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PLATONE

Cenni biografici e contesto storico


(Le informazioni biografiche di Platone sono contenute nella VII lettera e in una biografia scritta da Diogene
Laerzio nel III secolo a.C.)
Platone nasce ad Atene nel 427 e muore nel 348. In quel periodo è in corso la guerra del Peloponneso (431-
404), vinta poi da Sparta, alla cui egemonia segue il governo oligarchico dei trenta Tiranni (che erano
autoritari, criminali; ed istituirono le liste di proscrizione). Platone era imparentato con Crizia, il più efferato
tra i Trenta e tra l’altro il membro che tra loro ricopriva il ruolo più preminente), ma, disgustato dalle azioni
dei tiranni, se ne distaccò presto.
Dopo la caduta del governo dei Trenta venne istituita la democrazia, che però si macchia di alcuni crimini
per tentare di eliminare alcuni personaggi ritenuti scomodi, come Socrate. Il filosofo, in particolare, fu per
così dire una “vittima del sistema”, poiché, dopo essere stato accusato, sembrerebbe ingiustamente, di
empietà e corruzione dei giovani, fu imprigionato e condannato a morte. In realtà, il filosofo, spingeva,
attraverso la maieutica, concetto che si trovava alla base del suo pensiero filosofico, a far “partorire” agli
uomini il sapere, la verità, che risiedeva già in ognuno di loro. Egli inoltre intendeva sviluppare nei suoi
interlocutori il pensiero critico e far mettere loro in discussione ogni cosa: Socrate intendeva fondare un’etica
individualistica, che avrebbe potuto causare una rottura tra cittadini e polis, proprio liberando le persone dai
pregiudizi e dalle idee propagandate e inculcate dalla polis stessa. Per questo motivo il filosofo risultava un
elemento scomodo nella società, quasi sovversivo e pericoloso. Egli, come raccontato da Platone, affrontò
con coraggio la morte, avendo accettato la decisione della polis, nonostante se ne fosse molto distaccato.
Platone fu molto influenzato dall’incontro che ebbe, in età giovanile, con Socrate: nei primi dialoghi, infatti,
Platone riprese molto fedelmente il pensiero filosofico del maestro.
Dopo aver compreso di non voler partecipare alla vita politica, Platone decise di recarsi a Siracusa, invitato
dall’amico Dione, alla corte di Dionigi il Giovane, che governava in modo dispotico. Platone intendeva istituire
a Siracusa una tirannide illuminata: Dionigi avrebbe dovuto infatti seguire i precetti del filosofo. Il tentativo di
Platone fallì miseramente, per ben tre volte.
Dopo il primo viaggio a Siracusa, nel 387, Platone fondò la propria scuola, l’Accademia, ad Atene (ricordiamo
che nel 390 anche Isocrate aveva fondato una scuola), a cui gli allievi accorsero anche dalle altre poleis
della Grecia. Il nome “Accademia” arriva dal nome proprio Accademia, eroe greco a cui era stato consacrato
il territorio sul quale nacque la scuola di Platone. Gli alunni dell’Accademia vivevano persino lì, quindi erano
costantemente a contatto con Platone e con il suo insegnamento.

Le opere
Platone preferisce come genere letterario il dialogo: infatti scrive circa 34 dialoghi, 13 lettere (anche se solo
la settima è sicuramente originale), e un solo monologo. I dialoghi ci sono pervenuti senza un ordine
cronologico: non riusciamo a datarli con precisione poiché è la tradizione a proporli privi di datazione ma
ordinati in base a:
• stile: sono una guida indispensabile le espressioni scelte da Platone;
• contenuti filosofici, poiché crescendo, Platone si distacca dal pensiero socratico, anche se preferisce
dar voce alla propria filosofia utilizzando sempre il personaggio di Socrate;
• riferimenti storici: chiaro indicatore.
I dialoghi sono inoltre divisi in:
• dialoghi della giovinezza: presentano un linguaggio vivace, energico; centrale è la figura di Socrate,
come personaggio e come portatore di uno specifico pensiero filosofico. Si tratta di dialoghi aporetici,
ossia irrisolti, dal finale aperto. Non presentano infatti la soluzione della discussione filosofica
proposta. Ciò rispecchia l’ars maieutica di Socrate: gli allievi avevano già dentro di sé la conoscenza,
che il filosofo aiutava a far uscire; ciò fa capire quanto la verità non dovesse essere proposta dal
filosofo, bensì raggiunta attraverso il dialogo dalla persona stessa.
• dialoghi della maturità: il loro stile è simile a quelli della giovinezza. In essi fa la sua comparsa la
dottrina delle idee, infatti questi dialoghi non sono aporetici, ma costruttivi, poiché presentano i primi
tratti della filosofia di Platone;
• dialoghi della vecchiaia: presentano una struttura particolare: nonostante siano dei dialoghi, vi è un
personaggio che monopolizza la discussione (esempio: Socrate). Inoltre, iniziano quasi sempre da
un “dogma di partenza”, che, attraverso varie argomentazioni, viene dimostrato. Il linguaggio di questi
dialoghi è più tecnico, tanto da farli sembrare quasi dei trattati.
Nei primi due blocchi di dialoghi possiamo rintracciare caratteristiche strutturali diverse, infatti, essi si
dividono ulteriormente in:
• dialoghi drammatici: ricordano un’opera teatrale poiché in essi viene ricostruito in modo realistico il
contesto in cui si svolge la discussione, spesso attraverso la descrizione di “spaccati” di vita
quotidiana, che permettano di creare una cornice a ciò che viene spiegato;
• dialoghi diegetici: da dieghesis “narrazione”. In essi i dialoghi si incontrano e riportano discussioni
affrontate in un altro momento. Questa è la narrazione che sicuramente risulta più complessa.
È possibile inoltre individuare, in tutti i dialoghi, una pars destruens, nella quale spesso Socrate “libera il
campo” da falsità e pregiudizi per far emergere la verità, attraverso la confutazione di tesi contrarie alle
proprie, e una pars costruens, in cui viene costruita una tesi vera e propria, che però nei primi dialoghi rimane
insoluta, mentre, in quelli successivi, presenta un’adeguata conclusione.

La scelta del dialogo


Platone sceglie il dialogo perché:
• Esso permette di riproporre in maniera mimetica una conversazione della realtà e, questo vale
soprattutto per i dialoghi giovanili, riprodurre il metodo socratico;
• Permette di rendere la narrazione e la lettura più piacevoli;
Il problema principale dei dialoghi è però la mancanza di una trattazione sistematica di temi filosofici (e infatti
sono numerose le contraddizioni).

L’uso del mito e la critica alla poesia


Ogni dialogo contiene un mito, più o meno esteso. Platone polemizza contro il mito, ma lui stesso lo utilizza,
sia per alleggerire il racconto e renderlo più accattivante, ma anche e soprattutto per esemplificare o
completare l’indagine filosofica, per spiegare ciò che razionalmente non può essere spiegato e compreso.
La polemica di Platone è rivolta alla mitologia tradizionale: gli dèi sono pieni di difetti, immorali, irrazionali e
capricciosi, tutti aspetti che il filosofo non accettava poiché temeva che i giovani ne sarebbero stati corrotti,
dal momento che essi erano a contatto costantemente con il mito e con la poesia, insegnati loro all’interno
delle scuole. La soluzione per Platone è fare del mito uno strumento morale, per portare un messaggio dal
valore formativo e edificante. La poesia viene condannata per due motivi: essa contiene dei miti ed è “copia
della copia” (si ispira agli oggetti terreni, che sono copie delle idee).

La scrittura
La scrittura viene condannata da Platone: Aristotele afferma, nella Fisica, che le dottrine più importanti di
Platone erano proprio quelle non scritte. Nel Fedro, il filosofo afferma infatti che il vero pensiero non doveva
assolutamente essere scritto. Gli studiosi della scuola di Tubinga ritengono, sulla base di queste
affermazioni, che siano le dottrine non scritte a rappresentare davvero il pensiero platonico (questa tesi non
è particolarmente accreditata).

