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INTRODUZIONE A STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA E MEDIEVALE

Si esponga la concezione platonica della dialettica.


La parola “dialettica” deriva dal verbo greco “dialegesthai” che significa “discutere”, “dialogare”.
Questi termini indicano con chiarezza il retroterra culturale al quale Platone si riferiva nella sua
decisione di fare della dialettica la tecnica per eccellenza dell’indagine filosofica. Si trattava di una
pratica culturale che da gran tempo costituiva il fulcro della vita sociale di Atene. Le maggiori
decisioni politiche venivano prese dopo ampie discussioni in cui le tesi rivali si confrontavano di
fronte all’assemblea cittadina. La sofistica aveva generalizzato questa pratica sociale
trasformandola in un’arte del persuadere e dell’attrarre consensi mediante l’argomentazione per tesi
contrapposte. La forma della discussione e del confronto si imponeva a Platone non solo come lo
strumento necessario per la costruzione del sapere filosofico, ma risultava necessaria per la
rifondazione di questa forma che era stata storpiata dall’arte retorica.
Platone pone la dialettica al primo posto nella sua gerarchia dei saperi. Nel 6 libro della Repubblica
Platone fornisce per mezzo dell’immagine della linea un quadro delle modalità conoscitive alle
quali gli uomini hanno accesso. Al vertice della linea Platone colloca la noesis, la quale si identifica
con la razionalità dialettica, vale a dire con il metodo della filosofia vera e propria. La noesis è in
grado di risalire al di sopra delle ipotesi in direzione di un principio anipotetico e sviluppa le sue
procedure all’interno della sfera intelligibile, senza servirsi di esempi e immagini sensibili. Solo
nell’ambito di una simile procedura di giustificazione e fondazione delle ipotesi, è possibile
raggiungere la conoscenza autentica (episteme). Oltre che nella Repubblica, anche nel Fedone
Platone esplicita passo per passo in cosa consiste la dialettica: l’assunzione di un’ipotesi, la
deduzione di una serie di conseguenze che si accordino con l’ipotesi di partenza e l’eventuale rifiuto
dell’ipotesi iniziale, se essa conducesse a conclusioni assurde, e la giustificazione razionale
dell’ipotesi per mezzo di un’ipotesi superiore, fino al conseguimento di un principio non ipotetico.
Platone sembra poi assegnare alla dialettica una funzione direttiva nei confronti delle discipline
matematiche. Gli specialisti di queste ultime non sono in grado di servirsi dei risultati ai quali
pervengono nelle loro indagini, che consegnano ai dialettici, i quali non solo ne sanno cogliere il
senso filosofico, ma sono capaci di valorizzarli dal punto di vista dell’interesse della comunità.

(Quindici lezioni su Platone, Introduzione a Platone)

Perché Platone scrive dialoghi e perché è paradossale in un certo senso l’esistenza di un corpus di
dialoghi scritti?
I dialoghi platonici, per la loro stessa esistenza, costituiscono un paradosso. Si tratta del primo
grande corpus di scritti filosofici che l’antichità abbia conosciuto, eppure il suo autore è stato colui
che ha negato con maggiore fermezza la possibilità che il pensiero filosofico possa venire messo per
iscritto, rifiutando l’adeguatezza della scrittura a esprimere i modi, le forme, i contenuti di sapere.
In un passo della sua lettera settima sostiene che la scrittura sia inadeguata per trasmettere il sapere
filosofico in quanto la mancanza della presenza dell’autore implica: che il testo non possa essere
interrogato e non sia calibrato sulla capacità di fruizione di un lettore e non da’ la possibilità al
lettore di capire meglio quello che legge, inoltre l’autore non può difendersi. Un altro problema
legato alla forma scritta è che chi trasmette il proprio sapere per mezzo della scrittura lo fa
indipendentemente dal fatto che l’altro sia o meno in grado di accogliere questo pensiero. A questa
metodologia Platone oppone l’interrogazione con la quale attraverso l’interazione con l’altro si può
giungere ad una verità superiore rispetto a quella a cui si giungerebbe individualmente. In un altro
passo della lettera settima, affronta un ulteriore problema: la dichiarazione esplicita del fatto che
esistono dei saperi filosofici che Platone non ha affidato alla scrittura per due ragioni: il destinatario
deve essere una persona cresciuta intellettualmente che ha intrapreso un percorso con il maestro ed
è in grado di accogliere e comprendere queste dottrine; vi è inoltre una difficoltà teoria nel mettere
per iscritto queste dottrine che non hanno raggiunto un livello di elaborazione tale da poter essere
messe per iscritte e trasmesse universalmente. Ci sono diversi motivi per cui Platone ha deciso di
scrivere dialoghi: vuole dare delle indicazioni su come fare filosofia, offrendo dei modelli dialogici
basati sull’esperienza socratica. La forma dialogica inoltre permette a Platone di mettere in scena
un’intera società (chiamata da Vegetti “società dialogica”) per permettere al lettore di identificarsi
con i personaggi messi in scena e lasciarsi coinvolgere nel meccanismo dialogico.

