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STORIA CRITICA DELLA PSICOTERAPIA

CAPITOLO 1. LE CURE DEL MENTALE DALL'ANTICHITÀ ALL’EPOCA MODERNA


LA STORIA E LE STORIE DELLA PSICOTERAPIA

La psicoterapia non è considerata una disciplina a sé stante, ma un approfondimento di altre


discipline quali psicologia, psichiatria e psicoanalisi queste ultime sono definite scienze
normali, caratterizzate da specifici paradigmi (Thomas Kuhn).

La storia delle scienze “psi” si richiama a una periodizzazione fatta di rotture e ricomposizioni
cambiamenti e innovazioni come qualsiasi altra scienza naturale.

Molti testi seguono canoni condizionati dalla storiografia statunitense narrazioni interne ai
domini della psichiatria o della psicologia trascurando le storie dei pazienti dei fallimenti e dei
contesti interdisciplinari. Solo negli ultimi anni si è iniziato a descrivere le discipline scientifiche
come un processo di co-costruzione che comprende le espressioni culturali che le hanno
condizionate, tenendo conto quindi del contesto sociale e politico in cui si trovano gli attori.

Nel caso della psicoterapia, gli attori sono psicologi, neurologi, psichiatri, ma anche pazienti, idee
ed istituzioni. In passato ci sono stati alcuni tentativi di ricostruire la storia delle scienze “psi” in
termini complessi il più delle volte rimarcando i punti oscuri delle relazioni tra terapeuta e
paziente.

Anche la psicoterapia si è declinata in modi differenti nelle diverse culture e a utilizzato diverse
prospettive epistemologiche. nei vari luoghi di produzione del sapere, per un processo di
indigenizzazione e ibridazione si produssero conoscenze locali che produssero cambiamenti di
rilievo.

Negli ultimissimi anni la categoria della guerra fredda è diventata centrale per caratterizzare
l'impetuoso sviluppo della psicoterapia del XX secolo. Si assiste da un lato all'utilizzazione di
interpretazioni foucatiane dall'altro alla focalizzazione sui temi della microstoria.

Anche quest’impostazione ermeneutica non può tenere conto dei diversi livelli disciplinari
che si intrecciano nella storia della psicoterapia e rischia di non riuscire a rappresentare i
grandi temi che la caratterizzano.

Questa storiografia ha portato alla frammentazione della storia della psicoterapia e ad


evidenziare soprattutto gli aspetti negativi, come ad esempio l’idea che si trattasse di una
tecnica al servizio dei conflitti politico-culturali durante la Guerra fredda. Infatti, recentemente
c’è la convinzione che la psicoterapia sia un fenomeno occidentale e anglosassone, negando
l’importanza di culture diverse, come quelle dei paesi latini.

Poiché per tracciare una storia della psicoterapia è utile comprendere come le teorie e le
tecniche tradizionali si siano ibridate nei differenti contesti culturali e soprattutto nei paesi
industrializzati, bisogna fare riferimento alla transdisciplinarità. Ci troviamo di fronte alla
soluzione di problemi relativi alla psicopatologia mediante tecniche che non fanno riferimento a
una singola disciplina ma che sono meta-paradigmatiche.

Anche il rapporto tra filosofia e psicoterapia è significativo: si può arrivare a definire le psicoterapie
contemporanee come delle ontologie finalizzate a modificare la natura dei pazienti.

Quindi questo volume ha il compito di mostrare come la psicoterapia, soprattutto nel XX secolo, sia
stata un terreno di sviluppo di tecniche più o meno formalizzate, quasi sempre filiate alla psicoanalisi,
la cui storia è intrecciata con quella della filosofia, medicina e psicologia.

UN PATCHWORK TERAPEUTICO

Alexandre Koyré ha introdotto nella storia del sapere scientifico le categorie del pressappoco e della
precisione; la scienza passerebbe attraverso epoche che portano acquisizioni di una maggiore
precisione dei concetti, delle misure, delle metodologie e delle tecniche. Le nozioni vennero definite
con un nome per poi essere ricontestualizzata, alcune volte con differenti termini, alcune volte in modo
strettamente interconnesso oppure del tutto scollegato.

Il termine psicoterapia ha una genesi non precisata; nel 1853 Walter Cooper Dendy ha usato il
termine psychotherapeia nel suo pamphlet mentre Daniel Hack Tuke utilizzo il termine psyco-
therapeutics il suo trattato di psicosomatica; entrambi i medici utilizzarono il termine in un
contesto fortemente medicalizzato e psichiatrico.
Fu poi Hyppolyte Bernheim nel 1891 nel suo Hypnotisme, suggestion, psychotherapie a usare il
termine con un’accezione relativa a un intervento psicologico che si automatizzata da quello
medico e ipnotico.

La mitologia greco romana ha rappresentato un universo narrativo da cui attingere modelli


prototipi del comportamento normale e patologico. Per comprendere appieno le origini della
psicoterapia, potrebbe essere necessario risalire al momento in cui l’essere umano sviluppò la
consapevolezza del problema della sofferenza mentale e tentò di comprenderne l’origine e di
curarla, o almeno alleviarla.

Partiamo dall’espressione “sofferenza psichica” e consideriamola come imprecisa; poiché


l’aggettivo “psichico” è definito come un falso concetto, un mito, un’illusione. La storia del
significato di psiche/psichico è ancora più complessa e articolata, così come quella dei termini
mente, spirito, anima.

"Follia" definisce una modalità di sofferenza o di una malattia del tutto invalidante per chi ne
soffre, ai fini di una vita personale e relazionale adeguate. La storia della cura e della follia
coincide con la storia della psichiatria: si identifica con le modalità di trattamento riconducibili a
un approccio di tipo medicalistico. La follia non è sempre stata pensata come pura modalità di
sofferenza psichica, dato che in diverse culture arcaiche il folle è stato considerato persona dotata
dagli dei di facoltà particolari.

Il territorio della psicoterapia prende in considerazione anche modalità di disagio psicologico più
blande e in alcuni casi si spinge a perfezionare un vissuto già soddisfacente che però ritiene di
dover migliorare. Un simile atteggiamento è legato alle diverse accezioni della normalità.  Non si
può considerare una normalità assoluta, in quanto è impossibile valutare una condizione come
normale, prescindendo dalle condizioni sociali e storiche nelle quali una persona può essere
valutata.

A partire da quando la sofferenza psichica è stata percepita come problema, si sono affacciati sulla
scena della storia anche diverse categorie di attori:

1. Tecnici deputati a curare i sofferenti;


2. Giuristi dediti a proteggere i sofferenti e a limitare le loro azioni;
3. Artisti volti a descrivere drammaticamente la condotta dei sofferenti;
4. Filosofi interessati a comprendere la natura della sofferenza.

I tecnici hanno assunto nel corso del tempo identità differenti, a seconda dell'approccio prevalente
di fronte alla sofferenza psichica. Originariamente la distinzione tra sofferenza psichica e fisica
era molto vaga. Interventi di tipo "educativo "e "psicoeducativo" sono parte delle tecniche
applicate dalla psicoterapia contemporanea.
LA PREISTORIA DELLA PSICOTERAPIA
Le interpretazioni “primitive” della malattia in quanto tale sono riconducibili a tre gruppi:

1. Perdita dell’anima o sua fuga dal corpo sofferente;


2. Penetrazione magica di un oggetto all’interno del suo corpo;
3. Possessione dell’essere umano da parte di spiriti malvagi.
Le più antiche modalità di cura consistevano in rituali magico-religiosi volti a liberare il
sofferente dall’entità responsabile della sua condizione. In epoche primitive nessun ammalato
veniva curato, quanto piuttosto lasciato al suo destino; l'uso di qualche rituale magico venne
introdotto con il passaggio dalla cultura dei cacciatori-raccoglitori a quella più stanziale dei
coltivatori.

I babilonesi cercavano di identificare i demoni possessori attraverso un metodo di oracolari e


astrologici e pregavano differenti divinità per liberare l'ammalato. La distinzione tra sofferenza
psichica e fisica doveva essere molto approssimativa: anche se a Babilonia è attestata la
presenza dei primi medici laici (Azu), che utilizzavano sia medicinali primitivi quanto pratiche
di tipo magico.

La sofferenza umana causata da entità sovrannaturali era interpretata talora come priva di colpa
da parte del sofferente, talaltra come una possibile violazione di norme condivise. Papiri
egiziani risalenti al 1550 a.C. testimoniano una distinzione tra malattie curabili con mezzi fisici
e condizioni patologiche di fonte magico-spirituale. Queste stesse fonti descrivono per la prima
volta il cervello come sede delle funzioni mentali.

Oltre a descrivere i quadri psicopatologici, gli Ebrei applicavano il suggerimento di lasciar


parlare liberamente l'ammalato dei propri disagi e quello di proporre la distrazione e il
cambiamento di abitudini come sollievo per la sofferenza psichica. Salute e malattia erano
considerate premi o punizioni impartiti da Dio. Se la sofferenza psichica e fisica era
considerata di origine demoniaca; sempre a Dio competeva la liberazione dal demone. 

Il Talmud introdusse una minore credenza nell’origine soprannaturale delle malattie fisiche,
tanto che nella Gerusalemme del 490 a.C. è attestata la presenza di un’istituzione para-
ospedaliera dedicata ai soli sofferenti psichici.

LA GRECIA ARCAICA E CLASSICA

L'influenza del pensiero greco antico sulla storia della psicoterapia è vasta e profonda. A partire
dall'etimologia della parola psicoterapia che deriva da psychē e therapeía. Rispettivamente "
anima "e "cura". La therapeía veniva inizialmente Intesa all'origine come " cura del corpo "e la
psychē greca veniva descritta rispetto alle modalità di “psiche” o “mente”

Nella grecità arcaica «l'unica funzione della psychē, rispetto ai viventi, e quella di
abbandonarli». Nei poemi omerici « Il “pensare” si riferisce come un parlare, la cui sede è
individuata nel cuore, ma più spesso nel phrēn […]; mentre la riflessione interiore è per l'uomo
conservazione dell'io con il thymós […]». In Omero vi sono esempi dell'uso terapeutico della
parola: il potere di calmare l'ammalato con discorsi tranquillizzanti.

Solo la nascita della filosofia iniziò ad attirare progressivamente la riflessione sulla natura
dell’uomo. Una traduzione di pensiero, che alcuni identificano con l'orfismo, iniziò a
identificare l'esistenza di un’anima indipendente dal corpo e che dal corpo può staccarsi
durante la vita. Alcuni filosofi come Empedocle e Pitagora erano portatori dell'idea che l'anima
preesistesse al corpo e gli sopravvivesse.  Fu Socrate ad articolare chiaramente questa dottrina.

Un'altra linea di pensiero riconducibile a Aristotele. nella concezione aristotelica, l'essere


umano è un sinolo, un composto-sintesi, del quale il corpo costituisce la materia e l’anima
costituisce la forma. Non è quindi possibile che l'anima si separi dal corpo e gli sopravviva.

Con una visione della psiche come quella presocratica, il disturbo mentale «consisteva solo in
un comportamento oltremodo strano. […]». Con il passare del tempo la possibilità di alterare
la condotta umana divenne compito di un demone. Il daimon iniziò ad assumere nel tempo
lineamenti diversi e poté essere identificato con il male in sé anche per altri popoli antichi; con
il destino o con la fortuna e infine diventare «una sorta di elevata guida spirituale […]».

Socrate parlava del suo demone come un’entità che lo spingeva verso il bene e la giustizia.
Nel Timeo platonico invece il demone è identificato come l’elemento umano che rappresenta la
pura razionalità.

Al pensiero filosofico greco possono essere ricondotte riflessioni legate all' identificazione
alla classificazione e alla prevenzione dei problemi psicologici e alla cura della psiche.

Non c’è dubbio che a Socrate e Platone possa essere attribuito un ruolo importante nella storia
delle radici della psicologia e psicoterapia, a partire dal fatto che fu proprio Socrate ad
identificare per la prima volta la necessità di una “terapia della psiche”. Questa “terapia della
psiche” consiste in “discorsi belli, dai quali cresce nelle anime la salvezza”.

Nei Dialoghi l’essere umano è descritto come caratterizzato da una condizione di ignoranza
profonda, senza esserne cosciente. Nell'apologia di Socrate l'ignoranza era esplicitamente
definita come una delle due forme della follia; l'altra essendo la pazzia vera e propria.

Platone descrisse Socrate intento a rivelare ai suoi concittadini ateniesi la necessità di


cambiare le loro convinzioni esistenziali basandosi su due tecniche “terapeutiche”: l’ironia,
con cui era possibile mettere in dubbio i pregiudizi, e la maieutica, la quale consentiva di
aiutare le persone a prendere coscienza di ciò che inconsapevolmente già sapevano.
Al fine di prevenire le condizioni psicopatologiche, nella Repubblica Platone auspicava una
società in cui nessuno conoscesse il nome dei propri genitori, e tutti i ragazzi venissero educati
sulla base della parità.

Nell'Apologia Platone distingueva una divina pazzia cioè un dono che appartiene agli
indovini, e una pazzia volgare, cioè il risultato di una malattia. Nella Repubblica, la
concezione dell'anima veniva descritta all'interno del mito dell'auriga del sole che
conduceva un cocchio trainato da due cavalli alati, uno dei quali tendeva volare verso
l’alto (cioè l’anima razionale) e l’altro verso il basso (cioè l’anima irrazionale).

La psicopatologia poteva essere ricondotta all’anima razionale, se la sua azione era troppo
potente per il corpo; oppure all’anima irrazionale, il cui legame con il corpo la rendeva
suscettibile all’alterazione degli umori del corpo stesso. Nel Timeo vi è la possibilità di
influenza negativa degli umori corporei; Platone suddivide l'anima in tre parti (razionale,
irascibile e concupiscibile), localizzandone la presenza in tre parti del corpo (cervello, cuore e
fegato).

La teoria degli umori nasce nell'Antico Egitto. sviluppatasi presumibilmente sulla base di
osservazioni superficiali compiute sui fluidi corporei, era stata rinforzata dalla speculazione
presocratica sugli “opposti". Alcmeone di Crotone riteneva che la salute fosse il frutto
dell'isonomia degli opposti e la malattia della monarchia uno di uno di essi. La teoria degli
umori assunse un assetto grazie a Ippocrate. 

Ippocrate nasce nell’isola di Kos nel 460 a.C., fu allievo di Erodico di Selimbria (Alcmeone) e
di Democrito, fondatore della teoria atomica (cioè dell’idea che il cosmo fosse costituito da
particelle materiali invisibili, dette atomi ).

Il Corpus Hippocratium viene considerato l’atto fondativo della medicina scientifica. La


terapia non era più basata su tentativi empirici slegati da una concezione unitaria e neanche su
rituali magico-religiosi: al centro della visione ippocratica intorno alla salute della malattia era
la teoria degli umori. Nel corpo umano erano presenti 4 umori: sangue, flegma, bile gialla
e bile nera.

La salute derivava dal giusto equilibrio della quantità degli umori e dall’equilibrio delle
qualità che li accompagnavano (caldo, freddo, secco, umido). Ogni essere umano si
distingueva per la prevalenza di uno dei quattro umori, che andava a formare il relativo
temperamento. La teoria dei quattro temperamenti distingueva rispettivamente il carattere
sanguigno, il flemmatico, il bilioso e il melanconico.

La teoria umorale presupponeva che le malattie si manifestassero soprattutto nell’


affezione di singole parti del corpo. Ippocrate riteneva che le malattie mentali dipendessero
dalla modalità con cui il cervello poteva essere condizionato dagli umori. Essendo il
cervello l’unica fonte dei piaceri e delle gioie come dei dispiaceri e dei dolori, l’eccesso di
calore o di freddo, di secchezza o di umidità nello stesso organo determinava alterazioni del
comportamento normale come l’insonnia, la distrazione, gli stati ansiosi.

Nella visione ippocratica non solo le malattie del corpo ma anche la sofferenza di natura
psicologica avevano un’origine fisica: venivano curate con mezzi fisici. La melanconia doveva
essere curata con l’espulsione di tale sostanza dal corpo.

LA FILOSOFIA COME PRATICA ESISTENZIALE:


CINISMO, STOICISMO, EPICUREISMO

Il filosofo, a partire da Socrate, tendeva a presentarsi sempre più anche come maestro di vita e
terapeuta dell'anima. Platone, nel Fedone, descrisse la filosofia come l’unica attività che poteva
consentire la migliore vita possibile, cioè la liberazione dell’anima dal corpo. L’Etica
Nicomachea suggeriva che la vita ideale potesse essere perseguita solo grazie alla pratica della
conoscenza e della virtù.

«Il benessere, secondo Aristotele, deve essere attività, conforme alla virtù, della parte migliore
di noi, cioè della ragione». Nelle opere di Aristotele si riscontra, oltre alla filosofia, un altro
ambito in cui la parola può avere effetti terapeutici sull’uomo, cioè il teatro, ed in particolare
la tragedia. L’effetto di purificazione o catarsi è stato spesso inteso come purificazione dagli
umori in eccesso nel senso ippocratico.

Tre scuole filosofiche greche possono essere considerate come specificatamente rivolte alla
cura della condizione esistenziale umana, attraverso l'adozione di uno specifico stile di vita. Si
tratta del cinismo, dello stoicismo, dell'epicureismo.

Il Cinismo nacque dall’insegnamento di Antistene, discepolo di Socrate, che ebbe un certo


seguito sia nella Grecia classica ed ellenistica, sia nella Roma repubblicana. L’esponente più
noto fu Diogene di Sinope. I Cinici avevano come obiettivo la felicità umana, proponendo
come mezzi per raggiungerla l’ascesi corporale, praticata attraverso esercizi di astinenza e di
esposizione a privazioni estreme, che avevano come scopo quello di mettere l’individuo in
condizione di sopportare senza sforzo un’esistenza grama.

La felicità sarebbe stata raggiunta attraverso il disprezzo del piacere. L’opera di Antistene
ebbe una profonda influenza sullo Stoicismo: quest’ultimo aveva in comune con il Cinismo
l’esaltazione della capacità di sopportare le avversità della vita. Nato ad Atene nel IV secolo
a.C., lo stoicismo ebbe un notevole seguito nella Grecia ellenistica e a Roma.

l’etica costituiva il principale oggetto di interesse della filosofia stoica, e il suo scopo
consisteva nella migliore vita possibile, ottenibile curando il disagio psichico dovuto alle
preoccupazioni sbagliate.

Gli Stoici antichi distinguevano le cose in “beni” (sono quelli morali, cioè le virtù), “mali”
(solo quelli morali, cioè i vizi) e “indifferenti” (beni fuori dalla sfera morali, sono “né beni-
né mali”, cioè vita e morte, salute e malattia ecc.).

Epitteto radicalizzò questa suddivisione, distinguendo due classi di cose, cioè quelle
dipendenti integralmente dalla nostra attività (desideri, preferenze, opinioni) e quelle
indipendenti da essa (salute, patrimonio, reputazione). Scrive Epitteto nel manuale che non
sono le cose di per sé a condurre gli esseri umani e a preoccuparsi ma i giudizi di esse . Lo
scopo da perseguire sarebbe la capacità di operare giudizi corretti sul mondo.

Anche Epicuro fondò ad Atene la scuola filosofica da cui si diffuse il suo insegnamento, il
Giardino. I membri della scuola di Epicuro vivevano insieme, filosofavano insieme, erano
uniti da vincoli di amicizia e solidarietà. La scuola epicurea presenta delle analogie con le
comunità religiose o esoteriche.

La filosofia di Epicuro era indirizzata a porre l’uomo nella condizione di vivere serenamente,
di affrancarlo dalle preoccupazioni e di conquistargli la sicurezza. Secondo Epicuro “nessun
piacere è di per sé un male”, ma aggiunge anche che “i mezzi che procurano certi piaceri
portano molto più turbamenti che gioie”. Il pilastro di una vita felice era costituito dal
tétraphàrmakon (quadruplice rimedio), cioè dalle conoscenze relative a:

1. La natura degli dei;


2. La morte;
3. Il piacere;
4. Il dolore.

Il bilancio tra piacere e dolore pendeva verso il primo qualora l’essere umano imparasse a
distinguere la natura dei desideri. Alcuni desideri sono naturali e necessari (ad esempio il
desiderio di bere per calmare la sete), altri sono naturali ma non necessari (ad esempio
mangiare cibi ricercati, piuttosto che qualcosa volto semplicemente a calmare la fame), altri
ancora né naturali né necessari, che si indirizzavano a obiettivi del tutto vani.

Il saggio si doveva orientare sui desideri naturali e necessari, non disprezzando quelli
naturali e non necessari, rifuggendo del tutto quelli non naturali e non necessari. La ricerca
dei desideri naturali si rifletteva in una concezione del piacere, per ottenere il quale
bastasse l'assenza del dolore.

IL SOGNO IN GRECIA

Esistono tre modalità fondamentali della considerazione pre-scientifica del mondo onirico. Il
sogno venne considerato:
1. Una realtà in qualche misura “oggettiva”;
2. Qualcosa che l’anima vedeva staccandosi dal corpo;
3. Qualcosa dotato di contenuto simbolico, soggetto a possibile interpretazione.

Ognuna di queste concezioni si poté sviluppare prima dell'avvento della civiltà greca; l'idea di
un possibile simbolismo era presente anche nell'antico testamento. Già dai poemi omerici è
possibile dedurre una distinzione tra diversi tipi di esperienza onirica:
● sogni in cui il sognatore riceveva la visita di un personaggio e assisteva passivamente;

● sogni che esprimevano preoccupazioni (incubi);

● sogni che esprimevano la realizzazione di un desiderio;

ma anche una distinzione tra sogni interpretabili, poiché dotati di significato, e sogni non
interpretabili. L'iliade e l'odissea testimoniavano l'esistenza dei professionisti specializzati
nell'interpretazione del significato dei sogni.

Nel corpus ippocrateo l'autore rivendicava all'arte medica e il ruolo di interpretare i sogni che
potevano offrire indicazioni sulla salute del sognatore, riconoscendo però l'esistenza di sogni in
grado di prevedere il futuro e la legittimità del ruolo dei rispettivi interpreti,

Sia Platone sia Aristotele si occuparono del significato dei sogni. Infatti all'inizio del IX libro
della Repubblica si attribuivano alla mancanza di moderazione, soprattutto nel cibo e nelle
bevande, i sogni che descrivono comportamenti estremi, quali sesso con la propria madre. Nel
Teeteto, Socrate discute con il personaggio che dà nome al dialogo la possibilità che la veglia
coincida col sonno e viceversa.

Aristotele compose due trattati, Sui sogni e Sulla divinazione nel sonno. Aristotele si
preoccupava di negare che gli dei potessero inviare messaggi agli esseri umani attraverso i
sogni. Alcuni sogni erano veridici anche secondo Aristotele. Talvolta avrebbero fornito notizie
sullo stato di salute del sognatore; talvolta avrebbero elaborato soluzioni a problemi del
sognatore, ed infine avrebbero potuto risultare veri per coincidenza.

La prima opera dell’antichità occidentale dedicata integralmente ai sogni, è costituita dagli


Oneirokriticà di Artemidoro di Daldi. L’interpretazione dei sogni si poneva, dal punto di vista
di Artemidoro, come una tecnica di previsione del futuro. Artemidoro distingueva il sogno vero
e proprio dall’enypnion, che consisterebbe nella realizzazione allucinatoria di un desiderio.
Tra i sogni veri e propri Artemidoro distingueva quelli:
● teorematici, la cui previsione si sarebbe realizzata a breve termine;

● Allegorici che avrebbero previsto eventi di più lontana realizzazione .

È molto somigliante la teoria del simbolismo onirico di Artemidoro e quella di Freud. Un


contemporaneo di Artemidoro fu Elio Aristide che scrisse i discorsi sacri una vera e propria
testimonianza dell'uso dei sogni dell'epoca quello dell’incubazione. Elio Aristide apprese questa
pratica a Pergamo in un grande complesso religioso dedicato al culto di Asclepio.

Qui i sacerdoti inducevano gli ammalati a passare la notte all’interno del tempio per sognare.
Il sogno frutto di questa notte veniva interpretato come indicazione del dio sulla terapia
necessaria alla guarigione.
MEDICINA, FILOSOFIA E SALUTE MENTALE
IN EPOCA ELLENISTICA E ROMANA

Dopo la conquista Macedonia della Grecia il centro della cultura ellenica divenne la città di
Alessandria. Il periodo che va dalla Fondazione di Alessandria alla conquista romana del
Mediterraneo e noto come età alessandrina o ellenistica. Durante questo periodo la filosofia
vide lo sviluppo della scuola scettica stoica ed epicurea, mentre la medicina venne dominata
dall'influenza della cultura Ippocratica.

Al figlio di Ippocrate viene ascritta la nascita di una scuola dogmatica in medicina, cosiddetta
perché i suoi adepti erano convinti che, avendo ormai Ippocrate scoperto l'essenziale in ambito
medico, ulteriori ricerche fossero superflue. La nascita di una scuola empirica originò una
forte reazione verso l'atteggiamento della scuola dogmatica che era prevalente. Gli empiristi
rifiutavano di assoggettarsi interamente all'autorità della cultura medica preesistente, alla quale
contrapponevano la necessità per il medico di esperire in prima persona ogni aspetto della
propria pratica.

Nell'ambiente romano il massimo successo tocco inizialmente alla scuola metodica il cui
capostipite è riconosciuto in Asclepiade di Bitinia. Asclepiade si oppose alla concezione
ippocratica degli umori con una teoria fondata sulla solidità del corpo umano. la scuola
dogmatica aveva prescritto ai pazienti terapie spiacevoli, basate sulla purificazione e sui regimi
dietetici ristretti.

Asclepiade basava la cura sull'idea di restituire agli atomi la loro motilità attraverso mezzi
meccanici (massaggi, camminate). Particolarmente significativa è l'idea della necessità di un
miglioramento del morale del paziente che veniva ottenuto attraverso prescrizioni piacevoli da
osservare. Per Asclepiade i problemi andavano risolti in modo rapido e senza pesare
sull’ammalato. Asclepiade propose una classificazione delle malattie che dovevano essere
considerate mentali. Asclepiade escludeva che i malati di mente potessero essere tenuti
all'oscurità.

Nella scuola metodica si collocava anche Sorano di Efeso; il primo apprendere in


considerazione i fattori culturali nella cura delle malattie mentali, proponendo prescrizioni su
cosa si dovesse dire ed eventualmente leggere ai pazienti. Malgrado la convinzione che le
malattie mentali avessero origine organica, Sorano prescriveva trattamenti con mezzi
psicologici, minimizzava l'utilizzo di farmaci e sottolineava l'importanza della relazione
paziente - terapeuta.

Ultimo rappresentante di rilievo della scuola metodica fu Celio aureliano, che distinse le cause
fisiche e le cause psicologiche della malattia mentale, e l’idea che la diagnosi di tutti i tipi di
malattia dovesse essere condotta tenendo in considerazione tutti i sintomi.

La scuola eclettica in campo medico ebbe come primo rappresentante Cornelio Celso. Celso
dedico una sezione del De Medicina all’insania, cioè alla follia, considerandola una malattia
fisica, riconducibile alle febbri, durante le quali in cui si osservavano stati deliranti
transitori. A proposito dell'illuminazione delle stanze dei malati di mente Celso riportava
tanto l'opinione di Asclepiade quanto quella tradizionale. Per alcuni casi sembrava a
Celsio migliore l'idea di sorano di risvegliare gli interessi del malato leggendogli un
libro; per altri venivano proposte misure restrittive, fino a suggerire di legare gli
ammalati di mente se particolarmente agitati. Il malato poteva non solo essere legato ma
anche sottoposto a digiuno o a pestaggi.

Esponente della scuola eclettica f u anche Galeno, considerato come la principale autorità
nel campo della medicina. Altrettanto durevole fu la sua influenza sul pensiero
psicopatologico, che attraverso Galeno per secoli si limitò per larga parte a rielaborare
la dottrina di Ippocrate dei quattro temperamenti/umori. Galeno fu in grado di costruire
una medicina sistematica, sintetizzando il sapere medico a partire dal recupero dalla
tradizione Ippocratica.

Egli, come Celso, inscriveva la medicina in un progetto culturale più ampio. Galeno
soggiornò lungamente e a più riprese a Roma dove ottenne un successo talmente eclatante da
farlo abbandonare la sua attività pratica. dalle opere di Galeno, in particolare dalle opere
cosiddette “morali” si ricavava una totale sfiducia nei confronti della filosofia slegata sia dalla
logica sia dai fatti. Di contro a tale filosofia egli poteva esaltare la medicina, in grado di offrire
un orientamento fondamentale alla conoscenza. L’idea che la malattia mentale sia indipendente
dal fisico rimaneva del tutto assente dalla sua prospettiva.

A Galeno può essere ricondotta anche la matrice di una figura che può essere accostata a quella
dello psicoterapeuta (nell’opera Le passioni e gli errori dell’anima). Il punto di partenza di
Galeno è che il controllo delle passioni sia il principio fondamentale della salute
individuale e il modo migliore per evitare errori esistenziali. Per controllare queste passioni
bisognava innanzitutto diagnosticarle, e la diagnosi su se stessi era impossibile.

Si rendeva necessario l’aiuto di un personaggio neutrale che conducesse una vita


morigerata e fosse sincero. La diagnosi era però solo il primo passo; lo sforzo individuale
avrebbe dovuto consistere le manifestazioni più evidenti delle proprie passioni, iniziando un
percorso di miglioramento.

MEDICINA E FILOSOFIA NEL TARDO IMPERO ROMANO


E NELL’ORIENTE ISLAMICO

Con la morte di Galeno vi è un declino della cultura medica. L’Impero Romano aveva vissuto
il momento di massima espansione sotto Traiano. I secoli successivi alla sua morte videro la
suddivisione dei territori imperiali tra Impero Romano d’Occidente e quello d’Oriente. Con la
caduta dell’Impero Romano d’occidente nel 476, la fiaccola della civiltà romana rimase
flebilmente accesa solo grazie all’impero d’oriente.

L’affermarsi del cristianesimo come religione imperiale determinava un sospetto sempre più
forte nei confronti della cultura precristiana, in quanto dipendente da convinzioni religiose
pagane. Dopo il 1100 l’Europa iniziò scambi culturali con il mondo islamico, e così la cultura
occidentale poté recuperare una parte importante della cultura greca.
I musulmani costituirono istituzioni ospedaliere per consentire anche la cura di ammalati
poveri. I primi ospedali sembrano risalire all'VIII secolo e contenevano reparti specifici per
malati di mente. Alcuni ospedali erano esclusivamente destinati ai malati di mente. Il rapporto
tra medicina e filosofia fu molto stretto nella storia della cultura islamica.

Tra i più illustri rappresentanti della tradizione medica vi è l’uso cosciente della parola attestato
a scopo terapeutico. Al-Razi, che scrisse i Liber Continens una somma di tutto il sapere
medico accumulato fino a quel momento. Egli scrisse di aver curato un potente emiro,
refrattario ad ogni trattamento fisico, con un procedimento di shock psicologico.

Ishaq Ibn Imran espresse l'idea che se l'anima segue il temperamento del corpo, a sua volta
il temperamento può essere influenzato dall'anima. Avicenna l'autore del canone ebbe una
volta a che fare con un principe che era convinto di essere una vacca. a vicenda assecondo
inizialmente il delirio del principe. Quando costui ebbe recuperato le forze fu anche
possibile convincerlo della sua umanità.

Kay Ka’us ibn Iskandar nel libro dei consigli sembrava suggerire che l'aspetto suggestivo
potesse risultare fondamentale in ogni terapia medica. C’è anche chi ritiene che il libro Le
mille e una notte possa essere interpretato come il racconto di una vera e propria
psicoterapia durata 3 anni. La vicenda si sviluppa dalla follia di un sultano che decide di
vendicarsi uccidendo ogni nuova sposa dopo la prima notte di nozze. La sequenza di uccisioni
si ferma quando una delle predestinate, attua una talking cure.
LA SOFFERENZA MENTALE TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO

Tra Medioevo e Rinascimento, il filtro del Cristianesimo ha condizionato la cultura generale e


lo sviluppo delle idee sulla sofferenza mentale. Già il De anima di Tertulliano esaminava «le
teorie dei medici e dei filosofi classici, dei padri della chiesa […] sia allo scopo di criticarle ma
anche per giustificare una sintesi tra la vecchia cultura e la nuova visione cristiana dell’uomo».

La sintesi tra il mondo greco romano il cristianesimo trovò la sua massima espressione nella
figura di Agostino d'Ippona, che deve essere ricordato per la straordinaria finezza delle sue
analisi psicologiche, soprattutto nell’opera Confessioni. Proprio nel momento in cui dipingeva
la sessualità come tentazione e come peccato, Agostino ne sottolineava l'importanza nella vita
umana.

Descrivendo l'amore della propria madre Agostino rilevava un triangolo edipico nella propria
storia giovanile. la possessione diabolica fu inoltre un tema ricorrente nelle narrazioni
medievali riguardanti la psicopatologia. il potere grandissimo che Satana poteva esercitare
sugli uomini, iniziò a essere utilizzato come spiegazione tanto delle malattie mentali, quanto di
quelle fisiche.

La ricerca dei segni diabolici divenne parte del procedimento diagnostico. Le pratiche di
esorcismo divennero parte delle cure necessarie tanto per le malattie mentali quanto per quelle
fisiche. Alcuni padri della Chiesa considerarono la medicina spirituale come l'unica medicina
legittima.

Le recitazioni di preghiere e formule accompagnava sempre la somministrazione di eventuali


forme di cura. La cura dei corpi divenne in ambito specificamente religioso. I primi poli medici
“laici” iniziarono ad acquisire un particolare importanza quando il Concilio di Clermont
impose una serie di restrizioni alla pratica medica da parte dei monaci.

I primi centri a sviluppare importanti scuole di medicina furono Montpellier e Salerno.


L'impulso fondamentale della scuola medica salernitana venne offerto da Costantino Africano
che reimportò in Italia la tradizione greca. L’influsso della medicina ippocratico-galenica
rinnovò il principio dell’influenza dei temperamenti e degli umori sulla salute mentale.

Riprendendo la Storia della follia, di Foucault, si può ritenere che l’atteggiamento dei governanti
verso i malati di mente oscillasse tra una sostanziale indifferenza e la convinzione che piuttosto
che una cura fosse necessaria una loro reclusione. Nella tradizione filosofica medievale si
sviluppò anche un pensiero che tendeva s non attribuire la sofferenza mentale né al corpo né
alla presenza di demoni.

Di tale tendenza fu espressione fondamentale Tommaso d’Aquino, autore di una profonda


rilettura del pensiero aristotelico alla luce della teologia cristiana. Nella concezione di
Tommaso, gli esseri umani diventavano amentes o furiosi cioè inaccessibile alla relazione
umana a causa della perdita della ragione.

Un'ulteriore forma di perdita della ragioniera insania, frutto dell'abbandono dell'essere umano
agli appetiti più bassi. Se la perdita della ragione era causa della condizione patologica, nel suo
recupero consisteva la possibile cura. La mancanza di specializzazione impedì che la cura della
sofferenza psichica divenisse compito di una specifica figura professionale.
CLINICA E PSICOPATOLOGIA

Fra la fine del medioevo e l'inizio del Rinascimento la medicina era ancora fortemente
condizionata dal paradigma galenico. In particolare l’anatomia, grazie all'opera di alcuni
pionieri, si distaccò dalla teoria degli umori, ibridando la medicina con studi di meccanica,
fisica e chimica. Le cause delle patologie furono quindi ricercate in fatti naturali diversi dalla
discrasia degli umori.

Nel Settecento vi è la formulazione di grandi sistemi medici. La medicina clinica acquistò una
crescente importanza, conducente ad una sintesi anatomo-clinica secondo un metodo di
diagnosi e cura che ipotizzava la presenza di impedimenti o lesioni fisiche. Lo studio clinico
delle patologie divenne dunque essenziale ehm e il termine clinico iniziò a definire alcune
scuole mediche che impartivano i loro insegnamenti davanti al letto del malato.

Giovanni Battista da Monte insegnava la pratica medica fondandola sull'osservazione clinica.


il termine clinico iniziava così a riferirsi sia ai segni percepibili di una malattia sia
all'iscrizione di tali segni in una nosografia. Thomas Sydenham e Hermann Boerhaave furono
i veri sistematizzati dell'approccio clinico. Sydenham avviò un programma di ricerca al fine di
individuare i sintomi specifici delle malattie; Boerhaave istituì invece una clinica con 12 letti
dove condusse un'attenta osservazione dei casi con finalità di ricerca e di cura.

La clinica psichiatrica correva su binari paralleli a quelli della clinica medica. Il paziente
psichiatrico, caratterizzato dalla non-ragione, non corrispondeva all’ideale dell’uomo del
rinascimento. Secondo Foucault nel Seicento si assistette in Europa a una sorta di grande
internamento delle diversità non conforme all'ideale dell’uomo borghese.

Dörner ha dimostrato che tutti i paesi europei videro la creazione di luoghi di reclusione per
coloro che soffrivano di alterazioni della ragione. Madhouses, ospizi, senatori, carceri
anticiparono il vero e proprio manicomio e furono le prime istituzioni a contenere i pazzi
insieme a tutta una serie di indesiderabili.

L'illuminismo porto poi una razionalizzazione della psichiatria clinica e del manicomio. il
Madhouses act del 1774 fu uno dei primi regolamenti volti a evitare i vari abusi commessi
nella gestione di questi luoghi di reclusione. In Francia, Philippe Pinel avviò una nosografia
psichiatrica su nuove basi razionali.

Il manicomio divenne così il luogo in cui il paziente poteva essere studiato attraverso
l’osservazione clinica dei suoi comportamenti quotidiani. Philippe Pinel formulò le prime
sistematiche categorizzazioni delle malattie mentali. La tendenza alla classificazione sempre
più minuziosa della psicopatologia si approfondì nel corso del XIX secolo e vide la sua
massima espressione con lo psichiatra tedesco Emil Kraepelin che diede avvio alla psichiatria
clinica e descrittiva contemporanea.
VERSO UNA PRECISAZIONE DELLA TERAPIA:
IL TRATTAMENTO MORALE

In questo contesto culturale vi furono almeno due approcci terapeutici iniziali nel campo delle
terapie mediche delle varie forme di psicopatologia; quello che utilizzava fattori fisico-chimici
di cura e quello che invece utilizzava tecniche e comportamentali o comunicative .

Nel corso del tempo, all’interno delle scienze “psi”, questi due approcci si incontrarono e
scontrarono. Una particolare espressione del secondo metodo fu declinata dalla famiglia di
filantropi quaccheri Tuke, i creatori di una casa di cura finalizzata ad una terapia più
umana dei malati mentali. L'idea di un nuovo luogo per la cura dei disturbi mentali venne
a William, in seguito all'indignazione per la morte di una donna della sua comunità
religiosa.

egli, quindi, si fece finanziare dai quaccheri per creare un'istituzione in cui il paziente
fosse trattato con dignità, al fine di recuperare la ragione con mezzi terapeutici che
facevano ricorso al lavoro, alla preghiera, all'ordine in un ambiente confortevole.

I Quaccheri erano una comunità religiosa fiduciosa nelle potenzialità della ragione umana
che derivava direttamente da Dio: inoltre erano influenzati da una concezione
comunitaria ed egualitaria. Lo York Retreat divenne un luogo di sperimentazione di nuovi
approcci terapeutici alla malattia mentale. I riformatori illuministi si opposero ai classici
mezzi della psichiatria dell'epoca che erano divenuti disumani e pericolosi, avanzando
una nuova imposizione morale della cura.

Occorreva intervenire sui pazienti con un atteggiamento umano e solidale, cercando di


riportare la ragione da dove i comportamenti erano caotici. Si cercava così di ottenere la
moralizzazione dei pazienti tramite un insieme di pratiche nuove. Samuel Tuke descrisse
come moral treatment l’imposizione terapeutica presso lo York Retreat. Il trattamento
morale fu assunto come pratica terapeutica principale della psichiatria soprattutto nella
Francia rivoluzionaria

LA DISCIPLINA DELLE PASSIONI

Fra la fine del Settecento e l'inizio del 900, la patologia delle passioni rappresentò quindi il
territorio in cui convissero gli approcci medico psichiatrici e psicologici costitutivi della
psichiatria francese.

La cura delle discrasie delle passioni virgola che rappresentavano una sorta di metafora
psicologica degli umori fu l'obiettivo del traitement moral. Gli ospedali pubblici universitari
parigini furono i luoghi in cui prese avvio una nuova organizzazione delle istituzioni mediche
che andava di pari passo alla ricerca di una unificazione empirica e sperimentale della fisiologia
e della clinica da parte della scuola medica di Parigi.

Gauchet e Swain hanno dimostrato che i primi manicomi francesi rappresentarono


fondamentalmente il tentativo di razionalizzare umanizzare la cultura psichiatrica. I nuovi
ospedali psichiatrici vennero concepiti come città ideali nate per controllare il comportamento
squilibrato, restituendo il perduto raziocinio ai pazienti.
Pinel descrisse il trattamento morale come una riforma terapeutica elaborata a partire
dall'osservazione dell’opera assistenziale svolta dai coniugi Jean- Baptiste e Margherite Pussin
che si occupavano di organizzare la salute mentale a Bicêtre. Pinel si fece assistere nelle sue
funzioni proprio da Jean- Baptiste che rappresentò il primo prototipo dell'infermiere in
psichiatria.

Pinel venne raffigurato così come un Salvatore che propugnava un’organizzazione umanistica
dell'ospedale. Il trattamento morale era sostanzialmente caratterizzato da un atteggiamento
pedagogico per il quale il paziente avrebbe potuto riappropriarsi della propria ragione, seguendo
un adeguato regime dietetico, riposandosi e valorizzando le proprie risorse.

La medicina delle passioni e il trattamento morale furono anche caratterizzati da una dimensione
paternalistica che consolava, classificava e custodiva al fine di correggere il comportamento dei
malati mentali. Goldstein ha evidenziato come il trattamento morale fosse anche basato su una
sorta di “terapia della gentilezza” nei confronti del malato mentale.

Foucault ha sostenuto che il trattamento dei pazienti fosse del tutto impostato secondo un
modello familiare delle relazioni e avesse come obiettivo quello di disciplinare il mondo interno
del malato. in quest’ottica il rapporto medico-malato sarebbe stato condizionato da un potere
tutto a vantaggio del medico, che svolgeva così una funzione disciplinante.

Il trattamento morale si radicò poi anche come terapia del lavoro in ambito psichiatrico utile
soprattutto ai malati ad alto funzionamento. Il termine psicoterapia degli ospedali psichiatrici
divenne così sinonimo di trattamento morale e terapia del lavoro. I manicomi divennero vere e
proprie cittadine o fattorie autosufficienti che funzionavano grazie al lavoro degli internati. Solo
con lo smantellamento degli ospedali psichiatrici la terapia del lavoro scomparve dall'orizzonte
delle terapie del mentale.

I BAMBINI E IL TRATTAMENTO MORALE

Fra i postrivoluzionari e anche fra i positivisti si diffuse persino un'idea dei bambini come
individui ad uno stato evolutivo inferiore rispetto a quello degli adulti e che per questa ragione
avevano la necessità di una educazione ortofrenica, capace cioè di raddrizzare ed emendare la
loro natura.

In ambito infantile venne così sviluppata una terapia morale per i bambini simili a quella per
gli adulti e furono fondati i primi reparti dedicati a loro.

Jean-Jacques Rousseau aveva diffuso il fortunato principio illuminista per il quale i bambini
avrebbero delle virtù disposte alla bontà, che solo a causa di una società inadeguata si
indirizzano verso il male. L'educazione era considerata utile a favorire e accompagnare lo
sviluppo della vera e positiva natura del bambino.

Tale idea positiva dell’educabilità era destinata nel corso dell'Ottocento e del 900 ad avere
una certa fortuna fra alcuni pionieri delle scienze “psi”, ispirati da una versione
dell’evoluzionismo per cui i caratteri potevano essere modificati e trasmessi da una
generazione all’altra.

Itard il suo allievo Eduard Séguin non si limitarono ad elaborare strumenti e tecniche di
osservazione dei bambini ma si preoccuparono di modificarne la personalità. Per questi l'idiozia
infantile non era una malattia ma il segnale di un arresto dello sviluppo.

La cura di Victor: il fanciullo selvaggio cresciuto nelle campagne dell'Aveyron fu prototipica


sia per la psicologia clinica del bambino sia per la pedagogia scientifica. Itard elaboro così una
serie di tecniche comportamentali che avrebbero dovuto moralizzare il comportamento del
fanciullo selvaggio.

Il caso di Victor fece così iniziare un lungo e inesauribile dibattito sul peso scientifico
dell'eredità o della cultura nello sviluppo individuale; con il caso del fanciullo selvaggio
emerse l'idea che esistessero periodi sensibili dell'educazione e che gli individui avrebbero
un'attitudine naturale ad apprendere. Victor venne sottoposto a una pratica terapeutica che
avrebbe dovuto aiutarlo a recuperare le capacità conoscitive, linguistiche e morali mai
sviluppate.
CAPITOLO 2. DALL’IPNOTISMO ALLA PSICOTERAPIA

ESORCISMO, ILLUMINISMO E MAGNETISMO

Ci furono numerosissime pratiche antiche di cura della mente che si possono considerare
esemplari per la storia successiva. esse si svilupparono in tempi molto antichi e furono
espressioni di terapie non classicamente riferibili alla medicina, che si basavano su una
funzione liberatoria legittimata culturalmente e finalizzata a socializzare e a regolare le
emozioni.

Tali pratiche condividevano con la psicoterapia l'idea generale che l'intervento fosse utile per
allontanare il male che si annidava nell'animo delle persone. si trattava di forme magiche di
intervento che correvano parallelamente agli altri tentativi di curare fisicamente psichicamente
le persone.

La guida pastorale e la confessione hanno invece rappresentato un tentativo di tipo mistico-


religioso di prendersi cura dell’anima. Il cristianesimo si è sempre curato delle anime dei
fedeli operando con tecniche di convincimento e persuasione per indirizzarli sulla retta via e
per controllare con istituzioni come l'inquisizione gli individui eterodossi.

In ambito pastorale l'esorcismo era convenzionalmente schematizzato in fasi. In primo luogo,


l'esorcista doveva infatti verificare la reale presenza del maligno; poi tramite la preghiera
doveva scacciare l'entità che presumeva possedesse l'ammalato. In questo quadro è evidente
che la linea di confine fra realtà e finzione, sacro e profano risultava assai labile

Gassner rivestì un ruolo fondamentale nel passaggio da una cura religiosa una cura laica,
fondata sulle istanze illuministiche. Gassner era un cattolico che tentava di curare le malattie
più varie come se tutte fossero opera del maligno. La sua idea di trovare un comune
denominatore alle malattie fu seguita da Franz Anton Mesmer che però raggiunse gli stessi
risultati di Gassner mediante pratiche non religiose.

Dimostrò così che i fenomeni attribuiti al soprannaturale potevano essere ricondotti alle scienze
della natura. Mesmer usava le idee di elettricità, gravità e magnetismo terrestre come
fondamento della sua convinzione che un sistema di forze condizionasse non solo la natura e la
terra, ma anche il corpo. La salute e la malattia erano legate al cosiddetto magnetismo animale

Se per Gassner la malattia dipendeva quindi dall’azione del maligno, secondo Mesmer essa era
dovuta a un disequilibrio di un fluido magnetico, che si poteva armonizzare. Il magnetismo fu
utilizzato anche in quella che possiamo ritenere la prima forma di “terapia di gruppo”
consistente in incontri che si tenevano intorno ai baquet (grandi recipienti di legno da cui
fuoriuscivano delle cannule in ferro). Mediante questo procedimento si poteva riequilibrare la
forza nascosta che condizionava il sistema nervoso.
Il processo terapeutico avveniva anche mediante crisi magnetiche veicolate dal
magnetizzatore, nella terapia individuale dal baquet, in quella di gruppo.

Oltre alle sue pratiche suggestive, all'uso dei magneti, Mesmer vi utilizzava la musica. Egli
usava l'armonica a bicchieri che diffondeva melodie particolarmente suggestive utili al
processo di guarigione. Proprio Franklin ebbe un ruolo di expertise nel processo di
screditamento del mesmerismo.

Mentre Franklin utilizzava l'osservazione sistematica Mesmer era più portato all'eclettismo
metodologico della giustapposizione delle osservazioni. Entrambi erano esponenti della
Massoneria, influenzati in modo diverso dall’esoterismo appreso nelle logge, per cui Franklin
lo declinava secondo il metodo sperimentale; mentre Mesmer fondava la propria teoria del
magnetismo animale su prove molto labili e imprecise.

Le idee di Mesmer vennero utilizzate anche in un’ottica occultista dai suoi seguaci, che si
proponevano di controllare le forze oscure agenti nella natura mediante pratiche di
magnetizzazione.

La storia dell'occultismo a partire dal mesmerismo settecentesco iniziò così a correre


parallelamente a quella della psicologia sperimentale. Probabilmente a causa dei pericoli
che intravedeva nelle pratiche magnetiche Franklin non si oppose al mesmerismo. Nel
1784 furono create due commissioni per analizzare il magnetismo animale: la prima composta
dei maggiori scienziati dell'epoca sia dell'università sia dell'accademia delle scienze; la
seconda composta dai membri della Société royale de médecine.

Le conclusioni di entrambe le commissioni negarono l'esistenza del magnetismo animale


come fenomeno fisico autentico, sostenendo che tutte le evidenze a sostegno erano dovute al
potere dell'immaginazione e dell'imitazione. Le pratiche magnetiche sarebbero moralmente
pericolose anche per i legami erotici che si instauravano facilmente fra magnetizzatore e
magnetizzata.

LA SOCIETÀ DELL’ARMONIA

La scelta massonica di Mesmer fu il frutto di una vocazione politica che tentava per
mezzo del magnetismo, di diffondere nuove idee egualitarie nel cuore dell’Europa. Un
fondamento ideale del mesmerismo era la diffusione di una cura innovativa, illuminata,
scientifica e in grado di beneficiare l'umanità in modo efficace economico e democratico, in
un periodo in cui la medicina non avevo ancora fatto grandi passi in avanti.

Lo stesso impiego del baquet veniva considerato dai contemporanei di Mesmer come
democratico. Mesmer fondò a Parigi la Société de l’Harmonie, una società con riti molto
simili a quelli massonici, votata al cambiamento dell’umanità.

Darnton ha evidenziato che Mesmer, con l’appoggio della borghesia economicamente


culturalmente più agiata, promise un programma volto al miglioramento dell’umanità, della
salute pubblica e della morale. Alcuni mesmeristi parteciparono alla costruzione del nuovo
stato francese e alle vicende legate alla rivoluzione del 1789.

DAL MESMERISMO AL SONNAMBULISMO PROVOCATO

Nella storia del mesmerismo rivestì un ruolo fondamentale anche il marchese Puységur.
Puységur
completò il processo di democratizzazione del mesmerismo, portandolo anche a persone meno
agiate. Puységur magnetizzò un olmo e per suo tramite si proponeva di liberare i contadini dalle
loro malattie. L’albero magnetizzato rappresentava una sorta di cura sociale, alle cui virtù
terapeutiche tutti cittadini potevano liberamente attingere. Le persone comuni venivano legate
intorno all’albero con delle lunghe funi.

il mesmerismo operò una sorta di ribaltamento della relazione medico-paziente. I pazienti


divenivano fondamentali per l’elaborazione delle teorie dei mesmerizzatori e potevano acquisire
quel bagaglio di conoscenze terapeutiche che li poneva sullo stesso livello del medico. La
cultura del magnetismo ribaltava attribuiva quindi un nuovo senso della relazione classicamente
asimmetrica della clinica medica. Il paziente a sua volta diventato terapeuta istituiva un nuovo
orizzonte egualitario che mai fino ad allora era stato possibile.

Si può ipotizzare che l'opposizione accademica la magnetizzazione riflettesse il timore per


queste novità. Forse il riemergere ottocentesco della cultura magnetista nelle nuove vesti
dell’ipnotismo era anche dovuto al tentativo di ripristinare le tradizionali relazioni di cura.
L'albero magnetizzato sembrava in grado di guarire contemporaneamente molte persone,
armonizzando il loro stato psicofisico; gli alberi dei magnetizzatori si trasformarono presto negli
alberi della libertà della Rivoluzione francese.

L'albero della libertà divenne il simbolo vivente delle idee del 1789. Puységur mise in dubbio
che il magnetismo fosse dovuto a un fluido specificatamente fisico. Piuttosto le crisi magnetiche
erano imputabili a uno stato alterato di coscienza, che iniziò a chiamare “sonnambulismo
provocato”. Con Puységur era così nata una corrente psicofluidica del mesmerismo che
sostituiva al magnetismo una causa di tipo mentale.

Il magnetismo andava così emancipandosi dalla teoria di Mesmer e si trasformava


progressivamente nell’ipnotismo, attraverso una semplificazione della teoria e del confinamento
delle pratiche alla relazione paziente-terapeuta. L'abate faria è noto per aver accentuato la
componente psicologica e relazionale delle pratiche magnetiche. Deleuze fondò nel 1813 la
Société du magnétisme de Paris e pubblicò collane editoriali e riviste, sul modello di altri campi
della ricerca scientifica.

Alexandre Bertrand aveva difeso inizialmente una concezione fedele a Mesmer. Sviluppo però
un'idea del tutto psicologica del rapporto magnetico, che per lui non era certo dovuta agli effetti
di un'identità indimostrata quale il fluido magnetico, ma era frutto della relazione
magnetizzatore- magnetizzato. Il sonnambulismo provocato costituì la transizione del
magnetismo alle pratiche suggestive e ipnotiche. Veniva considerato sia un mezzo per l'indagine
psicologica del mondo interno dell'uomo, sia un metodo psicoterapeutico.

È possibile che la cultura magnetica fosse considerata da molti come una cultura di
compensazione. Su questa linea, alcuni rivoluzionari del 1848 formarono in seguito la
generazione dei grandi riformatori medici che utilizzarono il magnetismo, sotto le nuove spoglie
dell'ipnotismo. Per Carroy il magnetismo sonnambulismo provocato era stato diffuso anche in
ambito paramedico e dal 1870, integrato nella scienza ufficiale da parte dei medici.

Questa cultura Di fine 800 emerse con chiarezza nel primo Congresso internazionale di
ipnotismo “sperimentale e terapeutico” che si tenne a Parigi nel 1889. Tale Congresso segnava
anche il passaggio ufficiale all'ambito medico delle tecniche ipnotiche.

PSICOLOGIA E IPNOTISMO

L’ipnosi e la suggestione furono così considerate mezzi terapeutici e strumenti di ricerca per
la psicologia, disciplina che tendeva ad essere rappresentata come scientifica e sperimentale. I
cultori della nuova psicologia erano tutti positivisti sui generis.

Comte, il fondatore del positivismo francese, riteneva la psicologia una disciplina


impossibilitata a raggiungere la condizione di scienza vera e propria, dato che la mente
costituiva tanto il soggetto quanto l’oggetto dell’indagine. La condotta umana avrebbe dovuto
essere studiata dalla fisiologia cerebrale, per quanto concerneva il singolo; dalla sociologia, per
i risvolti dell’interazione con gli altri.

Altri positivisti sostenevano invece la legittimità della psicologia, grazie ai suoi legami con la
fisiologia. I nomi più noti legati a questa impostazione furono quelli di Ribot, Taine, Ardigò,
Spencer, Bain e Wundt. Il termine sperimentale era stato accolto con una doppia gestione,
quella della sperimentazione di laboratorio è quella di un più ampio studio sistematico dei
fenomeni.

Alla fine dell'Ottocento la psicologia francese si proponeva come vero e proprio


modello alternativo a quello tedesco, in cui veniva promossa una differente concezione della
prima ricerca psicologica. Ciò avvenne durante la Terza Repubblica, caratterizzata dalla
modernizzazione e laicizzazione della società francese. La medicina era in prima linea
rispetto al processo di modernizzazione e, su impulso di Ribot, i primi esponenti della
psicologia scientifica si formarono come filosofi e medici.

L’approccio francese della seconda metà del XIX secolo si differenziava perché assumeva
l’ipnosi come una tecnica sperimentale, in un setting di laboratorio in cui i soggetti erano
soprattutto giovani isteriche.

SCUOLE PSICOLOGICHE A CONFRONTO

Francia e Germania si ponevano in concorrenza nel campo della cura e delle patologie
mentali.
In Germania, la via perseguita era tutta all'interno della fisiologia normale e della fisiopatologia
del cervello: la mente poteva essere indagata in laboratorio con un adattamento adeguato di
metodi fisiologici. In Germania la psicologia si costruiva sulla base della relazione professore-
allievo.

Secondo Danziger in questo modello tedesco, al fine di descrivere il funzionamento


normale della mente, i poli della relazione di ricerca erano interscambiabili, al contrario
del modello francese che era invece clinico e fondato su una relazione asimmetrica medico-
paziente. In Francia si utilizzarono soprattutto il metodo ipnotico e il metodo patologico.

Secondo Carroy la convinzione che l'ipnotismo fosse una pratica che poteva rientrare nel
dominio della conoscenza sperimentale della mente venne divulgata da tre personaggi:
Charcot, Azam e Beaunis. Chi veniva posto in uno stato di immobilizzazione, era considerato
come un soggetto psicologicamente vivisezionabile e indagabile in laboratorio sempre
mediante ipnosi.
Il presupposto del metodo patologico consisteva in un'idea paradigmatica già ampiamente
sviluppata dalla medicina francese che la patologia risultasse dall'alterazione quantitativa di
fenomeni normali. L'idea parallela che la patologia corrispondesse a un esperimento indotto
dalla natura poteva trovare applicazione anche in ambito psicologico. Il fatto patologico
risultava quindi anche l'oggetto privilegiato della ricerca con il fine ultimo di conoscere il
funzionamento normale.

L'ipnosi veniva assunta come tecnica sperimentale anche dallo stesso Ribot. Il metodo
ipnotico iniziò ad essere utilizzato in Francia anche in ambito terapeutico. In
questo contesto la suggestione fece la sua comparsa contemporaneamente all’ipnosi,
divenendo anche il ponte fra psicoterapia ipnotica e psicoterapia basata sulla parola.

La suggestione era un processo di influenzamento psicologico, ottenuto mediante la parola


o il gesto: le credenze e le percezioni suggerite sono assunte senza elaborazione critica da
parte del suggestionato. Il processo suggestivo inganna le funzioni critiche e percettive. La
suggestione può implicare l'esercizio di un potere del suggestionatore sul suggestionato.

L'ipnosi e la suggestione rappresentarono però due sguardi differenti sulla natura


psicologica dell'individuo. Gli ipnotisti difendevano l'idea che l'ipotizzabilità fosse
un'alterazione dello stato di coscienza dovuta alle qualità individuali delle persone. I teorici
della suggestione mettevano l'accento sull'importanza dell'atto di suggestionare piuttosto
che sulla specifica qualità del suggestionato. Per loro l'ipnosi non sarebbe stata altro che
uno stato di coscienza alterato collegato a un’accentuata suscettibilità alla suggestione

INDIVIDUO O CONTESTO?

La concezione dell’ipnosi e della suggestione divenne oggetto di disputa tra due gruppi di
neurologi francesi, passati alla storia come Scuola di Parigi e Scuola di Nancy. Il
capostipite della Scuola di Parigi fu Charcot, maestro di una schiera di studiosi che passarono per
l'ospedale della Salpetrière. Per Charcot era fondamentale identificare una base oggettiva dei
fenomeni ipnotici e di quelli isterici e arrivò alla conclusione che l’ipnotizzabilità fosse un
sintomo dell’isteria.

Altri sintomi avrebbero caratterizzato la personalità degli isterici come vere e proprie
stigmate isteriche. Charcot utilizzò di fatto l’ipnosi come metodo clinico per studiare
l’isteria, che ritenne di poter suddividere in fasi. Nel grande attacco isterico si presentavano
in generale i prodromi, la fase epilettoide, il clownismo, la fase delle attitudini passionali e il
delirio. Le fasi potevano presentarsi nella sequenza oppure inframezzate da provvisoria
risoluzione.

L’isteria venne in questo modo accostata all’epilessia. Per Charcot e i medici parigini, i
sintomi erano dovuti a lesioni del sistema nervoso di tipo dinamico, ovvero non localizzate
ma in grado di colpire l’organo cerebrale di volta in volta in sedi diverse. La Scuola di Charcot
deve essere considerata una scuola di neurologia clinica, interessata a mettere in evidenza
sintomi delle diverse patologie del sistema nervoso. Parigi fondamentalmente una palestra per
la formazione di numerosi medici, interessati allo studio neurologico e fisico dell'isteria,
valutata, oltre che attraverso l'ipnosi, anche con l'uso di altri mezzi

Alla Salpetrière vennero elaborati i concetti di tipo fisico e neurologico che successivamente
vennero utilizzati, soprattutto all'interno della teoria freudiana. Per la storia della psicoterapia
risultò molto importante il ruolo degli isterici e delle loro relazioni con i loro ipnotizzatori
parigini. Le immagini delle pazienti della Salpetrière ancora oggi illustrano come si sia
costruito il paradigma individualista parigino virgola in cui l'ipnotizzatore assumeva come
reale autentici tutti i fenomeni mostrati dalla, senza tener conto del proprio ruolo di potere nella
relazione.

Tali benefici secondari crearono una vera e propria cultura dell'isteria di fine Ottocento.
Hippolyte Bernheim fu il più noto tra gli ipnotisti legati alla cosiddetta Scuola di Nancy e fu la
guida di quanti consideravano l'ipnosi un fenomeno contestuale e suggestivo. Bernheim
sostenne che nulla di neuropatologico o psicopatologico si potesse ricondurre all'ipnosi, da
considerare invece prodotto della relazione fra il suggestionato e il suggestionatore. Anche la
folla sarebbe stata il prodotto di legami imitativi e suggestivi.

CURARE LA PERSONALITÀ. LA COSCIENZA RIVISITATA

Sempre nell’ambito della psicologia patologica francese, la personalità non fu più considerata
come un oggetto di ricerca filosofica connessa alla coscienza, ma un’entità concreta che poteva
risultare “affetta da malattia”. La personalità divenne un costrutto da studiare
scientificamente quando furono notate clinicamente alcune anomalie nel suo funzionamento.
I fenomeni di patologia della coscienza e di patologia della personalità risultavano funzionali a
legittimare questa nuova prospettiva scientifica.

L’indagine psicologica della personalità si sviluppò in un contesto di ricerca clinico-


sperimentale sulla coscienza. I pionieri di queste indagini descrissero sistematicamente i
casi clinici riguardanti i disturbi della personalità. La personalità multipla diveniva così,
accanto all’isteria, una patologia esemplare, mettendo così in crisi l’idea che l’individuo agisse
controllando il proprio comportamento.

Broussais risultò il personaggio chiave per l’elaborazione del metodo patologico. Broussais
era allievo e medico personale di Gall. Tra il 1822 e il 1823, Broussais teorizzò che le
funzioni dell'uomo sano potessero essere comprese studiando l’uomo malato; qualche anno
dopo baso un intero volume sul presupposto che patologia e salute mentale fossero
determinate da uno stesso principio: l'eccitazione. Un'eccitazione normale avrebbe condotto
a un'esistenza normale; un'eccitazione eccessiva avrebbe causato un'irritazione.

La psicologia sperimentale francese, influenzata dal pensiero di Broussais, studiava il patologico


come se fosse un esperimento offerto spontaneamente dalla natura, impossibile da riprodurre in
laboratorio ma in grado di mostrare al ricercatore gli elementi di base costituenti fenomeni
psichici. Fu Ribot a elaborare una prima teoria specifica della personalità. Secondo Ribot, la
personalità e la coscienza dell’Io non sarebbero state che una determinazione delle elaborazioni
cenestesiche e del lavoro della memoria.

Ribot assumeva una prospettiva evoluzionistica, per cui le funzioni psicologiche più complesse
si erano filogeneticamente formata a partire da quelle più semplici. Dall'altro la patologia
sarebbe stata determinata da una regressione per cui nelle forme meno gravi si perderebbero
prima gli elementi di maggiore complessità delle funzioni più evolute e poi quelli di sempre
minore complessità. Pierre Janet risultò poi il più coerente continuatore dell'approccio
psicopatologico francese.
PIERRE JANET E L’ANALISI PSICOLOGICA

Pierre Janet nonostante sia stato uno dei principali studiosi della cosiddetta scuola di Parigi,
può essere ritenuto il sistematizzatore dell’uso dell’ipno-suggestione a scopo terapeutico. Janet
nacque a Parigi nel 1859 da una famiglia borghese di orientamento liberale. Nel 1883 arrivò
ad insegnare filosofia al liceo di La Havre. A la Havre Janet incontrò il dottor Gilbert dal
quale venne sollecitato allo studio del sonnambulismo provocato e iniziò a condurre esperienze
di ipnosi su giovani donne.

Ehi dalle ricerche iniziate a le Havre Janet trasse la sua prima tesi di dottorato. Nel 1889 iniziò
anche gli studi medici, con molti tirocini svolti nelle corsie degli ospedali e dedicati alla
formazione clinica. Nello stesso anno partecipò al primo Congresso internazionale di
psicologia che si tenne a Parigi. Charcot lo chiamò a dirigere il laboratorio di psicologia della
Salpetrière.

Nel 1895 Janet sostituì Ribot al Collège de France nel corso di psicologia sperimentale e
comparata. Nel 1898 ottenne il corso complementare di psicologia sperimentale presso la
facoltà di lettere della Sorbona. Nel 1900 fu segretario del IV Congresso internazionale di
psicologia di Parigi. Nel 1901 fondò la Société de psycologie, nel 1902 ottenne definitivamente
la cattedra di psicologia sperimentale del Collège de France, e nel 1903 fondò la rivista Journal
de Psychologie Normale et Pathologique.

Nel 1910 il nuovo direttore della Salpetrière, lo allontanò dalla direzione del laboratorio di
psicologia. Con Déjerine, la Salpetrière tornava a essere soprattutto un'istituzione che si
occupava di neurologia in senso stretto. Le importanti monografie di Janet furono Névroses et
idées fixes e Les obsessions et la psychasténie. Nel corso del 900 ampliò il suo indirizzo di
ricerca, dedicandosi da un canto alla psicopatologia e alla psicoterapia dinamicamente
orientate, dall'altro a una psicologia che indagava il comportamento normale e si occupava di
personalità.

La sua fama crebbe soprattutto all'estero; Particolare ebbe nel Gli Stati Uniti dove venne
riconosciuto come un luminare della psicopatologia. La sua opera venne rapidamente
dimenticata nel corso del 900, oscurata dal successo della psicanalisi. Nella visione di Janet,
infatti la personalità risulterebbe essere una costruzione psicologica composta da livelli
variabili di coscienza, tendenze ed energie che nella malattia si scompongono.

A Pier Janet si deve tutta la tradizione nata dalla concezione psicopatologica e


psicoterapeutica fondata sull'idea che ha la patologia corrispondesse una disgregazione-
dissociazione inconscia della personalità. Influenzato dalla sua formazione eclettica e
dall'influenza ricevuta dallo zio Paul, Pierre Janet tendeva a conservare parte della
concezione dell'io presente nella filosofia spiritualista, affiancandola a quella di un io più
empirico.

La sua psicologia della personalità era basata sulla considerazione che la coscienza
apparisse come unica e identica a sé stessa. Per Janet i nostri pensieri erano riuniti in un
sistema. Al tempo stesso la personalità sarebbe stata ugualmente un'organizzazione
sistematica di sensazioni interne, memorie e immaginazioni che potevano inconsciamente
autonomizzarsi.

Janet recuperava le dimensioni inconsce dalle piccole percezioni della filosofia di Leibniz. Per
Leibniz ci sarebbero sensazioni che percepiamo in maniera automatica. La coscienza
presenterebbe dei gradienti diversi a cui corrispondono personalità di diverso livello di
funzionamento. In alcune persone la coscienza della propria personalità sarebbe precisa e
netta, altri individui presentano una variazione della coscienza da un livello automatico a
uno autocosciente.

Le dissociazioni della personalità vennero quindi considerate da Janet una prova empirica della
complessità e dei diversi livelli della coscienza. Le personalità multiple, il sonnambulismo,
la scrittura automatica, avrebbero mostrato il modo in cui in una stessa persona esistevano
sensazioni, memoria, immaginazioni che si escludevano e si alternavano.

Janet attribuì molta importanza al trauma psicologico come causa dell’isteria. Per
quanto riguarda la terapia, i traumi e le memorie venivano trattati come se potessero essere
modificati mediante l’ipnosi. L’ultimo Janet sostenne una concezione costruttivista della
personalità. La personalità risulterebbe essere l'esito di una perpetua sintesi, di
un'elaborazione e assimilazione di esperienze. La terapia consisterebbe allora nella messa
in opera di processi psicologici per costruire una sintesi nella personalità disgregata.
LE “TESI” DI JANET

Nell’ Automatisme sono già presenti una completa teoria della personalità, normale e
patologica, e una tecnica di intervento terapeutico per ripristinare il funzionamento della
personalità stessa.
Nella prima parte della tesi, Janet descrisse tutti quei casi che riteneva essere di automatismo
totale ovvero frutto di una personalità completamente disgregata: la catalessia, le personalità
alternanti e il restringimento del campo di coscienza risultano essere tutti fenomeni tipici
dell'automatismo generalizzato

La seconda parte della tesi riguardava l’automatismo parziale. Janet utilizzò numerosi
schemi per evidenziare che, nella normalità, la personalità in un primo momento
percepisce ogni tipo di stimolazione, che poi sintetizza. In caso di alterazione della
personalità e di automatismo parziale, la capacità di sintesi andrebbe persa e la personalità
non sintetizzerebbe più tutti gli stimoli disponibili.

L’automatismo psicologico parziale risultava essere, il modello teorico che serviva ad


interpretare fenomeni bizzarri osservati da chi si occupava di parapsicologia.
Nell'Automatisme veniva tratteggiato un abbozzo di modello energetico della personalità. Alla
base della teoria della personalità di Janet c'è dunque quella che potrebbe essere definita anche
come una metapsicologia. La debolezza (miseria) o la forza morale differenziano la personalità
patologica da quella normale:

“Lo sdoppiamento della personalità è piuttosto la conseguenza immediata di tale debolezza di


sintesi psicologica che lascia sussistere fenomeni psicologici ma non riconnette all'idea della
personalità. Possiamo rappresentarci fenomeni di sonnambulismo e gli atti sub coscienti come
raggruppamenti secondari, sistematizzazione e accessori di questi fenomeni psicologici
trascurati.”

L'automatismo e la disaggregazione farebbero dunque parte di questo sistema energetico, la


cui teoria nel corso delle opere successive venne fondata sui concetti di forza (capacità di
sostenere a lungo un lavoro psichico) o (tensione psicologica l’attivazione psicologica presente
nella personalità dei soggetti in gradi di sintetizzare le attività mentali).

Janet continuò a perfezionare i contenuti discussi nella prima tesi psicologica. Questa
dissertazione venne pubblicata in modo esteso come seconda parte di un'opera sullo stato
mentale degli isterici. La prima metà di questo lavoro, dedicata alle stigmate mentali, era
riservata ai sintomi fisici dell’isteria e al restringimento del campo di coscienza, mentre la
seconda metà, dedicata agli accidenti mentali, riguardava più da vicino i sintomi psicologici
dell’isteria e le idee fisse.

La tesi medica consistette in una descrizione dell’isteria, studiata nel laboratorio di psicologia
della Salpetrière. In questo contributo si ritrovavano alcune precisazioni intorno ai meccanismi
già tracciati nell'Automatisme. Janet delineò una distinzione tra isteria e psicoastenia, sulla
base del differente funzionamento di personalità dei soggetti sofferenti di queste patologie.
Nell’isteria la capacità di sintetizzare sembrava parziale e la coscienza limitata; poi le idee
fisse fungevano da nuclei ideativi che nell'isteria risultavano perlopiù subconsci. La differenza
fra psicoastenici avrebbe riguardato in prima battuta una debolezza più specifica per questi
ultimi e la presenza di idee fisse che avrebbero assediato invece costantemente gli
psicoastenici.

L’EREDITÀ DELLA PSICOLOGIA FRANCESE E LA PSICOTERAPIA

Gli psicologi positivisti francesi seguivano una concezione trasformista e ottimista della
personalità, influenzata da all'evoluzionismo Lamarckiano e spenceriano differente dal modello
psichiatrico e alienista che invece faceva riferimento alla teoria della degenerazione.

Intorno al 1890 vi è una riforma delle conoscenze medico-psichiatriche che porto verso un
atteggiamento critico verso le teorie ereditarie e fataliste della follia e verso l'assunzione di un
approccio fortemente interventista orientato alla pedagogia con Binet e alla psicoterapia con
Janet. Proprio il lavoro di Jane avrebbe rappresentato una novità e sarebbe stato accolto come
un'alternativa al trattamento morale degli alienisti.

Dowbiggin ha inoltre rimarcato alcune analogie fra le istanze attive e in Francia la fine
dell'Ottocento il movimento antipsichiatrico che caratterizzò la psichiatria occidentale; entrambi
questi momenti congiunturali furono infatti contrassegnati dalla critica delle classificazioni
psichiatriche. L'interesse per Janet della storiografia a partire da Ellenberger è stato
probabilmente anche condizionato da queste istanze antipsichiatriche, tendenti a esaminare
quegli aspetti trattorie utilizzabili al fine di giustificare quelle particolari culture.

Dalla riscoperta di Ellenberger è stato pubblicato un numero crescente di contributi che


ricostruiscono il lavoro di Janet, adattandolo soprattutto come uno psichiatra o uno
psicopatologo che utilizzava principi psicologici per la terapia del paziente. Janet dagli anni 80
dell'Ottocento aveva effettivamente elaborato concetti che la psicanalisi freudiana sembrò poi
ridefinire: il subconscio di Janet divenne l'inconscio di Freud; la teoria del trauma reale divenne
la teoria della fantasia; la teoria della dissociazione fece posto alla teoria della rimozione.

Freud cito spesso Janet il riferimento alle sue osservazioni sull'isteria dall'altra parte Janet difese
la psicanalisi mentre in altre sostenne che essa non fosse altro che la propria analisi patologica.
Janet e Freud furono i due più importanti esponenti di una psicopatologia fondata su una teoria
psicologica e anche i laboratori di teoria dell'intervento. Janet sviluppò l'analisi psicologica col
fine di rintegrare quelle componenti dissociate-disaggregate dell'io e della memoria.

Usò l'ipnosi e la suggestione per ricreare una realtà mentale più tollerabile. Per queste ragioni
possono essere evidenziate analogie fra il modo di procedere di Janet e quello dell'attuale
psicoterapia cognitiva in relazione all'uso di istanze che fanno riferimento al cosiddetto
inconscio cognitivo e al costruttivismo.

FILOSOFIE DELL’INCONSCIO E STORIA DELLA PSICOTERAPIA


L'ottocento ha conosciuto il fiorire di una serie di filosofie per le quali il concetto di inconscio
ha assunto un ruolo centrale. Fu Immanuel Kant a ritenere che la mente fosse, per il
soggetto, di fatto inconoscibile. Nella Critica della ragion pura egli distingueva tra ciò che
può essere conosciuto attraverso la struttura a priori dell’intelletto (il fenomeno) e il mondo
come in effetti è (la cosa in sé o noumeno). Da una parte, accanto segui l'affermazione
dell'idealismo, che vedeva nella storia la progressiva e infine totale autocoscienza dello spirito
d'altra parte la dimensione inconsciamente acquisto un ruolo sempre più centrale.

C’è una definizione che ha accomunato Freud a due filosofi molto diversi tra loro come Karl
Marx e Nietzsche in una “scuola del sospetto” che avrebbe messo in discussione le illusioni
umane riguardo alla coscienza. Marx non si limitava certo a una critica della conoscenza
soggettiva, ma costruì una critica della società. Immagino una dialettica storica che avrebbe
portato, attraverso la lotta tra le classi, a una società comunista futura.

Di fatto, non ci sono elementi per stabilire un'influenza di Marx su Freud. L'autore del capitale
inspiro in modo tutt'altro che secondario alcune frange della cultura psicoanalitica. Nietzsche,
al contrario di Marx, indirizzava la sua opera a un'élite intellettuale piuttosto che la classe degli
spuntati. In umano troppo umano Nietzsche vagheggiava un futuro in cui sarebbe stato
possibile vivere da spiriti liberi, abbandonando le stratificate inutili tradizioni e certezze.

Nietzsche vi affermava il prospettivismo, cioè il principio per cui ogni verità è formulata da un
particolare punto di vista e non può mai aspirare alla assolutezza. Tutto ciò che veniva onorato
dalla società come morale contrastava con le vere tendenze degli esseri umani, e tutto ciò che
veniva aborrito corrispondeva alle loro segrete aspirazioni. Nella Gaia scienza compariva
anche più volte l'idea della morte di Dio. A partire da Così parlò Zarathustra lo spirito libero
si incarnava nel superuomo, l’essere che, aspirando alla grandezza, avrebbe potuto agire fino
in fondo la volontà di potenza.

Quello della volontà di potenza diventava progressivamente un concetto cardine del


pensiero di Nietzsche. Affascinato dalla psicologia fisiologica, Nietzsche immaginava l’Io
non solo come condizionato da forze e desideri inconfessabili, ma anche agito da un Sé
corporeo. L'influenza di Nietzsche sulla psicologia dinamica e difficilmente sopravvalutabile.
Tutti e tre i padri della psicologia dinamica Adler, Jung e Freud, ne vennero chiaramente
influenzati.

Nel testo principale di Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer


descriveva l’universo come frutto di una volontà universale, animata inoltre da motivazioni
contrastanti. Partendo dalla prospettiva di Kant, per cui noi conosciamo solo fenomenicamente
il mondo, Schopenhauer pensava ad un radicale pessimismo epistemologico, onde tutto il
contenuto dell’intelletto è una nostra semplice rappresentazione. Il pessimismo epistemologico
si rifletteva anche in un pessimismo esistenziale.

Freud potete guardare a Schopenhauer come un filosofo che aveva anticipato molte delle sue
idee non sono in merito all'inconscio, ma anche alla sessualità, ai sogni e alla morte, al punto
da inserire anche in diversi suoi lavori delle criptocitazioni dal filosofo di Francoforte. Oltre a
Nietzsche e Schopenhauer, una riflessione sull’inconscio attraversa il pensiero di diversi altri
filosofi dell'Ottocento, come Schelling, Carus e Hartmann.
Se questi tre pensatori non erano forse sconosciuti a Freud, vennero invece più volte
espressamente menzionati da Carl Gustav Jung. A Freud era invece familiare il pensiero di
Herbart che poteva dirsi fautore di una concezione dinamica della psiche e per cui la
convinzione che esistesse una soglia della coscienza, il separare la rappresentazione e le
sensazioni consce da quelle inconsce sulla base della loro intensità e/o ripetizione.

Infine, la questione dell’inconscio venne infine discussa ampiamente anche da Wundt e


Brentano, i capiscuola della filosofia tedesca; entrambi comunque finirono per escluderne
l’esistenza.

IL RUOLO DI FREUD

La creazione della psicoanalisi, da parte di Sigmund Freud, e certamente l'evento che coincise
con la vera e propria nascita della psicoterapia nel senso odierno del termine, perché coniugava
per la prima volta i due caratteri fondamentali che la definiscono. Freud infatti:

1. Non usava (intenzionalmente) la suggestione nel tentativo di guarire i pazienti, come


nel caso degli ipnotisti;

2. Non affidava all’attività fisica e all’addestramento dell’ammalato una parte


significativa della cura, come nel caso invece degli alienisti che applicavano il
trattamento morale.

La più importante di tali idee era sicuramente quella di inconscio. Si è potuto vedere come
il concetto di inconscio attraverso una lunga storia per divenire particolarmente centrale e
controverso nella riflessione filosofica, psicologica e neurologica alla fine dell'Ottocento.
Solo In Freud l'inconscio assunse chiaramente i connotati di una parte della psiche
caratterizzata da un “gioco di forze” che condizionava la vita cosciente.

Le forze rappresentavano impulsi e motivazioni divergenti. Un simile conflitto, nell'ottica


freudiana, poteva svolgersi sul piano cosciente ma molto più spesso sul piano inconscio.
Anche l'espressione in “psicologia dinamica” esprime proprio la concezione della mente
come gioco di forze, e rivela allo stesso modo una metafora tratta dalla fisica. Dalla
chimica aveva invece origine un'altra metafora che si esprimeva nello stesso nome psico-
analisi che Freud impose nella propria teoria, supponendo che le psicopatologie nevrotiche
potessero essere ricondotte ai propri componenti primi.

Le scienze ottocentesche avevano delineato una concezione deterministica dell’universo,


secondo la quale ogni fenomeno era riconducibile a cause specifiche. Ciò si rifletteva in
Freud in un determinismo fisico, che rimase sullo sfondo del suo pensiero ma che
costituiva a suo avviso il fondamento di ogni concezione scientifica del mondo. In base al
determinismo fisico ogni fenomeno doveva avere le sue cause fisiche: anche la mente.

Soprattutto era fondamentale per la psicanalisi freudiana il determinismo psichico: ogni


fenomeno psicologico aveva a sua volta delle cause psicologiche. Ciò si traduceva nel
principio generale per cui ogni manifestazione conscia della psiche aveva delle origini,
essenzialmente inconsce. Proprio quest’idea di fondo sostanziava il principio per cui anche
epifenomeni psichici in genere considerati poco significativi non potessero essere
considerati casuali.

In apparente contraddizione con il determinismo fisico di Freud era il concetto di trauma


psichico, la cui nozione si era da poco sviluppata in Francia. In tale concetto si esplicava
l'idea che un evento potesse essere considerato traumatico pur non avendo causato danni al
corpo di una persona.

La concezione freudiana del trauma psichico vario molto nel corso del tempo. Inizialmente
Freud aderì alla prospettiva di Charcot del trauma come agent provocateur: un evento
singolo scatenante che doveva però essere favorito da una specifica predisposizione fisica. In
seguito, Freud ritenne che il singolo evento potesse causare la patologia di per sé. Infine, il
trauma divenne riconducibile a una serie di eventi, seguendo il principio della
sovradeterminazione (nessun fatto mentale aveva una sua causa singola).

Freud tuttavia, non postulava l'indipendenza della realtà fisica da quella psicologica e anzi
sottolineava che si sarebbe dovuto giungere a un'identificazione delle cause fisiche della
psicopatologia. L'idea paradigmatica della continuità fra normale e patologico acquisiva con
Freud un'accezione del tutto particolare. Almeno a partire dall'interpretazione dei sogni,
risultava evidente come ogni essere umano fosse in qualche misura nevrotico e come la
cosiddetta normalità venisse determinata da una soglia quantitativa.

Il principale fattore motivazionale era costituito dalla sessualità, e l’energia psichica aveva
comunque una natura in origine sessuale. La salute mentale dipendeva quindi da un impiego
più o meno efficace di tale energia, detta libido. Ogni utilizzazione della libido alternativa
alla sessualità sarebbe stata il frutto di una repressione delle pulsioni originarie. La
repressione della sessualità costituiva per Freud un male necessario. La continuità tra normalità e
patologia implicava nell'individuo Normale la presenza di aspetti patologici e nella patologia la
presenza di aspetti di normalità.

Il bambino, nei primi stadi del suo sviluppo, per Freud era necessariamente un perverso
polimorfo, nel senso che era motivato dalla ricerca di un piacere che ricavava da parti del corpo
diverse da quelle genitali. L’adulto perverso era quindi colui che non era stato capace di
superare con successo una fase che ogni essere umano comunque attraversa.

Fenomeni riconducibili alla nevrosi e la psicosi per loro natura caratterizzavano la vita
quotidiana di tutti i sogni, in quanto soddisfazione allucinatorie di desideri, potevano essere
considerati fenomeni “micropsicotici”, così come lapsus e attiva incavati potevano essere
interpretati quali fenomeni “micronevrotici”.

FORMAZIONE SCIENTIFICA E PRIMI ANNI DI FREUD

Il futuro padre della psicanalisi si formò a Vienna come neurologo. Da un lato elesse
appunto di riferimento Ernest Brücke, esponente di spicco del circolo fisicalistico di
Berlino. Dall'altro, seguiva le lezioni di Franz Brentano. Freud si concentrò ben
presto sulle ricerche neurologiche, ottenendo risultati che gli guadagnarono la stima
dei suoi mentori. Dopo aver condotto alcune ricerche sulla cocaina, Freud ne
raccomandò in un libro l’uso come anestetico.
Si tratta di un grave errore, che gli attirò la pesante critica di aver introdotto” il terzo
fragello dell'umanità” Importante fu un libro sulle afasie, nel quale Freud si opponeva alla
tendenza localizzazionalista, ovvero alla tradizione di ricerca che tendeva a ricondurre a
lesioni specifiche del cervello degli specifici disturbi. A suo avviso le afasie dovevano
invece essere ricondotte a disturbi funzionali.