Dialoghi apologetici
L’apologia di Socrate
L’apologia di Socrate non è un vero e proprio dialogo perchè è il resoconto dei tre dialoghi che Socrate fece
durante il processo del 399 a.C. Viene accusato da Meleto, e il discorso si articola in tre parti, la prima patrte
dove Socrate si difende, la seconda con l’enunciazione della condanna, e la terza con il discorso di Socrate
dopo la sentenza. Meleto viene appoggiato da qualche politico che non vedevano di buon occhio Socrate.
Socrate era mal visto in quella società poiché era un personaggio che creava una frattura tra i cittadini e la
poleis; spingeva ad un’etica individualistica i giovani, ogni giovane riusciva a giudicare e a guardare le leggi
con un senso critico e ciò lo rendeva pericoloso. Fu condannato dalla democrazia, non fu giustiziato quando
c’erano i trenta tiranno, perché minava l’ordine pubblico. Socrate utilizza un atteggiamento provocatorio nei
confronti dei giudici, anche perché lui non aveva fatto nulla contro le leggi e contro la poleis. Lui non tenta di
difendersi, ma continua a sostenere le sue idee, presentandosi come sostenitore dei valori. Non fa ricorso
al pathos perché sapeva di essere nel giusto e i giudici avrebbero dovuto applicare le leggi nel giudicarlo
senza essere fuorviati da elementi che avrebbero mosso il loro animo (elemento drammatico). Nel suo
discorso Socrate fa riferimento ad un oracolo di Delfi, che affermava che Socrate fosse l’uomo più saggio di
tutta Atene. Socrate non credendo all’oracolo comincia a porre una serie di domande scomode ai cittadini
della poleis, cercando un uomo più saggio di lui. Individua che coloro che erano saggi non sapevano di
esserlo, mentre quelli che rispondevano alle domande vantandosi della loro intelligenza erano in realtà
ignoranti. Dopo questa attenta analisi capisce di essere il più saggio perché non se ne rende conto. Nella
seconda parte del dialogo si disquisisce della pena da attribuire a Socrate; infatti era lo stesso imputato a
proporre la pena per sé stesso e i giudici l’avrebbero accettano o meno. Anche in questo caso Socrate ha
un atteggiamento provocatorio; dice che se davvero il tribunale agiva secondo giustizia, questo avrebbe
dovuto ricompensarlo e farlo vivere a spese dello stato. Inoltre afferma come sarebbe inutile condannarlo ad
una pena pecuniaria o all’esilio perché comunque avrebbe continuato ad indagare poiché per lui una vita
senza ricerca non sarebbe stata una vita degna. I giudici quindi si sentono sfidati da Socrate, e nella seconda
votazione quasi tutti vollero condannarlo alla pena di morte. Perciò Socrate venne incarcerato ed obbligato
a ebre la cicuta.

Critone
Critone era uno dei giovani che Socrate aveva formato, e questo arriva in carcere cercando di farlo scappare,
gli dice infatti che gli avrebbe trovato un modo semplice e agevole per fuggire. Socrate però rimane fedele
ai suoi principi e dice a Critone che non risponderà ad un atto di ingiustizia con un’altra azione di ingiustizia,
perché avrebbe corrotto il suo animo. Lui quindi avrebbe preferito subire un’ingiustizia piuttosto che
compierla. Le stesse leggi personificate si rivolgano a lui, lo invitano ad accettare comunque le norme della
poleis. Spiega che la sua vita è nata sotto il segno delle leggi della città; secondo quelle leggi i suoi genitori
lo hanno allevato; in qualche modo è figlio di quelle leggi. D’altronde se non fosse stato soddisfatto delle
leggi, in qualsiasi momento della sua vita se ne sarebbe potuto andare via da Atene. Ogni cittadino che vive
in una poleis accetta completamente le sue leggi, anche se queste sono ingiuste. Quindi Socrate rifiuta
l’opzione di Critone e accetta il suo fato.

Protagora
Socrate dall’opinione pubblica veniva ritenuto un sofista, ma in realtà era completamente avversario. Questo
è un dialogo diegetico: ossia con una struttura più complessa, dove Socrate riferisce ad un altro personaggio
qualcosa avvenuto precedentemente. Ippocrate, un allievo di Socrate, aveva bussato a casa sua perché era
desideroso di farsi presentare a Protagora, che in quel momento era ospite di un ricco ateniese, Callia. Per
essere accettato a casa di Callia, ci doveva essere un personaggio famoso che lo introducesse in quell’
ambiente. Vedendo l’orario improponibile, Socrate si sofferma a parlare con Ippocrate, mettendolo in guardia
rispetto alla sofistica. Dice che quella filosofia riusciva a far prevalere anche ciò che era ingiusto, grazie alla
potenza persuasiva della parola. I loro insegnamenti non si basavano su verità assolute, poiché per loro non
c’era una regola assoluta ma tutto era relativo, anche il senso di giustizia stesso. Dopodiché i due vengono
accolti in casa di Callia e inizia subito un dibattito tra i personaggi principali: Socrate e Protagora. Tutto parte
da una richiesta di Socrate che afferma se la virtù fosse insegnabile, dal momento che Protagora nel cercare
di accogliere i suoi allievi millantava il fatto di poter insegnare loro la virtù. La risposta di Protagora è molto
articolata tanto che Socrate viene messo in difficoltà. Protagora struttura le sue argomentazioni in modo
tecnico, iniziando con un mito di Prometeo ed Epimeteo. Afferma che quando l’uomo doveva venire alla luce,
questi due erano stati incaricati di distribuire le qualità ad ogni essere vivente. Epimeteo inizia a distribuire
queste doti agli animali in modo che nessuno sia una preda facile per gli altri. Nel fare così dimentica di
assegnare qualcosa all’uomo lasciandolo privo di ogni dote naturale. Interviene Prometeo che decide di
rubare alle divinità la sapienza tecnica (Efesto) e la saggezza (ad Atena) e insieme a queste anche il fuoco,
indispensabile per l’uomo. Così facendo l’uomo ha delle doti grazie alle quali può sopravvivere, nonostante
ciò non conosce ancora l’ars politica, perciò gli uomini tendono a prevaricarsi l’uno sull’altro, come se fossero
delle belve, senza nessuna norma di convivenza civile. Interviene quindi Zeus, che decide di donare delle
virtù all’uomo, a tutti: distribuisce il pudore, e la giustizia. Grazie a quest’ultimo dono di Zeus gli uomini si
organizzano e vivono in citta, e si evolvono dalla loro condizione iniziale felina. La virtù quindi non è
insegnabile, perché è qualcosa di innato, donata da Zeus in persona, nonostante ciò tutti gli uomini devono
comunque essere educati alla virtù, poiché deve essere tirata fuori da ciascuno, sennò rimarrebbe
inosservata da parte di chi la possiede. Protagora paragona la virtù a tutte le altre teknei (arti), affermando
che anche per quanto riguarda la virtù ci debba essere un maestro che forma i giovani, anche s un allievo
può essere più dotato di altri. Protagora continua col dire che tutti i fanciulli fin dalla nascita vengono educati,
gli viene insegnato loro la giustizia e la devozione verso gli dei, e dei solidi principi morali. Se i fanciulli non
seguono l’insegnamento così come si fa con un bastone curvo, si utilizzano le maniere forti e quindi le
minacce. Per confermare la sua affermazione, ovvero quella secondo cui la virtù è innata ma ha bisogno di
essere praticata, fa l’esempio delle leggi. Afferma che se la virtù fosse innata allora non ci sarebbe il bisogno
di regolamentare gli uomini, e non ci sarebbero neppure le punizioni. Questa è un’ulteriore dimostrazione
del fatto che anche la virtù vada perseguita, coltivata e ricercata. Socrate a questo punto fa notare a
Protagora che ha fatto riferimento e numerose virtù: gli chiede quindi se esistono diverse virtù e se sono
tutte insegnabili. Protagora afferma che esistono numerose virtù, però esse vanno considerate tutte in
maniera complementare l’una all’altra, perché si ci sono diverse ma vanno a formare qualcosa di generico
(come il volto che va considerato tutto insieme anche se composto da diversi elementi). Quindi più virtù
vanno a formare un unico senso di virtù. Protagora dice che le virtù non solo sono molte, ma bisogna
scegliere a quale virtù appellarsi (relativismo). Per esempio, quando un giudice deve prendere una decisione,
non può fare riferimento ad un concetto generale, ma deve caso per caso scegliere quale virtù sia meglio
scegliere in quel momento in modo che anche l’uomo politico sappia regolare la sua scelta in ogni momento
diverso (la finalità dell’uomo politico deve essere il bene comune). Così termina il dialogo, senza che sia
presa una posizione da parte di Socrate e quindi di Platone, perché Protagora risponde in modo convincente
alla risposta, e Socrate rimane dell’idea che la virtù non possa essere insegnata.

