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Le testimonianze “classiche”
Il fatto che Socrate non abbia lasciato nulla di scritto genera delle grosse difficoltà
nella ricostruzione del suo pensiero, anche per il fatto che le testimonianze indirette
che possediamo non sono coerenti tra di loro. Tuttavia possiamo basarci sulle
testimonianze di:
• Aristofane: la testimonianza di Aristofane, contenuta nella commedia Le Nuvole,
risale ai tempi dello stesso Socrate. Aristofane delinea Socrate come un
intellettuale innovatore, accomunandolo ai Sofisti e presentandolo come un
chiacchierone che infonde insegnamenti corruttori ai giovani. Appare evidente
che tale testimonianza sia una contraffazione. Tuttavia, nonostante Aristofane
presenti Socrate come “peggior sofista”, ci presenta un quadro storicamente
accettabile di quelle che furono la formazione e le posizioni di Socrate tanto
che, sia pur alla rovescia, il Socrate che Aristofane presenta coincide il Socrate
spregiudicato e critico di tutti i chiacchieroni del bene, della tradizione, della
sanità, che mette in discussione tutti gli insegnamenti, che irrita e fa
vergognare di sé la gente che credeva di “sapere”.
• Policrate: nella Accusa contro Socrate del 393, Policrate accusa Socrate di aver
disprezzato le procedure della democrazia e nello stesso tempo, esprimendo il
punto di vista della restaurazione democratica, si trova d'accordo con Aristofane
nel rinfacciare a Socrate di aver corrotto i giovani e aver insegnato credenze
contrarie allo stato.
• Senofonte e i socratici minori: Senofonte ci presenta un Socrate per lo più
moralista e predicatore; i socratici minori ci danno poche notizie e per lo più
estremizzano qualche aspetto del pensiero socratico.
• Platone: egli, nei suoi dialoghi, ci offre la più suggestiva ed amorosa
presentazione di Socrate, da cui è scaturita l'immagine tradizionale di
quest'ultimo.
• Aristotele: egli schematizza Socrate come lo “scopritore del concetto” e il
“teorico della virtù come scienza”.
Le fonti e la critica odierna
Pur riconoscendo la centralità della testimonianza platonica tra tutte le fonti, il fatto
che non esistano scritti di Socrate ha spinto alcuni studiosi a ritenere impossibile ogni
ricostruzione del Socrate storico; per tale motivo si è arrivati a confermare che la
filosofia di Socrate è e rimarrà un enigma insoluto. Ma all’affermazione che di Socrate
non si conosca niente poiché le fonti a noi giunte sono solo delle “interpretazioni” della
sua figura, si può obbiettare che:
1) di Socrate non si sa né tutto né niente, bensì qualcosa, ossia tesi generali
tramandate a noi dalle testimonianze e dalla tradizione;
2) l’ammettere che Platone e le altre fonti abbiano “interpretato” Socrate non
equivale a dire che lo abbiano “travisato”;
3) sulla base dell'esame comparato dalle varie fonti è possibile capire, in generale,
fino dove è arrivato Socrate e dove invece è giunto Platone:
4) prima di Socrate, nella cultura greca e nei filosofi, mancavano alcuni motivi che
troviamo solo dopo Socrate e che le fonti riferiscono esplicitamente a lui;
bisogna mantenere vivo il “problema” Socrate, pur essendo coscienti della
problematicità e non‐definitività di ogni ricostruzione.
Sembra quasi certo che in un primo momento della sua vita Socrate ebbe un interesse
per i naturalisti e per la loro indagine naturalistica. Ma deluso da tali indagini, il filosofo
si convinse che alla mente umana sfuggono inevitabilmente i perché ultimi delle cose
e che ad essa non è dato di conoscere con certezza l'Essere e i princìpi del mondo.
Abbandonate tali indagini, Socrate cominciò ad intendere la filosofia come un’indagine
in cui l’uomo, facendo se stesso problema, tenta con la ragione di chiarire sé a se
stesso, rintracciando il significato profondo del proprio esser‐uomo. Per questo Socrate
fece suo il motto dell’oracolo di Delfi “conosci te stesso”, vedendo in esso la
motivazione ultima del filosofare. Per Socrate l’essere uomo è costituito dal rapporto di
sé con gli altri e, di conseguenza, egli fonda la sua filosofia sul dialogo interpersonale
in cui ognuno affronta e discute le questioni relative alla propria umanità. In tale
colloquio Socrate ha posto il valore stesso dell'esistenza: “Una vita senza esame non è
degna di essere vissuta”.