Prima di iniziare la propria attività, egli poté usufruire di una borsa di studio per un soggiorno
a Parigi, nel 1885. Freud iniziò a seguire le lezioni di Charcot alla Salpetriere, sviluppando
interesse per gli studi sull’isteria. già nel 1883 il suo collega Breuer gli aveva raccontato il
decorso dell’isteria di una sua paziente, Anna O. Breuer aveva constatato come tutti i sintomi
della sua paziente fossero apparsi in momenti specifici della sua vita, che Anna O. non
riusciva a ricordare, se non sotto ipnosi.

Quando però costei poteva ricordare gli episodi legati all’insorgenza dei sintomi, i sintomi
stessi scomparivano. Freud non aveva inizialmente attribuito una particolare importanza al
caso raccontato da Breuer, ma l'esperienza parigina lo convinse a interessarsi all'ipnosi. Se
fosse arco ad attrarre l'attenzione di Freud su questo tema, l'opera di Bernheim lo interessò
in seguito sempre di più. Freud tradusse in tedesco opere tanto di quanto di Bernheim.
Questi utilizzava l'ipnosi come terapia essenzialmente attraverso la suggestione.

Freud la utilizzava soprattutto come mezzo esplorativo. All'origine dell'isteria sarebbe


stato un trauma psichico i cui effetti sarebbero risultati più o meno gravi a seconda di tre
fattori:

1. L’intensità del trauma stesso;


2. La predisposizione soggettiva alla patologia isterica;
3. La possibilità di reagire al trauma in modo adeguato (fisicamente e/o verbalmente).

Il trauma veniva attivamente dimenticato perché il ricordo non era sopportabile dalla
coscienza; il risultato era un blocco dell’energia psichica. Grazie all’ipnosi sarebbe stato
possibile attuare la reazione al trauma (abreazione) che prima non era stata possibile. Il
metodo poteva essere definito catartico. Breuer e Freud non escludevano soprattutto nella
comunicazione preliminare, che anche la suggestione potesse ottenere un certo successo.
Freud si era servito di una tecnica molto simile a quella di Bernheim nel trattamento del
primo dei casi da lui descritti negli studi sull’isteria, quello di Emily von N.

L’ABBANDONO DELL’IPNOSI E LA NUOVA TECNICA TERAPEUTICA

Negli studi sull'isteria, nel trattamento di Anna O., né quello di Emily Von N. e dire altre
pazienti curate da Freud con l'ipnosi risultavano totalmente soddisfacenti. Freud si era già
convinto che occorresse trovare un metodo alternativo all’ipnosi, per diversi motivi:
● La non ipnotizzabilità di alcuni pazienti;
● La non disponibilità di altri pazienti ad essere ipnotizzati;

● La convinzione di Freud che fosse possibile ricordare eventi apparentemente


dimenticati anche senza l’ipnosi;
● Gli effetti collaterali dell’ipnosi, come il possibile risveglio della sessualità nei
pazienti donne.
Una nuova tecnica si sviluppò dalla constatazione che, se si fosse incitato il paziente a
ricordare la prima occasione per l’insorgenza dei sintomi isterici, questi sarebbe sembrato
ottenere dei risultati. Le rappresentazioni evocavano sentimenti di vergogna, dolore,
fastidio; in altre parole sembrava come se una forza difendesse il segreto. Più di frequente si arrivava
a un “anello intermedio” tra il contenuto mentale che aveva indotto il paziente a fermarsi il
contenuto che la difesa copriva.

Né Freud esisteva sui risultati spettacolari della tecnica terapeutica da lui inaugurata. Egli
si proponeva di trasformare” la miseria isterica in infelicità comune”. Nel 1895 era ancora
convinto della possibilità di spiegare i meccanismi nevrotici sulla base del funzionamento
neurofisiologico.

LA NASCITA DELLA PSICOANALISI

Il principale interlocutore freudiano era divenuto Wilhelm Fliess, un medico berlinese


che stava sviluppando delle teorie sui bioritmi e soprattutto sulla bisessualità dell’essere
umano. Freud fini per appropriarsi di quest’ultima idea e ne parlò molto con Otto
Weineger, il quale a sua volta se ne servì come fondamento di un libro che gli diede
immediata notorietà internazionale, ovvero “Sesso e carattere”.

Dato che il libro di Weineger uscì prima che Fliess pubblicasse alcunché in materia, la
circostanza costituisce il motivo di rottura tra Fliess e Freud. Le lettere e le minute teoriche
indirizzate a Fliess costituiscono una preziosa testimonianza del periodo di incubazione delle
teorie psicologiche freudiane. Materiale inviato a Fliess, però, una porzione a parte occupa il
progetto di una psicologia che rimase inedito ma rivela l'intento dell'autore di costruire una
teoria psicologica generale. Il progetto venne accantonato immediatamente.

Abbandonate le varietà del progetto, Freud si sarebbe occupato esclusivamente della realtà
psichica, iniziando a chiamare psicoanalisi la disciplina da lui pian piano costruita. La
psicoanalisi era destinata a svilupparsi come:
● Una teoria generale della mente e delle motivazioni umane;

● Una teoria della psicopatologia;

● Un metodo di cura basato sulle teorie appena citate;

● Ma anche una visione generale del mondo.


Negli anni successivi agli Studi sull’isteria nasceva una teoria generale della psicopatologia
che identificava nella sessualità la sfera di origine di tutte le nevrosi e di alcune psicosi. In
questo senso, Freud distingueva tra psiconevrosi e nevrosi attuali:

1. Le psiconevrosi (isteria da difesa, fobie, nevrosi ossessiva) avevano lontana origine


traumatica e potevano essere curate con metodo catartico, grazie alla liberazione
dell’energia psichica bloccata.
2. Le nevrosi attuali (nevrosi d’angoscia e nevrastenia) derivavano da pratiche sessuali
nocive effettuate nella vita adulta (coito interrotto e eccessiva masturbazione).

L'origine traumatica della psiconevrosi attraversava due fasi: originariamente la persona


veniva iniziata alla sessualità in epoca troppo precoce da un adulto. Da bambini non si
possedevano nozioni sulla natura degli atti ai quali aveva partecipato. il futuro nevrotico
attraversava un periodo di apparente salute mentale. Soltanto con la maturazione degli
organi genitali l’episodio infantile iniziava ad esercitare la sua influenza in quanto trauma.

Quindi, in sintesi, “i traumi infantili agiscono a posteriori come esperienze recenti, ma solo
inconsciamente”. Nella sua prima formulazione, il concetto di difesa si riferiva ad una
condizione della personalità cosciente di fronte a contenuti mentali indesiderati, che induceva
allo sforzo di annullare, dimenticare, considerare come non esistenti tali contenuti.

L'origine dell'isteria da difesa, delle fobie, delle ossessioni avrebbe avuto una medesima radice;
l'esito diverso sarebbe dipeso dal differente destino della “somma di eccitamento”. Il concetto
di difesa era destinato a uno sviluppo importante, ed tuttora considerabile il contributo
teorico più largamente accettato della psicoanalisi nelle altre scienze “psi”.

L'idea della nevrosi come frutto di una seduzione infantile perse importanza agli occhi di Freud
nel giro di pochi mesi. In primis registrava un numero eccessivo di insuccessi terapeutici; Poi
stava iniziando a pensare che, nell'inconscio, fosse difficile distinguere tra ricordo reale e
fantasia; Infine sarebbe stato necessario supporre un numero troppo elevato di casi di
perversione verso i bambini.

Infatti il trauma sessuale infantile sarebbe stato condizione necessaria ma non sufficiente
per indurre la nevrosi. Freud quindi iniziava a supporre che i presunti traumi fossero
in realtà delle fantasie dei nevrotici e che l’esordio infantile della sessualità avesse
un’origine endogena.

L’ALTRA PSICOTERAPIA. IL CASO DI PAUL DUBOIS

Parallelamente a Freud alcuni altri pionieri stavano tentando di elaborare terapie veramente che
fossero una novità e si alle teorie della psicopatologia. Questi studiosi erano perlopiù influenzati
dalla cultura della gestione francese introdotta negli Stati Uniti da William James. Tutti questi
primi “psicoterapeuti” furono messi in ombra dalla potente ascesa della dottrina freudiana.
Prima della psicoanalisi anche in Europa la psicoterapia era per lo più basata sulla suggestione e
comunemente praticata da medici che avevano eletto la psicologia come proprio principale
terreno di interessi.

Dubois, neurologo e psicoterapeuta svizzero, fu un celebre pioniere europeo della


psicoterapia; e anzi probabile che il termine psicoterapia sia stato divulgato proprio dalle sue
opere. Dal 1902 docenti di Neuropatologia all’Università di Berna, Dubois iniziò ad
occuparsi della cura delle malattie c h e i n s e g u i t o s a r e b b e r o s t a t e definite
psicosomatiche e poi delle nevrosi, impiegando una tecnica persuasiva che aveva delle
similitudini con le moderne tecniche cognitive, fondata sulla discussione critica della
soluzione dei propri sintomi.

Dubois faceva uso della logica e del ragionamento per decostruire le credenze connesse agli
stati che disturbavano i pazienti. Dubois usava la relazione tra medico e paziente e il
dialogo come terapia, al punto da essere considerato uno dei massimi esperti internazionali nel
campo.
Sua grande innovazione fu proprio l’uso sistematico del colloquio con il paziente come se
fosse un intervento medico. Per Dubois, il colloquio terapeutico doveva diventare una
tecnica sofisticata della medicina. L'opera di questo medico svizzero mette quindi in crisi
la vulgata storiografica per cui la psicanalisi sarebbe stata la prima psicoterapia basata sul
colloquio.

Nel momento della crisi dell'ipnosi e della suggestione contemporaneamente alla


psicoanalisi si svilupparono anche altri metodi psicoterapeutici che facevano uso della
persuasione; fra questi provi un modello di Dubois fu probabilmente più paradigmatico. Il
suo libro più famoso fu “Le psiconevrosi e i loro trattamenti morali”, in cui l'autore
descriveva e categorizzata tutti gli ambiti d'uso della psicoterapia. Fu anche uno dei primi
critici sistematici dell'inconscio e della sessualità come cause principali dei disturbi mentali.

Per Dubois, i disturbi nascevano da ragionamenti errati e potevano essere corretti con il
sostegno del terapeuta. Per Dubois mentale poteva determinare cambiamenti neurologici e
somatici; Onde la necessità della psicoterapia come strumento per trattare le malattie
fisiche, anche se di origine psicologica. Obiettivo ultimo della psicoterapia era rendere
l'individuo capace di autogestirsi per mezzo dell'esercizio e della ragione. L'influenza
morale del terapeuta modificava lo stato mentale del paziente.

Nel titolo le psiconevrosi e il loro trattamento morale sono riflessi gli elementi di
continuità del modello psicoterapeutico di Dubois. Dubois era certo più vicino di Janet alla
linea di Dejerine; le sue idee rappresentavano probabilmente l'esito più coerente di un
percorso che era iniziato con il trattamento morale che mediante i nuovi mezzi di ricerca
anatomici e fisiologici avrebbe portato a chiarire i legami fra lo psichico e il fisico. Tali
legami risultavano evidenziati proprio dall'efficacia di una psicoterapia che non faceva uso
di nozioni distanti da quelle tradizionalmente mediche.

Nell'introduzione alle psiconevrosi al loro trattamento morale. Lezioni fatte all'università


di Berna, Dejerine definiva la terapia di Dubois esattamente come un perfezionamento del
trattamento morale. Dubois eran chiede il parere che un regime particolare caratterizzato
dal rilassamento, massaggi, riposo, isolamento dalla famiglia avrebbe favorito un miglior
approccio psicoterapeutico razionale con il paziente.

Nel libro del 1904 Dubois, a partire dalla storia della psicopatologia dal punto di vista
della patologia e della neurologia tracciava un'aspra critica ai metodi della psichiatria a lui
contemporanea sostenendo che una psicoterapia fondata sulla “suggestione razionale”
avrebbe potuto compro profitto sostituire i farmaci allora in uso.

La psicoterapia di Dubois era fondata sull’ “educazione della volontà”; egli descriveva il suo
intervento come una pedagogia o ortopedia morale, finalizzata a smontare le autosuggestioni,
alla base di alcune malattie psicogene che egli analizzava, e a responsabilizzare gli individui
fino a giungere a un uso educativo della repressione giudiziaria.

La psicoterapia relazionale avrebbe così soppiantato la pluralità dell'ipnosi della suggestione,


sostituendola con una tecnica soprattutto educativa punto il terapeuta avrebbe dovuto
pervicacemente convincere il malato. Dubois riteneva che la sua psicoterapia avrebbe
contribuito al perfezionamento del regime terapeutico ospedaliero egli descriveva così casi in
cui la sola psicoterapia relazionale si dimostrava efficace nel giro di sei settimane.
Nella parte conclusiva del suo trattato, Dubois metteva inoltre in evidenza l'efficacia della
psicoterapia relazionale somministrata anche senza l'ausilio delle cure psichiatriche. Dubois fu
soprattutto pioniere e sistematizzatore di una psicoterapia in cui da un canto si poteva assistere a
molta abnegazione nel tentativo di curare il malato per mezzo dell'ospedalizzazione, dall'altro si
usava un’ortopedia mentale che infine voleva ricondurre il malato nel solco di una presunta
razionalità.

Il famoso caso freudiano dell'uomo dei Lupi che dopo aver provato ogni sorta di terapia fisica,
aveva pianificato sia una psicoterapia con Freud sia una con Dubois ma, avendo deciso di
intraprendere prima la cura psicoanalitica a Vienna da Freud, non fece più la cura più classica e
razionale con Dubois.
CAPITOLO 3. IL NOVECENTO E IL RADICAMENTO DELLA PSICOTERAPIA

LA PSICOANALISI E L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI

Nel 1899 videro la luce due i testi fondamentali per la storia della psicoterapia: Dalle Indie al
pianeta Marte di Flournoy e L’interpretazione dei sogni di Freud. Entrambi i libri vennero
pubblicati con la data del 1900, per proiettarli nel nuovo secolo. Il testo di Flournoy, che
descriveva soprattutto la vita di mentale di un paziente in un mondo iperuranico, conobbe uno
straordinario successo immediato. L'interpretazione dei sogni, invece, sarebbe divenuto il testo
simbolo della psicanalisi.

Prima dell'interpretazione dei sogni sarebbe stato difficile per qualunque lettore comprendere
l'originalità della psicanalisi: lo stesso Janet considerava gli studi sull’isteria non più di una
conferma delle proprie tesi. Nel progetto di una psicologia era già comparsa l'intuizione che il
sogno consistesse nella realizzazione di un desiderio; l'interpretazione dei sogni riproponeva lo
stesso principio ampliandole però le basi: il sogno tentava fondamentalmente da pagare un
desiderio per via allucinatoria e attraverso compromessi. Nel settembre del 1897 Freud lo mise
a parte di una nuova idea.

Si trattava della convinzione che il desiderio fondamentale del bambino di sesso maschile
consistesse nel conquistare il posto del padre accanto alla madre. Questo desiderio Freud
lo aveva riconosciuto nella sua autoanalisi. Riteneva anche di vederlo rappresentato
velatamente nell’Edipo re di Sofocle, dove Edipo diventa re di Tebe uccidendo il padre
Laio e sposando la madre Giocasta.

Tuttavia, secondo Freud, i miti, come i sogni, si formavano occultando il desiderio dietro
trasformazioni che sembravano capovolgerne il significato. Nasceva così l’idea che si
sarebbe cristallizzata nel concetto del “complesso di Edipo”. La possibilità di interpretare i
sogni era un modo per comprendere i contenuti inconsci della mente. L'interpretazione
dei sogni teorizzava come avvenisse la trasformazione dei contenuti originari, autentici del
sogno (contenuto latente), per assumere la forma ricordata al risveglio (contenuto
manifesto).

Secondo Freud la deformazione (lavoro onirico) avveniva tramite una censura che
operava inconsciamente. Il lavoro onirico operava mediante:

● Condensazione, attraverso la quale più elementi del contenuto latente venivano


unificati;
● Spostamento, atto a porre gli elementi decisivi del contenuto latente in secondo piano;

● Considerazione della raffigurazione, onde il pensiero originario veniva convertito in


una storia;
● Uso dei simboli, per mascherare oggetti, soprattutto riconducibili alla sessualità.

Il lavoro onirico se avessi utilizzato unicamente questi procedimenti, avrebbe condotto a un


risultato caotico:
● Attraverso l’elaborazione secondaria, gli elementi modificati del sogno venivano
riorganizzati in una storia dotata, nei limiti del possibile, di senso, e comunque
raccontabile.

I contenuti del sogno non erano interamente riconducibili ai desideri del sognatore: in primo
luogo, perché nel sogno sarebbero stati interpolati spesso riferimenti ad un fatto reale accaduto
al sognatore, in genere risalente al giorno prima. In secondo luogo per via di un’altra funzione
fondamentale del sogno, quella di custode del sonno. Secondo Freud l’uomo sognerebbe anche
per continuare a dormire: a tale scopo stimoli somatici percepiti durante il sonno sarebbero
stati incorporati nel sogno: si poteva trattare sia di stimoli endosomatici (spesso all’origine di
sensazioni angosciose nel sogno), sia di stimoli esterni.

Ormai sappiamo con certezza che invece di sognare per dormire l’uomo dorme per sognare.
Alla ricostruzione dei meccanismi che inducono la formazione del sogno, Freud riteneva di
essere legittimamente arrivato nel sottoporre i sogni ad un procedimento analitico,
partendo dai singoli elementi e suggerendo al sognatore di effettuare libere associazioni.
Sarebbero state le associazioni spontanee a indirizzare l’interprete sulla strada che conduceva
a individuare i desideri nascosti. A suo avviso sarebbe stato possibile ricondurre tali desideri
una serie piuttosto limitata di temi.

L'interpretazione dei sogni non costituiva soltanto un contributo fondamentale alla storia della
psicoterapia essa impostava anche un modello della mente e una teoria delle motivazioni
umane.
Il cosiddetto modello topico, che suddivideva la mente in conscio (o coscienza), preconscio
e inconscio.
● Il conscio corrispondeva a ciò che era immediatamente presente nella mente di un
essere umano;
● Il preconscio constava di contenuti mentali che non erano coscienti ma che potevano
diventare tali senza difficoltà.
● L’inconscio constava di contenuti che non erano accessibili alla coscienza. quei
contenuti che erano stati banditi dalla coscienza attraverso il meccanismo di
rimozione.

Rispetto agli Studi sull’isteria, il concetto di rimozione era definitivamente cambiato: la


dimenticanza dovuta alla rimozione non era più in nessun caso attuata con il contributo
della volontà cosciente. I contenuti dell’inconscio potevano essere soltanto dedotti dalle loro
manifestazioni indirette: quelle che sarebbero state chiamate formazioni di compromesso. I
pensieri coscienti costituivano per Freud solo una minima parte del mondo mentale.
L’attività mentale inconscia presentava dei caratteri del tutto differenti da quella cosciente.

Nel mondo conscio vigeva la razionalità e dominava il principio di non contraddizione: i


processi mentali che vi sorgono erano denominati da Freud processi secondari, per distinguerli
dai processi primari che si sarebbero svolti nell’inconscio. La teoria della motivazione
delineata da Freud nei contributi anteriori all'interpretazione dei sogni era fondata sul
cosiddetto principio di costanza. In base a tale principio la mente tendeva a mantenere uno
stato per quanto possibile esente da stimoli.
Quando sopravveniva una qualche forma di eccitazione, un’attività di tipo essenzialmente
motorio tendeva a ripristinare appena possibile lo stato di quiete. Nella nuova concezione,
il principio di costanza veniva ancora considerato un modello esplicativo valido, ma solo
per la primissima parte della vita umana. Ben presto l’infante avrebbe capito che la
condizione di quiete perenne era meno soddisfacente del suo ripristino dopo l’eccitazione
dovuta ad uno stimolo.

L’esperienza di appagamento veniva quindi associata alla condizione di bisogno; ogni volta
che il bisogno si ripresentava, il bambino avrebbe cercato di riprodurre la percezione che
aveva condotto all’esperienza appagante. Se la percezione reale non poteva essere
attuata, il bimbo avrebbe provato a riprodurla in modo allucinatorio. Questo processo avrebbe
continuato ad attuarsi nel corso di tutta la vita: i primi bisogni impellenti corrispondevano ai
desideri, e la loro soddisfazione all’appagamento dei desideri stessi.

Alla base del funzionamento della mente umana non vi sarebbe stato più il principio di
costanza ma il principio di dispiacere (o principio di piacere). Freud disegnava già con
l'interpretazione dei sogni, l’idea della mente condizionata da un “gioco di forze”. I desideri
tendevano alla soddisfazione ma la censura tendeva invece a rimuoverli. Le forze potevano
essere valutate anche in termini di intensità; la vita psichica sarebbe stata caratterizzata da un
determinato quantitativo di energia. Più erano investiti di energia e desideri, gli impulsi
inconsci, più energia sarebbe servita alla censura per bloccarli.

Nel nevrotico la quantità di energia impiegata per bloccare gli impulsi rimossi sarebbe
stata talmente rilevante da rendere la condotta della persona impacciata. Lo scopo della
psicoterapia psicoanalitica era quindi l’acquisizione alla coscienza degli impulsi inconsci,
in modo che l’energia impiegata dalla censura venisse sbloccata e divenisse utilizzabile per
la psiche cosciente.

LA TEORIA DELLE PULSIONI

La concezione freudiana del sogno aveva già condotto la psicanalisi ad aderire all'idea
paradigmatica di continuità fra normale e patologico. Il sogno era un'esperienza quotidiana per
ogni essere umano, eppure corrispondeva a un fenomeno micropsicotico, caratterizzato com'era
da eventi assimilabili alle allucinazioni. I pensieri onirici latenti erano riconducibili a desideri
presenti nella persona normale quanto nel nevrotico. Che non vi fosse differenza qualitativa tra
la condizione di normalità e quella di nevrosi rimase una condizione di Freud per tutta la vita.

I saggi sul lapsus, atti mancati e motti di spirito completavano il quadro. Secondo Freud ogni
evento mentale era significativo. La sua adesione al determinismo fisico non fu mai
in discussione i tuoi punti ogni evento nel mondo fisico aveva una specifica
causa. Questa prospettiva Freud la estendeva alla propria concezione della
mente; Sostenendo anche il determinismo psichico. Se l’identificazione delle cause
di un evento mentale non era possibile con la certezza e la precisione proprie della fisica, la
circostanza era dovuta al principio di sovradeterminazione.

Affermare che un evento psichico fosse sovradeterminato significava riconoscere che le sue
cause erano molteplici e riconducibili a una dinamica molto più articolata. Una simile
impostazione giustificava il fatto che alcuni aspetti della condotta umana rimanessero
inaccessibili all'analisi. I lapsus e gli atti mancati in genere erano nell’interpretazione di
Freud, il frutto della pressione dall’inconscio di impulsi contrari alla volontà cosciente.
Questi premevano di essere realizzati e venivano in generale bloccati dalla censura. In alcune
occasioni un impulso trovavo una sua realizzazione parziale, secondo la stessa logica della
formazione di compromesso. Questi atti micro nevrotici quotidiani costituivano certamente
un motivo di interesse per Freud. Divenivano però importanti anche all'interno della
psicoterapia, segnalando temi rispetto ai quali il paziente manifestava indirettamente
problematiche inconsce sottese. Commettere un lapsus negando un’interpretazione poteva
costituirne all’opposto una conferma.

I processi inconsci di formazione dei lapsus e degli atti mancati erano assimilabili ai
meccanismi di condensazione e spostamento propri dei sogni, esattamente come sarebbe
avvenuto nei motti di spirito virgola che erano però involontari. La teoria delle pulsioni, ma
soprattutto la teoria dello sviluppo a essa collegata costituire un'ulteriore passo di Freud
nell'adozione del principio di continuità tra normalità e patologia.

Freud presentò il suo terzo e definitivo modello della motivazione nei Tre saggi sulla teoria
sessuale, opera che fissava per la prima volta alcuni concetti destinati a rimanere un cardine
indiscusso della teoria psicanalitica. La cosiddetta pulsione veniva definita come un concetto
limite tra psichico e somatico o come la rappresentanza psichica di un flusso continuo di
stimoli di natura endosomatica. La pulsione era caratterizzata da:
● La sua fonte, cioè l’organo da cui ha origine il flusso (appunto la pulsione);

● La meta, cioè la soddisfazione dello stimolo attraverso la scarica della tensione;

● L’oggetto, cioè che consente la scarica della tensione

La pulsione sessuale veniva percepita come necessaria la stregua della necessità di assumere
cibo per sopravvivere. Il concetto di pulsione non coincideva però con il concetto di istinto;
questo ultimo era normalmente come la predisposizione a un comportamento standardizzato
identico per tutti i membri della specie (al contrario della pulsione) e aveva la sua origine
dall’ereditarietà (quindi era solo somatico).

Freud scrisse in seguito che l'oggetto è “l'elemento più variabile della pulsione”. Nella
sessualità adulta l'aspetto fondamentale è costituito dalla soddisfazione dell'impulso, mentre
l'identità assumeva un ruolo accessorio. Ogni tentativo freudiano di reagire alle critiche
risultò sempre viziato da un'impostazione che prevedeva l'altro come mezzo e non come fine.

La concezione delle pulsioni comportava molteplici conseguenze per una teoria che voleva
spiegare il rapporto tra normalità e nevrosi. Seppure Freud si mostrò disposto in linea di
principio ad ammettere diversi tipi di pulsione, considerava però necessario non postulare se
non i tipi “non riducibili” ad altri.

LA TEORIA DEL TRANSFERT

Parallelamente alla teoria delle pulsioni nasceva la teoria del transfert. L'espressione era già
stata utilizzata già negli Studi sull’isteria per identificare la natura del tutto peculiare del
rapporto tra terapeuta e paziente. Una terapia interrotta per abbandono da parte di una paziente
isterica in cura da Freud (Caso clinico di Dora). Il transfert era considerato da Freud come la
copia o la riedizione «degli impulsi e delle fantasie che devono essere risvegliati e resi
coscienti durante il progresso dell’analisi», nella quale alla persona che aveva sollecitato
originariamente tali impulsi e fantasie veniva sostituita la figura dell’analista. Di
conseguenza al paziente accadeva di rivivere esperienze psichiche del passato entro la
relazione con il terapeuta. Verso di lui il paziente sviluppava sentimenti già provati in
precedenza verso un’altra persona. Tali sentimenti potevano avere un carattere più o meno
inconscio. Talora si esprimevano impulsi perfettamente coscienti, dei quali però era del
tutto inconscio per il paziente il carattere di ripetizione.

Nel caso del transfert erotico sarebbe risultato difficile per l’analizzando comprendere sia
che l'analista fosse oggetto d'amore solo per il ruolo che rivestiva, Sia che l'attrazione
avesse un carattere del tutto irrealistico. Per Freud il transfert era un requisito necessario di
qualunque analisi, che non poteva essere evitato e che la sua risoluzione costituiva uno degli
obiettivi da raggiungere nel corso del trattamento: le patologie curabili con la psicoanalisi
sarebbero state poi definite nevrosi da transfert in contrapposizioni con le nevrosi attuali. La
formazione del transfert veniva così definita il requisito essenziale per la possibilità di una
terapia analitica.

Ben presto però divenne chiara la possibilità che al transfert del paziente potesse
corrispondere il controtransfert dell’analista. L’analista poteva trovarsi nella condizione di
rispondere ai sentimenti dell’analizzando con sentimenti complementari. Freud cerco di
chiarire che la posizione dell’analista non dovesse però perdere la neutralità, soprattutto di
fronte all’amore di transfert. Particolarmente delicata risultava la posizione dell’analista di
sesso maschile nei confronti di una paziente di sesso femminile: «il terapeuta doveva
riconoscere che l’innamoramento della paziente era dovuto alla situazione analitica».

FREUD E GLI ALBORI DEL MOVIMENTO PSICOANALITICO

La collaborazione di Freud con Breuer si era definitivamente esaurita con la pubblicazione degli
studi sull’isteria. L’amicizia con Fliess era il volgere del secolo definitivamente compromessa.
Freud si trovava virtualmente senza punti di riferimento, allorché uno dei suoi primi pazienti
gli propose di organizzare delle riunioni periodiche per discutere di temi psicoanalitici.
Nacquero così nel 1902 le “Serate psicologiche del mercoledì”.

Se all'inizio i membri del gruppo si limitavano ad ascoltare Freud, nel giro di qualche anno i
loro interventi presentarono sufficiente interesse perché venisse presa la decisione di tenere
un verbale che ne riassumesse i contenuti. Ciò avvenne nel 1906 e l'incarico di segretario
verbalizzante venne affidato a Otto Rank. Rank svolse il suo compito fino al 1915. Lo stesso
Rank e Alfred Adler furono sicuramente i componenti del gruppo che emersero prima degli altri
per la loro originalità.

Il primo era un filosofo, interessato inizialmente a utilizzare la psicoanalisi come strumento per
interpretare il mito e la cultura. Il secondo invece era un medico che tendeva a
considerare i conflitti individuali come riflesso del conflitto sociale. Malgrado i testi sulla
psicopatologia della vita quotidiana e sul motto di spirito incontrassero un notevole
successo, tutto il gruppo dei seguaci di Freud fu inizialmente costituito da soli ebrei ennesi.
Nel 1906 arrivarono però importanti segnali di interesse dal gruppo di ricerca dell’ospedale
Burghölzli di Zurigo.

In particolare uno degli assistenti di Breuer, Carl Gustav Jung, aveva messo a punto un
“esperimento associativo” che sembrava confermare le ipotesi sull’inconscio formulate da
Freud. Jung prese quindi ufficialmente una posizione a favore di Freud in un congresso di
psichiatria a Baden Baden. Freud e Jung iniziarono una fitta corrispondenza. Sebbene lo
svizzero non accettasse tutte le idee freudiane (in particolare la concezione della libido come
energia sessuale), il padre della psicanalisi cominciò a considerarlo come una sorta di
collaboratore ideale.

Jung e Freud si incontrarono per la prima volta nel 1907. Nel 1909 sia Freud sia Jung vennero
invitati alla Clark University per un ciclo di conferenze il numero degli allievi di Freud cresceva
al punto da suggerire l'istituzione prima di riviste che costituissero l'organo del movimento e poi
di congressi internazionali specifici. Venne creato l'annuario per le ricerche psicoanalitiche e
psicopatologiche del quale Freud assunse la carica di direttore Jung quella di redattore. In
occasione del Congresso del 1908, venne fondato un'associazione psicoanalitica internazionale.

Jung ne fu il primo presidente, Adler assunse la Presidenza della società di Vienna. Il problema
del movimento psicoanalitico non era soltanto confutare le critiche degli avversari ma anche
isolare coloro che ritenevano di applicare le teorie freudiane nella pratica medica, anche se non
le avevano ben capite. Alfred Adler stava sviluppando una teoria sempre più indipendente dalla
psicoanalisi. Nella cosiddetta psicologia individuale i desideri sessuali perdevano significato; la
motivazione principale delle azioni umane era costituita dalla volontà di potenza; la causa della
psicopatologia era sempre originata da un senso di inferiorità legato alla presunta o reale
inadeguatezza di uno o più organi del corpo.

Adler uscì dal movimento psicoanalitico nel 1911. A sua volta Carl Gustav Jung non abbandonò
la propria idea che la libido non fosse essenzialmente sessuale e iniziò a sviluppare la teoria di
un inconscio trans-personale. Il motivo principale della rottura con Freud fu la proposta,
avanzata nel Congresso psicoanalitico di Monaco, che nell’ambito della psicologia del profondo
fossero possibili teorie differenti, che corrispondevano a diversi tipi psicologici.

Nel 1914 anche Jung uscì definitivamente dal movimento. Nel frattempo Freud aveva creato una
sorta di “Comitato segreto” con coloro che aveva selezionato come collaboratori più promettenti
o almeno più fedeli: Ferenczi, Rank, Jones, Abraham. Non solo gli avversari della propria teoria,
ma anche i sedicenti alleati che non lo accettavano integralmente erano gli occhi di Freud
vittime di resistenza. Sarebbe stato l'inconscio a spingere tutti loro a percepire come pericolose
per il proprio equilibrio conscio le profonde verità delle quali la psicanalisi era portatrice.

LA CODIFICAZIONE DELLA TECNICA PSICOANALITICA

L'idea di scrivere un manuale sulla tecnica psicanalitica era già concreta prima del viaggio
negli Stati Uniti. Freud finì per considerare inopportuno pubblicare un volume, la cui lettura i
medici potessero considerare di per sé sufficiente, per praticare in proprio la psicoanalisi. Forse
lo scrupolo più importante era legato al rischio di standardizzare troppo un procedimento che
doveva rimanere elastico. Freud pubblicò una serie di brevi saggi Tra il 1911 e il 1914. In
italiano sono raccolti in due serie conosciute come Tecnica della psicoanalisi e Nuovi consigli
sulla tecnica della psicoanalisi.

Freud ebbe occasione di definire come “regola psicoanalitica fondamentale” un principio: il


paziente “deve comunicare senza sottoporre a critica tutto ciò che gli viene in mente”. Veniva
però anche esplicitato il corrispettivo della stessa regola dal punto di vista del terapeuta: questi
“deve mettersi in condizione di utilizzare tutto ciò che gli viene comunicato ai fini
dell’interpretazione”. A tal fine i principi fondamentali erano costituiti:

● Dal non prendere nota di nulla in particolare di quanto il paziente dicesse;

● Dall’attenzione liberamente fluttuante, una modalità di ascolto caratterizzata


dall’assenza di influssi della coscienza.

Il risultato dell'impiego dell'attenzione fluttuante era che dalla memoria dell’analista


affioravano particolari di quanto aveva ascoltato dal paziente non appena questi produceva del
materiale che fosse riconducibile a tali particolari.

Anche se la formazione degli analisti era ancora un processo informale, Freud riteneva già che,
oltre alla conoscenza della teoria, anche la conoscenza del proprio inconscio costituisce un
requisito indispensabile per il potenziale terapeuta. Era indispensabile che il processo di ascolto
e rievocazione del materiale prodotto dal paziente non fosse influenzato da questioni personali
irrisolte. A partire dai Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico, egli iniziò a
prescrivere una vera e propria analisi dell’analista.

Le modalità e i tempi dell'analisi di formazione furono oggetti in seguito di codifiche sempre


più articolate. Le raccomandazioni fondamentali per il terapeuta, oltre alla conoscenza di sé,
comprendevano altri imperativi. In primo luogo l'analista doveva “essere opaco per
l’analizzato”. ciò si traduceva tanto nel dover rifuggire le tentazioni di rivelare aspetti della
propria vita e della propria personalità; quanto nell'evitare interventi suggestivi.

Altrettanto basilare appariva a Freud la regola di non indicare obiettivi al paziente di evitare
qualunque tipo di istruzione. L'analisi doveva infatti evitare ogni sforzo di attenzione o volontà
da parte del paziente.

La cornice del trattamento acquistava gli occhi di Freud un particolare rilievo: ritmo,
tempistica, pagamento, posizione di paziente e analista nello studio dove si effettua la terapia
venivano specificatamente codificati. Anzitutto era opportuno riservare un breve periodo
preliminare al fine di effettuare una diagnosi: dato che solo le nevrosi non le psicosi erano
curabili con efficacia, era ben riservarsi la possibilità di non prendere in carico psicotici.

Fondamentale risultava assegnare a ogni paziente ore fisse nell’agenda del terapeuta, che
dovevano essere pagate anche se circostanze apparentemente di forza maggiore mettevano il
paziente nella condizione di non rispettare l'appuntamento; secondo Freud, le assenze
risultavano più spesso determinate dalla resistenza al trattamento.
Sconsigliabile risultava essere il trattamento gratuito,non solo per l'ovvia ragione che questo
avrebbe presentato una perdita economica per l'analista, ma anche perché l'esperienza gli
aveva insegnato che l'assenza di pagamento generava nuovi problemi nel trattamento.

Un suggerimento era quello di far stendere il paziente sul lettino durante la seduta,
collocandosi dietro il paziente stesso. Si trattava di un uso che aveva in primo luogo un
significato storico, in quanto richiamava il trattamento ipnotico. In secondo luogo, Freud
additava motivi pratici, legati sia alla tranquillità del terapeuta sia la possibile distrazione
dell’analizzato di fronte all'espressione dell'analista.

Il trattamento pensato originariamente da Freud prevedeva sedute tutti i giorni, salvo la


domenica e i giorni festivi. Solo per i casi meno gravi e per le fasi più avanzate del
trattamento si poteva scendere a tre sedute settimanali. Questa cadenza si applicava a un
trattamento che poteva estendersi tra i sei e i dodici mesi. I tempi della terapia si sarebbero
allungati a fronte di una diminuzione del ritmo settimanale.

Per favorire l’emergere dei contenuti inconsci, il metodo migliore, dal punto di vista freudiano,
era quello di non fissare un punto di partenza specifico. L’inizio del trattamento consisteva nel
capire, da parte dell’analista, cosa il paziente sapeva di sé stesso. La libertà di espressione e il
paziente doveva essere totale, salvo naturalmente rispettare la regola fondamentale, evitando di
mettere pensieri che sembrassero ai suoi occhi senza importanza o addirittura insensati.

Il suggerimento di Freud era quello di invitare il paziente a comportarsi con i propri pensieri
“come un viaggiatore che segga al finestrino di una carrozza ferroviaria”. Sempre al fine di
evitare le resistenze, era sconsigliabile che il paziente preparasse prima della seduta il materiale
di cui parlare. Il paziente doveva anche evitare di discutere lo svolgimento della terapia al di
fuori delle sessioni analitiche, perché troppo forte sarebbe stato il rischio che il materiale più
significativo emergesse lontano dalla presenza del terapeuta.

Da parte sua il terapeuta avrebbe potuto iniziare ad interpretare, cioè a comunicare al paziente
il significato dei contenuti che emergevano dall’inconscio, soltanto quando si fosse instaurato
il transfert. Solo dopo che legame con il terapeuta si fosse rinsaldato il paziente poteva
accettare di ascoltare ciò che la rimozione aveva ricacciato nell’inconscio. Rispetto agli
studi sull'isteria Freud aveva abbandonato la convinzione che la pura e semplice
conoscenza delle dinamiche inconsce fosse di per sé un fattore efficace per la guarigione
della nevrosi. Si era reso infatti conto che la malattia psichica presentava anche dei
vantaggi pratici per l'ammalato e definì questo fenomeno come “tornaconto secondario”.

Proprio la riluttanza a privarsi dei vantaggi che comportava il permanere della


problematica psiconevrotica induceva le cosiddette resistenze. Quindi, la volontà di superare
la sofferenza indotta dalla nevrosi costituiva il “motore primo” della terapia. La volontà
non sarebbe stata quindi di per sé in grado di condurre il paziente alla guarigione: sia perché
della guarigione il paziente non conosceva da solo la strada; sia perché al paziente mancava la
necessaria energia.

Il trattamento è analitico, nella concezione freudiana, rimediava ad ambedue le carenze. La


resistenza da un lato trovava attraverso il transfert la sua più intensa forma di espressione. Era
proprio la presenza del transfert a consentire la vittoria sulle resistenze. La terapia si sarebbe
conclusa quando anche il transfert si sarebbe risolto. Si potrà tra l'altro constatare come sia
Adler sia Jung avessero iniziato già prima di conoscere Freud il percorso che li avrebbe
condotti affondare rispettivamente la psicologia individuale e la psicologia analitica.

ALFRED ADLER E LA NASCITA DELLA PSICOLOGIA INDIVIDUALE

Anche se ambedue erano ebrei e si formarono nell'ambiente medico viennese, Adler e


Freud provenivano da famiglie con radici geografiche e sociali molto diverse.

Freud era stato testimone dell'antisemitismo fin da ragazzo. La famiglia di Adler proveniva
dal Burgenland, dove la sua etnia aveva goduto di una migliore condizione. Questo
corrispose a un'identificazione molto più limitata da parte di Adler con l'ebraismo: al
contrario degli scritti freudiani le opere di Adler non sembrano mostrare una particolare
influenza della cultura ebraica.

Malgrado i problemi economici attraversati dal padre, Freud visse sostanzialmente in un


ambiente borghese, mentre Adler trascorse la sua infanzia nei sobborghi più poveri di
Vienna. Ciò è riflesso dal fatto che l’impegno sociale di Adler risultò molto più marcato di
quello di Freud. Freud crebbe sotto una disciplina piuttosto rigida, mentre Adler
trascorse la sua infanzia senza troppi vincoli.

Di fatto la teoria freudiana dello sviluppo si incentra sul rapporto con i genitori, mentre per
Adler il rapporto con i pari assumeva certamente una maggiore importanza. Né stupisce che
le prese di posizione che Adler assunse a favore dell'emancipazione femminile e contro l'idea
della sessualità come fulcro di tutti i problemi psicopatologici fossero rispecchiate da una
giovinezza caratterizzata da disinibite frequentazioni con l'altro sesso.

Durante i suoi studi di medicina, Adler aderì inizialmente al marxismo, salvo prenderne ben
presto le distanze, perplesso dalle rinunce alla libertà individuale imposte dalla posizione
comunista rivoluzionaria. Adler si spostò dunque su una posizione socialdemocratica e
riformista, che mantenne per tutta la vita.

Nei suoi primi anni di attività Adler si occupò di medicina del lavoro e dell'influenza delle
condizioni sociali sulla salute individuale. La sua prima monografia fu un Manuale per la
salute dei sarti, che già documentava il suo interesse verso il rapporto tra medicina,
lavoro e condizione sociale. La sua attività politica e pubblicistica seguente mirava a
promuovere l'igiene pubblica coinvolgendo i medici non solo nella cura dei più poveri, ma
anche nella funzione di educatori. Al 1904 risale la sua conversione al protestantesimo. Se
Freud tesa a sottolineare sempre di più la propria identità di “ebreo ateo”, Adler assunse un
atteggiamento ecumenico.
IL PERIODO PSICOANALITICO DI ADLER

L'incontro con Freud avvenne nel 1902, in circostanze non documentabili. Di fatto Adler fu
uno dei primi quattro frequentatori delle serate del mercoledì promosse da Freud. Il primo
scritto di rilievo di Adler, lo Studio sull’inferiorità degli organi, nacque in seno al movimento
psicanalitico. Si trattava indubbiamente della prima opera che manifestasse una certa
originalità rispetto a Freud.

La sua presentazione suscitò subito perplessità e attacchi da parte degli allievi di Freud, mentre
sembro attirare l'interesse di Jung Freud mostro di considerarlo una sorta di completamento alle
sue idee sul piano fisiologico. Adler attuava una sorta di compromesso fra tre diverse istanze:
● La formazione medica, cui era ancora pienamente legato;

● La psicoanalisi, della quale comprendeva l’importanza storica;

● Una dottrina nascente, già avviata in una direzione alquanto personale.

Alla prima era legata alla convinzione che i fattori costituzionali e malattie fisiche fossero
responsabili della nascita di molte nevrosi. L’idea centrale di Adler era infatti che la
psicopatologia derivasse dall’inferiorità di un organo che generava tipicamente un’attenzione
soggettiva per l’organo stesso. Questa attenzione si traduceva in un tentativo di
compensarne l’inferiorità.

Adler era convinto anche che la predisposizione dell’inferiorità organica fosse legata
all’ereditarietà. Con questa posizione Adler si riavvicinava ideologici francesi della
degenerazione. Il concetto di compensazione era destinato a divenire uno dei cardini della
psicologia adleriana. Nello studio sull’inferiorità degli organi almeno due spunti centrali
potevano ancora collocare all’interno della teoria psicoanalitica

Egli sosteneva infatti che la concentrazione sull’organo “inferiore” potesse innescare il


processo nevrotico soprattutto qualora la superficie corporea corrispondente costituisse una
zona erogena. Soprattutto riteneva che “ non esiste inferiorità organica senza inferiorità
sessuale”. Già L’aggressività istintuale e nella nevrosi, collocava però il suo autore su
un'orbita assai eccentrica rispetto a Freud. Adler vivo postulava l’idea che l’aggressività
costituisse una pulsione non riconducibile alla libido sessuale.

Se anche Otto Rank stava cominciando a pensare a una pulsione sadomasochista, Adler si
spingeva oltre e “vanta la separazione del satanismo dalla sessualità”. L'atteggiamento di Freud
verso Adler passò da una relativa tolleranza una sempre maggiore insofferenza. In una lettera
Jung del 1909, Freud dichiarava che non avrebbe voluto essere certo ritenuto responsabile per
gli scritti di Adler. Forti perplessità vennero espresse da Freud anche verso la conferenza
sull’ermafroditismo psichico.
Freud scrisse in seguito a Ferenczi di aver deciso di nominare Adler presidente della società
psicanalitica di Vienna. Sempre nel 1910, Adler assunse la condirezione del Zentralblatt. Tra la
fine del 1910 e inizio Freud già rivelava ai propri intimi che lo considerava un nevrotico e che
aspettava solo la giusta occasione per allontanarlo. Una serie di sedute ebbe per oggetto una
relazione di Adler e la sua discussione la relazione era incentrata sull'idea che il tentativo di
compensazione del senso di inferiorità si attuasse essenzialmente nella forma di una protesta
virile ovvero di un tentativo di riaffermazione della dignità maschile del nevrotico. Freud
chiese e ottenne prima le dimissioni di Adler dalla Presidenza della società e poi dalla
codirezione della rivista.

LA PSICOLOGIA INDIVIDUALE COME DISCIPLINA INDIPENDENTE

La prima sistematizzazione delle idee di Adler dopo la rottura con Freud venne pubblicata
nella monografia il temperamento nervoso. Si trattava tra l'altro della prima occasione in
cui Adler presentava il proprio pensiero come psicologia individuale. Si tratta di un vero e
proprio manifesto, che conteneva una serie di svolte decisive, sia rispetto all'opera
freudiana, sia rispetto ai precedenti scritti di Adler stesso.

Adler escludeva definitivamente l’idea che la nevrosi fosse legata a un” sostrato
organico” o comunque a una “predisposizione organica”. Al contrario la psicopatologia
“era determinata dall’atteggiamento che ( una persona) adotta di fronte alla logica inflessibile
della vita sociale”, e più in particolare “da un sentimento di inferiorità”. Non veniva
abbandonato il principio secondo cui il quale il senso di inferiorità potesse essere legato
alla debolezza di un organo, ma le conseguenze di tale debolezza venivano considerate
esclusivamente sul piano della vita psichica.

Inadeguatezza soggettiva si rifletteva cioè in un “mancato adattamento all'ambiente”. La


psicologia individuale escludeva in primo luogo che la libido sessuale fosse all’origine delle
nevrosi: il principale fattore motivazionale era infatti la “volontà di potenza” rispetto alla quale
la sessualità era subordinata. Il ruolo dei desideri infantile di carattere incestuoso veniva
decisamente negato da Adler. La nevrosi non era semplicemente “determinata da cause”, ma
piuttosto “volta ad un fine”.

Tale fine consisteva “in un’esaltazione del sentimento della personalità”. Il nevrotico
partiva da un tentativo di ricercare una meta importante che rendesse la vita sopportabile:
ciò che trasformava in patologia la sua attività erano lo sforzo incessante, la tensione esagerata,
il tentativo continuo di prevenire ogni ostacolo che lo separava da un risultato tendenzialmente
“fittizio”.

Adler era esplicitamente debitore nei confronti della filosofia del “come se”, che aveva
descritto
la vita umana come dominata da finzioni, ovvero assunti di base falsi ma considerati veri.

La patologia individuale era caratterizzata, nella concezione adleriana, da una dinamica


simile: il nevrotico proseguiva il proprio fine sulla base di presupposti errati ma non per
questo meno efficaci sul piano motivazionale. Se all'origine della sofferenza era il
sentimento di inferiorità, la nevrosi e la psicosi erano “tentativi di compensazione”.
Rispetto a Freud mancava a Adler anche l'aspirazione sviluppare i propri contributi in una
teoria scientifica.

Il carattere nevrotico si esprimeva come una serie di routine immutabili che avevano lo
scopo di difendere la persona dalla consapevolezza della realtà e mantenerla concentrata
sulle proprie finzioni. La strategia terapeutica suggerita da Adler nel temperamento nervoso
era quella di far comprendere il significato di queste routine. Anche per Adler, come per
Freud, il paziente resisteva al cambiamento, ma per motivi differenti “il paziente rinforza i
suoi mezzi di difesa quando ha il presentimento che rinunciando alla sua routine […] egli
va incontro a una disfatta”

Di fronte alle resistenze il terapeuta avrebbe dovuto sforzarsi di” distruggere nell'
ammalato il suo partito preso nevrotico”. Iscritti immediatamente successivi al
temperamento nervoso sembravano improntati a una radicalizzazione, dovuta
probabilmente all'intento di riguadagnare terreno rispetto al movimento psicanalitico. Vi si
affermava infatti che “ogni nevrosi può essere considerata come un tentativo culturale non
realizzato per liberarsi da un sentimento di inferiorità” e che “tutta la volontà e tutte le
tendenze del nevrotico sono sottomesse alla sua politica di prestigio”, cioè alla condotta
indirizzata a ottenere considerazione da parte degli altri.

Nell'ottica adleriana, la nevrosi doveva essere considerata in un contesto più ampio rispetto
alla prospettiva psicanalitica: essa consisteva in una reazione alle costrizioni della società
che si traduceva in una contro-costrizione. Tra i diversi aspetti necrotizzanti della società,
vi era secondo Adler il maggior apprezzamento delle caratteristiche considerati
tipicamente maschili rispetto a quelle femminili.

I diversi quadri psicopatologici conservavano un tratto comune: servire “al malato da


pretesto per sottrarsi alla vita sociale”, mentre la guarigione esigeva “la trasformazione del
soggetto grazie a un'azione pedagogica”. Il quadro delle condizioni per lo sviluppo di una
nevrosi si ampliava progressivamente, fino a comprendere “stati di inferiorità d'organo”.

Anche secondo Adler, come per Freud, le prime esperienze che originavano la nevrosi
erano molto precoci. Già prima di compiere il secondo anno di vita il bambino interagiva
con l’ambiente in modo da influenzarlo. L’uso dell’interpretazione continuava a essere lo
strumento essenziale per la psicoterapia. I sogni continuavano a rappresentare un elemento
importante per la comprensione della psicologia del paziente. Il sogno non costituiva un
appagamento di desideri, ma il tentativo di prevedere di risolvere un problema.

L'intelligibilità del sogno non era dovuta alla censura ma al suo essere “un fenomeno
accessorio”. Anche l'idea che Adler facesse almeno del concetto di inconscio era
contraddetta dagli iscritti adleriani. Alcune delle condizioni del setting risultavano simili a
quelle del trattamento freudiano: stabilire in anticipo la frequenza e l'orario delle sedute,
garantire la discrezione, assumere un atteggiamento neutrale. Adler prevedeva
esplicitamente la possibilità di un trattamento gratuito.

Parimenti peculiare era l'idea che lo sviluppo della nevrosi potesse essere pervenuto con
l'educazione, tanto che ben presto la psicologia individuale iniziò a proporre una propria
specifica pedagogia. Nel movimento adleriano ebbe infatti un posto specifico la
fondazione di scuole secondo un modello pedagogico ispirato ai principi
socialdemocratici, che attribuiva grande importanza alle esperienze dei bambini.

CARL GUSTAV JUNG E LA NASCITA DELLA PSICOLOGIA ANALITICA

figlio di un pastore protestante, Jung visse il suo periodo di formazione scolastica nella
provincia Svizzera. Jung assunse la Presidenza di un'associazione che raggruppava
numerosi studenti dell'università di Basilea. Qui infatti Jung studiò medicina con successo,
al punto da vedersi aperta la possibilità di una remunerativa carriera come internista.
Malgrado i discorsi tenuti a Zofingia nessuno avrebbe potuto prevedere che si sarebbe
specializzato in psichiatria.

La scelta della tesi costituì già una testimonianza di quel coraggio da outsider che avrebbe
caratterizzato tutta la successiva carriera di Jung. Una cugina si piccava di essere una
medium e Jung decise di assistere alle sedute spiritiche e di studiare i relativi fenomeni. Ne
nacque il saggio Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti. Dal punto di vista
storico, l'interesse dello scritto consiste soprattutto nella bibliografia di riferimento, che si
volgeva soprattutto alla psicologia e alla psichiatria francesi. I fenomeni medianici
venivano infatti interpretati come forma di automatismo psicologico. Jung già dimostrava di
conoscere sia gli studi sull'isteria sia l'interpretazione dei sogni di Freud.

Jung venne accolto in qualità di assistente di Eugen Bleuler, primario dell’ospedale


Burgholzli di Zurigo. Bleuler indirizzò Jung verso il primo passo decisivo della sua carriera,
cioè compiere ricerche sull’associazione verbale. L'idea di studiare quali parole venissero
associate ad altre si riallacciava la tradizione della psicologia associazionista. Era stato proprio
Bleuler a compilare l’elenco di 156 parole-stimolo utilizzate da Jung per le proprie prime
esperienze. Questi però modifico progressivamente il formulario. Nessuno degli illustri
predecessori aveva ottenuto risultati significativi con questa tecnica.

Rispetto a loro, Jung realizzò un miglioramento fondamentale, comprendendo la necessità


di studiare l'associazione su individui normali per ottenere un benchmark, un punto di
riferimento rispetto al quale confrontare i risultati ottenuti da persone affette da patologie
psichiche. Le Ricerche sperimentali sull’associazione in individui normali forse un
atteggiamento rigoroso sul piano metodologico.

Jung descriveva minuziosamente come avesse tentato di evitare errori sistematici e


condizionamenti del contesto sperimentale; come avesse introdotto variabili di disturbo; come
potessero essere interpretate le differenze di risultato ottenute da individui più o meno
acculturati, di sesso femminile o maschile; che tipo di interferenze potessero essere considerate
legittime. Una volta effettuate tutte le possibili verifiche, Jung poteva descrivere con piena
legittimità un fenomeno assai rilevante: di fronte ad alcune parole stimolo si riscontrava una
certa difficoltà ad assolvere il compito di trovare parole rispettivamente associabili.

Tali difficoltà tendevano a manifestarsi costantemente per gruppi di parole riconducibili ad


alcuni particolari temi comuni. Una simile circostanza non poteva essere casuale, nella
prospettiva di Jung, essendo egli un convinto ed esplicito assertore del determinismo psichico.
Le costellazioni, secondo Jung, identificavano la presenza di un complesso, ovvero “l'insieme
delle rappresentazioni che si riferiscono a un determinato avvenimento a tonalità affettiva”.
In seguito Jung avrebbe specificato che il complesso era un'unità psichica superiore rispetto alle
singole rappresentazioni; se si esaminava tutto il materiale psichico ottenuto attraverso
l'esperimento associativo, si trovava che pressoché ogni associazione era riconducibile all'uno o
all'altro complesso. Il concetto di complesso acquistò immediatamente una rilevanza particolare,
in quanto Jung gli attribuiva capacità di azione autonoma nella mente.

L’Io stesso veniva identificato come un complesso; nella persona normale sarebbe stato il
complesso più saldo e forte, quello che controllava l’attività della mente. La teoria dei
complessi poteva essere utilmente accostata alla teoria freudiana della nevrosi. Jung poteva
anzi ritenere che le proprie ricerche costituissero una vera e propria prova sperimentale della
psicanalisi. Jung entrò in contatto epistolare con Freud ne divenne per qualche anno il
principale collaboratore.

FREUD E JUNG: VICINANZA E DISTACCO

Il periodo della collaborazione tra Freud e Jung risultò relativamente breve. Dalla prima difesa
ufficiale della teoria psicanalitica da parte di Jung alle dimissioni dall'Associazione psicanalitica
internazionale passarono pochi anni. Fin da subito Jung non accettò la concezione della libido
come esclusivamente sessuale: ciò che convinse Freud della possibilità che lo svizzero potesse
entrare a far parte del movimento psicoanalitico fu la convinzione di quest’ultimo che il transfert
rappresenti “l’alfa e l’omega dell’analisi “.

Già in Psicologia della dementia precox Jung proponeva dei distinguo della psicoanalisi, e in
particolare rispetto all’ubiquità della libido e alla possibilità che la psicanalisi fosse l'unica forma
di psicoterapia possibile. Fino al primo saggio, letteralmente tradotto Trasformazioni e simboli
della libido, tuttavia, le differenze teoriche tra i due risultavano ancora sostenibili e Freud poteva
elogiare apertamente lo scritto nella prima versione della prima parte di totem e tabù.

Il tentativo di Jung prendeva spunto dalle fantasie di una paziente di Théodore Flournoy relative
a un eroe da lei stessa creato. Le fantasie di miss Miller venivano confrontate con del
materiale mitologico che da lei non poteva essere conosciuto. Jung poté così mostrare
numerose affinità tra i racconti della paziente di Flournoy e i mitologemi distanti nello spazio e
nel tempo: sarebbe esistita una modalità di espressione della mente alternativa a quella del
pensiero razionale diurno.

Da tale attività mentale sarebbero derivati i sogni e le fantasie degli adulti, il pensiero dei
bambini, la produzione fantastico-mitologica dell'antichità. L'affinità dei contenuti proposta da
fonti tanto diverse sarebbe la prova dell'esistenza di contenuti inconsci comuni agli esseri
umani attraverso lo spazio e il tempo; quelli che in seguito Jung chiamò gli archetipi
dell'inconscio collettivo.

Nel secondo saggio di Trasformazioni e simboli della libido Jung metteva in discussione il
primato della sessualità sostenuto da Freud, al punto da sostenere che la stessa sessualità
raccontata nel mito potesse rappresentare il simbolo di qualcos’altro. Nel caso di miss
Miller
le fantasie sessuali costituivano “il simbolo dell’attività della libido separata dai genitori per la
conquista indipendente”. La concezione junghiana del sogno e divergeva da quella
freudiana in modo decisivo virgola e non solo per conseguenza della diversa concezione
della libido.

Jung non escludeva l'idea che il sogno potesse rappresentare l'appagamento di un desiderio, ma
preferiva descriverne il contenuto come compensatore o rispetta la vita cosciente quotidiana. Il sogno
avrebbe contenuto di norma ciò che al sognatore mancava nel presente. L'interesse maggiore della
vita onirica sarebbe stato di fatto costituito, secondo Jung, dal suo riflettere le condizioni attuali del
sognatore. Spesso piuttosto che guardare al passato il sogno si sarebbe rivolto verso il futuro: la
funzione prospettica sarebbe consistita nel suggerire una prossima svolta nella vita
dell'individuo.

L'apparente cripticità del sogno non sarebbe stata il frutto di un processo di smascheramento
quanto piuttosto della sua peculiare modalità espressiva. La riflessione sul sogno avrebbe
peraltro accompagnato Jung nell'arco di tutta la sua vita: se Jung non descrisse mai un'opera
paragonabile per mollala tra un lungo di Freud vi ritornò tematicamente in più saggi e strutturò
l'intera psicologia alchimia come il commento a una serie di sogni del fisico Wolfgang Pauli.

L’intervento di Jung al Congresso psicoanalitico di Monaco costituisce la spinta definitiva


verso la fine della collaborazione con Freud. Qui Jung compì un gesto che dovette risultare
clamoroso per il movimento psicanalitico, mettendo sullo stesso piano la teoria di fronte la
teoria dell’appena ostracizzato Adler. Jung aveva assistito a una relazione di Adler proprio in
occasione della prima presenza a una delle serate psicologiche del mercoledì e aveva
apertamente affermato che le critiche rivolta in tale occasione alla teoria adleriana
dell'inferiorità organica erano decisamente troppo aspre.

Jung partiva ora dalla constatazione che tanto Freud quanto Adler ponessero una visione
coerente della psicopatologia. Ognuno dei due sistemi trovava applicazione terapeutica con
successo. Si trattava quindi di capire se i successi fossero solo apparenti o di immaginare una
forma di convivenza tra la psicoanalisi e la nascente patologia individuale.La risposta offerta
da Jung a Monaco e approfondita in testi successivi era così articolata:
● gli esseri umani sono caratterizzati da personalità diverse, riconducibili a un certo
numero di tipi psicologici;

● ogni teoria psicologica riflette gli interessi, i conflitti, le caratteristiche della


personalità del proprio ideatore;
● per quanto l’ideatore possa riuscire a formulare una teoria generalizzabile, non
può riuscire a trascendere le caratteristiche del proprio tipo psicologico;
● la possibilità di costruire una teoria che tenga conto dei diversi tipi piscologici è
compito della psicologia del futuro.

I tipi illustrati da Jung erano inizialmente erano due: introverso ed estroverso.

Introverso: tendeva a sviluppare maggiore interesse per il proprio mondo interno che per i
rapporti interpersonali. La psicologia dell’introverso veniva spiegata meglio dal modello
adleriano. La psicopatologia dell’introverso poteva fondamentalmente concepirsi come
originata dal senso di inferiorità organico.
Estroverso: privilegiava i contatti con altri esseri umani. La psicologia dello estroverso veniva
spiegata meglio dalla psicanalisi freudiana. L’estroverso sviluppava problematiche
riconducibili piuttosto alla sessualità.
I limiti del tentativo junghiano non ne inficiarono la straordinaria importanza storica. In realtà
quasi nessuno avrebbe preso neanche in considerazione l'ipotesi di junghiana abbozzata nel
1913 e perfezionata nel 1921. Solo negli anni 70 del novecento un libro di ambiente
psicoanalitico propose di nuovo di ricondurre le teorie psicodinamiche alla psiche dei rispettivi
autori. Dopo una tale esternazione Jung viene considerato ormai un corpo estraneo all'interno
del movimento psicoanalitico.

Da questo momento in poi, i suoi contributi teorici vennero sistematicamente ignorati da


Freud; Jung fu menzionato dagli psicoanalisti soltanto come paradigma negativo. Uscito dal
movimento psicanalitico nel 1914, Jung taglio ben presto i ponti anche con Breuler,
abbandonando il suo posto al e dedicandosi alla professione privata.

I NODI PROBLEMATICI DELLA PSICOLOGIA DI JUNG: TIPI E INCONSCIO


COLLETTIVO

Dopo l'intervento al Congresso di Monaco sulla questione dei tipi psicologici, Jung assunse
pubblicamente un atteggiamento di dipendenza nei confronti del pensiero freudiano. Di fatto
Jung riconoscerà sempre i meriti di Freud, attribuendogli il giusto ruolo di fondatore del
Movimento del profondo. Jung rassegno le dimissioni dall'associazione psicoanalitica
internazionale subito dopo la pubblicazione di per la storia del movimento psicoanalitico, che
rappresentava poco meno di un atto di accusa nei suoi confronti.

Abbandonato anche il Burghölzli per dedicarsi solo alla mia privata, Jung passò gli anni
successivi elaborando la propria teoria virgola che aveva iniziato a chiamare psicologia
analitica.

Le questioni centrali dalle quali partiva l'elaborazione junghiana erano quelle affacciate in
Sulla questione dei tipi psicologici e Trasformazioni e simboli della libido. Se a Monaco Jung
aveva problematizzato la possibile legittimità della teoria di Adler come di quella di Freud,
nello scritto precedente aveva ipotizzato l'esistenza di un inconscio trans-personale. Ambedue
le questioni presupponevano la necessità di dover estendere il territorio esplorato della
psicanalisi. Jung le sviluppò entrambe, arrivando a delle proposte teoriche problematiche.

L’intervento di Jung al Congresso di Monaco si era chiuso indicando come “difficile compito
per l’avvenire” la creazione di una psicologia che rendesse “giustizia in ugual misura ai
due tipi” (introverso e estroverso). Nel corso degli anni immediatamente successivi, Jung
sembrava convinto di poter costruire una teoria in grado di assorbire in sé tanto la psicoanalisi
quanto la psicologia individuale.

Tale ottimismo era però scemato con la pubblicazione dei tipi psicologici. Qui lo psicologo
svizzero espose una teoria dei tipi che si era nel frattempo assai arricchita. Il tipo psicologico
veniva qualificato sempre dall'atteggiamento fondamentale verso l'esistenza, ovvero la
modalità di investimento della libido. Il tipo era definito anche dalla funzione prevalente nel
rapporto con la realtà.

Venivano enumerate quattro funzioni: pensiero, sentimento, sensazione e intuizione. Jung


chiamava le prime due funzioni razionali perché caratterizzate a suo avviso dall'uso di giudizi,
a differenza delle seconde due, dette perciò funzioni irrazionali. Solo il pensiero si sarebbe
basato su quanto è normalmente definito razionalità.

Il pensiero era descritto come “l'attività di mettere in relazione contenuti rappresentativi già
dati”. Il sentimento giudicava stabilendo nessi basati sulla piacevolezza o spiacevolezza di un
oggetto o di uno stato mentale. La sensazione “è quella funzione psicologica che trasmette uno
stimolo fisico alla percezione. La sensazione è quindi identica con la percezione non si riferisce
solo allo stimolo fisico esterno, bensì anche a quello interiore”

L’intuizione “trasmette le percezioni per via inconscia”.” Nell'intuizione un contenuto


qualunque si presenta come un qualche cosa di compiuto senza che a tutta prima noi siamo in
grado di indicare o di scoprire in quale maniera questo contenuto si sia realizzato”. La
combinazione tra la “scelta” di una delle quattro possibili funzioni e quella di uno dei due
possibili atteggiamenti darebbe origine a otto possibili tipi. Jung escludeva soltanto che in un
tipo potessero convivere tra loro pensiero e sentimento o sensazione e intuizione.

Se nella psicologia dei processi inconsci la consapevolezza del problema psicologico sembrava
ancora a Jung uno strumento sufficiente per fondare una psicologia super partes, le conclusioni
dei tipi psicologici lo portavano a una posizione più problematica. La prospettiva del proprio
tipo diveniva un presupposto ineliminabile per ogni psicologo. La stessa tipologia costruita da
Jung poteva essere relativizzata: Un altro autore avrebbe potuto legittimamente costruire una
teoria diversa e altrettanto fondata.

A queste condizioni” la psicologia futura" vagheggiata originariamente da Jung diveniva una


sorta di ideale regolativo. A questo punto Jung iniziò a chiamare psicologia complessa il
progetto di teoria che avrebbe dovuto tener conto di tutte le altre, identificando la propria
psicologia analitica come una delle prospettive che tale progetto avrebbe dovuto unificare. Il
contenuto della psiche collettiva venne dapprima identificato che le funzioni inferiori della
mente.

Rapidamente Jung si convinse che l'inconscio collettivo potessero essere fatti risalire due ordini
fondamentali di contenuti:
- il primo era costituto dagli istinti, ovvero le “reazioni del tipo tutto-o-nulla” che non
fossero frutto di apprendimento; la costante possibilità di imbattersi in “relazioni
eccessive” rispetto allo stimolo avrebbe testimoniato la persistenza degli istinti anche
nell'uomo civilizzato.

- il secondo sarebbe consistito in veri e propri contenuti rappresentativi comuni a tutto il


genere umano, i cosiddetti archetipi. L'esistenza degli archetipi sarebbe stata
testimoniata dalla presenza di nuclei mitologici e immagini molto simili in culture
distanti nel tempo e nello spazio, per cui era quasi impossibile immaginare l’influenza
dell’una sull’altra.

Solo aderendo all'evoluzionismo di Lamarck era infatti possibile ipotizzare l'esistenza di una
memoria condivisa delle esperienze umane risalenti all'alba dell'umanità.
LA STRUTTURA DELLA PSICHE E LA NATURA DELLA TERAPIA JUNGHIANA

L'ipotesi di una psiche collettiva apriva alla teorizzazione di ben quattro classi di contenuti
mentali: tanto i contenuti consci quanto quelli inconsci potevano essere classificati in personali
e impersonali. Sulla base di questa distinzione, la struttura della psiche teorizzata da Jung
comprendeva:

● la personalità individuale cosciente (l’Io);

● un inconscio individuale
● l’inconscio collettivo;

● un segmento della psiche collettiva con la quale l’individuo tende a identificarsi,


accettando le istanze della società, ovvero la Persona.

L'inconscio individuale comprendeva anzitutto quanto l'individuo aveva rimosso nel corso degli
anni. Jung identificò in esso l'ombra, che costituiva ciò che non si sarebbe voluto essere ma che
rimaneva pur sempre parte della propria personalità; inoltre una dimensione contro sessuale,
cioè la parte femminile dell'uomo (anima) e la parte maschile della donna (animus); infine un
nucleo che si potrebbe definire progettuale (Sé).

Il sé costituiva infatti l'aspetto della personalità presente in potenza, verso il quale l'individuo
tenderebbe nel corso di un percorso maturativo e auto-realizzativo che Jung definì il processo di
individuazione. Il primo passo verso lo sviluppo completo delle proprie potenzialità era
costituito
dalla dissoluzione della Persona, cioè alla rinuncia a identificarsi con essa, che doveva condurre
a un confronto sia con l’inconscio personale sia con l’inconscio collettivo. Jung sottolineava
come il contatto con l’inconscio non fosse esente da rischi, ma non era l’inconscio di per sé ad
essere pericoloso: “è il disaccordo con l’inconscio la fonte della sua pericolosità”.

Il confronto dovrebbe produrre una sintesi, attraverso un processo psichico per il quale Jung
propose il nome di funzione trascendente. Jung continuerà a utilizzare tali strumenti nel corso di
tutta la sua vita. In seguito, Jung maturò la convinzione per cui, indipendentemente dalla teoria
cui ci si riferiva, il principale strumento terapeutico fosse costituito dalla personalità del
terapeuta.
Il percorso analitico non era sempre necessario e talvolta poteva essere persino
controproducente: lo svizzero giunse ad affermare che lo psicologo doveva saper comprendere
quando risultasse opportuno “chiudere la porta dell’inconscio”.

L'obiettivo ideale dell'analisi era l’individuazione, corrispondente alla piena realizzazione


delle proprie potenzialità attraverso l’uso creativo dei contenuti inconsci. Neanche
l'individuazione risultava priva di rischi. Solo chi fosse autenticamente creativo poteva
aspirarvi. Il tipo psicologico influiva in modo fondamentale sull'andamento della
psicoterapia. Soprattutto cambiavano i contenuti dell'inconscio personale legati alla
funzione inferiore.

Il tipo pensiero avrebbe dovuto acquisire la capacità di utilizzare il sentimento virgola che
avrebbe avuto dei connotati primitivi: mentre il tipo sentimento avrebbe dovuto
familiarizzarsi con i giudizi intellettivi. I passaggi successivi della terapia sarebbero risultati
simili per i diversi tipi psicologici prima si avrebbe avuto il confronto con l'ombra e quello
con l'anima. In alcuni casi avrebbero potuto emergere anche elementi più profondi e arcaici,
legati al mondo sotterraneo dell'inconscio collettivo.

Nel saggio i problemi della psicoterapia moderna la questione di come procedesse l'analisi
veniva affrontata da una prospettiva nuova e particolare: sarebbe esistita una serie di stati
del processo terapeutico virgola che poteva risultare più o meno opportuno seguire con
pazienti dalle caratteristiche differenti. Questi stadi erano definiti come: confezione,
chiarificazione, educazione, trasformazione.

La confessione era legata alla tradizione religiosa. Tanto nella confessione sacramentale, quanto
in quella psicoterapeutica, l'efficacia sarebbe stata dovuta alla possibilità di condividere un
segreto. L'effetto della confessione religiosa era catartico, come un'intensa catarsi era il risultato
della tecnica psicoterapeutica del primo Freud.

La confessione e la catarsi potevano già di per sé essere sufficienti al buon esito di una terapia,
ma potevano anche non bastare per due tipi di pazienti: quello che non riusciva realmente a ”
percepire la propria ombra” ; quello che invece si beava dell'esplorazione della catarsi” a spese
del suo adattamento alla vita. In questo caso si otteneva un nuovo sintomo che consisteva nella
creazione di una dipendenza dall'analisi e dall'analista. Se nel transfert il paziente riviveva la
relazione con i genitori, l'esistenza di possibili desideri incestuosi mai consciamente compresi in
tale relazione costituivano un importante ostacolo alla soluzione del transfert.

Avendo Freud compreso questa dinamica, si rese conto della necessità di interpretare i contenuti
inconsci per portarli alla coscienza (chiarificazione). Anche la conoscenza del proprio inconscio
personale e la soluzione del transfert potevano non bastare perché fossero liquidate le
conseguenze sintomatiche della propria nevrosi.

Si apriva la necessità del terzo stadio, l'educazione, fondamentale contributo di Adler alla
psicoterapia. La tecnica adleriana spingeva l'uomo all'adattamento sociale che la conoscenza di
sé poteva non bastare a promuovere. Qualora all'analizzando non fosse sufficiente raggiungere
la normalità di adattamento ma aspirasse a realizzarsi compiutamente, si sarebbe reso necessario
l'ultimo stadio, quello della trasformazione. Quest'ultimo era un contributo specifico dello
junghismo. La trasformazione della personalità implicava la possibilità di percorrere un ampio
tratto del processo di individuazione.

Proprio la soggettività degli esiti possibili rendeva però meno codificabile la teoria della tecnica.
In questo senso diventava decisivo il rapporto personale tra terapeuta e paziente. Allora
l'atteggiamento interpretativo nei confronti dei contenuti simbolici provenienti dall'inconscio
diveniva molto più aperto. Non si poteva pensare che il terapeuta conoscesse giudicasse in modo
obbiettivo quanto il paziente portava in terapia. L'interpretazione sarebbe consistita in un
procedimento non solo dialogico, ma addirittura dialettico dove il terapeuta doveva essere
sempre pronto a mettere in discussione le proprie idee.

Freud aveva identificato la neutralità come uno degli aspetti fondamentali della tecnica
analitica e aveva indicato nel controtransfert un ostacolo alla terapia. Jung invece riteneva
il controtransfert inevitabile. Se Freud considerava l'analisi una sorta di bonifica e di allargamento
dei confini dell'io rispetto all'es, Jung riteneva che dall'inconscio potesse raggiungere anche
illuminazioni e suggestioni

Nel processo analitico per Jung “il terapeuta non è più il soggetto che agisce, ma è
compartecipe di un processo di sviluppo individuale” questa diversità di atteggiamento era
riflessa anche dalla diversa posizione fisica assunta dalla coppia analista/paziente nello
studio: “ A Jung non piaceva l’uso del divano, perché interferiva col suo contatto diretto”.
Dal punto di vista di Jung, il confronto con l'inconscio e il processo di individuazione potevano essere
estesi per una durata molto superiore a quella dell'analisi. A questo fine Jung teorizzò una tecnica che
battezzò immaginazione attiva, consistente in una sorta di meditazione da condursi a partire da
contenuti simbolici emersi dal proprio inconscio. Il movimento psicanalitico era destinato ad adottare
molte delle idee junghiane sulla psicoterapia, anche se nella maggior parte dei casi senza conoscere gli
scritti di Freud. La maggior parte dei concetti teorici junghiani erano già stati introdotti nel 1921.

IL COMPORTAMENTISMO E LA PSICOTERAPIA

La psicoanalisi rappresentava il modello psicoterapeutico che meglio era stato in grado di


radicarsi durante la prima parte del 900. Con il viaggio di Freud nell’America del 1909, la
psicoanalisi era divenuta oggetto di interesse per gli psicologi statunitensi dalla prima decade
del Novecento.A partire dal “manifesto” di John B. Watson, il comportamentismo fece la
sua comparsa riuscendo a colonizzare gradualmente la psicologia americana, i cui esponenti
furono a un tempo fieri oppositori della psicoanalisi.

Watson negava l'idea che lo studio dei contenuti mentali e degli stati interni fosse
l'obiettivo della psicologia scientifica: la psicologia come scienza naturale avrebbe dovuto
studiare e predire i comportamenti. Il comportamentismo è stato sostanzialmente una
tradizione di studi statunitense anti- mentalista, sviluppata in opposizione sia la prima
psicologia sperimentale, che studiava soprattutto la coscienza, sia alla psicoanalisi.

Fin dall'inizio i comportamentisti studiarono gli individui anche sotto il profilo clinico,
proprio in opposizione a una presunta letterarietà e scarsa scientificità della psicoanalisi.
Inoltre i comportamentisti si occuparono di patologia. Le manifestazioni patologiche
evidenziabili empiricamente mediante tutta una serie di correlati psicofisiologici divennero
uno dei target della psicoterapia comportamentista.

Il condizionamento è stato la chiave di volta della cura e i clinici comportamentisti


utilizzarono i modelli teorici riguardanti l'apprendimento. Tra coloro che aprirono la strada
alla teoria comportamentista dell'apprendimento occorre ricordare Edward Lee Thorndike e
Ivan Pavlov. Thorndike è stato uno psicologo americano influenzato dal funzionalismo e dal
pragmatismo.

Thorndike aveva studiato in particolare i processi di apprendimento, immaginando degli


esperimenti in cui gli animali apprendevano a risolvere dei problemi in base a meccanismi di
feedback fondati sulle prove e sugli errori, sui premi e sulle punizioni. Egli sviluppò la
cosiddetta legge dell’effetto, secondo cui un comportamento diventa più frequente se
associato ad un soddisfacimento.

Da questo punto di vista, gli avevo un'idea incrementale automatica dell'apprendimento


secondo cui più un comportamento era messo in atto maggiore era il suo apprendimento
(legge dell’esercizio); al contrario, i comportamenti in disuso venivano dimenticati.

Thorndike era inoltre convinto che la risposta più recente era anche quella che avrebbe
avuto più probabilità di essere rimessa in atto (legge della recenza). Egli introdusse l'idea
che comportamenti appresi in una condizione fossero facilmente generalizzabili a
situazioni che apparivano analoghe. Con il lavoro di Thorndike divennero predominanti
anche lo studio sui modelli animali del comportamento e l'approccio eugenetico.

Gli studi di psicologia dell'apprendimento animale Thorndike furono citati da Pavlov, fisiologo
russo e Premio Nobel. Anche Pavlov fu influente soprattutto per il suo modello
dell'apprendimento, che mostrava come determinati comportamenti, una volta appresi,
potessero manifestarsi in situazioni apparentemente irrelate al contesto originario. Nel
classico esperimento di Pavlov, ad alcuni cani veniva presentato del cibo dopo che avevano
udito il suono di una campanella.

Ai cani veniva prima misurata la quantità di saliva prodotta dopo la presentazione del cibo
(stimolo questo incondizionato); poi veniva misurata la saliva solo dopo aver soltanto udito
il suo della campanella: il risultato ottenuto era il medesimo (dimostrando così la
possibilità di apprendere uno stimolo condizionato). Il cibo veniva associato in modo
consequenziale al suono della campanella, che assumeva un significato simbolico
capace di evocare un comportamento originariamente provocato solo dal cibo.

Pavlov dimostrava che se allo stimolo condizionato (suono della campanella) non seguiva più
lo stimolo incondizionato (cibo), anche la risposta comportamentale condizionata (salivazione
dopo la campanella) si estingueva. La scomparsa dei comportamenti fu il fondamento della
prima psicoterapia comportamentista.

Come ha illustrato Trotskij: “[Pavlov e Freud pensavano] entrambi che il fondo dell’anima
fosse la fisiologia. […] Il metodo di Pavlov è l’esperimento, quello di Freud è la congettura; a
volte la fantastica congettura”. Il significato simbolico che gravava sugli stimoli e che veniva
continuamente interpretato dalla mente spingeva Trotskij ad assimilare i due modelli. Pavlov in
Russia aveva sviluppato quindi una teoria e una pratica di laboratorio che avrebbe a lungo
influenzato la psicologia sperimentale; contemporaneamente negli Stati Uniti il
comportamentismo avrebbe rappresentato il modello psicologico che stava integrando le
precedenti concezioni dell'apprendimento.
John Watson allievo del funzionalista James Roland Angell, divenne un affermato
professore alla John Hopkins University e direttore della Psychological Review. Egli si
occupa immediatamente di dare alla psicologia delle solide basi biologiche. Nel suo
famoso articolo Psychology as the Behaviorist Views It (1913) abbandonò l’idea che il
metodo principale della sperimentazione in psicologia passasse per l’introspezione
controllata. La ricerca psicologica di base dalla seconda metà dell'Ottocento veniva infatti
condotta utilizzando l'analisi introspettiva degli Stati di coscienza.

Per Watson l’unico modo per rendere la psicologia una scienza era quello di porre al
centro dell’indagine lo studio del comportamento manifesto. La psicologia di Watson era
finalizzata a indagare i comportamenti complessi e non solamente singole unità stimolo-
risposta. Watson certamente derivò da Pavlov l'idea che i comportamenti complessi nascessero
dai riflessi condizionati, ma rifiutava tutte quelle conseguenze simboliche e fisiologiche a
cui l'associazione fra stimolo condizionato e risposta condizionata avrebbe potuto portare.

Era convinto che mediante specifiche tecniche di apprendimento si sarebbero potuti


educare i bambini. Watson fu in grado di produrre nevrosi sperimentali che tentava
successivamente di estinguere. Furono assai famosi i suoi studi sul piccolo Albert, un
bambino che non aveva ancora compiuto un anno di età a cui Watson fece associare una
reazione di pianto originariamente prodotta con rumori fastidiosi alla presenza di un topo
bianco. In seguito Albert generalizzò il pianto originariamente associato al topo bianco.

Era descritto così il processo di generalizzazione di un comportamento prodotto in


laboratorio in tutto assimilabile alle reazioni emotive descritte nelle diverse forme di
nevrosi. Watson e i suoi collaboratori tentarono di smobilitare le reazioni emotive da loro
stessi create con un “processo inverso di apprendimento” chiamato desensibilizzazione,
mediante il quale le reazioni emotive eccessivamente apprese venivano ridotte con un
processo di esposizione graduale e sistematica allo stesso stimolo.

Sebbene il caso di Albert risulti ancora oscuro provi a causa della povertà del resoconto
iniziale di Watson, esso rappresentò il punto di ancoraggio delle psicoterapie
comportamentiste che si radicarono negli anni 50 e 60, con il passaggio dal
condizionamento classico al condizionamento operante per opera di Skinner.

TERAPIE E CULTURE DEL COMPORTAMENTISMO

Il comportamentismo rappresentò in realtà una formidabile leva per tutta una serie di
applicazioni della psicologia contro le fobie, terapie avversive e biofeedback. D'altra parte,
integrando al comportamento meccanismi interni di controllo dello stesso ed esterni, nel 900 il
comportamentismo è molto cambiato, trasformandosi nel modello cognitivo comportamentale
e nel cognitivismo sociale. Skinner scoprì che, posti in luogo chiuso (Skinner box), gli
animali potevano essere ammaestrati con il cibo che così rinforzava il comportamento
(condizionamento operante).
Con un sistema di rinforzi, Skinner ammaestrò così piccioni a fare le attività più disparate.
Tali dimostrazioni sperimentali lo spinsero a ritenere addirittura possibile la costruzione di un
mondo ideale in cui il sistema dei rinforzi o delle punizioni avrebbe modellato il
comportamento umano fino a creare una società in cui la felicità fosse raggiunta mediante
metodologie di apprendimento. Questo progetto di comunità ideale fu descritto in un
romanzo, Walden Two.

Il comportamentismo esercitò sulla cultura occidentale un forte e lungo fascino. Nello stesso
tempo, alcuni misero in dubbio l'estrema semplicità con cui le tecniche di apprendimento
comportamentista avrebbero effettivamente controllato fenomeni complessi. Le teorie e gli
esperimenti comportamentisti hanno così fortemente e decisamente influenzato dalla
psicoterapia.

Tutti i disturbi specifici d’ansia potevano essere disappresi mediante un piano di


desensibilizzazione. L'efficacia di queste terapie del comportamento è stata dimostrata su un
largo spettro di disturbi mentali. Già skinner aveva promosso varie attività di rinforzo dei
comportamenti nella pratica psicologica. Egli era convinto che proprio i casi difficili potevano
facilmente essere maltrattati nelle istituzioni se non si fossero utilizzate tecniche
standardizzate in grado di favorire i comportamenti desiderati tramite il rinforzo.

Skinner favorì la token economy (economia simbolica o tecnica di rinforzo per mezzo di
oggetti di poco valore) come una modalità di condizionamento del comportamento che
tipicamente utilizzava delle tesserine di plastica come mezzo di scambio per favorire i
comportamenti desiderati. I ragazzi ottenevano queste tessere se si fossero comportati in
modo adeguato, se avessero preso parte anche alle altre terapie come quella di gruppo e con
le tesserine acquistavano tempo libero e beni di consumo.

Il framework comportamentista ebbe però conseguenze con trapassavano il mero territorio


della psicoterapia. Un esempio significativo di questa lunga influenza della cultura
comportamentista che ha percorso tutto il 900 è descritto nel film Arancia meccanica. Il
film e il romanzo sono infatti una critica al meccanicismo insito nella concezione
dell'uomo propria del comportamentismo. Paradossalmente al comportamentismo e così
rappresentato come una tecnica utile a tutte quelle concezioni di Stato che avevano come
obiettivo il controllo dei comportamenti dei cittadini.