Dialoghi della maturità


In questi dialoghi Platone elabora il suo pensiero, in cui approfondisce il concetto di amore e anima, e del
mondo delle idee. Per arrivare al mondo delle idee Platone concentra la sua attenzione su mondo sensibile,
arrivando alla considerazione che quest’ultimo fosse caratterizzato dalla continua trasformazione. Platone
lo considera come una realtà ingannevole, quel mondo quindi era imperfetto, mutevole e mediante il quale
non si poteva arrivare alla vera conoscenza. Il mondo dell’idee invece era immutabile e perfetto, in cui
nascevano le idee, ossia realtà intellegibili, che sono fondamento della realtà sensibile. L’idea suprema è il
Bene, idea somma, a cui aspirano le idee dei sommi, ossia gli unici che possono arrivare a queste idee. Da
questo dualismo, composto dal mondo sensibile e quello delle idee, derivano delle considerazioni che
mantengono questa dicotomia. Questo dualismo lo troviamo anche nella concezione dell’anima. L’anima era
secondo Platone, poiché aveva la stessa essenza del mondo delle idee, perfetta. L’anima ascende da questo
mondo a contemplare infine tornerà ad incarnarsi negli uomini i quali non ricorderanno di questo mondo
perfetto. Avranno però solo una lieve percezione, un lieve ricordo di questo, definito anamnesis, ovvero la
reminiscenza. Si può dire quindi che la conoscenza sia innata nell’uomo perché l’acquista quando l’anima è
stata nell’iperuranio, ma qualcosa, nonostante la reincarnazione, resta nell’uomo. Questa tematica è
approfondita nel Menone, dove vengono sottoposte delle semplici domande allo schiavo Menone;
quest’uomo senza aver avuto istruzione riesce a dare delle risposte corrette. Grazie a questa sorta di
reminiscenza la conoscenza veniva fuori dallo schiavo, proprio perché l’anima era stata nel mondo
dell’iperuranio per un certo periodo. Ci sono vari miti che parlano dell’uomo e dell’anima. Uno è il Fedone,
discorso che si svolge tra Socrate e l’allievo che dà nome al dialogo. Questo discorso è avvenuto prima della
condanna a morte, e Socrate vuole assicurare l’allievo sull’esistenza dell’anima e su tutto il percorso che
quest’ultima segue dopo la morte. L’anima dell’uomo dopo la morte tende a salire nell’iperuranio, la stessa
attenzione verso che si dà al mondo dell’idee, viene data anche all’amore, spesso legato al concetto
dell’anima, perché tutti e due tendono a portare l’uomo al sommo bene e alla contemplazione di questo
mondo perfetto che è il mondo delle idee.
Come abbiamo già detto vi è un dualismo tra anima e corpo poiché l’anima rappresenta il mondo delle idee,
mentre il corpo la parte sensibile e corruttibile nella quale risiedono tutte le passioni e i desideri. Questo
dualismo lo riscontriamo anche dentro l’uomo; l’anima tende al mondo delle idee, mentre il corpo la tiene
ancorato al mondo sensibile. Platone parla di alcuni miti ce riguardano il viaggio che l’anima compie. Nel
Fedro si parla del mito della biga alata, ossia un carro trainato da due cavalli, che rappresentano l’anima. Il
mito ha come intento quello di spiegare la difficoltà che ha l’anima nell’ascendere dall’iperuranio. Si immagina
quindi che ci siano due cavalli, uno bianco, che rappresenta l’anima pura dell’uomo, che tende verso
l’iperuranio, e uno nero che invece spinge la biga verso il mondo sensibile; l’auriga invece rappresenta la
ragione dell’uomo. Possiamo notare come ci sia una continua lotta tra le passioni e l’aspirazione verso il
bene. Nella Repubblica invece troviamo il mito di Er, un guerriero della Panfilia che era morto in battaglia e
che quando stava per essere bruciato sul rogo riprende vita per raccontare ai presenti il suo viaggio
nell’aldilà. Er descrive il viaggio della sua anima, durante la morte, che era arrivata a contemplare l’iperuranio,
e racconta il destino di tutti i defunti. Le anime di coloro che si erano comportati rettamente che avevano
condotto una vita beata tendevano al cielo, invece le anime di coloro che avevano condotto un’esistenza
empia e ingiusta avrebbero trascorso per ben mille anni la loro esistenza nel centro della terra, subendo
fatiche e tormenti per purificarsi. Le anime successivamente si sarebbero reincarnate; venivano radunate
dalle tre parche, e ciascun’anima avrebbe potuto scegliere il proprio destino, i corpi e le vite che avrebbero
avuto. Non tutti però, nonostante fossero venute a conoscenza di ciò che era giusto e di ciò che non lo era,
sceglievano rettamente; quelle che avevano vissuta 1000 anni di vita beata di solito sceglievano figure
potenti per continuare a vivere una vita beata, sbagliando. Ogni anima aveva una serie di perosne in cui
poteva scegliere di reincarnarsi, anche l’ultima anima, nonostante fosse tale, aveva un’ampia scelta. Il
destino dipendeva proprio dall’uomo e dalle sue scelte. Dopo aver scelto l’individuo in cui reincarnarsi, le
anime bevevano l’acqua del fiume Lete, per avere l’oblio, e successivamente si sarebbero reincarnate; per
ciò l’uomo non si ricorda nulla. Soltanto Er ricordava cos’era successo durante il viaggio dell’anima perché
per scelta della divinità, Er non aveva bevuto le acque del fiume Lete e quindi non aveva dimenticato.