(Questa risposta è di pari passo con gli appunti perché lei ha spiegato seguendo esattamente ciò che
diceva Quindici lezioni su Platone)

Si forniscano le principali letture del mito della caverna


Il mito della caverna è un’allegoria che sintetizza e racconta per immagini tutta l’ontologia e la
gnoseologia che emerge nella Repubblica di Platone. In quanto allegoria, non è sempre facile
tradurre concettualmente tutte le immagini. La condizione umana veniva rappresentata mediante
l’immagine di prigionieri incatenati in una caverna e costretti a rivolgersi verso la sua prete di
fondo. Essi potevano vedere soltanto le ombre di statuette e forme che venivano mosse alle loro
spalle da altri uomini, simbolo dei governanti che impongono un’educazione unidirezionale,
proiettate da un fuoco, simbolo del Sole che è condizione di possibilità di conoscenza degli oggetti
sensibili, posto verso l’imboccatura della caverna. Da un punto di vista ontologico, le ombre
rappresentano le immagini degli enti fisici e le statuette, gli enti fisici. Questa condizione degli
uomini prigionieri corrispondeva, nella metafora della linea utilizzata da Platone per spiegare la sua
gerarchia dei saperi, a quella del segmento inferiore della linea, i cui oggetti sono realtà sensibili e
la cui forma conoscitiva è quella dell’opinione. Tuttavia è problematico associare la condizione
normale dell’individuo come qualcuno che guarda immagini di realtà empiriche. Ma se un
prigioniero venisse liberato ad opera di un Maestro come Socrate, egli potrebbe risalire verso
l’esterno della caverna, scoprendovi il mondo “vero” della natura illuminata dalla luce solare, che
corrispondeva, nel modello della linea, all’ambito degli enti ideali. Questa ascesa significava la
possibilità di un movimento conoscitivo che porta dal mondo dei sensi e dell’opinione a quello delle
idee e del pensiero dianoetico e noetico. Va sottolineato che non esistono in realtà due mondi, per
gli uomini che hanno un corpo e vivono nel tempo, c’è un solo mondo, ed è quello della caverna.
“Liberazione” e “ascesa” significano non uno spostamento nello spazio ma una conversione dello
sguardo intellettuale. L’allegoria comporta anche un’importante conseguenza, il filosofo liberato
doveva tornare a rivolgere lo sguardo verso il basso, verso i saperi e la politica dei prigionieri. Si
trattava di un dovere morale neo riguardi di quei vecchi compagni di prigionia che avevano
consentito la liberazione educativa dei filosofi.

(Per rispondere a questa domanda ho seguito gli appunti, 15 lezioni su Platoneu e c’è una piccola
parte interessante nell’Introduzione a Platone a pagina 104, relativamente al problema
dell’interpretazione delle ombre)