L’idea utopistica e semplicistica di poter gestire i comportamenti attraverso un impianto


ingegneristico e alcune semplici regole fondate sul rinforzo o la desensibilizzazione è
riuscita a giungere fino ai nostri giorni. Freud è stato da parte sua il primo a teorizzare un
utilizzo dell'onorario dell’analista come rinforzo per il buon esito della cura. Il denaro venne
considerato uno strumento per regolare i comportamenti. Anche nella storia economica il
denaro regola non solo le transizioni fra individui, ma pure il comportamento dei cittadini.

La misura di uso della moneta da parte degli Stati o dei cittadini e addirittura divenuta oggi
il metro con cui si intende valutare la necessità di modificare il comportamento dei
cittadini di intere nazioni per ricondurlo a una normalità virtuosa.

Nel corso degli anni, si svilupparono infatti forti critiche nei confronti di queste pratiche del sì
che seppure mostrassero aspetti di efficacia potevano essere evidentemente connotati da una
concezione paternalistica e autoritaria dell'intervento. I modelli psicodinamici alternativi e più
radicali rispetto a quello freudiano poserò l'accetto, per un verso, su dimensioni simboliche e
culturali, per l'altro, su una concezione critica della società.
CAPITOLO 4. LA PSICOLOGIA DEL PROFONDO FRA LE DUE GUERRE

LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Il 1914 trovava Freud, Jung e Adler alla ricerca di un rafforzamento della propria identità. Freud
risultava nella posizione di maggiore forza e visibilità. Freud avvertì la necessità di pubblicare
uno scritto, nel quale rivendico il proprio ruolo di unica artefice della nascita della psicanalisi,
accusando Jung e Adler di voler comprometterne la purezza. Nello stesso periodo, Freud cercava
di risolvere la difficoltà più significativa che proprio la teoria della libido aveva incontrato,
quella di spiegare l'origine delle psicosi.

In Introduzione al narcisismo veniva proposta un’integrazione alla teoria dello sviluppo


psicosessuale volta a superare tale difficoltà. L’essere umano avrebbe attraversato una
fase iniziale dell’esistenza, nella quale avrebbe investito t u t t a l a libido su di sé
(narcisismo primario). Si sarebbe trattato di una fase di autoerotismo e senso di
onnipotenza, che sarebbe stata superata una volta che fossero iniziati i primi investimenti
oggettuali, cioè che parte della libido fosse stata investita su oggetti. Nella psicosi si avrebbe
avuto il ritiro della libido dagli investimenti oggettuali, per tornare a una condizione simile a
quella iniziale (narcisismo secondario).

Si trattava comunque di un aggiustamento teorico che per il momento non mutava la valutazione
di Freud sulla teoria della psicosi, che rimaneva ha i suoi occhi impossibile attraverso la
psicoanalisi. Dalla disillusione nacque un radicale ripensamento del significato dell'esistenza e
della natura umana, che era già evidente a partire da “considerazioni attuali sulla guerra e la
morte” e “caducità”. Agli anni del conflitto appartengono invece importanti iscritti di
sistematizzazione teorica, ovvero la “metapsicologia” e le “lezioni di introduzione alla
psicanalisi”,

Jung attraversò un periodo di relativo isolamento. Gli anni della guerra corrisposero a quelli di
distillazione dell'archeologia analitica come disciplina autonoma rispetto alla psicoanalisi. Jung
abbandonò più volte l'attività clinica privata che aveva intrapreso per dirigere un campo di
internamento.

Adler, allo scoppio del conflitto era impegnato nell’organizzazione di un proprio movimento.
Una simile circostanza rifletteva anche convinzioni politiche più progressiste rispetto a quelle
di Freud. Avanzata la propria candidatura per una cattedra all'università di Vienna nel 1912,
Adler si vide rispondere solo a guerra scoppiata. Anche Adler venne impiegato in qualità di
medico militare. Adler si trovava operare vicino al fronte, nel reparto neuropsichiatrico
dell'ospedale militare di Semmering.

L'esperienza della guerra, vissuta in modo più diretto da Adler e Jung ma non meno
intensamente da Freud, esercitò certamente un influsso fondamentale sulle idee dei tre
principali protagonisti della psicologia del profondo. Specificamente le nevrosi di guerra
determinate dalle esperienze vissute sul campo di battaglia, costituivano un’inedita forma di
psicopatologia. Sul fronte russo, un giovane psichiatra A sua volta osservò le conseguenze
della guerra sulla mente dei soldati: si trattava di Aleksandr Lurija, colui che avrebbe
introdotto la psicoanalisi in Unione Sovietica.

LA PULSIONE DI MORTE

L’interesse verso la teoria psicoanalitica venne ravvivato all’inizio del 1918 dalla
pubblicazione di un libro sulla terapia delle nevrosi di guerra a opera di Ernst Simmel. Simmel
illustrò risultati terapeutici positivi ottenuti attraverso l'impiego del metodo catartico. L'attualità
del tema e il successo di simmel stimolarono la convocazione di un Congresso psicoanalitico
a Budapest, dedicato specificatamente alle nevrosi di guerra.

Sia Ferenczi sia Abraham, proposero interventi nei quali si cercava di dimostrare che le
nevrosi di guerra costituivano un fenomeno perfettamente compatibile con la teoria
psicoanalitica. Ferenczi riteneva che tipicamente le nevrosi di guerra fossero assimilabili a
isterie di conversione e isterie d’angoscia innescate da un trauma. Sembrava evidente a
Ferenczi che lo shock “aveva facilmente provocato la regressione nevrotica”.

Abraham si sforzava di dimostrare che “le nevrosi di guerra non sono comprensibili se non si
tiene conto della sessualità”. Allorché gli interventi presentati al Congresso vennero riuniti per
la pubblicazione in un libro, la guerra era ormai terminata e anche Jones poté aggiungere il
proprio punto di vista, che peraltro affacciava alcuni dubbi sul rapporto tra sessualità e nevrosi
da guerra. Nelle considerazioni attuali sulla guerra e la morte, nei sogni e nelle fantasie l'essere
umano dimostra desideri di morte nei confronti di chiunque procuri offese anche minime.

Infine giunse alla sofferta svolta teorica rappresentata da “aldilà del principio di piacere” che
consistette nella teorizzazione della pulsione di morte accanto a quella sessuale come fattore
motivazionale di fondo della vita psichica. Proprio le nevrosi di guerra offrivano uno degli
spunti di partenza delle riflessioni contenute nel saggio freudiano, e in particolare
l’alterazione apparentemente inspiegabile della vita onirica del soldato traumatizzato dai
combattimenti.

Le nevrosi di guerra mostrava cioè un ammalato " fissato psichicamente al suo trauma".
Non erano però le nevrosi di guerra l'unica situazione nella quale l'essere umano tendeva a
ripetere precedenti esperienze in una modalità che sembrava del tutto indipendente dalla
ricerca del piacere. I bambini potevano ripetere giochi ispirati ad esperienze penose: il famoso
gioco del rocchetto attuato da un nipote di Freud era un esempio lampante.

Il significato del gioco era “in rapporto con il grande risultato di civiltà raggiunto dal
bambino, e cioè con la rinuncia pulsionale che consisteva nel permettere senza proteste che
la madre se ne andasse”. il bambino “si risarciva […] di questa rinuncia, inscenando l’atto
stesso dello scomparire e del riapparire avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere”.

La possibile interpretazione per cui la scomparsa forse solo la necessaria premessa al


piacere simbolico indotto dalla ricompensa del rocchetto- madre evidentemente cadeva.
Inoltre se il bambino era stato costretto a subire l'allontanamento dalla madre nel gioco
egli” assumeva parte attiva”. La spiegazione più logica si basava sull'ipotesi di un
impulso di vendetta verso l'oggetto. La madre se n'era andata e il bambino si era
vendicato.
Un ulteriore dubbio che sentiva Freud a proposito dell'egemonia del principio di piacere
riguardava la circostanza di come la tragedia e altre forme d’arte potessero suscitare “un
godimento elevatissimo”, pur accompagnandosi a impressioni dolorose. Freud aveva già
osservato quanto fosse diffusa la tendenza insopprimibile a ripetere esperienze passate nel
presente, e l'aveva definita appunto coazione a ripetere.

Nel transfert il paziente rimetteva in atto, all'interno della relazione con l'analista
esperienze in gran parte spiacevoli. Le aspettative di amore esclusivo da parte del genitore
del sesso opposto venivano frustrate; la sessualità infantile doveva essere rimossa;
L'educazione reprimeva le pulsioni. Freud riteneva fosse possibile supporre l’esistenza di
“pulsioni organiche” ma acquisite nel corso della filogenesi.

Freud le definì pulsioni di morte che avrebbero spinto gli individui alla sopravvivenza, e
definite quindi nel complesso pulsioni di vita. Il possibile impasto dell'emulsione poteva
spiegare la componente aggressiva della libido. L'esistenza della pulsione di morte
sembrava gettare una nuova luce sullo sforzo del principio di piacere” inteso a indurre,
mantenere costante, eliminare la tensione interna provocata dagli stimoli”

IO, ES E SUPER-IO. IL MODELLO STRUTTURALE DI FREUD

Già in Al di là del principio di piacere, Freud aveva cambiato la propria concezione dell'io,
che non riteneva più di identificare con il conscio e nemmeno con il sistema
conscio/preconscio. Il ripensamento era legato a una riflessione sulla resistenza: non poteva
essere il “rimosso” a opporre resistenza all’interpretazione, dato che la sua spinta era piuttosto
quella a emergere. La resistenza doveva provenire quindi dall’Io del paziente e solo l’ipotesi
dell’esistenza di una parte inconscia dell’Io consentiva di spiegare il fenomeno.

In Psicologia delle masse e analisi dell’Io, veniva supposta l'idea di un'istanza psichica
l’Ideale dell’Io “suscettibile di separarsi dal resto dell'io e di entrare con esso in conflitto”.
L’ideale dell’io sarebbe stato “l’erede del narcisismo originario, nel quale l’Io del bambino
bastava a se stesso”.

Nel frattempo Freud aveva chiarito sempre di più che l'inconscio non poteva essere
identificato solamente come il luogo del rimosso. Evidentemente i tempi erano maturi per
una profonda revisione della teoria della mente, che in effetti giunse, con “l'Io e l’Es” e
una serie di fondamentali scritti degli anni immediatamente successivi, come “la nevrosi e
la psicosi e inibizione, sintomo, angoscia”. A partire dall'io e l’es , Freud elaborò “il
modello strutturale” o “seconda topica

Il fulcro del nuovo modello era la tripartizione della psiche in Io, Es e Super-Io.

Io: all’Io era affidato il compito dell’auto-osservazione e quello di controllo della


percezione e del movimento. La rimozione e la censura onirica erano a carico dell’Io.
Freud attribuì all’io tutte le difese o meccanismi di difesa, cioè le strategie usate per gestire le
pulsioni.
l'uso dell'isolamento dell'affetto prevedeva che di un evento traumatico si perdesse la sola
memoria degli effetti
nel caso dell'annullamento retroattivo non si sarebbe dimenticato nulla dell'evento ma si sarebbe
compiuto un atto al fine di “soffiare via il precedente sgradito.

Le difese venivano messe in atto a partire da un “segnale di dispiacere”. Negli episodi


traumatici infantili si verificava una sensazione di impotenza. Nel corso della vita successiva,
l’angoscia sarebbe nata in due modi: allorché si fossero verificate situazioni di pericolo reali o
allorché sembrasse incombere una minaccia. L’io generava allora l'angoscia proprio per evitare
la paventata situazione spiacevole.
Freud sottolineava anche come da un lato esistesse un legame tra nevrosi e angoscia; dall'altro le
relazioni di angoscia non fossero sempre da considerare nevrotiche. In quest'ottica nasceva la
distinzione tra angoscia reale e angoscia nevrotica:

- L’angoscia reale si sarebbe originata da un pericolo reale, davanti al quale si sarebbe


reagito in modo naturale sia sul piano affettivo sia su quello motorio. Di fronte al pericolo
pulsionale l'angoscia avrebbe costituito il segnale per avviare comunque un'azione volta
scongiurarlo.

- L’angoscia nevrotica era caratterizzata dall'aspettativa della possibile ripetizione di una


situazione traumatica e della relativa sensazione di impotenza.

Nella concezione freudiana l'io elaborerebbe una “fantasia della situazione traumatica” e a tale
fantasia reagirebbe con il segnale di angoscia.

Super-io: veniva descritto come in parte cosciente in parte inconscio. Il processo che portava
la formazione del super-io non era quindi più descritto come una scissione, ma come una
differenziazione. Il Super-io si sarebbe formato a partire dall’Io mediante l’identificazione
con i genitori.

Il bambino avrebbe iniziato ad avvertire la presenza di norme al di sopra di lui, e alle quali si
sarebbe dovuto conformare: tali norme erano riconducibili a quelle imposte dall’esterno (dai
genitori) e iniziavano invece a provenire dall’interno (propria mente).

La coscienza morale era descritta come conscia e si sarebbe espressa attraverso un “imperativo
categorico”: se non si agisse in conformità all'imperativo categorico, il senso di colpa che ne
conseguirebbe sarebbe perfettamente cosciente. Il senso di colpa poteva essere tuttavia anche
inconscio: la sua presenza sarebbe stata deducibile da un fenomeno tipico dell'analisi, la
“relazione terapeutica negativa”

Es: corrisponde alla terza persona neutra del pronome personale nella lingua tedesca: il suo
uso in questa accezione suggeriva il principio per cui “il nostro Io si comporta nella vita in modo
passivo-noi veniamo vissuti da forze ignote e incontrollabili”. “L’Es è la parte della vita psichica
più distante dalla coscienza, dalla logica razionale, dal senso della realtà, dalle regole della vita
civile. L’Es è infatti la matrice della mente: è la parte più profonda dell’inconscio”

Il sistema percettivo avrebbe influenzato la formazione dell'io sia come fonte di informazioni sul
mondo esterno, sia in quanto portatore di sensazioni corporee e propriocettive

IL TRAMONTO DEL COMPLESSO EDIPICO

Il processo di identificazione con i genitori che generava il Super-io non era descritto come
lineare sia per il “carattere triangolare della situazione edipica”, sia a causa della “bisessualità
costituzionale” dell'essere umano. Il bambino di sesso maschile sviluppava soprattutto l’amore
nei confronti della madre e l’identificazione con il padre. Quando il bambino iniziava a
comprendere che il suo desiderio verso la madre era ostacolato dalla presenza del padre,
aveva origine il complesso edipico: l’identificazione si tingeva di ostilità e la condotta
tenuta verso il padre acquisiva il carattere dell’ambivalenza.

L'ambivalenza verso il padre e l'affetto verso la madre sarebbero stati il contenuto del
complesso edipico nella sua forma più semplice. Allorchè tramontava il complesso edipico
l’investimento oggettuale verso la madre poteva essere sostituito da un’identificazione con la
madre stessa o dal rafforzamento dell’identificazione con il padre. In l'io e l’es, Freud si
dichiarava convinto che la vicenda della bambina fosse speculare: si avrebbe avuto il crepuscolo
dell'edipo e l'identificazione con la madre a rafforzamento del carattere femminile o quella con
il padre avrebbe amplificato le tendenze mascoline.

Se la bisessualità umana avesse costituito già il fondamento di un possibile bivio nella


determinazione del carattere a partire da un complesso edipico semplice essa avrebbe influito
nel caso del complesso edipico. In questo caso il bambino di sesso maschile, oltre a provare
ambivalenza nei confronti del padre e affetto verso la madre, si comportava come una
bambina.
In questa prospettiva, ogni essere umano avrebbe manifestato dunque l'identificazione scelta
oggettuale, affetto e ambivalenza nei confronti di ambedue i genitori. La formazione del super-
io sarebbe stata allora il frutto di questo complicato intrecciati si di tendenze relazionali.

Freud cominciò a porre l'accento sempre di più sulla probabilità che un ruolo fondamentale
nella vicenda edipica venisse giocato dal complesso di castrazione la cui natura assumeva tratti
differenti per i due sessi.

La situazione non doveva essere descritta come atteggiamento rispetto al possesso di “un
genitale”, ma rispetta la presenza o all'assenza del genitale maschile. Anche la questione della
sua perdita avrebbe assunto connotati diversi per i due sessi. Freud attirava l'attenzione sul fatto
che il bambino di sesso maschile si trovava a essere esposto prima al trauma della separazione
dalla madre con la nascita; poi a quello della separazione dal seno materno con la fine
dell'allattamento.

La disapprovazione da parte degli adulti per l'interesse che il bambino stesso manifestava verso
il proprio genitale durante la fase fallica si sarebbe espressa con una minaccia di evirazione,
che gli stessi ancora non avrebbe preso sul serio se non avesse scoperto che esistevano degli
esseri privi di falli.

L’ipotesi infantile doveva essere che le bambine fossero state evirate, e quindi fossero la
testimonianza vivente che l’evirazione costituisse un pericolo reale. Viceversa, la bambina,
trovandosi anch'essa nella condizione di confrontare il proprio organo con il genitale maschile,
si sarebbe trovata in una situazione di mancanza. Venendo meno la minaccia attuale e quindi la
relativa angoscia, le ragioni per la formazione di un super-io forte nella bambina divenivano,
gli occhi di Freud, assai meno pressanti.

L'unica minaccia verosimile sarebbe stata quella di perdere l'amore dei genitori. Altro
ripensamento che ebbe Freud rispetto all’Io e l’Es fu la convinzione che il complesso
edipico femminile era molto più caratterizzato dal solo amore verso il padre. Un Edipo mai
risolto un superiore mai compiutamente strutturato sarebbero state caratteristiche inevitabili
dell'identità femminile. Freud supponeva che nella donna il desiderio di un bambino sostituisse
il desiderio del pene, ma confermava e anzi divaricata la differenza tra sviluppo maschile e le
sue conseguenze sulla formazione del super-io e sulla moralità femminile.

L'idea di una differenza tra coscienza morale maschile e femminile non avrebbe mai
abbandonato Freud. Persino l'idea che la donna fosse intellettualmente inferiore all'uomo
veniva definito un dato di fatto in L’avvenire di un’illusione. Freud si dichiaro fin da subito
consapevole delle possibili critiche da parte femminile, cercando riparo nelle idee
parzialmente simili alle proprie, proposte da due analiste donne come Deutsch e Horney.

Sia Deutsch e Horney ripresero criticamente l'idea freudiana che la donna fosse
caratterizzata da un naturale masochismo, dovuto alla ricettività e passività che sembrava
connaturata alla sessualità femminile. Entrambe attribuirono il masochismo femminile a
fattori non già innati ma educativi e culturali. Sei in l’io e l’es poteva sembrare che vi fosse
una relazione diretta tra la repressione genitoriale e la severità del Super-io; nel Disagio della
civiltà veniva chiarito come le cose stessero in realtà diversamente.

Sosteneva infatti Freud: “la severità originaria del Super-io non è […]quella sperimentata o
attesa (dall’Io ancora indiviso) da parte di lui (padre- oggetto), bensì sta a rappresentare la
propria aggressività contro di lui “. Nella seconda serie di lezioni di introduzione alla
psicanalisi, Freud propose che il Super-io si modellasse non tanto sull'atteggiamento del padre
verso il figlio quanto piuttosto sul Super-io del padre stesso. L'introduzione del modello
strutturale modificava anche la concezione generale della psicopatologia.

Alla luce del modello strutturale “la nevrosi sarebbe l’effetto di un conflitto tra l’Io e il suo
Es”. Freud affermava: “Le nevrosi di traslazione si sviluppano per il fatto che l'io, di fronte
ad un moto pulsionale dell’Es, non intende accettarlo né favorirne lo sfogo motorio. L’Io si
difende quindi da quel modo pulsionale mediante il meccanismo della rimozione, ma il
rimosso si ribella a questo destino e […], si procura una rappresentanza sostitutiva che si
impone all'io a mezzo di un compromesso: il sintomo”.

A sua volta l’Io avrebbe intrapreso una nuova lotta contro il sintomo, tentando una nuova
rimozione. L’io, nell'intraprendere la rimozione, si sarebbe messa al servizio delle richieste
provenienti dal super-io, che a loro volta erano il frutto di influssi esterni interiorizzati.
L'io sarebbe stato normalmente influenzato dal mondo esterno in modo duplice attraverso
le percezioni attuali e la memoria.
Nelle psicosi tale influsso sarebbe stato alterato in diverse possibili modalità. Nell’amenza
il mondo esterno non veniva più percepito mentre perdeva significato anche il mondo
interno. Lo stato che ne risultava era paragonabile a una condizione onirica perenne. Nella
schizofrenia si osservava pure una perdita di interesse per la realtà esterna, a favore però di
un mondo interno che la sostituiva.

Sarebbe esistita anche la possibilità che alcune malattie mentali fossero il frutto del conflitto fra
io e super-io come nel caso della melanconia. Sia nella nevrosi sia nella psicosi il rapporto con
la realtà sarebbe risultato alterato: “la nevrosi non rinnega la realtà è semplicemente di essa non
vuole saperne nulla; la psicosi invece rinnega la realtà e cerca di rimpiazzarla.”

RIORGANIZZAZIONE DEL MOVIMENTO PSICOANALITICO

La riorganizzazione del movimento freudiano dopo la Prima guerra mondiale fu piuttosto lenta
la branca statunitense guidata da Karl Abraham e Abraham Brill, aveva persino considerato
l'ipotesi di sciogliersi. Una volta ripresi i contatti tra loro, gli psicanalisti iniziarono una
penetrazione capillare nel continente europeo attraverso la Fondazione di nuove società
nazionali, di nuovi gruppi locali, delle prime cliniche specifiche.

La fondazione dell’Istituto di Berlino costituì l’occasione per istituzionalizzare il training


psicoanalitico, secondo standard che sarebbero stati resi universalmente obbligatori a
partire dal Congresso di Bad Homburg del 1926. La delega di tale impegnativo compito fu
affidata da Freud a Max Eitingon. Il modello del training organizzato da Eitingon era
tripartito.

Prevedeva innanzitutto l’obbligo dell’analisi personale del futuro terapista, seguendo una
proposta che veniva originariamente da Jung. La durata dell’analisi cosiddetta didattica
originariamente era originariamente piuttosto breve, ma destinata ad aumentare
progressivamente.

In secondo luogo, il futuro analista doveva seguire dei corsi di formazione teorica che
avrebbero dovuto comprendere non solo la psicoanalisi ma anche campi affini.

L’analista avrebbe dovuto iniziare la propria pratica sotto una specifica “supervisione” da parte
di un collega più esperto. Quali analisti potessero assumere l’incarico di analizzare altri
analisti i n formazione e quali potessero fungere da supervisori veniva stabilito
dall’Istituto.

La funzionalità del sistema di istruzione tripartito con organizzazione formalizzata e


centralizzata costituì rapidamente uno standard accettato da tutte le istituzioni psicoanalitiche.
Etingon assunse la Presidenza di una commissione internazionale destinata ad uniformare la
formazione degli analisti e si trova a gestire il dissenso degli statunitensi rispetto alla posizione
di Freud in merita la possibilità per i non medici di formarsi come analisti. La commissione
uscì dall'impasse stabilendo che ogni società nazionale potesse stabilire se il candidato dovesse
laurearsi o meno in medicina.
LA TERAPIA ANALITICA: ULTERIORI EVOLUZIONI DELLE IDEE DI FREUD

Dopo aver definito il modello strutturale, Freud ripenso profondamente alcune questioni
fondamentali nell'ambito della teoria e della tecnica. Il concetto di resistenza costituiva un nodo
teorico molto complesso. Freud era consapevole del rischio che quanto asserito dall’analista
non potesse essere rifiutato dal paziente.

In realtà non sono l’assenso o il rifiuto in quanto tali a costituire il criterio della conferma
di un’interpretazione. Il rifiuto poteva costituire la manifestazione di una resistenza.
L'assenso poteva essere ipocrita o condiscendente; o persino risultare a sua volta
funzionale a una resistenza. Il valore della risposta all’interpretazione da parte del paziente
avrebbe dovuto essere valutato su tre criteri fondamentali:

1. La quantità di “affetto” da cui era accompagnata la risposta,


costituiva naturalmente prova a favore di un’interpretazione
corretta il senso di insight profondo da parte del paziente: il
riconoscimento emozionato che l’interpretazione coglieva qualcosa
di essenziale del proprio mondo interno. Anche il rifiuto
accompagnato da emozioni intense negative si doveva considerare
una conferma. Al contrario, l'impassibilità e l’indifferenza del
paziente di fronte all’interpretazione dovevano essere considerate
prova a suo sfavore. Freud riteneva comunque che costruzioni errate
da parte dell'analista fossero sempre possibili e non costituissero un
danno particolare per la terapia.

2. La presenza di dati confirmatori concomitanti; si verificava in


circostanze particolari e fortunate. Il caso più chiaro consisteva
nell’interpretazione rifiutata ancor prima che l’analista avesse modo
di formularla. Una modalità di conferma “particolarmente
impressionante” sì sarebbe osservata quando l’assenso
all’interpretazione “avvalendosi di un atto mancato, si insinua
nell’esplicita formulazione di un dissenso”.

3. La coerenza della risposta all'interpretazione risultava però


quello che senz'altro più importante, quello nel quale Freud
confidava maggiormente ai fini della conferma della validità dei
dati clinici accumulati dalla psicoanalisi. Freud sosteneva infatti
che solo il proseguo dell'analisi potesse consentire di giudicare la
validità di un'interpretazione. La conferma avrebbe dovuto
provenire dall'emersione di un ricordo precedentemente rimosso.

Anche altri criteri potevano avere carattere confermativo. Un criterio di natura molto
particolare era poi costituito dal peggioramento dei sintomi che seguiva inevitabilmente
l’ascolto di interpretazioni significative da parte di quella categoria di pazienti ai quali si
poteva ascrivere “il senso di colpa, il bisogno masochistico di soffrire e la ribellione
all’aiuto che può essere recato dall’analista”.

L’analista dovrebbe prevedere questo tipo di reazione prima che si verifichi, perché possa
essere considerata una conferma dell’interpretazione. Freud aveva sostenuto che la
psicoanalisi fosse l’unica forma di psicoterapia realmente efficace. Solo l’analisi era infatti in
grado di offrire al nevrotico una conoscenza reale e completa del suo mondo interno.

I risultati positivi erano da considerare legati allo scioglimento del transfert e potevano
ritenersi definitivamente acquisiti. In seguito, Freud si riferì all’analisi non più come all’unico
metodo efficace ma come al “più potente”, e come tale da non applicare in casi lievi. Negli
ultimi scritti, Freud sembrava tenere solo un atteggiamento ancora più prudente. Il processo
analitico non solo “è un lavoro lungo e faticoso”: si doveva anche ammettere che è un percorso
terapeutico apparentemente terminato non preservava sempre l’analizzato da problemi psichici
successivi.

Il concetto di “fine analisi” poteva essere declinato in modi differenti. Certo, idealmente, la
terapia terminerebbe qualora “da una continuazione dell’analisi non ci si possa ripromettere
alcun ulteriore cambiamento”. Dando per acquisito che ogni psicopatologia dipendesse sia
da fattori costituzionali sia da fattori esperienziali, solo allorché quest'ultimi prevalevano
l'analisi poteva ottenere i migliori risultati. Ciò perché “il lavoro analitico si poteva svolgere
a partire da quella alleanza che noi stabiliamo con l'io della persona che si sottopone al
trattamento”

Anche l'alleanza terapeutica con l'io del paziente aveva un valore relativo a instabile, perché “i
meccanismi di difesa contro i pericoli del passato ritornano nella cura sotto forma di resistenze
contro la guarigione”. Il lavoro sull’emersione di nuovi contenuti dell'es e di correzione di
qualcosa dell'io procedeva in parallelo: riprendendo la metafora freudiana, era come se si
dovesse rinnovare continuamente l'alleanza. Il paradosso era che la resa sarebbe potuta sembrare
tanto più attraente quanto più netta fosse sembrata la precedente vittoria.

Freud ricordava che ulteriori ostacoli per la cura potevano venire dalla personalità dell'analista.
Anche l’analisi didattica normalmente prevista poteva risultare insufficiente. Ogni analista
avrebbe dovuto quindi sottoporsi a un nuovo periodo di analisi ogni cinque anni. Alcune forme
di resistenza già parzialmente descritte in passato apparivano ora Freud come ostacoli quasi
invalicabili. La “viscosità della libido” e “l'inerzia psichica” potevano rallentare in maniera
imprevedibile ogni tipo di psicoterapia.

Il senso di colpa inconscio già conosciuto come “localizzata a livello del rapporto tra l'io e il
super-io” costituiva dunque solo una componente della resistenza. Tutto questo comportava che
solo una personalità poco disturbata potesse poteva beneficiare realmente di una
psicoterapia analitica.

La “differenza di comportamento” poteva risultare talmente impalpabile da indurre l'analista


considerare conclusa una terapia senza che il paziente avesse avvertito reali vantaggi. Rischio
inverso era che l'analisi potesse considerarsi terminata soltanto in un numero limitatissimo di
casi. A completare il quadro di insieme si aggiungeva l'idea che l'inconscio fosse conoscibile
solo in modo parziale e deformato.
Nelle conclusioni di Analisi terminabile e interminabile Freud chiamava “roccia basilare”
la difesa maschile contro gli aspetti femminili e quella femminile contro gli aspetti
maschili della personalità. Trasformare lessi in una provincia dell'io sarebbe risultato
tutt'altro che facile vacillava la convinzione che fosse possibile conoscere la verità storica
sul passato del paziente. Che tale possibilità non venisse sempre attuata era però ormai
chiaro dall’emergere del concetto di costruzione.

La costruzione costituiva un affresco più vasto, una narrazione sul passato del paziente che
partiva dagli elementi già emersi per dipingere un quadro ampio di eventi non ancora emersi
dalla rimozione.
Inizialmente Freud attribuiva la costruzione un valore anticipatorio, che non sostituiva l'insight.
Alla fine egli si trovava però costretto ad ammettere:” la via che parte dalla costruzione
dell'analista dovrebbe terminare nel ricordo analizzato; Non sempre essa giunga tanto innanzi.
Ci capita abbastanza frequentemente di non riuscire a suscitare nel paziente il ricordo del
rimosso”. È questa posizione ad aprire implicitamente la possibilità di un esito ermeneutico
della teoria psicanalitica.

OTTO RANK E IL TRAUMA DELLA NASCITA

Otto Rank, Sàndor Ferenczi e Wilhelm Reich, considerati a lungo elementi di spicco del
movimento psicoanalitico freudiano, ne vennero tutti e tre emarginati nel corso degli anni
Venti-Trenta. All'intenzione di riformare la psicoanalisi faceva riscontro un atteggiamento
ostile da parte delle istituzioni psicoanalitiche. Particolarmente simile appare la sorte di
Rank e Ferenczi: rimasti a lungo nella cerchia dei collaboratori di Freud, erano destinati a
vivere gli ultimi anni all'indice.

Ambedue peccarono di aver introdotto una novità teorica, che inizialmente venne salutata con
semplice perplessità da Freud e in seguito da lui stesso violentemente aborrita. Ferenczi viene
in effetti considerato ormai un punto di riferimento teorico fondamentale da parte della
psicoanalisi relazionale. Reich nonostante l'evidente rilevanza storica dell' “analisi del
carattere” e di “psicologia di massa del fascismo” continua a essere un autore poco letto.

Il fatto che il movimento psicoanalitico abbia teso a esaltare la figura di Freud come eroica e a
svalutare tutti coloro che ne hanno messi in discussione le idee e stato da tempo messo in luce
dagli storici indipendenti. Nel dicembre del 1923, venne pubblicato il trauma della nascita di
Otto Rank, l'autore aveva già rivestito e ancora rivestiva un ruolo di eccezionale rilievo
nell'ambito del movimento psicanalitico.

Rank era stato segretario verbalizzante della società psicanalitica di Berlino, era membro del
comitato segreto fondato da Freud al fine di vigilare sull’ ortodossia, aveva scritto saggi che
erano stati inseriti nelle edizioni del 1914 e del 1922 dell'interpretazione dei sogni di Freud,
aveva proposto il doppio, un'interpretazione psicoanalitica del tema letterario del sosia che
aveva fortemente impressionato lo stesso Freud.
Nel trauma della nascita, Rank espose l’idea singolare che l’origine prima delle patologie
psichiche andasse fondamentalmente ricercata nell’esperienza compiuta dall’essere umano
nel venire al mondo. Inizialmente Freud non ne risultò particolarmente scosso, anche
perché egli stesso aveva ipotizzato che l'angoscia provata al momento della nascita fosse
prototipica.

La visione di Rank radicalizzata una tale ipotesi:"l'intervento dello psicanalista […] a


questo scopo: il distacco della libido originaria dall'oggetto a cui era rimasta fissata
ottenuto correttamente, cioè mediante la soppressione o l'attenuazione della rimozione
originaria”. “Una volta applicato questo metodo, ci accorgiamo di non aver fatto altro che
ciò che il paziente stesso ha tentato di fare per tutta la vita […]: gli abbiamo, cioè, ha fatto
superare il trauma della nascita”

Nel 1924 Rank pubblico uno scritto a quattro mani con Ferenczi intitolato Prospettiva di
sviluppo della psicoanalisi. Qui infatti Rank e Ferenczi “mettevano in discussione la prevalente
opinione che il ricordare fosse lo scopo fondamentale del lavoro analitico, mentre la ripetizione
fosse un segno di resistenza”. Affinché la cura funzionasse una «“fase di esperienza” doveva
precedere la classica “fase di comprensione”».

Lo scopo dell’analista sarebbe consistito nel mettere in condizione il paziente di rivivere le


esperienze traumatiche. Rank aveva anche provvisoriamente convinto Ferenczi che fissare
un termine ogni analisi costituisse un metodo pressoché infallibile per abbreviarla.

Il libro sulla tecnica psicanalitica, pubblicato successivamente, sosteneva che il vero fattore
terapeutico dell’analisi consistesse specificamente nel rivivere, sotto la guida dell'analista,
l'esperienza affettiva della nascita. Erano parole che suggerivano anatema e scomunica. Che
arrivarono infine ufficialmente dall'opera freudiana inibizione, sintomo, angoscia. In realtà il
processo di allontanamento era già iniziato allorché Rank aveva trovato accoglienze molto
favorevoli sia in Francia sia negli Stati Uniti e aveva deciso di stabilirsi definitivamente a New
York.

Il trasferimento determinò prima, nel 1924, la sua sostituzione con Rado alla direzione
della Zeitschrift; poi, nel 1925, la sua sostituzione con Anna Freud nel comitato. Negli
ultimi anni Rank continuò a esercitare l'attività di analista ma da outsider. Rank accolse nel
proprio modello teorico idee junghiane, come quelle di archetipo, sè, individuazione,
estroversione- introversione.

L’ANALISI ATTIVA E I SUOI ESITI

L'allontanamento di Ferenczi dalla cerchia freudiana fu legato allo sviluppo di una tecnica,
dall'ungherese chiamata “tecnica attiva”. La locuzione “tecnica attiva” supponeva un
atteggiamento più interventista da parte del terapeuta che vedeva l'analista attendere che fosse il
paziente a percorrere il cammino che portava la comprensione dei sintomi. La storia della
psicoterapia psicoanalitica aveva attraversato una fase iniziale nella quale il terapeuta utilizzava
un atteggiamento “molto attivo”.
Solo successivamente Freud aveva adottato l'atteggiamento “passivo” adottando il principio
della libera associazione. L'uso dell'interpretazione poteva essere classificato come un momento
attivo da parte dell'analista, perché imprimeva ai pensieri del paziente “una direzione precisa”.
Specificatamente attivi erano inoltre gli interventi di tipo psicoeducativo, cioè le occasioni nelle
quali l'analista decideva di “esercitare un flusso sul paziente”. Ciò che però costituiva la tecnica
attiva nel senso proposto da Ferenczi era l’attribuzione di compiti al paziente, al fine di
superare situazioni d’impasse.

Nei casi di isteria d’angoscia i pazienti “non riuscivano a superare i punti morti dell’analisi se
non quando venivano costretti a uscire dal rifugio sicuro delle loro fobie”. L'esposizione
comportava secondo Ferenczi un aumento temporaneo dell'angoscia ma anche il superamento
della resistenza al recupero di materiale inconscio.

In altri casi, piuttosto che eseguire atti spiacevoli, i pazienti venivano invitati a rinunciare ad
atti per loro piacevoli. Ferenczi avvertiva che l'uso di ordini e divieti non doveva mai essere
messo in atto prima che il transfert si fosse consolidato. Invece:” la tecnica attiva intende solo
ed esclusivamente portare alla luce, mediante l'azione, alcune tendenze ancora latenti alla
ripetizione”

In seguito Ferenczi enumerò altre possibili applicazioni del principio dell'attività, che poteva a
suo avviso applicarsi anche per interrompere il flusso verbale del paziente che stava
apparentemente continuando nelle sue libere associazioni. In questo senso il compito di
smascherare le resistenze non doveva essere trascurato nemmeno in quei casi nei quali la
resistenza tendeva “a utilizzare la regola fondamentale dell'associazione”.

Nel caso di pazienti con un’attività fantasmatica particolarmente povera, la tecnica attiva
trovava nuovi campi applicativi. Queste invenzioni si sarebbero trasformate
successivamente in spunti per una piena emersione di contenuti inconsci profondamente
rimossi. Progressivamente Ferenczi iniziò a ritenere opportuno che si potesse cominciare a
“ prescrivere delle regole di comportamento” che facessero “progredire il lavoro analitico”.

Gli esperimenti non erano privi di rischi e Ferenczi aveva un l'onestà intellettuale di
ammetterlo, suggerendo che le misure provocatorie non dovessero essere imposte come una
ripetizione del rapporto genitori- bambino.

Dopo un'introduzione, in determinati casi di compiti di aumento della tensione uretrale e


sfinterica, Ferenczi iniziò anche a sperimentare tecniche di rilassamento durante la seduta.
L'evoluzione verso esperimenti tecnici sempre più radicali venne influenzata in modo decisivo
da Elizabeth Severn, una paziente che entrò nella vita di Ferenczi nel 1924 e rimase in
analisi con lui praticamente fino alla morte dello psicoanalista.

Si trattava di una persona fortemente disturbata, più volte sull’orlo del suicidio e che
arrivò a formulare un’auto-diagnosi di schizofrenia. Con lei Ferenczi mise in atto sforzi
sovrumani, giungendo a sedute molteplici nella stessa giornata. Infine arrivò anche
l'esperimento dell'analisi reciproca, ampiamente documentato nel diario clinico. Nel caso
di Ferenczi, l'allontanamento da parte di Freud nel corso degli ultimi anni non venne mai
ufficializzato.

L’INCONTRO TRA PSICOANALISI E MARXISMO

Un'interpretazione storica molto fortunata vuole Karl Marx e Freud accumunati con Friedrich
Nietzsche con l'etichetta di “filosofi del sospetto”. A partire da questi tre pensatori, infatti,
sarebbe divenuto finalmente possibile “sospettare” che lo stato di fatto, l'ordine costituito, la
coscienza, non siano ciò che appaiono e che la loro manifestazione attuale non sia l’unica
possibile. L’incontro tra la psicologia del profondo e Nietzsche fu molto precoce: Freud,
Adler e Jung ne vennero direttamente influenzati.

L’incontro tra marxismo e psicoanalisi fu più tardo. La sua datazione può essere
ricondotta agli anni vento del Novecento. Le sue fonti parallele furono la nascita della
Scuola di Francoforte e la conversione al comunismo di Wilhelm Reich. Da una parte la
psicoanalisi stava conducendo ormai un'affermazione straordinaria. Dall'altra si era assistito
alla vittoria al consolidamento di un regime comunista in Russia; l'idea di una rivoluzione
sociale disegno marxista in Europa occidentale poteva sembrare una possibilità ormai
concreta.

Il cosiddetto freudo-marxismo venne declinata in maniera differente ma partiva da una


comune radice: la convinzione che non fosse sufficiente curare il singolo per guarire la sua
nevrosi. La società stessa era ammalata e nevrotizzava necessariamente gli individui.
Senza modificare il sistema, dunque, non sarebbe stato del tutto possibile restituire alla sanità
mentale l’essere umano. L'antropologia marxista su cui si basava questa impostazione
attinge agli iscritti del giovane Marx, in particolare i Manoscritti economico-filosofici, la
Sacra Famiglia e L’Ideologia tedesca, che storicizzano i bisogni e i desideri
dell’uomo.

In questi scritti era presente un’antropologia in cui i bisogni naturali interagivano con la
loro possibilità di soddisfazione; i bisogni (marxiani) si identificavano con i desideri
(freudiani), cambiando al confronto con la realtà. Per esempio la fame è diversa a seconda
se si soddisfa con un cibo semplice o con un cibo culturalmente rielaborato. Questo uso
psicologico di Marx condusse a una concezione della psicologia e della psicoanalisi che
teneva presente i limiti posti all'evoluzione umana dalle condizioni storiche e materiali in
cui l'individuo si trovava esistere concretamente.

Sia Reich sia la Scuola di Francoforte si convinsero che l’inquadramento sociale


dell’individuo partisse dal vissuto familiare, attraverso il quale venivano assorbite molto presto
le istanze repressive veicolate dalla società. Raich si risolse a proporre una strategia di azione
basata sulla liberazione sessuale. I francofortesi concepirono il pensiero freudiano piuttosto in
qualità di strumento diagnostico che come leva del cambiamento.

REICH E L’ANALISI DEL CARATTERE


Wilhelm Reich si formò a Vienna come medico e psichiatra dopo aver partecipato alla Prima
guerra mondiale. Il suo percorso di studi fu rapido e brillante e lo portò a laurearsi in
medicina nel 1922. Nel 1920 aveva già aderito alla Società di psicoanalisi di Vienna e
solo due anni dopo iniziava la sua pratica privata come psicoanalista. Il suo incontro con Freud
fu favorito dal suo interesse per la sessuologia. Reich era infatti diventato il leader di un gruppo
di studenti viennesi che lamentavano la carenza di insegnamento in questo campo in ambito
universitario.

Sia la personalità sia le idee di Freud marcarono Reich in modo immediato e indelebile. Questi
si trovò attratto dalla concezione freudiana della libido come energia. Fin da subito, Reich
mostrò un profondo interesse per i problemi sociali e promosse la creazione di consultori
sessuologici per le classi sociali meno abbienti. Proprio il contatto con “la miseria sessuale
delle masse” gli instillò dubbi sull’approccio psicoanalitico classico.

Ai suoi occhi la repressione sessuale, piuttosto che un mezzo per conservare la civiltà,
come pensava Freud, costituiva un mezzo per attuare la repressione politica, soprattutto a
carico delle fasce più povere della popolazione. Simpatizzante è iscritta al partito socialista
austriaco ne uscì nel 1927.

Aderì allora al partito comunista e si immerse nella lettura di Marx ed Engels, primo frutto
della quale risultò Materialismo dialettico e psicoanalisi, testo in cui tentava ha un tempo di
mostrare la natura intimamente dialettica della psicanalisi e di constatarne la tendenza di
perdere gli originari connotati “rivoluzionari” per trasformarsi in uno strumento di dominio
della borghesia sul proletariato.

Riprendendo le ricerche dell'antropologo Malinowski che mettevano in discussione la


pretesa universalità del complesso di Edipo, Reich giunse a rovesciare l’assunto freudiano
per cui la civiltà si basava sulla repressione delle pulsioni. A suo avviso era la civiltà ad
aver generato la repressione, Funzionale a mantenere soggette le classi subalterne.
Piuttosto che essere un fattore di ordine sociale, la repressione degradava la vita amorosa.
Reich venne messa la porta dall’ IPA, non tanto per le posizioni ormai quasi eretiche
quanto per la sua aperta militanza comunista.

I colleghi analisti temevano che la presenza di Reich tra i loro ranghi potesse attirare
un'attenzione non proprio benevola da parte dei nazisti. L'attività teorico-clinica di Reich,
suscitò una notevole attenzione nell'ambito del movimento psicoanalitico ed esercitò
un'influenza superiore a quella effettivamente riconosciutagli.

Si può fermare che le sue idee facessero da “ponte” tra le idee di Rank e Ferenczi e quelle della
successiva psicologia dell’Io: in effetti il suo libro più importante, L’analisi del carattere,
prendeva le mosse proprio dalle proposte rankiane e ferencziane di analisi attiva e venne
successivamente menzionato da Anna Freud in L’io e i meccanismi di difesa. Il contributo di
Reich prendeva le mosse da un fondamentale nodo problematico della psicoanalisi freudiana.
Freud aveva inizialmente ritenuto che l’emersione dei contenuti inconsci nella coscienza
dovesse necessariamente portare alla guarigione. In seguito si era reso conto che l’analisi
dell’inconscio poteva essere solo un presupposto della guarigione, ma non sempre tale
presupposto risultava sufficiente. Reich si chiese dunque per quale motivo alcuni pazienti
rimanessero refrattari a ogni miglioramento malgrado un’analisi lunga e approfondita, e
altri invece guarissero del tutto dalla loro nevrosi.

Paragonando ciò che differenziava i pazienti del primo gruppo da quelli del secondo,
Reich giunse alla conclusione che la chiave interpretativa principale andasse ricercata
nell’attività sessuale. I pazienti si avviavano alla guarigione se riuscivano a iniziare con
l’aiuto dell’analisi una vita sessuale soddisfacente e non miglioravano se permanevano
nell’astinenza.

La probabilità di guarigione risultava tanto più elevata quanto più “è stato attivato il primato
genitale” durante l’età dello sviluppo. Una caratteristica notevole dei testi clinici di Reich
consiste nel coraggio dimostrato nel raccontare i fallimenti terapeutici, come nel caso di
Dora. E proprio come per Freud, le situazioni di impasse rappresentavano uno spunto per
illustrare suggerimenti tecnici nuovi.
Come la fuga di Dora aveva offerto un motivo per evidenziare l'importanza della gestione del
transfert, così la riflessione sui casi non conclusi da parte di Reich gli suggerì un nuovo
atteggiamento rispetto al procedere delle analisi. L'obiettivo polemico era anzitutto “l'errata
concezione della regola freudiana secondo cui la direzione dell'analisi deve essere lasciata al
paziente.”

Tuttavia osservava Reich, non sarebbe stato mai il paziente a parlare per primo della propria
resistenza. Sarebbe dovuto essere quindi da analista a dover indirizzare il percorso delle
associazioni e a cercare proprio nella resistenza un filo rosso da seguire nel progressivo
disvelamento offerto nel percorso analitico. La vicinanza con le tesi di Ferenczi e Rank riferite
all'analisi attiva era evidente. Dei due colleghi trovava errata la convinzione che fissare in
anticipo un termine per l’analisi potesse sfondare il muro della resistenza.

Reich assumeva anche con la massima chiarezza che l’analisi della resistenza dovesse
procedere sempre con l’esplicitazione dei contenuti profondi. Così come era necessario
“evitare interpretazioni più profonde dell’inconscio fino a quando esiste la barriera della
cortesia convenzionale tra paziente ed analista”. Come regola generale, “si può dire che
durante l'analisi non è mai troppo presto per intervenire nelle resistenze, e che
nell’interpretazione dell’inconscio […] non si può mai essere troppo discreti”.

La questione dell’analisi della resistenza portò Reich a proporre altre innovazioni tecniche
di estremo interesse, in primo luogo enfatizzando un aspetto delle comunicazioni da parte
del paziente spesso sottovalutato, cioè il non-verbale. Uno dei problemi fondamentali della
prassi analitica prevalente era la sopravvalutazione del contenuto a scapito della forma.
Invece non era importante solo quanto il paziente diceva ma anche come lo diceva, o
addirittura quanto non diceva e la stessa assenza apparente di materiale.

Inversamente era anche possibile che la sovrabbondanza di sogni e associazioni costituisse


una forma paradossale di resistenza: il paziente mostrava un transfert positivo del quale
l'analista si compiaceva, mentre il transfert negativo rimaneva nascosto e l'analisi si
arenava inspiegabilmente.

Secondo Reich: “è importante comprendere prima di tutto il significato attuale della


resistenza caratteriale, cosa che non sempre richiede la conoscenza del materiale infantile”.
Il nevrotico avrebbe teso del resto apportare in analisi una quantità relativamente minore di
tale materiale, se il percorso terapeutico non lo avesse portato prima a smantellare le
resistenze più forti.

La resistenza non era l'unica espressione del carattere nevrotico, che si esprimeva in modo
analogo anche lontano dal rapporto con l'analista. L'analisi del carattere costituisce una
pietra miliare nella storia dello sviluppo della terapia analitica perché propose una precisa
strategia sul tempo debito dell'interpretazione. I principi generali di Reich vennero in seguito
assimilati nella psicologia dell’Io, ma ciò non venne adeguatamente riconosciuto per le svolte
teoriche di Reich, che lo avrebbero portato sempre più lontano dall'orbita psicoanalitica,
quando infine, comincio a sviluppare singolari teorie su un'energia vitale (o orgonica) che
avrebbe permeato l'universo.

Il Reich successivo all’Analisi del carattere e Psicologia di massa del fascismo (1933), in
primo luogo sviluppò la sua concezione della corazza caratteriale, ipotizzando che ai
blocchi emotivi corrispondessero blocchi muscolari o comunque fisici. Cominciò dunque a
introdurre tecniche di rilassamento e di “provocazione psico-motoria”, volte cioè a provocare
nel paziente vere e proprie crisi di pianto e di riso.

L’intento di queste tecniche era quello di disseppellire quelle energie sepolte nell’individuo.
Questo approccio aprì la strada a quella che successivamente, con Alexander Lowen, si è
affermata come terapia bioenergetica. Reich si indirizzerà verso idee pressoché deliranti. I
suoi bizzarri esperimenti terapeutici attirarono su di lui l'attenzione dell'autorità giudiziaria.
Quando infatti Reich iniziò a rinchiudere i suoi pazienti in contenitori metallici, nei quali
irradiarli di energia orgonica, venne arrestato dalla polizia americana. La sua vita finì
proprio in carcere dove morì d'infarto nel 1957.

LA SCUOLA DI FRANCOFORTE

Grazie al supporto del miliardario Hermann Weil, nel 1922 venne fondato a Francoforte
l’Istituto per la ricerca sociale, che nasceva nell’intento di introdurre il marxismo
nell’Accademia tedesca. Il gruppo si consolidò intorno alla figura carismatica di Max
Horkheimer, direttore dell’Istituto a partire dal 1929, impegnandosi a costruire la Teoria
critica: un tentativo di riprendere e aggiornare la riflessione di Marx. Oltre Horkheimer, alla
scuola di Francoforte sono legati nomi di grande risonanza come Adorno, Marcuse, Walter
Benjamin e Habermas. Per la storia della psicoterapia, il nome di maggiore rilievo è
sicuramente stato quello di Erich Fromm.

Un’impronta caratteristica del movimento divenne l’uso della psicoanalisi come strumento di
indagine della società contemporanea; strumento che si affiancava alla filosofia della storia e
alla teoria economica di stampo marxista. Per la scuola di Francoforte tutto il mondo
occidentale viveva sotto l’affermazione del capitalismo a scapito delle classi subalterne. In
questo senso non si poteva riconoscere una vera e propria differenza qualitativa tra gli Stati
democratico- liberali e il regime nazista: il liberalismo non era che fascismo mascherato.

La situazione presente era considerata l’esito di un processo storico, la cui origine era legata
all’Illuminismo. Fu con l’Illuminismo che si affermò in Occidente la ragione strumentale,
ovvero la razionalità apparente, piegata al fine di controllare il mondo fisico e, una volta
applicata alla produzione di merci, destinata ad accentuare sempre di più il dominio dei
capitalisti sulla classe lavoratrice.

L’Illuminismo non poteva essere interpretato come un movimento di liberazione dell’essere


umano, ma come la fonte della sua sempre maggiore alienazione. La razionalizzazione del
sistema produttivo concise infatti con una esasperata divisione del lavoro. Marx vide bene
come questo processo storico portasse a una concentrazione del potere economico nelle
mani di pochi e al crescente asservimento della classe operaia. Marx non riuscì a vedere
però l'aspetto della repressione legata alla sessualità: la società si reggerebbe infatti anche
sulla sublimazione degli istinti sessuali, come sostenuto nel Disagio della civiltà.

Marx aveva commesso un errore nel prevedere che la società borghese, fondata sullo
sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sarebbe stata rovesciata dalla ribellione del proletariato. Al
contrario, nei lavoratori tedeschi, né quelli americani avevano mostrato un particolare impulso
al cambiamento politico. L'uso della propaganda non poteva rappresentare una spiegazione
sufficiente allo stallo della dialettica storica e del conflitto che avrebbe dovuto condurre alla
rivoluzione.

La comprensione delle ragioni psicologiche soggettive e gruppali divenne uno strumento


ermeneutico fondamentale per la comprensione dell’evoluzione recente delle società
occidentali.
Fu Fromm a coniare l’espressione “psicologia sociale analitica” che avrebbe indicato
l’applicazione della psicoanalisi allo studio della società. A Fromm si doveva un'intuizione di
grande profondità: poiché l’individuo non aveva un contatto diretto con la società se non in un
momento relativamente tardo della sua esistenza, quando il suo carattere era già formato, era la
famiglia la principale agenzia psicologica della società.

Studi sull’autorità e la famiglia: la testimonianza più importante della collaborazione di Eric


Fromm con il gruppo di Horkheimer. Qui Fromm argomentava estesamente su come la
famiglia costituisse il fondamento dell’autorità politica, poichè il rapporto instaurato dai figli
con il padre era il modello dell’atteggiamento nei confronti dell’autorità costituita: Allo stesso
modo, però, era il modello sociale a fondare la struttura familiare.

La collaborazione di Fromm con il gruppo dei francofortesi non sopravvisse molto al


trasferimento nel 1934 negli Stati Uniti a causa del nazismo: ciò fu dovuto in parte a
divergenze economiche; in parte a una diversa posizione proprio rispetto a Freud: la visione
naturalistica e materialistica della psicanalisi che Fromm tendeva sempre più a criticare
costituiva un motivo di specifico interesse per Adorno e Horkheimer. Anche dopo il distacco di
Fromm i Francofortesi continuarono a utilizzare ampliamente Freud nello sviluppo della
Teoria Critica.

Vale la pena ricordare almeno due testi riconducibili a esponenti della Scuola che hanno
esercitato una particolare influenza storica: il primo è La personalità autoritaria, che
costituì un tentativo di studiare la tendenza latente ad accettare i regimi di stampo fascista.

Adorno e i suoi collaboratori effettuarono uno studio empirico ad ampio raggio, per
comprendere quali siano le caratteristiche di personalità di chi è tendenzialmente portato a
integrarsi senza difficoltà in una società di stampo autoritario. Il secondo volume Eros e
civiltà, libro in cui Marcuse propose un'utopia socialista fondata sulla liberazione
economica e sessuale che risultò uno dei manifesti del 68.
CAPITOLO 5. NUOVE VIE DELLA PSICOTERAPIA INTORNO AGLI ANNI DEL

LE DIVERSE ORIGINI DELLA PSICOTERAPIA DI GRUPPO

A seconda di quale elemento si consideri decisivo per definire la locuzione “psicoterapia di


gruppo”, sarà possibile identificare date di nascita relative molto diverse. I trattamenti che
coinvolgono gruppi possono essere considerati antichi quanto la tradizione magica sciamanica.
Già nella Grecia classica, il teatro assunse un ruolo terapeutico attraverso la catarsi. Sia
Mesmer sia Emile Couè, tenevano per loro, i trattamenti psicoterapeutici delle sedute per
gruppi,

Nel corso del Novecento e soprattutto nei paesi anglosassoni, il piccolo gruppo divenne
un nuovo soggetto dell’interesse degli scienziati “psi”. Alcune pionieristiche iniziative
dell'uso terapeutico del gruppo con l'obiettivo di favorire l'auto aiuto fra i pazienti
sofferenti di una medesima condizione medica sono spesso riportate in letteratura. Lo
sviluppo di un gruppo di lavoro a scopi di aiuto psicologico viene usualmente
ricondotto all’iniziativa di Joseph Pratt. Questi era un medico che organizzava sedute o
“classi” di pazienti tubercolotici da 20-25 partecipanti, riuniti ogni settimana.

Lo scopo delle riunioni era sollevare il morale, attraverso lo scambio di informazioni sui
miglioramenti fisici di ognuno dei malati. Freud fu il primo psicoterapeuta a interessarsi
dei fenomeni di gruppo e a fornire uno schema interpretativo che partiva dalla constatazione
di un ormai acquisita conoscenza comune dell'influenza di fattori inconsci sulla condotta di
gruppo.

Freud sottolineava che la condotta meno razionale e più emotiva dell'essere umano in un
contesto sociale allargato era usualmente spiegata attraverso il fenomeno della suggestione.
Secondo Freud, la chiave per interpretare i fenomeni gruppali andava ricercata nel legame
tra leader e componenti del gruppo. Il meccanismo di fondo che creava i legami di
gruppo era quello dell’identificazione, che sostituiva la suggestione e l’imitazione.

In questo senso, i componenti del gruppo: “hanno messo un unico oggetto al posto del loro
Ideale dell’Io”. Freud non ricavò mai dalle sue idee un'applicazione terapeutica per gruppi.
Edward Lazell partendo dal presupposto comunemente accettato che i pazienti
schizofrenici fossero inaccessibili alla terapia individuale, decise di tenere loro una serie di
conferenze sulla psicoanalisi. Lazell individuò nella socializzazione di temi come la
sessualità e la morte un fattore terapeutico importante.

Marsch non utilizzò la psicanalisi ma ciò che egli stesso considerava una sorta di equivalente
psicologico del risveglio religioso. Fu invece lo psicoanalista Nicholas Trigant Burrow a
sviluppare l’idea di analisi di gruppo. Burrow riteneva che i conflitti intraindividuali fossero in
realtà il riflesso di conflitti interpersonali e che la situazione di gruppo fosse il mezzo
migliore
per evidenziare la dinamica.

Se Burrow condivideva con Freud l’idea che la società in quanto tale fosse nevrotizzante,
riteneva tuttavia che il dato non fosse immodificabile e che rappresentasse solo il frutto
dell’adozione di un codice di comportamento che escludeva la spontaneità e la creatività
nei rapporti interpersonali.

Questa impostazione lo portò a concepire un setting di gruppo nel quale anche la


personalità del terapeuta era messa in gioco. Burrow era mosso dall'intento di porre paziente
e medico su uno stesso piano orizzontale simmetrico, nella convinzione che fosse possibile
l’analisi reciproca dei meccanismi di difesa fra i membri del piccolo circolo; così ogni
partecipante
avrebbe aiutato a rendere più tollerabili le emozioni e a guarire dai disturbi nevrotici tutti i
membri del piccolo gruppo.

La cosiddetta analisi in gruppo venne sviluppata a partire dagli anni Trenta da una serie di
psicoanalisti americani che utilizzavano il setting gruppale ma focalizzavano la cura
sull'individuo. Louis Wender concepiva il gruppo come la riedizione della famiglia del
paziente.
In questo caso il trattamento di gruppo si alternava al trattamento individuale.

Samuel Slavson utilizzava il gruppo per ragioni essenzialmente pratiche, legata al rapporto
sfavorevole tra il numero di terapeuti e numero di pazienti, evidenziando anche
un'interessante effetto della terapia di gruppo, che consisteva nel transfert multilaterale,
ovvero nella possibilità che sui membri del gruppo fossero proiettati i caratteri di altri
familiari. Una vera diffusione di una psicoterapia di orientamento psicoanalitico
focalizzata sul gruppo non si ebbe prima del secondo dopoguerra.

I suoi battistrada furono le opere di Sigmund Foulkes e Wilfred Bion. Il vero pioniere può
probabilmente essere considerato Jacob Levi Moreno, unanimemente riconosciuto come
l'inventore dello psicodramma. Le esperienze di Moreno erano destinate a influenzare la
nascita della psicoterapia in/di gruppo, della, della terapia di coppia, dei gruppi di autoaiuto,
della psicoterapia familiare, della comunità terapeutica.

MORENO E LA “CULLA DELLO PSICODRAMMA”

Freud costituì la bestia nera di Moreno, che formulò le sue proposte teoriche presentandosi come
il contraltare della psicoanalisi. Nell' additare i limiti fondamentali del pensiero freudiano, cioè il
rifiuto della religione e l'indifferenza verso i movimenti sociali, Moreno trascurava
semplicemente di notare che nel primo caso Freud trovava già Esplicita alternativa Jung. Tra le
sue fonti di ispirazione Moreno menzionava Henry Bergson e Charles Sanders Peirce che
avrebbero introdotto nel pensiero filosofico la riflessione sulla spontaneità.

Gli inizi dell'attività di Moreno, ciò che egli stesso definiva la “culla dello psicodramma”,
possono essere ricondotte al periodo in cui frequentava l'università di Vienna. Qui Moreno, tra
il 1908 e il 1911, solleva mettere insieme gruppi di bambini per organizzare delle recite
improvvisate. Nel 1913 si attivò per riunire insieme le prostitute di Vienna in
un'organizzazione autogestita di mutua assistenza. Nel 1914 pubblicò invito a un incontro.
Dal 1915 al 1917 Moreno si interessò invece di rifugiati tirolesi del campo di Mittendorf.

Secondo Moreno lo psicodramma come tale avrebbe avuto una vera e propria data di
nascita, corrispondente al “primo aprile 1921”. In tale occasione vide la luce per la
prima volta un esperimento teatrale nel quale non erano previsti apriori né un copione, né
degli attori. Quando si alzò il sipario, sulla scena vi erano solo un trono e una corona.

La proposta che Moreno formulò agli attoniti presenti era che fossero loro stessi a
rappresentare il dramma che il mondo stava vivendo, trovando tra di loro una persona che
potesse fungere da sovrano. L'aspirazione di fondo di Moreno era infatti quella di “ aiutare la
società a sviluppare forme più efficaci di democrazia concreta”. Né questo, né altri tentativi
moreniani di riproporre il teatro di improvvisazione in altri contesti ottenero un particolare
seguito, anzi si attirarono critiche.

La situazione cambiò quando Moreno emigrò negli USA, nel 1925, e di limitare l’applicazione
delle proprie idee alla cura del disagio mentale. Negli USA Moreno trovava una mentalità più
aperta di quella europea ad accettare l’uso dell’azione in un contesto psicoterapeutico. L'idea
stessa di agire era infatti condannata per principio dalla psicoanalisi.

Allo sviluppo delle tecniche dello psicodramma corrispose un riscontro sempre più
significativo, che condusse Moreno ad aprire un sanatorio a Beacon nel 1936, poi un teatro-
istituto a New York e in seguito a fondare la prima organizzazione professionale orientata
all’impiego della psicoterapia di gruppo. Fino alla sua morte Moreno rimase il leader
indiscusso e il punto di riferimento teorico-clinico degli psicodrammatisti.

GLI ELEMENTI DELLO PSICODRAMMA

Moreno affermava di avere “ripreso la linea di pensiero dal punto in cui l'aveva lasciata
Aristotele”. Aristotele, infatti, nella Poetica, “sostiene che lo scopo del dramma è purificare gli
spettatori attraverso l’eccitazione artistica di alcune emozioni che funzionano come un tipo di
sollievo dalle loro passioni personali”. Al contrario, lo psicodramma avrebbe prodotto un
effetto terapeutico non nello spettatore, ma nelle stesse persone che rappresentavano il
dramma e, allo stesso tempo, se ne liberavano.

Questo effetto sarebbe stato determinato dal fatto che l'azione non era basata su testi scritti
inventati, ma su eventi reali, sull'esperienza dei membri del gruppo. Ognuno di essi condivideva
con gli altri il racconto di episodi autobiografici determinati dalla propria vita e con il loro aiuto
li rimetteva in scena. L’effetto terapeutico sarebbe stato promosso dalla possibilità di
improvvisare nuove soluzioni. Moreno definiva questi due procedimenti come catarsi di
abreazione e catarsi di integrazione: senza la seconda, la prima aveva un valore unicamente
provvisorio.

La cosiddetta catarsi di appartenenza era un fenomeno ulteriore che si sarebbe determinato


quando una persona avesse cominciato a percepirsi accettata come membro del gruppo dei
partecipanti. Tra i concetti chiave della teoria dello psicodramma, fondamentale era la teoria
del ruolo. Secondo Moreno la personalità individuale, il Sé, si sarebbe formata attraverso
l’integrazione di una serie di ruoli che ognuno era chiamato a recitare.

I ruoli erano di tre tipi: fisiologici, psicologici e sociali. Il sorgere di legami operativi tra i
vari tipi di ruolo recitati dall'individuo avrebbe strutturato la personalità in modo sempre
più stabile. Quando una persona assumeva un ruolo sociale definito, avrebbe teso ad
identificarsi con il suo ruolo e a comportarsi come tale. Una condotta improntata al ruolo
tendeva a essere stati che priva di spontaneità.

I conflitti sarebbero diventati inevitabili fondamentalmente perché, evitando la spontaneità,


una persona non sarebbe riuscita a vedere possibilità di condotta alternative. Mettere in scena
la propria vita consentiva di assumere quella distanza dal ruolo che era condizione necessaria
per il cambiamento. Nella teoria dello psicodramma cambiava anche la concezione del
transfert. Moreno riconosceva l’esistenza del transfert come proiezione sul terapeuta del
mondo interno del paziente.

A suo avviso anche un'altro processo aveva luogo “in quella parte del suo Io che non è avvinta
dall’autosuggestione”: si trattava del tele, sviluppatesi dalle sensazioni che gli individui
provavano nei confronti degli altri, stimando e valutando che genere di persone fossero. Il tele
era il frutto dell’affinità nei confronti degli altri. Secondo Moreno il tele era il “cemento che
tiene insieme i gruppi”; anticipa fenomenologicamente il transfert permane anche quando
questo è risolto.

In ultima analisi costituiva “il fattore decisivo per il progresso terapeutico”. Per quanto il
terapeuta potesse essere addestrato a prevenire il controtransfert dalla sua formazione, non
avrebbe potuto mai essere nelle condizioni di prevenire relazioni di tele differenti con pazienti
diversi. Quelle che Moreno chiamava termine tele-limitazioni avrebbero costituito il motivo
per cui i terapeuti potevano ottenere migliori risultati con alcuni pazienti e peggiori con altri.

Moreno mise a punto tecniche relative alla diagnosi delle relazioni fra componenti di piccoli
gruppi è una vera terapia delle disfunzionalità di quelli che per la prima volta utilizzava il role
playing: un gioco di ruolo drammatizzato che avrebbe consentito la messa in atto di quei
conflitti che erano disfunzionali e avrebbe permesso lo sblocco del funzionamento degli stessi.
Affinché lo psicodramma potesse svolgersi, dal punto di vista di Moreno era necessaria la
presenza di diverse persone:

● un regista, corrispondente al terapeuta, il quale doveva facilitare la messa in scena e


mettere in atto tutte quelle tecniche volte a suscitare la distanza del ruolo e l’empatia.

● Il protagonista, occupava il centro dell’attenzione e in genere recitava se stesso o una


persona fondamentale della sua vita.

● Almeno un ausiliario aiutava il protagonista, recitando un ruolo di interazione con


lui.

● Il pubblico era composto dagli altri membri del gruppo terapeutico, che talvolta potevano
assumere a loro volta un ruolo attivo singolarmente o collettivamente.
Perché lo psicodramma potesse svolgersi era necessario utilizzare un palcoscenico. Ogni
sessione di psicoterapia basata sullo psicodramma si fondava, nello schema previsto da
Moreno, su tre fasi:
● In una prima fase di preparazione (warming-up) il terapeuta-regista doveva facilitare
l’interazione tra i membri del gruppo e rendere possibile la partecipazione effettiva di tutti i
membri.
● La scelta del protagonista dell’azione vera e propria sarebbe stata compiuta dal gruppo
sulla base della massima condivisione nel qui e ora dell’interesse collettivo nei
confronti del problema portato da un singolo. Durante l’azione il terapeuta utilizzava
una serie di tecniche per facilitare l’acquisizione di consapevolezza da parte del
protagonista, l’empatia reciproca dei membri del gruppo e in ultima analisi la
catarsi. Le tecniche più classiche inventate da Moreno erano il doppio, lo specchio, il
soliloquio, l’inversione di ruolo.

- Il doppio e lo specchio consentivano al protagonista di comprendere come gli altri lo


vedevano o immaginavano che egli si sentisse

- la possibilità del soliloquio veniva suggerita dal regista ha un protagonista in


difficoltà per esplorare e verbalizzare le proprie emozioni

- l’inversione di ruolo consentiva invece al protagonista di esplorare ciò che a suo


avviso esprimeva il mondo interno della persona momentaneamente recitata dall’ausiliario.

● La fase di cooling-off, che prevedeva la condivisione con il gruppo di quanto si era


provato, sia da parte del protagonista e degli ausiliari, sia da parte di chi non aveva
partecipato sul palcoscenico. A questa seguiva una discussione finale.

Non era previsto che il terapeuta- regista facesse uso dell’interpretazione. Simile allo
psicodramma era il sociodramma, dove erano messi in atto ruoli collettivi (genitore,
datore di lavoro ecc) e non specifici del vissuto personale.

KURT LEWIN, UNA FONTE NASCOSTA

Kurt Lewin pur non essendo uno psicoterapeuta, elabora una serie di concezioni
epistemologiche che influenzarono profondamente varie applicazioni psicoterapeutiche. Moreno
arrivò addirittura ad accusare Lewin di plagio del suo movimento sociometrico. Lewin aveva un
background differente da quello psicoterapeutico e pervenne alle proprie elaborazioni in modo
indipendente. Studio a Berlino presso l'istituto di psicologia e quindi fu influenzato dalla
psicologia della gestalt, ma anche dalla filosofia delle forme simboliche, dal neopositivismo
logico e dal marxismo occidentale.

Durante la Prima guerra mondiale si arruolò come volontario all’esercito. Lewin indagò
teoricamente l'organizzazione scientifica del lavoro e nel 1920 scrisse Socializing the Taylor
system. Negli anni 30, Lewin pubblico alcune importanti contributi riguardanti la personalità
che negli Stati Uniti vennero raccolti nei volumi a Dynamic Theory of personality e Principle
of topological psychology.

Nel 1939 Lewin e Korsch presentarono una comunicazione al V Congresso internazionale


per l’unità della scienza, Mathematical constructs in psychology and sociology. Vi si
affermava che la psicologia la sociologia avevano utilizzato solo in modo embrionale la
matematica. Nella psicologia era auspicabile una transizione dallo stadio descrittivo a quello
dinamico, con la conseguente elaborazione di costrutti matematici nuovi.

Un punto di partenza per la matematizzazione sarebbe stato fornito dalla teoria del campo (che
considerava l'azione individuale sempre in funzione del contesto) e dalla concezione
materialistica della storia nelle scienze sociali. Di fatto l'idea stessa di una psicologia del
carattere o della personalità individuali non era appropriata perché l'oggetto di indagine non
doveva considerarsi l'individuo isolato ma la “persona-in-una-situazione”. Per Danziger nella
prospettiva lewiniana la personalità o il carattere come entità statiche reificate furono sostituite
da tipi di contesto psicologico considerati oggetti reali di indagine psicologica.

In a dinamic Theory of personality, il tema dell'evoluzione delle strutture dinamiche della


personalità veniva riproposto è inserito in una concettualizzazione che considerava l'individuo
come il prodotto dell’interazione tra dimensioni motivazionali e il proprio contesto entro una
dimensione temporale caratterizzata soprattutto dal principio della “contemporaneità”.
Nell'elaborazione lewiniana assunse particolare rilievo l’analisi dello spazio i cui si
manifestano i processi motivazionali che qualificano la persona in relazione agli
obiettivi che questa si pone.

In a dinamic Theory of personality erano quindi i contenuti gli orientamenti metodologici


sulla comprensione scientifica dell'individuo e le fondamentali nozioni riguardanti il
campo psicologico e il principio di contemporaneità che verranno codificate nello scritto
successivo Principles of topological psychology. In questi iscritti Lewin elaborò la cosiddetta
equazione universale del comportamento[C=f (P,A)], da cui risultava che il comportamento (C)
fosse una funzione (f) della persona (P) e dell’ambiente (A).

L'ambiente conservava una valenza fondamentale e determinante specifica dei comportamenti.


In Field Theory of Learning, Lewin elencò invece alcuni fondamenti distintivi della teoria del
campo: il metodo, che dovrebbe essere genetico, mai classificatorio; l’impostazione dinamica,
che identifica le forze che determinano azioni in specifici contesti; l’impostazione psicologica,
per cui il campo risultava concretamente lo spazio percepito dall’individuo nella
contemporaneità; l’analisi della situazione come punto di partenza, in base al quale il
ricercatore assumeva la totalità di una situazione come momento iniziale.

Il comportamento doveva essere interpretato come funzione del campo che si presentava di
volta in volta, per cui il passato era una delle determinazioni dell’azione nel presente. Lo
psicologo avrebbe dovuto in primo luogo avere come obiettivo la conoscenza delle
determinanti del comportamento. Il risultato finale avrebbe dovuto essere la rappresentazione
matematica della situazione psicologica. Lewin nel 1945 fondò presso il Massachusetts
Institute of Technology il primo centro di ricerche sulla dinamica dei piccoli gruppi.
L’approccio gestaltista lo spingeva a studiare i gruppi come entità la cui natura è
diversa dalla somma dei singoli individui e a osservare come il gruppo influenzi il
comportamento dei singoli. Egli inaugurò così la lunga stagione dei training group (o T-
group) per favorire la coesione e la soluzione di problemi relativi alle discriminazioni e ai
pregiudizi fra membri appartenenti a gruppi istituzionali o sociali, mediante pratiche che
facilitavano la comunicazione, l'espressione delle emozioni e il rispecchiamento fra i membri
di gruppi composti al massimo di 15 persone:

nei T-Group veniva utilizzato il feedback, ovvero la condivisione delle espressioni suscitate
dagli altri membri del gruppo. Tali tecniche espressive vennero in origine utilizzate in contesti
non terapeutici; I gruppi erano sempre diretti da una guida o facilitatore che promuoveva la
spontaneità ma non la cura.

BINSWANGER E LA NASCITA DELLA DASEINSANALYSE

Ludwig Binswanger era entrato in contatto con Freud, nel 1907 insieme a Jung. Tra Freud e
Binswanger si era immediatamente stabilito un rapporto umano positivo. Malgrado questi
risultasse l'unico del gruppo svizzero a non seguire Jung nella secessione dal movimento
psicoanalitico, la sua posizione rispetto alla dottrina psicanalitica era destinata a divenire ben
presto molto eccentrica.

Effettivamente sarà il “diavolo della filosofia”, a influenzare Binswanger nella sua progressiva
marcia di allontanamento dalla psicoanalisi ortodossa, per la creazione di una teoria originale,
cioè la Dasensanalyse. Risultò decisiva la lettura di autori quali Søren Kierkegaard, Edmund
Husserl, Martin Heidegger. Kierkegaard era stato il primo a enucleare la valenza filosofica
dei concetti di angoscia e disperazione, che perdevano i loro connotati marginali e patologici
per assumere un carattere fondamentale in seno all'esistenza.

La disperazione non era che la logica conseguenza dell'impossibilità di trovare soddisfazione


sia nello stadio estetico sia nello stadio etico della vita. Kierkegaard fu anche un pensatore
chiave ai fini del superamento della concezione oggettiva della verità.

Husserl fu allievo di Franz Brentano, dal quale mutuò il concetto di intenzionalità come
caratteristica di tutti i processi psichici. Ciò che distingueva un processo intenzionale era il
suo essere necessariamente in riferimento a qualcos’altro. La Fondazione della
coscienza doveva dunque basarsi sulla fenomenologia, ovvero sull’analisi della percezione
immanente dell’esperienza. Il metodo fenomenologico permetteva di superare l'ingenuo
realismo delle scienze e di comprendere la vera natura dei loro dati. In questo senso la
fenomenologia costituiva lo studio delle condizioni di possibilità della coscienza.

Da Husserl e da Kierkegaard prese invece le mosse Heidegger, soprattutto in essere e tempo,


per la sua analitica dell'esistenza umana. Questa è intesa come Esser-ci, ovvero essere nel
mondo in una situazione. L’essere umano era in una condizione di gettatezza; esso era cioè una
sorta di progetto che si trovava appunto “gettato” nel mondo, in un inevitabile rapporto con gli
altri. L’Esser-ci era perciò anche un Essere-con.

Ma l'esserci aveva anche un'altra caratteristica fondamentale, quella di Essere-per-la- morte.


Per il quale le malattie mentali erano malattie cerebrali e i fenomeni psicologici potevano
essere descritti in modo naturalistico, in quanto fenomeni organici Angoscia, disperazione,
coscienza come riferimento ad altro, verità soggettiva, esistenza come gettatezza non erano
dunque dati esistenziali che appartenevano alla patologia, ma costituivano il fondamento
ontologico dell'essere umano in quanto tale.

Attraverso Binswanger Lo spirito rientra nella psicoterapia. La psichiatria del mondo nel
quale Freud iniziava la propria attività era contrassegnata dalla piena adesione al credo di
Wilhelm Grisinger, per il quale le malattie mentali erano malattie cerebrali e i fenomeni
psicologici potevano essere descritti in modo naturalistico, in quanto fenomeni organici.
La psicoanalisi si presentava, per il Binswanger degli esordi, come un approccio clinico
completamente diverso, aperta l'umanità del paziente, anche se lo svizzero non sembrò mai
pienamente convinto dal punto di vista teorico di Freud.

È significativo il fatto che l'introduzione ai problemi della psicologia generale dovesse


essere la prima parte di un'opera in due volumi, il secondo dei quali avrebbe
specificatamente dovuto trattare la teoria psicoanalitica. Che Binswanger volessi
intraprendere una strada del tutto personale è già evidente a partire da quella sorta di
fondamentale balloon d’essai costituito dallo scritto sogno ed esistenza. Qui Binswanger
proponeva una teoria dell'interpretazione dei sogni che si distingueva sia da quella
freudiana, sia da quella junghiana.

piuttosto che dal mondo delle pulsioni o dal retaggio comune dell'esperienze primordiali,
Binswanger supponeva che il sogno avesse origine “dalla patria spirituale di tutti noi, cioè
il linguaggio”. Il sogno allora veniva interpretato con un'enfasi sul contenuto manifesto;
con un'attenzione alla possibile corrispondenza trai i personaggi e le possibili tendenze
contrapposte del sognatore; con un accento alla dimensione spirituale. In questo senso si
assisteva a un vero e proprio rovesciamento delle posizioni freudiane sulla vita spirituale,
intesa come sublimazione delle pulsioni.

Il pensiero di Freud venne allora progressivamente identificato da Binswanger sia come il


punto di svolta verso il superamento della “spersonificazione o depersonalizzazione della
condizione umana”, sia come un fardello di cui disfarsi per superare la concezione dell'uomo
come essere puramente istintuale. Freud si trasformava dunque nel più coerente teorico
dell'uomo in quanto Homo natura. In quest'ottica, anche il desiderio diveniva un atto materiale,
fisico.
Se però attraverso la psicoanalisi si poteva aggiungere a una conoscenza coerentemente
scientifica dell'uomo, come Binswanger riteneva, tale conoscenza non esauriva quanto la
ragione poteva scoprire. E d'altronde, anche una conoscenza filosofica, di per sé sola, sarebbe
stata altrettanto unilaterale quando un sapere unicamente scientifico.

Binswanger continuo sempre a riconoscere il ruolo epocale del pensiero di Freud, prima del
quale “vivevamo in un mondo della conoscenza dei confini sicuri, ma egli ha turbato la pace di
questo mondo, mostrandoci come sia limitato questo mondo e quanto poco possiamo su di
esso”. La daseinanalyse rappresento una sorta di trasformazione della filosofia fenomenologica
di Husserl ed esistenziale di Heidegger in una psichiatria che arricchì la psichiatria di una
nuova metodologia clinica, ispirata proprio alla fenomenologia e all'esistenzialismo. Al primo
posto veniva la relazione con il malato, improntata alla comprensione umana dei suoi stati
interni, all'analisi dei suoi modi di essere nel mondo e della sua progettualità.

IL PICCOLO HANS: LA NASCITA DELLA PSICOANALISI INFANTILE

I bambini rappresentavano una nuova categoria di persone a cui le scienze psicologiche e


pedagogiche avevano cominciato a guardare con interesse tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del
900, anche allo scopo di risolvere i problemi sociali. I primi segni di questo rinnovato interesse
furono i modelli pedagogici ispirati al positivismo. Nella maggior parte dei casi, il
bambino continuava a essere visto come se fosse un adulto in uno stato di sviluppo. Nell'ambito
positivista, i bambini, le donne, i meridionali, le etnie differenti da quella europea e i folli
condividevano di fatto il medesimo destino. Erano ritenuti individui inferiori più vicino al
mondo animale e presentavano quindi la necessità di interventi “ortopedici”.

Il bambino perverso-polimorfo di Freud non faceva eccezione presentava un essere


immaturo, privo di sistema valoriale e in balia delle pulsioni. Sigmund Freud non applicò
mai l’analisi ai bambini e anzi non si dedicò quasi mai alla loro osservazione. Gli episodi di
vita infantile riportati nelle opere freudiane si riferiscono soprattutto ai ricordi e alle
associazioni di pazienti adulti. l’unico caso clinico freudiano vero e proprio relativo a un
bambino è quello del piccolo Hans. Il piccolo Hans era il figlio di un allievo di Freud Max
Graf, e fu quest’ultimo a osservare il decorso della singolare fobia del figlio nei
confronti dei cavalli.

Freud incontrò il piccolo Hans solo in due occasioni: la prima durante la nevrosi infantile, e
la seconda quando Hans aveva già 19 anni, allorché apprese abbastanza sconcertato che il
giovane non conservava più alcun ricordo delle proprie antiche paure. La fobia di Hans
venne
considerata frutto dello spostamento sui cavalli della paura nei confronti del padre, legata
all’ansia di castrazione. Il trattamento di Hans consistette nella progressiva facilitazione da
parte del padre a “confessare” i suoi pensieri.

Anche il caso del piccolo Àrpàd, raccontato da Ferenczi, piuttosto il frutto di


un'osservazione.
Àrpàd mostrava una fobia per i galli e attuava a sua volta un comportamento di imitazione
dei medesimi animali. Dopo essere stato beccato da un Gallo sul membro verso i due anni e
mezzo il bambino non aveva mostrato nessun comportamento anormale; finché aveva
manifestato un certo interesse per la manipolazione dei propri genitali. Nel pubblicare il
resoconto della storia di Hans, Freud era ben lontano dal pensare che l'analisi infantile
potesse diventare un procedimento universale applicabile.

Freud auspicava invece il possibile ruolo di qualche figura specificatamente femminile nel
sostegno ai bambini orientato in senso psicoanalitico. Le prime protagoniste dell’impiego
della psicoanalisi con i bambini furono tutte donne: Hermine Hug-Hellmuth, Melanie Klein e
Anna Freud. Il padre della psicoanalisi aveva in mente di provare trattamenti sui bambini che
avessero già raggiunto l'età di latenza riteneva possibile l'impiego di un personale paramedico.

L’autentica pioniera in questo campo fu Hermine Hug-Hellmuth. Malgrado i suoi indubbi


meriti Hermine Hug-Hellmuth fu investita da due diversi scandali. Hermine Hug-Hellmuth
iniziò il proprio lavoro con i bambini sulle linee immaginate da Sigmund Freud e che poi
sarebbero state seguite da sua figlia Anna: l’aiuto ai bambini in difficoltà era basato su un
intervento di natura soprattutto educativa, nel quale il transfert non veniva neanche considerato
possibile. Avviata la propria esperienza clinica, Hug-Hellmuth redasse un testo che ottenne un
immediato successo, il cosiddetto Diario di una giovinetta.

Il libretto venne pubblicato in anonimo e simulava di essere stato redatto da una ragazza che
assisteva al risveglio della propria sessualità. il falso venne però scoperto, perché lo stile in cui
il testo era scritto tradiva un controllo dei concetti e della lingua che poteva appartenere solo ad
una persona adulta.

Nonostante il passo falso, Hermine Hug-Hellmuth proseguì il proprio lavoro, che trovò un
frutto storicamente significativo nel primo scritto e nel primo libro dedicati all’applicazione
della psicoanalisi sui bambini. Purtroppo l'autrice non sopravvisse a lungo: nel corso del 1924
morì strangolata dal nipote Rolf. Probabilmente Hug-Hellmuth temeva che una simile
circostanza si verificasse, perché tra le sue ultime volontà venne trovata l'esplicita richiesta che
nessuno scrivesse sue note biografiche dopo la morte.

Melanie Klein viene quindi solitamente ricordata come la prima analista dell'infanzia: lei
stessa cerco di accreditarsi come tale svalutando la reale portata del contributo della collega.

