsi il più possibile al regno delle idee cui
appartiene e cui è destinata a ritornare essendo immortale. Nel Fedro e nella Repubblica Platone spiega
come i condizionamenti corporali siano possibili, analizzando l’articolazione interna dell’anima. Se l'anima
fosse di per sé perfettamente armonica ed equilibrata, il fatto di essere imprigionata dentro al corpo non
dovrebbe influire sul suo stato; la situazione di “prigionia” risulta così ostica e insidiosa perché l'anima
stessa contiene fattori di disequilibrio che la espongono all’influenza del corpo. L'anima non è un blocco
unitario; risulta invece formata da tre parti, in tensione fra loro: l'impeto (o “parte irascibile”, in greco
thiym68), l'istinto (0 “parte concupiscibile”, in greco epithymia) e la ragione (o “parte razionale”, in greco
légos). L'impeto è la sfera delle emozioni e delle passioni basate su nobili ideali: l'ambizione di compiere
azioni ammirevoli, l’orgoglio per esserci riusciti, oppure la vergogna per aver fallito, e poi anche
l’intransigenza, l’indignazione e il disprezzo per la meschinità altrui. In linea di principio, l'impeto ha una
funzione positiva, perché incoraggia l'anima a compiere grandi azioni in nome di grandi ideali,
sospingendola verso il regno delle idee; tuttavia è una componente essenzialmente emotiva, passionale, e
pertanto, affinché il suo effetto sull’anima sia benefico, occorre che sia governato dalla forza della ragione.
L'istinto è invece la sfera delle pulsioni e degli appetiti finalizzati al benessere del corpo: la fame, la sete, la
sonnolenza, il languore, il desiderio sessuale. In linea di principio anche l'istinto ha una funzione positiva
perché rende possibile la sopravvivenza e la procreazione; tuttavia, nel suo totale focalizzarsi sul mondo
sensibile, distrae l’anima dalla sua missione primaria, che è il ritorno al mondo intelligibile, la
contemplazione delle idee. È dunque compito della ragione governare l'istinto affinché non distolga l'anima
dal suo obiettivo. La ragione infine, come si evince da quanto detto a proposito di impeto e istinto, ha la
funzione di guidare e indirizzare le altre due componenti dell'anima, evitando che la loro impetuosità o
impulsività finisca per nuocere al benessere dell’anima nel suo complesso.
thymós limpeto o "parte spingono a grandi ideali; lógos epithymia l’istinto o “parte
irascibile” dell'anima la ragione o "parte razionale” concupiscibile” dell'anima; è
rappresenta la sua dell'anima; ha il compito di fonte dei desideri legati ai
componente emotiva e sorvegliare le altre due parti bisogni corporei
passionale, sede dei dell’anima e di guidarla verso
sentimenti nobili che la il mondo intelligibile.

La politica: giustizia, collettività, educazione


Dalla conoscenza all’azione: il ritorno nella caverna
l percorso di elevazione dal mondo sensibile al mondo intelligibile è descritto nel mito della caverna, che
illustra il tragitto compiuto dal filosofo. Mentre le persone comuni sono come prigionieri incatenati nella
caverna, in grado di vedere soltanto ombre sul fondo, il filosofo paragonato a un prigioniero che, animato
dal desiderio di conoscere, si libera dalle catene, esce dalla caverna, e scopre finalmente la realtà vera. Il
mito della caverna potrebbe concludersi con questo esito positivo, che vede il prigioniero definitivamente
libero dalle catene e felice di poter contemplare la verità in tutto il suo splendore. Questo in effetti è il
punto di arrivo dell'ascesa che porta dal mondo sensibile al mondo intelligibile: il punto d'arrivo della
ricerca del sapere. Ma per Platone tale risultato non è davvero conclusivo. Il prigioniero che ha imparato a
vivere da uomo libero è tenuto a ritornare nella caverna per aiutare anche gli altri prigionieri a liberarsi: lo
deve fare sebbene si tratti di un’impresa ardua e rischiosa, quasi proibitiva. Gli occhi del prigioniero
liberato, ormai abituati alla luce del sole, fanno infatti fatica a riadattarsi all’oscurità della caverna. Inoltre
gli altri prigionieri si oppongono al tentativo di liberarli, perché lo stato di incatenamento è la condizione cui
sono abituati, la credono normale, e non hanno intenzione di rinunciarvi: «e chi tentasse di scioglierli e di
portarli su, se mai potessero mettergli le mani addosso, finirebbero per ucciderlo» (Repubblica, VII, 517a). Il
Socrate della Repubblica paragona la condizione del prigioniero liberato che ha il coraggio di ritornare nella
caverna a quella del filosofo che, pur avendo avuto accesso al mondo intelligibile, torna a occuparsi delle
faccende del mondo sensibile per guidare gli altri uomini sulla via della virtù e del sapere, ma viene
ricambiato con l'odio e con la morte: proprio la sorte riservata al vero Socrate dai suoi concittadini. Eppure,
anche a costo di mettere a repentaglio la propria vita, questo è ciò che il filosofo deve fare: tornare nella
caverna, e cercare di condividere con gli altri suoi compagni gli esiti della propria ricerca. La virtù che deriva
dal sapere consiste non nel rimanere isolati, lasciando che i propri simili vivano nell’ignoranza, bensì nel
renderli partecipi di tale sapienza e nell'aiutarli a organizzare nel modo migliore la vita della collettività; il
filosofo deve quindi far sì che lo Stato sia amministrato da persone che possiedono il sapere al massimo
grado e che dunque possono trasmetterlo agli altri. L'esito della ricerca del sapere non è la contemplazione
fine a sé stessa delle idee, ma la partecipazione alla vita pubblica, la vita della pólis, ovvero la vita politica.