In che modo Platone delinea la Kallipolis


Nella Repubblica, Platone espone il suo progetto etico-politico che ha come scopo quello di
individuare la migliore classe dirigente ed esplicitare quali sono le condizioni per una società giusta
ed una città idealmente perfetta: la Kallipolis. L’analisi per l’attuazione di questo progetto inizia da
una contrattazione delle funzioni principiali all’interno di una città: produzione, difesa, governo. Per
ciascuna di queste funzioni è possibile individuare una condizione di eccellenza: la produzione è
compito dei produttori, la cui virtù è la temperanza, la difesa e il governo sono compito dei custodi,
rispettivamente i guerrieri, la cui virtù è il coraggio, e i governanti la cui virtù è la saggezza. In
questo disegno delle condizioni di eccellenza all’interno di una città, la giustizia si pone come
armonizzazione di tutte le altre virtù. Tutto ciò si riflette in un’analisi psicologica degli individui più
adatti ad inserirsi nelle diverse categorie sociali: questo perché secondo Platone, questa struttura
della polis si riflette in quella che è la struttura psichica di ogni individuo. Platone riconosce
all’interno dell’anima tre pulsioni: il desiderio, la forza e la ragione. In ogni individuo può prevalere
una delle tre diverse pulsioni. Le persone in cui domina la parte concupiscente in una città è bene
che si occupino della produzione delle cose materiali. Le persone che possiedono la forza sono le
persone più adatte a difendere la città. Le persone in cui prevale la parte razionale sono le più adatte
a governare la città. Il problema successivo per Platone è come si realizza da un punto di vista
storico-politico questa società: Platone da’ tre indicazioni sconvolgenti che egli stesso chiama “le
tre ondate”: parificazione dei generi, abolizione della proprietà privata, governo affidato ai filosofi.
Le prime due ondate sono due aspetti dello stesso problema: chi abita la città deve essere
disinteressato rispetto al proprio ambito privato ed essere al servizio della comunità, per questo va
abolito il privato. Questa abolizione della proprietà privata ha come implicazione anche un
ripensamento del ruolo della donna a cui viene riconosciuta la stessa dotazione naturale dell’uomo.
I governanti invece saranno selezionati tra i custodi con le più spiccate doti intellettuali e
conoscitive e verranno educati attraverso la disciplina del corpo, l’educazione musicale, la
matematica e la filosofia. Il problema principale è che un governante così istruito non ha più voglia
di governare, dunque il meccanismo che immagina Platone è un meccanismo di rotazione del
governo in cui il governo è concepito come risarcimento che il filosofo da’ alla propria città per
aver potuto godere di un certo tipo di percorso educativo.

(Appunti e Introduzione a Platone)

Si delinei brevemente la dottrina aristotelica della sostanza


Aristotele riflette sul concetto di sostanza per la prima volta nelle Categorie, che sono le
caratteristiche fondamentali dell’essere. Di tutte le categorie la sostanza è la più importante poiché
tutte le altre la presuppongono. La sostanza-essere non ha un solo significato, ma è il denominatore
comune di molteplici significati per cui ogni cosa può essere detta essere in quanto esprime la
sostanza. Cosa c'è di comune in tutti questi aspetti della sostanza-uomo? che "è" , quindi la sostanza
si identifica con l'essere. Allora se l'essere si identifica con le categorie, che sono divisioni o generi
supremi dell’essere e le categorie poggiano tutte sulla sostanza, allora per rispondere alla domanda
su cosa sia l’essere bisogna rispondere a quella su cosa sia la sostanza. Egli distingue tre tipi di
sostanze: la sostanza sensibile, ma eterna (i corpi celesti); la sostanza sensibile, ma corruttibile (i
corpi del mondo terreno); la sostanza immutabile. Bisogna allora scegliere tra quattro diverse
particolarità di sostanze che sono: il soggetto, il genere, l’universale e l’essenza. Per Aristotele è
appunto l’essenza la sostanza in senso proprio, o specie formale immanente in ogni individuo che
come sostanza è unione indissolubile di materia e forma.

(Allora, di questa non sono per niente sicura... comunque ho preso il tutto da Quindici Lezioni,
capitolo 7. Boh... non so se abbia un senso, Eleonora aiutami tu perché di Aristotele non ci capisco
una mazza)