MELANIE KLEIN: GIOCO E TERAPIA

Melanie Klein nacque a Vienna nel 1882. Sposatasi a ventun anni, dal matrimonio fino ai 28
anni visse in piccole città della Slovacchia e della Slesia. A Budapest entrò in analisi con
Ferenczi e proseguì la formazione con lui per diversi anni. Klein iniziò a scoprire una vera e
propria vocazione per la psicoanalisi. nel 1920, ricevuto un forte incoraggiamento da Karl
Abraham al Congresso psicoanalitico dell’Aja, decise di trasferirsi a Berlino, e
successivamente di sottoporsi ad analisi anche con lui.

Morto Abraham, l'ambiente psicoanalitico per l' berlinese sembrava essere molto meno
ricettivo verso Klein. Klein incontrò Ernest Jones nel 1925 e trovò anche da parte sua
apprezzamento riguardo il proprio lavoro. Si trasferì così nel 1926 in Inghilterra. Al suo
esordio sulla scena del movimento psicoanalitico, anche Melanie Klein sembrava convinta che
il ruolo della psicanalisi nell'età dello sviluppo dovesse consistere essenzialmente nell’
orientare la pedagogia verso l'educazione sessuale.

la svolta nel lavoro di Melanie Klein avvenne nel momento in cui decise di concentrare la
propria attenzione sul gioco. Sporadicamente sia Freud sia Abraham sia Ferenczi avevano
proposto osservazioni sul significato inconscio del gioco infantile.

Hug-Hellmuth aveva anche utilizzato gioco e disegno come mezzi per entrare in confidenza
con il bambino da trattare. A partire dal 1923 Klein iniziò a constatare che interpretare l'attività
ludica sembrava costituire un sollievo all'angoscia dei bambini problematici. Klein suggerì alla
piccola Rita che la sua riluttanza a giocare fosse determinata dalla paura di rimanere sola con
un’estranea in una stanza: Rita risultò sollevata e iniziò a giocare con maggiore spontaneità.
Sembrava evidente che:
● Il gioco rifletteva preoccupazioni inconsapevoli;

● L’interpretazione era opportuna anche con bambini piccoli, dato che alleviava l’effetto di
tali preoccupazioni;

● Il contenuto dell’interpretazione rifletteva pensieri transferali negativi.

Klein espose estesamente le idee che era venuto a sviluppando a proposito della tecnica del
gioco in I principi psicologici dell’analisi infantile e in La psicoanalisi dei bambini.
L’ambiente dove si svolgevano le sedute di analisi infantile assumeva un'importanza
fondamentale. Lo spazio era arredato in modo che il bambino potesse muoversi
liberamente e, se occorreva, esprimere aggressività senza farsi male. Vi si trovavano materiali
adatti ai giochi
(soprattutto “di finzione”). Anche un bambino fortemente inibito sarebbe stato portato a
osservare e toccare i giocattoli. Il suo modo di comportarsi avrebbe offerto subito degli
elementi per cominciare a comprendere la sua vita psichica.

Invece di verbalizzare il bambino tendeva ad agire, attraverso il gioco. L'azione costituiva


la parte prevalente del comportamento infantile. Si poteva paragonare il ruolo del gioco
nell’analisi dei bambini a quello del sogno nell’analisi degli adulti. Non c'è dubbio che la
tecnica del gioco nella psicoterapia con i bambini costituiscono uno strumento ormai
definitivamente acquisito utilizzato dalle più diverse scuole. Il motivo per cui, “ovunque
interviene la Klein gli animi si scaldano” era costituito dalla sua modalità di interpretare
estremamente diretta e volta a rendere coscienti nei bambini i temi fondamentali della sua
vita psichica.

Ovvero: a toccare temi come la sessualità genitoriale, la gelosia verso fratelli e sorelle, il
desiderio di morte nei confronti dei parenti. Questo approccio diretto e a tratti quasi brutale
rimase una costante nel lavoro kleiniano. Dal punto di vista di Klein, il bambino disturbato
era preda di fantasie inconsce che davano luogo ad angosce persecutorie, l’interpretazione
delle quali suscitava immediato sollievo. Il sollievo era subito visibile nell’atteggiamento
del bambino, che lo manifestava in un’attività ludica più varia e meno inibita.

Per questa ragione “l'analista non doveva temere di fornire interpretazioni approfondite sin
dall'inizio dell'analisi”. Al limite, si può affermare che nel lavoro con i bambini più grandi,
nell'età definita da Freud della latenza, Klein addirittura cercasse di suscitare a inizio
terapia quelle angosce persecutorie che il bambino piccolo provava da subito con più
facilità, anche a causa della situazione.

Klein sottolineò che i bambini in età di latenza, rispetto ai più piccoli, presentavano difficoltà
di analisi particolari, legate a una minore immaginazione, una minore disponibilità al gioco,
una maggiore riservatezza. Klain suggerì che si potesse supplire con la maggiore disponibilità a
disegnare e, la tendenza spontanea a sostituire l'attività ludica con i giocattoli alla recitazione di
ruoli. Anche una certa maggiore capacità di associazione avrebbe supplito ai problemi tecnici e
a un io ancora non pienamente sviluppato.

Nel corso della pubertà “l’ emotività e l'inconscio predominano nuovamente”. Anche l'età della
pubertà presentava tuttavia le sue difficoltà peculiari, legate al caratteristico atteggiamento di
sfida che spesso portava il giovane paziente a voler abbandonare la terapia. L'attività fantastica
era inoltre meno riconoscibile e meno facilmente interpretabile.

TEORIA DELLO SVILUPPO E TEORIA DELLE RELAZIONI D’OGGETTO

Klein risultò la prima analista ad accettare e utilizzare attivamente la concezione freudiana della
pulsione di morte: l’aggressività assumeva nella visione kleiniana un ruolo motivazionale
centrale. La maggior parte dei seguaci di Freud fu molto restia a seguirlo “al di là del principio
di piacere”.
La teoria kleiniana assunse ben presto dei connotati di profonda originalità rispetto alla
psicoanalisi classica. Al punto da venire considerata uno dei punti decisivi di svolta verso un
autentico cambiamento di paradigma nella direzione del cosiddetto “modello strutturale delle
relazioni oggettuali”.

La teoria dello sviluppo propugnata da Melanie Klein non si poneva come alternativa rispetto al
modello freudiano. I suoi connotati stravolgevano di fatto le idee di fondo della psicoanalisi. Le
fantasie di bambini molto piccoli permettevano di sostenere che il complesso edipico si
manifestasse già in età molto precoce. Gli Stati di angoscia del bambino avrebbero avuto origine
nella paura dell’aggressività verso i genitori e sarebbero derivati dal Super- io: il bambino si
autocondannava.

Il bambino molto piccolo avrebbe reagito in fantasia la propria aggressività e i danni che
avrebbe potuto arrecare come se avesse sofferto di un conflitto interno riguardante il super-io.
Nella sequenza del gioco si sarebbero osservati dei cicli paranoidi: Il bambino avrebbe
messo in scena fantasie terribili in cui si sarebbero manifestate spirali di aggressività.
Melanie Klein finì così per teorizzare che già i primissimi mesi di vita fossero segnati da
due diverse modalità di approccio alla realtà; le definì posizioni.

Nella visione freudiana, una fase, una volta superata, non ritornava nella storia individuale.
Secondo Klein, invece, la posizione schizoparanoide era la condizione iniziale della vita
psicologica e veniva sostituita dalla posizione depressiva verso i 6 mesi. Tutta l’esistenza
sarebbe stata segnata dalla possibilità di regredire alla posizione più primitiva e di ri-
progredire alla posizione più avanzata.

Allorché veniva al mondo, l'essere umano sarebbe stato segnato da una turbolenta vita
psicologica, caratterizzata da fantasie inconsce circa le proprie esigenze e le proprie
difficoltà. Il bambino kleiniano si muoveva tra momenti di fame e sazietà, vissuti
rispettivamente come presenza di un seno materno buono e di un seno materno cattivo,
considerati diversi e separati. Il seno cattivo sarebbe stato ritenuto sadico e il bambino
avrebbe fantasticato di poterlo attaccare e distruggere con le proprie feci.

Giunto intorno al sesto mese di vita, l’infante finalmente avrebbe compreso che
seno buono e seno cattivo non erano oggetti parziali separati ma appartenevano a un
oggetto unico intero, cioè la madre. Questa nuova posizione era definita depressiva perché
l’infante provava sensi di colpa per le proprie fantasie distruttive verso il seno cattivo. La
certezza di trovarsi di fronte a un oggetto intero non sarebbe stata definitivamente acquisita,
tuttavia, e l'infante si sarebbe spostata ancora più volte tra la posizione depressiva e la
posizione schizo paranoide, allorché si fosse sentito da capo preda dell'attacco di oggetti
parziali.

Va notato che entrambe le posizioni avrebbero origine durante la fase orale, e che d'altronde
non vi era una netta differenziazione tra tendenze orali e anali; l'espulsione dell'oggetto cattivo
l'attacco nei suoi confronti avrebbero potuto essere infatti fantasticati sia attraverso la bocca sia
per mezzo degli organi ureterali e dell'ano. Le problematiche delle posizioni infantili non si
sarebbero allentate alla prima infanzia. Inoltre, l'adulto che utilizzava il meccanismo di difesa
della scissione avrebbe rievocato inconsciamente la posizione schizo-paranoide.

Chi impiegava la scissione non era in grado di tollerare che una stessa persona potesse
presentare lati positivi e negativi: il risultato era vedere l'altro come perfettamente buono o
come perfettamente cattivo. Nella visione kleiniana questo significava mettere in atto fantasie
inconsce di rapporti con oggetti parziali, accostabili al seno buono perfettamente soddisfacente
al seno cattivo portatore di dolore e angoscia. In ogni caso il rapporto con l'oggetto acquistava
un'importanza nella vita pulsionale, che nella teoria freudiana esso non presentava.

ANNA FREUD: PEDAGOGIA, METODO MONTESSORI E PSICOANALISI

La figlia più piccola di Sigmund Freud, Anna, nacque un decennio dopo Melanie Klein. Il padre
si oppose all’idea della figlia di studiare medicina, cosicché Anna si orientò verso studi
universitari pedagogici. Anna Freud non tardò a esplicitare la propria intenzione di
intraprendere, accanto alla carriera di insegnante, anche quella di psicoanalista. Sigmund non si
frappose ulteriori ostacoli anzi decide di analizzare lui stesso la figlia. Iniziò così un percorso di
analisi didattica piuttosto lungo nel quale a Sigmund Freud si affiancò Lou Andreas- Salomé.

Il rapporto padre- figlia assunse dei contorni abbastanza singolari. Anna diventò una
collaboratrice privilegiata, sostituendo in pratica Otto Rank nel Comitato. Anna Freud è stato
un personaggio fondamentale per la storia del movimento psicoanalitico della seconda metà del
900; per comprendere le sue idee rispetto al mondo del bambino occorre introdurre Maria
Montessori.

La pedagogia montessoriana si presentava come assoluta novità, in cui però veniva


previlegiata l'attenzione per lo sviluppo cognitivo piuttosto che per quello emotivo. Il
paradigma montessoriano era ben radicato in Europa quando Anna Freud si andava
formando e la psicoanalisi iniziava a occuparsi di età evolutiva. Il padre della psicoanalisi
risponde favorevolmente all'invito di aiutare la nascita anche a Vienna di una casa dei
bambini.

Già dal 1917, le influenze della pedagogia montessoriana sulla psicoanalisi furono tuttavia
legate alla creazione della casa dei bambini di Vienna nel 1921- 1922. In principio, Anna,
come pedagogista si occupò dei tipici temi pedagogici del primo dopoguerra, relativi
soprattutto alla criminalità minorile e all'assistenza dei bambini di guerra. Durante la sua
formazione universitaria Anna si formò soprattutto sulla pedagogia dei pragmatisti
americani.

Tale pedagogia intrisa di funzionalismo era in conflitto con il modello montessoriano che
invece si era sviluppato nell'ambito delle scienze del tardo positivismo europeo a partire
dalla comune matrice psichiatrica e psicologica e con il fine di essere “a misura del
bambino”. La pedagogia montessoriana introdusse a inizio 900 dei temi che diventarono
poi centrali soprattutto nella psicoanalisi dell'io.

La preparazione di un ambiente scalato fisicamente e psicologicamente sul bambino al fine


di favorirne lo sviluppo, l'idea che le intrusioni nello sviluppo infantile potessero portare a
una deviazione dalla normalità, l'estrema attenzione ai compiti evolutivi dei piccoli,
l'importanza data all'esercizio della sensorialità come fondamento della costruzione della
realtà psichica erano tutti temi elaborati fin dalla prima versione del 1909 del metodo
Montessori.

Negli anni Venti Anna fondò a Vienna una prima scuola psicoanaliticamente
orientata nella casa di Eva. Negli anni Trenta seguì la fondazione dell’Asilo nido Jackson.
Lili e Anna si sostenevano a vicenda e c'era così creato uno scambio di conoscenze in
cui Anna formava le montessoriane e Lili le freudiane. Sia la Casa dei Bambini sia l’Asilo
Jackson aiutavano a educare i bambini più bisognosi della popolazione viennese, erano
arredati in stile montessoriano e vi venivano prestate particolari cure mediche e alimentari.

Gli arredamenti dell’Asilo Jackson furono poi utilizzati a Londra nella Hampstead War
Nursery. A Londra prese corpo la corrente annafreudiana: qui gli psicoanalisti iniziarono
soprattutto a occuparsi di sviluppo e di relazione dei bambini con i genitori. Fra gli allievi
londinesi di Anna, James Robertson era un pioniere degli studi sull'attaccamento, produsse
tutta una serie di lavori riguardanti l'importanza dei legami dei bambini in tempo di guerra.
Successivamente Robertson collaborò con John Bowlby e produsse alcuni film che
documentavano l'importanza dei legami di attaccamento alla madre nella vita dei bambini
ospedalizzati.

I primi iscritti di anna Freud sull'analisi infantile videro la luce quando Klein aveva già
avuto modo di esporre le sue idee e di suscitare polemiche. Anna Freud espose fin da
subito le proprie idee sulla psicoanalisi dei bambini in diretto riferimento alle posizioni
kleniane. Se per Klein l'analisi come tale era possibile opportuna per tutti i bambini
nevrotici, per Anna Freud questo principio risultava inaccettabile. La sua posizione era che
“l’analisi, quando si tratta di bambini, ha bisogno di modifiche e di certi adattamenti”.

Anna Freud partiva dal dato di realtà per cui non era il bambino a chiedere di intraprendere
una terapia analitica: talvolta anche l’adulto poteva vedersi spinto a un tale passo dalla
richiesta dei suoi congiunti. Sarebbero mancate quindi al bambino “la comprensione della
malattia, la decisione volontaria e il desiderio di guarire”.

Si presentava quindi la necessità di una fase preparatoria, che Anna Freud definiva
“addestramento” all'analisi, durante la quale il bambino potesse sviluppare una certa
comprensione della qualità disattiva della propria condotta e accettare l'analista come
“interessante”, “utile”.

Rispetto all’analisi degli adulti quella con i bambini avrebbe presentato una difficoltà
fondamentale nella fase anamnestica: si sarebbe stati in generale costretti ad affidarsi ai
genitori per ricostruire la storia della malattia. Esistevano tuttavia persino degli indubbi
vantaggi: i bambini sognavano quanto gli adulti e non erano afflitti dal pregiudizio che il sogno
non avesse significato; ricorrevano spesso al disegno. Tuttavia “il bambino neutralizza tutti i
predetti vantaggi perché si rifiuta di fare associazioni”.
Alla tecnica del gioco elaborata da Klein per supplire a tale impasse, Anna Freud riconosceva
bensì “il grandissimo valore per l'osservazione del bambino”. Le rappresentazioni del
bambino non sarebbero state dominate dalla propria degli adulti; non sarebbero state
quindi necessariamente riconducibili allo stesso tipo di interpretazione. Anna Freud
riteneva che ci si dovesse occupare attivamente di instaurare un transfert positivo, inteso
come “tenero attaccamento”.

Una vera e propria nevrosi di transfert non sarebbe stata possibile perché i genitori erano
ancora fortemente presenti nella vita del paziente. Non essendo esaurita quindi “la vecchia
edizione” degli effetti primari, una “riedizione” degli stessi affetti avente per oggetto
l'analista era da escludere. Il transfert negativo, inteso da Klein come prova
dell'atteggiamento ambivalente verso la madre, secondo Anna Freud si sarebbe formato se il
rapporto con essa fosse risultato invece insoddisfacente.

L'interprete abilità del transfert negativo da parte dell'adulto sarebbe stata anche legata
all'atteggiamento neutrale, da” schermo bianco” che doveva tenere il suo analista.

DAL DIBATTITO TEORICO ALLA SCISSIONE DELLA SOCIETÀ PSICOANALITICA


BRITANNICA

Da parte di Klein (1927) si ebbe una vera e propria ritorsione alle critiche annafreudiane; a
suo avviso la stessa idea che vi dovesse essere una differenza tra analisi degli adulti e analisi
dei bambini era un controsenso. Il lavoro analitico si svolgeva sull'interpretazione dei conflitti
inconsci e, se una diversità si trovava tra l'età adulta e l'età infantile, essa aveva a che vedere
con una maggiore debolezza dell'io da parte del bambino.

Di fatto, sosteneva Klein, quello che Anna Freud chiamava “riconoscimento della malattia e
della cattiveria” era tutt'altro che il frutto di un'autentica comprensione da parte del bambino
ma era un derivato “dell’angoscia”. Non è che tali sentimenti dovessero essere evitati di per sé,
argomentava Klein, il problema era piuttosto che Anna Freud non li analizzava e quindi non li
risolveva: se ne serviva “per legare a sé il bambino.

Sosteneva Klein, l'intento pedagogico non solo favoriva i risultati dell'analisi infantile, ma era
al contrario incompatibile con il loro procedimento analitico, esattamente come lo era
l'artificiosa creazione di un transfert positivo. Al contrario, occorreva entrare subito in medias
res perché la dinamica transferale si generava immediatamente. L'ammissione che con i
bambini si ottenessero risultati parziali era da una parte il frutto del pregiudizio
dell'impossibilità di una psicoterapia altrettanto profonda.

La contrapposizione tra Melanie Klein e Anna Freud precipitò allorché Freud e diversi analisti
viennesi furono costretti a emigrare. Klein aveva già acquistato un vasto seguito in Inghilterra.
Donald Woods Winnicott fu suo allievo. Anche Edward Glover, accolse in un primo tempo in
modo favorevole le idee Kleiniane. Il suo atteggiamento cambiò del tutto allorché Glover
ritenne di non poter accettare che una persona come Klein si permettesse di argomentare a
proposito di stati psicotici.

Anna Freud poteva invece contare sul prestigio del nome e sull'appoggio degli psicoanalisti
austriaci appena immigrati. Nella società psicoanalitica britannica si formarono così due gruppi
contrapposti e divenne chiaro ben presto che era necessario un dibattito teorico di chiarimento.
La Seconda guerra mondiale rese impossibile un confronto immediato; alcuni membri della
società psicoanalitica furono chiamati al fronte, altri, abbandonarono Londra.

A Pitlochry Melanie Klein prese in analisi il piccolo Richard. Malgrado l'analisi di Richard sia
durata solo quattro mesi, Klein ebbe l'occasione pressoché unica distendere appunti dettagliati
dopo ogni seduta. Il materiale costruì la base per due dei suoi scritti più noti. Nel 1943 Ernest
Jones, presidente della Società psicoanalitica, decise di organizzare il confronto teorico che
ormai tutti attendevano da troppo tempo. Il risultato furono le “Discussioni controverse”.

A questo punto la posta in gioco non era più la sola psicoanalisi infantile, ma la psicoanalisi
tout court, perché ambedue le parti stavano contribuendo a modificare anche la terapia degli
adulti.
Da una parte Anna Freud, secondo un approccio che diverrà dominante nell'ego psychology,
tendeva a concentrarsi sull'Io, invece che sull’Es: le sue interpretazioni erano volte piuttosto
allo stato superficiale dell’inconscio che a quello profondo.

Dall’altra Melanie Klein “sviluppava la concezione freudiana dell'analisi del transfert in


una” pura analisi del transfert"”. I kleiniani promossero anche l'estensibilità del metodo
psicoanalitico alla psicosi. Nessuna delle due fazioni riuscì a prevalere. Dalla discussione si
passò quindi alla trattativa, al fine di evitare che la società britannica si scendesse. Anna
Freud e Melanie Klein raggiunsero un compromesso. All'interno della società
psicoanalitica, ogni leader avrebbe controllato il proprio “territorio” formando analisti alla
luce delle proprie convinzioni teoriche.

Attorno alle due leader teoriche si organizzarono quindi due gruppi, ai quali sarebbero stati
assegnati in modo unanime poste nelle commissioni. In capo a pochi anni comparve però
anche un gruppo di indipendenti o middle Group, al quale avrebbero fatto capo gli
elementi più creativi della psicoanalisi del 900. Quello britannico era destinato a divenire
un modello per l'International psychoanalytic Association in tutto il mondo. Il proliferare
degli approcci teorici richiamatisi a Freud trovo l'iva sempre disposta a instaurare
situazioni di compromesso e rappresentanza pluralista.
L’IMPATTO DEI FASCISMI SULLA STORIA DELLA PSICOTERAPIA: L’EMIGRAZIONE IN
MASSA DEGLI PSICOANALISTI E LA CREAZIONE DELL’ISTITUTO GÖRING

Durante la Seconda guerra mondiale la psicologia giocò un ruolo anche nei paesi del patto
d'acciaio. Gli psicologi italiani e tedeschi si incontrarono a Roma nel 1941, isolandosi dalla
ricerca del resto del mondo. Fra coloro che organizzarono l'incontro va ricordato Padre
Agostino Gemelli, che svolse un ruolo fondamentale per la storia della psicologia italiana e
della psicoterapia nella cultura cattolica, Matthias Heinrich Goring fondatore dell'istituto
tedesco per la ricerca psicologica e la psicoterapia, promosse una concezione Ariana della
psicoterapia in cui erano tuttavia presenti anche nozioni psicoanalitiche freudiane, adleriane e
junghiane.

Se fra il 1932 e il 1936 si abbassò di circa un terzo il numero degli psicologi in Germania e
storiograficamente accertato che si verificò anche un'espansione della psicologia e della
psicoterapia. La modernizzazione dello Stato in funzione della grandezza del Reich fu un
tratto caratteristico della Germania nazista e gli psicologi si presentavano come una categoria
utile a questo progetto. Posero infatti le basi della loro formazione con il riconoscimento di
un curriculum universitario in psicologia già all’inizio della Seconda guerra mondiale. La
Wehrmacht era il contesto dove operarono principalmente gli psicologi.

La psicologia dei test era vista come un utile strumento ai fini della valutazione. La
psicologia praticata nell'università si occupava di personalità e metodi diagnostici. Solo
quando le fila dell'esercito diminuirono drasticamente gli psicologi persero il mandato
sociale loro attribuito. Gli psichiatri tedeschi furono inizialmente impiegati nei programmi
eugenetici che impiegarono la sterilizzazione di grandi masse di cittadini indesiderabili. In
seguito contribuirono anche all’eliminazione fisica di adulti e bambini su base
psicopatologica.

La psicoterapia si collegava così ai margini del mondo psichiatrico, ma i suoi esponenti


svolsero un ruolo storicamente importante nel suo traghettamento verso il periodo
postbellico. L'istituto di Matthias Göring, se da un canto avesse sostituito la psicoanalisi
“ebrea” con una psicoterapia ibrida, dall’altro avrebbe mantenuto in vita e dava prestigio a
una disciplina che poi sarebbe ripartita dall'organizzazione voluta dallo stesso Göring.

La psicoterapia nel secondo Novecento ha dunque anche delle radici oscure, nate dalla
riformulazione nella Germania nazista di una psicoterapia arianizzata. Durante il terzo
Reich gli psicoanalisti non ebrei che erano sopravvissuti alle persecuzioni si adattarono al
nazismo, continuando a operare nell'istituto Göring. L’Istituto Goring promosse
l’organizzazione di una psicoterapia laica in cui erano accettati anche i non medici. Dopo
l'istituzione del corso in psicologia, il titolo di psicologo divenne la premessa per avere la
possibilità di specializzarsi in psicoterapia. Venne organizzato anche il training
psicoterapeutico, con l'istituzione di seminari e la regolamentazione di analisi didattiche.
Di fatto si continuavano a praticare la psicoanalisi, la terapia adleriana e quella junghiana
in sezioni separate dell'istituto. Accanto a questi si praticavano tecniche di rilassamento.
Anche il lessico della psicoanalisi venne arianizzato. La locuzione “psicologia del profondo”
venne utilizzata per racchiudere tutte le terapie psicodinamiche; il “complesso familiare”
sostituì il complesso di Edipo; la “psicologia dello sviluppo” sostituì la psicoanalisi. Gli
psicoterapeuti del Terzo Reich si occuparono di qualsiasi fenomeno clinico, mettendo a
punto tecniche di psicologia breve è focalizzata da affiancare alla psicoterapia del
profondo.

Gli “psi” dell’Istituto Goring venne impiegati nei campi più vari della società tedesca.
Vennero organizzati persino programmi che contrastassero l'omosessualità è l'impotenza
psicogena. La psicoterapia del profondo nazista si muoveva fra:

- Una medicina nazista che si ispirava a una dottrina olistica della natura e che voleva
rigenerare la nazione esaltando le virtù della razza ariana;

- La medicina tradizionale tedesca, tutta orientata al determinismo e alla biologia.

La psicoterapia era considerata un’occasione per promuovere l’antropologia di un uomo nuovo


nazista. Le tecniche furono modificate e fu creata una “psicoterapia minore” contrapposta a una
“psicoterapia maggiore”, entrambe funzionale all'idea di costruzione di un cittadino efficiente.
La psicoterapia nazista era dunque professionalmente organizzata, ma anche completamente al
servizio del totalitarismo. Gli psicologi gli psicoterapeuti ebrei che non si adattarono al nuovo
regime vennero epurati e perseguitati.

Jung era divenuto presidente della Allgemeine Ärztliche Gesellschaft für Psychotherapie che
aveva raccolto centinaia di giovani medici, critici verso la psichiatria biologica. Alla sua vita
societaria avevano aderito nomi importanti della storia della psicoanalisi e della psicologia.
Con l'avvento del nazismo la società collaborò con l'istituto Göring. Durante la Presidenza di
Jung divenne una società prima “sopranazionale”, poi internazionale.

Jung fu destinato alla gestione della società internazionale, Göring coordinava invece la
componente tedesca. Dopo un paio di congressi internazionali a Copenaghen e a Oxford, Jung
si dimise dalla Presidenza e i suoi libri finirono per essere proibiti dal regime nazista. Negli
anni della guerra la società fu disciolta per poi riprendere vita la fine della seconda guerra
mondiale. Gli psicologi dell'istituto apprezzavano alcuni aspetti della teoria junghiana: per
esempio, l’idea degli archetipi poteva essere strumentalizzata a fondamento del razzismo, così
come l’importanza che Jung dava alla creatività e libertà dell’inconscio poteva essere
assimilata all’idea del superuomo.
Jung sembrò all'inizio assai ingenuo politicamente. Già negli anni 30 egli si difese da accuse di
cooperazione con il regime, sostenendo che il suo intervento favoriva gli psicoterapeuti ebrei
nel mantenere le loro posizioni sotto la copertura della società internazionale di cui era
presidente e ricordando che senza la sua opera nel 1933- 1934 il governo nazista avrebbe
potuto cancellare con un tratto di penna l'intera storia della psicoterapia.

Jung in verità con la pubblicazione del Wotan scrisse che, affiliandosi a Hitler i tedeschi
sarebbero stati condotti alla rovina. Jung fu comunque solo uno fra le centinaia di
psicoterapeuti che continuarono a operare durante il nazismo. L'idea della neutralità in analisi
aveva infatti condotto molti ad atteggiamenti apolitici che non fecero cogliere il pericolo delle
leggi eccezionali attuate da Hitler. Jung probabilmente penso di poter trovare in questo
contesto lo spazio per alcune riforme della psicoterapia.

Quello di Jung era un programma anticonformista in un contesto che invece mirava a creare
un’antropologia convenzionale. Negli anni del nazismo, la cultura tedesca perse la sua
obiettiva egemonia nella storia della psicoterapia; Londra e New York divennero i luoghi
della psicoterapia e gli psicoanalisti forzosamente emigrati contribuirono a fondare
varie tendenze e scuole della psicoterapia contemporanea.

Con tutti gli analisti obbligati a fuggire a causa del nazismo, la creatività in psicoterapia era
emigrata all'estero. In Germania era rimasta la componente istituzionale. L'istituto Göring ebbe
successo nel proporre una psicoterapia eclettica e laica, in conflitto con la psichiatria
organicistica che proponeva trattamenti brevi e focalizzati. Quella della psicoterapia del Terzo
Reich è dunque una storia paradigmatica all'interno della storia più generale della psicoterapia
e dimostra come essa sia adattabile a regimi politici opposti e come le sue trasformazioni non
risultino mai neutri ma vengono determinate dalle culture.

GLI ESORDI DELLA PSICOANALISI NEGLI STATI UNITI

La storia dell'influenza della psicoanalisi negli Stati Uniti ha assunse connotazioni peculiari fin
dagli esordi. Le reazioni degli psicologi statunitensi risultarono, per quanto ovviamente non
uniformi, in generale allineate su due tratti fondamentali : un significativo interesse per le idee
freudiane, accumunato a un malcelato sospetto nei confronti del metodo utilizzato da Freud per
ottenere i suoi dati. Emblematico è l'atteggiamento di Edward Tichener il quale mise in evidenza
le fallacie dogmatiche di Freud, pur senza bocciare completamente le proposte del movimento
psicanalitico; dimostrando una disposizione positiva nei confronti di alcune teorizzazioni di
Jung.

La reazione di un'altro dei padri della psicologia americana, William James, sembrerebbe in
questo senso tipica: da un lato espresse il proprio compiacimento Ernest Jones, dall'altro non
nascose ad altri la sua impressione di Freud come di un uomo ossessionato dalle idee fisse. Dopo
il viaggio di Freud, l'influenza delle idee psicoanalitiche conobbe un’ascesa lenta ma
significativa negli Stati Uniti.
Proprio l'invadente pressione dell'interesse del pubblico generale verso le idee freudiane
indusse forti resistenze alla ricezione della psicoanalisi da parte dell'establishment accademico
statunitense. Questa tendenza venne certamente sostenuta dalla scarsa disponibilità di
traduzioni o almeno di resoconti attendibili delle idee psicodinamiche. La penetrazione della
psicoanalisi seguì negli USA due strade separate per gli psicologi e gli psichiatri,
corrispondente alla nettissima separazione di un ruolo tra le tue specializzazioni per quasi tutto
il XX secolo.

Nella psicologia americana, il paradigma che si affermava progressivamente in modo quasi


esclusivo era quello comportamentista. Sia per questo motivo, sia per semplice
incomprensione, né idee psicoanalitiche penetrarono con estrema difficoltà; quando facevano
breccia, venivano piuttosto assorbite da altre teorie psicologiche. Fu questo il caso dei costrutti
teorici sulla motivazione proposti da Hull Dollard e Miller e Mowrer che condividevano solo in
parte il concetto freudiano di pulsione. Permanevano dunque fortissime riserve sull'attendibilità
dei metodi di ricerca clinici e si tentava di utilizzare metodi sperimentali per cercare possibili
conferme o smentite alla psicoanalisi.

Secondo Shakow e Rapaport l’atteggiamento verso la psicoanalisi da parte degli studiosi


americani di psicologia risultava fortemente condizionato anche dalla particolare situazione
storica della loro disciplina, alla ricerca di uno statuto scientifico solido. Nella confusione
del dibattito su cosa potesse essere considerato “buona” o “cattiva” scienza, si finiva per
“considerare come ‘cattiva’ scienza ciò che caratterizzava la psicoanalisi”. La psicologia
accademica poteva considerare l'ambito teorico della psicoanalisi come un'insieme di
ipotesi più o meno feconde alla quali attingere, alla condizione di poterle confermare
sperimentalmente; da parte sua la psicoanalisi a lungo non ha ritenuto necessario alcun
dialogo con la psicologia accademica.

Il primo a tentare un dialogo tra psicologi e filosofi della scienza sarebbe stato il leader
della psicologia dell’Io, Heinz Hartmann. Le lezioni di Freud e Jung nel 1909 costituirono
il primo atto di un'evoluzione che condurrà lentamente il paese ad assumere la leadership
teorica della psicoterapia. L'influenza di Freud rese possibile la nascita di forme
terapeutiche molto diverse tra di loro, anche per reazione diretta alle idee psicoanalitiche.
Il processo di sviluppo della psicoanalisi negli Stati Uniti vide un inizio stentato e una
successiva esplosione.

Tra gli psicoanalisti americani si può osservare fin da subito la nascita dei tuoi correnti:

- si ebbe la nascita del troncone americano del movimento psicoanalitico, sotto l’iniziale guida
di Brill, fedele alle idee di Freud salvo per quanto riguardava la possibilità dei “laici” (non
medici) di diventare analisti: questo gruppo dette origine all’Associazione Psicoanalitica
Americana.

-in secondo luogo, grazie alla figura di H a r r y S t a c k Sullivan, si sviluppò u n a t r a d i z i o n e


d i r i c e r c a m o l t o d i v e r s a c h e s i s a r e b b e i n s e g u i t o r i v e l a t a a s s a i f e c o n d a : la
psicoanalisi interpersonale, che però “non costituisce una deriva unificata integrale […] è
piuttosto una serie di approcci diversi alla teoria e alla pratica clinica, tenuti insieme dai
presupposti e premesse di basi comuni”.

I cosiddetti interpersonali erano convinti che la teoria della motivazione di Freud, come le
sue idee sulla natura dell'esperienza umana e sulle difficoltà iniziali dello sviluppo, fossero
erronee. Come ideologici inglesi delle relazioni oggettuali, gli interpersonalisti “lo
ritenevano che il rapporto con gli oggetti […] forse ben più importante della libido
ipotizzata da Freud. A differenza dei primi […] gli interpersonalisti condividevano anche la
convinzione che la teoria freudiana classica sottovalutasse il più vasto contesto sociale e
culturale, che deve avere invece un ruolo di primo piano in qualsiasi teoria che tenti di
spiegare le origini, lo sviluppo e le deformazioni della personalità”. Allorché un numero
significativo di analisti europei costretti a emigrare nel corso degli anni 30 scelse come meta
gli USA.

SULLIVAN E LA NASCITA DELLA PSICOANALISI INTERPERSONALE

Nato a Norwich, un paese nella contea di Chenango nel 1892, completò gli studi superiori in
provincia, ottenendo nel 1908 una borsa per studiare medicina presso la prestigiosa Cornell
University, dove però rimase un anno, senza sostenere esami. Tra il 1909 e il 1911 scomparve
dalla circolazione. Venne ricoverato in un ospedale psichiatrico in seguito ad un episodio
psicotico. Nel 1911 riprese gli studi di medicina a Chicago, presso il Chicago college of
medicine and surgery che venne chiuso nello stesso anno in cui Sullivan si laureò, nel 1917.

Nel 1921,Sullivan approdò all’ospedale St. Elizabeths di Washington, diretto da William


Alanson White. Verso di lui, Sullivan conserverà una vera e propria venerazione per tutta la
vita. Se una simile valutazione può sembrare a posteriore esagerata, è pur vero che White
trasformò il St. Elizabeths nel “Burghölzli del continente americano”, la prima istituzione
statunitense dove le teorie psicoanalitiche costituivano il fondamento della teoria psichiatrica.
Già l'anno successivo Sullivan iniziò la propria attività come psichiatra all’ospedale Sheppard
dove a partire dal 1929 poté gestire un piccolo reparto organizzato interamente secondo le idee
che nel frattempo era venuto sviluppando.

Inizialmente, Sullivan si occupò di giovani schizofrenici maschi. “la chiave essenziale del
lavoro di Sullivan con i suoi pazienti era rappresentata dalle sue vicissitudini personali, e dalle
capacità di identificazione coi pazienti e di autoanalisi che ne conseguirono”. Nei primi scritti
Sullivan legava l’esordio della schizofrenia maschile a problemi esistenziali affrontati nel
corso della preadolescenza e dell’adolescenza, e impostava il percorso terapeutico come un
tentativo di compensare la mancata soluzione di quei problemi:

“[…] Sullivan partì dall’ipotesi che i giovani pazienti maschi del suo reparto avessero
mancato di godere della possibilità di un rapporto di reciproca fiducia in fase
preadolescenziale”. Già i primi scritti di Sullivan erano caratterizzati da idee di fondo che
rimarranno relativamente costanti nel corso del suo pensiero teorico-clinico. Sullivan esplicitava che
la premessa epistemologica fondamentale alla quale aderiva era quella di un realismo critico.

I presupposti che Sullivan riteneva necessari per accettare il suo punto di vista erano altrettanto
chiaramente enunciati: il postulato dell'esistenza dell'inconscio; una concezione ideologica
dell'esistenza umana; l'ipotesi ontogenetica, fondata sulla progressiva organizzazione della mente
secondo una “sequenza esistenziale di esperienze” sostanzialmente simili per i diversi esseri
umani.

Per la comprensione della patologia, secondo Sullivan, bisognava ricostruire cosa il


paziente sta cercando di fare attraverso la psicosi. Questo significava opporsi a tutta la
tradizione psichiatrica che cercava nell'eredità in relazioni cerebrali le eziologia della
schizofrenia. Nella stessa conferenza di esordio, Sullivan offriva una sua visione della
schizofrenia come “serie di eventi mentali di grande rilevanza, sempre accompagnati da
sostanziali modificazioni della persona, ma che di per sé non comportano né deterioramento
né demenza”;

e come “un disturbo della struttura mentale che si manifesta come disturbo della motivazione
[…] e che a sua volta si riflette nei contenuti del pensiero e nell’attività finalizzata, cioè nel
comportamento. La struttura mentale si disorganizza in modo tale che le sue varie parti,
ora regrediscono funzionalmente verso livelli ontogenetici più antichi, ma tutti diversi
l’uno dall’altro”.

Basandosi sulle proprie prime esperienze cliniche, Sullivan già sosteneva che la prognosi della
schizofrenia non fosse necessariamente infausta e che anzi una cura fosse possibile, dato che
un intervento precoce poteva prevenire la regressione definitiva della personalità; sottolineava
inoltre che, come l’esordio della patologia era in qualche misura determinato dall’ambiente,
anche l’esito del reinserimento del paziente nel mondo doveva considerarsi legato al
contesto in cui questi avrebbe vissuto la fase di recupero.

Fin da subito risultavano evidenti tanto l'influenza del pensiero freudiano su Sullivan, quanto la
diversità di orientamento, che ha portato Greenberg e Mitchell a costruirne un'immagine di
perfetto contraltare di Freud. Raramente è stata messa in luce la forte influenza che c'è stata su
di lui da Jung. Negli scritti degli anni 20, Sullivan sviluppò una teoria ontogenetica e una
tecnica di cura della schizofrenia che piegavano le idee psicoanalitiche a un'interpretazione
certamente nuova.

Se per Freud i fattori decisivi per la salute o la malattia erano intrapsichici, per Sullivan erano
interpersonali. Continuava a considerare fondamentale la sessualità nello sviluppo individuale;
peraltro non solo come possibile fonte di negozi ma anche con fattore protettivo: “il disturbo
non sembra colpire chi sia riuscito, […] a trovare un adattamento decisamente soddisfacente
verso un oggetto sessuale”. Sullivan considerava tuttavia l'edipo un “artefatto culturale” quello
che Sullivan chiamava il possibile “effetto castrante” dell'ambiente familiare era meglio
interpretabile in senso metaforico che in quello letterale freudiano dell'ansia di castrazione; ed
era legato al cattivo adattamento dei genitori al condizionamento culturale relativo alla
sessualità.

Anche il prolungamento delle cure materne oltre l'età in cui fossero necessarie poteva avere
effetti devastanti. nel 1926, Sullivan ebbe occasione di ascoltare le conferenze tenute da
Ferenczi e avvertì una profonda affinità con le sue idee, al punto da spingere Clara Thompson a
diventarne allieva. Thompson raggiunse Ferenczi in Europa e divenne uno dei principali
interlocutori di Sullivan. Nel 1928 e nel 1929 Sullivan partecipò a due colloquia on personality
investigation che si tennero a New York.

Sullivan si era convinto ormai che la personalità fosse “in larga misura un prodotto della
cultura”. La psicopatologia iniziava ad essere esplicitamente da lui concepita come
funzione degli eventi che avevano caratterizzato la vita di una persona, eventi vissuti
nel rapporto reale con altri significativi e che avevano in qualche misura minato l’autostima
dell’individuo. Proprio a New York Sullivan si trasferì tra il 1930 e il 1939 e qui ebbe modo di
avviare un dialogo con altri personaggi fondamentali nella storia della psicoterapia e della
psicoanalisi: Fromm, Reichmann, Horney.

Insieme a loro e a Clara Thompson, Sullivan costituì un gruppo che è stato definito con una
certa approssimazione movimento neofreudiano. In comune con Sullivan, gli europei
mostravano:

- la convinzione che la psicanalisi classica ha necessitasse di essere riformata, perché Freud era
fortemente condizionato dalla situazione storica e sociale nella quale si trovava a lavorare

-l'apertura verso discipline in grado di ampliare la prospettiva clinica pura

Sullivan sostenne l’importanza, nel lavoro con gli psicotici, di una manovra terapeutica che
precedesse la vera e propria applicazione della tecnica psicoanalitica. tale manovra
prevedeva:

- il trasferimento in una situazione in cui possa venir incoraggiato a rinnovare gli sforzi per
adattarsi agli altri, quindi il ricovero in un ambiente controllato;

- la possibilità di dare al paziente un’esperienza orientativa, cioè di essere trattato come una
persona tra le persone.

Solo in seguito potevano cominciare gli sforzi diretti “alla ricostruzione dell’effettiva
cronologia della psicosi”. Gli schizofrenici necessitavano di “una terapia diretta anzitutto
alla loro socializzazione, e in seguito a una più fondamentale riorganizzazione della loro
personalità”. Per Sullivan la formazione del personale non medico risultava fondamentale
come era fondamentale il principio per cui “le situazioni terapeutiche dovevano essere
integrate tra individui dello stesso sesso”.

L'opera di Sullivan avrebbe iniziato a essere considerata a livello dei suoi meriti solo a partire
dagli anni 80 del 900, grazie alla straordinaria influenza del già citato libro le relazioni
oggettuali nella teoria psicanalitica. L’attività di Sullivan, a partire dagli anni Trenta, può
essere definita sempre di più come un tentativo di “fusione di psichiatria e scienza
sociale”. La rivista Psychiatry, che Sullivan contribuì a fondare nel 1938, fu
probabilmente la prima rivista interdisciplinare che si occupasse di salute mentale.

La stessa definizione che Sullivan offri del termine psichiatria già nel 1934 in una voce
dell’enciclopedia rifletteva una concezione estremamente aperta della disciplina: “Lo
studio scientifico delle caratteristiche della personalità e delle relazioni interpersonali”.
L'ultimo capitolo del libro incompiuto e pubblicato postumo teoria interpersonale della
psichiatria si intitolava in modo visionario “verso una psichiatria dei popoli”, esprimendo
l'auspicio che i professionisti della salute mentale non si occupassero soltanto di cura ex
post, ma contribuissero ex ante alla necessaria prevenzione del disagio mentale.

Trasferitosi a New York nel 1932, Sullivan ampliò il campo della propria esperienza clinica a
casi meno gravi. Anche l'oggetto dei suoi contributi si ampliò progressivamente. Sullivan
sviluppo quindi spunti teorici per una teoria “del pensiero e dell'azione delle persone, reale o
illusorio”, nel suo sviluppo, e per una teoria della cura. Nella visione di Sullivan la vita umana
era caratterizzata da processi di adattamento al mondo circostante più o meno adeguati. I
pensieri di tipo psicotico erano rari ma comunque non assenti dall’esperienza delle persone
cosiddette normali. Queste ultime alternavano comunemente relazioni personali di tipo
perfettamente adeguato a modalità interattive distorte, che Sullivan chiamava con un
neologismo paratassiche.

Come per Freud, l'approccio evolutivo era quello più corretto per comprendere le origini
dei problemi della salute mentale: porre al centro della propria concezione i processi di
adattamento al mondo interpersonale produceva dei cambiamenti di prospettiva radicali
rispetto alla visione freudiana. La teoria della motivazione di Sullivan si fondava sull’idea
che gli atti umani fossero riconducibili a due categorie fondamentali, a seconda dello
scopo che si intendeva raggiungere. In un ciclo di conferenze tra il 1939, Sullivan affermava:

“la base più generale sulla quale si possono classificare i fenomeni e gli atti interpersonali, è
quella che separa gli Stati finali in due gruppi: chiamiamo soddisfazione gli stadi finali del
primo gruppo e sicurezza, o conservazione della sicurezza quelli del secondo. In questo senso
speciale sono soddisfazioni tutti quegli Stati finali che sono connessi con l’organizzazione
corporea dell'uomo”

Fin dall’inizio dell’esistenza individuale, l’essere umano raggiungeva la sicurezza nel


rapporto con altri esseri umani, quelli maggiormente significativi. Molto prima di essere in
grado di utilizzare il linguaggio, il bambino comunicava con la madre attraverso un
rapporto di empatia. Il legame empatico con l’altro significativo portava alla
consapevolezza del benessere dell’altro e induceva il proprio benessere; o viceversa causava
disagio all’altro e disagio proprio.

Con il procedere dello sviluppo, l’essere umano costruiva quello che Sullivan chiamò il
sistema del Sé, ovvero il repertorio di atti interpersonali che l’ambiente contribuiva a
organizzare. Tale organizzazione si basava sulle reazioni positive o negative che si
incontravano nell’interagire con gli altri significativi. Le reazioni fortemente negative
generavano angoscia; tutte le operazioni di sicurezza che i “dinamismi” del Sé mettono in
atto sono volte essenzialmente a evitare di affrontare l’angoscia. Saldi vanno usava il termine
“dinamismo” per identificare ciò che la psicanalisi classica usualmente identificava come
“meccanismo”.

Un ambiente più tollerante avrebbe condotto a un repertorio di azioni più ampio, mentre quanto
più l'agire individuale che fosse stato fortemente disapprovato, tanto meno numerose sarebbero
state le iniziative che l'individuo avrebbe messo in atto senza provare angoscia. Quanto più
ristretto fosse il repertorio di azioni consentite dalla coscienza, tanto più facilmente l'essere
umano avrebbe teso a sviluppare una forma di psicopatologia grave. Nell'ultima formulazione
del suo pensiero, Sullivan postulò una precoce di partizione del sistema del sé in me buono, me
cattivo e non-me:

● Me buono: era costituito da quei comportamenti che evocavano risposte di


apprezzamento dalla madre;

● Me cattivo: costituito da quei comportamenti che evocavano ansia nella madre, ma


che potevano essere utilizzati per ottenere determinati scopi;
● Non-me: raggruppava quei comportamenti che evocavano una risposta così negativa
e generavano un’angoscia talmente grande da dover essere evitati a tutti i costi.

Nell'ottica di Sullivan “la psicopatologia personale può essere compresa nel modo migliore
in relazione al clima familiare in cui ciascun paziente è cresciuto".

Il ruolo dell’analista, come lo interpretava Sullivan, consisteva nell'aumentare la


consapevolezza che il paziente aveva del modo in cui partecipava alle interazioni. Il
paziente cominciava a notare le caratteristiche significative che aveva sempre evitato.
Giungeva a capire fino a che punto i suoi efficaci tentativi di controllare l’ansia nel breve
periodo, alla lunga gli precludevano una vita più soddisfacente.

La sua relazione con l’analista era spesso un mezzo efficace per dimostrare i tratti autolimitanti
delle operazioni di sicurezza. Sullivan ebbe un ruolo fondamentale nella selezione dei militari
per il suo paese durante la Seconda guerra mondiale. Dopo la fine del conflitto riprese la sua
attività anche fuori dagli USA. Morì a Parigi nel 1949.

ERICH FROMM, PSICOANALISI E LIBERTÀ

Fromm, nato a Francoforte nel 1900, si avvicinò alla psicoanalisi nel 1924 attraverso la futura
moglie Frieda Reichmann. Sottopostosi ad analisi didattica, iniziò l’attività clinica nel 1927.
Due anni dopo i due furono tra i fondatori dell'istituto psicoanalitico di Francoforte, che trova
ospitalità proprio nell'istituto per la ricerca sociale. Interessato all’applicazione della
psicoanalisi ai fenomeni sociali e a sua volta lettore di Marx, Fromm divenne collaboratore
dell’Istituto diretto da Horkheimer, del quale dal 1930 fu direttore della sezione di
psicologia sociale.

Psicoanalisi, marxismo origine ebraica accumulavano pressoché tutti i francofortesi che furono
anch'essi costretti a emigrare con l'avvento del regime nazista. Nel caso di Fromm ciò avvenne
nel 1934 verso l'America. Il primo passo di Fromm verso la progressiva relativizzazione del
pensiero freudiano si ebbe già con un saggio del 1937 dal titolo La determinazione sociale
della struttura psichica. Fromm vi sosteneva che molte caratteristiche dell’umanità ritenute
universali da Freud dovevano essere invece considerate proprie della società borghese
contemporanea.

Da questa idea nacque un'opera, Fuga dalla libertà che affrontava con un linguaggio molto
comprensibile il tema scottante è attualissimo della crisi delle democrazie occidentali di fronte
ai movimenti autoritari. Questo libro introduceva anche delle importanti novità teoriche in
campo psicoanalitico. La principale di esse era la nozione di carattere sociale, definito come “il
nucleo essenziale della struttura di carattere della maggior parte dei membri di un gruppo,
sviluppatasi per effetto delle esperienze fondamentali e del modo di vita in comune a tale
gruppo”.

Il carattere veniva definito come “la forma specifica in cui l’energia umana viene modellata
dall’adattamento dinamico delle esigenze umane al particolare modo di esistenza di una
determinata società.”. La personalità umana veniva interpretata come il frutto dell’interazione
di componenti biologiche, influenze interpersonali, fattori sociali. Non si poteva più
concepire l'idea di una personalità normale in senso assoluto: il carattere sociale di un
determinato contesto storico-geografico differiva spesso da quello di un contesto diverso.

Secondo Fromm il carattere sociale di un'epoca non poteva corrispondere alle esigenze
dell'epoca stessa: in alcune occasioni storiche la maggior parte dei componenti di una
categoria sociale avrebbe presentato caratteristiche psicologiche non adattive rispetto
all'epoca. Vista la rilevanza del contesto e sociale, la nevrosi non poteva essere considerata
un fenomeno soltanto personale. Anche gli aspetti culturali potevano assumere una
profonda importanza nell'analisi. Fromm criticò in seguito altri elementi cruciali della
teoria freudiana: in particolare il complesso di Edipo, la teoria del narcisismo e la psicologia
della donna.

Il complesso edipico non avrebbe avuto origine dagli impulsi sessuali ma da un conflitto con
l’autorità genitoriale. L’idea del narcisismo come frutto di investimento libidico su di sé invece
che sull’oggetto era un equivoco, dato che l’esperienza dimostrava come la capacità di amare
l’altro fosse proporzionale alla capacità di amare sé stessi. La concezione della donna come
inferiore per cause anatomiche e la mancanza del complesso di castrazione costituivano
semplicemente una razionalizzazione dei pregiudizi sociali nei confronti delle donne.
Tanto la visione freudiana era lungi dall'essere universale, che si poteva supporre la possibilità
di un rapporto sociale rovesciato e di un conseguente complesso maschile. A Fromm si deve
anche una visione della relazione analitica molto meno neutrale rispetto a quella teorizzata da
Freud. L’analista, secondo Fromm doveva sviluppare un contatto autentico e non giudicante
con l'analizzando.

Le interpretazioni non dovevano essere improntate né alla gentilezza né alla sgradevolezza. Il


paziente doveva sentirsi compreso in modo partecipe; doveva essere nella condizione di non
sentirsi solo nella sua sofferenza. I sintomi per Fromm erano dei compromessi, mediante i quali
l’individuo si ribellava nevroticamente al conformismo. Il terapeuta dovevo favorire la
liberazione delle persone, la loro autonomia fino a renderle “produttive”. L'interesse per le
scienze sociali, l'atteggiamento accogliente verso la analizzando ponevano naturalmente
Fromm vicino alla mentalità di Sullivan

KAREN HORNEY: UN’ALTRA GRANDE ESCLUSA

Karen Horney nacque ad Amburgo nel 1885. La famiglia la sostenne incoraggiando i suoi studi
di medicina. Dopo un’analisi con Karl Abraham, fu tra i fondatori dell’Istituto psicoanalitico di
Berlino. Nel 1932 varcò l'atlantico per trasferirsi prima a Chicago e poi a New York. Le sue
posizioni si rivelarono presto molto distanti dalla psicoanalisi classica. Un saggio sul
masochismo femminile era già molto critico verso Freud. Horney riteneva palesemente
superficiale è infondata la descrizione proposta da Freud della psiche della donna.

Neanche il genio di Freud aveva saputo trascendere i pregiudizi culturali della propria epoca.
La collaborazione con Eric Fromm rese Horney più sensibile a prendere in considerazione
l’influenza del contesto sociale sullo sviluppo umano. Anche il trasferimento negli Stati Uniti
contribuì a maturare in lei la convinzione che la nevrosi fosse un fenomeno fortemente
condizionato dall’ambiente umano: i problemi portati in analisi dagli americani differivano da
quelli affrontati dai tedeschi.

Con New Ways in Psychoanalysis, Horney abbandonò la teoria della libido e teorizzò un’assai
minore importanza della sessualità infantile per la condizione nevrotica. Horney abbandonava
i concetti di fissazione e regressione a un determinato stadio dello sviluppo psicosessuale. Il
ruolo stesso dell'esito della sessualità nella vita umana veniva ampiamente ridimensionato.
Horney finì per affermare che nella nevrosi “le attività sessuali divengono non soltanto un
mezzo per scaricare le tensioni sessuali, ma altresì un espediente per alleviare molteplici
tensioni non sessuali”.

Già i suoi primi libri avevano creato tante perplessità nell’establishment dell’ associazione
psicoanalitica americana da privarla della docenza nell’Istituto di New York nel 1941. Il suo
seguito era però già così significativo da consentirle di fondare l’American Institute for
Psychoanalysis, che diresse fino alla morte. Horney contestò l’idea freudiana che il conflitto
dal quale si originava la nevrosi contrapponesse desideri e umori.

Horney esprimeva anche perplessità sull'idea che i conflitti inconsci fossero onnipresenti: in
condizioni di normalità, una persona può essere inconsapevole dei propri conflitti ma
acquisirne coscienza senza la necessità di un aiuto esterno, mentre “le tendenze essenziali che
determinano un conflitto nevrotico sono profondamente rimosse, e possono essere portate alla
luce solo agendo contro una forte resistenza”.

La differenza tra la condizione normale e la condizione nevrotica con Horney diventava così
qualitativa. L’essere umano in un ambiente normalmente favorevole poteva acquisire una
fiducia fondamentale verso il mondo e sviluppare il proprio Sé reale. In un ambiente
sfavorevole avrebbe teso alla condizione di angoscia di base, ovvero “il sentirsi impotenti di
fronte ad un mondo ostile”.

Questo avrebbe spinto l'essere umano a comportamenti relazionali coatti, cioè sentire di dover
fare qualcosa senza che questo dovere fosse reale. L'opinione horneyana riguardo ai possibili
esiti della terapia analitica divergeva da quella freudiana in modo quasi paradossale. Da un
lato, Horney rivendicava la propria capacità di riconoscere i notevoli ostacoli che nevrotico
incontrava nel tentativo di risolvere i conflitti, ostacoli che a suo avviso Freud non aveva
adeguatamente riconosciuto.

Dall'altro lato, gli occhi di Horney era assai più facile che un paziente ottenesse dall'analisi dei
benefici sostanziali e durevoli. Il pessimismo terapeutico freudiano sarebbe stato legato a una
radicale quanto ingiustificata sfiducia verso l'umanità. Horney riteneva anche che la capacità
dell'uomo di superare le difficoltà e contraddizioni permanesse per tutta la vita e che quindi
non vi fossero controindicazioni all'analisi di una persona matura. Horney non condivideva
nemmeno l'atteggiamento di fredda neutralità degli analisti classici degli psicologi dell'io: a suo
avviso l'analista doveva risultare “wholehearted” (Teso verso l'altro con tutto il cuore)

Capitolo 6. Una terra di mezzo. Gli anni Cinquanta

PSICOTERAPIA E GUERRA FREDDA

Gli anni Cinquanta possono essere considerati una “terra di mezzo” fra l'epoca delle ideologie
di massa e unità assegnata da grandi battaglie civili, almeno in Occidente. Dopo la Seconda
guerra mondiale la psicoterapia si radicò nelle istituzioni americane soprattutto come mezzo
utilizzabile per la gestione dei traumi che la guerra aveva prodotto nei veterani. Lo psichiatra
William Menninger era stato il capo degli psichiatri statunitensi durante la Seconda guerra
mondiale. Insieme al fratello Carl diresse una clinica a Topeka, che si caratterizzava per
un'impeccabile organizzazione, la capacità di accogliere una grande quantità di pazienti e
un'efficacia terapeutica.

In Europa, la promozione della psicoterapia divenne anche un'occasione per lo svecchiamento


e la modernizzazione delle strutture mediche. Anche gli psicologi clinici americani erano stati
chiamati a contribuire prima la guerra e poi al dopoguerra, acquistando così prestigio
professionale. Dall'altro lato dell'atlantico, la fine della Seconda guerra mondiale la liberazione
dall'incubo nazifascista spingeva alcuni giovani psichiatri e psicologi a ridefinire le scienze
della salute mentale e il loro ruolo professionale. Alcuni giovani formati dalla psicoanalisi si
fecero promotori di un rinnovamento istituzionale

Gli innovatori erano spesso medici politicizzati e con una formazione psicologica e
psicoanalitica. Due figure emblematiche in consenso furono Daniel Lagache e Adriano
ossicini. Entrambi gli psicoanalisti e appassionati di psicologia sociale di matrice lewiniana,
rilanciarono l'identità dello psicologo clinico come nuovo professionista dotato di un metodo
derivato dalla psicoanalisi, ma che si applicava anche alle esigenze della società post bellica.
Lagache e Ossicini credevano in una psicoterapia impegnata al servizio della società e crearono
nuovi servizi psicologici per l'infanzia e l'adolescenza.

In paesi come la Francia e l'Italia i non medici che esercitavano la psicoterapia rischiavano di
fatto l'accusa di abuso della professione medica. Per Lagache e ossicini, lo psicologo clinico
avrebbe dovuto invece lavorare in autonomia dallo psichiatra, con un bagaglio di conoscenze
unitarie che avevano come cardine l'idea che la psicologia fosse una disciplina sperimentale
applicata. La contrapposizione tra asse e alleati era stata sostituita da quella tra un blocco
“Atlantico”, guidato dagli Stati Uniti, e un blocco “sovietico” guidato dall’URSS.

La guerra fredda non si tradusse mai in una guerra militare vera e propria, anche se in
occasione di conflitti locali usa e Urss presero le parti di uno dei due contendenti. La guerra
fredda venne combattuta essenzialmente con la propaganda e con la lotta tra servizi segreti.
Ognuno dei due blocchi cercava di attrarre nella propria orbita paesi appartenenti allo
schieramento contrapposto. Negli Stati Uniti la lotta all'ideologia comunista fu caratterizzata
negli anni 50 dal maccartismo. Joseph McCarthy passò alla storia per aver dato voce al timore
che il sistema comunista sostenuto dall'unione sovietica potesse prevalere rispetto
all'organizzazione liberale dello Stato.

Già partire dalla fine degli anni 40, McCarthy diede vita a un'insieme di iniziative politico-
istituzionali votata alla ricerca di elementi considerati sovversivi. McCarthy considerava
comunista chiunque sostenesse idee orientate alla critica sociale, esprimesse dissenso o fosse
portatore di istanze progressiste. Chiunque sostenesse nuove istanze libertarie veniva
considerato un pericoloso oppositore. Dallo stesso contesto storico presero le mosse quelle
istanze libertarie che fino agli anni 80 risultarono l'unica novità della scena politica. Tali
istanze vennero rappresentate in primo luogo dalla cosiddetta “beat generation” americana; in
seguito da politici che si battevano per una società differente nuovi diritti.
Anche la psicoanalisi e la psicoterapia furono influenzate dal contesto ideologico della guerra
fredda. Nei paesi del patto di Varsavia, si accettavano teorie e tecniche comportamentiste,
psicofisiologiche, organicistiche. Negli Stati Uniti e in Europa la psicoanalisi subì un processo
di desessualizzazione e di e di cristianizzazione anche per neutralizzare quelle istanze libertarie
che avrebbero potuto destabilizzare la società occidentale.

In Unione Sovietica le forme di terapia basate sul condizionamento pavloviano sostituirono in


epoca stalinista un'iniziale interesse degli “psi” russi per la psicoanalisi e per la psicopatologia
di ispirazione psicoanalitica. Molti importanti psicologi russi ebbero una formazione
psicoanalitica iniziale.

La abbandonarono a causa della censura imposta dal regime sovietico nei confronti di tutte le
psicologie cosiddette borghesi e persino autoctona scuola storico-culturale di Vigotsky,
caratterizzata da un'impostazione chiaramente materialista. La riscoperta di un'impostazione
psicologica storico- culturale si attuò solo con la fine dello stalinismo. Pare acclarato che si
utilizzassero esclusivamente forme di trattamento morale e terapie suggestive, persuasive,
lavorative, comportamentiste, di gruppo, ibridate per i fini ideologici della cultura comunista.

Negli Stati Uniti si attuò un'indiscussa egemonia di una scuola psicanalitica, la psicologia
dell'io. Gli psicologi dell'io misero l'accento sulle strategie di adattamento delle persone. Lo
studio dei compiti evolutivi e delle capacità cognitive nella gestione delle pulsioni divenne di
importanza centrale. In Inghilterra si diffuse la teoria delle relazioni oggettuali. Il movimento
psicoanalitico entrò comunque in sintonia con l'idea che occorresse rinnovare radicalmente la
teoria delle pulsioni e prevenire un modello teorico che collaborasse con la psicologia generale
dello sviluppo.

La nuova psicoanalisi costituiva una neutralizzazione dell'originario modello freudiano. La


psicoanalisi manteneva però il carattere di strumento di cambiamento sociale nelle mani dei
freudomarxisti. Alcuni esponenti della scuola di Francoforte divennero infatti tra i maggiori
intellettuali di riferimento per la generazione nata dal boom economico.

LE TEORIE DELLE RELAZIONI OGGETTUALI IN TERRITORIO ANGLOSASSONE

L’idea di fondo del modello strutturale delle relazioni oggettuali era che la relazioni con altri
significativi rivestisse una maggiore importanza della mera soddisfazione delle pulsioni fin
dalle prime fasi dello sviluppo di un essere umano. Se sali Van tesa ad abbandonare il concetto
freudiano di libito, altri autori cercarono piuttosto di rivisitarlo. In questa direzione si poteva
considerare l'idea di un “amore oggettuale primario”, La cui esistenza non inficiava però la
struttura della teoria freudiana. Michael Balint era convinto che la relazione con la madre
all’inizio della vita individuale fosse del tutto indipendente dalle zone erogene.
La ferita causata dalla fine della relazione privilegiata con la madre avrebbe costituito il
“difetto fondamentale” dal quale l’essere umano avrebbe cercato di liberarsi per tutta la vita.
Nella direzione di un radicale ripensamento della metapsicologia freudiana si deve
leggere la nota eccitatissima affermazione di Ronald Fairbairn, per cui “la libido è ricerca di
oggetto”. Una differente considerazione del ruolo dell'oggetto rispetto alla teoria classica
freudiana costituì comunque la scintilla per cui da radici ungheresi, diversi autori, offrirono
contributi teorici e clinici orientati al modello delle relazioni oggettuali.

Le radici ungheresi sono identificabili in autori come Michael Balint, il suo maestro Ferenczi e
soprattutto Melanie Klein. Le sintesi storiche della psicanalisi sono state scritte in generali da
psicoanalisti. Quella di Melanie Klein è stata definita più volte come una teoria di transizione,
ponendosi in un certo senso a metà tra il modello classico freudiano e il modello strutturale
nelle relazioni oggettuali. Klein conservava i concetti di libido e pulsione di morte di Freud,
pur asserendo che la vita della mente fosse costituita fin dall'inizio soprattutto da fantasie
riguardanti oggetti. Fu già Ronald Fairbairn a scrivere “l'opera di Melanie Klein ha già
preparato il terreno per un tale sviluppo del pensiero”. Fairbairn definì la propria prospettiva
anche come” un'implicazione inevitabile della concezione chiarificatrice degli oggetti
interiorizzati”.

Considerare quella di Klein come una sorta di teoria provvisoria sarebbe ingeneroso quanto in
esatto, perché diversi autori possono essere ritenuti allievi diretti e prosecutori del pensiero
kleiniano, mantenendo l’impostazione originaria che sottolineava il ruolo decisivo delle
fantasie e del mondo interno rispetto all'influenza ambientale. Negli Stati Uniti il modello delle
relazioni oggettuali nacque in modo del tutto indipendente dal contributo kleiniano. Anche nel
Regno unito i teorici delle relazioni oggettuali svilupparono le proprie concezioni
parallelamente a Klein.

È infatti dovuto a Ian Suttie “ il primo compiuto esame del legame con l'oggetto che esula da
un ricorso alla teoria della pulsione e della difesa”. Suttie si vide respingere nel 1923 un
contributo inviato all'international Journal of psychoanalysis perché evidentemente perché è
troppo originale, nel suo intento di descrivere l'essere umano fin dalla nascita come animale
sociale orientata a istituire rapporti con altri significativi.

FAIRBAIRN: LA DIPENDENZA DELL’OGGETTO

Ronald Fairbairn, è conosciuto per un libro pubblicato negli anni Cinquanta Ehi che
raccoglieva una serie di contributi risalenti alla prima metà del decennio precedente. In realtà la
sua vocazione psicoterapeutica risaliva addirittura al 1915, quando ebbe la ventura di visitare
un ospedale psichiatrico. Alla psicoanalisi Fairbairn si accostò con un bagaglio culturale che si
fondava sugli studi sia medici sia psicologici. La sua solida preparazione intellettuale
comprendeva una conoscenza approfondita delle teorie razionaliste dell'inconscio anteriori a
Freud, della psicologia filosofica empirista e pragmatista da Berkley a James, della filosofia
classica tedesca da Kant ed Hegel.
Il suo atteggiamento nei confronti della psicoanalisi si caratterizzò fin da subito per una
posizione critica. Già cinque anni dopo la pubblicazione di L’io e l’Es, Fairbairn tenne un
seminario nel quale espose quelle che considerava delle falle insanabili del modello strutturale:
inconsistente gli sembrava l'idea di una mente divisa in zone o addirittura in entità dal carattere
antropomorfo; cervellotiche la concezione dell’Es come serbatoio di energia e la stessa idea
della libido; irrisolvibili le contraddizioni inerenti al rapporto tra l’Io, Es e Super-Io: ci sarebbe
stato un conflitto tra l’Io e l’Es, ma anche tra l’Io e il Super-Io; ma anche tra il Super-Io e l’Es.

Gli interrogativi posti dall'origine e dal ruolo del super-io e dalla natura della libido vennero
ulteriormente approfonditi e sviscerati in due ampi contributi. Dagli appunti presi durante la
partecipazione al Congresso psicanalitico di Oxford del 1929, si può anche già ricavare
l'impressione di un Fairbairn molto perplesso riguarda le caratteristiche del movimento
psicanalitico. Le parole di Freud sembravano costituire un ipse dixit indiscutibile;
l’associazione era avvolta nella segretezza e il suo ingresso avveniva per iniziazione; l’analisi
sembrava essere considerata come un processo di conversione destinato a condurre il paziente
verso la salvezza.

Nei pochi ma densissimi saggi che pubblico a partire dagli anni 40, Fairbairn propose in pratica
una radicale riforma della psicoanalisi. Secondo Fairbairn era stato “raggiunto il punto in cui
[…] la classica teoria della libido” doveva “essere trasformati in una teoria dello sviluppo
basata essenzialmente sulle relazioni oggettuali”. Fairbairn non negava la realtà delle zone
erogene ma le definiva come “canali attraverso i quali fluisce la libido”, specificando che “una
zona diventa erogena solamente quando la libido fluisce attraverso di essa”.

L’essere umano, all’inizio del proprio sviluppo, attraverserebbe una fase orale perché la
bocca è l’organo con cui più facilmente si entra in relazione con l'oggetto. Allo stesso modo, la
fase genitale corrisponderebbe alla raggiunta possibilità di vivere una sessualità matura.
Tuttavia, scriveva Fairbairn “ […] la vera sessualità genitale viene acquisita in virtù del fatto
che sono state instaurate delle soddisfacenti relazioni oggettuali” ehm tutto lo sviluppo
psicosessuale avrebbe dovuto essere riletto come “un processo mediante il quale la dipendenza
infantile dall'oggetto cede a poco a poco il passo a una dipendenza matura dell'oggetto”

l'importanza della dipendenza viene ampliamente confermato dall'attività come consulente


psichiatra presso l'ospedale di Carstairs, dove Fairbairn ebbe occasione di visitare numerosi
militari che soffrivano di “nostalgia di casa”. Che la libido fosse “primariamente una ricerca
dell’oggetto” significava in sostanza che il piacere era “ il risultato della qualità dello stato
relazionale tra l'io è un oggetto interno o esterno, piuttosto che della scarica di energia”. Questa
modifica della concezione della libido implicava:

● Ri- descrivere lo sviluppo infantile in funzione del rapporto con l’oggetto, e più
specificatamente in termini di forme diverse di dipendenza dall’oggetto;

● ricercare l'origine di tutte le forme di psicopatologia nei disturbi delle relazioni oggettuali
dell’Io in fase di sviluppo.

Lo schema dello sviluppo infantile normale proposto da Fairbairn prevedeva :

1. Stadio della dipendenza infantile, caratterizzato prevalentemente da un atteggiamento


di prendere:
a) orale-precoce - incorporativo - succhiante o rifiutante (preambivalente);

b)orale-tardivo - incorporativo - succhiante o morsicante (ambivalente).

2. Stadio di transizione tra la dipendenza infantile e la dipendenza matura o stadio di quasi-


indipendenza dicotomia ed esternalizzazione dell'oggetto incorporato.

3. Stadio della dipendenza matura caratterizzato da un atteggiamento oblativo - oggetto


accettato e oggetto rifiutato esteriorizzato.

La deviazione dalla norma era interpretata da Fairbairn in termini di deficit ambientale, causa
di diversi fenomeni mentali considerati a torto normali da Klein o da Freud. L’interiorizzazione
dell’oggetto era “una manovra difensiva originariamente adottata dal bambino nei confronti
dell'oggetto originario in quanto insoddisfacente”. L’aggressività era il frutto della reazione
alla frustrazione e alla deprivazione dell’Io nella sua ricerca dell’oggetto. L’Es era una
costruzione teorica priva di significato, essendo le sue proprietà e funzioni iniziali proprie
dell'io.

Non era l’io a derivare dall'es: erano invece le componenti inconsce della personalità a derivare
per rimozione dall'io. Se il fattore motivazionale primario era la ricerca dell'oggetto, a
invischiare una persona nella psicopatologia non sarebbero stati i conflitti inconsci, quanto
piuttosto la fedeltà alla modalità di relazione oggettuale già conosciuta. Abbandonandola, il
nevrotico era convinto di rimanere solo; alternativa ben peggiore di una relazione cattiva.
Questo schema chi arriva molto meglio della teoria freudiana l'origine del masochismo: era più
facile capire il piacere masochistico in funzione della ricerca di prossimità verso la persona
ricercata.

Tutto ciò implicava conseguenze profonde sulla concezione della psicoterapia analitica.
L'insight di per sé era insufficiente alla cura: perché la analizzando potesse rinunciare alle
vecchie forme del legame con analista doveva cominciare a credere in modelli di relazione
nuovi, meno limitanti.

WINNICOTT: L'IDENTITÀ’ INFANTILE E L’ESPERIENZA PSICOANALITICA

Donald Woods Winnicott nacque a Plymouth da genitori benestanti. Il padre viene descritto
come un uomo di successo ma caratterizzato da una scarsa fiducia in se stesso, oltre che dalla
tendenza a lasciare il figlio alla cura delle figure femminili della famiglia. Le esperienze infantili
possono certamente aver influito sugli interessi anche teorici di Winnicott, spesso focalizzati sul
rapporto del bambino con la madre. Winnicott maturo un precoce interesse per la medicina.
Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale come chirurgo tirocinante della Marina
militare britannica, si indirizzò alla pediatria. Nel corso della sua carriera, Winnicott ebbe
occasione di incontrare in qualità di pediatra migliaia di madri e bambini. il programma di
Winnicott si sviluppò chiaramente in questa direzione fin dagli esordi teorici. “La teoria della
malattia psichiatrica deve essere modificata tenendo conto che, in molti casi, la storia di una
anormalità risale ai primi mesi e perfino alle prime settimane di vita”.

In effetti la raccolta dei suoi saggi più importanti recava come titolo dalla pediatria alla
psicoanalisi. Risalgono al 1923 sia il primo incarico come pediatra presso l'ospedale di
Paddington green a Londra, sia il primo incontro con Ernest Jones. Fu invece indirizzata alle
cure di James Strachey e maturò l'idea di divenire a sua volta analista, dedicandosi ai bambini.
Su suggerimento dello stesso Strachey, si rivolse a Melanie Klein, della quale divenne un allievo
sui generis.

Winnicott, a partire dalle “Discussioni controverse”, rimase stabilmente nel gruppo degli
indipendenti. Come Fairbairn, Winnicott attribuiva un'enorme importanza all’ambiente nello
sviluppo psicologico individuale, al punto da pronunciare nel 1942 una frase rimasta
comprensibilmente famosa: “ciò che chiamiamo bambino, in realtà, non esiste”. Winnicott
intendeva con ciò che la vita dell'essere umano, nella prima fase della sua esistenza, doveva
essere considerata come inserita nel sistema costituito dalla coppia madre-bambino.

Si può comprendere con quale approfondita attenzione Winnicott compisse le sue osservazioni
su mamme e bambini molto piccoli da come ne descrisse il comportamento in una situazione
da lui prefissata e apparentemente semplice: il bambino in braccio alla madre, di fronte a lui a
portata di mano, un abbassalingua luccicante. Winnicott si sarebbe convinto che il modo di
trattare l'oggetto in questa situazione costituisse un “mangiare immaginario” e quindi una
forma primitiva di gioco. A partire dal saggio sullo sviluppo emozionale primario winnicott
elaborò:

-una nuova concezione della prima infanzia, fondata sull'idea che “la linea di organizzazione
centrale dello sviluppo psicologico […] consista nell'esperienza di essere vivo e nelle
conseguenze delle falle nella continuità del senso di esistere”

- una nuova concezione dell'esperienza psicoanalitica

LA RELAZIONE MADRE BAMBINO, LO SVILUPPO E I FENOMENI TRANSIZIONALI

Secondo Winnicott l'esordio della vita psicologica umana era segnato dal vivere insieme
un’esperienza da parte del bambino e della propria madre. Il ruolo fondamentale della madre
nel consentire lo sviluppo psicologico della vita non andava inteso in termini di eccezionalità:
Winnicott conio, sempre nel 1945, l'espressione divenuta molto nota di “madre sufficiente
buona”, Per identificare chi svolge il proprio compito nel modo più adatto.

In seguito Winnicott chiari che per adattarsi ai bisogni dell'infante, la madre attraversava una
fase, come di transitorio follia, nella quale il proprio figlio costituiva il quasi esclusivo oggetto
dei propri interessi, la cosiddetta preoccupazione materna primaria. La madre dopo aver
trasferito “una parte del suo senso di sé sul bambino” avrebbe dovuto essere” pronta ad
abbandonare la propria identificazione con il figlio”.

La provvisoria totale concentrazione sui bisogni del bambino e l'essenziale perché questi
potesse vedere assecondata l’“illusione di onnipotenza”. Tale illusione era sostanziata
dall'immediato realizzarsi dei desideri del bambino non appena si presentavano. Pure era
fondamentale che la madre offrisse al bambino le esperienze di holding, cioè essere tenuto e
sostenuto; di handling cioè di essere toccato, accarezzato, manipolato; di object presenting
cioè di vedere progressivamente materializzarsi di fronte a sé gli oggetti dei quali sentisse il
bisogno. Alla fase di illusione doveva seguire una disillusione: un passaggio dalla dipendenza
assoluta alla dipendenza relativa.

Winnicott parti poi dall'osservazione comune, per cui un bambino appena nato tendeva a
succhiarsi il pollice e qualche mese dopo a manipolare oggetti. Mosse altresì dalla convinzione
che l'essere umano venisse definito sia nelle relazioni interpersonali, sia dalla realtà interna.
Winnicott chiamo area transizionale “un'area intermedia di esperienza cui contribuiscono sia la
realtà interna sia la vita esterna”. Si trattava proprio dell'esperienza necessaria perché il
bambino potesse entrare in relazione con il mondo esterno.

Nel periodo che si estendeva dal puro e semplice uso del proprio corpo l'acquisita possibilità di
manipolare gli oggetti, se si osserva il bambino associare la suzione del pollice ad altri
comportamenti. Un identico comportamento si poteva intuire “nella vita immaginativa e nel
lavoro scientifico creativo. In pratica Winnicott stava descrivendo “la sostanza dell'illusione,
quella che si concede al bambino piccolo e che, nella vita adulta, è connessa con l'arte e la
religione.

L'oggetto transazionale, con il quale il bambino finiva per stabilire un rapporto privilegiato,
sarebbe emerso da quest'area esperienziale e avrebbe acquisito una sorta di statuto ontologico
particolare: a metà da tra l'essere e stato trovato e l'essere stato evocato o creato dal nulla da
parte del bambino.

Dalla riflessione sugli esiti dell'esperienza infantile con una madre non- sufficientemente
buona nasceva una delle idee winnicottiane più note e criticate, la dialettica tra vero Sé e falso
Sé. Questo concetto teorico venne sistematizzato in La distorsione dell'io in rapporto al vero e
al falso se e infine occupava il centro della scena nel libro postumo sulla natura umana. Il vero
Sé corrispondeva alla personalità autentica dell’individuo, mentre il falso Sé nasceva dalla
necessità di adattarsi all'ambiente.

L’essere umano doveva passare infatti gradatamente dallo stadio iniziale di totale dipendenza,
attraverso uno stadio di dipendenza relativa, per approdare a un esito di indipendenza
tendenziale, anche se mai assoluta. Maggiore sarà l'inadeguatezza ambientale rispetto alle
necessità soggettive, e giura il tentativo di uscire d'ambiente maggiore il tentativo di adattarsi,
di compiacere all'ambiente, tanto più allora l'individuo svilupperà una sorta di scudo protettivo
il falso se con il quale tenderà progressivamente a identificarsi.

La formazione difensiva potrà diventare dunque patologica, conducendo però l'individuo non ai
conflitti inconsci dell’idea psicoanalitica classica, quanto a un vissuto di inautenticità.
Winnicott teorizzò che nel corso dello sviluppo infantile si dovesse prestare attenzione a
un'altro elemento di passaggio: L'uso dell'oggetto. Winnicott e intendeva sottolineare che la
capacità di usare l'oggetto era un passaggio ulteriore rispetto all'entrare in contatto con l'oggetto
stesso. L 'uso era possibile a partire dall'esperienza soggettiva che l'oggetto potesse essere
attaccato o comunque sopravvivere.

IL CONTRIBUTO CLINICO DI WINNICOTT

Il contributo originale di Winnicott a tale psicoterapia consta di elementi diversi, riconducibili


soprattutto al lavoro con pazienti molto gravi. Il primo spunto originale aveva come oggetto
l’odio nel controtransfert. Winnicott fu presumibilmente il primo a sostenere che talora
sentimenti negativi non soltanto possano, ma debbano essere necessariamente provati
dall'analista. Winnicott non negava che il controtransfert negativo potesse essere legato alla
rimozione di sentimenti; sottolineava dall'altra parte che la personalità dell'analista potesse
sviluppare tendenze controtransferali positive in grado di aiutare la terapia.

Tutto ciò doveva però essere distinto dal “controtransfert autenticamente oggettivo” cioè la
relazione che la condotta del paziente avrebbe evocato in qualunque terapeuta. In questo senso
virgola che è un analista provasse odio nei suoi confronti era non solo inevitabile, ma anche un
possibile fattore terapeutico sia perché in genere una personalità primitiva non sarebbe riuscita a
separare l'amore dall'odio, sia perché l’autosvelamento dell’odio costituiva, nella fase avanzata
della terapia, lo spunto per rendere il paziente consapevole delle conseguenze del proprio agito.

La tecnica analitica di winnicott si evolse sulla base della convinzione sempre più salda che la
psicoterapia avesse una funzione riparativa piuttosto che conoscitiva. Ciò era fornito della
natura regressiva della situazione psicoanalitica, dove il paziente poteva letteralmente giocare
nuovi ruoli relazionali con il proprio terapeuta. L'analista assumeva “alcune caratteristiche di un
fenomeno transizionale. Tanto più l'aspetto relazionale- riparativo assumeva importanza agli
occhi di winnicott, quanto più rarefatti si facevano interventi interpretativi.

In Un'importante scritto tardo, winnicott arrivo a riflettere sui rischi che un'interpretazione,
anche corretta, comportava: « [...] Il principio è che è il paziente, e solo il paziente, ad avere le
risposte. Noi possiamo o meno renderlo capace di avere un senso globale di quello che si sa o
di diventare consapevole con accettazione». L’influenza di Winnicott si è accresciuta negli anni
successivi alla sua morte per un duplice ordine di motivi.
In primo luogo, l’ambiente psicoanalitico ha acquisito una sensibilità sempre maggiore per i due
ambiti di riflessione a lui più cari: lo sviluppo psicologico predipico e l’aspetto relazionale della
psicoterapia; in secondo luogo, per il lavoro della seconda moglie Clare ha reso disponibile
un'impressionante quantità di scritti che erano rimasti inediti. L'interesse suscitato dagli scritti
postumi ha infine suggerito la pubblicazione di un'edizione completa delle opere winnicottiane.

Winnicott ha indirettamente influenzato alcuni analisti che si sono distinti per aver contribuito in
modo originale alla teoria e alla tecnica psicoanalitica. Tra di loro è opportuno ricordare almeno
Henry buon trip virgola che fu in analisi sia con Fairbairn sia con Winnicott. Anche John
Bowlby è considerato uno degli indipendenti.
GRUPPO E PSICOANALISI: FOULKES E BION

La Tavistock Clinic dove trascorsero un periodo di formazione e operarono diversi personaggi


che avrebbero poi esercitato un ruolo fondamentale nella storia dei gruppi terapeutici. La clinica
prendeva il nome della piazza della sua originaria ubicazione e si sviluppava di ogni tipo di cura
dei disturbi funzionali del sistema nervoso. In seguito divenne un vero e proprio centro di
psicoterapia prima individuale, poi di gruppo e familiare.

Nel 1948, un ramo di questa clinica diede avvio al Tavistock Institute, che si occupava invece
di applicare la dinamica dei piccoli gruppi anche alle organizzazioni. Da allora fu un
susseguirsi di innovazioni introdotte nel campo delle applicazioni delle scienze “psi” fino a
divenire, tra gli anni 60 e 70, uno dei luoghi principali di sperimentazione per le applicazioni
psicologiche. La “Tavi” alla fine della Seconda guerra mondiale fu riconosciuta come parte del
National Health service inglese.

Qui si svilupparono anche le prime forme di terapie alternative di tipo comunitario durante la
Seconda guerra mondiale, finalizzate al recupero e alla riabilitazione dei militari. Queste
esperienze, fondamentali per Foulkes e Bion, ispirarono Maxwell Jones nella Fondazione della
prima vera e propria comunità terapeutica al Belmont Hospital nel 1952. Dalla fine degli anni
40 Michael e Enid Balint inaugurarono presso la Tavistock l’uso sistematico del gruppo al fine
di formare e sensibilizzare sotto il profilo emotivo i medici nella loro relazione con il paziente.

Emergevano l'importanza del rapporto emotivo medico-paziente, la funzione fondamentale


della formazione psicologica del medico per la cura delle malattie somatiche. I Gruppi Balint
non miravano all’elaborazione di una vera psicoanalisi di gruppo; erano piuttosto uno
strumento applicativo delle nuove scoperte psicoanalitiche alla formazione medica. Elliot
Jaques, immagino che anche le organizzazioni lavorative potessero funzionare come un sistema
che si difendeva dalle ansie inconsce e mise appunto una psicoanalisi delle istituzioni. La
“tavi” è stata considerata come un esempio paradigmatico delle specifiche funzioni di expertise
nella società a liberalismo avanzato. Furono Foulkes e Bion coloro che diedero l'impulso
decisivo alla diffusione dell'uso del gruppo in psicoterapia.