Il non-sapere
Per Socrate la prima condizione della ricerca e del dialogo filosofico è la coscienza
della propria ignoranza. Quando Socrate conobbe la risposta dell’Oracolo di Delfi, che
lo proclamava il più sapiente fra gli uomini, lo interpretò come se avesse voluto dire
che sapiente è solo chi sa di non sapere. Sostenere che vero sapiente è unicamente
chi sa di non sapere è anche un modo polemico per dire che il filosofo genuino è colui
che ha compreso che circa le cause e le strutture del Tutto non si può dire nulla con
sicurezza. Tale affermazione, però, non equivale ad un'interpretazione di Socrate in
chiave “scettica” poiché egli, seppur agnostico per quanto riguarda le questioni
cosmologiche ed ontologiche, non lo è sui problemi etico-esistenziali; per tale motivo,
se riferita all'uomo, la formula socratica assume il significato di una denuncia polemica
di tutta quella categoria di individui che pretendono di saperla lunga sull'uomo,
credendosi in possesso di salde certezze sulla vita. Tuttavia Socrate non intende
escludere la possibilità di una ricerca sull’uomo, anzi la incoraggia poiché solo chi sa di
non sapere cerca di sapere, mentre chi si crede già in possesso della verità, non sarà
spinto a cercarla. Quindi la tesi socratica del non sapere non è una professione di
scetticismo, poiché spinge ad indagare, ma solamente sui problemi fondamentali
dell’uomo, ponendo dei limiti alla ricerca la quale non può spingersi fino alle supreme
realtà di natura metafisica.
L'ironia
Nell'esame cui Socrate sottopone gli altri, coinvolgendo anche se stesso, la sua prima
preoccupazione è di renderli consapevoli della loro ignoranza. A tale scopo egli usa
l'ironia, ovvero quel gioco di parole o teatro di “finzioni” attraverso cui il filosofo
giunge a mostrare il non-sapere in cui si trovano. L'ironia è dunque il metodo utilizzato
da Socrate per svelare all'uomo la sua ignoranza e per gettarlo nel dubbio e
nell'inquietudine, impegnandolo nella ricerca. Facendo ironicamente finta di non
sapere, Socrate chiede al proprio interlocutore, per lo più un personaggio illustre, di
spiegargli ciò in cui egli è competente; dopo una lunga adulazione del suo sapere,
comincia a martellarlo di domande. Con l'utilizzo dell’arma del dubbio e della
confutazione delle deboli risposte ricevute, il filosofo può mostrare alla persona che gli
sta difronte l'inconsistenza delle sue persuasioni, provocando in lui vergogna. In
questo modo, il filosofo arrivare al suo scopo principale: invogliare alla ricerca del vero.
L’ironia è, quindi, una specie di sofistica “nobile” che tende alla purificazione e alla
liberazione di ogni convinzione del vivere quotidiano.
La maieutica
Tutto ciò non significa che Socrate, dopo aver fatto il vuoto nella mente del discepolo,
si proponga di riempirla con una sua verità, quasi fosse un sorta di “lavaggio del
cervello”; Socrate, infatti, non vuole stimolare dall'esterno una propria dottrina, ma
soltanto stimolare l’ascoltatore a ricercarne una propria. Da ciò la celebre “maieutica”,
l’arte di far partorire. Così come la madre, una levatrice che aiutava le donne a
partorire i bambini, Socrate era un ostetrico di anime, ovvero, aiutava gli intelletti a
partorire il loro genuino punto di vista sulle cose. La verità deve essere una conquista
personale e la filosofia un’avventura della mente di ciascuno; la vera educazione è,
quindi, sempre auto‐educazione, ossia è un processo in cui il discepolo, grazie
all'opera del maestro, viene aiutato a maturare autonomamente dal proprio interno.