Dall'interrogativo sulla giustizia all’indagine sulla pólis


L'esistenza e il benessere della società dipendono dalla giustizia; per questo il tema principale della
Repubblica è l’indagine sulla natura della giustizia. Con l’obiettivo di rispondere al quesito “che cos'è la
giustizia?”, Socrate procede come suo solito mettendo in crisi con obiezioni e domande i tentativi di
definizione che i suoi interlocutori gli sottopongono, ma questa volta la ricerca della definizione non si
conclude con una situazione di stallo, un'aporia, come accadeva nei dialoghi socratici. La teoria delle idee
ha mostrato che c’è modo di scoprire che cosa sono realmente i valori; ora Socrate non si limita dunque a
smascherare le soluzioni sbagliate al problema della definizione della giustizia, ma procede di propria
iniziativa in direzione della soluzione corretta. La strategia decisiva che permette a Socrate di definire la
giustizia consiste nello spostare l'attenzione dal piano individuale al campo sociale: per capire che cos'è la
giustizia occorre focalizzarsi non sul singolo individuo, ma sulla collettività, su come le persone vivono
insieme cercando di cooperare per favorire il benessere di tutti. La giustizia si manifesta eminentemente
all’interno di una comunità organizzata, una pólis; per afferrare l'idea di giustizia occorre dunque indagare
come deve funzionare la pólis (il titolo originale della Repubblica è infatti Politéia, termine greco che si
riferisce proprio ai principi di funzionamento della pólis). Gli esseri umani si riuniscono a formare una
comunità perché da soli non riescono a soddisfare i loro bisogni e desideri. Nella Repubblica, Socrate inizia
con il descrivere una forma frugale di comunità, i cui membri si suddividono i compiti in modo da garantire
tre attività fondamentali: l’agricoltura per fornire il cibo; la manifattura per fabbricare case, vestiti,
calzature e attrezzi; il commercio per far circolare cibo e manufatti. Questa forma frugale di società mette in
luce le strutture economiche basilari di qualsiasi collettività, ma non tiene sufficientemente conto delle
debolezze degli esseri umani e delle loro inclinazioni all’egoismo, all’individualismo, alla smodatezza e alla
conflittualità. In tal senso Socrate osserva che per avere una comunità funzionante non bastano agricoltori,
artigiani e commercianti: occorrono anche medici che si prendano cura delle eventuali debolezze fisiche dei
membri della comunità, e soprattutto custodi che facciano fronte ai cedimenti e alle intemperanze delle
loro anime. Socrate distingue due tipi di custodi: i governanti, che prendono decisioni sulla vita in comune,
e i guerrieri, che, oltre a ricorrere alle armi per la difesa dai nemici esterni, vigilano affinché le decisioni
prese dai governanti siano attuate e rispettate. Una comunità governata dai custodi prende il nome di
Stato, e le persone che ne fanno parte sono i suoi cittadini. Lo Stato ideale risulta pertanto articolato in tre
classi di cittadini:

1. i produttori, che producono 2. i guerrieri, che difendono la 3. i governanti, che svolgono


beni di consumo (agricoltori, comunità; una funzione di guida.
artigiani) o più in generale Secondo Socrate, per
esercitano funzioni pratiche comprendere l’idea di
(commercianti, medici); Giustizia occorre esaminare il
funzionamento di tale Stato
ideale e capire innanzitutto
come devono relazionarsi le
tre categorie fondamentali di
cittadini che lo costituiscono.