L’idea di amore
Il Simposio è ritenuto il dialogo più efficace, e brillante di Platone; è un dialogo diegetico, composto da una
struttura complessa, perché nel racconto si riferiscono aneddoti raccontati da un’altra persona. Anche in
questo caso viene raccontata una discussione, affrontata durante il simposio a casa di Agatone, un ricco
poeta dell’epoca di Atene. Viene ricreato anche il contesto in maniera dettagliata e gli invitati scelgono come
tematica su cui discutere l’amore. Ogni commensale racconta quindi un mito o tratta di questa tematica
dell’amore. Il primo a parlare è Fedro, che parla di Eros in maniera molto convenzionale, descrivendolo come
una forza devastante, che distrugge l’uomo soprattutto se non ricambiata. Sottolinea come l’amore possa
portare l’amante anche a gesti molto virtuosi, come quello di morire per l’amata, soffermandosi sul sacrificio
di “Alcesti” e su quello di Achille. Quest’ultimo decide di morire per Patroclo, gesto ancora più virtuoso perché
Achille era l’amato più giovane e bello. Segue il discorso di Pausania che parla della duplice natura di
Afrodite, che poteva essere secondo lui volgare o urania. L’Afrodite volgare si rivolgeva sia agli uomini sia
alle donne, e si trattava di un amore carnale, poichè rappresentava una passione rivolta solo al corpo, perciò
si trattava di un tipo di amore imperfetto. L’Afrodite urania invece, era l’amore più puro, l’amore rivolto
all’anima, il vero amore, l’amore platonico, nel quale si tendeva a contemplare l’anima dell’amato e
apprezzarne la bellezza. Quest’amore era proprio solo degli uomini, escluso alle donne, perciò l’unico amore
che poteva esistere per Pausania era l’amore omosessuale tra gli uomini. Segue Aristofane, che ripropone
la fantasia tipica dell’autore espressa nelle sue commedie, raccontando il mito delle origini. In origine
secondo lui, esisteva un unico essere straordinario di forma circolare, rappresentato da due esseri congiunti
che avevamo tutto doppio, poiché erano due esseri. Questi esseri circolari potevano essere il risultato
dell’unione di due uomini, di due donne oppure androgeni, ossia formati da un uomo e una donna. Un giorno
Zeus a causa della loro tracotanza decide di dividerli, da all’ora gli androgeni ricercano l’altra metà per
ricomporre la primitiva unione, questo è il senso dell’amore. Termina il Simposio il discorso di Socrate, che
ritiene che l’amore non sia nient’altro che una mancanza; l’amante è perennemente insoddisfatto perché
ricerca quello che non ha e non possiede. Eros è figlio di Penia, la povertà e Poros, quindi l’ingegno e
l’astuzia, la sapienza e il saper affrontare ogni difficoltà. Eros nasce da un’unione del tutto causale, in quanto
si stava festeggiando il compleanno di Afrodite durante il quale Poros era ubriaco e Penia si approfitta di ciò
unendosi a lui. Eros ha in sé i componenti di entrambi i genitori: Penia la mancanza, la sofferenza di non
avere qualcosa e Poros l’abilità di saper risolvere le situazioni difficili. Socrate descrive Eros non secondo lo
stereotipo di bello e morbido; Socrate lo descrive come povero, una divinità che vive ai margini della società,
scalzo. Eros essendo nato nel compleanno di Afrodite diventa suo ministro e suo seguace. Eros è amante
del bello, gli effetti dell’amore sull’uomo sono sempre positivi perché spinge a raggiungere la bellezza e il
sommo bene quindi l’iperuranio, e al desiderio di procreare e generare il bello, non soltanto ammirandolo.
L’idea del bello si può creare attraverso la procreazione (la stirpe), oppure attraverso delle opere insigni,
delle gesta particolarmente significative e nobili, o attraverso l’arte.

La repubblica
Chiamata “politeia” in greco, ha un’impostazione dialogica; e si colloca nella seconda fase dei dialoghi della
maturità. Platone si immagina che avvenga una discussione che verte sul senso di giustizia, a casa di Cefalo
padre di Lisia. A casa di questo ricco cittadino avviene una discussione che verte sul senso di giustizia. Tutti
i partecipanti cercano di trovare una definizione astratta su questo termine. Si esprimono i due sofisti: inizia
Trasimaco, che giustifica la giustizia con la legge del più forte, secondo lui non esiste un concetto astratto
eternamente valido, e non essendosi una legge morale la giustizia coincide con il proprio utile. Infatti
ciascuno agisce seguendo un concetto morale, ma agisce secondo un desiderio di sopraffazione e di
affermare un proprio potere personale (=Tucidide). Trasimaco dice che il comportamento è dettato dalla
voglia di sopraffare gli altri e di affermare un interesse personale, anche perché a volte comportarsi secondo
giustizia sarebbe svantaggioso; per questo i governanti, seguono l’interesse personale e non quello della
poleis. Secondo Trasimaco compiere un atto di ingiustizia dà felicità all’animo; tutto il contrario di ciò che
invece diceva Socrate, secondo il quale è meglio subire un atto di ingiustizia, che macchierebbe l’animo;
inoltre il buon governante deve avere sempre come obiettivo il bene comune. Glaucone, un altro sofista,
dimostra che in fondo non c’era una virtù innata, perciò non esisteva un uomo onesto e virtuoso in sé, perché
anche chi agiva in modo moralmente giusto, lo faceva per interesse personale, per non essere additato dalla
società come disonesto, per convenzione, temendo il giudizio morale. Tanto che dice che se il giusto fosse
messo nelle condizioni di compiere un atto di ingiustizia senza che nessuno lo venisse a sapere, non ci
penserebbe due volte, perchè saprebbe di non venir punito. Il giusto e l’ingiusto in determinate condizioni
percorrerebbero la stessa strada perché animati dallo spirito di contraffazione. Ora viene inserito il mito
dell’anello di Gige, un pastore onesto, che fino a quando non scoprì che l’anello aveva dei poteri magici si
comportò onestamente. Quando seppe, che l’anello donava l’invisibilità, girando il castone, uccise il re
Candaule, seducendo la moglie (=Erodoto, anche se ne parla in modo diversamente, poiché la moglie muore
per colpa dello schiavo). Dopo questa discussione Socrate, che non concorda con i sofisti, arriva alla
conclusione che la giustizia altro non è che la virtù dell’anima, (di cui la componente principale è il bene
assoluto, siccome viene dal mondo delle idee), che coincidendo con la virtù dell’anima, è eterea, ed ha in sé
il concetto di bene e di giustizia assoluta. All’uomo basta seguire la parte dell’anima che è più vicina al mondo
degli dei, per compiere il bene. Partendo da questa premessa si discute su un modello ideale di società, che
sia basata sulla giustizia e sul buon governo. Questo ideale stato, si fonderà sulla divisione dei compiti. In
questo stato gli uomini vennero divisi in classe sulla base delle inclinazioni naturali dell’uomo e del carattere
predominante nell’anima. Se nell’anima prevaleva la parte razionale, che rappresenta la perfezione, allora
questi individui andranno a formare la classe dei governanti, ossia la classe dirigente. Invece coloro che
avevano come caratteristica predominante irascibilità, e quindi non conoscevano la moderazione, ma
avevano come virtù positiva il coraggio, possedevano un’anima che tendeva all’affermazione di sé,
avrebbero formato la classe dei guerrieri. I lavoratori erano addetti alla produzione di beni materiali,
indispensabili per la società, il loro tratto dominante era la parte concupiscibile, e la loro anima tendeva verso
il basso, ed era legata al mondo fisico e alle cose materiali. A ogni classe viene associata una virtù, ai
governanti la saggezza, i guardiani il coraggio e i lavoratori, condividono con i governanti e i guardiani la
temperanza (metriotes), la moderazione, la giusta misura, loro sanno fare un uso moderato dei piaceri
corporali. La classe dei governati è formata dai filosofi, che sono gli unici che possono perseguire il bene
comune. Per evitare che ci possa essere una tentazione di non agire rettamente, i filosofi vengono posti in
determinate condizioni di vita: si ipotizza infatti che non ci sia la proprietà privata, né la famiglia, poiché tutto
viene messo in comune (Aristofane), sia i beni che le persone. I filosofi dovrebbero seguire un percorso
educativo, non tanto filosofico, quanto più tecnico-scientifico, quindi dovrebbero imparare la geometria,
l’astronomia, e la loro formazione culmina con la dialettica. Per Platone, la dialettica è la conoscenza del
vero, quindi il percorso educativo culmina con la conoscenza del vero, il mondo delle idee, quindi il bene
assoluto. Si può arrivare a questa conoscenza (episteme) solo dopo aver smantellato il mondo delle
apparenze (doxa). A questo punto inserisce il mito della caverna che riassume tutti i temi principali del
pensiero platonico. Questo mito è un’allegoria del percorso che l’uomo fa per diventare filosofo, un mito sulla
formazione dell’uomo che da schiavo diventa libero e successivamente filosofo. La caverna simboleggia il
mondo delle cose, il mondo sensibile, apparente; mentre ciò che c’è fuori dalla caverna rappresenta il mondo
delle idee, l’iperuranio, o il mondo reale. All’interno della caverna ci sono degli uomini seduti ed incatenati al
collo, alle braccia e ai piedi, che rappresentano la condizione di ignoranza nella quale gli uomini si trovano
dalla nascita. Questi uomini guardano una parete dove sono proiettate delle ombre, che credono essere la
realtà poiché unica realtà che hanno vissuto. Le ombre derivano da un fuoco e da degli altri uomini che le
proiettano sul muro con degli oggetti, che rappresentano le cose del mondo sensibile. Questi uomini che
proiettano le ombre sono i sofisti, filosofi falsi che ingannano gli altri uomini. Il fuoco simboleggia l’archè,
ossia le prime grandi risposte filosofiche, sono conoscenze ancora opinabili. Un uomo un giorno si libera,
abbandona l’immagine delle ombre, si alza e si volta, guarda indietro il muro e vede gli uomini, ma rimane
abbagliato dalla luce del fuoco. Poi si accorge che non si esaurisce tutto nella caverna ma anche fuori, esce
e riesce a guardare fuori dalla caverna, che rappresenta il mondo delle idee. Quest’uomo è l’uomo che si è
fatto filosofo, successivamente lui ritorna nella caverna per dire la verità agli altri uomini, ma viene schernito
da questi, che lo ritengono un pazzo (=Socrate). Secondo Platone quella che descrive, ossia la sofocrazia è
la migliore forma di governo, da cui tutte le altre sono soltanto derivazioni. La monarchia degenera nella
tirannide. L’aristocrazia degenera nell’oligarchia. La democrazia degenera in oclocrazia.