6. Socrate e le “definizioni”
Il concetto
Nella struttura a spirale del dialogo socratico, fatto di domande, risposte e obiezioni
che si ripetono in continuazione, il punto focale è l'interrogativo “ti ésti” (che cos’è?),
ossia la richiesta di una definizione precisa di ciò di cui si sta parlando. Spesso, a
domande come “cos’è la virtù?”, veniva data una risposta a Socrate che era più che
altro un’elencazione di “esempi” di virtù; a Socrate, però, non interessano degli
esempi, ma una definizione precisa di virtù. Ai lunghi discorsi ammaliatori dei sofisti
(macrologie), Socrate contrappose discorsi brevi (brachilogie), fatti di battute corte e
veloci, volte ad obbligare l’avversario a risposte precise, che mostreranno la
superficialità delle proprie convinzioni e si dispone ad una più sentita ricerca. La
domanda “che cos’è?” rivela, dunque, due volti: uno negativo, che mette in crisi il
dialogante spogliandolo delle proprie certezze, e uno positivo che mira a condurre il
dialogante verso una definizione soddisfacente dell’argomento trattato. Aristotele
attribuisce a Socrate il ragionamento induttivo, il quale porta ad un’affermazione
generale che esprime il concetto, cioè la definizione della cosa.
7. La morale di Socrate
Il razionalismo morale di Socrate, che identifica la virtù come sapienza e il vizio come
ignoranza, è stato accusato di sopravvalutare troppo la funzione dell'intelletto nel
comportamento umano, dimenticando la presenza della volontà e la forza della parte
istintiva-affettiva della nostra psiche. Di conseguenza, Socrate è stato tacciato di
“intellettualismo etico”, poiché egli, non distinguendo fra intelletto e volontà o non
dando sufficiente importanza ai fattori emotivi, avrebbe esagerato la potenza della
ragione. Un'altra imputazione che si è rivolta a Socrate è quella di “formalismo etico”,
in quanto egli, limitandosi a dire che la virtù coincide con la scienza, non definirebbe in
concreto la virtù e non specificherebbe il comportamento che ogni uomo dovrebbe
seguire. Tuttavia, tale accusa risulta essere un fraintendimento poiché Socrate volle
limitarsi ad offrire all'uomo lo schema generale del ben comportarsi e volle invogliare
l'uomo a ragionare su quale sia il bene di volta in volta, senza pretendere di stabilire
quale sia il bene concreto. Questo razionalismo etico non deve essere confuso con una
forma di soggettivismo o relativismo morale che lascerebbe l'uomo privo di saldi criteri
; infatti, l'imperativo socratico di agire secondo ragione, facendo scaturire il bene di
volta in volta, si accompagna alla convinzione che il bene sia morale solo se rispetta la
propria e l'altrui dignità.
9. La religione di Socrate
Socrate tende a dare alla sua opera un carattere religioso; egli, infatti, considera il
filosofare come una missione che gli è stata affidata da una divina, e parla di un
demone che lo consiglia in tutti i momenti decisivi della sua vita, guidandolo nelle
scelte. Questo demone può essere interpretato come la voce della coscienza, anche
se, molto probabilmente, esso è più della semplice voce della coscienza: è il concetto
religioso, non semplicemente morale. Egli, per obbligo del buon cittadino, prestava un
ossequi agli dei; ma, ammettendo solo la divinità, ritiene gli dei solo manifestazioni di
quest’ultima. La divinità è quindi garante dell’ordine del mondo, della giustizia e del
bene ed è custode del destino degli uomini. Dunque, la religiosità di Socrate, non si
basa su credenze, ma anima la ricerca filosofica.
L'accusa
Gli insegnamenti e le idee di Socrate erano ormai diffuse ad Atene, quando tre
democratici (Meleto, Anito e Licone) lo denunciarono alla città con l’accusa di non
riconoscere gli dei tradizionali della città, ma di introdurne di nuovi, e corrompere i
giovani; pena: la morte. Di fronte a tali accuse, Socrate poteva tentare di scagionarsi o
scappare da Atene, ma non volle e continuò a sostenere il suo “compito educativo” nei
confronti degli Ateniesi dichiarando che non lo avrebbe mai lasciato poiché era un
ordine divino. Socrate, con una piccola maggioranza, fu riconosciuto colpevole; tra
l’andare in esilio e proporre una pena adeguata al verdetto, egli, sarcasticamente,
disse di esser degno di essere nutrito a spese pubbliche nel Pritanèo come si faceva
per i grandi della città. A tale affermazione seguì una nuova accusa con maggioranza
più ampia e con pena di morte.