Si illustri l’enciclopedia del sapere secondo Aristotele


L’enciclopedia del sapere di Aristotele è un’impresa filosofico-scientifica senza precedenti per
ampiezza di sguardo e originalità di contenuti teorici. Il campo dell’essere si divide, secondo
Aristotele, in generi. La prima di queste partizioni è di ordine categoriale e la più rilevante è la
distinzione fra l’ambito categoriale della sostanza è quello della quantità. L’ambito delle sostanze è
a sua volta diviso in generi, ognuno dei quali è dotato di un insieme di principi propri che fungono
da punti di riferimento per la costruzione delle rispettive scienze nella loro autonomia. Aristotele
insiste a più riprese sulla differenza che separa ontologicamente le diverse regioni della realtà e
quindi la forma di concettualità richiesta bei relativi saperi. Ogni genere della realtà presenta una
legalità sua propria. A essa devono corrispondere forme concettuali e metodologie specifiche dei
diversi saperi che compongono l’enciclopedia aristotelica. A dire il vero, non sempre lo stesso
Aristotele si atteneva al divieto epistemologico della trasgressione dei confini di genere. La
trasgressione aristotelica dei limiti di genere aveva lo scopo di colmare le lacune del discorso
scientifico, di integrarle con una valorizzazione suggestiva che esso non si può permettere. Nella
normalità epistemica, l’ordine dei trattati aristotelici corrisponde, a una mappa ben scandita delle
regioni dell’essere. L’articolo azione disciplinare dei suoi corsi filosofici e scientifici corrispondeva
dunque, nella visione di Aristotele, alla stessa struttura del mondo. Ma era del tutto originale la sua
decisione di trasferire questi corsi nella scrittura dei trattati destinati a confluire nel progetto unitario
di un’enciclopedia del sapere. Con questa decisione, Aristotele relegava nell’arcaismo la diffidenza
platonica verso la scrittura ed inaugurava una nuova forma di trasmissione del sapere.

(Questo è preso interamente da quindici lezioni, da pagina 31 a pagina 38. L’unica cosa è che non
ho inserito tutte le divisioni dei saperi che si trovano a pagina 35-36-37)

Si esponga secondo Aristotele la dottrina dell’anima e dell’essere vivente


Secondo Aristotele ogni essere vivente risulta costituito da insiemi organizzati di parti, che
Aristotele distingue secondo due tipi. Dalla combinazione degli elementi naturali in proporzioni e in
misure diverse risultano le parti omogenee, che corrispondono all’incirca ai nostri tessuti, le ossa e
la carne. Le parti non omogenee invece sono quelle corrispondenti agli organi. La presenza in
numero maggiore o minore di queste parti non omogenee determina la maggiore o minore
complessità dell’animale. Bisogna sottolineare però che in biologia, è fondamentale il concetto di
funzione: non sono gli organi a provocare lo sviluppo di certe funzioni, bensì essi esistono negli
animali affinché questi possano compiere le funzioni che sono loro appropriate. Nelle specie viventi
la forma è l’anima, che è quel principio in virtù del quale appartiene ai corpi la vita. Come forma o
atto del corpo l’anima ne è dunque inseparabile: è del tutto estranea ad Aristotele la concezione
platonica che può contrapporre anima e corpo come realtà separabili e tra loro conflittuali; così
come gli è estranea l’idea dell’immortalità dell’anima. Aristotele non ritiene che l’anima sia
divisibile in parti: preferisce parlare di facoltà o funzioni psichiche la cui molteplicità e
differenziazione non intacca l’unità della forma-anima. Le facoltà dell’anima sono secondo
Aristotele essenzialmente tre, quella vegetativa, quella sensitiva e quella intellettiva. Soltanto
nell’uomo, queste tre funzioni si ritrovano tutt’e insieme riunite: c’è infatti, tra le facoltà, un
rapporto gerarchico in forza del quale la presenza della facoltà superiore presuppone sotto di se
l’esistenza di tutte le facoltà inferiori, ma non viceversa. Così se nell’uomo la facoltà intellettiva
presuppone l’esistenza di quella sensitiva e quella vegetativa, negli animali si ritrovano soltanto la
facoltà sensitiva e quella vegetativa, mentre nelle piante esisterà unicamente quest’ultima, alla quale
Aristotele attribuisce le tre funzioni della nutrizione, della crescita e della riproduzione.