Il Timeo
Dialogo dell’ultima fase della maturità. Ha di innovativo la figura del demiurgo, che ha la funzione di fare da
mediatore, quindi ridurre la distanza, tra il mondo delle idee e il mondo sensibile. Inoltre, il demiurgo forma
la kora, ossia una materia col compito di imitare le forme del mondo delle idee.

MENANDRO
Menandro è il modello di Terenzio ed è anche il principale e per noi unico esponente della commedia nuova,
perché riusciamo a leggere solo delle sue poesie. Anche i rinvenimenti di Menandro sono molto recenti, e
sono papiracei, poiché sono stati ritrovati dei papiri sui quali troviamo dei testi di Menandro. Gli studiosi sono
soliti suddividere la commedia in tre fasi: la commedia antica, quella di mezzo e quella nuova. Nella
commedia antica, il maggiore esponente era Aristofane, con la sua ultima rappresentazione, il Pluto, nel 388,
anno in cui anche la commedia antica si conclude. Abbiamo poi una commedia nuova che inizia con la prima
rappresentazione di Menandro, ossia L’ira, del 321 a.C., con la quale è vincitore delle Enee, non pervenuta.
Vengono infatti, in questo periodo introdotti agoni dedicati solo alla commedia, che verranno estese anche
alle Grandi Dionisie. Tra la commedia nuova e la commedia antica, si sviluppa una commedia di mezzo, di
cui abbiamo solo dei titoli e degli autori, e che come caratteristiche si presenta più vicina alla commedia
nuova. Nella commedia antica c’era un forte legame con l’attualità politica, infatti Aristofane, scrivendo
durante la guerra del Peloponneso si dichiara un pacifista, attaccando i demagoghi del partito aristocratico
e facendo una sorta di parodia letteraria. I personaggi nella sua commedia erano paradossali, grandi eroi
comici, che cercano di attuare i loro progetti, spesso cambiando la spesso realtà, con azioni fantasiose e
paradossali. Spesso riescono a cambiare la realtà mediante varie trovate, così facendo le trame sono molto
lontane dalla realtà poiché rappresentano un mondo utopistico. A differenza di Aristofane, con Menandro si
perde il legame con l’attualità e i progetti utopistici, poiché quest’ultimo si concentra di più sull’uomo e sugli
affetti, concentrandosi sulla vita privata dell’uomo con i propri sentimenti. La vita viene rappresentata così
come sarebbe nella vita privata, nella realtà, si concentra sugli affetti e su alcuni valori che per lui sono
fondamentali. Il contatto con l’attualità si perde a causa del contesto storico, che è cambiato. Con la morte,
nel 323 di Alessandro Magno e la creazione dei regni ellenistici, si perde la libertà, e il teatro non può più
essere un teatro di opposizione. Il tragediografo quindi non può più esprimere le proprie opinioni, perché
rischierebbe delle ritorsioni. È cambiato il ruolo anche quello dell’intellettuale. Cambia anche la struttura della
commedia: scompaiono le parabasi, parti in cui il coro rivolgendosi al pubblico prendeva di mira anche
qualche personaggio famoso, con l’attacco ad personam, caratterizzante nella commedia di Aristofane, ma
che non avrebbe più senso e utilità in quella di Menandro. La divisione quindi sarà in atti. Oltre la parabasi,
scompare anche l’agone, quella parte comica in cui i personaggi si insultano, poiché Menandro vuole ricreare
la vita privata, la vita vera, la vita quotidiana dell’uomo. Qualche scena comica rimarrà, ma saranno scene
del tutto marginali, affidati a personaggi minori, a cuochi o servitori che si scontrano tra loro.

Cenni biografici
Menandro nasce ad Atene nel 340 a.C. Abbiamo poche notizie biografiche; sappiamo che nacque ad Atene
e trascorse tutta la sua vita. Come contesto storico ad Atene, nel periodo in cui Menandro scrive le sue
commedie, si alternano due regimi: il primo è un regime oligarchico a capo del quale si trovava Demetrio
Falereo. Infatti dopo la morte di Alessandro Magno ad Atene viene imposto un regime oligarchico, dalla
Macedonia, che sceglie i suoi uomini di fiducia per formare questo governo. Con questo regime Atene ha
quasi l’illusione di una ritrovata libertà poiché governava in maniera abbastanza autonoma.
Successivamente si afferma un nuovo regime a capo del quale c’è Demetrio Poliorcete, sovrano macedone,
durante questo, poiché Menandro era a favore del primo regime, fu probabilmente esiliato. Morì
probabilmente nel 292 a.C., ad Atene.