Sigmund Enrich Foulkes fu il creatore del gruppoanalisi. Foulkes nacque a calzature nel 1898
da una ricca famiglia ebrea. Nel 1919 aveva già maturato l'idea di diventare psicoanalista. Si
formò come tale studiando medicina a Francoforte e sottoponendosi al relativo training a
Vienna. Venne influenzato dai filosofi francofortesi, dal neurologo che gestaltiano Kurt
Goldstein, dalla lettura di Trigant Burrow ma anche dal teatro. Le idee di fondo dell'analisi di
gruppo furono delineate da Foulkes già durante la Seconda guerra mondiale. La tecnica
sarebbe stata sviluppata per tentativi.
I risultati ottenuti sarebbero stati subito incoraggianti: il setting di gruppo rappresentava da una
parte un'economia di tempo per il terapeuta; dall'altra intensificava notevolmente gli effetti
della terapia. Se un'analisi individuale completa rimaneva originariamente la soluzione
migliore possibile, l'analisi di gruppo consentiva di “riequilibrare la psiche del paziente e
permettergli di riassumere […]un ruolo soddisfacente nell'ambito della società” . Il numero di
8 partecipanti era indicato empiricamente da Foulkes come quello ideale per la terapia: un
gruppo più grande poteva mettere in secondo piano alcuni individui; un gruppo più piccolo
sarebbe risultato troppo dipendente dalla partecipazione sempre attiva di tutti i membri.

Foulkes si rese conto che la situazione gruppale non era semplicemente il frutto della somma
dei rapporti instaurati dai singoli tra di loro, ma « una matrice comune, all’interno della quale
si sviluppano tutti gli altri rapporti». I gruppi erano originariamente tutti aperti: i membri
potevano cioè partecipare con la frequenza che preferivano. Foulkes si rese conto più tardi che
questo tipo di impostazione difficilmente consentiva di “raggiungere livelli psicopatologici
particolarmente profondi”. Sperimentò quindi i gruppi chiusi, nei quali i membri rimanevano
gli stessi e la durata veniva programmata dall’inizio, e i gruppi semi-aperti nei quali era richiesta
la partecipazione continuativa ma i membri potevano lasciare il gruppo ed essere sostituiti da
partecipanti altrettanto assidui.

Quest'ultima impostazione consentiva di raggiungere e analizzare gli strati più profondi della
personalità. Foulkes prese in considerazione anche gruppi misti, che prevedano incontri
individuali con il terapeuta dei singoli membri, alternati con le sedute di gruppo; si convinse
però rapidamente che non esistessero valide ragioni per affrontare sul piano individuale alcuni
problemi e su quello gruppale altri: a suo avviso i terapeuti che preferivano affidarsi al gruppo
misto non si sentivano abbastanza sicuri nella situazione gruppale.

Le sedute gruppoanalitiche foulkesiane si caratterizzavano per l'assenza di struttura formale e


la spontaneità comunicativa, secondo il principio della discussione liberamente fluttuante. Gli
argomenti non venivano prefissati e tanto meno pianificati dal terapeuta. Un tale desiderio
di guida poteva però essere considerato una difesa nevrotica: quanto più leader fosse riuscito a
evitare la dipendenza passiva dei membri del gruppo, tanto più essi avrebbero messo in gioco
le loro rispettive personalità nella relazione dinamica gruppale; e tanto più i meccanismi
nevrotici avrebbero potuto essere osservati direttamente nella loro espressione.

Foulkes notava che i fattori terapeutici della gruppoanalisi erano riconducibili a due categorie
differenti i fattori analitici e quelli di appoggio. “I primi […]agiscono più a fondo e modificano
la personalità in modo più duraturo […]. I fattori di appoggio sono di aiuto più l'immediato
portando sollievo, incoraggiamento e maggiore sicurezza”

Foulkes concepiva la psicoterapia di gruppo come finalizzata a tre tipi di applicazione:

● il trattamento di gruppi particolari in riferimento ai loro specifici problemi di gruppo


(come nel caso dei gruppi militari);
● il trattamento dei pazienti nella sede di origine dei disturbi individuali, per esempio nei
gruppi familiari;

● il trattamento di disturbi individuali in gruppi appositamente costituiti.

In seguito, Foulkes propose una definizione più olistica “la psicoterapia gruppoanalitica […] non
è una psicoanalisi degli individui in gruppo. […]È una forma di psicoterapia praticata dal gruppo
nei confronti del gruppo, ivi incluso il suo conduttore.”.

Foulkes si era infatti convinto che “il disturbo nevrotico […]è il risultato dell’interazione di più
persone che contribuiscono tutte alla sua comparsa e alla sua conservazione”. Foulkes prendeva
in considerazione la rete di interazione dell’individuo, concetto in cui includeva familiari, amici,
persone amate e altre ancora. Se era la rete, chiamata poi complexus o semplicemente plexus,
all'origine del disturbo, la rete stessa poteva risultare causa della sua remissione.

Wilfred Bion costruì un fondamentale modello teorico sul funzionamento dei gruppi. Il testo
nel quale Bion sintetizza le sue idee, Esperienze nei gruppi (1961), era il frutto del passaggio
attraverso tre fasi della sua vita. La psicoanalisi kleiniana costituì il suo principale riferimento
teorico. Le formazioni e i processi della vita psichica del gruppo da lui descritti da un lato
presentavano un carattere di assoluta specificità, dall'altro mostravano delle profonde
somiglianze con “i fenomeni descritti da Melanie Klein nelle sue teorie sugli oggetti parziali”.

La psicologia del gruppo bioniana risentiva di altre tre matrici: le vecchie teorie evoluzioniste
della psicologia della folla, la teoria del campo di Lewin e la psicologia sociale della sua epoca.
La convinzione di fondo di Bion era che non si potesse comprendere un gruppo a partire dagli
elementi razionali. A suo avviso un gruppo si riuniva sempre per fare qualcosa virgola e gli
individui cooperavano anche sulla base del proprio atteggiamento nei confronti del lavoro da
compiere.

Tuttavia, la condizione gruppale spingeva di per sé alla regressione anche le persone che si
sarebbero accostate razionalmente al compito da svolgere. Il comportamento dei singoli era
inevitabilmente influenzato dalla “valutazione conscia inconscia dell'atteggiamento del gruppo
verso di loro”. Come risultato della condizione gruppale, difficilmente si sarebbe ottenuta una
condotta razionale collettiva e in via naturale. Nel gruppo interveniva un secondo livello di
funzionamento caratterizzato dalla presenza di processi psichici primari.

L'attività di lavoro era generalmente disturbata o sostenuta da altre attività Caratterizzate da un


potente valore affettivo. Queste attività psichiche venivano classificate da Bion con il termine
assunti di base. “ gli assunti di base sono costituiti da emozioni intense di origine
primitiva, che svolgono un ruolo determinante nell'organizzazione di un gruppo […] essi
sono rimangono inconsci: soggetti al processo primario […] E si sono utilizzati dai
membri del gruppo come delle tecniche magiche destinate a trattare le difficoltà che si
incontrano e in particolare evitare la frustrazione inerente all'apprendimento attraverso
l'esperienza”
La particolarità delle condizioni di assunto di base era che i membri del gruppo si
comportavano come se fossero individualmente coscienti dell'assunto di base stesso, pur non
essendone coscienti come membri del gruppo. Bion descrisse tre assunti di base fondamentali:
attacco- fuga, dipendenza e accoppiamento . Comune a tutti gli assunti di base sembrava essere
l'implicita convinzione che le persone si incontrassero “con lo scopo di preservare il gruppo”.

● Nel gruppo che si trovava in assunto di base attacco-fuga i membri trovavano coesione
intorno all'idea che esistesse un nemico da identificare e che essi sarebbero stati mobilitati
dal leader in uno schieramento compatto per attaccare questo nemico. Nella terapia di
gruppo il nemico avrebbe potuto essere la nevrosi stessa, o uno dei membri del gruppo, o
un oggetto esterno adatto. Quando non si poteva contare su un leader riconosciuto, il
gruppo temeva per la propria integrità e cercava comunque un nemico da combattere o dal
quale fuggire. Leader “che non combattono e non fuggono difficilmente vengono
compresi”. Un gruppo terapeutico in attacco- poteva quindi spesso disconoscere l'utilità del
terapeuta che non si prestasse a riconoscere l'esistenza di un nemico. l'istituzione che
tipicamente funzionerebbe in assunto di base attacco-fuga sarebbe l'esercito

● Gruppo in assunto di base dipendenza: tutti i suoi membri, in generale insoddisfatti e


delusi della situazione presente, cercherebbero dal leader parole di saggezza, come si
dessero per scontato che tutto il sapere, la vita fosse appannaggio del leader e da lui
dovessero essere infusi in ciascun membro del gruppo. Se il leader si ritraesse
dall'aspettativa messianica, il gruppo si sentirebbe frustrato e abbandonato. Questa sarebbe
stata una tipica situazione iniziale nei gruppi terapeutici. L'assunto di base dipendenza
corrispondeva a un bisogno cronico dei gruppi, ossia quello di avere un capo dotato di
forza e idee chiare, al quale demandare la responsabilità delle proprie azioni.

● Gruppo assunto di base accoppiamento: il gruppo non avrebbe un leader unico e la guida
sarebbe stata assunta da una coppia. Il gruppo assisterebbe all'avvicinamento della coppia
nell'inconscio primitiva convinzione “che si tratti di una relazione di tipo sessuale”. Il
gruppo di accoppiamento sembrerebbe pervaso da una misteriosa speranza, come se
l'interazione della coppia dovesse partorire la salvezza del gruppo. Il parto sarebbe in
generale una metafora nell'istituzione caratterizzata dall'assunto di base accoppiamento,
cioè l'aristocrazia.

Il gruppo di lavoro sarebbe quello in cui i membri si prefiggerebbero un compito consciamente


definito e accettato dal gruppo stesso. In questa situazione il gruppo funzionerebbe con la
sofisticatezza cognitiva del processo secondario. Nel caso bioniano, fu l'esperienza gruppale a
condurlo a cambiare la teoria individuale e non viceversa. Bion introdusse così importanti
elementi teorici nella psicanalisi, soprattutto nella direzione dell'indagine sui processi del
pensiero.

Ma fu soprattutto il citato testo esperienze nei gruppi a costituire un landmark nella riflessione
sui fenomeni psicosociali. Bion sviluppo sia la teoria psicoanalitica individuale sia quella
gruppale. L'analisi di gruppo si basava infatti sulle dinamiche non derivate dalla teoria
psicoanalitica individuale e le interpretazioni sul comportamento dei singoli gruppo si
riferivano soprattutto alle dinamiche di gruppo.
NUOVE PROSPETTIVE SUI COMPITI DELLA PSICOTERAPIA PSICOANALITICA

Anche nell’ultimo Freud, la convinzione che lo scopo della terapia era di integrare i
contenuti dell’Es nell’Io costituisse lo scopo dell'analisi non venne mai meno. “Già negli anni
20 […] cominciò a diffondersi la convinzione che l'analisi non fosse semplicemente un
processo intellettuale quanto […] un processo affettivo incentrato sull'elaborazione delle
riedizioni dei conflitti patogeni del paziente nella relazione con l'analista. […] lo scopo
dell'analisi coincideva così con l'elaborazione e in definitiva con la risoluzione della nevrosi da
transfert”.

Michael Balint proponeva già di distinguere tra un “approccio classico” e un “approccio


romantico” al trattamento analitico. Il primo avrebbe posto l’accento sui cambiamenti
strutturali prodotti dall’analisi; il secondo avrebbe insistito piuttosto sugli aspetti emotivi. Altri
analisti iniziarono a interpretare la cura non soltanto sul piano intrapsichico, ma anche nel
rapporto con il mondo esterno. Questo intento poteva coincidere con un maggiore interesse
verso il possibile cambiamento del contesto. La strada tracciata dall'ultimo Freud portava
naturalmente verso una maggiore attenzione alle capacità e ai limiti dell'io individuale.

Questo percorso venne inaugurato da Anna Freud con l’Io e i meccanismi di difesa e da Heinz
Hartmann con psicologia dell'io e il problema dell'adattamento. La figlia di Freud ricevette
implicitamente dal padre una sorta di delega per lo sviluppo di una trattazione sistematica dei
meccanismi di difesa che erano ormai considerati parte delle funzioni dell'io. Anna Freud
sottolineò anche l'aspetto evolutivo ed adattivo delle difese. Una relativa novità tecnica fu
l'aggiustamento del concetto di neutralità, che ai suoi occhi doveva essere identificata con
l'equidistanza dell'analista da Io, Es e Super-Io del paziente.

Hartmann ipotizzo un Io che si evolveva da subito in modo indipendente dall'est a partire da


una comune matrice indifferenziata. L’Io si sarebbe caratterizzato per una parte libera da
conflitti che comprendeva percezione, pensiero e linguaggio. L'io poteva contare anche su
un'energia neutralizzata. Questa impostazione era destinata a tradursi in un approccio
terapeutico, volto a valutare l'opportunità degli interventi verbali del terapeuta in funzione della
forza dell'io.

Tra Anna Freud e Heinz Hartmann fu quest’ultimo ad assumere la leadership teorica dell'ego
psychology. Anna Freud tese ad occuparsi prevalentemente di analisi infantile e si stabilì a
Londra, Hartmann divenne un riformatore della teoria generale della psicoanalisi e si trasferì
negli Stati Uniti.

IL TRIUMVIRATO DELL’EGO PSYCHOLOGY: HARTMANN, KRIS E LOEWENSTEIN

Heinz Hartmann era già stato attivo a Vienna tra gli anni Venti e gli anni Trenta. La sua prima
opera significativa, I fondamenti della psicoanalisi, era apparsa nel 1927. Psicologia dell’Io e
problema dell’adattamento, uscì nel 1939. L'opera era destinata a divenire un classico,
soprattutto dopo la seconda edizione, uscita in inglese nel 1958. Gli ulteriori scritti che
contenevano i suoi maggiori contributi teorici vennero raccolti nel volume Saggi sulla
Psicologia dell’Io (Hartmann, 1964).
Ernst Kris, si interessò di arte prima che di psicoanalisi, riuscendo ad affermarsi fin da
giovanissimo come un'autorità internazionale nello studio della scultura del Rinascimento.
Divenuto analista, venne scelto da Freud quale direttore della rivista di psicoanalisi e cultura e
iniziò a pubblicare diversi saggi che coniugavano i suoi due interessi; saggi poi raccolti nelle
Ricerche psicoanalitiche sull’arte.

I più significativi contributi di carattere clinico sono invece pubblicati negli Scritti di
psicoanalisi. Il primo trasferimento lo aveva condotto a Londra nel 1938. Qui era divenuto
consulente della BBC nello studio degli espedienti della propaganda nazista. Negli USA
diresse un'importante lavoro longitudinale sullo sviluppo infantile finanziato dalla Yale
University.

Rudolph M. Loewenstein. Nato in Polonia, studiò a Zurigo, a Berlino e Parigi, dove si trasferì
nel 1925. La guerra lo vide arruolato come ufficiale medico nell’esercito francese. Dopo
l’armistizio franco-tedesco, riparò anch'egli negli Stati Uniti, nel 1942. Mantenne tuttavia i
contatti con Parigi e dopo la guerra fu didatta e supervisore di diversi analisti francesi, tra i
quali Jacques Lacan. Oltre Ehi che per i saggi scritti Kris e Hartmann, L o e w e n s t e i n è
ricordato per lo scritto sulla psicoanalisi dell’antisemitismo. I saggi scritti da Hartmann, Chris
e Loewenstein in collaborazione tra di loro sono raccolti nel volume scritti di psicologia
psicoanalitica.

LA PSICOANALISI COME PSICOLOGIA GENERALE E COME SCIENZA

L'esigenza principale avvertita da Hartmann era quella di convincere il mondo universitario


americano che la psicoanalisi potesse essere definita a pieno titolo una scienza naturale. La
rivendicazione di Freud aveva incontrato meno perplessità in Europa, dove era pressoché
sconosciuta la tradizione di ricerca comportamentista. L'esigenza di scientificità iniziò a
manifestarsi fin dalle principali proposte di adeguamento della teoria freudiana formulate da
Hartmann, A partire dall'idea che alcune funzioni dell’Io non si sviluppassero in seguito
pressione pulsionale ma piuttosto sulla base di un programma genetico.

Hartmann sosteneva inoltre il principio secondo cui alcune condotte, pur derivando da origini
conflittuali, possono assumere un’autonomia secondaria. In questo senso, un comportamento
indotto da formazione reattiva poteva perdere quelle connotazioni coatte e reali tipiche di un
comportamento nevrotico. L'abbandono della teoria della pulsione di morte era certamente
ispirato da questa esigenza. Inizialmente, Hartmann si limitò ad affermare cautamente che tale
teoria non aggiungeva nulla alle conoscenze cliniche della psicoanalisi.

In seguito divenne molto più esplicito, stigmatizzando apertamente “le sue speculazioni sul
numero e sulla natura delle pulsioni istintuali”. Hartmann Pose in discussione anche un
caposaldo del pensiero freudiano, affermando che la teoria dello sviluppo psicosessuale dovesse
venire confermata dall'osservazione diretta. Questa necessità costituì uno dei cardini della
Psicologia dell’Io. Lo sforzo di rendere la psicoanalisi una scienza si sviluppava il programma di
ampliarne la portata fino a renderla una psicologia generale.
LA VISIONE CLINICA DELL’EGO PSYCHOLOGY

Porre l’Io al centro dell’attenzione comportava delle conseguenze sensibili anche sul piano
critico. Se nella tecnica psicoanalitica classica il principio guida era costituito dal “rendere
conscio l'inconscio” con il progressivo affermarsi della psicologia dell'io il terapeuta
cominciava a considerare tale principio con sempre maggiore cautela. Hartmann intendeva far
apparire tutta l'evoluzione della teoria della tecnica freudiana con progressiva approfondimento
di ciò che dovesse essere interpretato.

Il riconoscimento del carattere inconscio della resistenza veniva inteso come una precoce
svolta decisiva: dal punto di vista teorico, perché già prefigurava il carattere parzialmente
inconscio dell'io; dal punto di vista clinico, perché implicava “la propensione a
un'interpretazione più concreta, più specifica”. La teoria dell'interpretazione divenne così uno
degli aspetti più caratteristici della psicologia dell'io. Hartmann suggeriva cautela:
“l'interpretazione deve partire da quanto è più vicino possibile all'esperienza del paziente”. Kris
riprese e chiari il tema in psicologia dell'io e interpretazione della teoria psicoanalitica:
“nell'interpretare la resistenza noi non soltanto ci riferiamo alla sua esistenza e ne
determiniamo la causa, ma ricerchiamo anche il modo con cui essa opera”.

Le novità teoriche introdotte dalla psicologia dell'io si ricollegavano a una nuova concezione
della normalità e della salute mentale. Hartmann rilevò la problematicità del concetto di salute,
determinato dalla difficoltà di riconoscersi in un criterio unico, dalla necessità di tenere conto
tanto degli aspetti pulsionali della vita psichica, quanto degli elementi più razionali e adattivi
dell'io. La definizione più adeguata si doveva dunque richiamare a un principio di equilibrio tra
le varie sovrastrutture della personalità. Sulla stessa linea si collocava Kris, indicando come
scopo delle analisi “Un'aumentata consapevolezza di sé un aumento del controllo dell'io”.

Kubie e Zilboorg erano diventati famosi come analisti del jet-set a Manhattan. All'interno di
questo gruppo, due esponenti risultarono autori di testi clinici particolarmente influenti, Karl
Menninger e Franz Alexander. Fu opera di Karl Menninger il testo di tecnica psicoanalitica più
noto e diffuso della sua epoca, che esprimeva in modo molto chiaro la fusione tra la teoria di
origine europea e la mentalità paradigmatica americana. Emblematica dell'atteggiamento di
Manninger era la sottolineatura del carattere contrattuale della relazione analitica.

Il contratto presentava certamente una natura paradossale, dato che le aspettative del primo
contraente non coincidevano con quanto in effetti sarebbe accaduto nella situazione analitica
“l'analista e le analizzato sono impegnati in un rapporto contrattuale bilaterale virgola in cui il
paziente compie un pagamento e si aspetta una contropartita. Ma la contropartita che riceve in
questo processo bilaterale […] e il risultato della delusione di non ricevere subito quello che
originariamente si aspettava”
Il testo freudiano analisi terminabile e interminabile costituiva un sostegno teorico a una
tendenza che nella psicoanalisi stava ormai emergendo chiaramente: quella di un allungamento
significativo della durata dell'analisi. All'allungamento non corrispondeva peraltro una
diminuzione significativa del numero delle sedute settimanali
Si potrebbe affermare che Franz Alexander sia stato un'analista anticipo temi che
l'agenda della psicanalisi avrebbe affrontato per lo più diversi anni dopo i
suoi contributi più noti. Il primo importante saggio sulla teoria della tecnica
era stato infatti pubblicato da Alexander già nel 1925. Vi si descriveva l'analisi come
un processo di eliminazione delle difese arcaiche dell'io, innescate dalla pressione di un super-
io a sua volta arcaico: le funzioni del super-io dovevano essere trasferite all'io.

Un saggio del 1937 conteneva il concetto di “interpretazione totale” riferita a quel tipo di
intervento del terapeuta che riuscisse a mettere a confronto le esperienze passate dal paziente
con la realtà del vissuto attuale: solo questo tipo di interpretazioni avrebbe avuto una reale
efficacia terapeutica. Il contributo giustamente più noto di Alexander tematizzata per la prima
volta il principio per cui i fattori curativi dell'analisi non risiedevano esclusivamente nella
possibilità di insight che il paziente ne ricavava e sulle relative conseguenze.

Alexander definì infatti l'importanza della relazione analitica come “esperienza motiva
correttiva”. La relazione analitica veniva considerata terapeutica in quanto tale, per la
possibilità offerta al paziente di costituire un nuovo paradigma per i suoi rapporti umani.
Alexander era ben cosciente che, se era l'esperienza il fattore terapeutico decisivo, la tecnica
clinica psicoanalitica avrebbe potuto non costituire l'unica forma di terapia efficace. Alexander
affacciò anche l'idea dell'esistenza di fattori terapeutici comuni alle varie forme di psicoterapia.

Quelli che Alexander chiamava “i fattori universali della psicoterapia erano a suo avviso:

- l’appoggio morale, cioè la possibilità che il paziente ha pagasse nella terapia “il suo bisogno
regressivo di dipendenza”

- l’appoggio intellettuale, consistente nello spazio aperto dal terapeuta affinché il paziente
possa mobilitare le proprie risorse per discutere i propri problemi

- lo sfogo emotivo, derivante dall'occasione offerta al paziente di manifestare


le proprie emozioni

Altre misure terapeutiche potenzialmente comuni agli psicoanalisti e ad altri terapeuti


consistevano “nel sostenere le già esistenti difese dell'io, quando cominciano a indebolirsi”. Si
trattava degli interventi che oggi vengono definiti “tecniche supportive”: rassicurazione
soluzione del paziente dal senso di colpa ecc. Potevano essere utilizzate nei casi in cui il
terapeuta non fosse abbastanza incline all'introspezione.
IL “SIGNIFICANTE” LACAN

Jacques Lacan occupa un posto singolare nella nostra storia. E stato scritto che gli analisti
francesi hanno sicuramente beneficiato dei suoi stimoli critici. Sul territorio transalpino le figure
di un certo rilievo che contribuirono alla formazione del pensiero freudiano prima dell'avvento
sulla scena di Lacan non furono numerose: su tutte va ricordata Marie Bonaparte. La filosofia
francese ne è stata fortemente influenzata. Tuttavia, l'osservazione formulata da Reuben Fine
sulla “figura pittoresca della scena psicanalitica francese” rimane tuttora fondata.

Mentre la tendenza al confronto teorico si è progressivamente ampliata tra gli psicoanalisti di


diverse tendenze, i riferimenti a Lacan sono rimasti sostanzialmente nulli da parte dei non-
lacaniani. Lacan e i suoi seguaci hanno risposto menzionando i post freudiani e Jung soltanto per
marcare la propria differenza e la propria fedeltà al dettato freudiano originario.

Il percorso teorico di Lacan iniziò con una tesi su La psicosi paranoica nei suoi rapporti con
la personalità. Qui Lacan interpretava il caso il caso di Aimée (una giovane donna che aveva
tentato di uccidere a coltellate un’attrice) utilizzando categorie simili a quelle usate da Freud
per il caso Schreber. Si trattava peraltro di un Freud fortemente tinto di hegelismo, dato che il
rapporto di
Aimée aveva con la donna idealizzata ricordava la dialettica servo-padrone della
Fenomenologia dello spirito.

L’ hegelismo di Lacan risultava anche dall'interpretazione dialettica dell'edipo che veniva


proposta nei complessi familiari. In quest'opera per la prima volta Lacan proponeva una
distinzione netta tra ideale dell'io (cui corrispondeva il padre nel suo ruolo benigno) e super-io
(cui corrispondeva il padre come istanza di divieto). Altrettanto hegeliano risultò l’impiego
della parola soggetto per identificare l’essere umano in quanto esperisce analisi, la quale a sua
volta si caratterizza come un processo dialettico.

In questo senso, l'analisi sarebbe risultata assimilabile al percorso di autocoscienza: “il


pregresso dell'analisi, per il primo Lacan, è chiaramente un processo della coscienza di sé”. Nel
frattempo, Lacan aveva già letto al Congresso di Marienbad , nel 1936 la prima versione
dell'articolo sullo stadio dello specchio nella formazione della personalità, che sarebbe entrato
nella raccolta degli scritti. Lo stadio dello specchio attribuiva una grande importanza, nella
formazione dell'io, al momento in cui il bambino riconosceva come propria l’immagine
riflessa.

Fino agli anni 50 nulla lasciava presagire che Lacan potesse distaccarsi clamorosamente dal
mainstream della psicoanalisi. La frattura si consumò nel 1953. Il movimento psicoanalitico
francese si era diviso in due fazioni. Una era portatrice di un modello biologistico-psichiatrico
e faceva capo a Sacha Nacht; l’altra sostenuta in particolare da Lacan e Daniel Lagache,
sosteneva l'idea di una formazione più ampia, influenzata da discipline non strettamente
mediche, come la filosofia, la sociologia la linguistica, ed era molto più aperta ad ammettere
non medici tra gli allievi.
La canna attirava su di sé diverse perplessità per la sua tendenza a utilizzare sedute più brevi di
quelle standard. Marie Bonaparte finì per appoggiare la fazione di Nacht, motivando la
decisione proprio perché contraria a sostenere un candidato che accorciava ad libitum le sedute
“pur essendosi impegnata a osservare […] la regola delle tre sedute settimanali di tre quarti
d'ora ciascuna”. Lacan venne eletto presidente della società psicoanalitica di Parigi, mentre
Nacht venne chiamato a dirigere l'istituto di formazione. L'equilibrio durò poco: l'insofferenza
degli allievi analisti verso Nacht lo indusse a sospettare che fosse Lacan a fomentarla.

Lacan si inizia l'ora anche dalla stessa società psicanalitica Di Parigi; decise allora di fondare
una nuova società che prese il nome di Société Française de Psychanalytique. La condizione di
dimissionari per i fuoriusciti venne ricordata loro da una lettera ufficiale indirizzata a
Laganche, nella quale era esplicitata l'impossibilità per loro di prendere la parola al successivo
Congresso previsto a Londra. La nuova società doveva ottenere un nuovo riconoscimento da
parte dell'IPA, cosa che Lacan tentò di promuovere attraverso una serie di lettere indirizzate ai
membri più influenti dell'IPA.

In tali lettere Lacan rivendicava la completa compatibilità delle proprie idee e della propria
pratica con la teoria e le regole professate in seno all'IPA. Hartmann chiarire gli sforzi di Lacan
e Laganche che erano stati vani comunicando che per discutere dell'affiliazione della SFP
all'iva sarebbe stata nominata una commissione. Fu la stessa Anna Freud a sostenere che erano
già gli scissionisti francesi a essersi posti di fatto al di fuori dall’IPA anche per aver portato la
polemica fuori dall'ambiente psicoanalitico con dichiarazioni pubbliche. A nulla valsero i
tentativi di ottenere appoggi esterni: Lacan arrivò persino a sperare di poter ricevere lui il
sostegno della Chiesa cattolica .

Nel 1953 Lacan riuscì a ottenere una tribuna per farsi ascoltare dal mondo quando nel mese di
settembre si tenne a Roma il Congresso degli psicanalisti di lingue romanze. Gli venne
concessa dagli organizzatori la possibilità di partecipare a una sessione speciale che venne
organizzata in margine allo stesso Congresso. Il risultato fu il discorso di Roma, poi divenuto
famoso come funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi.

I neofreudiani, secondo Lacan, avevano integralmente tradito il significato della psicoanalisi.


Occorreva quindi tornare a Freud e cancellare tutto quanto veniva proposto dalla nuova
psicoanalisi che avrebbe obliterato aspetti fondamentali del pensiero freudiano. di fatto Lacan

- costruiva un Freud a sua immagine e somiglianza. Si può esemplificare il primo punto


prendendo in considerazione una delle più note asserzioni di funzione e campo: “l'inconscio è
strutturato come un linguaggio”. Il linguaggio è di per sé coerente. L'organizzazione dei tempi
verbali e attuata secondo principi che rendono possibile identificare, nella comunicazione, la
sequenzialità temporale. L'inconscio di Freud è caratterizzato da all'incoerenza e dall'assenza
del principio di non contraddizione. Nel lavoro onirico manca anche l'ordinamento temporale.
-dei bersagli polemici in parte immaginari. per quanto riguarda il punto due, si può per
esempio notare come Lacan ritenga difetti fondamentali della psicoanalisi americana:

a) “l’astoricismo in cui tutti sono concordi nel riconoscere il tratto fondamentale della
Communication negli USA, che a nostro avviso è agli antipodi dell'esperienza analitica”.
L'accusa di astoricismo era stata al contrario formulata nei confronti di Freud da vari
psicoanalisti americani.

b) “ una formazione mentale autoctona che sotto il nome di behaviorismo domina […] la
nozione psicologica in America” il comportamentismo ha sempre costituito l'avversario
acerrimo della psicoanalisi negli USA, spingendo Hartmann a estendere i confini della
psicoanalisi a quelli della psicologia generale proprio per contrapporsi al comportamentismo.

La tesi dell'inconscio strutturato come un linguaggio rendeva possibile a Lacan sostenere che il
pensiero freudiano potesse venire utilmente integrato con il contributo della linguistica
contemporanea, onde condensazione e spostamento potevano essere considerati l'equivalente di
metafora e metonimia. Quindi i sogni sarebbero stati a loro volta un detto dell'inconscio.
Quindi lapsus, sintomi e atti mancati sarebbero stati “formazioni semanticamente significative
di carattere retorico linguistico”. Se l'inconscio parlava, l'io ne era in qualche modo parlato: l'io
è “una funzione immaginaria” e che quindi “non si confonde col soggetto”.

Diveniva chiaro che il percorso di adolescenza dell'analisi portasse verso una disidentificazione
con l'io. Forse ancora più importante di Jakobson risultava, per la riforma linguistica della
psicoanalisi il Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure e in particolare le sue
riflessioni su langue (la struttura linguistica) e parole (l’espressione individuale della langue),
ma soprattutto sul rapporto tra significante e significato. Anche Saussure veniva piegato a una
visione completamente nuova: se nel corso il significante è subordinato e strettamente legato al
significato, per Lacan è il significante a prevalere, al punto che “l’atto di significazione” è
una relazione tra significanti piuttosto che tra significanti e significati; il significante slitta sul
significato.

A partire dalla tesi dell'inconscio strutturato come un linguaggio si sviluppava anche la


suddivisione dell'esperienza psichica in tre registri:

● Simbolico: corrispondeva al mondo del linguaggio, presupposto e punto di arrivo


dell’evoluzione per l’essere umano;

● Immaginario: corrispondeva al mondo delle imagines, all’immaginazione e la sua fonte


primaria “viene individuata nelle prime esperienze di riconoscimento della propria
immagine che il soggetto compie davanti alle superfici speculari”.

● Reale: il reale, nel primo Lacan, corrispondeva in sostanza la realtà, mentre nel corso del
tempo assumeva il significato di ciò che rimane al di fuori dell’esperienza psicoanalitica e a
cui tale esperienza rimanda come presupposto. Ehi reale sarebbe stata allora ciò che non si
trasforma, non si metabolizza attraverso l’immagine, non si esprime attraverso il
significante linguistico.

Il 1953 fu una data fondamentale nella biografia di Lacan per un'altra ragione: iniziava il suo
insegnamento pubblico, il famoso seminario. La pubblicazione in volumi del seminario rese la
riflessione lacaniana accessibile a un uditorio più ampio, la cui attenzione era stata attirata nel
1966 dagli scritti. Gli scritti divennero invece una sorta di clamoroso caso letterario per
l'analista che era stato definitivamente “scomunicato” dall'IPA. Al 1963 risale la cosiddetta
direttiva Stoccolma, ovvero la decisione di ammettere finalmente la SFP da parte dell'IPA, a
condizione di escludere Lacan dal ruolo di membro didatta.

La ragione fondamentale dell'esclusione risultava quella del ricorso a sedute più brevi della
durata standard, che peraltro Lacan aveva ormai trasformato nell'elemento di più clamorosa
diversificazione della sua tecnica rispetto all'analisi classica. Il taglio della seduta costituiva
parte del processo interpretativo. Nel 1964 Lacan fondò una nuova associazione psicanalitica,
l’école freudienne de Paris. Se già nel seminario settimo lo scopo dell'analisi era definito nei
termini della possibilità di abbandonare il godimento del sintomo nevrotico per ricongiungersi
al desiderio autentico del soggetto.

Nella proposta del 6 ottobre 1967 Lacan teorizzava che la possibilità di considerare conclusa
un'analisi si poteva avere quando il paziente era passato alla posizione di analista. La
possibilità di accertare che ciò fosse avvenuto veniva definita con la procedura della passe, che
si identificava con una procedura di selezione dell'analista dell’école. Chi si sottoponeva alla
passe doveva testimoniare la propria esperienza analitica dinnanzi a una serie di ascoltatori
selezionati da un cartel, che a sua volta avrebbe ascoltato il resoconto di questi ultimi. Il
pensiero lacaniano era di per sé difficilmente decifrabile: Lacan stesso si impegnava
esplicitamente nel renderlo tale.

Anche autori tutt'altro che sospettabili di preconcetti anti- lacaniani hanno definito tale
atteggiamento “cultura dell'improvvisazione esoterica”. I lacaniani hanno mantenuto spesso un
atteggiamento settario. Un ambiguità di fondo della proposta del 6 ottobre 1967 alimenta
queste polemiche, dato che da un lato attesta che “un analista si autorizza solamente da sé” e
dall'altra giunge che “ciò non toglie che la scuola possa testimoniare della sua formazione”.

A seconda della legittimità attribuita a una scuola, le diverse fazioni hanno rivendicato uno
status privilegiato di dipendenza. Anche lo stesso Jacques-Alain Miller non ha certo favorito la
diffusione del pensiero lacaniano. Ricevuto l'incarico di curare la pubblicazione dei seminari,
Miller ha intrapreso il lavoro da solo, compiendo delle scelte che sono state vivamente criticate
da più parti: l'uso della sola trascrizione stenografica ufficiale; la scelta di introdurre solo una
punteggiatura nel testo; l'assenza pressoché totale di note e apparato critico.
L’APPRODO IN AMERICA DELL’IMPOSTAZIONE
FENOMENOLOGICO-ESISTENZIALE: VIKTOR FRANKL

A partire dalla metà del Novecento, negli Stati Uniti, iniziò a diffondersi una tradizione di studi
psicologici, simile alla psicologia comprendente e alla tradizione fenomenologica esistenziale
europea di Husserl e Brentano, che venne identificata come la “terza forza” della psicologia
americana o come la psicologia umanistica. Gli esponenti di questo approccio erano
riconoscibile per la comune appartenenza a un unico filone teorico metodologico, la cui radice
può essere rintracciata in Personality, pubblicato nel 1937 da Gordon Allport. Allport
riconobbe Ehi nella psicopatologia e nella fenomenologia di Karl Jaspers, nell'epistemologia di
Wilhelm Dilthey, una centrale rilevanza ai fini di una comprensione dell'individuo.

Nello stesso testo erano presenti in nuce i principi che caratterizzarono in seguito la psicologia
della personalità di Allport, e in particolare la concezione del proprium come elemento chiave
per comprendere la personalità. La nozione di proprium è strettamente connessa a quello del
Sé: il proprium è radicato nella continuità temporale dell’individuo; con esso si manifestano gli
atteggiamenti, gli obiettivi e i valori individuali. Con questa nozione sarebbe stata valorizzata
l’esperienza individuale percepita nel presente.

Allport metabolizzo la critica della psicologia di laboratorio formulata dalla psicologia e dalla
psicopatologia fenomenologica, assumendovi i rilievi metodologici all'interno di una
psicologia della personalità aperta un approccio metodologico pluralistico. Allport fu di fatto il
battistrada dell'uso della filosofia europea come base per un modello psicologico teorico.
Tuttavia, l'esistenzialismo non nasceva come una filosofia destinata a applicazioni pratiche, ma
come un'analisi filosofica dell'esserci a fondamento di un'ontologia. Con Jaspers era però
divenuto lo spunto per una nuova comprensione della malattia mentale, intesa come esperienza
intrinsecamente umana e dotata di significato.

Affrontando le radici nelle cupe pagine di Schopenhauer e Kierkegaard, l'esistenzialismo


europeo proponeva in generale una concezione tragica e pessimistica della condizione umana.
Negli USA la prospettiva di fatto cambiò. Viktor Frankl ; Rollo May ; Carl Rogers e Abraham
Maslow Promossero tutti una visione ottimistica della personalità individuale, all'interno di una
concezione metodologica. Viktor Frankl trascorse i suoi anni di formazione nei circoli viennesi
influenzati da psicoanalisi e socialismo. Pur in contatto con Freud, si avvicinò precocemente
alla psicologia individuale di Adler.

Con Adler condivise gli interessi storico-politici. Si occupo dei giovani operai viennesi sia
sotto il profilo della medicina sociale sia sotto quello dell'educazione popolare delle masse.
Durante l'occupazione nazista di Vienna, Frankl era un giovane psichiatra che si opponeva
clandestinamente hai programmi eugenetici hitleriani. Le vicissitudini del campo di
concentramento lo condussero a maturare l'idea che avevano più possibilità di sopravvivere i
prigionieri che anche nei lager continuavano a pianificare il futuro.
Per Frankl l'attività umana principale consisterebbe sempre nell'attribuzione di senso ai compiti
che la vita riserva a ognuno. Frankl era interessato a sviluppare una vera e propria tecnica
terapeutica fondata sulla ricerca di significato specifica per il singolo paziente. Attraverso la
logoterapia, il terapeuta aiutava il paziente a scoprire i tre valori fondamentali dell’esistenza:

- l’esperienza vissuta nella contemporaneità (valore esperienziale)

- la capacità di produrre entro tale esperienza (valore creativo)

- la possibilità di affrontare le situazioni (valore attitudinale)

Il terzo valore presupporrebbe gli altri due perché metterebbe gli individui nella condizione di
fare esperienza della propria contemporaneità ed essere creativi. Per promuoverlo, Frankl
utilizzava l'intenzione paradossa. Con tale tecnica il paziente immaginavo
metteva gradualmente in pratica le situazioni ansiogene che lo bloccavano.

In tal senso le paure perdevano di efficacia nello stabilire un circolo vizioso


innescato dall'ansia di anticipazione propria delle situazioni fobiche. Nella
psicoterapia di Frankl assumeva importanza anche il concetto di dereflessione o
decentramento da sé stessi. La deflessione e l'intenzione paradossa aiutavano a decostruire tutte
quelle situazioni che innescavano la patologia

L’ESISTENZIALISMO SI AMERICANIZZA: MAY, ROGERS, MASLOW

Rollo May fu colui che fece conoscere tutto il movimento fenomenologico-esistenziale


europeo Ehi negli Stati Uniti, pubblicando, Existence: a New dimension in psichiatry and
psychology. May elaborò una teoria dell’intervento orientata alla fiducia nelle potenzialità dei
pazienti. Si attuava così un processo di ibridazione dell'esistenzialismo europeo con la
psicologia americana chi era profondamente influenzata dal pragmatismo. In America,
l'esistenzialismo si trasformava in un vero e proprio modello psicoterapeutico.

May descrisse le persone come soggetti attivi nella storia. Per May le storie di vita dei pazienti
non erano determinate dalla patologia ma i pazienti potevano agire per cambiare le traiettorie
del proprio destino. Rollo May conservava la nozione di inconscio e gli attribuiva gli aspetti
negativi della personalità. Questo distingueva May anche dagli altri umanisti americani che gli
scrivevano alle influenze della società su una natura umana intrinsecamente positiva. Per
quanto l'ambiente costringesse l'essere umano ad alcune scelte questi era pur sempre l’agente
attivo nella costruzione delle proprie esperienze.
Il ruolo del terapeuta era allora quello di aiutare il paziente a perseguire la realizzazione
completa della propria personalità, attraverso l’identificazione e la realizzazione dei desideri
inconsci. Il processo psicoterapeutico si svolgeva per mezzo dell'incontro empatico con i
pazienti/clienti. Nella teorizzazione di May la concezione del percorso terapeutico non era
lineare improntata all'ottimismo incondizionato. Il paziente poteva bloccarsi, essere soprattutto
segnato dalle angosce che la psicoterapia inevitabilmente risvegliava. May mutuava da
Kierkegaard la concezione dell'angoscia come elemento fondamentale dell'esistenza umana e
ne ricavava però la necessità di distinguere tra angosce esistenziali e angoscia nevrotica.

Le interdizioni parentali e la mancanza di amore durante le fasi di sviluppo determinerebbero


angosce e sensi di colpa pervasivi. May proponeva un intervento terapeutico in grado di far
elaborare questi aspetti normali dell’esistenza umana. Il cambiamento avveniva con il sostegno
del terapeuta, che favoriva l'avvicinamento del paziente/cliente al proprio mondo psicologico e
a quello degli altri. Questo aiuto fattivo al paziente nel perseguire la tendenza attualizzante,
ovvero la spinta naturale propria di ogni individuo all'autorealizzazione.

L’attualizzazione del Sé era strettamente condizionata dall’universo relazionale in cui un


essere umano poteva esprimerla. La valutazione positiva del proprio Sé svolgeva una funzione
specifica di cui individui avevano espressamente bisogno per un saldo e coerente sviluppo della
personalità. Rogers era del parere che ogni soggetto percepisse il campo fenomenico di quella
persona. Corrispondente a come il soggetto si percepiva e manteneva adattivamente questa
percezione.

Egli riteneva che la disconferma della congruenza, esperita nel proprio campo fenomenico,
risultava il punto di appoggio perché in seguito potesse svilupparsi la psicopatologia. Il
bambino avrebbe seguito una traiettoria di sviluppo che lo portava in primo luogo a maturare
un Sé che via via si differenziava degli altri; l'esperienza però poteva confermare o
disconfermare le esigenze del proprio Sé. Le conferme delle esigenze di sviluppo entravano
così in conflitto con le disconferma delle stesse esigenze.

Le incongruenze fra le proprie spinte evolutive volte all’ autorealizzazione e le valutazioni di


merito con cui gli altri significativi censuravano correggevano la realizzazione individuale
creavano meccanismi di difesa con cui gli individui tendevano ad escludere le esperienze
negative dalla propria coscienza. Quanto maggiore fosse l’accumulazione di esperienze
negative, tanto più gravi erano i comportamenti difensivi che escludevano dalla
conoscenza le esperienze disconfermanti.
Per Rogers le contraddizioni della personalità potevano essere superate da un processo
terapeutico, in cui il paziente esperiva una considerazione condizionata positiva delle proprie
tendenze. Il cambiamento in terapia sarebbe avvenuto se si fossero attuate le seguenti sei
condizioni:

1. due persone sono in contatto psicologico: all'inizio il cliente non avrebbe esperienza delle
emozioni vissute sarebbe rigidamente fissato sulle proprie esperienze negative.

2. Il primo, che noi chiameremo cliente, si trova in uno stato di incongruenza: la propria
esperienza non sarebbe stata ancora intima e percepita come personale

3. La seconda persona, che noi chiameremo il terapeuta, è congruente o integrato nella


relazione: filtrata dalla percezione altrui, una percezione almeno parziale del proprio sé
sarebbe comparsa.

4. il terapeuta prova sentimenti di considerazione positiva incondizionata nei confronti del


cliente: quando il cliente si fosse sentito compreso e accolto, i sentimenti sarebbero stati
almeno parzialmente accettati ed esperiti come personali, scorrendo più liberamente.

5. il terapeuta prova una comprensione empatica del sistema di riferimento interno del cliente
si sforza di comunicargli questa esperienza: il flusso delle esperienze avrebbe teso ad
aumentare e il cliente avrebbe provato ed espresso ciò che aveva realmente sentito di essere.

6. il terapeuta riesce a comunicare al cliente a un livello almeno per ceppi la propria


comprensione empatica e la propria considerazione positiva incondizionata: giunti quasi alla
fine del processo terapeutico, il sé sarebbe stato pienamente percepito dal cliente come un
qualcosa di personale in cui riconoscersi.

Con l'approdo all'ultima fase, il cliente non avrebbe avuto più bisogno dello sguardo di
accettazione incondizionata del terapeuta e sarebbe riuscita autonomamente a percepire le
proprie tendenze evolutive e di autorealizzazione. Avrebbe fiducia nel proprio processo di
sviluppo organismi co e saprebbe come agire ai fini dell'attuazione del proprio sé. Rogers
tento così di studiare il mondo privato del cliente come questi lo percepiva. L'indagine
psicologica si muoveva verso la comprensione del soggetto, mediante i dati ottenuti nell’ hic
et nunc dell'esperienza fenomenica ai fini di una modificazione attualizzante della personalità.

L'atteggiamento di Rogers era estremamente ottimista e fiducioso rispetto alle potenzialità


positive delle persone di riuscire a ristrutturare persino le situazioni più critiche. Rogers
sostenne quindi una teoria della personalità costruita sui concetti di Sé e di realizzazione di Sé
in cui risultava centrale l’idea del cambiamento. elaborò progressivamente l'idea che lo
psicologo clinico fornisse al cliente una relazione fenomenologicamente significativa
caratterizzata da congruenza, genuità, considerazione positiva e comprensione empatica.
Rogers deve anche essere ricordato per un'attività eccezionale all'interno della psicologia
clinica americana. L'approccio da lui sostenuto contribuì a un'ampia differenziazione degli
interventi, non più esclusivamente intesi come classico rapporto a due.

Abraham H. Maslow ha rappresentato il polo più radicalmente ottimista della “terza forza”,
proponendo una teoria della personalità focalizzata sull'idea che ogni individuo possedesse una
vocazione naturale volta all’autorealizzazione. Negare o frustrare tale vocazione sarebbe stato
l'innesco per esiti patologici. Maslow analizzò approfonditamente le biografie di alcuni
personaggi storici sulle tracce della loro “motivazione psicologica”. Di Maslow è però nota
soprattutto la tassonomia gerarchica a piramide della motivazione, in cui risultava centrale la
distinzione bisogni biologici e i bisogni psicologici. I bisogni fisiologici sarebbero alla base
della piramide della motivazione umana. In una posizione più alta sarebbero i bisogni di
sicurezza, di appartenenza e di affetto, poi quelli di stima e, in cima, il bisogno di
autorealizzazione.

Maslow non si dedicò una pratica psicoterapeutica tradizionale ma ricordate in tutti i manuali
di psicologia clinica perché la sua teoria dei bisogni è stata ampiamente utilizzata a fini
applicativi. Maslov promosse un atteggiamento empatico e accogliente nei confronti di coloro
che chiedevano un intervento dello psicologo. Nutriva infatti la convinzione che di per sé la
genuità e l'apertura delle relazioni potessero essere generalizzate dai clienti, producendo
benessere psicologico. La questione centrale rimaneva quella dell'autorealizzazione. Per aiutare
il paziente/cliente ad ottenerla, lo psicologo clinico doveva soprattutto riuscire a essere
empatico e autentico nella relazione

SOGNANDO LA CALIFORNIA: LE PSICOTERAPIE FENOMENOLOGICHE E LA


WEST COAST

Negli anni Cinquanta, due psicoanalisti eretici avevano gettato le basi di fortunate impostazioni
psicoterapeutiche. Fritz Perls e Eric Berne avevano origini europee ed elessero come luogo di
ispirazione della loro attività più matura la California. Perls fu come Foulkes allievo del
neurologo Kurt Goldstein e ebbe Horney e Reich come supervisori. Emigrò prima in
Sudafrica e poi, alla fine della Seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti. Nel 1951, in
collaborazione con Hefferline e Goodman Gestalt Therapy: Excitement and Growth in the
Human Personality.

Nello stesso anno fondò a New York un istituto di psicoterapia della gestalt. Negli anni 60,
Pearls divenne un vero e proprio guru della psicoterapia esperienziale e di gruppo diffusasi
negli ambienti culturali più radicali della West Coast americana. La psicoterapia della Gestalt
si Divise poi fra il gruppo della California a capo del quale rimase Fritz Perls, e il gruppo di
New York al cui vertice si pose Laura Posner in collaborazione con Isadore From. Il gruppo
legato alla prima esperienza newyorkese manteneva il rigore e l’ortodossia della prima
teorizzazione psicoterapeutica e somigliava a un istituto di formazione psicoanalitico.

I terapeuti della West Coast erano più eclettici, aperti a movimenti culturali libertari
californiani. L’impostazione gestaltista, soprattutto quella di Lewin, e la rielaborazione radicale
della psicoanalisi, portarono alla nozione fondamentale della Terapia della Gestalt, per cui il
terapeuta aveva come obiettivo la ristrutturazione del campo percettivo del paziente a partire
dall'esperienza fenomenica e avalutativa del mondo. Il paziente, con l’aiuto del terapeuta,
faceva esperienza della propria realtà interna.

Lavorando sull’unità o sulla disunione dell’esperienza, nel “qui e ora”, sarebbe stato possibile
ricostruire le relazioni dinamiche di figura e di sfondo fino a quando si fosse raggiunta una
nuova consapevolezza della propria realtà psicologica. L’influenza del suo primo supervisore
Reich si tradusse nel fatto che l’approccio esperienziale di Perls era in ultima istanza
finalizzato al superamento della corazza caratteriale e la sua tecnica terapeutica portava il
paziente a essere consapevole dei propri stati di coscienza e delle proprie emozioni; tale
approccio trovava il suo limite solo nelle patologie più gravi, per le quali Perls cercava di
rinforzare la personalità del paziente assumendo anche una più diretta funzione genitoriale, di
accudimento.

Anche Eric Berne si formò come psicoanalista e si spostò dalla East Coast alla West Coast
americana. Passò il secondo dopoguerra operando fra San Francisco e Carmel. A partire dalla
psicoanalisi degli stati dell’Io di Federn e di Edoardo Weiss, Berne creò l’analisi transazionale
e, pur avendo caratteristiche di personalità differenti da Pearls collaboro con lui e le loro teorie
si intrecciarono

Entrambi svilupparono una teoria che si svincolò dalla psicoanalisi seguendo delle traiettorie
fenomenologiche, adottando una visione ottimistica della natura umana e l’idea che il terapeuta
dovesse favorire lo sviluppo del potenziale di ogni persona. In più punti la Terapia della Gestalt
di Perls entrava in contatto con l’analisi transazionale di Berne, soprattutto nei casi in cui
occorreva comunque analizzare i conflitti che non si riuscivano a risolvere solamente con
tecniche esperienziali.

Entrambi cercavano di ricostruire il mondo interno a partire dai comportamenti manifesti. Su


questo terreno, Berne aveva elaborato un modello più sofisticato di analisi dei copioni interni,
che si strutturavano nelle interazioni che l’individuo aveva con i propri familiari, fin dalla
nascita. L’interiorizzazione di tali transazioni darebbe vita a differenti modalità relazionali
prototipiche che Berne chiamava Genitore, Adulto e Bambino. In una personalità normale
questi differenti copioni erano interiorizzati in modo armonioso e nessuno stato dell’Io
egemonizzava l’altro.

Il terapeuta coglieva i differenti stati transazionali dell’Io che potevano mimare il copione
(script). L’analisi transazionale di Berne era sicuramente più strutturata della terapia di Perls,
che era affidata piuttosto all'originalità e alla creatività del terapeuta. Berne introdusse nel
proprio modello anche una teoria dei giochi relazionali che indicavano al terapeuta le modalità
tipiche in cui le relazioni del paziente erano strutturate. L’analisi transazionale divenne
popolare a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.

In a che gioco giochiamo, Berne descrisse minuziosamente la sua teoria dello sviluppo della
formazione in un linguaggio volutamente semplificato per rendere la teoria trasmissibile. A
grandi linee, per Berne fino alla preadolescenza si interiorizzavano gli stati del Bambino, poi le
relazioni con le figure parentali nel copione Genitore, e infine Adulto, stato dell’Io che si
formava con la concreta realtà. L'adulto era lo stato che mediava fra la creatività e la fantasia
del Bambino e le regole interiorizzate e automatizzate nel copione del Genitore.

La disarmonia fra i copioni determinava la sofferenza psichica. L’analisi di Berne era così
finalizzata a comprendere l'attivazione di un copione specifico di uno stato dell’Io in una
interazione comunicativa. Le transazioni complementari conducevano a comunicazioni in
armonia, dove uno stato dell’Io rispondeva in modo non conflittuale a un altro stato dell’Io (A-
A). Il conflitto nasceva quando invece una transizione era incrociata (A tentava di comunicare
con A ma rispondeva un G verso un B). La comunicazione allora si sarebbe bloccata e sarebbe
diventata disarmonica o conflittuale .

Un esempio era la comunicazione controtransferale in psicoanalisi. Quando un paziente


formulava una domanda legittima e il terapeuta invece rispondeva come un adulto verso un
bambino, le comunicazioni non sarebbero state più complementari ma incrociate. Nel modello
esistevano poi le transazioni ulteriori, che complicavano il quadro e si muovevano su più piani
di significati. Tali comunicazioni con transazioni sovra determinate avrebbero reso il campo di
analisi estremamente complesso.

Nel modello erano teorizzati dei sistemi motivazionali come la fame di stimoli, le carezze
come bisogno di riconoscimento, il tempo come necessità di strutturazione. Anche questi
bisogni erano descritti in chiave evolutiva. La strutturazione del tempo si declinava inoltre in
differenti modalità. L’ isolamento, i rituali, i passatempi, le attività, i giochi e, infine, l’intimità.
Così come bisogni, anche i modi di strutturare il tempo sembravano caratterizzati per
differente evoluzione: dal più semplice e disadattivo (isolamento) al più complesso (intimità).

In questo quadro i giochi erano il fondamento del modello interpersonale di Berne. Ogni
persona per Berne strutturava la propria vita dentro copioni ripetitivi, i giochi, che avevano
benefici secondari (tornaconto) ma risultavano patologici; gli attori dei giochi erano gli stati
dell’Io interiorizzati. Il terapeuta doveva tentare, tramite un'analisi dei gestionali per qualsiasi
specifico, di armonizzare gli Stati dell'io. Si trattava di una derivazione articolata e complessa
della teoria del transfert-controtransfert in cui il terapeuta assumeva un ruolo a seconda del
copione manifestato dal paziente.
La psicoterapia della Gestalt e l’analisi transazionale hanno condiviso un destino comune:
hanno avuto molta fortuna soprattutto a partire dagli anni 60 e si sono radicate negli Stati Uniti,
venendo applicate sia come terapie individuali derivate dalla psicoanalisi, sia come tecniche di
gruppo. queste psicoterapie hanno probabilmente rappresentato le prime forme di terapie
integrative che utilizzavano in modo eclettico pezzi di differenti modelli terapeutici.

Oltre che dalla psicoanalisi classica, gli autori furono infatti certamente influenzati dalla
psicoterapia umanistica, dagli approcci esistenziali, ma anche dalle tradizioni comportamentista
americane e dalla psicoanalisi dell'io. L'elaborazione di nuove tecniche terapeutiche che si
ibrindavano liberamente con altri modelli ha prodotto così alcune derive, in cui il confine fra
modelli terapeutici con evidenziabili radici nella psicologia clinica e pratiche suggestive è
divenuto assai labile.

LE ORIGINI DELLA PSICOTERAPIA FAMILIARE

La storia della psicoterapia familiare condivide delle analogie sul piano storiografico con altre
forme di terapia. Negli Stati Uniti, già dagli anni Venti, esistevano associazioni che fornivano
aiuto alle famiglie povere e counseling familiare prematrimoniale; da tale contesto nacquero,
negli anni Quaranta, le prime associazioni per la “terapia familiare”. Le prime forme di terapia
familiare moderne consistevano per lo più in interventi sui bambini e secondariamente si
occupavano di famiglia; anche nella psicoanalisi sociale di Adler e in quella interpersonale
di Sullivan era presente un interesse per il costrutto famiglia.

Frieda Fromm- Reichmann negli anni Quaranta iniziò a indagare le radici familiari della
schizofrenia, coniando un’espressione poi divenuta famosa e contestata: quella di “madre
schizofrenogenica”. L’assunto delle terapie familiari e di coppia era l’idea che la patologia
mentale non fosse originata da fattori individuali, ma che risultasse il prodotto delle relazioni
del paziente. Negli anni Cinquanta, a Palo Alto, fu creata la terapia familiare più nota, definita
come modello sistemico-relazionale; in seguito, essa si coniugò ad altre modalità di terapia
estesa a più membri della stessa famiglia.

Negli anni Quaranta, alla clinica Tavistock di Londra, Henry V. Dicks sviluppò un primo
modello psicoanalitico di successo riguardante la terapia di coppia. Negli Stati Uniti
furono principalmente gli psichiatri dello sviluppo a mettere al centro la famiglia per la cura dei
bambini. John E. Bell dopo un viaggio a Londra fu direttamente influenzato dalla Tavistock e
fu probabilmente il primo psichiatra a portare le famiglie nello studio di consultazione. I primi
pionieri della famiglia che in vario modo anticiparono o lavorarono parallelamente alla scuola
sistemico relazionale furono Ackerman, Midelfort, Lidz, Bowen, Witacher.

Si trattava soprattutto di psichiatri che avevano tutti l'obiettivo di guardare alla famiglia e
all’ambiente e focalizzati soprattutto sui problemi di bambini e adolescenti. Nel metodo di
Bowen l’intervento riguardava il mondo intrapsichico di un membro della coppia, per poi
rispecchiarlo con il partner, al fine di sciogliere quelle tensioni che per il bambino erano
patologiche, portando gli individui della famiglia a differenziarsi dalle relazioni patologiche
che si tramandavano di generazione in generazione.

Dagli anni Cinquanta l’obiettivo principale dei terapeuti familiari fu quello di portare
l’equilibrio presente nella famiglia da un piano disfunzionale a uno funzionale. Il movimento
della terapia familiare solo negli anni 60 uscì dalla fase pionieristica per affermarsi come
modello ramificato e complesso al pari della psicoterapia individuale, psicodinamica e
cognitivo comportamentale. gli anni 50 furono soprattutto noti per le vicende che portarono
all'elaborazione dell'approccio sistemico che attingeva alla sociologia, alla teoria dei sistemi di
Ludwig von Bertalanffy, alla teoria della comunicazione alle teorie ecologiche.

La teoria dei sistemi metteva l'accento sull'ingenuità di una concezione meramente positivista,
per cui l’individuo andava studiato oggettivamente. Nella concezione sistematica l’individuo
era
invece considerato un organismo che interagiva con altri sistemi con cui entrava in contatto.
L'interazione produceva sistemi che funzionavano a un livello differente rispetto a quello
individuale. In un'ottica sistemica, un gruppo di persone interagenti era ritenuto qualcosa di
quantitativamente differente dalle singole persone che partecipavano all’interazione. Le
organizzazioni, le famiglie e i gruppi erano da considerare sistemi regolati in modo specifico e
non riconducibili al funzionamento dei singoli.

Ciò implicava un ribaltamento del principio di casualità, che non era più lineare bensì
retroattivo: A non era più meramente causa di B ma, l’agire di A e B produceva cambiamenti
nella stessa condizione rappresentata da A. Fu la cibernetica a fornire agli psicoterapeuti
sistemico- relazionali quel contesto teorico di cui avevano necessità. Il gruppo dei terapeuti
familiari aveva un'impostazione critica nei confronti della psicoanalisi classica e degli approcci
psicodinamici individualisti.

Comune era anche l'idea che, attraverso forme di terapie familiari, terapie brevi che avevano
come obiettivo quello di aggredire il sintomo anche con l'uso di strategie comportamentali, si
potesse intervenire positivamente su larghi strati della popolazione. Tra il 1946 e il 1953
furono sponsorizzate dalla Josiah Macy Jr. Foundation, un'istituzione dedicata all'avanzamento
e al progresso della medicina e della clinica, dieci conferenze interdisciplinari, dedicate alle
applicazioni cliniche della cibernetica.
Da questo punto di vista furono proposte idee innovative sia per la psicologia sia per la
psichiatria, fino a sostenere che la mente e il cervello fossero il prodotto di meccanismi
circolari/relazionali di autoregolazione dei sistemi neurologici e psicologici. Il punto di
ancoraggio delle relazioni sarebbe stata la comunicazione. Tra i partecipanti vi era Gregory
Bateson, è generalmente considerato il padre del modello sistemico-relazionale.

Bateson non fu soltanto un terapeuta ma piuttosto un antropologo nel senso più ampio del
termine: la vastità di tutti i suoi scritti è stata raccolta all’interno di Verso un’ecologia della
mente e Mente e natura. Il primo nucleo di studiosi che si occuparono sistematicamente della
famiglia in ambito psicoterapeutico faceva riferimento a un gruppo di ricerca che si era formato
con la prospettiva di scoprire le cause della schizofrenia, presso il Veterans Administration
Hospital di Palo Alto e la Stanford University in California, e composto originariamente
Bateson, Don D. Jackson, Jay Haley e John Weakland.

Questo gruppo metteva insieme competenze in antropologia, logica, psicoterapia e psicoanalisi.


Il “gruppo di Palo Alto” parti dalla constatazione che nella vita reale le comunicazioni
comprendevano paradossi e antinomie. Gli esseri umani astrevano continuamente, usavano
metafore, simboli, variavano i livelli di significazione in modo disinvolto in molte situazioni di
vita.

Le situazioni in cui gli esseri umani apprendevano dovevano essere di livello più astratto
rispetto alle semplici concatenazioni stimolo-risposta. Gli schizofrenici si caratterizzavano
invece per l'incapacità di discriminare le comunicazioni verbali e non verbali altrui, per la
tendenza a seguire logiche paradossali, per la difficoltà a comunicare i propri stati emotivi e i
propri pensieri. Le modalità comunicative ellittiche dello schizofrenico erano presenti anche
nella normalità quando si faceva un uso massiccio di simboli e di metafore. Agli schizofrenici
mancava però la capacità di discriminare il contesto in cui avveniva la comunicazione.

La schizofrenia poteva forse essere ricondotta a una causa relazionale, alla situazione evolutiva
nella quale le capacità comunicative dovevano essere sviluppate. Più che andare alla ricerca di
un trauma si trattava di individuare“ strutture di sequenze caratteristiche” attraverso le quali il
paziente avesse assunto “le abitudini mentali che sono implicate nella comunicazione
schizofrenica”, esplicantesi nella ricezione di comunicazioni perennemente contraddittorie, dal
significato irrisolvibile: nasceva così la teoria del doppio legame o doppio vincolo.

Gli ingredienti necessari affinché si venisse a creare una situazione di doppio legame venivano
così sintetizzati da Bateson e collaboratori:

1) presenza di due o più persone: da una parte la vittima, dall’altra la madre


2) ripetizione dell’esperienza, in modo che la struttura del doppio vincolo divenisse “oggetto di
attesa abituale” da parte della vittima;

3) un’ingiunzione primaria negativa, implicante una punizione ove non venisse rispettata

4) un’ingiunzione secondaria in contrasto con la prima ma, come la prima, sostenuta da una
minaccia di punizione;

5) un’ingiunzione terziaria negativa che impedisse alla vittima di sfuggire dal conflitto.

Ove una simile sequenza fossi stata più volte spedita, ogni sua porzione avrebbe potuto
“essere sufficiente a scatenare panico o rabbia”. Le comunicazioni paradossali in cui fosse
espressa un’ambiguità inelaborabile dalla parte più debole della relazione, l’individuo in
crescita, erano la causa dei disturbi più gravi della personalità. La situazione familiare dello
schizofrenico sarebbe stata caratterizzata inoltre da uno stato di omeostasi patologica.

Crescere in un contesto cronicamente caratterizzato da relazioni intense, da messaggi


contrastanti, dall’incapacità di correggere tali messaggi e di agire su un livello
metacomunicativo, avrebbe originato una tendenza a rispondere in modo bizzarro.

Per gli autori, l’essere umano, posto di fronte a una situazione incomprensibile, rispondeva
come un sistema di auto-correzione lesionato e poteva mettere in atto comportamenti come
quelli che in psichiatria vengono attribuiti agli schizofrenici. Dopo aver analizzato le
registrazioni di colloqui con le famiglie, gli “psi” di Palo Alto giunsero alla conclusione che la
famiglia dello schizofrenico fosse caratterizzata in primo luogo da una madre che:

a) sfuggiva al contatta affettivo con il figlio, la cui vicinanza la faceva diventare ansiosa e
ostile

b) non riconosceva la propria ostilità e se ne difendeva obbligando il figlio a mostrarsi


affettuoso in contesto di bontà ipocrita

c) dalla mancanza di un padre forte e autorevole che intervenisse nella relazione fra madre e
figlio

In questa situazione patologica, veniva impedito l'apprendimento dei processi di


metacomunicazione, che servivano alle persone normali per conoscere ogni atto comunicativo
e dargli il giusto significato sia cognitivo sia emotivo. La metacomunicazione sarebbe risultata
utile anche per fronteggiare chi comunicasse in modo paradossale. In quest'ottica lo
schizofrenico rimaneva senza veti uscita, non apprendendo a metacomunicare perché, se non
mostrava affetto, era minacciato e nello stesso tempo anche se mostrava affetto, era
ugualmente minacciato.

Watzlawick, Beavin e Jackson in un saggio classico sulla terapia familiare, a partire dalle
osservazioni antropologiche di Bateson degli anni 30, riassunsero in qualche modo tutta la
produzione scientifica degli esponenti della scuola di Palo Alto. A loro avviso, le
comunicazioni sarebbe state regolate da un percorso riconducibile a cinque assiomi:

1) E’ impossibile non comunicare. Ogni persona comunica con le parole ma anche con
comportamenti più sfuggenti e non verbali;
2) Mentre si comunica, i significativi vengono trasmessi secondo molteplici vie: sia
mediante i contenuti sia mediante le relazioni; i contenuti sono diretti, mentre le
relazioni spesso, soprattutto nella patologia, trasmettono messaggi sui contenuti,
divenendo quindi metacomunicazioni;
3) le comunicazioni non fluiscono liberamente ma sono necessariamente punteggiate dal
comportamento degli attori nelle relazioni comunicative;
4) Le comunicazioni possono essere numeriche/digitali o analogiche. Nel primo caso
l’uso di numeri/parole apporta un senso complesso ma sintatticamente preciso ai
contenuti, nel secondo caso gli esseri umani esprimono attraverso comunicazioni
sintatticamente più ambigue ma utili nei processi di significazione relazionale. Le
comunicazioni analogiche si esprimono quindi soprattutto mediante il registro non
verbale;
5) La comunicazione può essere condotta sullo stesso piano (simmetrica) o su piani
differenti (complementare). Tali piani comunicativi sono naturali in contesti specifici,
come nelle comunicazioni fra amici e compagni (simmetria comunicativa), oppure fra
genitore e figlio, medico o paziente, maestro e apprendista (comunicazione
complementare). Sulla base delle osservazioni di Bateson compiute su una
popolazione della Nuova Guinea, si arguiva che interazioni comunicative potessero
essere condizionate dalla diade dominanza/sottomissione e che le sequenze
comunicative simmetriche e complementari potessero divenire patologiche,
costringendo le persone a comunicare in modo simmetrico oppure complementare
anche se la consuetudine di quel tipo di relazione non lo prevedeva.

Da queste premesse, i terapeuti della famiglia intervenivano nel sistema quando questo era
regolato secondo un’omeostasi relazionale che appariva patologica. La fortuna del modello
relazionale si ebbe nei decenni successivi agli anni 50. I terapeuti sistemico- relazionali,
seppure in dialogo con la psicoanalisi, se n'è differenziarono in più punti, soprattutto per
l’importanza data alle relazioni piuttosto che all’individuo. Essi facevano comunque
riferimento a meccanismi di comunicazione inconsci che veicolavano significati legati
all’emotività.

D'altra parte, obiettivo dei teorici di Palo Alto era pure una critica alla teoria
dell'apprendimento che negli stessi anni si stava diffondendo come valida alternativa con una
psicoterapia delle pulsioni. In opposizione alla teoria comportamentista, Bateson ha elaborato il
concetto di deutero apprendimento , una modalità di “apprendimento delle capacità di
apprendimento”, un apprendimento di livello superiore che non rientrava nella mera
osservazione e codificazione dei meccanismi di base del condizionamento.
Il deutero apprendimento svolgerebbe una funzione essenziale, sia nell’instaurarsi della
patologia, sia nell'elaborazione di tecniche terapeutiche che destrutturano le attribuzioni di
significato e i comportamenti patologici appresi. La teoria del doppio legame ricevette molte
critiche relative alla sua presunta semplicità nello spiegare un fenomeno complesso e
apparentemente biologico come la schizofrenia. Tuttavia non c'è dubbio che crescere in un
contesto caratterizzato dal doppio legame produca dei guasti evolutivi. Il meccanismo del
doppio legame era suscettibile di essere utilizzato per interpretare il funzionamento dei sistemi
relazionali differenti da quelli meramente familiari.

Nel corso del tempo sono state sottolineate le similitudini tra i sistemi relazionali familiari e
lavorativi, applicando ai secondi le tecniche psicoterapeutiche usate con i primi. La
psicoterapia avrebbe dovuto smontare le logiche fondate sui doppi legami familiari attivi
anche nelle differenti organizzazioni, con stratagemmi comunicativi in grado di decostruire gli
errori di ragionamento. Le prime ricerche di Palo Alto seguivano la via tracciata da Bateson,
interessata a esplorare la comunicazione e secondariamente la psicopatologia.

Nel 1959 venne fondato da Don Jackson il Mental Research Institute, un'istituzione dove
finalmente si potevano condurre in modo sistematico ricerche innovative, raccogliere casi
concreti e creare un setting caratteristico di lavoro con i gruppi gruppi-famiglia.

CAPITOLO 7. CONSOLIDAMENTO ED ESPLOSIONE DI NUOVI PARADIGMI DI


FRONTE AL MUTATO CLIMA SOCIALE

La fine degli anni Cinquanta e tutto il decennio dei Sessanta conducono alla contemporaneità.
In questo periodo si è assistito a una vera e propria rivoluzione soprattutto come conseguenza
del boom economico legata alla ricostruzione dell’Europa. Gli anni Sessanta in Occidente
sono stati caratterizzati dal tentativo di superare definitivamente la cultura gerarchizzata delle
società conservatrici e religiose dell’Ottocento.

I nati tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta sono stati definiti come baby boomers, a
significare tanto l'esplosione demografica quanto la loro appartenenza a un periodo di grandi
possibilità economiche e prosperità. I baby boomer hanno goduto in tutto l'occidente di
un'eccezionale accesso alla soddisfazione dei bisogni primari. L'acquisita soddisfazione dei
beni materiali portò con sé l'affermazione dell'importanza delle necessità culturali e soprattutto
una riaffermazione della come diritto fondamentale e inalienabile. Il mondo dei baby boomers
fu influenzato dalla Guerra Fredda.

Nell’Europa occidentale la guerra fredda ha polarizzato le culture politiche e ideologiche


almeno fino alla caduta del muro di Berlino. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta i baby
boomers sono stati per larga parte progressisti e libertari; in alcuni paesi europei il marxismo
venne assunto della sinistra radicale come filosofia della liberazione. Gli anni 60 furono il
contesto in cui si confrontarono culture vecchie e nuove.

La maggior parte delle figure di riferimento nella cultura progressista degli anni 60 era però
nata nel primo dopoguerra e in generale aveva lasciato una traccia importante del proprio
passaggio entro gli anni 50. New York ebbe come suo più affermato esponente Jackson
Pollock; il termine pop comparve per la prima volta in un college di Richard Hamilton esposto
nel 1956. Nel campo delle scienze umane, le opere degli esponenti principali della scuola di
Francoforte esercitarono una straordinaria influenza sugli anni 60 in particolare sul 68.
L'esistenzialismo fu un'altra filosofia simbolo degli anni 60, non solo a grazia Heidegger e
Jaspers ma attraverso l'essere il nulla di Jean Paul Sartre.

Ci furono poi progressisti attivi nel campo dei paesi del patto di Varsavia, tra cui spiccano i
nomi dei politici e intellettuali legati alla rivoluzione d’Ungheria del 1956 e la primavera di
praga del 1968. Il discorso pubblico in Occidente fu quindi profondamente trasformato anche
in ragione del fatto che i diritti essenziali dell'uomo riguardavano nuove rivendicazioni di
libertà: sostegno e ampliamento dell'emancipazione femminile e delle differenti identità
sessuali, messe in crisi delle gerarchie sociali e della famiglia tradizionale, antirazzismo e
antisegregazionismo, nuove istanze egualitarie, ricerca di nuove identità spirituali e religiose è
un antitratta militarismo militante finalizzato a contrastare la guerra del Vietnam.

La cultura degli anni Sessanta è stata anche definita controcultura in quanto portatrice di
istanze finalizzate a contrastare la cultura e le istituzioni tradizionali, considerate come
funzionali all’auto-conservatorismo degli Stati liberali. John F. Kennedy aveva definito questo
periodo come una “nuova frontiera”. Il presidente americano elaborò quindi una serie di
politiche sociali adeguate alla nuova frontiera che affrontavano il problema dei salari, della
parità dei diritti, della sanità pubblica e anche quello delle nuove terapie psichiatriche. Il
community mental Act era infatti parte della politica della nuova frontiera nei decenni che
seguirono condusse gli Stati Uniti a un processo di deistituzionalizzazione su larga strada dei
pazienti psichiatrici.

Fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta anche le terapie del mentale
subirono una metamorfosi: la psicofarmacologia nei primi anni Cinquanta aveva infatti
prodotto farmaci che sembravano poter controllare le allucinazioni e i deliri della schizofrenia;
dal canto suo la psicoterapia fece un balzo in avanti anche perché il controllo
psicofarmacologico dei sintomi prospettava una nuova psichiatria, maggiormente aperta al
sociale alla relazione, è una psicoterapia anche per quei pazienti gravi che fino ad allora ne
erano rimasti esclusi.

Un fatto di grande rilievo fu anche l’evoluzione della nosologia psicopatologica, che finì per
includere una nuova categoria, quella della sindrome borderline. L'etichetta borderline
identificava una categoria di pazienti gravi ma non psicotici: allargava la platea dei potenziali
beneficiari di una psicoterapia ma poteva i terapeuti di fronte alla consapevolezza di dover
elaborare nuove strategie. La psicoterapia familiare e di gruppo, gli approcci cognitivisti e
costruttivisti, gli approcci di comunità, seppur fondati già negli anni Cinquanta,
caratterizzarono questi anni.

La psicoanalisi cambiò definitivamente pelle, inizio prepotentemente a essere applicata in


territori nuovi e a modificarsi sotto il profilo teorico anche per opera di istituzioni
importantissime nella storia della psicoterapia, come la Tavistock Clinic di Londra. Infine si
consolidò il riconoscimento della psicoterapia condotta dai non-medici senza più temere il
reato di esercizio abusivo della professione. In maniera differenziata Gli Stati americani
riconobbero infatti la possibilità per gli psicologi di esercitare la psicoterapia. La critica dei
movimenti giovanili tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta non risparmiarono neanche le
società scientifiche di psicologia, psicoterapia e psichiatria, per il disinteresse accademico di
queste istituzioni nei confronti dell'ingiustizia sociale

I nuovi professionisti formatisi negli anni Sessanta reclamavano un maggiore riguardo verso
richieste anti-istituzionali che alcune nuove tendenze innovatrici della psicoterapia cercavano
di promuovere. Nel 1969 si tenne a Roma, in occasione del ventiseiesimo Congresso
internazionale di psicanalisi dell'IPA, un contro- congresso organizzato soprattutto da giovani
psicoanalisti, legati alle esperienze di formazione con colleghi svizzeri, che si ponevano in
modo critico rispetto alla rigida cooptazione ormai in uso nella società di psicoanalisi.

Le critiche riguardavano anche la palude in cui la psicoanalisi si era accerchiata rispetto ai temi
come l’omosessualità, perdendo quella carica eversiva originaria di cui pure sembrava
portatrice la teoria freudiana. Seguirono altri contro- congressi anche contro le società di
psicologia e di psichiatria. Furono infine fondati gruppi alternativi rispetto all’IPA, in cui si
praticava una psicoanalisi liberata dalle ipoteche conservatrici, alle quali il movimento
freudiano sembrava aver irrimediabilmente ceduto.

ESPLOSIONE E FRAMMENTAZIONE DEI MODELLI PSICOTERAPEUTICI

Gli anni Cinquanta e Sessanta sono stati uno snodo fondamentale che ha condotto a far
diventare la psicoterapia il settore più produttivo dell'intera psicologia. La psicoterapia e la
psicoanalisi, dal momento della nascita nella seconda metà dell'Ottocento non ha mai avuto
veri momenti di blocco della produzione scientifica. La stessa ipnosi non è mai stata
interamente abbandonata e sostituita da altre pratiche, ma ha continuato ad attirare l'interesse
internazionale.

L'interesse per la cura del mentale ha apportato ai gridare la psicoterapia con le diverse
prospettive teoriche che nel corso del tempo hanno costituito i modelli egemoni della ricerca
psicologica generale. Fino agli anni 60, la psicoterapia si identificava quasi del tutto con il
modello psicoanalitico, in seguito, divennero sempre più importanti la psicoterapia di gruppo,
quella familiare e quella umanistica. La psicoterapia comportamentista e quella cognitivista
tarderanno invece ad affermarsi, fino a diventare però i modelli con il maggior ritmo di
crescita. la psicoanalisi rimane comunque ad oggi ancora sorprendentemente egemone. Il
numero di contenuti scientifici riguardanti la psicoterapia è aumentata in modo esponenziale

LA REAZIONE COMPORTAMENTISTA CONTRO LA PSICOANALISI

La psicoterapia comportamentista sebbene inizialmente elaborata agli inizi degli anni Venti, si
affermò solo a partire dagli anni 60, anche in seguito alla convinzione diffusa che il
condizionamento operante fosse efficace per la gestione delle diverse situazioni cliniche. Il caso
del piccolo Albert ha conosciuto un enorme successo nella storia della psicoterapia
comportamentista, venendo ciclicamente riutilizzato, fino ai nostri giorni, come modello di
raffronto.

Alle narrazioni imprecise di Freud si contrapponeva un caso che si presentava come galileiano
fondato su esperienza affidabili, osservabili e ripetibili. La storia del piccolo Albert fu
specificatamente costruita come contraltare ai casi clinici freudiani; le descrizioni di Watson e
Rainer erano artefatte come quelle attribuite avversari freudiani. Non è chiaro, infatti, se le fobie
indotte ad Albert fossero preesistenti, reali o se si trattasse di una narrazione costruita da Watson
e Rainer. Hans J. Eysenck e Joseph Wolpe sono stati i nomi principali legati alla riscoperta
terapeutica di Albert nel secondo dopoguerra.

Eysenck ha rappresentò uno dei massimi teorici della psicologia tra gli anni Sessanta e
Settanta. Dedicò un intero capitolo di Uses and Abuses of Psychology alla critica della
psicoanalisi sia come teoria psicopatologica sia come terapia. Eysenck non accettava la
possibilità di costruire una teoria psicologica sulla base del metodo clinico, al quale
contrapponeva il metodo sperimentale. Eysenck cercava di dimostrare che, sebbene la
psicoanalisi fosse ormai popolare almeno negli Stati Uniti e in Inghilterra, i dati non
confermavano una sua superiorità, rispetto ai trattamenti medici tradizionali.

Eysenck criticava poi anche il metodo della formazione psicoanalitica, che giudicava
l'influenzato dal settarismo, e la frammentazione delle scuole analitiche. Nel contesto di Fact
and Fiction in Psychology, Eysenck liquidò il caso del piccolo Hans come a folklore
psicoanalitico. In un capitolo intitolato Little Hans or Little Albert? , ribadì che la storia del
condizionamento di Albert era reale, mentre la storia di Hans era una costruzione fantasiosa,
così da riaffermare la tesi che la psicoanalisi fosse fantasia e la psicologia comportamentista
invece una scienza esatta.

In Psychoanalytic evidence: A critique based on Freud's case of little Hans, furono Wolpe e
Rachman a criticare sistematicamente la storia clinica del piccolo Hans. Wolpe e Rachman
accusavano Freud di aver costruito la storia solo per confermare la propria teoria. Sostenevano
poi che il padre di Hans mostrasse un atteggiamento sospetto e indottrinante nei confronti del
figlio. Wolpe e Rachman contestavano totalmente l'interpretazione freudiana della storia di
Hans come novello Edipo che spostava la sua paura del padre nella fobia dei cavalli; così come
mettevano in dubbio la legittimità di considerare valida un'interpretazione, sia che fosse seguita
da un miglioramento dei sintomi fobici, sia che si rilevasse inefficace.

I due comportamentisti ritenevano che la sua guarigione non dipendesse dall'effetto delle
interpretazioni, piuttosto dal disapprendimento della fobia. Veder picchiare i cavalli, per Freud
avrebbe eccitato Hans. mentre secondo Wolpe e Rachman avrebbe condizionato in lui un
comportamento fobico. Le interpretazioni freudiane sarebbero risultate efficaci solo perché
avrebbero casualmente messo Hans di fronte alle proprie fobie. Anche la psicoanalisi era così
considerata una terapia dell'apprendimento/ disapprendimento delle nevrosi.

La reinterpretazione del piccolo Hans sembrava dimostrare che poteva esserci una spiegazione
alternativa dei medesimi casi clinici e che la terapia comportamentale poteva sostituirsi alla
psicoanalisi. Alla fine degli anni Cinquanta, Wolpe, deluso dalla psicoanalisi, aveva così
iniziato a utilizzare la desensibilizzazione sistematica come terapia delle fobie. Il caso di Albert
legittimava l'uso di tecniche comportamentiste. In seguito, Martin Seligman, sì ancora alla
critica del caso di Hans per iniziare la fortunata tradizione clinico-sperimentale che curava
alcuni grandi quadri psicopatologici considerandoli fenomeni appresi e condizionabili.

L'enfasi comportamentista su apprendimento e condizionamento ha portato in seguito anche a


tecniche pedagogiche fortemente istituzionalizzate mediante programmi di ampio respiro nelle
scuole con il tentativo di costruire comportamenti socialmente desiderabili ed estinguere quelli
indesiderabili. Sembra esservi un indubbio filo rosso che Lega tecniche come la token
economy con la visione del mondo comportamentista che ha rappresentato anche un orizzonte
utopistico ben riprodotto nel mondo descritto da Skinner in Walden Two.

Il comportamentismo ha poi influenzato tutta la psicologia americana del dopoguerra, ed


elementi di questa teoria si trovano nella successiva teoria dell’apprendimento sociale o del
cognitivismo sociale iniziata negli anni 60, ma resa celebre da Albert bandura e Philip
Zimbardo nel decennio successivo. Il comportamentismo ha così condotto non esclusivamente
a una specifica psicoterapia, ma ha più approcci clinici e psicosociali finalizzati a risolvere i
problemi che emergono nella società contemporanea.