(L’esercizio della ragione pagina 157-160)

Che cos’è un sillogismo


Il termine sillogismo deriva dal verbo greco “syllogizesthai” che vuol dire “calcolare”. Dalla
definizione che Aristotele da di sillogismo negli Analitici primi, possiamo ricavare che: il termine
greco “syllogismos” per la sua etimologia trasmette l’idea di raccogliere insieme dei dati per trarne
una conclusione. Questo vuol dire che le premesse del sillogismo devono essere più di una. La
conclusione deve essere diversa dalle premesse e quindi Aristotele esclude argomenti circolari. Ciò
è comprensibile se si considera che Aristotele ha dichiarato di essere interessato non tanto a uno
studio astratto degli argomenti validi quanto, allo studio di argomenti che possano essere usati per
dimostrare qualcosa o renderlo plausibile dialetticamente. Aristotele inoltre descrive il ruolo delle
premesse affermando che la conclusione deve risultare di necessità. Le premesse devono essere
sufficienti a generare la conclusione senza l’aggiunta di altre premesse indipendenti nella quale
vengono usati nuovi termini. La nozione iniziale di sillogismo sarà dunque quella di un argomento
non circolare costituito da almeno due premesse e una conclusione, tali che le premesse siano
congiuntamente sufficienti a generare la conclusione e non siano superflue.

(Quindici lezioni, pagina 68)

Di cosa tratta il De Interpretatione


L’opera del De Interpretatione si apre stabilendo il rapporto che intercorre tra linguaggio, pensiero e
realtà: le parole sono simboli delle affezioni dell’anima, che sono a loro volta immagini delle cose
reali. Le affermazioni e le cose esterne sono le stesse per tutti gli uomini, mentre le parole sono
diverse secondo le diverse lingue: queste sono dunque di origine convenzionale e non sono in sé, né
vere, né false. È ai discorsi, cioè alle proposizioni che compete l’attributo di essere veri o falsi; tali
sono i discorsi che Aristotele chiama apofantici, quelli cioè dichiarativi o enunciativi, quelli che
descrivono uno stato di cose. Ci sono poi discorsi non apofantici come i comandi o le preghiere che
non sono perciò né veri, né falsi, il cui studio secondo Aristotele apparterrebbe alla retorica e alla
poetica. Aristotele passa dunque allo studio delle proposizioni dichiarative distinguendole tra
affermative e negative.

(Esercizio della ragione pagina 140 e 141, non volevo entrare troppo nel dettaglio quindi non so se
va bene come risposta... ditemi voi)

Di cosa si occupano gli analitici


Gli analitici primi e gli analitici secondi vanno visti come un’opera unitaria articolata in due parti, la
prima delle quali propedeutica alla seconda. Negli analitici primi si parla solo del sillogismo dove
viene data la definizione: è un argomento non circolare costituito da almeno due premesse e una
conclusione, tali che le premesse siano congiuntamente sufficienti a generare la conclusione e non
siano superflui. Negli analitici secondi si prende in considerazione il sillogismo scientifico, che è
una vera e propria dimostrazione, perché le sue premesse sono vere, prime e necessarie. Che cosa
garantisce della verità delle premesse? Potrebbe essere il fatto che le premesse siano state ricavate
dalla conclusione di precedenti dimostrazioni sillogistiche, ma questo rinvio non può procedere
all’infinito. Ci sono dunque al fondamento ultimo di ogni scienza delle proposizioni che Aristotele
chiama principi, distinguendo tra quelli comuni ad ogni scienza e quelli propri di ciascuna. I
principi assolutamente comuni a tutte le scienze sono il principio di non-contraddizione, secondo il
quale è impossibile allo stesso tempo e sotto lo stesso rispetto affermare e negare qualcosa di un
medesimo oggetto; vi è poi il principio del terzo escluso, secondo cui di un medesimo oggetto
qualsiasi determinazione si deve affermare o negare.