Duskolos
La prima commedia che ci è pervenuta, che è anche quella che riusciamo a leggere interamente si chiama
Duskolos, che significa misantropo, bisbetico, scocciatore. Infatti il protagonista di questa commedia è
Cnemone, un vecchio scorbutico che amava vivere da solo; lui aveva contratto un matrimonio con una donna
che aveva avuto un figlio di nome Gorgia. Ma quest’uomo abituato a vivere da solo, bisbetico, scorbutico
maltrattava i servitori e speso litigava con la moglie, tanto che la donna non sopportandolo più andò a vivere
con il figlio. Nel prologo abbiamo una veloce presentazione di quello che sarà la trama della tragedia e del
personaggio principale, ci viene anticipata da Pan, dio agreste e dei boschi. Pan aveva un santuario al
podere di Cnemone, lui infatti era un contadino, e lavorava tutti i giorni la sua terra con devozione. (pag 185)
Dal prologo, pronunciato da Pan ricaviamo il carattere del personaggio, che viene presentato come
scontroso, desideroso di vivere da solo, però viene presentato un aspetto positivo: Cnemone era un
contadino che si dedicava con dedizione al proprio lavoro, lui perciò era un gran lavoratore (2v “i contadini
sono capaci di coltivare anche le pietre”) anche se poi ne ricavava scarsi frutti. Era un uomo dai sani principi,
con un gande senso del bene, tanto che la ragazza grazie dell’educazione del padre ignora il male. Grazie
anche all’educazione del padre la fanciulla è devota alle ninfe e a Pan, e decidono loro di farla innamorare
di un giovane molto ricco che è Sostrato. Pan quindi ci appare come colui che dirige la vicenda, tutto accade
per volere di Pan; è la divinità a scegliere il destino dei personaggi ma relativa importanza ce l’ha la tuke.
Sostrato, come voluto da Pan, si innamora della figlia e cerca di avvicinare Cnemone, per chiederla in sposa.
Questo è talmente scontroso, che nessuno gli si può avvicinare, né lui, che si fa vedere come contadino, né
gli schiavi mandati da questo, perciò Sostrato non può chiedere in sposa la ragazza. Lui stringe amicizia con
il fratellastro Gorgia, per cercare di convincere Cnemone ma anche in questo caso non riesce a parlare con
lui. Un giorno (intervento del destino) una schiava fa cadere l’anfora nel pozzo, allora Cnemone si cala nel
pozzo, essendo un contadino devoto ai suoi pochi averi, per recuperare l’anfora. Dopo essersi calato nel
pozzo però non riesce a venirne fuori, e sarebbe morto se non fossero arrivati Gorgia e Sostrato. Alla
richiesta di aiuto Gorgia interviene e riesce a tirarlo fuori dal pozzo. In questo momento si matura l’evoluzione
del personaggio; infatti i personaggi di Menandro sono ben caratterizzati, c’è una forte introspezione
psicologica, e molti hanno un’evoluzione. Soltanto in parte però Cnemone subisce l’evoluzione, infatti,
capisce quanto sia stata sbagliata la sua vita, capisce che la solidarietà e l’affetto verso gli altri è
indispensabile. Capisce come sia impossibile condurre una vita senza affetti, e come questa sia una vita
triste ed infelice. Lui si era allontanato dagli uomini perché credeva che gli uomini fossero mossi da sentimenti
negativi, quali l’invidia o il sentimento di ricchezza; secondo lui non esisteva una persona che potesse
compiere del bene, in maniera disinteressata, per altruismo, perciò aveva deciso di vivere da solo, per non
essere imbrogliato da nessuno. Dopo questo episodio Cnemone si ricrede, capisce di aver dato un giudizio
troppo affrettato sugli uomini in generale, ma in particolare su Gorgia. Lui stesso ammette di aver sempre
maltrattato il figlio e di non avergli mai rivolto una parola gentile, nonostante ciò il figlio l’ha comunque salvato.
Capisce il suo errore ma vuole comunque continuare a stare da solo. Affida tutti i suoi beni e la tutela della
figlia a Gorgia, dicendogli di scegliere il marito idoneo per la figlia. Così si concretizza il lieto fine: Sostrato e
la figlia si sposano. La commedia si conclude con un doppio matrimonio perché Sostrato concede in sposa
a Gorgia sua sorella. C’è da sottolineare un discorso che Sostrato affronta con il padre per dare in sposa la
sorella a Gorgia. Il padre di Sostrato non voleva far ciò perché la famiglia di Gorgia era di bassa condizione
sociale, una famiglia umile al contrario della loro che era nobile e ricca. Emerge una contrapposizione tra le
due generazioni, di solito gli adulti sono portatori di saggezza, ma in questo caso è Sostrato il portatore di
veri ideali, che fa notare al padre come le sue considerazioni siano effimere, perché la ricchezza è una pura
casualità che può essere ribaltata da un momento all’altro, e ciò che bisogna veramente considerare è la
bontà d’animo. Allora il padre si lascia persuadere da queste sagge parole e concede la figlia a Gorgia. La
commedia si conclude con una beffa finale (pag 175). I servitori si vendicano dello scorbutico Cnemone, che
era infortunato dopo essere stato tirato fuori dal pozzo. Cremone si era appartato, non partecipando ai
festeggiamenti del matrimonio, perciò due servi lo prelevano mentre dorme e approfittano di questa
situazione. Improvvisano un balletto, per infastidire Cnemone, tanto che gli estorcono la promessa che
avrebbe partecipato al banchetto nuziale poiché stremato dai due servi. (leggere pag 172)

L’Arbitrato
Ha una trama molto simile all’Hecyra di Terenzio, proprio perché questa commedia di Menandro era stata
ispiratrice della commedia di Terenzio. Al centro della scena abbiamo Carisio e Panfile, due giovani. Carisio
aveva perpetrato violenza contro una donna, durante una festa, essendo ubriaco e perciò non capendo chi
fosse l’altra persona. Successivamente Panfile e Carisio si sposano e quest’ultimo parte per un viaggio. Al
ritorno Panfile aveva avuto un figlio illegittimo e l’aveva esposto, perché frutto di una violenza. Carisio,
sentendosi tradito dalla donna, sospetta che il bambino non sia stato frutto di una violenza bensì di un vero
e proprio tradimento. Perciò in preda a queste sensazioni il giovane decide lasciare la donna e di andare a
vivere da un amico, portando con sè una donna con la quale intratteneva una relazione già da prima del
matrimonio Abrotono che era un’etera (una meretrice). Anche Terenzio aveva portato in scena delle eteree,
con una caratterizzazione diversa da quella dello stereotipo (donna priva di scrupoli, manipolatrici), la stessa
che troviamo in Menandro. Abrotono, viene caratterizzata da un animo nobile, nonostante la professione, è
una donna gentile e generosa che sacrificherà i suoi interessi pur di propiziare il lieto fine. La tuke,
protagonista della commedia, fa sì che un giorno ci sia un arbitrato, una disputa che richiede il giudizio di un
arbitro sul bambino che era stato trovato esposto. Infatti si era accesa una contesa, tra un carbonaio e un
pastore, che avevano ritrovato il bambino. Questi discutevano su chi dovesse tenere i suoi oggetti personali,
tra cui c’erano anche oggetti preziosi poiché era stato il pastore a trovare il bambino insieme a tutto il corredo
e gli oggetti (che spesso serviva per le scene di agnizione), mentre il carbonaio voleva tenere il bambino,
avendone appena perso uno, ma il pastore non voleva cedergli gli oggetti preziosi. L’arbitro che viene scelto
per la disputa è il padre di Panfile. Dopo un agone tra i due contendenti, il padre sceglie di affidare il bambino
al carbonaio, con tutti i suoi effetti personali. Mentre si disputava passa il servo di Carisio, che pensa di
riconoscere l’anello come appartenente al suo padrone. È ancora dubbioso, ricorda che durante una festa il
padrone aveva abusato di una donna durante la festa, di cui non conosceva l’identità, perciò si confronta
con Abrotono La donna conferma di sapere che Carisio un giorno aveva abusato di una donna e afferma
anche che l’avrebbe riconosciuta se l’avesse vista, ma bisognava accertarsi che l’anello fosse di Carisio. Per
cui Abrotono per verificare come si fosse svolta veramente la vicenda, si fa consegnare l’anello fingendo di
essere stata lei la donna violentata, prendendo con sé anche il bambino, facendo finta che quello fosse suo
figlio, per vedere la reazione di Carisio. Molto spesso le commedie di Menandro sono frammentarie;
mancano quindi delle parti che potrebbero essere fondamentali per comprendere la trama, alla fine però si
riesce a ricostruire il senso generale. Si ricostruisce che Abrotono riesce ad appurare la verità, nonostante il
sospetto del servo, che spinto da pregiudizi, credeva che Abrotono avrebbe approfittato della situazione,
presentandosi come la madre del bambino e vivendo in condizioni migliori. Il servo rivela il suo sospetto alla
donna, che mostra la sua purezza d’animo dicendo che non aveva nemmeno pensato a questo sotterfugio,
e con estrema ingenuità, afferma che avrebbe potuto farlo ma che non ci aveva nemmeno pensato e che il
suo obiettivo non era quello. Grazie al riconoscimento dell’anello, Abrotono, dopo aver scoperto la verità,
corre da Panfile, che la guarda ancora con distacco e con sospetto, consapevole della relazione che
incorreva tra lei e Carisio, e rivela subito ciò che aveva scoperto, ossia che avrebbero dovuto riconoscere il
bambino perché Carisio aveva abusato di Panfile. Viene propiziato il finale, al quale si sarebbe arrivati anche
senza l’aiuto di Abrotono, poiché viene messo in scena un monologo di Carisio (introspezione psicologica),
in cui il giovane si era reso conto di amare davvero sua moglie e di essere disposto a perdonarla e desideroso
di tornare con lei, perché aveva visto la purezza d’animo della donna, e l’amore che anch’ella provava nei
suoi confronti.