I PIONIERI DELLA PSICOTERAPIA COGNITIVA

A seguito delle critiche al comportamentismo, sul finire degli anni Cinquanta furono proposte
nuove teorie cognitiviste derivate dalle teorie dell’apprendimento ma in contrasto con l'idea base
del comportamentismo che escludeva nozioni riferite al mondo interno e alla mente. I pionieri di
queste nuove teorie condividevano comunque con Eysenck l’attenzione ai fatti empirici che
potessero dimostrare l’efficacia della psicoterapia, in alternativa agli altri trattamenti generici
della medicina. Anche la psicoterapia cognitivo-comportamentale poteva essere considerata un
modello diversificatosi dalle prime teorie psicodinamiche sulla scorta della psicologia
accademica.
Tra i punti di riferimento dei primi psicoterapeuti cognitivo-comportamentali vi erano infatti
alcune nozioni collegabili al metodo catartico e alla prima psicoterapia freudiana relative alle
associazioni disadattive fra memorie, alle rappresentazioni, ai ricordi, ai meccanismi di difesa e
alle cariche affettive. Altro riferimento importante fu la psicologia di Pierre Janet, soprattutto per
la convinzione della rilevanza di tecniche capaci di far accrescere la sintesi mentale e la
funzione di realtà in individui che soffrivano di un “restringimento del campo di coscienza”.

Anche Jean Piaget esercitò un'influenza sul modello cognitivista, avendo tracciato per primo
l'idea che gli schemi e le rappresentazioni della realtà interna giocassero un ruolo adattivo
fondamentale nello sviluppo cognitivo. Infine occorre sottolineare l'influenza della teoria della
dissonanza cognitiva di Leon Festinger, che negli anni 50 evidenziò l'importanza che hanno le
credenze nel dare coerenza e influenzare le interpretazioni del mondo. La spiegazione di
Festinger era che le persone cercassero fondamentalmente di evitare situazioni o credenze
dissonanti alla ricerca invece di coerenza.

La ricerca di una riduzione delle tensioni cognitive, ansiogene e stressanti, poteva divenire una
vera e propria teoria motivazionale applicabile anche alla psicoterapia. Quest'ultima avrebbe
infatti potuto rimettere in equilibrio il sistema cognitivo con credenze efficaci nel perseguire
comportamenti non disturbanti. Su una linea affine a quella di Festinger si mossero i pionieri più
importanti della psicoterapia cognitivo-comportamentale: George A. Kelly e Albert Ellis.

Kelly aveva elaborò un sistema teorico molto articolato sulla base della propria attività di
counseling psicologico con gli studenti delle scuole pubbliche del Kansas, condotta nella
clinica psicologica itinerante da lui stesso fondata. Kelly cercava di ottenere gli elementi in
base ai quali i docenti costruivano i giudizi sul comportamento degli alunni. Questo approccio
implicò un ribaltamento della prospettiva di osservazione critica dei fenomeni comportamentali
che risulterebbero l'esito di una costruzione contestuale piuttosto che meri oggetti esterni di
valutazione.

Kelly considerò ogni individuo come un soggetto che costituisce rappresentazione alternative
della realtà da sottoporre a continua verifica. Nella Psicologia dei costrutti personali, Kelly
partiva dalla constatazione che gli individui presentano l'attitudine rappresentarsi gli eventi,
soprattutto al fine di poterli prevedere. I costrutti personali sono quindi categorie mediante le
quali gli individui interpretano i propri contesti che sono continuamente suscettibili di nuove
rappresentazioni. Secondo Kelly, si potevano enucleare un postulato fondamentale e 11
corollari:

postulato fondamentale. I processi di una persona vengono psicologicamente incanalati dai


modi in cui la persona anticipa gli eventi.

Corollario di costruzione. Una persona anticipa gli eventi costruendo le loro repliche.

Corollario di individualità. Le persone differiscono l'una dall'altra nella loro costruzione degli
eventi.
Corollario di organizzazione. Ogni persona sviluppa un modo caratteristico, per la sua
convenienza nell'anticipare gli eventi, un sistema di costruzione che comprende relazioni
ordinali tra i costrutti.

Corollario di dicotomia. Il sistema di costruzione di una persona è composto da un numero


infinito di costrutti dicotomici.

Corollario di scelta. Una persona sceglie per sé un costrutto dicotomico quella alternativa
attraverso la quale anticipò la maggiore possibilità di ampliare e definire il suo sistema.

Corollario di estensione. Un costrutto e conveniente per l'anticipazione soltanto di una gamma


definita di eventi.

Corollario di modulazione. La variazione del sistema di costruzione di una persona è limitata


dalla permeabilità dei costrutti nella cui gamma di convenienza si collocano le variabili.

Corollario di frammentazione. Una persona può utilizzare in sequenza una varietà di


sottosistemi di costruzione che sono inferenzialmente incompatibili fra loro.

Corollario di comunatalità. Nella misura in cui una persona utilizza una costruzione
dell'esperienza che è simile a quella utilizzata da un'altra persona, i suoi processi psicologici
sono simili a quella dell'altra persona.

Corollario di socialità. Nella misura in cui una persona costruisce i processi di costruzione di
un'altra persona, può avere un ruolo in un processo sociale che coinvolge l'altra persona.

Nel secondo volume della Psicologia dei costrutti personali, Kelly avanzò anche
un’omogenea ed elaborata concezione clinica della propria teoria. La teoria dei costrutti
personali di Kelly ha quindi prodotto una concezione originale del comportamento normale e
patologico e una specifica metodologia di intervento: la valutazione clinica e l’intervento
risultavano pertanto finalizzati all'individuazione di come un individuo costruisce la propria
esperienza psicologica e di come il cambiamento sarebbe stato possibile.

Acquisivano a tal fine un ruolo centrale la reinterpretazione e la ricostruzione dell'esperienza


stessa al fine di una loro normalizzazione. La teoria clinica di Kelly venne elaborata fra gli anni
50 e 60 e venne considerata allora soprattutto un framework psicologico- cognitivo per attività
di counseling e di ricerca. Albert Ellis iniziò la propria formazione in campo psicologico
durante la Seconda guerra mondiale. Esordi come consulente matrimoniale e sessuale, Il che
significava all'epoca offrire piuttosto istruzioni che aiuto. Si rivolse così alla psicoanalisi,
seguendo i corsi dell'istituto fondato da Horney, sottoponendosi regolarmente ad analisi
didattica e supervisione.

Insoddisfatto della tecnica classica, che prevedeva un'attesa un po’ troppo passiva dell'insight
da parte del paziente cominciò a sperimentare prima un setting più snello; poi un atteggiamento
eclettico, volto all'esortazione, alla persuasione. Ellis però iniziava a convincersi che, di per sé,
l'insight non fosse sempre sufficiente a migliorare la vita dei suoi pazienti: vedeva infatti
diversi di loro convincersi della realtà dei propri conflitti edipici ma non risollevarsi per questo
dalla propria condotta nevrotica. I primi scritti di Ellis non manifestavano critiche verso la
psicanalisi.

In realtà, Ellis aveva maturato la convinzione che la personalità del terapeuta fosse più
importante della teoria. Un importante testo del 1956 costituì forse il primo vero tentativo di
operazionalizzare concetti psicoanalitici, individuando peraltro in Sullivan un fondamentale
precedente sulla strada ti rendere la psicanalisi meno astratta. Ellis stava così già esprimendo
una necessità che avrebbe sempre sentito: l'uso di un linguaggio semplificato e operativizzato
al fine della verificabilità empirica.

Tuttavia Ellis propose in un Congresso per la prima volta un nuovo modello terapeutico, che
prese il nome di rational psycotherapy o rational therapy nome che sarebbe stato presto
cambiato in rational emotive therapy in seguito rational emotive brevior therapy. Ellis vi
riconoscerà il debito verso Freud, da una parte, manche l'affinità con la filosofia pratica di
Epitteto e con i principi terapeutici di Dubois.

La psicoterapia razionale partiva dal presupposto che la maggior parte delle emozioni umane
fossero controllabili attraverso il pensiero è che l'emozione non consistesse in altro che nel
pensiero: una forma di pensiero “distorta, caratterizzata dal pregiudizio, di carattere fortemente
valutativo”.

Secondo Ellis: “se le emozioni umane risultano in gran parte dal pensiero, allora è possibile
controllare apprezzabilmente le proprie sensazioni interne controllando i propri pensieri”.
Secondo questa prospettiva i disturbi emotivi sarebbero derivati semplicemente dalla tendenza
a dire a se stessi frasi negative, irrealistiche, illogiche, autodistruttive. Queste frasi sarebbero
state apprese nel corso del tempo da parenti, in grado di introdurre convinzioni erronee ma
internalizzate.

Oltre a rendere consapevoli delle proprie verbalizzazioni interne i pazienti Ellis adottava un
atteggiamento terapeutico del tutto nuovo. Il terapeuta razionale doveva portare un attacco
diretto alle idee irrazionali del paziente(disputing), inducendolo ad adottarne altre più razionali;
cioè a internalizzare una razionale filosofia di vita. Se le nevrosi consistevano prevalentemente
in un comportamento stupido da parte di persone non stupide, lo scopo della terapia consisteva
nel mettere a frutto l'intelligenza dei pazienti.

In effetti, aveva pensato Ellis le esperienze di Freud e Pavlov concordavano su un punto: una
volta appreso che un evento (a) è seguito da un'altro evento (b), l'essere senziente tenderà ad
aspettarsi (b) nel caso si verifichi (a); tanto se (b) è piacevole quanto se è spiacevole. La
somiglianza si fermava a questo punto: se era facile per un cane di Pavlov pendere il
condizionamento dopo un certo numero di mancate associazioni, assai più difficile risultava
per un essere umano essere decondizionato. Ellis era arrivato alla conclusione che la differenza
decisiva tra esseri umani e animali, dal punto di vista delle leggi d'apprendimento, consistesse
nel linguaggio, dal quale dipendeva la tendenza umana a temere non solo le esperienze reali,
ma anche quelle immaginabili, descrivibili con il linguaggio.

L'essere umano non era soggetto solo a suggestione, come ricordava Ellis, autori quali
Bernheim avevano già da tempo accertato; era soggetto anche ad auto-suggestione e il mancato
cambiamento della condotta nel corso del tempo poteva ricondursi non all'inerzia ma un vero e
proprio autosuggestionarsi. Le situazioni base della vita umana potenzialmente disturbanti
venivano riassunte da Ellis in uno schema che prese a chiamare ABC, acronimo di Action,
Belief, Consequences cioè azione (agente), credenza, conseguenze.

Al punto A stava una situazione spiacevole per una certa persona. Al punto B stava il pensiero
conseguente alla situazione, situazione che poteva essere razionale (rB) oppure irrazionale (iB).
Al punto C stavano le conseguenze, anch'esse razionali (rC) o irrazionali (iC). Sulla base di rB,
una persona idealmente avrebbe pianificato il colloquio di lavoro in modo da riuscire e si
sarebbe sentita soddisfatta nel caso di riuscita e frustrata in caso di mancata riuscita. Sulla base
di iB sarebbe stato all'opposto possibile non solo esagerare le conseguenze negative possibili e
reagire in modo altrettanto sistemo in caso di loro realizzazione; ma anche sentirsi
esageratamente ansioso in vista del colloquio e di conseguenza avere ottime possibilità di
fallire.

La terapia cognitiva completa lo schema ABC con DE (acronimo di Disputing Effects) Il


terapeuta avrebbe dovuto appunto mettere in discussione gli iB del paziente, Ottenendo effetti
comportamentali, cognitivi, emotivi. Oltre alle tecniche propriamente cognitive, Ellis prese a
utilizzare tecniche comportamentali, soprattutto “compiti a casa” che il paziente doveva
svolgere tra una seduta e l’altra. “Questi compiti sono dati allo scopo di aiutare il cliente a
prendere rischi, effettuare nuove esperienze, interrompere abitudini disfunzionali e cambiare le
proprie filosofie a proposito di certe attività”.

Non bisogna dimenticare che questi approcci cognitivisti emersero di pari passo al radicamento
di una nuova disciplina, o meglio di un nuovo indirizzo multidisciplinare di studio della natura
umana fondato su un'analogia mente/computer: la cosiddetta scienza cognitiva. Secondo Coen-
Cole, La nascita della scienza cognitiva come fondamento di una nuova psicologia scientifica,
scaturiva in realtà dall'esigenza di modellizzare il comportamentismo per offrire ai liberi alla
americani accattivanti strumenti di intervento psicoeducativo.

La multidiscinarità, l’autonomia, la razionalità, la creatività, l’attenzione per la scienza e la


democrazia divennero i valori difesi dai pionieri del cognitivismo, che si poteva così
identificare con un più ampio progetto progressista che avrebbe influenzato quella generazione
di baby boomers che avrebbe poi formato la nuova sinistra radicale.
MARCUSE E FROMM NEGLI ANNI SESSANTA

Come gli psicoanalisti ebrei, tutti gli esponenti della Scuola di Francoforte erano stati costretti
all’esilio prima della Seconda guerra mondiale. L’Istituto per la ricerca sociali si era in pratica
trasferito negli USA. I Francofortesi criticavano le fondamenta istituzionali della società
capitalistica, gli effetti dell’alienazione nella nuova società tecnologica, i rapporti di potere
nella società contemporanea a cominciare da quelli in seno alla famiglia. In effetti la famiglia
costituì negli anni 60 una delle istituzioni tradizionali più criticate, oltre ad essere uno specifico
focus di intervento della psicoterapia.

Horkheimer e Adorno furono molto letti già negli anni 50. Adorno utilizzò la teoria freudiana
per il suo costrutto teorico di personalità autoritaria, che avrebbe spiegato e reso misurabile la
tendenza a seguire o almeno ad accettare leader autoritari. Marcuse e Fromm risultarono
particolarmente influenti negli anni 60, proponendo in pratica una visione della psicoanalisi
come strumento di liberazione collettiva. La strada di Fromm si era da tempo divisa da quella
degli altri studiosi di origine francofortese.

Fromm ricevette molte critiche dall’interno del movimento degli anni Sessanta e Settanta; le sue
idee venivano giudicate da molti come vaghe e superficiali e lui stesso etichettato come un
conformista. Il moralismo presente nei volumi di Fromm era inoltre mal tollerato, così come
veniva stigmatizzato l'abbandono delle idee forti della metapsicologia freudiana.

Lo stesso Marcuse fu uno dei più aspri critici di Fromm, utilizzando le idee di Freud in
modo più radicale, per costruirci sopra una prospettiva teorica che influenzò decisamente la
“rivoluzione” degli anni 60. I suoi due volumi Eros e civiltà e L’uomo a una dimensione
furono dei veri e propri manifesti di quel decennio. Per Marcuse, ma anche per Fromm, la
società capitalistica produceva la nevrosi e costringeva l’essere umano ad un adattamento
innaturale e alienante.

Fromm considerava la creatività e la produttività come delle vie di uscita dalla nevrosi e
riteneva ancora possibile aprire spazi di autonomia, anticonformismo e cooperazione tra gli
individui. Marcuse affermava che il lavoro non avrebbe comunque mai emancipato il
lavoratore dalla sua alienazione. La ancora di salvezza per l'uomo diventa la libido; l'eros
avrebbe costruito l'unica possibilità di resistere all'adattamento. Nell'orizzonte Marcusiano non
esisteva neanche possibilità di essere produttivi senza ricadere nei meccanismi capitalistici di
espropriazione della libertà individuale e di alienazione delle coscienze.

Anche la società tecnologica era intimamente alienante in quanto modificava il rapporto uomo-
natura. In questa concezione il lavoro non salvava e non redimeva a nessuna condizione: la
società costringeva ineluttabilmente le pulsioni a un adattamento patologico. Questa posizione
implicava una critica all’idea freudiana della priorità del principio di realtà su quello di piacere:
nella società capitalista il principio di prestazione si sarebbe sostituito al principio di realtà.
Questa analisi portò Marcuse ad allontanarsi anche dai marxisti e ad abbracciare una
concezione dell'uomo che privilegiava il principio di piacere e le pulsioni di vita. Marcuse
valorizzava anche la sessualità pregenitale, come espressione gioiosa è soddisfacente della vita,
contrapponendola a una sessualità genitale, che considerava invece frutto di un compromesso
sociale. Tali conclusioni fecero di Marcuse uno dei principali teorici dell'idea di liberazione
delle soggettività che si affermò soprattutto in Occidente dalla seconda metà degli anni 60.

Lo slogan del 68 “l'immaginazione al potere” era riconducibile alla filosofia Marcusiana, che
poneva al centro della sua speculazione le potenzialità delle pulsioni di vita. Ispirandosi alle
tradizioni socialiste pre-marxiste e anarchiche anche Marcuse poteva così immaginare un
mondo di essere anticonformista mediante la creatività. In l'uomo a una dimensione, Marcuse
analizzò i meccanismi mediante i quali la società tecnologica manipolava e adattava i bisogni
individuali al fine di mantenere e preservare il potere.

Ne emergeva una visione tragica dell'uomo contemporaneo, costretta a vivere in modo


predeterminato e consumista all'interno di una rete di relazioni sociali falsamente libera e
cementate da un patto sociale che in realtà era radicato su istanze ingegnosamente totalitarie e
repressive.

Nella visione Marcusiana Le classiche dovevano promuovere la rivoluzione della società a lui
contemporanea non erano più le masse operaie di fine 800, ma gli emarginati, gli studenti, gli
intellettuali una sorta di quinto stato: il comunitariato che iniziava a emergere nelle società
occidentali proprio sul finire degli anni 60.

La critica Marcusiana costituiva così un monito per la psicoterapia e la psicoanalisi,


confrontandole con i limiti che derivano dall'idea che l'intervento clinico fosse una mera
tecnica di aggiustamento passivo dell'individuo alle esigenze della società; Marcuse sollecitava
la psicoanalisi ad essere strumento attivo di liberazione e trasformazione.

Fromm e Marcuse sono stati coloro che più di altri hanno influenzato il mondo della
psicoterapia fra gli anni 60 e 70, favorendo la creazione di modelli di cura della mente
alternativi a quelli che tradizionalmente si ispiravano al modello di relazione medico-paziente.
Le istanze egualitarie e liberatrici furono rielaborate dal movimento psicoterapeutico
internazionale divennero anche la base per nuove esperienze nel magico decennio degli anni
60.

DALLA COSCIENZA DEL GRUPPO COME CONTESTO ALL’AFFERMAZIONE DEL


GRUPPO COME TERAPIA
Nelle tempere degli anni 60, i governi liberali hanno dovuto affrontare una profonda crisi
istituzionale, un cambiamento reclamato a gran voce da movimenti, organizzazioni politiche,
studenti, operai intellettuali che aspiravano a lasciarsi alle spalle il totalitarismo e l'autoritarismo
del periodo prebellico e costruire una società democratica. Tale crisi si radicò in momento di
boom economico e consumistico senza precedenti nella storia dell’umanità. Anche paesi
relativamente arretrati come l'Italia iniziarono a dotarsi di un tessuto produttivo e di un apparato
infrastrutturale capace di rispondere alle esigenze della società di massa.

Il bisogno di emancipazione, la necessità di trasformare la felicità in un diritto concreto, spinsero


anche la psicologia a divenire uno strumento in grado di migliorare lo stato mentale dei singoli.
La crisi del manicomio e la sua sostituzione con nuove terapie sociali e comunitarie fu uno dei
terreni della crisi degli anni 60 che condussero a modificare il rapporto psicoterapeutico, che da
individuale tradizionalmente plasmato sulle categorie della clinica medica finalmente si diffuse
anche come gruppale e familiare.

Sebbene le prime esperienze di gruppo fossero addirittura antecedenti alla seconda guerra
mondiale, lo studio delle dinamiche dei piccoli gruppi ebbe la sua consacrazione solo dopo il
conflitto. Fin dagli anni Venti e Trenta, Trigant Burrow e altri avevano inaugurato l’uso del
gruppo terapeutico, sia pure con modalità ancora molto ingenue, paternalistiche e di sostegno,
eccezion fatta per le precoci intuizioni di Jacob Levi Moreno.

Parallelamente, nel campo della psicologia del lavoro, Elton Mayo aveva ampliamente
dimostrato come le relazioni gruppali influenzassero la produttività industriale più delle
direttive imposte dalla dirigenza. In seguito, lo studio dei fenomeni gruppali dovette molto allo
psicologo sociale gestaltista Kurt Lewin, ma sul finire degli anni 50, un altro psicologo sociale
gestaltista, Salomon Asch, dimostrò con una serie di esperimenti cruciali che le persone per
adeguarsi ai membri di un piccolo gruppo, potevano cambiare il proprio giudizio e rispondere
in modo palesemente errato.

Lo stesso Asch riconoscevo un debito anche nei confronti della cultura ipno-suggestiva che gli
aveva suggerito l'ipotesi che l’individuo potesse essere influenzato e illuso dalle circostanze.
Tali esperimenti contribuirono fortemente ad attirare l’interesse sulla psicologia del gruppo,
che divenne oggetto di crescenti interessi clinici e di ricerca. In psicologia i riflettori non erano
più puntati sulle responsabilità individuali, ma su quelle contestuali, che sembravano essere
fondamentali per comprendere anche le dinamiche interne del singolo.

Fino agli anni Sessanta il gruppo venne utilizzato sia come situazione particolare di setting per
la formazione, sia come strumento terapeutico di per sé, ma la distinzione teorica venne
operata a posteriori e presumibilmente in origine non era del tutto chiara neanche i
protagonisti, che pure iniziarono a costruire un vero e proprio movimento. Parallelamente al
consolidamento della psicoterapia gruppale in ambiente anglosassone, un forte movimento per
la diffusione dello psicodramma si sviluppò in Francia, ad opera di Mireille Monod.
Monod aveva utilizzato per la prima volta lo psicodramma presso il Centro psicopedagogico
dell’Università di Parigi. Tra i primi animatori vi era Didier Anzieu. Nello stesso anno Serge
Lebovici utilizzava la psicoterapia di gruppo in un reparto parigino di neuropsichiatria
infantile: Lebovici aveva deciso di utilizzare il metodo per ragioni pratiche, dato il numero
elevato di ragazzi da trattare e il ristretto numero di terapeuti. Il contatto tra i due gruppi dette
origine all'Ecole Francaise de Psychodrame, che dunque fu marcata in origine dall'applicazione
dello psicodramma soprattutto in età evolutiva.

Il risultato fu l'affiancamento delle tecniche interpretative della psicoanalisi alle tecniche


catartiche dello psicodramma; l'approccio analitico individuale e quello drammatico gruppale si
erano visti come complementari piuttosto che mutuamente escludentisi. Nello psicodramma
analitico con i bambini, il gioco psicodrammatico prendesse il posto che aveva il gioco di
finzione nella tecnica kleiniana, con la differenza che la parte interpretativa seguiva la parte
ludica come un momento nettamente separato.

Moreno non si dimostrò particolarmente incline a riconoscere una vera originalità al gruppo
francese, affermando da una parte che i primi esperimenti di psicodramma analitico li aveva
compiuti lui stesso fin dal 1944, dall'altra che si trattava di una delle tante variabili di
psicoterapia aventi la medesima radice: esistevano psicodrammatisti analitici, come anche
psicoterapeuti analitici di gruppo.

Tuttavia non si manco di mettere in evidenza che, se da un lato lo strumento dello


psicodramma presentava una grande importanza, la semplice “pedagogia dell’improvvisazione
psicodrammatica” non sarebbe bastata a interpretare il significato delle relazioni
interindividuali e intragruppali messe sulla scena. Se Anzieu orientava le interpretazione al qui
e ora del gioco ed evitava la dimensione genetica, Lebovici e collaboratori finivano per
mettere in secondo piano la maggior parte delle idee di Moreno sulla tecnica terapeutica, a
partire dai concetti di spontaneità, creatività e di catarsi, per salvare solo valore comunicativo
del gioco psicodrammatico.

In Francia si avviò anche il movimento della psicoterapia istituzionale che dovette molto a
Francesc Tosquelles Llaurado, psichiatra spagnolo di simpatie anarco sindacaliste repubblicane
che nella clinica psichiatrica di Saint-Alban-sur-Limagnole aveva sviluppato una forma di
psicoterapia istituzionale e di socioterapia che influenzò poi tutta una generazione di psichiatri
radicali francesi attivi in seguito fra cui occorre ricordare in primo luogo Frantz Fanon, Jean
Oury e poi Félix Guattari; questi ultimi fondarono la clinica di La Borde in cui vennero
applicate forme di psicoterapia istituzionale e sociale, come la schizoanalisi, che divennero
negli anni 60 sempre più impegnati in una riforma radicale della psichiatria che potesse
diffondersi al di fuori delle istituzioni psichiatriche.

Le terapie istituzionali e gli approcci psicosociali, in combinazione con le teorie


psicodinamiche dei piccoli gruppi diedero inoltre vita alla psicosociologia, che fu un esempio
paradigmatico di scienza applicativa e militante, nata dai nuovi modelli psicoterapeutici con
l’obiettivo del rinnovamento della società nel suo insieme. La psicosociologia francese fu uno
degli esempi che è meglio descrivevano la variegata cultura del movimento del 68 e il nuovo
atteggiamento politico, che soprattutto in quel paese vi regolavo un'idea sociale anche della
psicoanalisi.

Negli anni 60 la psicosociologia venne così considerata nel cuore dell’Europa come uno
strumento di liberazione, di autogestione, di riforma dal basso, libertaria e autoritaria delle
istituzioni. Questo approccio si incagliò fra le maglie della reazione conservatrice che avanzò
nella psicoanalisi del decennio successivo e nella cultura del riflusso nel privato.

LA NASCITA DELL’ANTIPSICHIATRIA

Il movimento antipsichiatrico si affermò in questo decennio dopo la creazione delle comunità


psicoterapeutiche, ovvero dei luoghi di cura nei quali i ruoli dei terapeuti e quelli dei pazienti
risultavano molto più sfumate rispetto alle istituzioni totali costituite dai manicomi, n e l l e
q u a l i a l c o n t r a r i o chi veniva curato era sostanzialmente un detenuto. La prima comunità
terapeutica fu fondata già nel 1952 da Maxwell Jones, gli esperimenti antipsichiatrici veri e
propri risalgono agli anni 60. Nel 1962 venne creata villa 21 da David Cooper. Nel 1965
nacque invece la struttura destinata alla maggiore notorietà: Kingsley Hall.

Ottenendo importanti successi nel trattamento dei pazienti psichiatrici, le comunità


terapeutiche sono state in seguito utilizzate anche per la gestione della devianza e della
tossicodipendenza. Le comunità terapeutiche promosse dagli psichiatri radicali come Laing e
Cooper furono caratterizzate dal tentativo di porre sullo stesso piano il paziente, il medico, lo
psicologo e il personale infermieristico agendo con la di organizzazione delle strutture sanitarie
con la promozione di incontri aperti a tutto il personale, eliminando i metodi coercitivi,
responsabilizzando i pazienti restituendogli la libertà.

Questa cultura si faceva portatrice di una profonda rottura epistemologica con la psichiatria
classica: si proponeva di smantellare tutto ciò che rappresentava ai suoi occhi il vecchio
positivismo. A villa 21 fino al 1966 e a Kingsley Hall fino al 1970 si curavano le psicosi senza
farmaci mediante pratiche psicoterapeutiche innovative e assai liberali nella convinzione che le
malattie mentali fossero il prodotto di relazioni familiari mistificanti, contraddittorie e
autoritarie a cui si tentava di contrapporre un ambiente totalmente diverso.

Kingsley Hall era un luogo aperto, auto-organizzato e auto-finanziato. L'esperienza in seguito


ha ricevuto molte critiche, sia degli storici della psichiatria, sia dagli psichiatri tradizionali che
lo hanno considerato un tentativo assai confuso. Nondimeno l’Inghilterra nella seconda metà
degli anni Sessanta si poneva alla testa di un movimento giovanile di riforma delle istituzioni
che era a un tempo anti- autoritario ed egualitario, liberale e progressista.

Nel 1966 Laing e Cooper fondarono la Philadelphia Association per promuovere terapie
psichiatriche alternative a quelle tradizionali e repressive. Memorabile fu il Congresso
internazionale diaelectis of Liberation tenutosi nel 1967 a Londra, a cui parteciparono i
massimi esponenti del movimento antipsichiatrico inglese e che ebbe l'obiettivo di dettare la
linea internazionale di tutti quei movimenti di riforma psichiatrica che prendevano le mosse
dalle culture politiche libertarie e radicali.

Winship ha recentemente tentato la ricostruzione storiografica delle idee che agirono sulla
psichiatria radicale, individuandone una fonte diretta e indiretta nella scuola di Francoforte. La
lettura di Fromm e Marcuse ispirò certamente almeno i creatori delle comunità terapeutiche
statunitensi. In Inghilterra, le idee dell'istituto per la ricerca sociale arrivarono soprattutto
attraverso la mediazione di personaggi come lo stesso inventore della gruppoanalisi Foulkes e
come Karl Mannheim.

In questa storia complessa Ronald Laing ha rappresentato una sorta di sintesi delle
caratteristiche del movimento. Laing si formò sulla psichiatria fenomenologica, nella quale
integrò precocemente la psicoanalisi delle relazioni oggettuali, dopo essere stato psichiatra
militare ed essere entrato a lavorare presso la Tavistock Clinic di Londra. Laing notava delle
profonde incongruenze fra le teorie relazionali della psicoanalisi e l’atteggiamento clinico dello
psicoanalista che soprattutto agiva in modo astratto, distaccato e neutrale, atteggiamenti che
con i pazienti più vulnerabili potevano essere patogenetici.

Si avvicinò dunque alle teorie sistemico-relazionali di Bateson. Laing analizzò nei suoi scritti
temi fondamentali dell'esperienza psicotica come l’insicurezza relazionale, i doppi legami, le
collusioni, le mistificazioni, le nessificazioni che solo apparentemente erano prive di senso.
Ogni essere umano era per Laing totalmente assorbito dalle relazioni: reagiva e controreagiva
al suo mondo relazionale.

Lo psicotico soffriva di una “insicurezza relazionale primaria” che lo rendeva particolarmente


suscettibile ai contesti trascuranti. Tali dinamiche avrebbero prodotto angosce in grado di
dividere l’Io secondo meccanismi di risucchio, implosione, pietrificazione; infine creando un
sistema di “Falso Io”. Laing non rifiutava semplicemente la psicoterapia, ma sottoponeva a
critica agli interventi a lui contemporanei. A partire da questo contesto egli divenne uno dei
pionieri delle comunità terapeutiche come luoghi di decostruzione radicale delle prassi
psichiatriche.

Le esperienze antipsichiatriche inglesi erano in linea con un quadro culturale che radicalizzava
e politicizzava le teorie relazionali che dagli anni Cinquanta iniziavano a diffondersi. In tal
senso, si può sintetizzare con carretti che la proposta lainghiana consistesse in una psicoterapia
basata su principi relazionali, veicolata da un contesto di regole nuove e diverse da quelle
repressive della società o della famiglia. Il vero elemento rivoluzionario della terapia era
comunque l'idea che i nuovi azioni, accoglienti e amorevoli, costituissero il motore principale
della reintegrazione del paziente
LA PSICHIATRIA ANTI-ISTITUZIONALE ITALIANA
E LA CHIUSURA DEI MANICOMI

Come è stato evidenziato da Foot, gli psichiatri radicali italiani, principali sostenitori negli anni
Sessanta della de-istituzionalizzazione dei pazienti psichiatrici, guardarono con interesse
all'antipsichiatria anglosassone, soprattutto per quanto concerneva l'uso di strumenti come il
gruppo e la comunità terapeutica; leggevano però anche i Francofortesi. Tuttavia la loro cultura
di riferimento era per molti aspetti diversa e tale discontinuità determinò profonde conseguenze
sulla loro teoria.

In sintesi, si potrebbe affermare che il movimento italiano, se si contrappose in maniera forse


meno radicale alla psichiatria tradizionale, risultò anche meno velleitario ed estemporaneo di
quello anglosassone nelle sue proposte. Gli psichiatri radicali italiani furono anzitutto
profondamente influenzati, nel periodo che seguì la Seconda guerra mondiale, dalla psichiatria
fenomenologica e dalla Daseinsanalyse.

Sergio Piro (1927-2009), uno degli psichiatri radicali italiani più noti, ha ben sottolineato che la
psichiatria fenomenologica

“[...] ha messo sotto critica fondamentalmente l'asserzione positivistica che la sofferenza umana
fosse un "disturbo di natura", nella sua riduzione organicistica. “

La stessa biografia di Franco Basaglia (1924-1980) è indicativa dell'importanza che rivestiva la


psichiatria fenomenologica nella formazione di questa generazione di psichiatri. Ancora in
formazione Basaglia dedicò alcuni articoli scientifici sia all'uso dei test psicologici a scopo
diagnostico di David Rapaport, sia all'approccio della Daseinsanalyse. L'approccio
fenomenologico-esistenziale europeo condivideva alcuni presupposti con la psicoterapia
esistenzialista e umanista americana.

L'idea di incontro con la persona al di là del pregiudizio descrittivo-diagnostico, la profonda


empatia che legava il terapeuta alla persona che aveva necessità di aiuto e la critica agli approcci
naturalistici in psicoterapia unificavano i rappresentanti americani ed europei della terapia
esistenziale. Il metodo fenomenologico applicato in psichiatria o in psicologia clinica significava
appunto porsi di fronte alla persona mettendo tra parentesi ogni pregiudizio teorico o clinico-
diagnostico, al fine di ribaltare la relazione classica medico-paziente e comprendere la realtà
psichica del paziente.

Tuttavia gli americani si ponevano un obiettivo clinico che era soprattutto quello dell'auto-
realizzazione delle potenzialità del soggetto sofferente con l'aiuto empatico del terapeuta. Sul
versante della psichiatria fenomenologico-esistenziale europeo-continentale mancava una vera e
propria teoria del cambiamento, che probabilmente veniva considerata come una ricaduta nel
naturalismo. da Binswanger in avanti, gli psichiatri fenomenologi affiancarono comunque,
all'analisi esistenziale, i metodi fisico-chimici della psichiatria medica, scindendo così il piano
teorico da quello pratico; l'approccio della Daseinsanalyse combatteva cioè il riduzionismo
naturalistico, ma non eliminava tout court la biologia.

La matrice fenomenologico-esistenziale spinse gli psichiatri radicali italiani a rimanere tiepidi


verso coloro che pensavano che la malattia mentale e la psichiatria rappresentassero un mito.
L'azione del gruppo guidato da Basaglia non trascurava certo l'umanità del paziente e della sua
mente, che non veniva più reificata, cioè ridotta a oggetto come accadeva negli approcci
terapeutici più tradizionali.

La sua radicalità si produsse tuttavia fondamentalmente su un piano di critica alle istituzioni.


Altre influenze spingevano infatti il gruppo in questa direzione. L'analisi sociologica di Erving
Goffman, riguardante l'organizzazione del potere medico e le prassi autoritarie nel manicomio;
la psichiatria fortemente connotata in senso politico di Frantz Fanon; le analisi di Michel
Foucault sulla storia sociale della psichiatria: tutti furono ulteriori fondamentali pilastri teorici
della psichiatria radicale italiana. Il movimento partì dall'iniziativa di un piccolo gruppo di
giovani radicali del mondo "psi", in manicomi della provincia italiana, in qualche caso aiutati da
illuminati politici locali.

Le radici teoriche del loro nuovo modo di procedere e soprattutto il ribaltamento del rapporto
con il paziente, che finalmente veniva umanizzato, li portava a una prassi anti-istituzionale che
per alcuni si spinse fino a un vero e proprio rifiuto della diagnosi e della clinica psichiatrica;
mentre per la maggioranza significava soprattutto rigettare l'organizzazione autoritaria del
manicomio e le tradizionali attività di cura che in esso si svolgevano, per aprire il manicomio
stesso, mettere al centro il paziente e divulgare nuove terapie.

Anziché tentativi isolati e limitati nel tempo, la nuova psichiatria italiana costruì un'ampia rete di
nuove istituzioni autenticamente terapeutiche, in grado di stabilire contatti con i rispettivi
territori. Il movimento anti-istituzionale italiano si espanse negli anni Settanta, con il sostegno
decisivo di politici, psicologi, attivisti, artisti, intellettuali ed ex-degenti.

Infine, il movimento riuscì a far approvare una fondamentale legge di riforma degli ospedali
psichiatrici (Legge 180/1978 o legge Basaglia), integrata poi nella riforma del sistema sanitario
nazionale italiano (Legge 833/1978), che di fatto chiudeva la vecchia istituzione totale e
promuoveva la creazione di comunità terapeutiche, favorendo il radicamento di approcci
alternativi a quelli meramente farmacologici.

La legge di riforma degli ospedali psichiatrici del 1978 rappresentò un passo in avanti della
società italiana e un esempio anche per il contesto internazionale. Le terapie alternative
entrarono negli anni Sessanta prepotentemente nella psichiatria internazionale e innescarono
dappertutto la crisi delle vecchie strutture manicomiali che poco a poco furono abbandonate e
sostituite da strutture improntate a una differente concezione dell'intervento psichiatrico. Il
processo di de-istituzionalizzazione della psicopatologia, affermatosi precocemente in Italia ha
così influenzato il resto del mondo.

LA PSICOTERAPIA FAMILIARE NEGLI ANNI SESSANTA

Anche la terapia familiare si radicò nel decennio successivo. Va notato che, da una parte, la
psicoterapia familiare sistemica di Bateson non si era sviluppata né per gemmazione, né per
reazione alla psicoanalisi; tuttavia, molti dei terapeuti familiari attivi a partire dagli anni
Sessanta furono psicoanalisti. Negli anni Sessanta la psicoterapia familiare cominciò a
differenziarsi chiaramente in approcci diversi: oltre alla scuola sistemica fondata da Bateson,
rivestirono una particolare importanza la scuola strategica e quella strutturale.
Comuni alle diverse impostazioni rimasero la convinzione che la patologia del singolo fosse da
attribuire al sistema familiare e che solo un intervento a carico dell'intero sistema familiare
potesse risultare terapeuticamente efficace. Diverse risultavano però le modellizzazioni del
funzionamento della famiglia, vista da Bateson come un insieme fluido, per quanto unitario; e
dalla scuola strategica come un gruppo organizzato in modo gerarchicamente preciso, secondo
regole prescrittive del comportamento dei membri, tendente inoltre all'omeostasi, cioè alla
conservazione della stabilità dell'insieme attraverso la stabilità dei rapporti tra i singoli.

Erickson era stato chiamato a collaborare per alcune ricerche sulla trance ipnotica in uso in
alcune popolazioni di Bali. Haley rimase affascinato dall'ipnoterapia e dalle tecniche
comunicative con i pazienti sviluppate da Erickson, giungendo infine a integrare l'approccio
ericksoniano nella cornice familiare e di coppia che il gruppo di Palo Alto stava in quegli anni
sviluppando. Quando Haley e Jackson delinearono la loro psicoterapia breve si ispirarono così
all'ipnoterapia ericksoniana.

Questo approccio fu definito strategico in quanto si adeguava di volta in volta alla personalità
del paziente e interveniva con consegne pensate su misura. Il punto di partenza dell'approccio
strategico era l'idea che la psicoanalisi era stata passivizzante e aveva sbagliato nel considerare
manipolatorie tutte le terapie precedenti. Haley era particolarmente convinto del fatto che le
ipnoterapie avessero un punto di forza: la ricerca attiva di soluzioni per risolvere i problemi dei
pazienti.

Erickson aveva enormemente articolato il rapporto ipnosuggestivo con interazioni comunicative


e già lavorava con le famiglie. Egli tentava di condurre i pazienti a cambiare il loro
comportamento attraverso strategie paradossali.

Nell'ipnosi ericksoniana erano comunicati due messaggi contraddittori: "fai come ti ordino" e
nello stesso tempo "comportati spontaneamente e non fare ciò che ti ordino". Classicamente
l'ipnotista chiedeva alla persona di concentrare l'attenzione volontariamente , poi la spingeva a
manifestare comportamenti. La trance nasceva così come compromesso fra messaggi difficili da
integrare.

Anche i sintomi si sarebbero potuti risolvere con tecniche che usavano vere e proprie strategie
contraddittorie per aggirare quelle componenti sia volontarie sia involontarie della personalità
che li mantenevano in esistenza. Sollecitare le resistenze; spingere il paziente a cambiare
comportamento di fronte ad alternative peggiori; utilizzare comunicazioni metaforiche;
incoraggiare le ricadute; frustrare i pazienti per indirizzarli al cambiamento; usare lo spazio e la
postura durante la terapia; promuovere gli aspetti positivi dei sintomi; suggerire delle idee;
amplificare il sintomo; sollecitare lo scambio di comunicazioni fra membri di una famiglia; far
risvegliare il paziente spingendolo a non investire più nei sintomi; infine un chiaro rifiuto
dell'interpretazione e della ricerca dei motivi profondi della psicopatologia.

La parola d'ordine era evitare l'introspezione. L'obiettivo era fornire direttive che causavano
cambiamenti di comportamento e arricchimento delle comunicazioni, ma senza attingere
all'inconscio. Erickson infrangeva tutti í dogmi delle psicoterapie psicoanalitiche, recuperando
quelle strategie terapeutiche pre-psicoanalitiche che non interpretavano le relazioni ma le
agivano. Haley fu colui che inaugurò quest'approccio, finalizzandolo alla soluzione di problemi
specifici in un periodo di tempo più breve rispetto alle altre psicoterapie in uso fino agli anni
Cinquanta.
Si pose in diretta polemica con la pratica della psicoanalisi ortodossa, di cui evidenziava le
dinamiche di potere sul paziente, la dispendiosità e la lungaggine del trattamento. In questo
senso, al contrario di quanto avveniva nella classica situazione clinica individuale della
psicoanalisi, í terapeuti intervenivano attivamente nelle dinamiche relazionali della famiglia e
analizzavano le interazioni e le comunicazioni fra i suoi membri anche mediante lo specchio
unidirezionale. Questo utilizzo sistematico delle tecnologie, delle tecniche e degli strumenti fu
tipico degli approcci familiari.

Nella tradizione familiarista furono sviluppate ulteriori tecniche che intervenivano


principalmente a partire dall'analisi delle comunicazioni. Le differenti comunicazioni fra i
membri della famiglia erano categorizzate in complementari o simmetriche. Potevano essere
armoniche e sane oppure condizionate da doppi legami," svalutazioni, disconferme dell'altro
nella relazione e quindi portare a seri disturbi della comunicazione. Interessante era soprattutto
l'analisi delle escalation simmetriche in cui i membri della famigliamostravano di competere
fino al litigio patologico e distruttivo.

Già nel paragrafo finale del testo originario di Bateson, Jackson, Haley, Weakland si indicava,
nell'uso del doppio legame terapeutico, una tecnica comunicativa tipica della terapia familiare
sistemica. Nel decennio successivo Mara Selvini Palazzolin e la Scuola di Milano,' modificando
il setting psicoanalitico con l'uso sistematico di tecniche di gioco, di rituali e prescrizione di
comportamenti, teorizzò che il sintomo avesse una connotazione positiva, che comportava la
possibilità di disposizioni controintuitive.

Trascurando i fenomeni legati al transfert, i terapeuti strategici si proponevano in generale di


instaurare un rapporto di fiducia con i membri della famiglia, onde attuare delle azioni di
controllo in grado di sciogliere l' omeostasi patologica e di pervenire a nuovi equilibri
maggiormente adattivi. La terapia strategica è stata direttiva e ha costituito il prototipo delle
tante successive psicoterapie che hanno sviluppato delle tecniche passe-partout e interventiste.

Molti psichiatri aderirono al punto di vista della terapia familiare, preferendola alle terapie
individualiste di derivazione psicoanalitica e considerandola una valida alternativa ai dispositivi
di cura tradizionali. La psicoterapia familiare si prestava infatti a interventi che avevano anche
dei risvolti morali e politici. Paradossalmente, poteva essere utilizzata per fini conservatori e
finalizzati al mantenimento dello status quo e dei ruoli su cui era fondata la famiglia
tradizionale; oppure per proporre interventi innovativi e radicali.

L'esempio forse più tipico di questa seconda tendenza è rappresentato da Salvador Minuchin,
che elaborò un approccio psicoterapeutico pragmatico finalizzato a raggiungere e migliorare la
situazione di famiglie multiproblematiche ed emarginate, noto come modello strutturale.
L'aggettivo strutturale rimarcava come Minuchin si focalizzasse non tanto sul sintomo, quanto
sulla struttura della famiglia; mentre gli interventi si concentravano sul qui e ora della seduta.
Minuchin elaborò il proprio modello a partire dal suo lavoro con i bambini e le famiglie afro-
americane svantaggiate della Wiltwyck School.

Inizialmente la sua era una terapia con una forte connotazione politica, che considerava membri
di classi povere ed emarginate. Minuchin, con lo studio di pazienti psicosomatici, dimostrò la
profonda influenza sul sintomo delle regole familiari che si strutturavano in sistemi di relazioni
fra i membri. Nel modello teorico di Minuchin, le relazioni familiari potevano essere
caratterizzate da:

- invischiamento, allorché le varie strutture della famiglia si confondevano le une con le altre, un
membro era intercambiabile

- Oerprotettività, quando le famiglie risultavano eccessivamente interessate al benessere dei loro


membri;

- rigidità, caratteristica delle famiglie che non rendevano possibile alcun cambiamento anche
quando necessario;

- evitamento dei conflitti, tipico delle famiglie che negavano l'esistenza di difficoltà,
mantenendo un livello basso di conflitto e investendo in relazioni finalizzate alla difesa del
consenso e dell'armonia

Minuchin agiva su caratteristiche delle strutture familiari raggruppate per sesso, età, interessi,
funzioni, o sui sottosistemi coppia, genitori, figli, nonni ecc. Individuava le regole latenti delle
strutture familiari e tentava di entrare nel sistema. Il terapeuta era un catalizzatore di
cambiamento della famiglia: ne alterava i rapporti di potere, le gerarchie, lavorando con la
rigidità dei confini o l'invischiamento dei sottosistemi. Ancor più del terapeuta sistemico e
strategico, il terapeuta strutturale concepito da Minuchin risultava direttivo.

Minuchin usava in vario modo i sottosistemi familiari, si alleava con parte della famiglia,
prescriveva posizioni particolari di alcuni membri durante la seduta. Era un terapeuta che
padroneggiava una tecnica artigianale e creativa con l'obiettivo di scompaginare l'assetto
patologico della famiglia alla ricerca di un nuovo adattamento funzionale che fosse però anche
duraturo.

PSICOTERAPIA, CATTOLICESIMO E LA FINE


DEL “NON EXPEDIT” PSICOANALITICO

Già Ellenberger evidenziò che le fasi di un esorcismo presentavano delle analogie con le fasi
della diagnosi e della terapia. Durante la confessione il sacerdote poteva andare alla ricerca
dell'evento traumatico o segreto che aveva causato il peccato. Il tema del rapporto tra counseling
pastorale e psicoterapia è così divenuto di un certo interesse anche per gli storici. In origine la
Chiesa cattolica ha avuto un atteggiamento nei confronti della psicoterapia caratterizzato da un
doppio binario. Da un punto di vista esplicito vi era il rifiuto dell'idea che il destino dell'uomo
fosse determinato dalle sue pulsioni psicologiche e di natura sessuale.

D'altro canto, tutte le teorie psicoterapeutiche e psicologiche venivano utilizzate per lo stretto
uso dei confessori, nella convinzione che i confessori avrebbero potuto attrezzarsi per condurre
una vita psichica normale Agostino Gemelli è stata una figura paradigmatica per la storia della
psicologia e della psicoterapia nei suoi rapporti con la filosofia e la teologia. Gemelli aveva
progettato la pubblicazione di sette volumi in latino, a uso esclusivo del lavoro pastorale dei
confessori, dedicati alla discussione teologica dei problemi legati alla psicologia, alla
psicopatologia e alla sessualità.
Un ulteriore obiettivo di questi libri era quello di aiutare i giovani che sceglievano la vita
religiosa a regolare la propria sessualità e affettività e a gestirsi da un punto di vista medico e
dietetico. Dell'originario progetto di Gemelli, di sette volumi ne furono poi pubblicati solamente
due. Gemelli era un ricercatore aggiornato su soggetti eterodossi rispetto alla cultura cattolica.
Da questo punto di vista, egli mantenne un atteggiamento ambiguo nei confronti della
psicoanalisi.

Da un lato, accettava l'idea che l'individuo dovesse essere indagato in modo storico e dinamico,
d'altro canto, pensava che tutte le teorie psicologiche risultassero incompatibili con la teologia
cattolica perché intrinsecamente deterministe. Gemelli diffuse in Italia, nel secondo dopoguerra,
un approccio terapeutico che si ricollegava alla psicoterapia umanistica ed esistenziale. David
(1990) ha dimostrato che in Italia la Chiesa era tendenzialmente più dura verso la psicoanalisi di
quanto avvenisse in paesi più secolarizzati come la Francia.

Per la grande influenza politica e educativa che tradizionalmente il papato aveva esercitato, la
Chiesa era chiamata ad assumere posizioni etiche e atteggiamenti particolarmente censori
soprattutto in Italia. Invece, altrove, idee che sfidavano i dogmi tradizionali potevano essere
maggiormente tollerate. Nella prima metà del Novecento, per quanto riguarda la psicoanalisi si
era quindi diffuso in ambiente cattolico un atteggiamento che era caratterizzato o da una sorta
di distacco o dall'aperta ostilità. L'ateismo, il pansessualismo, il determinismo e
l'irresponsabilità dell'agire inconscio erano tutti aspetti di Freud che non si conciliavano con il
cattolicesimo.

La prassi psicoterapeutica poteva essere maggiormente tollerata; in tale ottica però risultavano
più congrue alla cultura cattolica le psicoterapie umanistiche e fenomeno logico-esistenziali.
L'ostracismo della Chiesa cattolica nei confronti della psicoanalisi si basava così su vari fattori
che sembravano minacciare l'integrità della dottrina della Chiesa. In particolare, l'idea di libero
arbitrio, quella di peccato e il sacramento della confessione erano messi in discussione da una
teoria dell'uomo che dichiarava come naturali tutte quelle istanze oscure che invece nella
Chiesa erano considerate meramente peccaminose.

Oltretutto la psicoanalisi sembrava puntare alla sostituzione del confessore con un tecnico-
scienziato della mente di impostazione laica. I giudizi peggiori furono espressi dai gesuiti, che
respingevano apertamente la dottrina psicoanalitica, accettandone solo una pratica limitata
perché comunque contenente dei pericoli per la morale.' Francesco M. Gaetani definiva la
psicoanalisi come "raccapricciante", opera di un "ebreo" che avrebbe giustificato
l'omosessualità.

Nel secondo dopoguerra, la voce autorevole di Gemelli esplicitava che la psicoanalisi era "una
malattia del nostro tempo. Come il comunismo, come altre forme che hanno ubriacato i
giovani".
Egli tuttavia manteneva un'ambivalenza che alla fine favorì paradossalmente una sorta di
sdoganamento della psicoanalisi in ambiente cattolico. È noto infatti che Gemelli intratteneva
rapporti ambigui ma cordiali con alcuni "nemici" psicoanalisti e che anzi indirettamente
incoraggiò una formazione psicoanalitica di alcuni suoi allievi.

Egli infatti, nel 1951, era stato nominato addirittura presidente onorario dei ripetuti congressi
organizzati dall'Association Internazionale de Psychothérapie et de Psychologie Clinique. Nel
1957 , Gemelli spinse l'allievo Ancona ad andare a studiare in Canada dallo psicologo e padre
domenicano Noél Mailloux, psicoana lista, fondatore del Dipartimento di psicologia
dell'Università di Montréal e promotore della Société Canadienne de Psychanalyse.

Soprattutto l'attività della convertita Choisy era di stimolo per un aperto appoggio della Chiesa
nei confronti della psicoanalisi. Il 16 aprile 1953, L'Osservatore Romano pubblicò un discorso
di Pio xii diretto ai partecipanti al v Congresso internazionale di psicoterapia e di psicologia
clinica. Il papa benediva i congressisti e sembrava legittimarli, tuttavia ribadiva i pericoli e le
responsabilità che a suo avviso assumevano gli psicoterapeuti durante la loro pratica. Un
esempio paradigmatico dell'ostilità della Chiesa cattolica nei confronti della psicoanalisi nel
secondo dopoguerra fu quello di monsignor Fulton J. Sheen che nel 1947 tenne un famoso
sermone antipsicoanalitico.

Sheen raggiunse decine di milioni di americani trattando temi psicoterapeutici e


contrapponendoli a quelli pastorali. L'uso passivizzante del divano e l'attitudine
decolpevolizzante della psicoanalisi furono oggetti di critica di Fulton Sheen, che lodava invece
l'intervento pastorale. Il disprezzo di Sheen era del tutto fondato sulle dinamiche della Guerra
fredda che per Sheen non teneva in considerazione le responsabilità individuali ma solo quelle
sociali. Il 16 luglio del 1961 il Sant'Uffizio pubblicò sull'Osservatore Romano addirittura un
Monitum contro la psicoanalisi, in cui si proibiva ai religiosi di occuparsi di psicoanalisi e se ne
vietava la pratica.

La psicoanalisi era messa all'indice perché ritenuta una pratica medica che i religiosi
semplicemente non dovevano intraprendere. Tale monito risultava però tardivo: ormai la
psicoanalisi aveva affascinato anche le coscienze dei cattolici. L'esperimento di psicoanalisi di
gruppo e individuale nel monastero messicano di Cuernavaca fu indicativo di questo
atteggiamento ondivago da parte cattolica; per l'esperimento di Cuernavaca il Vaticano mostrò
non soltanto un moto di condanna, ma anche un certo interesse.

Nel monastero benedettino di Santa Maria della Redenzione, padre Grégoire Lemercier iniziò
una psicoanalisi personale, collaborando inizialmente con Fromm; nel periodo seguente
Lemercier organizzò una sistematica analisi in convento, finalizzata a comprendere le
motivazioni che spingevano alla vita religiosa i confratelli, sia per mezzo del gruppo sia
attraverso la psicoterapia individuale. Nel 1966, di sessanta monaci analizzati, quaranta
lasciarono la vita religiosa. Nel monastero la psicoanalisi sortì anche l'effetto di modificare le
pratiche religiose introducendo, oltre alla preghiera, attività creative e artistiche. La Chiesa nei
confronti di Lemercier tenne un duplice atteggiamento, di condanna o di indulgenza. Lemercier
e gli altri monaci si opposero alla condanna e fondarono una comunità laica ed ecumenica.

Lemercier aveva però anche degli estimatori fra quei preti progressisti, per lo più vescovi e
cardinali, che vivevano lontano da Roma. Occorre quindi rimarcare che l'esperimento di
Cuernavaca divenne terreno di confronto fra cattolici conservatori e progressisti. Méndez Arceo
fu ispirato proprio dall'esperimento di Cuernavaca quando, nel corso del Concilio Vaticano II,
propose la psicoanalisi come motivo ispiratore della "quarta costituzione" Gaudium et Spes . La
Gaudium et Spes fu uno dei più importanti documenti del Concilio Vaticano II e segnò l'apertura
di un nuovo dialogo e confronto dei cattolici con il mondo laico e con le scienze dell'uomo come
la psicologia e la sociologia.

Dopo la morte di Agostino Gemelli, che dettava la linea della Chiesa riguardo alle scienze
psicologiche l'allievo Leonardo Ancona iniziò a lavorare sulla riconciliazione fra psicoanalisi e
cattolicesimo in un momento di progressiva rielaborazione e riavvicinamento della Chiesa alle
istanze provenienti dalla società. Ancona riuscì nel difficile intento di far accettare in ambiente
cattolico la psicoanalisi, pubblicando un libretto in cui si invitavano gli psichiatri e gli psicologi
cattolici ad accettare quanto c'era di prezioso nel lavoro di Freud. Un decennio dopo la
pubblicazione, il piccolo volume di Ancona ricevette l'apprezzamento ufficiale di Paolo vi che
fece appello proprio alla psicoanalisi e al libro di Ancona, per scendere al "centro della nostra
coscienza personale".

Egli già nell'enciclica Sacerdotalis coelibatus aveva ormai riconosciuto la centralità della
psicologia per comprendere le reali motivazioni e gli affetti che spingevano alla vocazione
sacerdotale. Dopo la deliberazione di Paolo vi, i cattolici si riavvicinarono alla psicoanalisi.
Bisogna infine anche rimarcare che la psicoanalisi ha trovato un accoglimento nella Chiesa
soprattutto quando ha cambiato la propria pelle e ha messo da parte la teoria della libido e della
sessualità in favore di una metapsicologia fondata sull'adattamento dell'Io, oppure sulla
psicologia delle relazioni oggettuali e su una developmental psychology in cui le pulsioni
sessuali divenivano secondarie a bisogni evolutivi.

Queste nuove teorie psicoanalitiche erano considerate più adatte alla dottrina della fede. Adler,
Jung, Binswanger, la psicoanalisi dell'Io, il lacanismo, la psicoanalisi delle relazioni oggettuali,
la psicoanalisi dei gruppi, la psicoanalisi winnicottiana, la psicoanalisi freudo-kleiniana di
Ignacio Matte Blanco e la psicoanalisi ermeneutica divennero tutti ambiti in cui le
compenetrazioni fra dottrina della fede e pratiche psicoterapeutiche erano maggiormente
praticabili rispetto alla psicoanalisi ortodossa.

Un fatto certo è che dopo le parole di Paolo vi molti cattolici si sono occupati attivamente di
psicoanalisi; è stato addirittura notato come i gesuiti in tempi recenti abbiano invece prodotto
delle elaborazioni che riavvicinano teologia e psicoanalisi soprattutto sul terreno pastorale e
della psicologia delle vocazioni. A prescindere dalla riconciliazione fra cattolicesimo e
psicoanalisi, gli anni Sessanta hanno anche significato la riscoperta di nuove forme di spiritualità
e la ricerca di una vita anticonformista e comunitaria.

In questo senso deve essere anche ricordato un esperimento che rivoluzionò la vita comunitaria
di alcune suore dell'ordine delle Missionarie del cuore di Maria in California, che dopo aver
fatto un'esperienza con gli Encounter Groups di Rogers modificarono completamente la loro
esistenza tanto da uscire dalla Chiesa e fondare una comunità laica.

SPIRITUALITÀ, PSICOTERAPIA E CONTROCULTURA

Le spinte che condussero alla fine del non expedit psicoanalitico nella Chiesa cattolica erano
sollecitate da un'intera generazione di giovani cattolici che sfidavano le coscienze più
conservatrici. D'altra parte anche all'interno della psicoterapia si erano aperte delle brecce che
minavano la teoria del determinismo e la centralità della sessualità; ormai le nuove forme di
psicoterapia si diffondevano velocemente. Molti baby boomers negli anni Sessanta si sono
avvicinati a concezioni etiche e religiose molto distanti da quelle della propria cultura di
appartenenza, andando anche alla scoperta di nuove religioni.

Nella storia della psicoterapia, Jung era stato forse l'unico ad aver già avuto un costante e
sistematico interesse per tradizioni religiose e culturali distanti dall'Occidente, tanto da poter
essere considerato un punto di riferimento per coloro che cercavano soluzioni al disagio mentale
differenti da quelle proposte dalle scienze "psi" positiviste. Egli aveva introdotto nella
psicoterapia tematiche provenienti da sistemi simbolici orientali. Come è noto, la "ricerca di
senso" e la "crisi" spirituale dei giovani degli anni Sessanta in qualche caso si radicalizzò,
sfociando verso la ricerca di forme di meditazione e di associazionismo del tutto orientaliste.

Negli anni Sessanta del Novecento c'è stato così un indubbio revival della ricerca di senso nelle
culture orientali induiste e buddhiste. Si ebbero anche tentativi di cercare analogie fra la pratica
psicoanalitica e l'illuminazione delle religioni orientali. Altri proponevano una fuga in avanti che
andava oltre la meditazione. Vennero così promosse psicoterapie abbinate, sotto supervisione,
all'uso di allucinogeni e alla terapia di gruppo.

Più prosaicamente, dalla crisi spirituale degli anni Sessanta fiorirono le pratiche più varie di
rilassamento e meditazione, derivate dalle tradizioni religiose e filosofiche indiana e buddhista,
che assunsero i contorni di una sorta di visione del mondo. Si è assistito quindi a una crescente
tendenza verso l'orientalismo che a partire dall'importazione di religioni, teorie e pratiche
meditative, ha condotto negli ultimi anni all'ibridazione fra teorie e pratiche orientali e
occidentali.

Il principale luogo di sperimentazione e di ibridazione fra differenti culture fu ed è senza dubbio


l'Esalen Institute, a sud di San Francisco fondato da Michael Murphy e Dick Price nel 1962.
Moltissimi intellettuali, artisti, psicologi, filosofi, letterati e scienziati parteciparono alla vita
dell'Istituto. Da qui si diffuse il cosiddetto movimento del potenziale umano. Collaborarono con
l'Esalen Institute, tra i molti, Perls, Simkin, Maslow, Bateson, Satir, Timothy Leary; vi si
sperimentarono anche gli Encounter Groups. In questo luogo si incontrarono e scontrarono
culture diverse della psicoterapia, tra cui un filone libertario e di sinistra del freudismo
influenzato soprattutto dalle teorie di Reich.

Come notato da Kripal, nonostante i loro conflitti teorici a Esalen fu soprattutto importante la
dottrina di Maslow relativa alla fiducia nella capacità autorealizzativa dell'uomo; dottrina che fu
uno dei pilastri dell'organizzazione. Inoltre, tutte le attività dell'Istituto erano fondate su principi
olistici che si richiamavano a quelli della psicoterapia della Gestalt. Mettendo gli individui in
relazione fra loro e con la natura si tentava di ampliare la coscienza individuale. Esalen divenne
sinonimo di critica radicale della cultura americana piccolo-borghese e bigotta.

Ancor oggi Esalen tenta di rimanere fedele al suo passato leggendario, proponendo centinaia di
corsi di formazione esperienziale finalizzati a potenziare dal punto di vista psicofisico gli ospiti
con tecniche di vario genere. Dagli anni Sessanta, proprio lo yoga e la meditazione
trascendentale (MT) della tradizione vedica ebbero un vero e proprio boom di sostenitori. Lo
yoga era un'antica disciplina in cui si riteneva che mente e corpo fossero una sola cosa
soprattutto per quanto riguardava i suoi presunti benefici fisiologici e psicologici.

Lo yoga è stato infatti ritenuto un trattamento da usare per un enorme ventaglio di situazioni
cliniche, ma studi empirici devono ancora definire più chiaramente cosa effettivamente sia
questa pratica e controllare anche ulteriori variabili. In definitiva, gli studi dovrebbero anche
confrontare lo yoga con i trattamenti più convenzionali. Similmente allo yoga, la meditazione
trascendentale (MT) è stata una tecnica che sul finire degli anni Sessanta contava migliaia di
sostenitori anche a causa di una capillare diffusione fra i baby boomers che avevano trovato
nella filosofia e nelle pratiche della MT un senso alla crisi esistenziale propria della generazione
consumistica dei boomers.
La MT si basava essenzialmente sulla recita di un mantra da seduti con gli occhi chiusi per 15-
20 minuti, per due volte al giorno. Questa meditazione, deve essere affinata per mezzo di un
training specifico e produrrebbe cambiamenti psicofisiologici di natura terapeutica. La MT è
oggetto recente di ricerche di efficacia che tuttavia hanno messo in luce solamente una loro
utilità limitata al controllo degli indici psico-fisiologici. Occorre tuttavia sottolineare che tale
riavvicinamento fra pratiche meditative derivate dalle religioni orientali e la psicoterapia è
tuttora un interesse condiviso da una moltitudine di persone che cercano nell'altrove le risposte
al proprio disagio esistenziale.

In tal senso le tecniche di meditazione buddhista hanno recentemente subìto una sorta di
"ibridazione" con la psicologia cognitiva, producendo la cosiddetta mindfulness, che rappresenta
una fortunata pratica esistenziale e psicoterapeutica, in cui il soggetto apprende a vivere nella
contemporaneità, momento per momento, e a monitorare sia le proprie emozioni sia i propri
processi cognitivi, relazionali e comunicativi. Dalla fine degli anni Settanta sono state così
sviluppate la Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) e la Mindfulness-Based Cognitive
Therapy (MBCT).

“ENERGIA” E TERAPIA SESSUALE

Le istanze degli anni Sessanta portarono a una nuova sensibilità anche nei confronti della
sessualità e dell'emancipazione del desiderio, che ha avuto come conseguenza l'affermarsi della
sessuologia e della terapia sessuale. La terapia sessuale originava da fonti non omogenee ma
trovò soprattutto nella psicoanalisi una dottrina con cui confrontarsi. La creatura freudiana,
veniva criticata per un eccesso di individualismo e per una svalutazione delle funzioni sociali,
che insieme a quelle biologiche, culturali e psicologiche erano ritenute la radice di gran parte dei
problemi relativi alla sfera sessuale dell'uomo e della donna.

La Psychopathia sexualis (1886) di Richard von Krafft-Ebing fu solo un iniziale punto di repère
di una lunghissima storia che attraverso Freud, Henry Havelock Ellis, Alfred C. Kinsey ha avuto
in William Masters e Virginia E. Johnson i primi veri e propri terapeuti sessuali. La preistoria
della terapia sessuale è però anche sicuramente debitrice nei confronti della psicoanalisi e
soprattutto della teoria dell'orgone di Wilhelm Reich che negli anni Quaranta aveva immaginato
che la causa di tutte le malattie dipendesse da un'energia vitale presente in ogni individuo,
identificata con la sessualità che si scaricava concretamente con l'orgasmo.

L'orgasmo diveniva il presupposto di ogni terapia. L'energia orgonica non soddisfatta portava
infatti a "repressione psicologica", cambiamento di carattere, insoddisfazione. Il corpo avrebbe
così reagito a tale energia incistata e inespressa che occorreva liberare. Reich sviluppò un'analisi
del corpo che nei movimenti e nelle tensioni posturali risentiva dell'energia non adeguatamente
scaricata.

Dagli anni Cinquanta, l'allievo di Reich Alexander Lowen, creò una forma di psicoterapia —
l'analisi bioenergetica — che si poneva come obiettivi:

(1) la risoluzione delle tensioni (muscolari) del corpo attraverso esercizi fisici;

(2) l'esplorazione dei meccanismi di difesa dovuti alla repressione dell'energia con l'uso di
tecniche interpretative derivate dalla psicoanalisi classica;

(3) il raggiungimento della soddisfazione sessuale, rilassando il corpo ed esercitando quelle zone
collegate all'attività sessuale che nel loro modello psicoterapeutico gli analisti bioenergetici
consideravano centrali.

Sebbene questi psicoterapeuti di matrice psicoanalitica avessero dato un contributo notevole alla
sessuologia, i primi veri e propri terapeuti sessuali furono Masters e Johnson che analizzarono
migliaia di rapporti sessuali con l'ausilio dei più diversi metodi di registrazione psicofisiologica,
per derivarne una serie di tecniche comportamentali finalizzate al superamento di difficolta di
coppia. Da questi studi originarono pratiche di rilassamento e di scambi nella coppia che
usavano la concentrazione sensoriale per il raggiungimento della soddisfazione sessuale.

Si trattava principalmente di interventi di natura comportamentista, che in seguito vennero


integrati con l'indirizzo psicodinamico da Helen Singer Kaplan. Questi pionieri della terapia
sessuale concepirono il sesso come una pratica naturale, per quanto possibile, divertente e non
peccaminosa o pericolosa. Con Kaplan, la medicina entra prepotentemente nella tecnica della
terapia sessuale e le nuove libertà sessuali promosse dalla cultura libertaria degli anni Sessanta
furono ritenute responsabili del-lo scoppio dell'epidemia di AIDS.

La sessuologia si trovò cosi ad affrontare un problema che ne avrebbe cambiato per sempre la
natura; essa si era sviluppata come disciplina che avrebbe dovuto ricontestualizzare la sessualità,
togliendole il peso del peccato che mortificava le menti e i corpi. Da un lato, le terapie sessuali
divennero più caute nel diffondere comportamenti e pratiche promiscue, che potevano essere
potenzialmente pericolose; dall'altro assunse particolare importanza la prevenzione.

Nel frattempo si affacciavano nella pratica sessuologica nuovi farmaci che sembravano efficaci
nel restituire il piacere sessuale a chi lo avesse perduto. Lo shift della terapia sessuale dall'essere
un territorio in cui si diffondeva una concezione gioiosa della sessualità a un settore di studio più
attento alle conseguenze della diffusione incontrollata di tali pratiche e infine assai
medicalizzato fecero infine della sessuologia un terreno paradigmatico della critica biopolitica
contemporanea. Rose ha infatti messo in luce come i temi esplosi negli anni Sessanta abbiano
rappresentato un territorio in cui i consulenti, i terapeuti, gli "psi" e gli esperti di vario genere
hanno operato una funzione politica, su larga scala.

Le tecnologie del corpo furono in primo luogo finalizzate a rispondere alle richieste sociali degli
individui. D'altro canto, con il raffinamento delle tecnologie biomediche soprattutto i sessuologi
hanno affiancato i medici al fine di fornire ai pazienti nuovi modi di esplorare il sesso che
fossero particolarmente efficaci. Tali tecnologie hanno avuto come conseguenza secondaria una
particolare produzione di ricchezza che sfruttava le vite degli individui. La sessuologia ha così
contribuito alla nascita di una nuova cittadinanza biologicamente attiva.
OTTAVO CAPITOLO
GLI ANNI SETTANTA E OTTANTA FRA COMUNITARISMO E INDIVIDUALISMO
LA CRITICA POSTMODERNA, NUOVE DISCIPLINE E CRISI DEI SOGGETTI

Se le correnti libertarie degli anni Sessanta avevano promosso una versione anti-repressiva delle
scienze "psi", i risultati di questo impulso variarono molto a seconda dei contesti. L'accento
posto sulle comunità, sui gruppi, sulle famiglie o sulle libertà espressive non condusse
necessariamente a una psicoterapia militante. Al contrario con il definitivo superamento degli
anni Sessanta e soprattutto con l‘affermarsi della cultura neoliberista negli anni Ottanta, la
psicoterapia inizio anche a essere finalizzata a disciplinare alcuni comportamenti individuali, di
coppia, familiari e sociali, svolgendo così un ruolo ritenuto fondamentale nelle società
occidentali.

II passaggio agli anni Ottanta non fu tuttavia ne indolore, ne pacifico. Fra gli anni Sessanta e
Settanta la modernizzazione e lo sviluppo in senso progressista della società furono bloccati
dall'instaurazione di regimi dittatoriali. Anche altrove tentativi di colpo di Stato autoritario
cercarono di bloccare la vita democratica delle nazioni. Permaneva inoltre uno stato di tensione
e guerra non dichiarata nei rapporti fra paesi e paesi comunisti, acuito dalla presenza in Francia,
Germania e Italia di gruppi violenti.

Il 1977 segno una radicalizzazione delle polarizzazioni politiche: la lotta armata penetrò nei
movimenti giovanili portando in Germania, in Italia e in Francia la violenza nelle strade. In
questo complesso quadro istituzionale e internazionale, la Germania rappresentava un problema
irrisolto nel cuore dell'Europa. Il boom economico postbellico aveva portato a un processo di
affermazione e precisazione delle scienze "psi" e a una significativa differenziazione di modelli
psicoterapeutici. La crisi degli anni Settanta fu segnata da un profondo cambiamento di sfondo
con conseguenze di lungo termine.

Alcuni autori sembrarono decretare addirittura il definitivo ridimensionamento della razionalità


riprendendo e radicalizzando le posizioni della Dialettica dell'illuminismo di Horkheimer e
Adorno (1947). La visione ottimistica del progresso lineare della scienza si era via via incrinata
e anche la storiografia progressista stava per cedere il passo a una storia critica e radicalmente
discontinuista, costruzionista delle scienze "psi" e della psicoterapia.

A vario titolo, si contestavano le teorie che si erano sviluppate fino ad allora; era presente una
spinta a rivoluzionare i punti di vista tradizionali sulla base di una critica teorica e storica. Jean-
Paul Sartre, nel 1969 pubblicizzo la registrazione di un alterco in una seduta psicoanalitica
effettuata da un paziente senza il consenso del suo psicoanalista. La discussione riguardava
proprio la richiesta del paziente di registrare la seduta.

Si trattava di un atto d'accusa nei confronti di una psicoanalisi oggettivizzante e riduzionista.


Sartre così reclamava un ritorno del soggetto, auspicando quindi un ribaltamento delle relazioni
terapeutiche e una riappropriazione di identità da parte dei pazienti. Al contrario della
descrizione oggettivizzante dei casi clinici della storia della psicoanalisi, in questo caso era il
paziente che occupava il centro della scena analitica e imponeva il proprio punto di vista sul suo
caso.
Abrahams cercava in questo modo di denunciare il potere del terapeuta all'interno del setting
psicoanalitico tradizionale. Il paziente quindi entrava nella storia della psicoanalisi anche con
un'azione aggressiva nei confronti dell'analista. Si trattava di una crisi di molti soggetti della
storia della psicoterapia. La crisi fu testimoniata, soprattutto negli anni Settanta, dalla proposta
di nuove forme creative e visionarie di critica della realtà, da parte della cultura postmoderna,
diffusasi in dialettica con la società dei consumi.

Negli anni Settanta, la critica postmoderna irrompeva nelle scienze "psi”. Gli anni Settanta
furono anche segnati dall'apparire di alcuni volumi destinati ad avere una lunga eco nell'ambito
della storia della psicoterapia e delle scienze "psi". La scoperta dell'inconscio di Henri F.
Ellenberger (1970) affrontava in modo innovativo il lungo processo di nascita della psicoterapia
dinamica. La psicoanalisi veniva considerata il punto terminale di forme di terapia e di teorie
che affondavano le radici nella medicina tradizionale.

La storia di Freud era descritta nei suoi rapporti con le vicende di altri personaggi che la
influenzarono. Anche le fonti filosofiche dell'idea dell'inconscio venivano riscoperte. Si tratto di
un fondamentale ridimensionamento per colui che la leggenda creata dal movimento
psicoanalitico aveva dipinto come un eroe solitario. Il definitivo processo di destrutturazione
della psicoanalisi classica fu infine tentato in altre due opere caratterizzanti la cultura degli anni
Settanta: l'Anti-Edipo (1972) di Gilles Deleuze e Felix Guattari, e La volontà di sapere (1976) di
Michel Foucault.

Se La scoperta dell'inconscio ricontestualizzava principalmente la storia della psicoanalisi e


forniva una visione rinnovata dei soggetti nelle scienze "psi" ,1' Anti-Edipo di Deleuze e
Guattari radicalizzava la crisi della dicotomia normalità-patologia. Il freudiano "tramonto del
complesso di Edipo” veniva rovesciato fino ad apparire un obiettivo non pin necessario, ma anzi
dannoso. In questa concezione il desiderio rappresentava l'unica speranza per il mondo moderno,
e la follia risultava essenziale proprio per l'espressione del desiderio.

Il desiderio era il nuovo nome dato alla libido che doveva essere liberata ovvero
deterritorializzata. La psicoanalisi aveva così fornito un contributo fondamentale alla
deterritorializzazione della libido e l'aveva di nuovo riterritorializzata nel mito di Edipo. Nessun
modello psicoterapeutico si salvava dalla critica di Deleuze e Guattari. Tutte le psicoterapie
tendevano a riterritorializzare il desiderio. Questi autori auspicavano invece il superamento della
psicoanalisi e la sua sostituzione con la schizoanalisi, che avrebbe esaminato le vicissitudini del
desiderio in una cornice teorica ribaltata.

Alla schizoanalisi non importavano la storia o gli obiettivi del soggetto; non importava
conoscere la vera realtà psichica; non interessava il realismo ne l'ontologia del soggetto; la
soggettività era condannata a rimanere indefinita e incompiuta. La schizoanalisi imparava a
ragionare nei termini dell'incompletezza, dell'indefinitezza. La schizoanalisi aveva due compiti
positivi:
(1) "Scoprire in un soggetto la natura, la formazione e il funzionamento delle sue macchine
desideranti";

(2) porre su un piano sociale le potenzialità del desiderio.

Ancora più rilevante era, agli occhi di Deleuze e Guattari, il dovere destruens: "defamiliarizzare,
disedipizzare, decastrare, defallicizzare [...] il compito della schizoanalisi e insomma di scoprire
in ogni caso la natura degli investimenti libidinali del campo sociale, i loro possibili conflitti
interni". La critica di Deleuze e Guattari ha significato la riscoperta del desiderio e dei fattori
soggettivi in una concezione rinnovata del patto sociale. In un certo senso, si trattava di un
riutilizzo rivoluzionario della psicoanalisi, che intendeva capovolgere da estrema sinistra sia le
concezioni marxiste.

La psicoanalisi era il punto di ancoraggio critico anche di La volontà di sapere, primo volume
del progetto di Storia della sessualità di Foucault. Questa storia sui generis aveva l'obiettivo di
smitizzare l'idea della sessualità diffusasi a partire dalla psicoanalisi. La repressione sessuale
sarebbe dipesa dalle relazioni di potere tra le persone, imposte dal sistema di produzione di
ricchezza capitalistico e rafforzate dalle scienze "psi" che divennero per Foucault delle vere e
proprie tecnologie del Se.

La morale sessuale sarebbe derivata dalla società e non avrebbe dovuto essere considerata,
viceversa, il sottoprodotto dei meccanismi inconsci della mente. La sessualità si esercitava sulla
base di rapporti di potere, che per raggiungere i propri scopi non dovevano necessariamente
reprimerla. Foucault sembrava anzi ritenere che la repressione fosse esclusivamente un prodotto
della società capitalistica. Nel pensiero foucaultiano assumevano importanza anche i soggetti
marginali che partecipavano alla costruzione scientifica della propria soggettività.

La volontà di sapere introdusse alcuni concetti che influenzeranno in modo assai duraturo le
scienze umane. A prescindere dall'effettiva appropriatezza filologica della sua Storia della
sessualità, su cui è lecito nutrire qualche dubbio, Foucault forniva delle formidabili chiavi di
lettura per comprendere come si erano evolute le scienze psicologiche. Le tecnologie del Sè
avrebbero operato nella gestendo e disciplinando la vita della popolazione e avrebbero esercitato
un potere sulle persone, sui corpi, sulle menti e sui comportamenti in un quadro che nello stesso
periodo Foucault già definiva con l'espressione governamentalità.

Foucault, metteva in luce che il potere non doveva necessariamente essere negativo perché
addestrava, faceva vivere, potenziava le attitudini. II sapere era inoltre sempre connesso al
potere e mai neutrale. Negli anni Settanta la sessualità e la psicoanalisi rappresentarono un
terreno per dimostrare l'efficacia di nuove categorie di interpretazione storiografica che
mettevano in crisi la linearità con cui si rappresentava la storia della psicologia. Acquisiva
notevole importanza l'idea che gli individui non fossero identici in tutte le epoche e interagissero
con le discipline che li studiavano.

In questa ottica, il soggetto si disperdeva fra le pieghe di una storia complessa che minava
definitivamente una concezione oggettiva e normale delle identità, che invece rappresentava i1
presupposto di molte terapie della mente facevano riferimento a una concezione coerente del
soggetto. AI1'individuo occorreva restituire un funzionamento normale della coscienza. Per il
pensiero radicale degli anni Settanta la guarigione e la normalità non erano più gli obiettivi
principali.

In tal senso, occorre ricordare la figura di Masud R. Khan proprio tra coloro che incarnarono le
contraddizioni di questi anni. Khan, geniale e controverso allievo di Winnicott, da psicoanalista
didatta sfido i canoni della psicoanalisi ortodossa; fu osteggiato e cacciato dalla società
psicoanalitica per aver violato le regole del setting, sedotto e maltrattato pazienti Mori alcolista
ed emarginato dalla comunità psicoanalitica Londinese anche per aver ostentato un suo
controverso atteggiamento razzista.

Tuttavia egli produsse contributi clinici di enorme rilevanza per comprendere come si sviluppi il
Se in base alle relazioni pregresse, come il Se muti, cambi, sia cumulativamente traumatizzato e
vittima e artefice di relazioni perverse. II fascino di Khan lo ha fatto poi divenire oggetto di
alcune biografie, tutte nate dall'esigenza di comprendere il comportamento bizzarro di questo
psicoanalista "postmoderno". Nelle biografie di Khan non si tiene tuttavia conto dello Zeitgeist
in cui egli operava, un tempo in cui la normalità e la patologia erano totalmente
ricontestualizzate. Il movimento del '77 fu dunque caratterizzato da polarizzazioni estreme.

Nello stesso contesto il movimento femminista si affermava in tutti i paesi a capitalismo


avanzato, portando all'elaborazione di leggi sul diritto all'aborto e contro la violenza sulle donne
nella relazione di coppia, proponendo una nuova cultura della femminilità in conflitto con il
passato. Nel 1970 a New York furono avviate le manifestazioni per l'affermazione delle
differenti sessualità, le marce dell'orgoglio (Pride), e nel 1978 fu elaborata la bandiera
arcobaleno come simbolo del movimento LGBT. La sessualità venne considerata così un
argomento fondamentale della narrazione del decennio dei Settanta.

Tale reazione propose una vera e propria nuova antropologia conservatrice in grado di spazzare
via le istanze a un tempo comunitarie, sociali e libertarie sviluppatesi in precedenza. Secondo
Cushman l'elezione nel 1980 di Ronald Reagan come presidente degli USA fu per la
generazione del baby boom uno "scherzo crudele della storia". Nel 1969, Reagan era stato infatti
colui che, aveva soffocato nel sangue le proteste pacifiste dei giovani di Berkeley. Negli anni
Ottanta, la cultura diffusasi con la sua elezione portò alle estreme conseguenze il way of life
americano che già aveva caratterizzato la Guerra fredda. La politica di Reagan fu contraddistinta
sia da una serie di istanze conservatrici sui modi di vivere e sulle spese federali.
Il comunismo fu addirittura considerato un sistema diabolico, un impero del male. In queste
politiche Reagan ebbe come importanti alleati Margaret Thatcher e papa Giovanni Paolo II.
Giovanni Paolo II sebbene fosse ugualmente critico nei confronti dell'imperialismo e del
consumismo americani, fu tuttavia un sostenitore di istanze reaganiane sia per quanto riguardava
la politica anticomunista sia per quanto concerneva un'etica fondamentalmente conservatrice. Il
lungo pontificato di Giovanni Paolo II, promosse una cultura cattolica riallineata a una
tradizione conservatrice che prendeva le distanze dal Concilio Vaticano II.

Negli anni Ottanta si manifestarono nuove emergenze sociali, rappresentate da un uso di massa
delle sostanze stupefacenti, dall'AIDS, una nuova sindrome a trasmissione sessuale ed ematica
che minacciava soprattutto i giovani e gli omosessuali. Tali emergenze sociali facilitarono
l'affermazione di dottrine che promettevano di ottimizzare i rapporti con lo Stato del cittadino.
L'anarcocapitalismo (negli USA) e l'ordoliberalismo (in Europa) incarnarono filosofie politiche
che sembrarono in grado di moderare quelle che erano considerate derive radicali. Queste nuove
culture conservatrici sgretolarono i paesi del Patto di Varsavia.

Il 1989 fu caratterizzato dalla caduta del Muro di Berlino e dalla riunificazione delle due
Germania. In psicoterapia si assisteva alla coesistenza di varie anime caratterizzate da una
tensione verso la conoscenza su nuove basi propria della soggettività in crisi. Da un canto la
psicologia del Se, la psicoanalisi dello sviluppo, quella intersoggettiva e la terapia familiare
tendevano a legarsi pin direttamente con le tematiche degli anni Settanta.
PSICOLOGIA DEL SÉ E I SUOI SVILUPPI. L’EVOLUZIONE INIZIALE DEL PENSIERO
DI KOHUT

La psicologia del Se rappresento probabilmente l'ultima grande svolta nella storia dello
sviluppo del pensiero psicoanalitico. Heinz Kohut mosse dalla constatazione che i suoi
pazienti sembravano presentare caratteristiche profondamente diverse da quelle descritte dalla
psicoanalisi classica e dalla psicologia dell'Io; propose anche un tentativo di adeguare la teoria
della tecnica al fine di ampliare il ventaglio delle patologie curabili attraverso l'analisi. Kohut
nacque a Vienna in una famiglia di ebrei assimilati. Laureatosi in medicina nella sua città
natale, si trasferì come tanti altri negli Stati Uniti in seguito all'Anschluss.

Si stabilì a Chicago. Nel corso degli anni Quaranta i suoi interessi si spostarono gradualmente
dalla neurologia alla psichiatria, per approdare infine alla psicoanalisi. Kohut assunse cariche
di rilievo nel movimento psicoanalitico nel corso della sua vita: fu presidente dell'American
Psychoanalytic Association tra il 1964 e il 1965, vicepresidente dell'IPA dal 1965 al 1973 e
vicepresidente degli Archivi Freud a partire dal 1971.

Formatosi come analista all'interno del paradigma della psicologia dell'Io, Kohut inizio a
formulare delle ipotesi radicalmente originali, soprattutto a partire dal testo Narcisismo e
analisi del Se (1971), che prendeva le mosse dall'incontro con una larga popolazione di
pazienti che presentavano sintomi non conflittuali, ma piuttosto si caratterizzavano per
depressione, insoddisfazione, vulnerabilità. Questi pazienti apparivano a Kohut caratterizzati
da bisogni diversi dalla comprensione interpretativa del proprio passato, e il punto focale delle
loro difficolta non era collocabile nell'ambito sessuale.