Il funzionamento ideale dello Stato


Nel modello ideale di Stato descritto da Socrate nella Repubblica, ciascuna delle tre classi - produttori,
guerrieri, governanti — deve essere composta da individui con caratteristi- che adatte alla funzione loro
assegnata. In tal senso l’appartenenza di una certa persona a una certa classe, nello Stato giusto, non
dipende né dall'origine né dal sesso, ma soltanto dalle qualità possedute. Ai produttori si richiedono
mansioni pratiche che, dal punto di vista di Platone, di solito non sono di per sé gratificanti e nobilitanti, e
pertanto essi devono essere motivati da desideri egoistici, che li spingano a essere operosi allo scopo di
accrescere le proprie ricchezze o il benessere della propria famiglia. Questi desideri egoistici, tuttavia, se
opportunamente incanalati, finiscono per giovare alla comunità nel suo complesso. Perché questo avvenga
risulta però decisivo il contributo delle altre due classi, che a loro volta devono avere caratteristiche
appropriate a questo scopo. Ai guerrieri si richiede innanzitutto una notevole forza, sia fisica sia soprattutto
psicologica: uno spirito battagliero che permetta loro di affrontare qualsiasi rischio e pericolo pur di
assicurare che l’interesse comune non sia prevaricato dagli interessi individuali. Ai governanti si richiede
invece l'eccellenza nel sapere, che permetta loro di prendere decisioni che contribuiscano a migliorare la
vita dello Stato e il benessere collettivo. In tal senso Socrate identifica la figura del governante con quella
del filosofo: colui che, pur avendo avuto il privilegio di uscire dalla caverna per contemplare le idee, ritorna
comunque nella caverna per mettere il suo sapere al servizio della comunità. Nello Stato giusto, le figure
del governante e del filosofo vengono a coincidere. Governanti e guerrieri, in quanto custodi, sono esentati
da attività produttive, e dunque i produttori sono tenuti a garantirne la sussistenza e il benessere. Inoltre i
produttori devono seguire le regole che i governanti istituiscono e obbedire ai comandi che essi
impartiscono: se un produttore non si attiene a quanto stabilito dai governanti, viene opportunamente
sanzionato dai guerrieri. Perché lo Stato funzioni appropriatamente, governanti e guerrieri devono
esercitare il potere sui produttori, in modo da evitare che le inclinazioni individualistiche ed egoistiche di
questi ultimi nuocciano all'interesse della comunità.
Tuttavia — ed è questo il punto cruciale — governanti e guerrieri, in quanto custodi, devono esercitare il
potere sui produttori esclusivamente nell’interesse della comunità. Perché questo accada, spiega Socrate,
occorre che i custodi non siano soggetti a vincoli familiari e non posseggano beni materiali, altrimenti
sarebbero tentati di agire nell’interesse esclusivo della propria famiglia o per incrementare i propri beni. I
custodi non devono possedere null'altro al di fuori del proprio potere: le istituzioni della famiglia e della
proprietà privata vigono soltanto per la classe dei produttori. Governanti e guerrieri devono dunque vivere
in comunità fin dalla nascita condividendo tutti i loro beni, accettando di mettere in comune anche i
partner, ossia di non avere una vita di coppia, e ignorando chi siano i propri genitori e i propri eventuali figli.
In questo modo si tronca alla radice l’eventualità che interessi privati o affetti familiari interferiscano con la
lealtà allo Stato.

La forma di governo migliore e le degenerazioni del potere


Lo Stato ideale descritto nella Repubblica corrisponde a un'aristocrazia del sapere e della ragione (governo
dei “migliori”, gli áristoi nel senso di “più sapienti”) in cui il potere è appunto gestito da uomini che
possiedono le capacità per guidare la collettività, e compiono pertanto le loro scelte con saggezza,
interessandosi unicamente al bene comune. L'autorità conferita ai custodi serve ad arginare gli appetiti
egoistici dei produttori, ma se i custodi la utilizzassero a loro volta per fini egoistici, si avrebbe un rimedio
peggiore del male: il governo degenererebbe in una forma di egoismo ancora più dannosa, in quanto
agevolata dai privilegi che derivano dal potere stesso. Nella Repubblica Socrate individua quattro forme di
degenerazione del potere: la timocrazia (letteralmente, “potere degli impetuosi”; si ricordi che il thymos
era la parte dell'anima rappresentata dal cavallo bianco nel mito della biga alata), per cui l'ambizione e
l'orgoglio soverchiano l'interesse comune; l’oligarchia (letteralmente, “potere dei pochi”, óligoi in greco),
per cui il potere si concentra nelle mani di una minoranza di cittadini dediti all’avido accumulo di ricchezze;
la tirannide, per cui prevalgono i desideri smodati e l'arbitrio individuale di un unico individuo — il tiranno
— che ha il dominio assoluto. Un caso opposto, ma ugualmente negativo, si ha quando i detentori del
potere non esercitano un’autorità sufficiente, cosicché la maggior parte dei cittadini persegue propri
interessi particolari a scapito del bene comune; è il caso che Socrate definisce democrazia (letteralmente,
“potere del popolo”).