La Samìa
Il titolo significa donna di Samo; la protagonista anche in questo caso è un’etera, che si chiama Criside. La
donna è una concubina di Demea, un anziano signore, che aveva un figlio, Moschione. Quest’ultimo aveva
sedotto una fanciulla che amava di nome Plangone, ma si era unito alla donna prima del matrimonio. Dalla
loro unione nacque un bambino, ma Moschione teme di rivelare la verità sia al proprio padre sia al padre
della fanciulla e teme anche le conseguenze delle loro azioni anche se i giovani erano fidanzati. Si
scateneranno una serie di equivoci, che andranno a creare l’intreccio, non a causa della tuke o di fattori
esterni, ma a causa dell’esitazione del giovane, mosso da reticenza e poco coraggio. Nasce un bambino
che viene subito accolto da Criside, che per evitare che fosse esposto, lo alleva come se fosse suo, fingendo
che fosse il frutto dell’amore con Demea. Iniziano una serie di equivoci: Demea si inizia ad insospettire,
temendo che il bambino sia frutto di un tradimento. Un giorno sente parlare le serve che alludono al fatto
che il bimbo potesse essere il figlio di Moschione, non nominando Plangone per cui Demea si convince che
la donna l’avesse tradito con il figlio. Demea è furioso, vuole cacciare la donna e il bambino. Demea, avendo
dei pregiudizi nei confronti di Criside, giustifica l’operato del figlio dicendo che sicuramente era stato sedotto
dalla donna che si era approfittata di lui, magari anche in un momento in cui il figlio non era lucido. Affronta
anche il figlio e a questo punto Moschione rivela la verità, che viene rivelata anche al padre della fanciulla.
La commedia termina con il matrimonio dei due giovani.
Protagonista in questa commedia è la mancata comunicazione tra i personaggi.

Lo scudo
In questa commedia protagonista è il ruolo della tuke, tanto che è essa stessa a pronunciare il prologo,
avvertendosi sui fatti e su quello che sarà fondamentale nella commedia (pag 188/189). Lo scudo prende il
nome dello scudo di Cleostrato, che era stato portato in patria, senza il corpo del giovane, quindi tutti lo
credono morto in battaglia. In realtà la tuke, che sa tutto, al contrario del pubblico, chiarisce che sì lo scudo
era quello di Cleostrato, ma quest’ultimo non era morto in battaglia poiché c’era stato uno scambio di armi.
Nella foga dell’attacco ciascuno aveva preso l’armi più vicina per cui le armi di Cleostrato erano andate ad
un altro uomo che era stato trovato con il volto tumefatto e quindi irriconoscibile. Cleostrato invece era vivo
ed era stato fatto prigioniero, ma sarebbe tornato. Come faceva Euripide nel prologo troviamo molte
anticipazioni di quasi tutta la trama, in maniera tale che il pubblico non si concentrasse sulla trama, ma su
come venissero sviluppati gli avvenimenti. La tuke, che ha un ruolo predominante, dispone della sorte degli
uomini, è proprio lei la forza motrice che disporrà gli avvenimenti a suo piacimento.
La tuke racconta che c’erano due fratelli zii di sorella di Cleostrato: uno di buon animo, l’altro no. Questo, di
nome Smicrine, viene caratterizzato nel prologo come una persona avara, meschina, desiderosa solo di
accumulare le ricchezze. Smicrine dà il via a quello che sarà lo stereotipo del personaggio avaro, che sarà
ripreso da molte commedie, un personaggio paradossale, descritto in modo tale da enfatizzare la sua
avarizia e dell’avidità. Smicrine voleva sposare la fanciulla, il cui fratello si pensava fosse morto non perché
l’amava, ma perché era diventata ricca ereditiera. La legge lo supportava perché si diceva che nel caso una
donna fosse rimasta sola all’interno di una famiglia il parente più stretto aveva la facoltà di contrarre con lei
il matrimonio, proprio per aiutarla. Per cui Smicrine approfitta di questo riferimento legale, per sposare questa
donna. La donna invece era stata affidata allo zio buono, corretto, che aveva deciso di far sposare la donna
con un altro giovane, di buona famiglia e che lei amava. Si stava già organizzando il matrimonio quando
subentra la notizia di Cleostrato e a causa di Smicrine le nozze vengono mandate a monte. È la tuke a
raccontare al pubblico ciò che stava avvenendo. Si creano vari livelli di conoscenza, con la tuke, che,
essendo responsabile degli avvenimenti, sa tutto e può pronunciare il prologo, informativo e espositivo; il
pubblico viene a sapere tutto dall’inizio e i personaggi che sanno di meno, perché vivono la realtà volta per
volta. C’è chi anche, tra i personaggi sa ancor meno e verrà beffato. Il servo di Cleostrato cerca ogni
espediente per evitare che la sorella sposi Smicrine. Viene usato lo stereotipo del servus callidus, quindi il
servo astuto che ordisce una beffa ai danni del vecchio. Il servo infatti gli fa credere che c’era un’altra donna
imparentata con lui che era rimasta sola, e che era molto più ricca di quella. Smicrine desiste dai suoi
interessi e sposta la sua attenzione verso questa donna che è molto pi ricca della fanciulla. Ciò che succede
dopo non è certo, siccome abbiamo una lacuna. Sappiamo però che c’è un lieto fine, con la fanciulla che si
sposa con l’uomo al quale era stata promessa. Si ipotizza che la trovata del servus callidus è servita
relativamente, ma ciò che risolve la situazione è l’entrata in scena di Cleostrato, che definisce chi la sorella
dovesse sposare ossia il giovane a cui era stata promessa.
La tosata
Anche in questa commedia si presentano vari livelli di conoscenza tra il pubblico ed i personaggi. Il prologo
è pronunciato dalla personificazione dell’ignoranza, Atnoia, perché solo lei è a conoscenza di tutta la verità
e di ciò che sarebbe successo in seguito. Inoltre soltanto uno dei personaggi era al corrente della realtà delle
cose, ma esitava a parlare per non disilludere un altro personaggio. I protagonisti sono Moschione e Glicera,
due giovani, fratello e sorella. Questi avevano avuto un destino travagliato, ma tra i due solo la sorella
conosce il loro vero rapporto di parentela, il fratello invece crede che lei sia estranea, tanto che si innamorerà
di lei. I fratelli erano stati abbandonati alla nascita a causa della povertà della famiglia e affidati a due famiglie
diverse: Moschione era stata adottata da una nobile famiglia, mentre la sorella era stata adottata da
un’anziana che però viveva in condizione poco agiate. Un giorno l’anziana morì e prima di morire le rivelò le
sue vere origini, consegnandole la culla e i ricami nelle lenzuola in modo tale da riconoscere i suoi famigliari.
I due ragazzi vivono in case vicine, e, dopo la morte dell’anziana lei diventò la concubina di un soldato,
chiamato Polemone (da polemos, guerra). La fanciulla non aveva rivelato la vera origine di Moschione per
non disilluderlo, perché questo credeva di essere di nobili origini (nobiltà d’animo della ragazza). Un giorno
Moschione, che l’aveva vista e si era innamorato di lei, riesce ad abbracciarla e a baciarla, e la ragazza non
riesce a tirarsi indietro, poiché non vuole far rammaricare il fratello. Ma caso (tuke) volle che passasse di là
Polemone, che, vista la scena diventa furioso, intrattabile, talmente mosso dal furor, dalla passione e dalla
gelosia che una volta trovatosi da solo con Glicera le rasa i capelli, manifestando il suo dissenso, gesto forte
che la giovane donna non tollera. La donna perciò decide di andare via di casa e va a vivere a casa del
fratello. Polemone riporta lo stereotipo del miles glorioso, il soldato fanfarone, pieno di sé che si dà delle
arie, che è molto litigioso, ma anche lui è un personaggio in evoluzione, molto più complesso. Infatti con dei
monologhi e dei dialoghi si vede il sincero pentimento di Polemone, che capisce di aver agito in maniera
troppo impulsiva, violenta, di aver offeso la sua donna tanto che vorrebbe anche riconquistarla. Polemone,
per riconquistarla, vuole mettere d’assalto la casa dove si era rifugiata la donna, ma un vicino Pateco lo invita
a riflettere, a capire che la diplomazia e la comunicazione sarebbero state il modo migliore di agire. Polemone
manda Pateco come mediatore per cercare di persuadere la fanciulla, che voleva abbandonare la casa nella
quale era stata ospitata e stava raccogliendo le sue cose, tra cui la culla e i ricami. Questo propizia la scena
finale di agnizione, Pateco riconosce i ricami come opera della moglie, e capisce che quella era la bambina
che era stata abbandonata assieme al fratello. Come sempre nel finale tutti i personaggi vengono portati allo
stesso livello di conoscenza, la verità si svela per tutti. Anche Moschione capisce che Glicera era sua sorella,
che torna con Polemone, mentre il fratello si unisce ad un’altra fanciulla trovatagli dal padre Pateco.