Questa sintomatologia spinse Kohut a una riforma di carattere sia teorico sia tecnico. Dal punto
di vista teorico, Kohut postulava l'esistenza di una struttura psichica, il Se, non identificabile con
nessuna delle istanze psichiche presenti nel modello strutturale; e di aspetti dello sviluppo
psicologico che non erano stati presi in considerazione da Freud. Dal punto di vista tecnico,
iniziava a ipotizzare che la relazione analitica potesse assumere in molti casi un valore
terapeutico superiore rispetto all'interpretazione.

Inizialmente, la riforma kohutiana non si poneva come un rinnovamento completo della


psicoanalisi, ma si rivolgeva solo ai pazienti che soffrivano di disturbi narcisistici. Nel giro di
pochi anni la prospettiva sarebbe cambiata, fino al punto di fargli affermare che tutte le forme di
psicopatologia si basavano su difetti presenti nella struttura del Se . L'allontanamento del
pensiero di Kohut dalla psicologia dell'Io iniziò, molto prima del 1971, come testimonia una
lunga serie di saggi, che vennero poi in gran parte raccolti in La ricerca del Se.

Già alla fine degli anni Cinquanta, Kohut aveva enunciato una serie di convinzioni
metodologiche, cliniche e teoriche. Kohut considerava fin da allora introspezione ed empatia gli
strumenti chiave per la comprensione psicologica del paziente come per ogni possibile progresso
della teoria psicoanalitica. Va messa in evidenza la totale mancanza di complessi nei confronti
delle discipline scientifiche hard, che spingeva Kohut ad affermare che sarebbe "sbagliato
estrapolare l'interpretazione di uno specifico stato mentale da principi biologici ".
È notevole che Kohut discutesse già la visione classica dello sviluppo psicosessuale infantile,
affermando che, all'inizio dell'esperienza psicologica umana, "dovremmo parlare di tensione,
piuttosto che di desiderio ". Kohut già ipotizzava che per certe categorie di pazienti non si
potesse interpretare il rapporto col terapeuta come transfert nel senso comunemente accettato.

Il principio della necessaria accettazione della dipendenza del paziente sarebbe stato esteso negli
anni successivi; portando a una riforma radicale rispetto alla concezione originale di Freud in
questo ambito, mai prima posta in discussione dagli analisti. Altre innovazioni fondamentali di
Kohut sono le nozioni di Sé e narcisismo proposte nel saggio Forme e trasformazioni del
narcisismo. Kohut rimandava in nota alla definizione di narcisismo come investimento libidico
del Se introdotta da Heinz Hartmann, che però era legata a intenti ben diversi. Hartmann
specificava che il narcisismo dovesse essere inteso come investimento del Se, piuttosto che
dell'Io, e che tale investimento nella psicosi si potesse presentare come sessualizzato, mentre
l'energia normalmente investita era quella neutralizzata.

Hartmann chiariva che "investimento del Se" doveva essere inteso come antitesi di
"investimento dell'oggetto": il Se e quindi "la propria persona" e non una struttura psichica,
come venne invece sempre più chiaramente definito da Kohut: la metamorfosi si completa
progressivamente con Narcisismo e analisi del Se e soprattutto con La guarigione del Se. Lo
stesso brano di Kohut annunciava anche una rivoluzione che era chiaramente ancora da
compiere: lo sdoganamento di una categoria di bisogni altrettanto importanti rispetto a quelli
pulsionali, quelli "narcisistici".

I giudizi di valore della società, tendenti a svalutare i bisogni autocentrati rispetto a quelli
eterocentrati, erano riflessi dall'atteggiamento dei clinici. Kohut qualificava qui come "equilibrio
narcisistico" la condizione caratterizzata da una presenza adeguata di autostima e come "ferite
narcisistiche" le espressioni di senso di inferiorità e orgoglio ferito. Descriveva inoltre i tentativi
di compensazione delle ferite narcisistiche come "sistemi di perfezione" costruiti
artificiosamente sul Se o su un genitore.

Allorché era il Se a essere artificiosamente investito di ogni perfezione, esso si presentava come
"Se narcisistico"; se era il genitore, questi avrebbe assunto i connotati di "imago parentale
idealizzata". Si aveva quindi già l'intuizione del paradosso per cui l'idealizzazione dell'altro
significativo era espressione di problematiche relative al narcisismo. Se il sovrainvestimento
narcisistico del Se non escludeva la presenza di relazioni oggettuali pur segnate da problemi
legati al narcisismo. Tali personalità necessitavano di un trattamento specifico.

LA SINTESI DELLE NUOVE IDEE. LA PSICOLOGIA DEL SÉ COMPIUTA

Nel proporre Narcisismo e analisi del Se, Kohut era ancora riluttante ad abbandonare il
mainstream della teoria pulsionale, e di conseguenza inseriva il proprio lavoro nel solco di una
tradizione di riforma progressiva della psicoanalisi che continuava a considerarsi comunque
ortodossa. Soprattutto continuava a qualificare la sua nozione di Se come totalmente compatibile
con quelle relative alle istanze psichiche freudiane.

II focus di Narcisismo e analisi del Se era concentrato programmaticamente su una classe di


fenomeni clinici che Kohut aveva osservato nel trattamento di personalità da lui definita
narcisistica.
I pazienti di questo tipo mostravano segni di "temporanee oscillazioni regressive" che, se da un
lato presentavano contenuti simil-psicotici, dall'altro non inficiavano la possibilità di proseguire
efficacemente la psicoterapia. Accanto ai segni di regressione, infatti, Kohut constatava in tali
pazienti l'emergere di una modalità di transfert caratteristica. All'insorgenza di queste forme
transferali poteva essere attribuito un valore diagnostico e prognostico maggiore rispetto alla
sintomatologia.

Ciò che rendeva fiducioso Kohut durante queste esperienze analitiche era la concomitante
mantenuta capacità di auto-osservazione. Due erano le modalità di transfert narcisistico descritte
in Narcisismo e analisi del Se: iI transfert idealizzante e iI transfert speculare. In ambedue I casi,
gli analisti assumevano i connotati di quelli che per la prima volta Kohut definiva oggetti- Se;
cioè "oggetti adoperati al servizio del Se e del mantenimento del suo investimento pulsionale,
oppure esperiti essi stessi come parti del Se". Nel caso del transfert idealizzante propriamente
detto, l’analista era vissuto come onnipotente. Kohut sottolineava che aspetti di idealizzazione
erano presenti anche nel transfert nevrotico, ma in quest'ultimo il paziente "non perde il contatto
con i caratteri realistici" dell'analista.

Dall'osservazione dei transfert narcisistici e dall'interrogativo sulla loro origine Kohut ricavava
ipotesi sullo sviluppo individuale già profondamente originali. Il Se del bambino, nella visione
esposta in Narcisismo e analisi del Se, sarebbe rimasto estremamente vulnerabile fino a quando
l'idealizzazione dei genitori, necessaria in epoca pre-edipica, fosse stata trasferita sul Super-io. Il
rischio maggiore, per l'insorgere di disturbi narcisistici, sarebbe stato costituito dalla perdita
precoce dell'imago parentale idealizzata, che sarebbe avvenuta quando il bambino non si fosse
percepito come veramente desiderato.

Tale era l'importanza del processo che porta dall'idealizzazione alla de-idealizzazione, attraverso
il processo definito di interiorizzazione trasmutante, da spingere Kohut a ipotizzare due distinte
linee di sviluppo psicologico separate e indipendenti: "una che porta dall'autoerotismo, […]
all'amore oggettuale; un'altra che porta dall'erotismo […] a forme più alte e modificate di
narcisismo”.

Dal punto di vista della teoria della tecnica, in Narcisismo e analisi del Se apparivano già degli
elementi di distacco dall'analisi classica, che si esprimevano soprattutto come un'esaltazione
dell'importanza dell'empatia necessaria all'analista, spingendo Kohut anche a modificare la
concezione ortodossa della neutralità. Kohut sottolineava come, nel trattamento dei disturbi
narcisistici di personalità, il transfert idealizzante e quello speculare non dovessero essere
smantellati troppo precocemente dall'interpretazione. Un importante completamento di
Narcisismo e analisi del Se fu costituito dal saggio sulla rabbia narcisistica.

Kohut distingueva la rabbia narcisistica dall'aggressività matura e descriveva la prima come "un
disperato bisogno di vendetta ". Malgrado la rabbia narcisistica verso l'analista potesse costituire
una difficolta, essa doveva essere accolta come "un segno di ammorbidimento della struttura
rigida della personalità ". L'obiettivo finale non doveva essere costituito dall'obliterazione
completa della rabbia narcisistica, ma dalla sua trasformazione in un'aggressività che potesse
essere messa a servizio dell'Io.

La riflessione di Kohut negli anni immediatamente successivi a Narcisismo e analisi del Se


testimoniava ancora una persistente riluttanza ad abbandonare l'alveo sicuro della teoria
psicoanalitica classica. Kohut ruppe gli indugi e inizio a presentare il proprio modello come
sostanzialmente alternativo a quello freudiano a partire da La guarigione del Se. Qui il Se veniva
descritto come un'entità bipolare che si strutturava nel corso dello sviluppo. Le esperienze di
oggetto-Se che soddisfacevano i bisogni di idealizzazione avrebbero contribuito alla formazione
del "polo degli ideali"; mentre le esperienze di oggetto-Se che soddisfacevano i bisogni di
fusione si sarebbero rivolte alla formazione del "polo delle ambizioni". Il rapporto tra i poli
strutturava la personalità o determinava patologie.

La teoria del "Se bipolare" costituiva anche la premessa per una nuova riclassificazione dei
disturbi psicopatologici come disturbi del Se. Kohut proponeva di distinguere tra disturbi
primari e secondari: i primari come caratterizzati da un Se che non avrebbe avuto modo di
consolidarsi nel corso della prima infanzia; i secondari "costituiscono le reazioni acute e
croniche di un Se consolidato ". Tra i disturbi primari, Kohut distingueva da una parte psicosi e
condizioni borderline; dall'altra due categorie di disturbi narcisistici, caratterizzate ambedue da
"frammentazione, indebolimento o grave alterazione del Se temporanei" :i disturbi narcisistici
della personalità, e i disturbi narcisistici del comportamento.

Tutte le forme di psicopatologia più gravi erano riconducibili a un danno del Se in epoca pre-
edipica, ma le due classi di disturbi narcisistici erano da considerare analizzabili: si sarebbero
aperte spontaneamente alla possibilità del transfert. Neanche il complesso edipico era immune
dalla revisione di Kohut. Kohut definiva questa un'applicazione del "principio psicologico di
complementarità". Di fatto Kohut non proponeva soltanto una teoria metapsicologica e una
teoria della clinica innovative, ma anche una visione dell'uomo e dell'ambiente socio-culturale
diversa da quella di Freud. L'uomo di Freud era, secondo Kohut, un uomo "colpevole", perché
teso alla soddisfazione delle mete pulsionali, cioè alla ricerca del piacere, ma frenato in questa
aspirazione non solo dal principio di realtà, ma anche dal senso di colpa indotto dai conflitti
interni.

L'uomo descritto da Kohut era invece qualificabile come "tragico", perché volto a mete che
trascendevano il piacere e inerivano alla soddisfazione del proprio Se. La teoria di Kohut
corrispondeva ai bisogni del paziente che si era formato nella cultura della Guerra fredda. La
soluzione positiva di un'analisi classica era legata alla "soluzione del conflitto attraverso
l'espansione della coscienza", mentre nei casi dei sempre più presenti disturbi narcisistici,
l'analisi doveva essere "valutata anche nei termini del raggiungimento della coesione del Se".

La prospettiva di Kohut era dunque a questo punto cambiata, dalla formulazione di un


arricchimento della visione pulsionale, alla proposta di una teoria complementare a quella
freudiana. L'ultimo atto sarebbe consistito nel presentare la psicologia del Se come una teoria
pienamente alternativa. già Le due analisi del signor Z rappresentavano un passo decisivo in
questa direzione; qui Kohut raccontava di aver curato un medesimo paziente in due diverse
tranche di analisi: prima durante il periodo di adesione al modello classico freudiano e poi dopo
aver matura-to le nuove idee che si cristallizzarono in Narcisismo e analisi del Se.

Se la prima tranche aveva portato dei benefici al paziente, solo dopo la seconda l'analisi poteva
dirsi realmente compiuta. La prima tranche corrisponderebbe quindi a un racconto pin o meno
fedele di come venne condotta la sua analisi di formazione; la seconda a come Kohut avrebbe
dovuto essere analizzato secondo il paradigma da lui stesso proposto.

Il processo di strutturazione del nuovo paradigma era completo con l'ultimo libro di Kohut,
terminato a pochi mesi dalla prematura morte e noto in Italia col titolo La cura psicoanalitica.
Qui Kohut abbandonava ogni indugio nell'indicare il rapporto tra Sé e oggetti-Se come l'aspetto
fondamentale nella vita psicologica di ogni es-sere umano nel corso di tutta la sua vita:

La psicologia del Se sostiene che le relazioni Se/oggetto-Se costituiscono l' essenza della vita
psicologica dalla nascita alla morte; che il passaggio da uno stato di dipendenza (simbiosi) a uno
stato di indipendenza (autonomia) nella sfera psicologica […]. L'evoluzione che caratterizza la
vita psicologica normale […] deve essere vista nella natura mutevole dei rapporti fra il Se e i
suoi oggetti-Se, e non nell'abbandono da parte del Se dei suoi oggetti-Se.

Certamente la natura delle relazioni Se/oggetto-Se doveva essere intesa come diversa nei diversi
periodi della vita che l'altro significativo conservi un carattere di indifferenziazione soggettiva
dal Se oltre la prima infanzia. Lo stesso Kohut sottolineava che avrebbe dovuto specificare che
la permanenza delle relazioni Se/oggetto-Se significasse: "Durante tutta la sua vita, una persona
potrà sperimentare se stessa come un'unita coesiva, armoniosa e salda nel tempo e nello spazio "
a condizione di poter contare su altre persone che siano rispondenti, empatiche e disponibili
come sostegno.

Postulata la centralità delle vicissitudini del Se per la salute psicologica, cambiava di


conseguenza anche la concezione della natura della terapia analitica. Sebbene un ampliamento
della capacità introspettiva caratterizzasse in genere un'analisi avviata alla conclusione positiva,
una maggiore conoscenza del proprio inconscio non doveva essere considerata sufficiente. La
fine analisi poteva caratterizzarsi per un'acquisita maggiore capacità di controllo delle pulsioni
"l'essenza della guarigione psicoanalitica" consisteva sempre nella "graduale acquisizione di un
rapporto empatico con oggetti ¬Se maturi".

Kohut proponeva infine la propria teoria della cura "per le analisi di tutti i disturbi analizzabili" e
riteneva che fosse valida "non solo per le analisi condotte da psicoanalisti che si ispirano alla
psicologia del Se, ma per tutte le analisi, passate e presenti, purché i transfert siano interpretati
ed elaborati". Da una parte risultava definitivamente chiaro che l' esperienza dell'analisi
costituisse il fattore curativo principale e non le interpretazioni corrette come tali; anzi,
interpretazioni sbagliate potevano fungere da "frustrazioni ottimali". Dall'altra sarebbe erroneo
pensare che Kohut volesse affermare che la pura e semplice presenza di una figura percepita
come empatica fosse di per sé sufficiente al successo dell'analisi.

L'interpretazione rimaneva lo strumento fondamentale a disposizione dell'analista. Non di una


figura solo comprensiva avrebbe bisogno l'analizzando ma di una figura vissuta come
autenticamente comprendente.

OTTO KERNBERG RIFORMATORE E CONSERVATORE

A lungo valse la convinzione che i principi terapeutici proposti da Freud non dovessero essere
modificati. Erano stati proposti pochissimi tentativi di applicare la psicoanalisi a condizioni
patologiche esulanti dalla nevrosi. Ancora a metà degli anni Sessanta Franz Alexander in
un'opera di carattere storico dedicava pochissime pagine per discutere le proposte di innovazione
nella teoria della clinica psicoanalitica. Tra le possibili nuove proposte, Alexander annoverava:

(a) il principio che esistessero fattori emotivi utili o necessari alla guarigione;
(b) i tentativi di abbreviare il percorso analitico,

(I) stabilendo a priori la data di fine trattamento

(II) riducendo il numero delle sedute in determinati periodi;

(III) utilizzando "interruzioni di prova temporanee"

(c) l'uso di interpretazioni pia serrate e repetitive, secondo un sistema che però non raccolse in
seguito particolare interesse.

Tra i tentativi di estendere la possibile platea dei pazienti, Alexander ricordava i pochi esempi di
psicoterapia ispirata alla psicoanalisi, volti a rendere il terapeuta una figura significativa nella
vita del paziente. In questo quadro si collocavano gli esordi di Otto Kernberg, il cui percorso
teorico lo condusse a rivedere la teoria psicoanalitica anche nell'ottica di estenderne
efficacemente l'applicazione ai disturbi gravi di personalità.

Kernberg iniziò la sua carriera alla clinica Menninger a Topeka. In seguito, diresse sia il Medical
College della Cornell University sia il Cornell Medical Center di New York. Kernberg si è
successivamente posto in alternativa dialettica con le figure più significative della psicoanalisi
contemporanea. Utilizzando un linguaggio rigorosamente improntato alla psicologia dell'Io,
Kernberg ha inteso sintetizzarne i contributi pin innovativi con istanze provenienti da ambiti
molto eterogenei. Kernberg a stato "classificato" nei modi pin diversi: tra i neo-kleiniani; tra i
teorici delle relazioni oggettuali; tra i teorici di un modello "di accomodamento"; come aderente
prima al mainstream della psicoanalisi e poi al modello delle relazioni oggettuali; tra i
"revisionisti freudiani".

Kernberg sembra essere rimasto l'ultimo teorico di rilievo sul suolo americano fedele al modello
strutturale di Freud. Le idee di Kernberg, soprattutto in merito allo sviluppo psicologico umano,
sono apparse eccezionalmente coerenti, e per certi versi sovrapponibili, dai suoi primi scritti agli
ultimi. Nel corso del tempo Kernberg ha senz'altro manifestato un maggiore ottimismo rispetto
ai tempi del possibile trattamento dei pazienti borderline, per il quale inizialmente veniva
suggerito un percorso di anni con almeno tre sedute alla settimana.

Già nei libri che costituivano la prima sintesi del suo pensiero, Kernberg ipotizzava che la
formazione della personalità dipendesse dalla relazione dinamica tra fattori temperamentali,
esperienza interna e rapporto con l'ambiente. Tali fattori a loro volta influenzavano il livello di
integrazione della personalità, la forza (o la debolezza) dell'Io, il sistema valoriale (cioè il Super-
io), le relazioni oggettuali interiorizzate, la capacità di gestire impulsi e affetti positivi e negativi
(cioè il repertorio dei meccanismi di difesa).

Kernberg applicava lo schema mahleriano all'epoca pre-edipica e lo schema freudiano classico


all'epoca edipica dello sviluppo, postulando una nosologia psicologica direttamente legata a
problemi originatisi in periodi specifici. In questo senso si avrebbe una personalità psicotica,
qualora l'esordio problematico si verifichi prima dell'emersione dalla simbiosi con la madre.
Un'uscita problematica dalla simbiosi non consentirebbe neanche la possibilità di formare un
concetto integrato del Se; non garantirebbe la formazione di una chiara coscienza della barriera
tra mondo interno e mondo esterno.

La personalità si fisserebbe invece a livello borderline, qualora non si risolva positivamente la


separazione-individuazione. Si avrebbe piuttosto una personalità nevrotica, qualora il conflitto
edipico permanga oltre la sua naturale espressione. La personalità normale emergerebbe quando
l'essere umano giungesse alla fase genitale adulta superando con successo tutti i momenti critici.
Lo sviluppo psicologico porterebbe con sé l'utilizzazione di meccanismi di organizzazione
dell'esperienza che hanno anche funzioni difensive verso l'angoscia e di fatto corrispondono ai
meccanismi di difesa. La formazione dei concetti di Sé e oggetto comincerebbe a partire dall'uso
dell'introiezione; la separazione tra esperienze positive e negative verrebbe assicurata dalla
scissione e da meccanismi a essa affini, come negazione e identificazione proiettiva.

Utilizzando una terminologia kleiniana, Kernberg descriveva l'organizzazione delle esperienze


positive come "oggetto interno buono" e l'organizzazione delle esperienze negative come
"oggetto interno cattivo" e riteneva che la necessità della scissione fosse dovuta all'intensa
angoscia che sopraggiungerebbe al momento di esperire organizzazioni affettive contraddittorie.
L'angoscia sarebbe legata secondo Kernberg alla "paura che la propria aggressività possa
distruggere l'oggetto interno buono e lasci un mondo interno senza oggetti positivi "

Nella successiva fase edipica l'individuo potrà sostituire la scissione e i meccanismi derivati con
la rimozione e altre difese pin mature. In pratica Kernberg mutuava la descrizione delle difese
nevrotiche da Anna Freud e quella dei meccanismi di difesa primitivi da Melanie Klein, salvo
rifiutarne l'idea di un Io e di un Super-io presenti fin dalla nascita; quanto alla posizione
depressiva, essa verrebbe raggiunta molto più tardi rispetto all'ipotesi kleiniana.

Solo la raggiunta capacità di usare la scissione consentirebbe la possibilità di una relazione


oggettuale vera e propria; solo la raggiunta capacità di usare la rimozione garantirebbe la
possibilità di una relazione oggettuale stabile. Di conseguenza si può senz'altro condividere la
sintesi di Mitchell e Black: “Per Kernberg al centro della personalità c’è il livello delle relazioni
oggettuali interne raggiunto dal paziente". La teoria dello sviluppo psicologico e la conseguente
classificazione nosologica proposte da Kernberg erano direttamente funzionali alla proposta di
un trattamento terapeutico differenziato.

L'analisi tradizionale di impostazione freudiana rimaneva utilizzabile per i classici pazienti


nevrotici, mentre restava uno strumento non applicabile per i pazienti psicotici. La vera
questione era costituita dai pazienti della categoria borderline. I possibili approcci terapeutici del
mondo psicoanalitico si potevano collocare in un continuum che andava da un estremo che li
considerava intrattabili o trattabili con psicoterapia di sostegno come gli psicotici; a un altro che
ne proponeva un'analisi normale come per i nevrotici.

Kernberg si collocava a meta tra queste due posizioni, considerando rischiosa la seconda e
insufficiente se non controproducente la prima. A suo avviso i pazienti borderline non erano in
grado di affrontare la regressione terapeutica caratteristica dell'analisi, sviluppando, invece di
una "nevrosi di transfert", una "psicosi di transfert", cioè una situazione di perdita dell'esame di
realtà e perfino comparsa di idee deliranti e allucinazioni nella cornice transferale. Per quanto
riguarda la psicoterapia di sostegno, così si esprimeva Kernberg:

La psicoterapia di sostegno mira a rinforzare l’organizzazione difensiva del paziente cerca di


impedire l'emergere di modelli primitivi di transfert e di costruire una relazione operativa per
aiutare il paziente a raggiungere modelli di vita più adattivi.

L'impostazione terapeutica con i pazienti borderline proposta da Kernberg prevedeva invece "un
consistente lavoro interpretativo con quei meccanismi di difesa che riflettono il transfert
negativo e contribuiscono […] a preservare nel paziente la debolezza dell'Io”. Specificamente,
Kernberg suggeriva di:
"a) limitare l'interpretazione del transfert con l'impiego di speciali parametri tecnici;

b) risolvere sistematicamente le costellazioni di relazioni oggettuali primitive attuate nel


transfert".

Il primo punto era legato alla natura particolare del transfert del borderline, che tende a
confondere presente e passato, situazione analitica e realtà, a causa della "mancata
differenziazione del concetto del Se ". Le interpretazioni non dovevano quindi essere rivolte a
una ricostruzione genetica completa, ma alla modalità di presentarsi delle difese nel presente.
Per quanto riguarda il secondo punto, Kernberg sottolineava che la situazione usuale dei pazienti
borderline, nella prima fase del trattamento, può essere caratterizzata come "la presenza di un
caos opprimente ". II transfert riflette "una moltitudine di relazioni oggettuali interne di aspetti
dissociati o scissi del Se ".

TURNING POINTS: L’ATTACCAMENTO E LE SVOLTE EVOLUTIVE DELLA


PSICOANALISI CONTEMPORANEA

Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta la ricerca in psicologia dello sviluppo ha avuto una
accelerazione, influenzando in modo decisivo la psicoterapia. Come messo in luce da Cushman,
tale ricerca nasceva dall'esigenza di disciplinare le scienze "psi", razionalizzandole e
operativizzandole. La relazione madre-bambino era del resto già oggetto di osservazione a
partire dal secondo dopoguerra, prima con Rene A. Spitz, poi con Margaret Mahler.

Spitz, in Hospitalism (1945), aveva messo in discussione l'idea psicoanalitica classica che la
frustrazione fosse sempre un'occasione di crescita psicologica. Osservando bambini
istituzionalizzati aveva constatato come il loro sviluppo psicologico e perfino fisico rischiasse
una compromissione definitiva. Aveva successivamente effettuato osservazioni sistematiche su
bambini normali nel corso del primo anno di vita, definendo i momenti decisivi dello sviluppo
(organizzatori psichici). I tre indicatori identificati da Spitz (1965) erano:

- la risposta sorriso specifica a tre mesi;

- l' angoscia verso l'estraneo a otto mesi;

- la padronanza del no verso i quattordici mesi.

Mahler aveva descritto il processo di separazione-individuazione, che portava il bambino, nel


corso dei primi due anni di vita, ad acquisire una personalità indipendente. Pur volendosi
mantenere nell'alveo della psicologia dell'Io, Mahler aveva evidenziato come i temi
fondamentali del periodo pre-edipico non fossero riconducibili alla sessualità. Pur mantenendo
tuttora un grande interesse per il periodo che va dai quattro ai ventiquattro mesi di vita del
bambino, il modello di Mahler presentava delle criticità nella descrizione delle primissime
settimane.

Mahler era convinta che la vita umana iniziasse con una "fase autistica normale", cioè
caratterizzata dal completo isolamento, e proseguisse con una "fase simbiotica", nella quale il
bambino avrebbe vissuto come chiuso in un sistema vitale comprendente solo se e la madre.
Stern utilizzava le più aggiornate ricerche empiriche per negare l'ipotesi di una fase iniziale della
vita umana caratterizzata dall'indifferenziazione e dall'isolamento.

Stern operava in un momento di rinnovato interesse per l'osservazione sistematica del rapporto
fra madre e lattante con l'idea che il bambino presentasse delle capacità cognitive già nei
primissimi periodi della vita. Questo filone di studi venne rinnovato da Stern e Thomas Berry
Brazelton, che negli anni Settanta pubblicarono studi pionieristici sull'interazione, la reciprocità
e la partecipazione attiva del lattante nella relazione con la madre.

Nel suo celebre . il mondo interpersonale del bambino (1985), Stern riteneva che un senso del Se
emergente caratterizzi la mente umana fin dalle prime settimane; e che compaiano altri sensi del
Se sempre più ampi, assai prima che con la padronanza del linguaggio si sviluppi il Se narrativo.
Il tentativo di Stern costituì, di fatto, il momento fondativo della cosiddetta infant research, che
inauguro un'attiva ricerca sperimentale sull'infanzia di ispirazione psicodinamica.

L' infant research studiava le prime forme interazionali. Si sviluppo così anche l'esigenza di
superare le ricostruzioni dello sviluppo infantile basate sulle storie narrate dagli adulti in
psicoterapia, per seguire empiricamente l'evolversi concreto delle dinamiche evolutive e
relazionali. Era stato tuttavia il fondamentale contributo della teoria dell'attaccamento di John
Bowlby a presentarsi come un modello di sviluppo in grado di rinnovare le teorie motivazionali
psicoanalitiche fino a proporre una coerente teoria dello sviluppo.

Nel 1928, Bowlby svolse un periodo di volontariato presso una clinica per giovani disadattati, in
cui ebbe concretamente la possibilità di osservare l'importanza the avevano le relazioni per lo
sviluppo della successiva personalità. All'interno della Società psicoanalitica britannica, Bowlby
si forma con il gruppo dei kleiniani attribuendo una maggiore importanza ai legami familiari;
finì quindi per aderire al gruppo degli Indipendenti. Nel 1944, Bowlby intraprese uno studio
pionieristico su due campioni di quarantaquattro giovani: un gruppo di antisociali e un altro di
pazienti ricoverati per altre ragioni psicologiche.

Nel gruppo degli antisociali erano significativamente più presenti storie di abbandono e di
precoce e prolungata separazione dai caregiver. Negli stessi anni divenne direttore del
Dipartimento per i bambini della Tavistock Clinic. Nel 1949, Bowlby pubblico quello che viene
considerato il primo contributo psicoanalitico sulla terapia familiare. La storia della teoria
dell'attaccamento ebbe inizio negli anni Cinquanta, quando James Robertson e Bowlby, colleghi
alla Tavistock Clinic, illustrarono con il filmato A Two¬year-old goes to Hospital (1952) gli
effetti negativi della separazione dalla madre, nel momento in cui un bambino veniva
ospedalizzato.

Robertson e Bowlby si impegnarono quindi nella promozione di buone pratiche che


consentissero ai genitori di rimanere con i bambini durante le ospedalizzazioni. Bowlby si
dedicò quindi alla ricerca in psicologia dello sviluppo, che esito nella pubblicazione della
celebre trilogia su Attaccamento e perdita tra il 1969 e 11 1980. Quivi descrisse l'importanza
dell'attaccamento come sistema motivazionale centrale per l'adattamento e lo sviluppo e come le
sue vicissitudini fossero implicate nella nascita della psicopatologia.

I presupposti generali della teoria dell'attaccamento erano del tutto all'interno di una cornice
evoluzionistica derivata soprattutto dalla rielaborazione delle teorie darwiniane da parte dello
zoologo Robert A. Hinde. Il rapporto tra Bowlby e Hinde fu comunque di reciproca influenza.
Hinde compì importanti osservazioni sulla relazione tra madre e figlio in piccoli gruppi di
scimmie rhesus. Gli zoologi avevano infatti osservato che i piccoli erano molto legati alla madre
anche fisicamente e che il distacco da lei si presentava secondo fasi graduali al crescere dell’età
delle scimmie.

Nel primo volume della trilogia sull'attaccamento, Bowlby criticava quindi l'idea freudiana che
il legame affettivo con la madre avesse una natura secondaria rispetto al soddisfacimento dei
bisogni di nutrimento. Era l'attaccamento e non la pulsione a costituire il principale sistema
motivazionale umano. Bowlby prendeva le mosse anche dallo studio del comportamento di
imprinting da parte dall'etologo Konrad Lorenz, per cui le oche e altri volatili si legavano
indissolubilmente al primo essere vivente che incontravano. Anche gli esperimenti di Harry F.
Harlow vennero ampiamente citati da Bowlby.

Harlow aveva condotto una famosissima serie di esperimenti su alcune scimmie rhesus. Le
scimmie venivano immesse in gabbie dove erano presenti due "madri" fittizie di metallo: una era
stata ricoperta di pezza morbida, mentre sull'altra era stato montato un biberon pieno di latte al
posto del seno. Le scimmiette bevevano il latte dalla madre di metallo, ma poi passa-vano la
maggior parte del tempo abbracciate alla madre di pezza. Soprattutto, quando gli sperimentatori
introducevano nelle gabbie dei giocattoli che spaventavano le scimmiette queste correvano ad
abbracciare la madre di pezza e non quella di metallo.

Per Bowlby le osservazioni di Lorenz, le scoperte di Hinde, gli esperimenti di Harlow furono
cruciali per dimostrare la centralità dell'attaccamento. Parallelamente, anche Mary Ainsworth si
stava occupando dell'attaccamento. Nello stesso anno del primo libro della trilogia di Bowlby,
Ainsworth giunse a concepire una situazione sperimentale che consentisse di studiare
l'attaccamento nei bambini. La procedura, significativamente chiamata strange situation,
prevedeva l'osservazione dell'interazione madre-bambino alla fine di una sequenza di otto
episodi di uguale durata, per un totale di circa 20 minuti.

Ainsworth osservo che alcuni bambini (sicuri), pur mostrando disagio per l'esperienza
stressante, venivano facilmente confortati dalla madre al suo ritorno; altri (insicuri) non
mostravano di esserne rassicurati, o attraverso un forte comportamento di protesta (insicuri
ambivalenti), o attraverso l'evitamento della madre stessa (insicuri evitanti). I bambini che al
ritorno della madre erano insicuri, evitanti o ambivalenti, osservati a casa presentavano una
relazione con la madre meno armoniosa dei bambini sicuri. Le tipologie di attaccamento sicuro,
insicuro/ambivalente, insicuro/evitante poi divennero dei benchmark psicologici per correlare le
più diverse situazioni psicopatologiche con i differenti attaccamenti sicuri o insicuri.

Nel secondo volume della sua trilogia, riguardante la separazione Bowlby affrontava l'omeostasi
normale e patologica delle emozioni in presenza o in assenza di caregiver. In tal senso descrisse
soprattutto rabbia, ansia e fobia in relazione alla separazione. In questo volume introdusse il
fortunato concetto di modello operativo interno (moi) della relazione parentale con cui il
bambino organizzava le relazioni e ordinava il mondo. I moi si formavano a partire dalla
relazione reale con i caregiver e fondavano le aspettative degli individui rispetto alle relazioni
future. Con il concetto di modello operativo interno, Bowlby si staccava decisamente dalle teorie
psicoanalitiche basate sull'idea che sarebbero le fantasie pulsionali a strutturare la personalità.

Le evidenze della teoria dell'attaccamento dimostravano che le relazioni reali influenzavano le


modalità con cui erano costruiti i moi. Nel caso migliore, il caregiver rappresentava una base
sicura, da cui potersi allontanare e a cui poter ritornare in caso di stress. I genitori che
consentivano l'autonomia creavano i presupposti per dei modelli relazionali interni flessibili e
aperti al cambiamento. Se il moi si formava invece sulla base di omeostasi relazionali
patologiche, il bambino avrebbe interiorizzato relazioni tossiche.

Nel terzo volume, dedicato alla perdita e al lutto (1980), Bowlby cercava di ridefinire i
meccanismi difensivi entro una teoria dell'attaccamento sempre pin influenzata dalla psicologia
cognitiva. Egli in particolare chiamava in causa i meccanismi di selezione delle informazioni,
ipotizzando che il bambino potesse aver interiorizzato i modelli operativi su un doppio binario,
quello della memoria episodica e quello della memoria semantica.

Le due modalità di memorizzazione nella normalità erano armonizzate, mentre quando un


bambino interiorizzava relazioni negative la memoria episodica e quella semantica risultavano
scisse e in contrasto. In tal caso la memoria semantica era astratta e in conflitto rispetto alle
micromemorie episodiche che rappresentavano spezzoni concreti di vita vissuta. Un padre o una
madre potevano così essere ricordati in generale come buoni oppure cattivi, ma poi a livello
clinico gli episodi ricordati potevano essere in conflitto.

L'ultimo volume sulla perdita rappresentava un nuovo punto di partenza che tentava di far
almeno dialogare la teoria dell'attaccamento con una possibile nuova forma di psicoterapia, da
un canto innestando nelle teorie della psicoanalisi relazionale concetti derivati dalla psicologia
cognitiva e dello sviluppo, dall'altro proponendo alla stessa psicoterapia cognitiva un modello
relazionale chiaramente derivato dalla psicoanalisi.

Pin in generale il terapeuta, per Bowlby, doveva essere rappresentato come una base sicura che
aiutava il paziente a comprendere la propria relazionalità. A ragione si può quindi concludere
che la teoria dell'attaccamento forni alla psicoterapia delle relazioni oggettuali una
legittimazione empirico-sperimentale che ne favori in seguito una sorta di egemonia teorica nel
contesto della psicoanalisi contemporanea.
SELMA FRAIBERG E LA NASCITA DELLA TERAPIA GENITORE-BAMBINO

Selma Fraiberg (1918-1981) viene usualmente riconosciuta come la prima psicoterapeuta a sperimentare
la terapia genitore-bambino, una tecnica nata per intervenire a favore della salute mentale di un bambino
molto piccolo. Fraiberg si formò negli Stati Uniti prima come assistente sociale e poi come
psicoanalista. Poté quindi sviluppare una particolare sensibilità per le esigenze dei bambini appartenenti
a famiglie disagiate. Il suo retroterra teorico era quello dell'Ego Psychology e i suoi referenti
fondamentali furono Hartmann, Spitz e Mahler.

Ricorse comunque ai contributi di Jean Piaget (1896-1980) e Heinz Werner (1890-1964). I1 suo
contributo clinico costituì il punto di partenza per il trattamento clinico della relazione genitore-
bambino secondo paradigmi molto diversi. Il libro Gli anni magici (Fraiberg, 1959) aveva offerto una
visione dello sviluppo infantile che invocava il recupero della capacità genitoriale di dare ai figli non
solo la possibilità di esprimersi, ma anche l'opportunità di vedersi fissati dei limiti.

I genitori che non fossero in grado di resistere a nessuna richiesta filiale correvano il rischio di
diventarne in seguito complici, quando l'assenza di limiti ii avrebbe messi nelle condizioni di non
comprendere la presenza di ostacoli sul loro cammino. La svolta fondamentale del percorso di Selma
Fraiberg fu costituita dal lavoro con bambini ciechi, che inizio nel 1960, quando le venne chiesto di
seguire un gruppo di ventisette bambini ciechi da tre a quattordici anni. Fraiberg ebbe modo di
constatare che diversi bambini ciechi presentavano quadri clinici molto somiglianti a quelli autistici.

La sua intuizione fondamentale fu che presumibilmente questi bambini fossero stati sottostimolati dai
genitori. Aiutare questi ultimi a prendere coscienza delle esigenze dei figli poteva dunque risultare un
passo decisivo per migliorarne la possibilità di uno sviluppo psicologico adeguato. Inversamente,
trovare strategie per rendere i bambini in grado di migliorare il proprio senso di agency, e attivare
risposte gioiose da parte dei genitori stimolava un atteggiamento più adeguato da parte di questi ultimi.
Fraiberg poté infine dimostrare che i bambini ciechi potevano "rispettare l'appuntamento" con i loro
coetanei vedenti a un certo punto dello sviluppo mentale, pur arrivandovi per altra via.

L'organizzatore psichico corrispondente alla paura dell'estraneo veniva infatti raggiunto da bambini
ciechi, in un ambiente che rispondesse loro in modo adeguato, all'incirca alla stessa età. La metodologia
di intervento utilizzata fu spiritosamente definita da Fraiberg una "psicoterapia in cucina" perché
prevedeva un'assistenza ai genitori a carattere domiciliare, che si caratterizzava per un'osservazione
etologica dell'ambiente familiare e non disdegnava l'aiuto pratico alle famiglie. Un simile atteggiamento
risultava altrettanto sicuramente inedito all'interno del panorama della psicoterapia dell'epoca.

Questa esperienza risultò comunque molto utile quando Fraiberg si trovò nelle condizioni di seguire una
popolazione clinica costituita da famiglie disagiate. Generalmente la situazione vedeva il figlio
caratterizzato da un attaccamento problematico e la madre interessata a chiedere aiuto più per sé stessa
che per il bambino. II lavoro era reso ancora più difficile dalla tendenza al boicottaggio da parte delle
adolescenti, che si percepivano come inadeguate ad assumere il ruolo materno. L'obiettivo della
psicoterapia diveniva quindi quello di "modificare quelle rappresentazioni mentali della madre che
influiscono negativamente sui suoi comportamenti di accudimento".
Il gruppo del Child Development Project del Michigan ripropose il setting ideato a suo tempo da
Fraiberg per i bambini ciechi, nella convinzione che un intervento domiciliare potesse prevenire la
possibilità che le madri saltassero gli appuntamenti. La presenza del bambino era ritenuta fondamentale:
sia perché consentiva di osservare l'interazione madre-figlio e attivava un dialogo non verbale che
includeva il terapeuta; sia perché cambiava completamente l'atteggiamento materno, fungendo da
fortissimo motivatore al cambiamento.

L'atteggiamento di Fraiberg si caratterizzava per un notevole ottimismo terapeutico: di fronte a genitori


sin troppo disposti ad ammettere le proprie la-curie, il suo scopo diventava quello di spingerli a
disconfermare la propria immagine negativa e a offrire il meglio di se. In un saggio rimasto celebre, dal
significativo titolo I fantasmi nella stanza dei bambini (Fraiberg, Adelson, Shapiro, 1974), si trovano
esposti sia una teoria generale della trasmissione intergenerazionale della psicopatologia, sia una guida
specifica alla tecnica terapeutica. Due meccanismi di difesa, secondo Fraiberg, venivano messi in atto:
l'isolamento dell'affetto e l'identificazione con l'aggressore.

La prima difesa pone una persona nelle condizioni di dimenticare la sofferenza legata alle esperienze
passate. La seconda spinge a reiterate comportamenti simili a quelli subiti in passato, nella convinzione
che siano in qualche modo giustificati. Era attraverso queste due difese che i fantasmi vissuti dalla
generazione precedente si rinnovavano in quella successiva. Solo la possibilità di trovare qualcuno in
grado di "ascoltare le lacrime" della madre avrebbe consentito a quest'ultima di aprirsi all'ascolto della
prole.

Questo diveniva lo scopo della psicoterapia, che però procedeva parallelamente nella direzione di
interventi psicoeducazionali: in alcuni casi di tipo semplicemente informativo, in altri improntati alla
soluzione di problemi pratici in modo originale ed empatico. In questo modo, il necessario lavoro
sull'origine dei timori della madre poteva essere affrontato con la dovuta calma. Talvolta alle famiglie
venivano perfino offerte indicazioni su come risolvere problemi economici. In altre parole, Fraiberg
partiva dall'intervento sulle rappresentazioni genitoriali nell'ottica psicoanalitica, ma si allontanava assai
dal principio di neutralità dell'analisi classica. Nel corso degli anni il "modello di intervento Fraiberg per
bambini svantaggiati e per i loro genitori" si diffuse in numerosi consultori degli Stati Uniti.

LA TERAPIA GENITORE-BAMBINO DOPO SELMA FRAIBERG

L'esempio di Selma Fraiberg ha ispirato un ampio ventaglio di tecniche di intervento psicoterapeutico,


che malgrado siano riconducibili a paradigmi teorici piuttosto diversi, hanno conservato l'approccio di
fondo: il coinvolgimento soprattutto di un genitore, cioè la figura di accudimento principale nelle
situazioni cliniche dove un bambino piccolo presenta problemi di condotta sufficientemente significativi
da richiedere l'aiuto da parte della famiglia. Malgrado le differenze queste tecniche hanno finito per
ottenere effetti abbastanza paragonabili.

Le terapie genitore-bambino presentano innanzitutto una serie di fondamentali analogie rispetto al


sistema che costituisce oggetto di attenzione. In ogni psicoterapia genitore-bambino, il paziente e
costituito da una relazione diadica. Già Emde e Sameroff avevano proposto che l'intera psicopatologia
della prima infanzia dovesse essere considerata come funzione di un "disturbo relazionale".

Inoltre la mente del bambino entra nella situazione terapeutica in gran parte come costrutto genitoriale e
difficilmente può essere oggetto di una vera e propria diagnosi; i genitori sono spesso relativamente a-
problematici, anche se la madre è in uno stato psicologico particolare che Winnicott definiva
"preoccupazione materna primaria" e lo stesso Stern "costellazione materna"; il processo di maturazione
psicologica del bambino e estremamente rapido, il che determina una altrettanto rapida evoluzione dei
problemi.

In questo quadro la terapia genitore-bambino assume quasi sempre i connotati di una "terapia breve
seriale", ovvero una tattica terapeutica che prevede poche sedute alla volta ma lascia alla famiglia la
porta aperta per uno o pin interventi successive, a seconda del possibile emergere di nuovi problemi
all'apertura delle successive possibili "finestre cliniche". Anche l'uso della ripresa video ha costituito
spesso un elemento comune alle varie tecniche.

Le varie scuole di psicoterapia genitore-bambino si sono poste in lines di principio obiettivi diversi. Le
impostazioni più ispirate dalla psicoanalisi hanno teso ad avere come obiettivo terapeutico il
cambiamento delle rappresentazioni genitoriali, nella convinzione che questo portasse a comportamenti
di accudimento più adeguati e di conseguenza migliorasse la relazione con il figlio. Per ottenere un
simile risultato hanno utilizzato diverse "vie di ingresso". Se alcuni terapeuti partivano proprio da
un'analisi delle rappresentazioni materne, altri utilizzavano tecniche più indirette.

Thomas Berry Brazelton usava esordire invitando la madre ad attirare l’attenzione del figlio a turno con
lui. Francoise Dolto soleva "doppiare" il bambino, traducendo in parole le sensazioni che questi provava
durante la consultazione terapeutica. Anche le modalità relazionali potevano risultare diverse con le
diverse clientele. Alicia Lieberman e aveva ispirato una tecnica di intervento con i ceti poveri di San
Francisco, sviluppo anche una tecnica in cui la sua prima preoccupazione era costruire un transfert
positivo e un'alleanza terapeutica positiva con le madri.

Bertrand G. Cramer e Francisco Palacio Espasa potevano dare per scontata l'alleanza terapeutica
positiva, dato che il loro intervento veniva sollecitato direttamente da famiglie di condizione abbastanza
privilegiata. In certi casi, potevano anche permettersi di interpretare come resistenza il transfert positivo,
circostanza che sarebbe risultata deleteria con famiglie a forte rischio di drop-out dalla terapia. Altri
terapeuti hanno impostato l'intervento genitore-bambino sulla base di un paradigma di tipo cognitivo-
comportamentale, volto a modificare la condotta genitoriale piuttosto che le rappresentazioni materne.

La tecnica sviluppata da Susan McDonough si è fondata essenzialmente sul feedback rispetto alle
interazioni tra genitore e bambino in una situazione di gioco pre-programmata. Il terapeuta prendeva
nota dei comportamenti più adeguati e dei momenti nei quali sembrava esprimersi una maggiore
sensibilità genitoriale verso le esigenze del bambino; allo stesso tempo osservava anche le azioni meno
felici, proponendosi di modificarle o alterarle, soprattutto quando sembravano risultare critiche.
Ulteriori approcci si sono posti al confine tra la terapia genitore-bambino e la terapia sistemica. Per
esempio, il "paradigma del gioco trialogico di Losanna" è nato specificamente nell'intento di creare una
tecnica di ricerca-intervento per famiglie al primo figlio, nelle quali uno dei due genitori presentasse
tratti psicopatologici.

Malgrado le relative differenze di impostazione dei diversi metodi, come si e detto, gli effetti ottenuti
sembrano essere fondamentalmente simili. Cie potrebbe essere legato alla particolare natura del sistema
genitore-bambino oggetto di trattamento. Sembra del tutto conseguente che modificare le
rappresentazioni di sé stessa da parte della madre migliori i suoi comportamenti di accudimento; che
modificare i suoi comportamenti di accudimento porti a un cambiamento nelle risposte del bambino. Di
fatto, dunque, la tecnica da adottare può essere influenzata da esigenze pratiche. Al punto che tendenze
pin recenti hanno visto l'affermarsi di una "psicoterapia multimodale genitore-bambino".
LA PSICOLOGIA ANALITICA DOPO JUNG

Per quando Jung fosse divenuto presto famoso, il movimento junghiano non acquisì mai dimensioni
minimamente paragonabili a quelle del movimento psicoanalitico classico, e ciò per varie ragioni.
Innanzitutto l'atteggiamento di Freud verso le idee di Jung fu di totale rimozione e i suoi primi seguaci
non furono da meno di Freud nell'ostracizzare ogni possibile contatto con la lettura di Jung. In secondo
luogo, Jung tardò a organizzare una società strutturata come l'IPA.

II gruppo degli psicoanalisti zurighesi dopo il 1914 era rimasto con Jung, riunendosi in un'Associazione
per la psicologia analitica, che nel 1918 fu assorbita dal cosiddetto Club di psicologia analitica. Dopo la
Prima guerra mondiale cominciarono ad affluire a Zurigo richieste di analisi anche dall'estero, ma solo a
partire dal 1925 Jung inizio a tenere dei seminari in inglese anche per gli allievi stranieri. Le riunioni
regolari del Club continuarono a tenersi in tedesco.

Jung, fino alla Seconda guerra mondiale, non sembro mai interessato a fondare una propria scuola. II
cosiddetto Jung Institut fu fondato a Zurigo solo nel 1947 e la International Association of Analytical
Psychology (tAAP) solo nel 1955. A lungo gli junghiani furono considerati outsider. Una certa
espansione del movimento junghiano si ebbe solo a partire dagli anni Settanta, cioè proprio quando
l'interesse per le culture orientali si stava manifestando in modo prepotente: certamente l'apertura di
Jung verso religioni e filosofie extraeuropee rendeva il suo pensiero di particolare interesse.

Gli junghiani avevano cominciato a declinare il pensiero del caposcuola secondo modalità diverse.
Samuels ritenne di poter distinguere tra una scuola classica, una archetipica, una evolutiva. La prima
rimase fedele al pensiero di Jung, concentrandosi soprattutto sui temi del Se e del processo di
individuazione. Nell'ambito della scuola classica può essere collocato Erich Neumann. Jung scrisse una
prefazione alla sua Storia delle origini della coscienza, descrivendola in pratica come l'ideale
sistematizzazione e prosecuzione del proprio lavoro.

La scuola archetipica ha fatto capo a James Hillman, forse non il più originale ma certamente il pin
prolifico e il pin noto degli psicologi analisti dopo Jung. Hillman, che non esito a chiamare la propria
come "psicologia archetipica", dopo un inizio promettente prese a perseguire il proposito che si
dovessero curare le idee piuttosto che le persone.

La scuola evolutiva rappresentava un'interpretazione dello junghismo che prese avvio in Gran Bretagna,
soprattutto per iniziativa di Michael Fordham. Tale scuola ha prestato una particolare attenzione alla vita
infantile. Si tratta della declinazione della psicologia analitica che pin si e ibridata con la psicoanalisi
classica. Fordham è stato influenzato da Melanie Klein, il cui pensiero riteneva compatibile con la teoria
archetipica. Secondo Kirsch, in tempi pin recenti si e assistito a una perdita di interesse per la psicologia
archetipica, mentre si e avuta la formazione di due nuove tendenze.

Da una parte si è formata la scuola iPerclassica, portata avanti da chi riteneva che tutte le risposte alle
questioni teoriche e cliniche potessero essere trovate nelle opere di Jung, o in quelle di un'altra allieva
fedele, Marie-Louise Von Franz. Dalla parte opposta si è affermata una tendenza alla fusione con la
psicoanalisi di derivazione freudiana e a porre un accento particolare su transfert e controtransfert a
discapito dell'immaginazione e dell'analisi dei simboli.

ERMENEUTICA E CRISI DELLA METAPSICOLOGIA


LA NASCITA DELLA PSICOANALISI INTERSOGGETTIVA

Heinz Hartmann era stato il più convinto fautore della necessità di accreditare la psicoanalisi come
teoria scientifica nel senso tradizionale. La messa in discussione di questo progetto originò tentativi,
come quello di David Rapaport, di ristrutturare la metapsicologica freudiana su nuovi principi; tali
tentativi risultarono peraltro infruttuosi. Furono proprio alcuni tra i principali esponenti della scuola di
Rapaport, come Merton Gill, Roy Schafer, George Klein, Donald Spence, a proporre un vero e proprio
abbandono della metapsicologia, in direzione di una psicoanalisi focalizzata sulla clinica; il risultato di
queste spinte fu essenzialmente una psicoanalisi orientata nel senso dell'ermeneutica.

Il termine "ermeneutica" significa in senso generale "interpretazione". Per ermeneutica si intende però
un movimento filosofico, le cui lontane radici affondano nell'interpretazione dei testi sacri, intesa come
tentativo di recuperarne il significato autentico di contro alla tradizione. Il primo a identificare
l'ermeneutica come corrente filosofica vera e propria fu però presumibilmente Emilio Betti nel suo
Manifesto ermeneutico, che ne riconduceva ex post l'origine agli scritti di Friedrich Schleiermacher e
Wilhelm Dilthey.

I principali esponenti dell'ermeneutica filosofica sono considerati nel Novecento Martin Heidegger e
Hans-Georg Gadamer. L'ermeneutica esprime la convinzione che il fondamento della conoscenza del
mondo umano non possa essere assoluto; l'umanità non conosce fatti ma solo interpretazioni: tali
interpretazioni sono sempre circolari e auto-fondanti. Tuttavia per quanto l'ermeneutica fosse
originariamente intesa come un'arte, “quando oggi parliamo di ermeneutica, ci collochiamo invece nella
tradizione scientifica dell’età moderna.”

Quindi l'esistenza del circolo ermeneutico non riconduce l'interpretazione all'arbitrio ma al tentativo di
applicare la metodica più rigorosa, per quanto i risultati possano essere provvisori. Già negli anni
Sessanta due filosofi europei, Paul Ricoeur e Juergen Habermas, avevano delineato una rilettura di
Freud alla luce dell'ermeneutica, nella quale introducevano l'idea che la psicoanalisi avesse scoperto un
nuovo mondo ma fosse rimasta erroneamente legata a una concezione scientista e positivista.

Per Ricoeur, Freud diventava soprattutto uno dei maestri del sospetto, insieme a Marx e Nietzsche. A
partire dai tre citati filosofi, scriveva Ricoeur, "la comprensione è un'ermeneutica, cercare il senso non
consiste più [..] nel compitare la coscienza del senso, ma nella decifrazione delle espressioni".

Tutti e tre i filosofi partono dal "sospetto sulle illusioni della coscienza"; tutti e tre si dirigono verso l' "
astuzia della decifrazione"; tutti e tre "anziché essere detrattori della 'coscienza' mirano a una sua
estensione". Lo scopo precipuo di Freud sarebbe consistito nella rivelazione della vita simbolica
dell'uomo. Habermas riteneva che Freud fosse vittima di un "autoinganno scientifico", convinto com'era
di aver fondato una scienza naturale, poggiata su principi deterministici.

Senza rendersene conto, Freud avrebbe abbandonato la tecnica dell'ipnosi "poiché l'analisi non è un pro-
cesso naturale controllato, bensì, al livello dell'intersoggettività colloquiale tra medico e paziente ".
L'opera dell'analista può attuare un "superamento [Aufbebung]2 dei nessi causali" tra i fenomeni, cosa
che non sarebbe possibile in un contesto scientifico classico. In questi termini, il processo psicoanalitico
sarebbe assi¬milabile al processo di autocoscienza dello Spirito descritto dalla filosofia idealista
dell'Ottocento.

Gli scritti di Ricoeur e Habermas costituirono una sorta di ballon d'essai. Se non ricevettero immediata
attenzione da parte del mondo psicoanalitico, vennero certamente riletti con altro interesse dopo la crisi
della metapsicologia e soprattutto dopo la sempre più forte acquisizione della necessità di una
convivenza tra i diversi modelli in campo psicoanalitico: l'uso di modelli alternativi per il loro valore
euristico avvicinava fortemente il mondo della psicoanalisi all'ermeneutica e all'epistemologia
postmoderna.

Della svolta degli anni Settanta, probabilmente il libro collettaneo Psi¬cologia contro metapsicologia
costituì una sorta di manifesto. Di tale libro, specificamente emblematico risultava il capitolo "La
metapsicologia non è psicologia" dove Gill scriveva, in modo che non potrebbe essere più esplicito:

il termine metapsicologia Freud intendeva un insieme di assunti biologici e neurologici che egli applicò
alla teoria psicoanalitica, nonostante sostenesse frequentemente di rimanere su un terreno psicologico.

Gill si basava su una lettura del Progetto di una psicologia di Freud (1895), quale fondamento occulto
dello sviluppo della metapsicologia freudiana. Secondo questa lettura il Progetto conteneva delle ipotesi
sul funzionamento neurologico della mente che vennero sì abbandonate da Freud, ma costituirono
comunque lo scheletro delle sue successive ipotesi topiche, strutturali ed economiche.

Mettere da parte la metapsicologia significava affidarsi alla pratica clinica come fonte più diretta e
sicura: si iniziò a parlare di una teoria clinica della psicoanalisi, a ripensare al lascito di Freud come a un
serbatoio di modelli e metafore. Roy Schafer propose che i resoconti clinici dovessero basarsi sul
linguaggio più vicino possibile alla pura descrizione diretta, proponendo il cosiddetto linguaggio-azione:
ogni evento narrato avrebbe dovuto essere descritto in termini di ciò che il paziente diceva e faceva.

Incidentalmente, questo corrispondeva all'aspettativa di Schafer su quale dovesse essere l'approdo di


un'analisi: il passaggio, per il paziente, dall'idea di essere condizionato da una serie di eventi
semplicemente subiti all'assunzione progressiva di responsabilità per la propria vita.

Se l'idea di affidarsi alla pura osservazione poteva risultare rassicurante, non tardò a farsi strada anche
tra gli psicoanalisti un principio da tempo accertato dagli epistemologi: i fatti sono theory laden, intrisi
di teoria. Non esiste la possibilità di osservare alcun fenomeno senza presupposti; la convinzione
contraria è stata scherzosamente battezzata dai filosofi della scienza come il "dogma dell'immacolata
percezione". La teoria clinica si indirizzò quindi in maniera piuttosto naturale verso l'approdo
ermeneutico. L'impossibilità di sfuggire dal circolo ermeneutico venne tematizzata nel modo più
esplicito dallo stesso Roy Schafer, quando scrisse:

"Non può esistere nessun fondamento assoluto sul quale un osservatore possa basarsi; ognuno deve
scegliere la propria narrazione". Donald Spence sostenne che l'analisi non fosse in grado di raggiungere
la "verità storica" del passato di una persona; il suo scopo deve essere però piuttosto quello di ottenere
una "verità narrativa", cioè una ricostruzione coerente con i ricordi a disposizione ed efficace a fini
terapeutici.

LA NASCITA DELLA PSICOANALISI INTERSOGGETTIVA

La crisi della metapsicologia e la nascita della psicologia del Sé costituirono certamente l'occasione
storica in cui la psicoanalisi americana è stata costretta a prendere atto dell'impossibilità per il
paradigma classico freudiano di mantenere l'egemonia. Il testo che però, secondo Lewis Aron, può
essere considerato il simbolo della messa in discussione definitiva della possibilità di una psicoanalisi
intesa come teoria unificata è Faces in a Cloud di Stolorow e Atwood , che costituì anche un vero e
proprio atto fondativo della cosiddetta teoria intersoggettiva della psicoanalisi. La tesi di fondo del libro
era che ogni teoria psicologica si strutturasse sulla base del profilo psicologico e degli interessi personali
del suo autore.

In Volti nelle nuvole venivano presi in considerazione diversi teorici della psicologia del profondo, dei
quali venivano paragonate le biografie con le opere scritte. Tra tali teorici veniva incluso Jung che aveva
proposto la stessa idea diversi decenni prima. Stolorow e Atwood ammettevano bensì la lontana
paternità junghiana di tale idea, ma limitatamente al dualismo introversione-estroversione, peraltro
confessando candidamente che la loro lettura di Jung si riduceva al volume vii delle Opere, trascurando
quindi Tipi psicologici. La tesi di fondo che sostanziava Volti nelle nuvole era che, in psicologia,
"l'osservatore è l'os¬servato".

Anche questa era un'idea già proposta da Jung, per il quale "in psicologia sussiste la circostanza
alquanto particolare che […] il processo psichico non è soltanto oggetto, ma allo stesso tempo anche
soggetto". La prima espressione di un tale principio, in realtà, risaliva almeno a Auguste Comte. Il padre
del positivismo francese la asseriva per sostenere che la costruzione di una psicologia scientifica
dovesse essere considerata una causa persa in anticipo; la condotta umana sarebbe stata descritta
piuttosto dalla biologia sul piano individuale e dalla sociologia sul piano collettivo.

Veniva proposto da Stolorow e Atwood il principio della necessaria intersoggettività dell'esperienza


umana, riprendendo una tradizione filosofica risalente agli anni Trenta del Novecento e comprendente
autori come Martiri Buber, Karl Barth, Paul Tillich, Friedrich Gogarten. Questa tradizione aveva in
realtà esercitato una profonda influenza su alcuni psicoanalisti tedeschi, il più importante dei quali Karl
Landauer, morì nel campo di concentramento di Bergen-Belsen.

Stolorow, Atwood e il loro gruppo proponevano che ogni essere umano potesse esperire la propria
mente solo a condizione di condividere con altri la propria soggettività. Il concetto di relazione
soggetto-oggetto doveva essere sostituito da quello di relazione soggetto-soggetto. Questo si tradusse
poi, da una parte, in una concezione della psicopatologia come frutto del contesto degli schemi di
interazione interpersonali;" dall'altra, in una descrizione fenomenologica dell'esperienza umana come
caratterizzata dall'appartenenza a un campo intersoggettivo.

La psicoanalisi intersoggettiva si trasformava ben presto in una sorta di corrente della psicologia del Sé
di Kohut. Rispetto alla formulazione di Kohut, gli intersoggettivisti sottolineavano che "riguardo alla
dimensione di esperienza di oggetto-Sé non solo il paziente si rivolge all'analista per le funzioni di
oggetto-Sé, ma anche l'analista si rivolge al paziente per tali funzioni "; inoltre, che il campo
intersoggettivo, essendo "costituito dall'intergioco reciproco tra due (o più) campi intersoggettivi",
risulta "più ampio ". Gli intersoggettivisti hanno progressivamente contribuito a spostare la psicologia
del Sé nell'orbita di quella che è stata definita "la svolta relazionale" nella psicoanalisi americana.

L’AFFERMARSI DELLA PSICOTERAPIA COGNITIVA

la psicoterapia cognitiva ha conosciuto la sua definitiva affermazione in tempi relativamente recenti. Il


crescente interesse per la psicoterapia cognitiva è innanzitutto dovuto alla suscettibilità di quest'ultima a
essere breve, economica e "verificabile". La psicoterapia cognitiva si presentava proprio nel periodo di
affermazione dell'economia monetarista come un modello terapeutico smart Ispirata originariamente
dalle idee di Festinger e Kelly, avviata alla diffusione dalla pratica di Ellis, la psicoterapia cognitiva
ricevette in seguito l'impulso più importante da Aaron T. Beck.

Nato a Providence Beck frequentò la Brown University e Yale, completando gli studi di medicina nel
1946, per specializzarsi poi come psichiatra. Come Ellis, dunque, Beck arrivò a formulare un nuovo
modello terapeutico, muovendo da una formazione psicoanalitica; come Ellis, inoltre, cominciò a
tracciare la nuova rotta a partire dalle difficoltà incontrate nell'operazionalizzare concetti psicoanalitici.
Malgrado fosse più giovane di Ellis di soli otto anni Beck raggiunse la notorietà solo negli anni Settanta.

Beck frequentò l'Austen Riggs Center, entrando in contatto con personaggi autorevoli come Rapaport,
Erik Erikson, Schafer. Mosse poi i primi passi come accademico nel Dipartimento di psichiatria della
University of Pennsylvania. L'atteggiamento fideistico nei confronti del pensiero freudiano e il sistema
rigido di cooptazione in uso nelle società psicoanalitiche avrebbero tuttavia spinto Beck verso teorie
psicologiche più aperte al confronto e alla verifica empirica. Le idee di Beck erano già chiaramente
sviluppate nella sua prima monografia importante, per quanto dedicata al tema specifico della
depressione.
La depressione fu al centro degli interessi di Beck a lungo e fin dagli anni Cinquanta. La sua prima
pubblicazione rilevante sul tema riguardava la reazione depressiva di soldati che avevano
accidentalmente ucciso commilitoni. Beck notò che l'ideazione e i contenuti dei sogni di questi soldati
presentavano spesso temi di auto-punizione. Studi specifici sui sogni di pazienti depressi misero Beck
in condizione di constatare che tali sogni presentavano, rispetto a quelli di pazienti non depressi,
contenuti più spiacevoli.

Un'indagine sistematica, effettuata ricorrendo a giudici indipendenti, mostrò che la quantità di sogni
cosiddetti masochistici tendeva ad aumentare con l'aumentare della gravità della depressione. A questo
punto, però, Beck si era trovato di fronte a un paradosso. Le sue ricerche mostravano chiaramente la
validità di un'ipotesi psicoanalitica fondamentale: quella della significatività dei sogni dal punto di vista
del contenuto psicologico. L'idea fondamentale di Freud riguardo all'interpretazione da dare a tale
contenuto, tuttavia, presentava delle difficoltà. Se si dovevano considerare i sogni come appagamento
di desideri, la presenza di temi masochistici nei sogni dei depressi poteva essere spiegata in due modi
diversi:

(a) come il frutto di "ostilità invertita";

(b) come desiderio di autopunizione generato da senso di colpa, presumibilmente per un ulteriore
desiderio inaccettabile per la coscienza.
Tuttavia, a partire dal contenuto manifesto dei sogni non risultava mai possibile né identificare elementi
che riconducessero a ostilità, né tracce di senso di colpa. La possibilità di spiegare i sogni dei depressi
sulla base delle teorie psicoanalitiche non era dunque suscettibile di dimostrazione. Beck provò allora
una strada alternativa, che lo metteva in condizione di "restare al livello delle esperienze dei pazienti"
piuttosto che supporre processi sottesi e apparentemente indimostrabili. Il passo successivo di Beck fu
infatti quello di confrontare le narrative di individui depressi e non depressi, giungendo alla conclusione
che nei primi fosse possibile riscontrare "le prove di una deviazione dal pensiero logico e realistico" che
si manifestava con modalità caratteristiche.

Sulla base di queste osservazioni, Beck formulò una teoria specifica sull'origine della depressione,
legata non più a processi inconsci ma al pensiero cosciente. Al fondo della depressione vi sarebbe una
triade fondamentale (visione negativa del mondo, di sé, del futuro) innescata soprattutto
dall'interpretazione selettiva o impropria delle esperienze personali. La psicoterapia della depressione si
basava, secondo Beck, sulla modifica di tali processi cognitivi; il paziente doveva essere messo in grado
di "esaminare i suoi modelli di vita, i suoi pensieri automatici e le sue concezioni erronee fondamentali".

Scopi del terapeuta, per Beck, erano allora la ristrutturazione cognitiva e il superamento delle credenze
automatiche e primitive, in favore di modalità di elaborazione cognitiva flessibili. Oltre a proporre una
definizione operativa della depressione e una teoria della tecnica terapeutica specifica, Beck introduceva
anche uno strumento di misurazione del fenomeno depressivo (il Beck Depression Inventory), che
poteva essere utilizzato anche per saggiare l'efficacia dell'intervento terapeutico.

Tuttavia, già studiando la depressione, Beck aveva notato che anche altri gruppi di pazienti
presentavano modalità idiosincratiche altrettanto specifiche di distorsione ideativa. Nel libro La
depressione era in effetti contenuta una teoria generale che riconduceva potenzialmente tutte le
psicopatologie alla triade costituita da visione distorta del mondo/di sé/del futuro.

In questa concezione i normali processi di codifica e immagazzinamento delle informazioni nel caso di
un funzionamento disadattivo sarebbero influenzati da credenze e pregiudizi (bias) tali da creare
comportamenti che disturbano gli individui tanto da manifestarsi come psicopatologie.
Nell'ipomaniacale la distorsione sarebbe avvenuta nella direzione opposta a quella del depresso,
consistendo in una visione esageratamente positiva della propria esperienza e delle proprie aspettative.
Nelle fobie e nelle nevrosi d'ansia diveniva fondamentale il tema della possibile presenza di un pericolo.
Il pericolo sarebbe stato presente anche nell'ideazione ossessiva.

Nel paranoide l'esperienza personale sarebbe stata letta univocamente in termini di maltrattamenti, abusi
o persecuzione. Nella psicosi il contenuto ideativo sarebbe stato simile a quello nevrotico, salvo risultare
"più accentuato o più inverosimile". Sembra che Beck non fosse ancora pronto per proporre un modello
terapeutico univocamente alternativo a quello psicoanalitico. Egli andava elaborando una sorta di
cognitivizzazione della psicoanalisi dell'Io, soprattutto nella versione diffusa da Rapaport nella Struttura
della teoria psicoanalitica (1960).

Il pensiero patologico era considerato primitivo, rigido e inflessibile, rispetto al pensiero evoluto. È
interessante notare che, nella monografia sulla depressione, Beck definiva la nuova terapia da lui
proposta come "psicoterapia cognitiva (d'insight)". Si trattava comunque della prima occorrenza
dell'etichetta psicoterapia cognitiva nella letteratura scientifica. Nel 1970 Beck pubblicò su Behavior
Therapy, un saggio in cui presentava la terapia cognitiva come modello a sé stante.
Del nuovo modello venivano considerate le affinità e le differenze rispetto alla terapia
comportamentista. Sia la terapia cognitiva sia quella comportamentista, sosteneva Beck, evitavano la
libera associazione e la ricostruzione del periodo di sviluppo del paziente, non utilizzando concetti
teorici psicoanalitici come la sessualità infantile; si basavano invece su interviste terapeutiche
strutturate, volte a definire i problemi comportamentali del paziente. Di fronte ai possibili dubbi dei
comportamentisti sull'uso cognitivista dei resoconti soggettivi dei pazienti, Beck asseriva che tali
resoconti potevano comunque dare origine a ipotesi testabili.

La conclusione dell'articolo proponeva che in realtà il modello cognitivista potesse assorbire le tecniche
comportamentiste, fornendo però "un framework teorico più ampio". Di fatto la terapia cognitiva di
Beck utilizzava un ampio ventaglio di tecniche. In primo luogo si serviva dell'approccio intellettuale,
consistente "nell'identificare i concetti errati, esaminarne la validità e sostituirli con concetti più
appropriati".

In secondo luogo, impiegava l'approccio esperienziale, che "espone il paziente ad alcune esperienze che
sono di per sé abbastanza forti da modificare í suoi concetti errati". Beck si riferiva al riguardo sia alla
strada, già indicata da Franz Alexander, dell'esperienza emotiva correttiva" offerta dalla situazione
terapeutica, sia alla tecnica dell'esposizione del paziente a situazioni precedentemente evitate a causa
delle proprie idee distorte. In terzo luogo, la terapia cognitiva sfruttava l'approccio comportamentale,
onde favorire "lo sviluppo di forme specifiche di comportamento che conducono a cambiamenti più
generali delle modalità in cui il paziente vede se stesso".

La REBT di Ellis e la terapia cognitiva (CT) di Beck presentavano somiglianze evidenti, ma anche
differenze importanti. Rispetto a Ellis Beck riteneva che fosse possibile "arrivare alle emozioni della
persona attraverso le sue cognizioni". Ellis era inoltre convinto che le credenze irrazionali fossero
sostanzialmente simili per tutte le forme di psicopatologia, mentre Beck descriveva profili cognitivi
diversi per i diversi disturbi.
Altre differenze sono state così sintetizzate:

La teoria della REBT afferma che un soggetto sofferente ha credenze irrazionali che contribuiscono a
pensieri irrazionali […]. Il terapeuta cognitivo, operando a partire da un modello induttivo, aiuta il
paziente a tradurre le interpretazioni e le credenze in ipotesi […] . Un terapeuta REBT è più incline
all'uso di un modello deduttivo per sottolineare le credenze irrazionali. Il terapeuta cognitivo evita il
termine "irrazionale" preferendogli il concetto di "disfunzionale", in quanto le credenze problematiche
sono, più che irrazionali, non adattive. Esse contribuiscono ai disturbi psicologici perché interferiscono
con l'elaborazione cognitiva normale.

Beck definiva collaborazione terapeutica o empirismo collaborativo la relazione terapeutica da lui


proposta, in quanto il paziente, pur guidato da tecniche direttive, veniva invitato a esplorare
autonomamente le conseguenze degli eventuali cambiamenti. Anche la terapia di Beck venne quindi
elaborata nel contesto culturale da cui nacque il cognitivismo, offriva strumenti utili per proporre
un'alternativa liberai all'antropologia sia dei conservatori sia dei socialisti.

Fu però solo fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta che il contesto fu pronto per la sostituzione della
psicoanalisi con la terapia cognitiva come modello egemone della psichiatria e della psicologia clinica
anglosassoni. Del resto anche la psichiatria in questi anni cambiò pelle e si affermarono gli psichiatri
classificatori neokraepeliniani, egemoni a partire dalla terza edizione del Diagnostic and Statistical
Manual of Mental Disorders (DsM- III);" furono questi gli anni di radicamento di una experimental
science lobby che fino ai giorni nostri colonizzerà le scienze "psi".

L’APPRENDIMENTO SOCIALE, IL SOCIO-COGNITIVISMO E LE TERAPIE COGNITIVO-


COMPORTAMENTALI

Negli stessi anni della diffusione della psicoterapia cognitiva, si radicava nell'accademia americana una
tradizione neocomportamentista e cognitivo-sociale, incarnata soprattutto da Albert Bandura e Phil
Zimbardo. L'approccio cognitivo-sociale di Bandura si fondava sull'idea che la personalità fosse un
sottoprodotto del contesto di interazione fra comportamento, eventi interni di natura sia psicologica sia
biologica, e ambiente; per questa prospettiva l'individuo era guidato dai propri obiettivi, aspettative,
schemi cognitivi e sistemi di autoregolazione.

Phil Zimbardo dimostrò invece, con l'esperimento della prigione di Stanford, che era soprattutto il
"potere della situazione" il concetto chiave per comprendere e modificare i comportamenti." Ne
conseguiva che gli interventi in un'ottica cognitivo-sociale non dovrebbero essere orientati a modificare
supposte disposizioni individuali, ma a ristrutturare i contesti. Bandura introdusse nei modelli di
apprendimento del comportamentismo una nuova modalità di condizionamento secondo cui esso è il
risultato "degli effetti che si vedono seguire nelle condotte altrui; e soprattutto [...] delle valutazioni e
anticipazioni di quanto accade".

Veniva in tal modo teorizzato un meccanismo relativo all'apprendimento sociale in cui non era
solamente il rinforzo a giocare un ruolo centrale nella memorizzazione e nell'esercizio delle condotte.

Celebri furono gli esperimenti di Bandura su questo tipo di apprendimento, definito vicariante, e il
processo di modeling del comportamento, passati alla storia come Bobo doll experiments, condotti da
Bandura fra il 1961 e il 1963. Questi esperimenti dimostravano che i comportamenti potevano essere
appresi o evitati non solamente per mezzo di premi o punizioni ma anche osservando negli altri
comportamenti che erano premiati o puniti.

Nelle varie condizioni sperimentali i bambini vedevano adulti che picchiavano un bambolotto a forma di
clown (Bobo doti). Gli adulti picchiatori potevano non subire conseguenze per il proprio
comportamento, oppure essere premiati o puniti. I bambini tendevano a imitare il picchiatore, e tale
imitazione diminuiva solamente quando i bambini osservavano che il picchiatore veniva punito e
sgridato per le sue azioni. In tal senso, i percorsi evolutivi di costruzione dell'individualità sarebbero
determinati dai processi di modellamento (modeling) rispetto a figure esterne di riferimento da cui i
soggetti estraggono regole di comportamento che memorizzano, selezionano e decidono di agire in
funzione dei propri obiettivi.

Se quello di Bandura fu il perfezionamento di una teoria dell'apprendimento in cui l'individuo aveva un


ruolo attivo e selettivo dei contesti in cui operava, per Zimbardo erano le condizioni contestuali a
determinare effetti individuali sotto il profilo cognitivo e comportamentale. Nel suo Effetto Lucifero
(2007) viene dimostrato che il male è perpetrato perché si creano alcune condizioni contestuali e
cognitive capaci di "incantare" gli individui, facendoli comportare anche in modo disumano.
I principali meccanismi implicati nel comportamento maligno sarebbero così i contesti quando
promuovono la disumanizzazione degli altri, la de-individuazione e l'anonimato, la diffusione della
responsabilità personale, la cieca obbedienza all'autorità. Zimbardo ha quindi promosso specifiche
forme di terapia cognitivo-comportamentale; in particolare ha fondato una clinica per la cura della
timidezza e inoltre una terapia della prospettiva temporale, la cui efficacia è stata recentemente
dimostrata per il disturbo da stress post-traumatico.

In entrambi i casi si tratta di particolari tipi di terapie che mirano ad allenare le persone a regolare gli
stati psicologici e i comportamenti in modo da modificare i contesti o scegliere nicchie sociali che
influenzino virtuosamente la personalità. la terapia della prospettiva temporale di Zimbardo prevede
l'elaborazione in termini positivi del proprio passato e delle possibilità di pianificazione del futuro. In
questo approccio è dunque centrale l'idea che i meccanismi di autoregolazione e autocontrollo siano
fondamentali nel rinforzare le capacità individuali di gestire le emozioni. In tal senso i cognitivisti
sociali hanno pianificato programmi psicoeducativi per far sviluppare, ai bambini cresciuti in ambienti
deprivati, fiducia nelle capacità di pianificazione del futuro.

L'apprendimento sociale in ogni caso fu importante soprattutto perché fornì ai terapeuti


comportamentisti Io stimolo a sviluppare un approccio che integrava l'apprendimento vicariante con le
classiche tecniche di apprendimento comportamentiste. I costrutti della perceived self efficacy e del
modeling vennero quindi corrente-mente utilizzati sia negli approcci comportamentisti sia negli
approcci cognitivi soprattutto come tecniche in cui il terapeuta esemplificava reazioni appropriate
rispetto a quelle del paziente.

la ricerca e le applicazioni degli studiosi di orientamento socio-cognitivo poggiano tuttora sulle idee
fondamentali del social learning: il controllo delle interazioni fra processi psichici e le situazioni
ambientali e dinamiche in cui questi si manifestano; il rinforzo e í modelli di identificazione come
elementi costitutivi e trasformativi della personalità.

Su queste basi, negli anni Settanta si è diffusa una nuova riarticolazione della terapia comportamentista.
Soprattutto con Arnold Lazarus, la psicoterapia cognitiva è andata via via integrandosi anche con le
teorie dell'apprendimento, dando luogo alla terapia cognitivo comportamentale (CBT). Nei modelli della
CBT tutte le prospettive che facevano riferimento alle teorie dell'apprendimento, al cognitivismo e
all'apprendimento sociale sono state integrate. Tale unione di tecniche ha così portato all'uso di prassi
psicoeducative, desensibilizzazione sistematica, condizionamento avversavo, modeling, problem
solving, tecniche di coping.

La psicopatologia in quest'ottica era vista come un sottoprodotto di false credenze che anticipavano
situazioni normali disturbando l'individuo anche sotto il profilo psicofisiologico. I comportamenti
associati alle psicopatologie (stereotipie, ricerca di rassicurazione, comportamenti ritualizzati,
evitamento, ruminazione ecc.) avrebbero avuto inoltre un valore palliativo rispetto alla sofferenza
indotta dalle difficoltà di elaborazione. I sintomi nasconderebbero infatti tentativi inefficaci di adattarsi
a situazioni, esterne o interne, che potrebbero poi essere più o meno permeabili al cambiamento
attraverso la psicoterapia.

L'obiettivo di queste terapie era quindi favorire una ri-rappresentazione delle idee disturbanti. I terapeuti
agivano in vario modo sulle credenze, sulle auto-rappresentazioni e sulle illogicità del pensiero
nevrotico e psicotico. Il terapeuta cognitivo-comportamentale procedeva quindi focalizzando
l'attenzione del paziente su tutte quelle false credenze e quei meccanismi cognitivi che non erano
efficaci nella gestione delle difficoltà e degli stati interni. Mediante la terapia cognitivo-
comportamentale si poteva intervenire, sia sulla situazione, sia sull'attenzione e le credenze, sia sul ri-
apprendimento del comportamento.

Il terapeuta avrebbe potuto eseguire anche strategie psicoeducative, utilizzando le immaginazioni


guidate o i compiti a casa, aiutando il paziente a fare esperienze di situazioni ingestibili, oppure
analizzando tutti quegli stimoli che sollecitavano una risposta emotiva disturbante, con il fine di attuare
una differente gestione degli stessi. Nella CBT si poteva infine lavorare sul livello comportamentale,
ingaggiando il paziente in attività piacevoli per rinforzare positivamente le situazioni di benessere e
utilizzare tecniche di rilassamento o immaginative che avessero la capacità di far generalizzare stati di
benessere.

L’EVOLUZIONE DELLA PSICOTERAPIA DI COPPIA E FAMILIARE

fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta un arcipelago di pionieri diffuse la terapia della famiglia e in
generale considerò la famiglia come una cellula fondamentale del tessuto sociale; così come la CBT,
anche la terapia familiare si radicò integrando interventi e tecniche diverse. Dopo la fondazione della
prima rivista dedicata al settore familiare nel 1962 (Family Process) e la pubblicazione dei primi
manuali di terapia," gli anni Settanta erano pronti a divenire il contesto di radicamento della terapia
familiare.

Negli Stati Uniti e in varie altre parti del mondo vennero istituiti "centri" di terapia familiare. Oltre al
Mental Research Institute (MM), i centri più importanti furono: New York, dove operava il Family
Institute, fondato da Ackerman; Filadelfia, quartier generale di Salvador Minuchin, che elaborò i sistemi
di supervisione e formazione tipici della terapia familiare;" Boston, dove David Kantor, Frederick e
Bunny Duhl svilupparono la fortunata tecnica della scultura familiare;' Milano, dove fu sviluppata una
terapia di successo diretta erede dell'approccio strategico di Palo Alto.
il Centro per lo studio della famiglia di Milano fondato sulla base del lavoro svolto già negli anni
Sessanta da Mara Selvini Palazzoli. Nel decennio successivo il gruppo di Milano, tuttavia, mise a punto
una psicoterapia della famiglia che presentava notevoli elementi di originalità. Gli psicoterapeuti del
Centro di Milano erano fedeli all'assunto sistemico-relazionale che aveva come principale obiettivo
quello di rompere la tendenza omeostatica del sistema familiare utilizzando principalmente un approccio
paradossale.

Le novità dei terapeuti di Milano furono soprattutto la focalizzazione sui giochi familiari e la
connotazione positiva: i terapeuti si dedicavano allo studio dei giochi e dei rituali familiari che
consentivano alla patologia di manifestarsi; al tempo stesso consideravano, come positivi, di fronte ai
familiari proprio tutti i comportamenti osservabili che li tenevano uniti. Inoltre la famiglia veniva posta
di fronte a un conflitto: i sintomi al contempo erano dichiarati positivi.

Questa strategia avrebbe dovuto sciogliere l'omeostasi familiare, innescando insieme al conflitto anche
un processo di trasformazione. Gli stessi giochi familiari che producevano e mantenevano in vita la
patologia potevano essere quindi prescritti con le opportune modificazioni in veste di rituali familiari
come dei veri e propri controparadossi che erano utili per far estinguere le patologie. Nella seconda
metà degli anni Settanta, gli studiosi milanesi standardizzarono la loro sessione psicoterapeutica,
suddividendola in cinque fasi:
- una preseduta durante la quale i terapeuti conducevano un'intervista clinica

- la vera e propria seduta che durava circa un'ora

- la discussione della seduta, nella quale i terapeuti, separati dalla famiglia, dibattevano il caso

- la conclusione in presenza della famiglia, commentavano e assegnavano delle prescrizioni da eseguire


nel periodo fra una seduta e l'altra

- la discussione fra i terapeuti sulle reazioni della famiglia alla prescrizione.

il gruppo di Selvini Palazzoli perfezionò ulteriormente il proprio modello di intervento, utilizzando


altre nozioni divenute fondamentali: l'ipotizzazione, la circolarità, la neutralità, l' inviante.
L'ipotizzazione guidava le indagini sul caso e non doveva essere necessariamente vera, ma piuttosto un
modo per capire come fosse possibile mobilizzare il sistema familiare.

Per circolarità intendiamo la capacità del terapeuta di condurre la sua investigazione basandosi sulle
retroazioni della famiglia alle informazioni da lui sollecitate in termini di rapporti.

La neutralità era invece un atteggiamento strategico del terapeuta che veniva perseguito in ogni azione
messa in gioco per ottenere "un determinato effetto pragmatico che l'insieme dei suoi comportamenti
nella conduzione della seduta esercita sulla famiglia" Ultima delle nozioni originali della Scuola di
Milano fu quella di mettere in primo piano anche l'inviante, ovvero tutto quel contesto che aveva portato
alla domanda di terapia e che fino ad allora era ignorato o ritenuto irrilevante per la terapia stessa, ma
che invece favoriva a suo modo la permanenza dei sintomi.

Gli anni Ottanta si aprirono con la divisione della Scuola di Milano in due gruppi: da una parte Selvini
Palazzoli e Giuliana Prata, legate più a un approccio empirico e strategico; dall'altra Gianfranco Cecchin
(1932-2004) e Luigi Boscolo (1932-2015), che perseguivano invece una psicoterapia maggiormente
orientata alla clinica e alla formazione di nuovi terapeuti.