La giustizia come armonia tra le parti


Lo Stato giusto si rivela in ultima analisi uno Stato in cui le tre classi - produttori, guerrieri e governanti —
svolgono ciascuna la propria funzione contribuendo, ognuna a suo modo, all'interesse comune. Più in
generale, l’idea di Giustizia è proprio questo equilibrio fra interessi particolari in nome di un interesse
comune, questo equilibrio benefico fra istanze contrastanti, questa armonia fra le componenti di un intero
organico. L'idea di Giustizia come armonia tra le parti permette di caratterizzare la giustizia non soltanto nel
caso dello Stato, ma anche nel caso del singolo individuo. Risulta finalmente possibile stabilire che cosa
significhi per una singola persona essere una persona giusta, cioè, per Platone, essere una persona che
pratica la virtù: come uno Stato è giusto se le sue componenti fondamentali operano in armonia tra loro,
così una persona è giusta se le componenti fondamentali della sua anima operano in armonia tra loro. C'è
in effetti un'importantissima analogia fra le tre componenti dello Stato (produttori, guerrieri e governanti) e
le tre componenti dell'anima illustrate nel Fedro mediante l’immagine della biga alata (l'istinto, l'impeto e
la ragione). L'istinto, il cavallo nero, è mosso dal desiderio per le cose del mondo sensibile proprio come la
classe dei produttori è mossa dal desiderio per i beni materiali e gli affetti familiari. L'impeto, il cavallo
bianco, si getta risolutamente in nobili azioni ispirate dall’idea del Bene proprio come i guerrieri affrontano
risolutamente i rischi e i pericoli in nome del bene dello Stato. La ragione, l'auriga, guida l'anima
governando gli scatti del cavallo nero e gli slanci del cavallo bianco proprio come i governanti guidano lo
Stato orientando l'operosità dei produttori e la combattività dei guerrieri in vista dell’interesse comune.
Questa analogia permette a Platone di utilizzare l'analisi del funzionamento dello Stato per risolvere
l’equazione tra virtù e sapere che Socrate aveva impostato senza fornirne una soluzione esplicita. Il sapere
che sta alla base della virtù concerne essenzialmente l’armonia fra le tre componenti fondamentali
dell'anima.
L'educazione come garanzia di giustizia
Uno Stato è giusto soltanto se i suoi custodi sono uomini giusti, cioè in possesso del sapere che permette
loro di esercitare la virtù. Un uomo che appartiene alla classe dei produttori potrebbe anche non agire in
modo virtuoso, nel qual caso i custodi disporrebbero del potere necessario per bloccare e sanzionare le sue
azioni nocive; se invece fossero i custodi ad agire in modo nocivo per lo Stato, allora non ci sarebbe nessun
rimedio, dato che sono i custodi stessi a detenere il potere. Insomma, uno Stato non può essere giusto se i
suoi custodi non sono selezionati oculatamente in ragione delle qualità possedute e se non vengono
educati in modo da divenire persone virtuose, capaci di imporre l’ordine e l'armonia innanzitutto nella loro
anima. La questione dell’educazione (paidéia) risulta dunque uno snodo cruciale della Repubblica. Nel corso
del dialogo, Socrate spiega dettagliatamente quali insegnamenti devono essere impartiti ai custodi per
educarli alla virtù: fin da bambini, devono essere sottoposti a una rigida disciplina che li induca ad
apprezzare l’importanza dell'ordine, dell'equilibrio e della bellezza. Nella prima fase dell’educazione le tre
discipline fondamentali sono la ginnastica, l'arte (mousiké, il complesso delle pratiche artistiche protette
dalle Muse) e la matematica. La ginnastica si prende cura dello sviluppo armonico dei corpi dei giovani
custodi, l’arte educa la loro sensibilità ad apprezzare la bellezza e l’armonia, e la matematica addestra la
loro intelligenza a muoversi nel mondo delle idee.

Potrebbero piacerti anche