(Esercizio della ragione pagina 144-145, incontro con Aristotele, capitolo quinto)

Quali sono i principi ultimi della realtà secondo gli Stoici


Gli stoici sono convinti che esistano due principi di tutte le cose, entrambi corporei, uno attivo che è
chiamato Dio o logos e uno passivo, la materia informe e priva di ogni qualità. La necessaria
corporeità di entrambi i principi risulta dall’assunto, che esiste soltanto ciò che può agire o patire e
che tale può essere soltanto ciò che è corporeo. Bisogna poi aggiungere che i due principi non
esistono mai da nessuna parte come entità attualmente o di fatto separate. Tale è il mondo stesso
nella sua totalità: il che implica che, al di là della distinzione concettuale dei due principi, lo
stoicismo sia definibile come una filosofia monistica, in quanto riconduce l’origine di tutte le cose a
un’unica realtà, che è l’inscindibile unione della ragione divina e della materia; e, inoltre, dato che il
principio attivo e divino è onnipresente nella totalità e in qualsiasi porzione della materia, tanto da
poter essere denominato anche “natura” e da essere identificato con questa come la causa che
produce, alimenta e mantiene unite tutte le cose, implica che lo stoicismo sia anche una forma di
panteismo. C’è da aggiungere che gli stoici distinguevano ancora tra il mondo corporeo divino, ma
finito, e l’universo infinito, perché ammettevano la sussistenza del vuoto incorporeo oltre i confini
del mondo.

(L’esercizio della ragione, per rispondere alla domanda ho dato solo una definizione di Dio e
materia, e non ho spiegato come da essi si generano gli enti perché la domanda non lo chiedeva, ma
se volete inserirlo, la risposta è a pagina 228 e 229)

STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA


Si espongano le prove dell’immortalità dell’anima nel Fedone
Socrate inizia ad argomentare la propria tesi dell’immortalità dell’anima proponendo tre prove. La
prima è la prova dei contrari: innanzitutto, Socrate mostra come ogni cosa tragga origine dal proprio
contrario. Dal forte si genera il debole, dal grande il piccolo, dal veloce il lento, e, perché ciò
avvenga, tra i due contrari vi deve essere un processo che permetta di passare dall'uno all'altro (per
esempio: il crescere e il decrescere, il raffreddarsi e il riscaldarsi…). La stessa cosa accade per il
vivere e il morire: dal vivo si genera il morto, e allo stesso modo, con il processo contrario del
rivivere, dal morto si genera il vivo. E se è possibile rivivere, è necessario che le anime non
scompaiano, ma continuino ad esistere anche fuori dal corpo. D'altra parte, se si esclude che dal
morto nasca il vivo, si dovrebbe ammettere che la legge di natura “i contrari si generano dai
contrari” non abbia valore universale, il che è impossibile. Questo argomento viene anche detto
della palingenesi o dell’antapòdosi. La seconda prova dell’immortalità dell’anima è la prova della
reminiscenza che si richiama alla dottrina della reminiscenza socratica, secondo cui ogni nostro
apprendimento è in realtà un ricordo di qualcosa conosciuto in precedenza, prima della nostra
nascita. Ma come può Socrate dimostrarlo? Il filosofo richiama anzitutto l'attenzione su alcune basi
condivise: se qualcuno ricorda qualcosa deve averla vista in precedenza; inoltre il ricordo di una
cosa può smuoverne un altro e tale associazione può avvenire anche di fronte alle semplici
immagini dipinte di tali oggetti. Ora, noi diciamo che queste associazioni sono possibili in base alla
somiglianza o alla dissomiglianza tra gli oggetti: ma il concetto di "simile", ovvero l'uguale in sé, da
dove proviene? Poiché noi infatti lo conosciamo, è necessario che da qualche parte lo abbiamo visto
e conosciuto, e siccome in questa vita abbiamo esperienza di oggetti uguali, ma non dell'uguale in
sé, è necessario che sia successo in una vita precedente. A questo punto, Socrate può ricollegarsi al
precedente argomento dell’antapòdosi, e riaffermare che le anime sono immortali e posseggono
conoscenza. La terza prova è che solo ciò che è composto può decomporsi. Secondo la credenza di
molte persone, l'anima, dopo la morte del corpo, si dissolve nell'aria. Socrate però afferma che solo
ciò che è composto può decomporsi e, dissolvendosi nelle sue parti, morire. L'anima invece è simile
alle idee le quali permangono sempre costanti e invariabili, le uniche che si possano pertanto dire
non composte. Essendo dunque congenere alle idee, e quindi di natura elementare e invisibile,
l'anima non può modificarsi né tanto meno perire. Dimostrazione di questa superiorità dell'anima
sul corpo è anche il fatto che è la prima a governare sul secondo, e non viceversa. Dopo queste tre
dimostrazioni Socrate passa a descrivere il destino che le anime avranno dopo la morte. Lasciato il
corpo, l'anima buona, cioè quella di chi ha praticato la filosofia e si è astenuto dalla stoltezza del
corpo, di natura invisibile, va verso un luogo altrettanto invisibile; le anime di quanti, invece, si
sono dedicati solo a ciò che è corporeo, risulteranno appesantite da tutte le impurità accolte e
potranno solo vagare come fantasmi per tombe e sepolcri..