Innovazioni teatro di Menandro


L’intreccio e quindi le trame delle commedie sono molto complessi, proprio perché la tuke è la protagonista;
quindi, l’uomo è spesso sballottato da forze a lui estranee, e anche se cerca di reagire deve fare i conti con
la tuke, che comanda tutto. Gli intrecci rispecchiano l’imprendibilità della sorte. La tuke, tuttavia, appare molto
spesso benevola, coopera con gli uomini, che sono sempre propositivi, onesti, affinché si possa arrivare ad
un lieto fine, che agisce di per sé, ma spesso senza l’intervento di questa l’uomo non riuscirebbe a reagire
nel giusto modo. Molto spesso i protagonisti sono due innamorati, che devono affrontare delle disavventure
dettate dalla tuke, ma molto spesso sono proprio i personaggi a tardare la conclusione del lieto fine, per
esempio Moschione nella Samia, dove è proprio lui a ritardare il felice compimento dell’azione per mancanza
di comunicazione dei personaggi. Nonostante i molti intrecci, sono più realistici e verosimili, rispetto alle
commedie di Aristofane, rappresentano l’uomo nella sua quotidianità, personaggi che si scelgono e decidono
di cooperare tra di loro animati da nobili sentimenti. portano sulla scena l’uomo così com’è, visto negli affetti,
soprattutto in quelli famigliari, nelle amicizie e nell’amore. L’ideale della solidarietà, della comunicazione e
della filantropia sono centrali in Menandro, infatti quando questo non avviene (Samìa), allora si rompe un
equilibrio e la situazione degenera. La famiglia è vista come il microcosmo in cui l’uomo si rifugia, cercando
collaborazione e comprensione, fondamentali non solo all’interno della famiglia ma anche al di fuori. Il
messaggio nelle commedie di Menandro è molto importante, un messaggio che è edificante e spinge l’uomo
alla comunicazione e a comportarsi con valori precisi, la filantropia.
Mancano le trovate estremamente fantasiose, quei mondi paralleli, utopistici, proprio perché a Menandro
interessa rappresentare l’uomo nella sua quotidianità, a causa del contesto storico, a causa quindi del fatto
che non ci fosse più il teatro di opposizione, perché avrebbero rischiato di opporsi ad un governo che era
stato imposto dall’alto (dai Macedoni). Anche i cittadini non erano più chiamati a decidere nella vita politica,
i grandi dibattiti che venivano proposti anche attraverso le commedie cessano di esistere, poiché la propria
ideologia politica non ha più senso in questa politica. Menandro decide di rappresentare l’uomo, la sua
quotidianità, poiché siamo in una nuova fase storica, non ci sono più gli stretti confini della poleis, ma l’uomo
è cittadino del mondo (cosmopolitismo). Menandro porta sulla scena dei personaggi in cui tutti i cittadini del
mondo si potevano identificare, poiché si parla di amore di amicizia. La commedia era suddivisa in atti, con
la scomparsa dell’agone, della parabasi e del ruolo del coro, che tende a ridursi, fino ad avere solo una
funzione musicale. Molto importante nelle commedie di Menandro è l’introspezione psicologica e
caratterizzazione del personaggio. Gli stereotipi, vengono rivalutati e scritti in maniera convenzionale. I
personaggi non sono statici, ma sono dinamici, che maturano prima al loro interno, (come Carisio,
Polemone), e che riescono a giungere al loro obiettivo grazie alla collaborazione della tuke. Scompare l’eroe
comico, predominante nelle commedie di Aristofane, ossia quel personaggio che trova quelle trovate
straordinarie e paradossali, che attiravano fortemente su di sé l’attenzione e sui quali il pubblico provava
molta empatia, immedesimandosi e desiderando che il personaggio giungesse all’obiettivo, seguendo il suo
iter. Con Menandro il protagonista è difficile da capire, poichè abbiamo una serie di coprotagonisti che
cooperano tra di loro, e non abbiamo più una forte presenza scenica dell’eroe che si impone. Manca anche
un antagonista vero e proprio, che ritroviamo in Aristofane, ma molto spesso la sorte quella che aggroviglia
gli avvenimenti o l’uomo stesso che ritarda il corso degli avvenimenti per sua scelta. Alcuni personaggi
caratterizzati in modo stereotipato permangono, in misura minore, ma sono persone che non hanno un ruolo
dominante nella commedia, utilizzati per creare delle scene comiche a sé stanti, molto ridotte. I personaggi
sono tutti personaggi positivi, e anche quelli che sembrano negativi a parte Smicrine, e in un certo modo
anche Cnemone, anche se quest’ultimo, evolvendosi capisce che bisogna cooperare con gli altri e vengono
quindi messi in evidenza i valori positivi. Gli dei sono praticamente assenti, sebbene qualcuno abbia
interpretato il teatro di Menandro come fortemente spinto dalle divinità, non è una considerazione accettabile.
Le divinità vengono utilizzate nei prologhi per anticipare la trama ma solo perché serviva l’espediente di
qualcuno che sapesse tutto al contrario dei personaggi. Le divinità sembrerebbero assenti, non determinanti
allo svolgimento dell’intreccio. A differenza di Aristofane che utilizzava le beffe, gli equivoci, le trovate
paradossali, presupponendo che il pubblico ridesse (grassa risata), invece Menandro, come Terenzio, vuole
fare un po' sorridere, riflettere, su come tutti possano riconoscersi nei personaggi. Vuole far riflettere il suo
pubblico, su degli ideali dei valori. Per quanto riguarda il linguaggio Aristofane utilizzava molti neologismi, ed
era scurrile, cercando il realismo dal punto di vista dei personaggi, che si esprimevano come se fossero
personaggi del popolo. Menandro invece viene ricordato per il suo stile elegante, caratterizzato da equilibrio
ed eleganza. Ha uno stile misurato ed elevato, poiché ricorre raramente al linguaggio scurrile, anche perché
suoi personaggi sono nobili, perciò segue un linguaggio parlato dai ceti più elevati. Menandro fa ciò anche
perché c’era stato un cambiamento di pubblico, con il conseguente innalzamento del livello culturale. Infatti
da Pericle in poi era stata aggiunta una sovvenzione (teorikon) grazie alla quale tutti potevano andare a
teatro invece in età alessandrina, periodo in cui vive Menandro, questa sovvenzione non c’è più per cui
soltanto poche persone potevano permettersi l’accesso al teatro. All’inizio dell’età ellenistica si afferma la
lingua della koinè, una lingua comune, un greco uguale per tutti i regni ellenistici. Menandro utilizza ancora
l’attico, ma ci sono molte aperture nei confronti di questa lingua, come per esempio l’abolizione del duale ed
la perdita dell’ottativo, e altri cambiamenti linguistici.

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