(Appunti, 15 lezioni e introduzione a Platone)

Qual è il contenuto e il significato del primo discorso di Socrate sull’amore nel Fedro
Fedro che ha appena assistito ad un discorso di Lisia sull’amore, invita Socrate a provare a
comporre un discorso altrettanto bello. Socrate cede all'insistenza di Fedro e propone un suo
discorso che dimostra la stessa tesi di Lisia, facendo a gara di abilità tecnica con lui. Ma lo
pronuncia col capo coperto, come se ne provasse vergogna. Il discorso comincia esponendo uno dei
principi fondamentali della dialettica socratico-platonica: per evitare l'uso equivoco delle parole
tipico della retorica e della poesia, il primo passo del procedimento dialettico consiste nel
concordare una definizione esauriente e coerente dell'oggetto di cui si discute. Occorre pertanto
individuare la sua essenza, cioè il complesso di proprietà tipiche che identificano univocamente che
cos’è ciò di cui si sta parlando. Se non compiamo questo passo, non riusciremmo a parlare in modo
coerente dell'oggetto in questione e incorreremo in equivoci con gli altri, cioè non saremo d'accordo
neanche con loro. L'ambiguità delle parole può essere sfruttata a proprio vantaggio da chi comunica
a fini retorici; ma per chi va in cerca della verità, come sappiamo dalla lettera settima, è un limite e
un problema. L’eros è un desiderio che ha come oggetto il bello. Anche chi non ama, però, desidera
cose belle. Occorre dunque rendere più specifica la definizione. Si usa il metodo platonico della
dicotomia, cominciando da un genere molto ampio, e suddividendolo in due parti. Si compie,
eventualmente, la medesima operazione con ciascuno dei due termini ottenuti e si procede così
finché non si ottiene una definizione che identifichi precisamente l'oggetto di indagine. C'è in
ciascuno una coppia di principi che lo guidano e lo governano: il desiderio innato di piaceri e la
doxa acquisita che aspira all'ottimo. Questi principi possono essere reciprocamente in armonia
oppure in conflitto. Quando l'opinione conduce all'ottimo tramite la ragione e domina, il suo
dominio ha il nome di sophrosune (non so se sia corretta la trascrizione dal greco). Ma quando il
desiderio ci trascina irrazionalmente verso i piaceri e governa in noi, il suo governo viene
denominato “tracotanza”. Una persona può essere tiranneggiata o comandata da desideri diversi,
con diversi oggetti. Si ha Eros quando va al potere un desiderio irrazionale per il piacere della
bellezza, assieme con altri desideri affini per la bellezza del corpo. Ma se l'innamorato è dominato
dal desiderio e schiavo del piacere, non sarà vantaggioso avere relazioni con lui, perché non farà
l'interesse dell'amato, bensì sarà condotto esclusivamente a soddisfare la passione che lo trascina.

(Appunti, non ho letto tutti i libri sorry ahahah non trovavo la spiegazione del discorso, quindi sono
anche andata a farmi un giretto su Google e non sono molto sicura di questa risposta)

Si esponga la prova a sostegno dell’immortalità dell’anima nel Fedro


La prova dell’immortalità dell’anima contenuta nel Fedro è quella che viene considerata dagli
studiosi come la più rigorosa e profonda tra le dimostrazioni della natura immortale dell’anima
fornite da Platone. L’argomento presenta un andamento quasi sillogistico, con due premesse ed una
conclusione: a) ciò che muove se stesso è immortale; b) l’anima è ciò che muove se stesso; c)
l’anima è immortale. Platone ricava l’immortalità dell’anima dalla tesi che stabilisce che
l’automovimento, che è principio delle altre cose e per se stesso, è ingenerato e indistruttibile e
dunque eterno. Stabilito che questo principio del movimento è eterno, Platone identifica questo
principio con l’anima, facendo propria una convinzione largamente diffusa nella riflessione fisico-
cosmologica dei greci (gli esseri dotati in qualche modo di anima hanno in se stessi il principio del
movimento, ossia della generazione, della crescita e della traslazione locale).

(Premetto che gli appunti del Fedro non li ho ancora visti, per rispondere alla domanda ho preso le
parti di Introduzione a Platone a pagina 98 e 99. È molto ripetitivo quindi ditemi voi, ripeto devo
ancora leggere gli appunti)

Cosa si intende per palinodia nel Fedro


Fedro racconta a Socrate di aver appena ascoltato un discorso che l’oratore Lisia ha composto
sull’amore. Socrate, a capo coperto, compone quindi un suo discorso su Eros, assumendo lo stesso
punto di Lisia, afferma però che è un discorso a cui lui non crede in quanto non mostra la vera
essenza di Eros e lo compone solo per dimostrare a Fedro che è in grado di superare Lisia in quanto
ad arte retorica. Finito il discorso, Socrate decide di comporre una palinodia, ossia un nuovo canto
in onore di Eros, che ne sviluppi ed esponga la vera essenza. Socrate segnala la ragione teorica per
cui l’attrazione erotica, ossia il desiderio della bellezza corporea, è investita di un ruolo
fondamentale nel movimento di trascendimento della sfera sensibile in direzione del dominio
intelligibile. In effetti la bellezza è l’unica idea che vanta un’immediata manifestatività empirica. Le
istanze sensibili della bellezza sono immediatamente oggetto di attrazione erotica e possono
innescare quel processo anamnestico che coinvolge l’anima quando si ricorda di ciò che ha
contemplato prima di scendere in un corpo. Questo processo va compreso alla luce del fatto che nel
Fedro si presuppone il viaggio che le anime compiono prima di incarnarsi: esse giungono al limite
estremo del cosmo e arrivano a scorgere ciò che si trova al di sopra del cielo, ossia il mondo delle
idee. Una volta incarnatesi e discese nel mondo sensibile, la percezione di un corpo bello, istanza
sensibile della bellezza in se, risveglia in esse il ricordo di quella visione e stimola il processo
anamnestico culminante nel trascendimento della sfera sensibile.

(Parte iniziale presa da Wikipedia ahahaha, ma solo perché non sapevo cosa fosse la palinodia e poi
Introduzione a Platone a pagina 160-161 spiega il discorso del Fedro)

Come è concepito il rapporto anima-corpo nel Fedone


Idee e fenomeni spazio-temporali appartengono a due ordini ontologici differenti, connessi tra loro
da una relazione complessa e difficile da descrivere. Gli uomini fanno parte del mondo fenomenico
e di conseguenza la conoscenza che possono acquisire delle idee risulta ardua e sottoposta a
determinati vincoli. Secondo Platone, l’uomo, pur appartenendo all’universo sensibile, è in possesso
di una componente, la parte razionale della sua anima, la quale, se correttamente valorizzata, gli
consente di pervenire a una conoscenza piena e perfetta dell’essere, ossia del mondo delle idee.
Accenni a questa celebre concezione si trovano nel Menone, nel Fedro e nel Fedone, ma è
soprattutto in quest’ultimo dialogo che Platone presenta la sua posizione in maniera più ampia e
articolata. Nel Fedone, dopo aver esposto la prova dell’immortalità dell’anima, Socrate cerca di
stabilire una connessione tra l’ammissione dell’immortalità dell’anima e la concezione della
reminiscenza. La conoscenza che l’anima ha delle idee viene smarrita con l’incarnazione. Essa può
essere attivata per mezzo della reminiscenza, la quale presuppone la preesistenza dell’anima
all’incorporamento.
(Questo è preso di pari passo da Introduzione a Platone da pagina 93 a pagina 99. Boh ditemi voi
cosa ne pensate di questa perchè non saprei come altro descrivere il rapporto tra anima e corpo nel
Fedone... nel senso, bisogna parlare semplicemente del fatto che l’anima di incarna, o no?)

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