Proprio la linea di Cecchin e Boscolo era in sintonia con l'evoluzione internazionale della terapia
familiare, che dalla seconda metà degli anni Ottanta ha anch'essa presentato, come la terapia cognitivo-
comportamentale, una spinta all'integrazione di modelli; così sia gli approcci psicodinamici, sia
concezioni più fenomenologiche e narrative.

CAPITOLO 9. DAL PASSATO AL FUTURO

LA MODERNITÀ LIQUIDA E DISCIPLINATA.


PSICOTERAPIA E NEUROSCIENZE

La caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra fredda hanno marcato un momento storico
fondamentale, che è stato identificato come la fine del cosiddetto "secolo breve. Di fatto nuovi paesi
emergenti, come la Russia e soprattutto la Cina, hanno assunto il ruolo di contrappeso e competitor nei
confronti dell'egemonia economico-finanziaria dell'Occidente. Le sperequazioni già presenti nella
società postcapitalistica si sono di fatto estremizzate. L'ideale dello Stato minimo ha praticamente
sostituito le impostazioni socialiste, socialdemocratiche o almeno liberaldemocratiche che avevano
invece caratterizzato le società in gran parte dell'Occidente.

In questo contesto, la metafora della modernità liquida, introdotta da Zygmunt Bauman, ben descrive la
cultura dell'uomo eterodiretto e la distopia consumista previste da Marcuse, fenomeni oggi
concretizzatisi in un'epoca segnata dall'iperproduzione delle merci. Il presente pare essere
contraddistinto da una cultura globalizzata in cui le identità e le esclusioni sono anche funzione di ciò
che è possibile comprare. La frammentazione dei soggetti ha condotto così a un'estrema variabilità dei
contesti, in una società caratterizzata da ciò che Luciano Floridi ha chiamato la quarta rivoluzione: dopo
la rivoluzione copernicana, quella darwiniana, quella freudiana, staremmo assistendo a un cambiamento
altrettanto epocale, introdotto dalle information and communication technologies (IcT).

L'avvento di Internet ha modificato i legami fra persone e condotto a nuove forme associative, ben
evidenti nel fenomeno dei social network, in cui emerge il bisogno di riaffermare il diritto all'esistenza
della propria identità. Il rapporto con i social network è così importante da creare fenomeni sociologici
di grande e da indurre nuove forme di psicopatologia. L'automatizzazione ha portato anche a una crisi
dei millennials generazione continuamente precarizzata da nuovi contratti di lavoro o dall'economia dei
lavoretti (gig economy) con poche nicchie di resistenza in cui si rivendicano nuovi diritti.

Questo scenario ha condotto in Italia e nei paesi dell'Europa mediterranea a una particolare attenzione al
controllo del debito pubblico, che ha pesato soprattutto sui settori educativi e sociali della pubblica
amministrazione. La riforma delle istituzioni della salute mentale, dagli anni Novanta in fase molto
avanzata, ha portato da un canto alla definitiva chiusura dei manicomi in molte parti del mondo
dall'altro alla disciplinizzazione delle scienze "psi", che sono state progressivamente ordinate secondo
criteri di economicità ed efficacia. In psicoterapia la modernità liquida si è riflessa in una clamorosa
moltiplicazione dei modelli di intervento.

Da un lato si è registrata una progressiva specializzazione delle cure, fondate sul principio dell' evidence
based therapy, cioè della terapia guidata da fatti empirici, possibilmente di natura neuroscientifica.
Dall'altro hanno conosciuto una notevole affermazione anche terapie completamente prive di
fondamento scientifico, o addirittura di senso logico, definite nell'insieme crazy therapies. Si è
registrata, quindi, una sorta di iperproduzione delle scienze "psi", simile all'iperproduzione delle merci.
Nell'ultima fase della nostra storia si è inoltre assistito a una sorta di "soufflé" della classificazione
psichiatrica, caratterizzato dall'inclusione di nuove patologie. Da questo punto di vista, le edizioni del
DSM sucessive alla terza, cioè DSM-III-R (APA, 1987), DSM-IV (1994), DSM-IV-TR (2000), DSM-5
(2013) hanno rappresentato il tentativo di definire insiemi omogenei di patologie da curare e allo stesso
tempo divenendo un bersaglio di crescenti critiche di debolezza epistemologica a carico delle stesse
classificazioni.

Da un canto si creano nuove classificazioni psicopatologiche e si tenta di precisare le vecchie portando a


un'enfasi tassonomica, riducendo l'intervento psichiatrico sostanzialmente all'uso degli psicofarmaci.
Dall'altro si creano nuove soggettività costituite dai nuovi pazienti che si riconoscono fra loro come
portatori di particolari diritti di cittadinanza, legati alla propria condizione psicopatologica. La
psicoanalisi, classicamente intesa come terapia lunga, costosa ed estremamente coinvolgente, è, via via,
entrata in crisi ed è per lo più confluita in varie forme di psicoterapia psicodinamica che hanno
un'impostazione più economica in termini di tempo o di setting.

Peraltro la scelta è stata talvolta determinata dalla necessità di utilizzare interventi focalizzati e di breve
durata per specifiche forme psicopatologiche come la sindrome borderline D'altra parte il movimento
psicoanalitico ha avuto la forza di mettere in discussione il monopolio psichiatrico della classificazione
nosografica, a partire dall'impegno di autori isolati come Otto Kernberg e Nancy McWilliams, per
arrivare a un manuale diagnostico psicodinamico, il PDM. Nel 2016 la rivista italiana Psicoterapia e
Scienze Umane ha prodotto un'indagine sullo stato dell'arte della psicoanalisi nel mondo, intervistando
sessantadue psicoanalisti di diversi paesi. Sono state sottoposte loro dodici domande fondamentali.

Colpisce, nelle risposte, la molteplicità dei punti di vista rispetto alla concezione apparentemente
monolitica degli inizi della psicoanalisi. Come negli anni Cinquanta, alcuni ritengono possibile
distinguere con certezza ciò che è e ciò che non è scientifico; altri ritengono necessario un presunto
ritorno a Freud. Dalle interviste emerge un quadro anche culturalmente impoverito della psicoanalisi,
che via via si è trasformata in una tecnica accademica di cui la ricerca contemporanea mette in luce
l'efficacia. Sembrano confermati i timori di certi studiosi che hanno paventato una sorta di snaturamento
della psicoanalisi da parte degli stessi psicoanalisti, pronti a dimenticare i condizionamenti storico-
ideologici subiti, o a subordinare lo sviluppo della teoria a ricerche nell'ambito delle neuro-scienze o
dell' infant research.

Si può dire che attualmente il termine psicoanalisi solo in casi eccezionali indichi la terapia concepita da
Freud. Il suo uso ha subìto un'inflazione, tanto da coinvolgere tecniche differenti e non completamente
sovrapponibili, che mantengono solo il comune background del riferimento alla centralità
dell'interpretazione come tecnica terapeutica. L'attenzione ai contenuti inconsci e il riferimento alle
teorie relazionali della mente hanno fatto ormai breccia e sembrano egemoniche anche nelle istituzioni
psicoanalitiche tradizionali. Dal punto di vista del rimaneggiamento della tecnica, Jung si è preso così
una rivincita postuma sull'antico rivale.

La tecnica terapeutica classica della psicoanalisi con tre o quattro sedute settimanali viene oggi
utilizzata in casi molto selezionati, da psicoanalisti esperti in questa forma originale di terapia e, seppure
aspramente criticata sia in quanto al rapporto efficacia/praticità sia perché tecnica estremamente
affiliativa. La netta riduzione della durata possibile della psicoterapia è un fenomeno ormai diffuso, per
diverse ragioni. L'uomo contemporaneo è sempre più impegnato in lavori cosiddetti cognitari.

Il poco tempo libero e le scarse risorse economiche a sua disposizione sono fortemente orientati da un
marketing ossessivo verso alcuni specifici consumi. Parallelamente, il mercato della cura del corpo ha
generato scenari in cui la prevenzione delle malattie passa sia per le nuove biotecnologie. Rose e Abi-
Rached (2013) hanno evidenziato come nel corso del Novecento si sia passati da uno psychological
complex a un neurobiological complex, che rappresenta oggi un ampio contesto culturale di gestione dei
comportamenti. Secondo Rose e Abi-Rached le scienze "psi" nel corso del xx secolo hanno sollecitato
una teoria dell'intervento che si avvicinava al vissuto interiore dei pazienti.

Nel XXI secolo le neuroscienze tentano invece di sostituirsi alle scienze "psi" fornendo evidenze
sperimentali che, se promettono precisione, costruiscono piuttosto un'artificiosa ontologia di ispirazione
neurobiologica. Spesso ciò che è presentato come evidenza scientifica è ricavato da esperimenti assai
poco conclusivi. Psicoanalisti o cognitivisti, tutti ricercano í meccanismi biologici sottostanti ai propri
modelli (i circuiti dell'attaccamento, i circuiti della mindfulness, quelli dell'EMDR ecc.). Anche il
mercato tenta di utilizzare a suo modo la ricerca neuroscientifica.

Recentemente, si è assistito a un rinnovato interesse per le applicazioni dell'elettroshock come possibile


cura soprattutto della depressione. Sull'onda delle relative ricerche si sono addirittura diffusi negli Stati
Uniti piccoli elettrodomestici fai-da-te (tDcs Device), che stimolano l'encefalo con una scarica elettrica
di bassa intensità e promettono di potenziare il cervello. Parallelamente si testano microdosaggi di
allucinogeni per scoprire se a piccole dosi le vecchie droghe possano favorire il benessere psicologico.
Un caso esemplare è quello dell'ormone ossitocina, che dalle ricerche è risultato il mediatore di alcuni
comportamenti psicologicamente assai rilevanti.

Recentemente è stato osservato che l'ossitocina viene prodotta dal corpo umano anche durante le
relazioni d'amore. Si tratta di un esempio tipico: le ricerche concordano tutte sull'importanza del
contesto di assunzione di qualunque molecola; gli effetti psicologici relativi possono variare in base alla
differente personalità di coloro che la assumono e indurre risultati contrastanti. Secondo Rose e Abi
Rached, l'uso di tecniche collegate alle neuroscienze potrebbe costituire il terminale di una lunga
tradizione nella gestione politica degli esseri umani.

Le neuroscienze fornirebbero la possibilità di creare confessionali tecnologici in grado di rivelare il


funzionamento della mente per neuroimmagini e implicando il management di ogni cosa. Risulterebbe
così possibile una neurovalutazione smart che in futuro potrebbe essere usata da agenzie governative
anche per allocare risorse in economia.

Tuttavia proprio Rose e Abi-Rached hanno rimarcato certe indubbie potenzialità delle neuroscienze
evidenziando come la stessa ri-cerca neuroscientifica dimostri in fondo che le relazioni, le
comunicazioni e l'educazione inibiscono o sviluppano proprio le potenzialità del cervello; come
conseguenza, anche la psicoterapia viene studiata per comprendere come influenzi il funzionamento
cerebrale. In tal senso le neuroscienze possono svolgere un ruolo sinergico e orientare la ricerca
psicoterapeutica evidence based evidenziando come i circuiti neuronali siano profondamente
condizionati dalle tecniche psicoterapeutiche; viceversa, anche la psicofarmacologia deve
necessariamente tener conto degli effetti psicoterapeutici sul cervello.

Si tenta così di ribaltare i rapporti di potere fra scienze "psi", scienze umane e neuroscienze. Non
importa infatti tanto che le prime siano un epifenomeno delle ultime, ma piuttosto che le relazioni
psicologiche costituiscano un fattore necessario per comprendere l'epigenesi del cervello puntando
all'importanza del contesto psicologico che innesca la produzione di mediatori biologici o l'attivazione
di circuiti nervosi. In questo senso si può affermare che sarebbero le scienze "psi" a risultare essenziali
alla ricerca neuroscientifica.

Meno ottimistica si presenta la concezione di Hacking, per cui la conoscenza della personalità verrebbe
inevitabilmente condizionata dalla natura circolare dei processi implicati nella descrizione
psicopatologica. In tal senso, la ricerca dei fattori biologici e genetici della realtà psicologica
risulterebbe controproducente. I fatti mentali e la personalità interagiscono con le descrizioni a loro
attribuite. Persino l'aggregazione in gruppi di riappropriazione dell'identità e della cittadinanza
influenzerebbe la loro stessa psicologia. In tale concezione le persone diventano per gli "psi" dei
bersagli mobili, cangianti e interattivi, a cui ci si avvicina senza mai riuscire a coglierne l'essenza
perché, seppure evidence based, il lavoro di ricerca risulterebbe perpetuamente indefinito.

il territorio della psicoterapia contemporanea si presenta come una specie di cantiere aperto in cui si sus-
seguono modelli più o meno innovativi, più o meno evidence based, con un rischio incombente di essere
di fronte a pseudoinnovazioni. In particolare, si assiste oggi a una sorta di globalizzazione della
psicoterapia che ha portato a un'inflazione delle offerte in senso slow o fast a seconda delle esigenze. Se
durante la Guerra fredda si diffusero a macchia d'olio le più differenti forme di terapie comportamentali,
esperienziali e di gruppo, negli ultimi decenni si è anche cercato dí porre un limite all'inflazione delle
psicoterapie.

PSICOANALISI E SCIENZA: NUOVE SFIDE

La psicoanalisi, negli USA, aveva messo a suo tempo in discussione il proprio statuto scientifico in
seguito alle critiche dell'empirismo logico. Contemporaneamente l'empirismo logico stava perdendo
quella sorta di monopolio della filosofia della scienza che aveva conservato per decenni. Gli
epistemologi iniziavano a porre in discussione il fatto che le scienze dovessero produrre teorie
strutturate in termini di logica matematica; che il progresso scientifico procedesse in modo asintotico in
direzione di una verità unica e sempre più ampiamente posseduta. Una simile concezione dell'impresa
scientifica risultava impraticabile persino per la fisica e a maggior ragione perdeva di senso, anche come
ideale cui tendere. La svolta in campo epistemologico non coincise con una rivalutazione della
psicoanalisi agli occhi dei filosofi della scienza.

Al contrario, molti di loro utilizzarono la psicoanalisi come una vittima predestinata per dimostrare che
le nuove epistemologie erano in grado di distinguere perfettamente tra scienze e pseudoscienze: dove la
psicoanalisi doveva rientrare tra queste ultime. Il tema del discrimine tra discipline scientifiche e non,
cioè la ricerca di un criterio di demarcazione tra scienza e non-scienza, divenne un tema molto discusso
tra gli epistemologi. Il più noto criterio di demarcazione è stato quello formulato da Karl Popper,
consistente nella falsificabilità.

Scegliere un sistema scientifico in modo definitivo, in realtà, è impossibile. Per quante prove si possano
contare a suo favore, è sufficiente una prova contraria per metterlo in discussione. Tuttavia è proprio la
possibilità di essere aperta alla confutazione che rende una teoria utile al progresso scientifico. Secondo
Popper la psicoanalisi venne formulata in maniera tale che qualunque comportamento umano fosse
compatibile con i suoi asserti.

Secondo Adolf Griinbaum non solo la psicoanalisi nasceva come dottrina falsificabile, ma era stata di
fatto falsificata. Grùnbaum costruì infatti una dettagliata analisi epistemologica delle opere freudiane in
cui illustrava come Freud non fosse riuscito a fondare scientificamente la psicoanalisi; come
inversamente tutte le prove a favore della veridicità della teoria psicoanalitica fossero di natura clinica,
cioè affidate a resoconti di analisti. Indipendentemente dalla buona fede di questi ultimi, tuttavia,
secondo Griinbaum "la presunta confluenza delle induzioni cliniche appare decisamente spuria"; cioè, il
fatto che interpretazioni basate sulla teoria siano confermate dal paziente non costituisce una prova. Di
conseguenza, solo i casi di guarigione da psiconevrosi potevano essere portati a sostegno del valore
della psicoanalisi.

Non esisteva quindi alcuna ragione per qualificare la psicoterapia analitica altro che come un placebo.
La pubblicazione dei Fondamenti della psicoanalisi di Griinbaum fu segnata da un'eco mediatica del
tutto inedita per un'opera epistemologica. Il dibattito che ne seguì dimostrò a breve termine soprattutto
la totale incapacità degli psicoanalisti di affrontare con cognizione di causa temi epistemologici. Esso
acuì tuttavia la coscienza della necessità di un maggiore impegno sul piano della ricerca empirica. Il
cosiddetto Blue Book costituì una prima importante testimonianza della mutata temperie culturale.

Allo stesso tempo una parte almeno altrettanto consistente del movimento psicoanalitico tese ad attuare
una strategia opposta, rinforzando le fila di coloro che già avevano salutato positivamente la svolta
ermeneutica, o comunque aderendo a un'epistemologia postmoderna, cioè a una visione della scienza in
generale come costruzione sociale, provvisoria e pluralistica. Il successo dei Fondamenti della
psicoanalisi aprì una stagione di pubblicistica anti-freudiana violentissima, per la quale si è parlato di
"Freud bashing". Freud venne criticato non solo sul piano epistemologico, ma anche su quello
dell'onestà intellettuale, della sua rispettabilità etica, della mancanza di originalità delle sue idee.
L'accusa che Freud avrebbe trovato di certo più bruciante venne formulata da Jeffrey Masson, secondo il
quale l'abbandono della teoria della seduzione infantile non sarebbe stato dovuto a una convinzione
profonda, ma alla paura di scontrarsi con l'establishment medico.

Forse però era inevitabile che all'idealizzazione esasperata della figura di Freud si reagisse con una
altrettanto esasperata macchina del fango, prima di giungere al maggiore senso dell'equilibrio che
sembra caratterizzare la pubblicistica più recente. Altrettanto inevitabile era forse che, in un ambiente,
come quello francese, la confutazione di Lacan venisse proposta come attacco alla psicoanalisi come
tale, ciò che è avvenuto con Il libro nero della psicoanalisi.

Un attacco alla scientificità della psicoanalisi arrivava dalla ricerca neurologica. Già da tempo la
neurologia aveva dimostrato che almeno una delle tesi di Freud sul sogno era infondata: l'essere umano
non sogna per continuare a dormire ma, semmai, dorme per poter sognare. La seconda tesi fondamentale
era naturalmente che i sogni celassero un significato inconscio, decodificabile, e non era stata posta
seriamente in discussione dalla comunità scientifica, fino alla proposta (o riproposta) dell'ipotesi
dell'attivazione-sintesi da parte di J. Allan Hobson.

Secondo tale ipotesi, i sogni avrebbero origine da una serie di segnali emessi in maniera del tutto
casuale durante il sonno da parte del ponte; segnali che verrebbero elaborati dalla corteccia cerebrale.
L'idea di fondo dell'attivazione-sintesi costituiva una seria messa in discussione della psicoanalisi
freudiana e veniva definita dallo stesso Hobson una critica fortemente complementare rispetto a quella
di Griinbaum. Dopo aver goduto di grande popolarità la costruzione di Hobson è risultata infondata, alla
luce delle ricerche di Mark Solms. Questi verificò l'eventuale compromissione dell'attività onirica su un
gran numero di pazienti che presentavano vari tipi di lesione cerebrale. Emerse che lesioni al livello del
ponte non compromettono la capacità di sognare.

Le ricerche di Solms e l'impulso del premio Nobel per la medicina Eric Kandel determinarono la nascita
della neuropsicoanalisi, cioè di una psicoanalisi impegnata nella ricerca dei suoi fondamenti sul piano
del funzionamento del cervello, secondo l'originario Progetto di Freud. La ricerca della coerenza esterna
della teoria psicoanalitica, cioè la possibilità di una psicoanalisi in grado di non proporre asserti in
contraddizione con le ricerche sperimentali condotte in campi affini, era stata proposta già da George
Klein e ha trovato un'applicazione non solo nel dialogo con la ricerca neurologica, ma anche nel
tentativo di Daniel Stern di rinnovare la psicologia psicoanalitica dello sviluppo.

STEPHEN MITCHELL E LA PROSPETTIVA RELAZIONALE

Crisi della metapsicologia, affermazione della psicologia del Sé, approccio ermeneutico, nuova filosofia
della scienza, infant research costituivano impulsi potenti verso cambiamenti radicali in seno al mondo
psicoanalitico americano. Impulsi altrettanto significativi arrivavano dalla progressiva diffusione dei
contributi degli Indipendenti della Scuola britannica e dalle critiche femministe alla psicoanalisi
classica. L'ambiente che favorì la maturazione di questi cambiamenti fu la New York University, dove
fin dagli anni Cinquanta aveva visto la luce un programma di post-dottorato in psicoanalisi, aperto agli
psicologi e non solo ai medici.

L'obiettivo di questo programma post-doc era fin dall'origine quello di favorire il dialogo tra le diverse
scuole psicoanalitiche: i curricula prevedevano un indirizzo classico, uno interpersonale e in seguito un
indirizzo cosiddetto indipendente. Fu soltanto negli anni Ottanta che il terzo indirizzo acquisì una
notevole importanza e costituì il vero e proprio centro dello sviluppo teorico di una nuova prospettiva in
psicoanalisi, che venne definita "relazionale".

Ciò avvenne per la contemporanea presenza di alcune personalità che si rivelarono creative e
carismatiche: Philip Bromberg, Bernard Friedland, James Fosshage, Emmanuel Ghent e soprattutto
Stephen Mitchell.
In un manuale di Psicoterapia psicodinamica scritto da un autore piuttosto ecumenico come Glen
Gabbard. Gabbard nota che tuttora si usano i termini neutralità, riservatezza e astinenza impiegati da
Freud, ma che tali termini hanno in sostanza assunto significati differenti. Secondo Gabbard se
neutralità, nella prospettiva classica, significava totale equidistanza dell'analista rispetto a Io, Es, Super-
io e realtà, oggi esso si traduce piuttosto nel mantenere un atteggiamento non giudicante verso il
paziente.

Se la riservatezza consisteva in una completa assenza di informazioni sul terapeuta nell'analisi, oggi ci si
limita a evitare di informare il paziente sulla propria vita personale e familiare. Se, infine, la regola
dell'astinenza imponeva la sistematica frustrazione di qualunque desiderio del paziente, la negazione di
qualsiasi risposta a una domanda diretta. Sotto molti punti di vista lo psicoanalista è passato dalla
posizione di schermo bianco a quella di persona coinvolta in una situazione diadica. Questo può essere
riassunto nelle parole di Merton Gill come la tendenza al passaggio da una psicoanalisi monopersonale
a una psicoanalisi bipersonale.

Il contributo teorico di Stephen Mitchell è consistito essenzialmente nel tentativo di costruire una teoria
psicoanalitica, se non unificata, per lo meno orientata coerentemente su un cammino diverso da quello
del modello pulsionale. Sembra interessante notare che ben due dei libri firmati da Mitchell si
presentino come testi di carattere storico. Di fatto, l'intenzione di Mitchell era di contrapporsi alle due
modalità usuali degli psicoanalisti di affrontare la proliferazione delle teorie: l'adesione totale a una di
esse e l'eclettismo acritico "in cui le pulsioni, le relazioni oggettuali, le relazioni interpersonali, l'Io e i
principi della psicologia del Sé coesistono e sono utilizzati all'occorrenza, al servizio dei problemi
clinici che emergono".
Secondo Mitchell ambedue queste prospettive presentavano dei limiti: nel primo caso la rinuncia a gran
parte del patrimonio di conoscenze cliniche accumulate dalle diverse scuole; nel secondo l'inevitabile
mancanza di rigore concettuale. L'errore principale era consistito nel considerare la teoria freudiana
come fondamento unico di ogni forma di psicoanalisi. In questo senso, il testo Le relazioni oggettuali
nel la teoria psicoanalitica proponeva una visione storico-teorica del tutto diversa. Gli psicoanalisti
sarebbero stati inquadrabili fondamentalmente in due diversi orientamenti: il modello strutturale delle
pulsioni e il modello strutturale delle relazioni oggettuali; più un terzo, definito da una "strategia di
accomodamento", ovvero da un tentativo di compromesso tra gli altri due modelli.

L'aggettivo "strutturale" sottolineava come ambedue i modelli si basassero sul principio di una almeno
tendenziale stabilità della personalità umana. Il primo modello era quello creato originariamente da
Freud e sviluppato dalla psicologia dell'Io: poneva la scarica della tensione come fattore motivazionale
di fondo. Il secondo vedeva alla base delle motivazioni la ricerca della relazione con altri significativi e
trovava i suoi antesignani in Sullivan e Fairbairn e Winnicott. Melanie Klein veniva considerata invece
l'antesignana delle strategie di accomodamento, vedendo la relazione con l'oggetto al centro di tutte le
fantasie del bambino fin dall'inizio della sua vita psicologica.

La convinzione di fondo di Mitchell era che la psicoanalisi dovesse considerarsi "in un'epoca
essenzialmente postfreudiana e dovesse ricostruirsi sulla base del modello delle relazioni oggettuali,
operando una sorta di eclettismo selettivo. Mitchell proponeva di rovesciare l'atteggiamento tenuto
generalmente dagli psicoanalisti, che si erano riferiti a Freud come alla fonte originaria di ogni modello.
Il comune ombrello freudiano era servito da protezione a ogni nuovo autore per diversi ordini di motivi.

In primo luogo, il nome di Freud era risultato rassicurante verso il mondo esterno, costituendo a lungo
una sorta di garanzia. In secondo luogo, nessuno psicologo del profondo aveva esplorato con la stessa
ampiezza e profondità il proprio campo di indagine, costruendo una teoria altrettanto sistematica.
Risultava quindi logico che all'opera di Freud venisse in qualche modo delegato lo sfondo teorico,
rispetto al quale ogni analista proponeva di innestare nuovi disegni. Infine, all'interno del mondo
psicoanalitico, l'accusa di uscita dall'ortodossia veniva ancora percepita come un rischio; il riferimento a
Freud costituiva pur sempre un modo per rassicurare il pubblico dei colleghi.

Riferendosi esplicitamente a Kuhn, Mitchell proponeva un vero e proprio cambiamento di paradigma


per la psicoanalisi. La teoria freudiana si era certamente costituita come un paradigma forte, e i teorici
successivi avevano da un lato messo in crisi il paradigma, dall'altro non avevano saputo creare una vera
e propria alternativa. Il nuovo paradigma era però a portata di mano: la "similarità concettuale tra le
teorie che si discostavano dal modello classico pulsionale" e l'idea della relazione come fattore
motivazionale fondamentale potevano determinare la svolta.

Per quanto gli analisti britannici ponessero attenzione soprattutto alle relazioni oggettuali interne; la
psicoanalisi interpersonale all'ambiente; la teoria di Kohut alla matrice esperienziale in cui l'altro è
oggetto-Sé; tutti e tre i punti di vista ponevano tuttavia nella dipendenza dalla madre reale, piuttosto che
nella scarica degli impulsi, il primo motore della vita umana al suo albore. L'impulso di Mitchell
contribuì in modo decisivo al coagularsi di un orientamento generale tendente a porre l'analista su un
piano di maggiore parità rispetto all'analizzato. In questo senso risultava fondamentale il rinnovato
interesse per Ferenczi.

Tuttavia, il contributo teorico più celebrato di Mitchell è rimasto quello, piuttosto vago, di matrice
relazionale. Che lo sforzo di Mitchell sia bastato a condensare l'auspicato nuovo paradigma, in effetti, è
impossibile affermarlo. Nelle parole dello stesso Aron, infatti:

La teoria relazionale di Stephen Mitchell [...] non è quella di Emmanuel Ghent (la cui teoria tende più a
un'impostazione winnicottiana con una particolare attenzione all'intenso desiderio dell'individuo di
arrendersi alle pretese del falso Sé), e nessuna delle due ha in comune gli stessi punti di vista di Jay
Greenberg (la cui teoria è stata più fortemente influenzata dai recenti sviluppi della psicologia dell'Io e
sottolinea i bisogni universali e pre-esperienziali di sicurezza e di essere efficaci). La posizione di Philip
Bromberg che prende le mosse dalla teoria interpersonale e incorpora aspetti della teoria delle relazioni
oggettuali […] è differente.

A questo punto, posto che la svolta relazionale possa essere rappresentativa di un movimento generale,
sembra più plausibile definire la situazione storica come pre-paradigmatica o inter-paradigmatica. Posto
che, in un'ottica postmodernista, l'idea di un paradigma forte e unico sia realmente auspicabile e da
ricercare. Tra i tentativi di nuova sintesi merita di essere ricordato lo sforzo di Joseph Lichtenberg, che
ha provato a superare l'impasse delle diverse teorie della motivazione proposte in ambito psicodinamico,
proponendo un ingegnoso metodo per farle convivere. La teoria dei sistemi motivazionali ipotizza che
ogni essere umano sia mosso non da una ma da diversi ordini di motivazione, e che la salute mentale
dipenda dalla soddisfazione parallela di ognuno di essi. I sistemi motivazionali sarebbero i seguenti:

(1) regolazione psichica delle esigenze fisiologiche;

(2) attaccamento e affiliazione;

(3) esplorazione e assertività;

(4) avversività;

(.5) piacere sensuale ed eccitamento sessuale.

In questo modo Freud convive con Bowlby; Kohut con Winnicott; e ogni modello spiega almeno una
parte della condotta umana. L'idea di Lichtenberg è risultata influente non solo nel mondo
psicodinamico ma, anche in quello cognitivista. Anche il percorso teorico di Jessica Benjamin potrebbe
essere considerato un tentativo di sintesi tra istanze diverse, inseribile da un lato nel solco della
tradizione intersoggettivista, dall'altro tra i frutti più maturi della Teoria critica recuperando anche le
istanze del femminismo, soprattutto attraverso la lezione della filosofa Simone de Beauvoir.

Benjamin muoveva, in Legami d'amore (1988), da una critica femminista alla psicoanalisi classica e
postclassica, che portava a una riconsiderazione del problema del potere. I teorici delle relazioni
oggettuali e dell'attaccamento, tuttavia, spostando il fulcro dello sviluppo dall'esperienza intrapsichica
alla relazione madre-bambino, non avevano migliorato la posizione femminile. L'intento di Benjamin
era quello di recuperare la dimensione soggettiva di ambedue i lati della relazione, ma anche di
sottolineare l'elemento del potere e dell'aggressività che inevitabilmente segna tale relazione.

Il percorso teorico dí Benjamin ha progressivamente approfondito un concetto fondamentale, quello di


riconoscimento, che a suo avviso marca la condizione di reciprocità relazionale. La concezione del
riconoscimento di Benjamin implica che nella diade relazionale siano altrettanto importanti i momenti
della condivisione e della reciprocità. Rispetto all'intersoggettività classica e alla matrice relazionale di
Mitchell, Benjamin ha dunque una visione meno idilliaca della relazione, e in particolare della relazione
paziente-analista, nella quale anche i momenti di fuga o aggressività assumono una particolare
importanza.

Benjamin ha in questo senso assorbito anche le indicazioni dell'infant research psicoanalitica e dei suoi
riflessi sul trattamento degli adulti, che affiancava al principio relazionale della regolazione attesa anche
il principio di rottura e riparazione. Il concetto di Terzo si innesta su quello di riconoscimento e descrive
lo spazio costruito sulla relazione. Il Terzo "si riferisce a una posizione costituita dal mantenere la
tensione del riconoscimento tra differenza e uguaglianza, intendendo l'altro come soggetto separato ma
equivalente che agisce e conosce, con il quale è possibile condividere sentimenti e intenzioni".

Nella sintesi di Benjamin sembrano allora affiorare ulteriori istanze, non del tutto esplicitate, tra le quali
l'idea che la relazione tra due rimandi necessariamente alla presenza di un Altro, già proposta da Lacan;
ma anche un'idea del legame empatico che rimanda alla tradizione fenomenologica culminata con
Binswanger.

L’ESPLOSIONE DEI MODELLI. LA TERZA ONDATA


NELLA PSICOTERAPIA COGNITIVA

La fioritura di un ampio ventaglio di psicoterapie cognitivo-comportamentali è stata generalmente


definita come la "terza ondata". Dopo l'elaborazione di tecniche terapeutiche delle prime due ondate
(comportamentista e cognitivista), oggi il campo è denso di modelli che ibridano in vario modo le prassi
comportamentiste e cognitiviste e che sono stati ulteriormente fusi con tecniche meditative,
psicodinamiche, narrative oppure computazionali secondo due sostanziali linee di intervento: una prima
ancorata alle metacognizioni e alle teorie del mentale più astratte che influenzerebbero dall'alto i
processi emotivo-relazionali (top-down), e una seconda legata alle esperienze emotive e relazionali che
influenzerebbero, viceversa, a partire dal basso il funzionamento mentale (bottom-up).

Le prime due generazioni di modelli comportamentali e cognitivisti si affermarono assai presto e si


caratterizzavano per una relativa semplicità teorica, la rapidità dei percorsi terapeutici, la facilità di
controllo dei risultati. Questi ultimi sembravano non solo visibili ma anche misurabili, soprattutto nella
cura di stati ansiosi e depressivi di pazienti per altri versi ad alto funzionamento. L'efficacia a breve
termine poteva essere parzialmente contraddetta da follow-up successivi, e soprattutto i pazienti affetti
da disturbi di personalità sembravano essere poco influenzabili dalle terapie cognitivo-
comportamentali; oppure, anche se ottenevano risultati sul piano pratico, i terapeuti non riuscivano a
ottenere ciò che fondamentalmente si erano ripromessi in partenza: una piena consapevolezza nei
pazienti degli schemi cognitivi.

I terapeuti cognitivi si trovarono ad affrontare a loro volta il problema della resistenza. Ci si trovava di
fronte a un paradosso: se il paziente poteva essere reso cosciente della disfunzionalità delle credenze,
risultava difficile comprendere perché non volesse cambiarle. I cognitivisti clinici proposero
essenzialmente tre spiegazioni:

La prima fa riferimento al principio della coerenza: le credenze che hanno un ruolo importante nel
mantenimento dell'intero sistema di significati […]. La seconda spiegazione si fonda sull'idea che
alcune credenze possono permanere [...] perché il soggetto trae un vantaggio dalla loro persistenza. La
terza è una spiegazione funzionalista, e si basa sull'osservazione che a volte certi stati intenzionali
determinano effetti non voluti.

Tutte e tre le spiegazioni portavano i cognitivisti al confine della teorizzazione dell'inconscio; la seconda
costituiva in pratica la riproposizione dell'idea freudiana di tornaconto secondario della nevrosi. Un
problema collegato alla resistenza al cambiamento era quello delle emozioni, che sembravano essere,
nei pazienti difficili, assai ardue da controllare con le tecniche cognitive standard. il modello originario
di Albert Ellis identificava addirittura le emozioni con forme specifiche di pensiero; mentre il primo
modello di Aaron Beck assumeva che i pensieri potessero influenzare sempre le emozioni. La semplice
constatazione che questo non necessariamente si verificava portò al tentativo di affrontare il problema
delle emozioni in una chiave diversa.

Ellis aveva innanzitutto espanso il repertorio delle tecniche utilizzate dalla REBT per includere
modeling, role playing, skill training e problem solving. Si era comunque trovato costretto a considerare
la possibilità di un'influenza reciproca tra emozioni e cognizioni. Beck, in un primo tempo, si era
limitato a proporre delle linee guida per la terapia dei pazienti difficili, indirizzate soprattutto
all'atteggiamento del terapeuta:

(1) evitare lo stereotipo del paziente come colui che costituisce il problema piuttosto che come colui che
ha il problema;
(2) rimanere ottimisti;

(3) identificare i propri contenuti cognitivi disfunzionali;

(4) rimanere concentrati sul compito invece di incolpare il paziente;

(5) mantenere un atteggiamento di problem solving.

Fu però lo stesso Beck, infine, ad ammettere che "anche la condizione emotiva ha effetti rilevanti
sull'elaborazione cognitiva"; per proporre quindi un modello cognitivo che "pone l'accento
sull'interazione reciproca fra l'elaborazione cognitiva, la sfera emotiva e quella comportamentale".
Questa constatazione condusse Beck a proporre un modello della psicopatologia che includeva schemi
disadattivi non soltanto cognitivi, ma anche emotivi, motivazionali e comportamentali.

Beck e il suo gruppo hanno proposto una modalità di azione psicoterapeutica che teneva conto dei
fenomeni transferali e controtransferali, prevedeva la possibilità di attendere, prima di effettuare
interventi di ristrutturazione cognitiva, si indirizzava specificamente alla previsione e alla gestione degli
stati emotivi disturbanti del paziente. Dal punto di vista della teoria della clinica, alcuni cognitivisti
hanno proposto delle forme di aggiornamento della REBT o della CT/CBT sostanzialmente in
continuità con le proposte originarie di Ellis e Beck; altri hanno inaugurato quella che è stata definita
una svolta romantica o appunto una terza ondata, per la quale l'attenzione ai processi cognitivi ha perso
il ruolo di unico punto focale.

Parallelamente, dal punto di vista pratico, i cognitivisti si sono divisi tra l'introduzione di tecniche
comportamentiste al servizio di momenti specifici del processo terapeutico e l'ampliamento eclettico
del repertorio delle modalità di intervento.
ATTACCAMENTO E MOTIVAZIONE,
COGNITIVISMO E COSTRUTTIVISMO

Vittorio F. Guidano e Giovanni Liotti sono stati due terapeuti cognitivisti italiani che hanno tentato di
affrontare in modo originale le difficoltà teoriche del cognitivismo clinico. Successivamente hanno
insieme proposto una teoria epigenetica della conoscenza di sé che fondeva la dimensione cognitivista
con la teoria dell'attaccamento, sottolineando il ruolo dei modelli operativi interni nelle esperienze di
continuità e discontinuità della coscienza. Guidano e Liotti adottavano allora una visione epistemologica
costruttivista, onde la tecnica ellisiana dell'ABC veniva utilizzata per promuovere la conoscenza dei
processi emotivi ed emozionali del paziente. Il disputing veniva tralasciato, in quanto incompatibile con
i principi costruttivisti, che precludono la possibilità di stabilire che un certo approccio alla realtà sia più
corretto rispetto a un altro.

Guidano proseguiva su questa strada, per porre le basi di una radicale riforma della terapia cognitiva in
una chiave che egli stesso definiva post razionalista. La classica tecnica razionale della terapia
cognitivista, secondo Guidano, “finisce col configurare una strategia terapeutica di autocontrollo
centrata sulla persuasione del paziente” Guidano, al contrario, si mostrava convinto che "in assenza di
emozioni non sembra possibile alcun cambiamento.

Ciò quindi significava che l'obiettivo del terapeuta consisteva "non tanto nel modificare le convinzioni
del paziente a ogni costo quanto piuttosto [...] portarlo a diventare consapevole del suo modo di
elaborare convinzioni". Liotti, da parte sua, si muoveva attraverso un confronto con le tematiche
intersoggettiviste che sottolineavano "la dimensione interpersonale della coscienza", per giungere a una
prospettiva che, accogliendo l'idea di Lichtenberg dei sistemi motivazionali, lo ha molto accostato a una
visione francamente psicodinamica.

Liotti si è perfino avvicinato a una professione di determinismo psichico simil-freudiano. Rispetto a


Lichtenberg, Liotti ridefiniva i sistemi motivazionali in chiave evoluzionistica, disegnando
un'architettura dell'origine della motivazione su tre livelli. AI primo livello corrispondeva la parte di
formazione più arcaica (rettiliana) del cervello umano (comprendendo regolazione fisiologica, difesa,
esplorazione, territorialità, sessualità senza formazione di coppia); al secondo livello corrispondeva il
cervello mammifero antico, limbico (attaccamento, accudimento, sessualità di coppia, competizione,
cooperazione); al terzo livello corrispondevano le motivazioni legate alla neocorteccia (intersoggettività,
costruzione di strutture di significato).

Prodotto finale dell'evoluzione sarebbero i cinque sistemi motivazionali intersoggettivi (SMI): di


attaccamento, di accudimento, sessuale, di rango, cooperativo. Ognuno di essi evocherebbe emozioni in
parte diverse: positive se le rispettive mete sono soddisfatte e negative se non sono soddisfatte. I sistemi
motivazionali finiscono per essere sovraordinati anche al pensiero cognitivo sulla base della teoria
cognitivo-evoluzionistica della motivazione.

Dei sistemi motivazionali Liotti proponeva anche una definizione operativa, finalizzata alla ricerca sul
processo terapeutico basata sui trascritti delle sedute. Vale la pena di ricordare anche il tentativo di
Liotti di utilizzare la teoria dell'attaccamento come costrutto unificante rispetto sia alla teorizzazione
dell'origine sia alla psicoterapia della condizione borderline. Liotti ha infatti proposto che le diverse
ipotesi sull'eziologia dei disturbi gravi della personalità potessero essere ricondotte alla
disorganizzazione dell'attaccamento; ha inoltre proposto che la possibilità di ottenere risultati positivi
nella terapia dei pazienti borderline fosse migliorabile attraverso il trattamento multiplo (cioè con
diversi terapeuti).

LA METACOGNIZIONE

Se Beck ha percorso la strada di ampliare la teoria degli schemi per comprendere anche schemi
emozionali, altri autori hanno iniziato a considera-re la possibilità che la teoria degli schemi come tale
costituisca un modello troppo semplicistico. Proprio il concetto di metacognizione sembra essere
risultato oggetto di particolare interesse da parte dei teorici cognitivisti recenti, anche se non sembra
esservi completo accordo su come definirlo. Wells si riferisce alle metacognizioni come alle "credenze
riguardanti i processi cognitivi”.

In questo senso i disturbi d'ansia sarebbero caratterizzati da due ordini dí pensieri problematici: le paure
("Tipo 1") e le preoccupazioni/convinzioni inerenti alle paure ("Tipo 2"). In questo contesto "il
problema non è il contenuto della preoccupazione (Tipo 1), ma ciò che produce inquietudine e favorisce
il perpetuarsi di stati di apprensione". La definizione più diffusa di metacognizione prende però
presumibilmente lo spunto dagli studi di Mary Main sull'attaccamento degli adulti, condotti con la
cosiddetta Adult Attachment Interview.

Main ha chiamato monitoraggio metacognitivo la capacità di avere coscienza del flusso dei propri
pensieri nel momento stesso in cui esso si produce ed eventualmente di effettuare delle osservazioni su
tali pensieri. Tale capacità viene identificata da Main negli interventi, all'interno dei dialoghi registrati
nelle AAI. Queste formule conversazionali possono imprimere una svolta al discorso che lo stesso
parlante non aveva previsto iniziandolo. Il concetto di monitoraggio metacognitivo sembra piuttosto
affine a quello di funzione riflessiva o mentalizzazione di Peter Fonagy, ovvero di capacità di pensare se
stessi e gli altri in termini di possesso di stati mentali.

I terapeuti cognitivisti, hanno definito la metacognizione come "conoscenza e regolazione degli stati
mentali propri e altrui". Un gruppo di ricerca italiano ha proposto una definizione operativa e una scala
di valutazione della metacognizione, suddividendone il contenuto in tre aree principali: autoriflessività
(capacità di rappresentare i propri stati mentali); comprensione della mente altrui (anche nella possibilità
che l'altro pensi diversamente da sé, definita decentramento); mastery (capacità di controllare gli stati
mentali sia sul piano della soluzione dei problemi sia su quello della gestione della sofferenza.

Su questi presupposti è nata una psicoterapia orientata alla cura dei disturbi di personalità che applica in
ambito cognitivista principi non dissimili da quelli del modello di Bateman e Fonagy della terapia
basata sulla mentalizzazione (Mentalization Based Treatment, MBT). Bateman e Fonagy si erano basati
infatti sul principio che l'impossibilità di ottenere un'adeguata funzione riflessiva costituisse la radice
della difficoltà relazionale delle personalità borderline e avevano centrato il proprio modello di
intervento sulla possibilità di far raggiungere al paziente un'adeguata capacità di cogliere i possibili stati
mentali dell'interlocutore. Va notato che il modello di Bateman e Fonagy si è proposto a sua volta tra gli
esempi di psicoterapia breve integrata.

LE NUOVE TERAPIE A RELAZIONALITÀ LIMITATA


la questione della relazione nelle psicoterapie psicodinamiche, familiari e gruppali diventa a un certo
punto della nostra storia una delle chiavi indispensabili al cambiamento psicoterapeutico. Storicamente
la relazione non ha avuto tuttavia la medesima importanza in tutte le psicoterapie. La globalizzazione
delle psicoterapie e la standardizzazione delle procedure in anni recenti hanno condotto inoltre alla
diffusione di interventi in cui sono divenuti centrali teorie e processi nei quali la dimensione relazionale
diviene in pratica indifferente.

Le principali preoccupazioni del terapeuta in queste terapie sono quelle di restituire al paziente un
funziona-mento integrato del sistema nervoso, una sintesi psicofisica, una sincronizzazione emisferica.
Classicamente anche le tecniche meditative nascevano in contesti in cui gli elementi relazionali,
inconsci e simbolici non erano centrali. Un esempio paradigmatico di queste terapie contemporanee è
l'Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR).

Questo modello, pubblicizzato per la prima volta trent'anni fa, ha preso piede come una pratica di
desensibilizzazione di quegli ipotetici circuiti centrali che sarebbero determinanti soprattutto per la
sintomatologia del disturbo da stress post-traumatico . Il terapeuta EMDR, attirando l'attenzione e
muovendo le dita nello spazio visivo del paziente in maniera regolare solleciterebbe un
rimaneggiamento dei ricordi legati al trauma. Nella formulazione originale, l'EMDR segue un processo
di otto fasi:

(fase 1) si definisce il piano terapeutico

(fase 2)si spiega in cosa consiste la tecnica;

(fase 3) si sollecita il ricordo degli aspetti negativi legati al vissuto traumatico ma anche di quelli
positivi;

(fase 4) il paziente viene stimolato bilateralmente soprattutto con movimenti saccadici degli occhi
mentre ricorda e rivive le esperienze fino a quanto il vissuto traumatico diventi tollerabile;

(fase 5) il terapeuta tenta di sostituire la cognizione negativa dell'evento traumatico con una positiva.

(fase 6) scansione corporea per individuare delle tensioni fisiche

(fase 7) chiusura

(fase 8) verifica di eventuali criticità della sensibilizzazione che attivano il paziente a livello emotivo.

In origine la relazione paziente-terapeuta era in questo approccio limitata alla fase preparatoria
dell'intervento, in cui il terapeuta definiva il piano e poi indicava al paziente di ricordare in modo
veritiero gli episodi traumatici che continuavano a condizionarlo, ci si muoveva principalmente sul
piano della concretezza diagnostica e applicativa, mettendo in atto delle pratiche volte a integrare
centralmente il funzionamento cerebrale che caratterizza i vissuti nei disturbi traumatici.
Recentemente tuttavia l'enfasi sulla ricerca empirica in psicoterapia ha portato autori come Dworkin a
promuovere un ruolo per la relazione anche nell'EMDR, criticando interventi che escludano il contesto
relazionale. La relazionalità che è tuttavia reclamata in queste terapie è soprattutto su un piano di realtà
e non su quello simbolico e inconscio. Il terapeuta EMDR infatti in primo luogo organizza un contesto
reale relazionalmente sicuro per pazienti traumatizzati, pur cercando di gestire e riparare le eventuali
rotture della relazione dovute alle dinamiche transferali. Per ciò che concerne l'efficacia, esistono studi
che dimostrerebbero come l'EMDR sia utile almeno nel PTSD.

Sebbene sia possibile infatti una riduzione dei sintomi del PTSD rispetto a gruppi di controllo senza
alcun trattamento, non viene evidenziata una differenza apprezzabile nel confronto fra EMDR e altre
terapie comportamentiste sviluppate egualmente per attenuare i sintomi del disturbo post-traumatico ma
senza far uso di stimolazioni sensoriali specifiche. I detrattori dell'EMDR ritengono dunque che essa
non aggiunga molto alle terapie comportamentiste e che le stimolazioni specifiche siano superflue. Si
può aggiungere che l'uso dello sguardo del paziente potrebbe essere addirittura assimilato a una delle
tecniche ipnosuggestive che connettevano lo sguardo al funzionamento integrato/disaggregato della
mente e del cervello.

La stessa Shapiro legittimava la propria terapia paragonandola esplicitamente a quella relativa ai


processi di riaggregazione di Pierre Janet. L'EMDR risulterebbe essere una sintesi tra
desensibilizzazione, esposizione e ipnosuggestione. Similmente all'EMDR, anche la terapia
sensomotoria (Sensorimotor Therapy) si è affermata solo recentemente sempre come tecnica per
affrontate il PTSD.

La terapia sensomotoria è un approccio più eclettico rispetto alle tecniche comportamentiste e


all'EMDR, ma in cui similmente la relazione terapeuta-paziente risulta marginale. Tecniche di
rilassamento in questa terapia vengono integrate con la danza e il cosiddetto metodo Hakomi, che
considera il corpo come fonte delle conoscenze. La psicoterapia sensomotoria fondata da Pat Odgen è
quindi un approccio che integra pratiche di differente natura con l'obiettivo di agire in modo olistico sul
corpo e di migliorare lo stato psicofisico nei problemi legati al trauma e all'attaccamento. L'intervento ha
l'obiettivo di agire sulle valutazioni cognitive legate al ricordo del trauma e anche al controllo delle
funzioni del corpo.

La terapia ha soprattutto il fine di ridurre quegli stati di disregolazione dell'arousal che portano a una
sorta di esaurimento psicofisico e a un impoverimento del funzionamento cognitivo. La terapia
sensomotoria agisce così in tre fasi. Nella prima il terapeuta tenta di ampliare la tolleranza
dell'iperattivazione o dell'ipoattivazione somatiche per restituire al paziente la capacità di elaborare le
proprie esperienze nel tempo presente. In questo processo il terapeuta analizza anche la postura del
paziente nella sua relazione con le valutazioni cognitive e le reazioni emotive che non sono
padroneggiate.

La seconda fase del trattamento è dedicata all'elaborazione delle memorie dissociate e determinate dal
trauma. Qui il terapeuta interrompe o promuove la narrazione anche in relazione alla tolleranza che il
paziente avrebbe dovuto sviluppare nella prima fase della terapia. Nella terza fase, le componenti
dissociate della personalità vengono reintegrate con l'aiuto del terapeuta che utilizza quello che viene
considerato una sorta di transfert traumatico. Anche la postura del terapeuta entra in risonanza con
quella del paziente.
Questi dovrebbe ottenere la possibilità di rielaborare gli aspetti traumatici del suo passato. La relazione
sicura con il terapeuta diviene uno dei meccanismi con cui il paziente modifica quegli automatismi che
sono stati attivati dai traumi. La radice originaria di questo tipo di terapia sembra essere ancora una
volta Pierre Janet piuttosto che Sigmund Freud: la relazione viene invece impiegata soprattutto a fini
pedagogici, come un espediente tecnico che riuscirebbe a favorire nel paziente una sorta di
armonizzazione della propria emotività. Così come l’EMDR, anche la terapia sensomotoria ricorre alla
neurologia per legittimare la propria prassi clinica.

In questo approccio il terapeuta agirebbe sugli aspetti sottocorticali che sono la sede dell'emotività
attraverso una elaborazione dell'emisfero destro del paziente. La relazione si ridurrebbe dunque a una
sorta di dialogo fra emisferi. Così come la terapia sensomotoria, anche la mindfulness (termine che
designa la capacità di mantenere la propria consapevolezza nel momento presente) integra pratiche
orientali e occidentali affondando le sue radici nei movimenti libertari e orientalisti degli anni Sessanta.
Con il termine mindfulness viene normalmente identificata una versione laica della meditazione
orientale.

Ciò che sarebbe comune alle diverse forme buddhiste di meditazione e verrebbe recepito nella
mindfulness consisterebbe in "una modalità dell'attenzione, inserita in un contesto etico, incentrato sul
non far male a sé e agli altri. La prima modalità in cui si è diffusa la mindfulness è stata la MBSR
(Mindfulness-Based Stress Reduction), consistente piuttosto in un intervento psicoeducazionale che in
una forma di psicoterapia. La MBSR era volta essenzialmente alla riduzione dello stress e del dolore in
pazienti con problemi medici cronici; era organizzata generalmente in sessioni di gruppo, prevedendo
fra la settima e l'ottava settimana un giorno di ritiro.

I praticanti svolgevano del lavoro a casa in sessioni di 45 minuti. Si apprendevano così tecniche
meditative, body scan e posizioni yoga. La MBCT (Mindfulness-Based Cognitive Therapy) si è
sviluppata successivamente, con la consulenza del creatore della MBSR; si rivolgeva principalmente a
pazienti depressi curati con la terapia cognitiva ma in recidiva. L'idea alla base della MBCT consisteva
nel coniugare la meditazione con tecniche cognitive volte specificamente ad aiutare i pazienti a
distinguere i pensieri dai fatti.

La MBSR e la MBCT così sviluppate sembrano effettivamente avere un effetto su alcuni stati
psicofisiopatologici determinando un miglioramento della qualità della vita. Per migliorare l'efficacia
della meditazione sono così nate ulteriori ibridazioni di modelli CBT con la mindfulness: la Dialectical
Behavior Therapy (DBT) e I'Acceptance and Commitment Therapy (ACT). La DBT costituisce il
minuzioso approccio integrativo sviluppato da Marsha Linehan per il trattamento dei disturbi borderline
di personalità. Linehan riprende esplicitamente il concetto di dialettica dalla filosofia idealista,
utilizzandolo su diversi piani. La dialettica viene posta da Linehan alla base della propria metafisica di
fondo"; ma costituisce anche il fondamento della sua tecnica:

Essa consiste in un processo di progressivo coinvolgimento dell'individuo nel dialogo, finalizzato al


cambiamento e al movimento.

Il borderline sarebbe condizionato dal fallimento della sintesi mentale, dalla diffusione dell'identità e
dall'alienazione. Il meccanismo di scissione in questo quadro può essere letto co¬me fallimento della
dialettica nel mondo umano soggettivo. Anche nel contesto della DBT, la mindfulness è stata utilizzata
per guidare il paziente ad acquisire delle abilità nucleari necessarie a gestire la sua vita: abilità di
contenuto "che fanno riferimento all'oggetto dell'attività mentale; e abilità formali "riferite alle modalità
con cui tale attività si estrinseca".

La DBT ibrida tecniche comportamentiste, cognitiviste e meditative aiutando il paziente a sviluppare la


self efficacy e a gestire la propria emotività al fine di controllare soprattutto i comportamenti più gravi
legati alla personalità borderline. Questa psicoterapia si è molto sviluppata e oggi viene applicata a
diverse popolazioni cliniche in setting individuali, gruppali o anche per mezzo di consulenze
telefoniche. L'ACT di Steven Hayes costituisce invece un modello veramente singolare, dato che
coniuga la mindfulness con un'impostazione teorica in origine comportamentista. La RFT (Relational
Frame Theory), la teoria del linguaggio su cui l'AcT si basa, "considera il linguaggio come un tipo di
comportamento sotto il controllo operante".

Una simile impostazione sembrava impossibile da riproporre, da quando Noam Chomsky (1959) aveva
apparentemente demolito in modo definitivo la proposta di Skinner di interpretare il linguaggio in
chiave comportamentista. L'ACT si propone di promuovere nel paziente "l'accettazione di una vasta
gamma di esperienze interiori (pensieri, emozioni, sensazioni), mantenendo contemporaneamente un
comportamento potenzialmente efficace e coerente con obiettivi e valori”.

PSICOTERAPIE INTEGRATIVE

la psicoterapia integrativa rappresenta un terreno sempre più fertile della ricerca. L'esigenza di integrare
modelli terapeutici è nata soprattutto nel contesto cognitivo-comportamentale, per migliorare l'efficacia
degli interventi e poter contare su nuove munizioni terapeutiche, in grado di intervenire sia sugli stati
psicofisiologici, sia su quelli cognitivi. Il movimento delle psicoterapie integrative promuove tanto la
creazione di nuovi modelli , quanto l'adozione di un atteggiamento aperto e transdisciplinare. I diversi
metodi verrebbero così selezionati in base alla risposta del paziente e agli obiettivi del trattamento. La
psicoterapia integrativa è dunque il campo in cui si possono liberalmente ibridare le differenti scuole
terapeutiche anche con il fine di promuovere quegli elementi transdisciplinari in grado di migliorare
l'efficacia della psicoterapia.

In questo contesto sono stati costruiti dei test brevi che possono essere somministrati anche online e che
promettono in pochi minuti di fornire al potenziale paziente uno screening su quali sono le aree
psicologiche implicate nel suo caso specifico il tutto basato sulle conoscenze acquisite dalla ricerca sulle
pratiche a evidenza empirica. A causa della sua attitudine più laica e pragmatica, la psicoterapia
integrativa sembra prefigurare il futuro del movimento psicoterapeutico internazionale, pur con la
riserva che i confini di queste integrazioni sono talmente labili che un'attitudine di questo genere presta
il fianco alla proliferazione incontrollata di modelli.

La Schema Therapy venne sviluppata in considerazione delle accennate difficoltà incontrate dalla CBT
di fronte al trattamento di individui sofferenti di disturbi di personalità o di forme psicopatologiche
gravi. Young partiva dalla constatazione che le classiche terapie cognitivo-comportamentali
assumevano alcuni principi di difficile attuazione con un paziente di questo tipo:
(a) che costui sia sufficientemente motivato da se¬guire senz'altro le istruzioni impartite dal terapeuta;

(b) che sia in grado di imparare senza difficoltà a riconoscere e riferire determinate classi di pensieri ed
emozioni;

(c) che i suoi problemi siano facilmente identificabili come tali;

(d) che sia comunque potenzialmente in grado di modificare pensieri e comportamenti disfunzionali
sulla base delle sole tecniche cognitivo-comportamentali.

Young osservava invece sia che il carattere generalmente egosintonico dei tratti patologici nei disturbi
di personalità rendeva difficile la motivazione al cambiamento; sia che la CBT aveva ampiamente
sottovalutato l'importanza della relazione terapeutica come elemento attivo del trattamento terapeutico.
Young proponeva la fusione dei modelli esplicativi della patologia e delle tecniche terapeutiche
classiche della CBT con elementi tratti da tradizioni molto differenti tra loro.

Dal punto di vista teorico, Young abbandonava la classica impostazione cognitivo-comportamentale per
concentrarsi anche sull'origine della patologia, identificata nella precoce acquisizione di ciò che egli ha
definito come gli schemi maladattivi precoci (smP). Ispirandosi a idee psicodinamiche di varia origine,
Young ipotizza che ciascun essere umano sia caratterizzato, fin dall'infanzia, da alcuni bisogni
fondamentali che richiedono di essere naturalmente.

Sperimentandone l'impossibilità di soddisfazione, il bambino svilupperebbe una concezione negativa di


sé e dell'altro. Su queste basi egli si formerebbe gli SMP, consistenti in strutture emotive e cognitive,
formantisi e consolidantisi durante le prime fasi dello sviluppo, tendenti a mantenersi per tutta la vita:
tali strutture avrebbero un carattere specificamente disfunzionale. Gli SMP individuati da Young sono
diciotto, classificati entro cinque categorie, denominate domini degli schemi. Young postula che gli
schemi appartenenti allo stesso dominio abbiano elementi in comune e tratti distintivi; fatto che si
traduce poi nella diversificazione delle strategie terapeutiche.

Per esempio, il dominio "distacco e rifiuto" caratterizza pazienti che "sono incapa¬ci di stabilire delle
relazioni sicure e appaganti ". Si può ritenere che "la maggior parte delle persone con questi schemi ha
subìto un trauma nell'infanzia e tende a passare da una relazione disastrosa all'altra ". All'interno di
questo dominio si considerano sia le persone convinte che tutte le relazioni siano destinate a morire
(smP abbandono/instabilità); sia coloro che temono che gli altri vogliano approfittarsi di loro (sfiducia/
abuso); sia chi non si ritiene capace di legami emotivamente soddisfacenti (deprivazione emotiva); sia
chi pensa dí non meritare una relazione (inadeguatezza/vergogna); sia chi si sente diverso e
incompatibile con gli altri (esclusione sociale/alienazione).
La Schema Therapy comprende due fasi: quella di assessment e psicoducazione e quella di
cambiamento. Nella prima si propone di ricostruire l'origine degli schemi fin dall'infanzia e di aiutare il
paziente a rendere egodistonici i tratti di personalità disfunzionali. La seconda cerca di modificare gli
SMP con "un utilizzo integrato di strategie cognitive, esperienziali, comportamentali e interpersonali".
Inoltre: "Quando il paziente mette in atto i meccanismi disfunzionali tipici dello schema maladattivo
precoce, il terapeuta […] gli ricorda i vantaggi che otterrebbe dal cambiamento e, svolgendo una
funzione di parziale reparenting, cerca di colmare […] le carenze che il paziente ha subito durante
l'infanzia".

Questo si traduce in un atteggiamento molto più caloroso di quello cognitivista classico da parte del
terapeuta, che può esprimere empatia anche manifestando esplicitamente i propri stati d'animo. Per certi
versi, quindi, l'atteggiamento di Young ricorda quello della psicoanalisi relazionale contemporanea.
Tuttavia, come scrive un critico tutt'altro che animato da un bias anti-cognitivista. In quest'ottica la
Schema Therapy sembrerebbe poco adatta a gestire gli atteggiamenti più aggressivi e le condotte più
impulsive della fascia borderline.La Schema Therapy ha conosciuto un processo di integrazione
ulteriore, coniugandosi secondo vari approcci con la mindfulness e altre forme di pratiche meditative o
comunque di derivazione religiosa.

Il paradigma cognitivo-comportamentale non costituisce comunque l'unico punto di partenza per


l'integrazione di teorie o forme psicoterapeutiche diverse. In questo senso John Byng-Hall ha proposto
un modello di psicoterapia familiare che sintetizza elementi sistemici e strategici con la psicoanalisi
classica, la teoria dell'attaccamento e per certi versi la teoria dei ruoli. Secondo Byng-Hall, alla base
delle interazioni familiari vi sono delle sceneggiature, all'interno delle quali í membri della famiglia
recitano ruoli in gran parte già scritti, che spesso ripetono le esperienze che il nucleo originario ha
vissuto nella propria famiglia di origine.

Una grande importanza viene attribuita al controllo del controtransfert, al fine di evitare al terapeuta di
essere arruolato nella sceneggiatura. Il cambiamento è interpretato come sistemico, ed è descritto come
riscrittura dello script familiare, frutto di un passaggio da stili relazionali insicuri a stili sicuri.

VIOLAZIONI E RICERCA DELL’EVIDENZA EMPIRICA

La storia delle scienze "psi" ha sicuramente anche una componente oscura: anch'essa è stata oggetto di
interesse storiografico. La psichiatria, tra tali discipline, è quella di cui sono più noti gli abusi, come i
trattamenti, di fatto, più punitivi che terapeutici. La psichiatria avrebbe così sostituito il vecchio
manicomio con una prigionia virtuale. D'altra parte, le tecniche di intervento puramente
psicologico/psicoterapeutico hanno anch'esse presentato i loro aspetti oscuri. Il destino della psicoanalisi
è stato bifronte: essa ha spesso rappresentato l'idea di un rinnovamento delle istituzioni tradizionali e
prestato idee ai movimenti progressisti del Novecento; d’altra parte, alcuni istituti psicoanalitici
arrivarono addirittura a collaborare con regimi repressivi e totalitari.
Alcuni critici hanno eletto la psicoanalisi a paradigma negativo, sottolineandone le componenti
difensive; altri l'hanno legata agli aspetti regressivi dell'Illuminismo; altri ancora l'hanno invece
interpretata come una visione del mondo rivoluzionaria; altri la definiscono come una mera tecnica
terapeutica. C'è chi l'ha definita una pseudoscienza priva di possibilità di miglioramento; chi l'ha ritenuta
una scienza rivoluzionaria e definitiva; chi l'ha reinterpretata diffondendone una concezione modificata,
chi l'ha ritenuta il punto da cui partire per costruire una reale psicoterapia. La psicoanalisi, dalla sua
nascita, è stata sottoposta a una specie di tortura nel letto di procuste da cui non è riuscita mai a uscire.

Freud aveva rintracciato nella gestione del controtransfert e nella formazione rigorosa e ciclica dei
terapeuti un argine contro i giudizi clinici stravaganti e le terapie selvagge. anche le accortezze
freudiane furono disattese e si ebbe una deriva della formazione nei centri ufficiali del training
psicoanalitico in cui le analisi didattiche divennero via via un esercizio di potere di un gruppo di
terapeuti sull'altro.

Nelle idee dei primi psicoanalisti, la comprensione delle proprie reazioni emotive avrebbe dovuto
operare come faro e argine agli agiti controtransferali del terapeuta; un argine che avrebbe dovuto
costituire condizione sine qua non della formazione. La gestione del controtransfert era dunque un
riparo dagli agiti irriflessivi del terapeuta. Soprattutto per opera di Jung e Winnicott venne poi messo in
luce che il controtranfert poteva essere anche d'aiuto alla terapia.

Il controtransfert infatti aiutava a comprendere a quale tipo di problema il terapeuta reagisse. Ma, prima
nella tradizione junghiana e poi in quella psicoanalitica più in generale, le reazioni emotive del terapeuta
anche foriere di alcuni scandali e di qualche disastro, quando determinarono una relazione disinvolta
con i pazienti e una violazione del setting per soddisfare bisogni narcisistici del terapeuta. Il caso di
Jung e Sabine Spielrein fu solamente il più famoso di una lunga serie di violazioni che pose la questione
spinosa di come affrontare tali eventi.

Gabbard e Lester hanno dedicato alcuni decenni a studiare le violazioni del rapporto fra paziente e
terapeuta nella psicoanalisi, mettendo in luce che le violazioni del setting terapeutico sono da sempre
state un problema difficile da affrontare. Nell' IPA si è giunti addirittura a pianificare un percorso di
riabilitazione per i terapeuti che violavano il setting. Gabbard e Lester hanno anche fornito una
classificazione delle varie psicopatologie che affliggono i terapeuti con tendenza alla violazione.

Come si è già accennato, il proliferare dei modelli terapeutici negli ultimi decenni ha prodotto una
miriade di interventi più o meno verificati e attendibili. Sono state definite crazy therapies delle
pseudoterapie create senza una tradizione di ricerca e di pratica clinica direttive e suggestive, che hanno
persino messo a rischio l'incolumità dei clienti/pazienti. Le vecchie pratiche dei medici ciarlatani sono
quindi sopravvissute in queste crazy therapies, che si pongono gli obiettivi più vari. Esse spesso
utilizzano un linguaggio pseudoscientifico che crea nei clienti/pazienti l'aspettativa di essere di fronte a
delle terapie scientificamente valide. Tipicamente si tratta di tecniche direttive in cui i pazienti sono
invitati a compiere delle azioni in contesti suggestivi per le più differenti situazioni cliniche. La
direttività intrinseca a molti interventi crazy le accomuna quindi all'ipnotismo.

Al contrario, le terapie evidence based, sono state proposte sia per supplire alla supposta infondatezza
epistemologica degli interventi psicoterapeutici tradizionali, sia per reagire alle crazy therapies. Con luci
e ombre, la ricerca sulla psicoterapia è stata la reale novità degli ultimi decenni. Sono state scritte
migliaia di pagine, condotte decine di ricerche e meta-analisi sull'efficacia delle psicoterapie. Tutte le
psicoterapie citate nei paragrafi precedenti di questo capitolo hanno subìto e subiscono un continuo
vaglio empirico e quanto più esse si dimostrano efficaci, tanto più si creano società per la formazione di
nuovi terapeuti.

Il mondo della ricerca ha avuto il merito di avvertire le psicoterapie classiche che dovevano allinearsi
con le altre discipline empiriche come la medicina, allo stesso tempo però c'è stato un proliferare di
terapie nuove che sono emerse come presunti standard di riferimento per l'una o l'altra personalità
patologica, in un dominio ancora non ha portato a conclusioni universalmente accettate relative all'una o
l'altra terapia. Inoltre, le psicoterapie tradizionali sembrano superate dalle nuove terapie evidence based
in un contesto di mercato in cui il rapporto fra domanda e offerta è a favore delle nuove terapie alla
portata di tutti.

L'elaborazione di protocolli circostanziati di psicoterapia ha così condotto a una sorta di


standardizzazione degli interventi che è stata significativamente definita mcdonaldizzazione. La
psicoterapia si è infatti recentemente globalizzata come il cibo ed è offerta a un costo sempre più adatto
alla maggioranza delle persone. Limitata nel tempo e nei modi dell'intervento, è anche suscettibile di
marketing aggressivo da parte di società che offrono servizi destinati alla salute.

La ricerca evidence based soffre così del fenomeno della globalizzazione, che, se da un canto ha
avvicinato un gran numero di persone a un ambito tradizionalmente destinato a pochi, dall'altro lo ha
ridotto ad applicazione di tecniche brandizzate e a scartamento ridotto. Ciò per giunta ha finito per
escludere i ceti meno abbienti dal fare esperienze di tipo psicodinamico e ha ridotto il dibattito sullo
statuto epistemologico della psicoterapia solo alla questione relativa alla verifica empirica della sua
efficacia. In altre parole, si è teso a dimenticare che la misurabilità di un determinato risultato non
costituisce di per sé una dimostrazione di validità. La misurabilità è infatti funzione di una definizione
operativa.

Sebbene alcune ricerche dimostrino che presso i ceti svantaggiati i disturbi mentali siano maggiormente
diffusi e che vi sia maggiore necessità di interventi terapeutici, tecniche psicoterapeutiche di breve
durata e focalizzate alla risoluzione dei sintomi. I pazienti meno benestanti diventano così come clienti
di fast food: mangiano in ristoranti che globalizzano e standardizzano l'alimentazione. Non tutti
considerano questa situazione come necessariamente negativa. Rotheram-Borus, Swendeman e Chorpita
addirittura rimarcano che proprio la dimostrazione dell'efficacia di interventi brevi e standardizzati
dovrebbe decisamente far virare verso la commercializzazione di servizi psicoterapeutici.

I processi di globalizzazione sono invece criticati da altri ricercatori che svolgono un'attività clinica
soprattutto psicodinamica. I clinici temono che tale deriva tecnicistica e valutativa della psicoterapia
contemporanea possa portare a gettare il bambino con l'acqua sporca; inoltre si assiste a science wars tra
chi sostiene l'utilità della ricerca empirica in campo clinico e psicoterapeutico e chi invece ritiene che
tale ricerca sia astratta e conduca all'abbandono di concetti come l'inconscio, la dialettica fra mondo
interno e mondo esterno, la relazione fra il passato e il presente. In tal senso si è parlato di essiccazione
dell'esperienza umana dovuta alla colonizzazione delle pratiche evidente based sulla psicoterapia.

Fondare tutta la psicoterapia sulle evidenze empiriche re-inscrive la prassi terapeutica entro i confini
stretti del modello medico da cui, in realtà, già dagli albori la stessa psicoterapia ha tentato di rendersi
autonoma. Secondo Goodman la psicoterapia dovrebbe godere di uno spazio "preternaturale" che
favorisca l'apprendimento di nuovi linguaggi in grado di rendere una persona capace di mediare e
decidere se aprirsi o chiudersi al rapporto con l'esterno e gli altri. Tali possibilità avvengono solo se
sono apprese capacità di decodificare un contesto economico, psicologico e politico di grande
complessità esperienziale

IL VERDETTO DEL DODO

Negli ultimi decenni il campo della ricerca sulla psicoterapia, sulle pratiche più efficaci, sugli esiti, sui
processi, sul training psicoterapeutico, sulle variabili del terapeuta, sulle altre nozioni chiave è stata uno
dei domini che hanno prodotto il maggior numero di pubblicazioni in riviste specializzate e dedicate
esclusivamente a questi temi. Questa ricerca ha anche significato un rinnovato interesse degli "psi" per
le descrizioni psicopatologiche. Per arrivare a un accordo sull'efficacia delle terapie occorre infatti
definire chiaramente le psicopatologie a cui sono destinate le cure.

La creazione di un linguaggio comune e di una classificazione globalmente accettata dei disturbi mentali
è stata per gli "psi" una vera e propria fatica di Sisifo. Nel corso del tempo le psicopatologie sono
lievitate e il numero di pagine dedicate alla descrizione dei disturbi nei DSM è aumentata sensibilmente.
Come ha di-mostrato Ian Hacking le psicopatologie si manifestano specificamente nelle culture in cui si
sviluppano e da cui sono costruite; esse sfuggono, cambiano, scompaiono e riappaiono, soggiacendo
forse più di ogni altro dominio alle jingle-jangle fallacies. Esiste una specialità, l'etnopsichiatria, che
studia come si declinano le psicopatologie e i fenomeni mentali nelle differenti culture.

Proprio per rispettare un'esigenza di neutralità empirica e scientifica, il movimento psichiatrico


internazionale, a partire dalla terza edizione del DSM, abbandonò la nosografia psicodinamica per
descrivere le psicopatologie. Le categorie diagnostiche dovevano divenire descrittive e avalutative. La
ricerca neurologica e psicofarmacologica sembrava un lido sicuro al qua-le approdare definitivamente.
Nel contesto della crisi della psicoanalisi, la psicoterapia cognitiva si presentava come una via d'uscita,
una psicoterapia che poteva essere considerata scientificamente fondata, empirica e in linea con le
nuove esigenze della psichiatria e della psicologia sperimentale.

La CBT poteva in apparenza essere facilmente sottoposta a verifica empirica e fondata sulle evidenze
della ricerca. La psicoterapia cognitiva si è così sempre più ibridata con la psicologia sperimentale e con
alcuni settori della psicologia dinamica: quelli più suscettibili di essere studiati sperimentalmente con lo
scopo di integrare questa tradizione con quella cognitivo-comportamentale. I modelli cognitivisti si sono
così legati ai tradizionali studi sull'apprendimento, ma anche alla riformulazione in termini pragmatici di
concetti metapsicologici come quelli relativi ai processi primario e secondario. il punto di forza della
psicoterapia cognitiva è stato proprio la sua suscettibilità a essere oggetto di verifica empirica, mentre la
sua debolezza è stata la sua frammentazione in molti modelli di intervento che si differenziavano
soprattutto per i punti di repère.

Nonostante il differenziarsi di più tipologie di terapia cognitiva, a partire dai lavori pionieristici di Ellis
e Beck, molti dati hanno supportato l'efficacia di tale intervento, nel ridurre sia i sintomi sia le ricadute.
Numerose sono state le meta-analisi che evidenziano un'efficacia delle differenti forme di psicoterapia
cognitiva che in alcuni casi è superiore agli interventi di routine di tipo farmacologico, così come
efficace pare essere persino l'intervento per condizioni gravi come le psicosi.

Tale superiorità empirica della psicoterapia cognitiva ha sollecitato continui confronti con la
psicoterapia psicoanalitica, di cui i modelli cogniti-visti rappresentavano pur sempre una derivazione e
un ribaltamento. Ciclicamente emergono accuse reciproche da parte di chi vede nella terapia cognitiva e
comportamentale un approccio troppo convenzionale attento alla fenomenologia di superficie; al
contrario, altri accusano le terapie psicodinamiche di essere imprecise; altri ancora considerano invece
gli effetti della psicoanalisi addirittura più duraturi dei risultati delle terapie CBT, che rispetto ai
successi iniziali sembrano mostrare oggi outcomes che declinano nel tempo.

Certamente al movimento psicodinamico gioverà sia una più chiara definizione degli scopi generali
della terapia, che non si limitino alla remissione dei sintomi, sia il lavoro di rielaborazione delle
categorie diagnostiche. Così attualmente i domini della psicoterapia cognitiva e psicodinamica tendono
a sovrapporsi e a ibridarsi con continui scambi di concetti fra l'uno e l'altro territorio. Entrambi i modelli
aspirano a essere almeno il primus inter pares in una ideale gara a chi è più efficace, tentando di essere í
vincitori di una gara finora in apparenza segnata da quello che è stato definito il "verdetto del Dodo".
L'idea che tutti i tipi di psicoterapia siano egualmente efficaci è una fortunata ipotesi secondo cui gli
effetti del trattamento sarebbero dovuti a fattori aspecifici presenti in ogni terapia piuttosto che ai metodi
e alle teorie specifiche.
La ricerca ha poi effettivamente evidenziato che le psicoterapie e gli interventi psicologici radicati nelle
maggiori tradizioni di ricerca presentano tutti livelli paragonabili di efficacia a tutte le età e che, rispetto
agli psicofarmaci, i loro effetti risultano di più lunga durata e con minori controindicazioni. In media le
psicoterapie possono produrre un notevole risparmio sui costi della sanità pubblica sia per le
psicopatologie, sia per le malattie psicosomatiche. Tuttavia l'efficacia della psicoterapia sembra
determinata in gran parte proprio da fattori aspecifici quali il contesto di cura, l'alleanza terapeutica, le
aspettative del paziente, la severità e la complessità dei casi piuttosto che dalla specificità degli
interventi.

Proprio la relazione con il terapeuta sembra essere l'ingrediente principale della psicoterapia, il fattore
aspecifico che ne determina gli esiti. Come si è visto, tale fattore alla fine è stato reintrodotto anche in
quelle psicoterapie che all'origine erano delle tecniche che puntavano più a essere radicate nella
neurologia, nella psicofisiologia, nell' evidence based. Seguendo quanto evidenziato da Lingiardi e Del
Corno, tradizionalmente la psicoanalisi e le terapie psicodinamiche erano invece i domini in cui era data
grande importanza alla relazione tanto che i nuovi terapeuti erano formati dando la massima attenzione
all'analisi didattica per la gestione del controtransfert.

Paradossalmente proprio la psicoanalisi e le terapie psicodinamiche furono attaccate come non


scientifiche soprattutto dai comportamentisti e dai cognitivisti, che mostravano un'apertura e
disponibilità alla ricerca di base e clinica che gli psicoanalisti non avevano. Gli psicodinamici iniziarono
a occuparsi di ricerca per reazione.

Fu così spostato il focus dallo studio dei risultati (outcome) della psicoterapia allo studio dei processi
che portavano al buon esito della terapia e che mantenevano nel tempo i risultati ottenuti. Anche la
classica distinzione che vorrebbe le psicoterapie a orientamento cognitivo più efficaci rispetto alle
psicoterapie a orientamento analitico non è poi stata confermata dalla verifica empirica, in quanto
entrambe le forme di psicoterapia sono risultate efficaci, con almeno una larga dimensione degli effetti
misurabili (large effect size) nelle meta-analisi. Una recente meta-analisi delle meta-analisi sui confronti
di efficacia tra le varie psicoterapie mostra che gli articoli attestanti una differenza statisticamente
significativa nel confronto degli approcci sono apparentemente affetti da bias caratteristici, quale
l'orientamento teorico del ricercatore. La ricerca oggi sembra più utilmente tesa a comprendere come
agiscano i fattori terapeutici aspecifici, per esempio l'alleanza terapeutica.

La ricerca in psicoterapia ha dimostrato che questa pratica è efficace, ma che lo è in un modo che sfida
l'epistemologia tradizionale della medicina. Il modello medico infatti è fondamentalmente un modello
individualistico in cui a una malattia corrisponde una cura specifica. La psicoterapia invece pare essere
efficace in base a fattori aspecifici che sfidano una epistemologia semplicistica che vorrebbe anche in
questo campo proporre protocolli uniformi di intervento.

NODI
Nodo 1. Il ruolo del terapeuta

In origine la funzione del moderno psicoterapeuta era svolta da una parte da sciamani e guaritori;
dall'altra dai filosofi. Il confessore e addirittura l'inquisitore svolsero una funzione psicoterapeutica in
negativo, esplicitamente connessa all'intervento etico-morale sul comportamento umano. Occorreva
controllare i miscredenti, i blasfemi, le streghe, gli eretici, tutti coloro che tenevano comportamenti
pericolosi per la società. L'esorcismo fu una sorta di arma più potente della confessione per eliminare il
male in tutte le sue forme. Successivamente, le pratiche psicoterapeutiche sono andate via via
sostituendosi a quelle pastorali.

Una delle prime specifiche prassi terapeutiche laiche in epoca moderna venne definita trattamento
morale e costituì in sostanza una realizzazione degli ideali umanitari della Rivoluzione francese. Il
trattamento morale era rivolto alla regolazione delle passioni, e univa la classificazione delle malattie
mentali alla consolazione paternalistica. Così il medico si sostituiva al confessore come un buon padre
che si prendeva cura con scienza e coscienza dei pazienti. Il metodo descrittivo-nosografico e la terapia
morale divennero così uno dei principali approcci conoscitivi e applicativi che caratterizzarono la
ricerca e la pratica sui disturbi mentali in psichiatria.

Il medico educatore e paternalista è stato probabilmente il primo tipo di terapeuta operante soprattutto
alla nascita degli ospedali psichiatrici in epoca moderna. Questo terapeuta aveva pochi mezzi di cura a
disposizione, basati su pratiche largamente derivate dalla medicina antica riguardante gli umori, che
occorreva stabilizzare per mezzo di pratiche di buon senso come il lavoro oppure mediante
contenimento più o meno cruento.

Questo primo e fondamentale tipo di terapeuta è sempre sopravvissuto ed è incarnato soprattutto da


coloro che preferiscono un approccio etico a una riconosciuta teoria psicologico-psichiatrica che orienti
il loro agire; tale terapeuta spesso affianca un atteggiamento comprensivo e rassicurativo a latere della
somministrazione dei farmaci e dei trattamenti fisici che andrebbero così a compiere un'azione
trasformativa su corpo e cervello. nel corso dell'Ottocento si diffuse un altro tipo di terapeuta,
alternativo all'educatore paternalista e moralizzatore della psichiatria, che può essere definito domatore.
Tale tipologia di addomesticatore della mente segnò soprattutto il momento di fondazione della
psicoterapia e della psicologia clinica nell'ambito della storia dell'ipnosuggestione, i cui modelli
principali furono quelli della Salpétrière e di Nancy.

Pierre Janet e Sigmund Freud furono tanto i fondatori della psicoterapia moderna, quanto poi i maggiori
epigoni della tradizione francese dei magnetizzatori e della neuropatologia clinica. Janet a sua volta si
emancipò dalla tradizione dei domatori, proponendo per primo la figura di un terapeuta ampliatore del
campo di coscienza e costruttore della mente altrui, un catalizzatore e un arricchitore del sistema
mentale dei pazienti. In questo senso, Janet potrebbe essere additato anche come iniziatore del
movimento cognitivista. Freud integrò tale tipologia di psicoterapeuta con la figura del saggio che
incarnava il portatore di luce e di conoscenza laddove regnavano le tenebre dell'inconscio.

Il terapeuta fu così rappresentato in Tiresia cieco, ma capace di vedere le parti più oscure dell'animo
umano. In seguito, con Jung, il terapeuta integrò pienamente le funzioni archetipiche del maestro che
formava e sgrezzava il paziente con metodi che mai avrebbero dovuto essere intrusivi. Per certi aspetti
sia Freud sia Jung furono secolarizzatori di tutta la cultura terapeutica precedente che dall'antichità
venne ridefinita e ricostruita in epoca positivista proprio dai pionieri della psicoterapia.

Nel corso del Novecento, lo psicoterapeuta saggio e indovino della psicoanalisi ortodossa si trasformò
in una presenza via via sempre più silenziosa, che usava il lettino e il setting per tenere a bada il
controtransfert; tale figura ortodossa è stata recentemente definita come psicoanalista mummia. In
seguito, la mummia è stata rimpiazzata da un altro fondamentale tipo di terapeuta, il genitore sostitutivo
che andava a integrare con gli aspetti relazionali il saggio che illuminava le parti più oscure dell'animo
umano; ciò è accaduto quando la pratica e la ricerca clinica andavano scoprendo come fondamentali le
relazioni con i caregiver.

Con il terapeuta genitore è corrisposta una particolare attenzione alla relazione di transfert-
controtransfert che ha anche prodotto linguaggi romanzati da parte degli psicoterapeuti e degli
psicoanalisti, tutti orientati a descrivere i propri stati interni nella relazione con i pazienti o a ridurre la
propria competenza all'empatia. Negli anni della Guerra fredda si è presentato il terapeuta maverick
indipendente, promotore dei più recenti ritro¬vati terapeutici. Figura presente soprattutto nella
psichiatria e incarnata da Walter Jackson Freeman II, che diffuse un metodo smart per lobotomizzare i
pazienti con pratiche ambulatoriali e itineranti.

Negli stes¬si anni invece il mainstream psicoterapeutico si declinava su un versante più economicistico
e pragmatico, oppure portava alle estreme conseguenze l'idea del maestro capace di interpretare il
mondo. Il terapeuta e le teorie legate alla psicoterapia hanno così assunto per taluni anche una
colorazione. Queste tipologie di terapeuta si sono presentate e ripresentate continuamente nelle
dinamiche della storia della psicoterapia, intrecciandosi, apparendo e scomparendo per poi riapparire in
epoche più recenti. gli stessi terapeuti delle origini non furono solo dei domatori ma ebbero spesso
anche una funzione politico-culturale in epoca illuminista e proto-positivista.

Durante il tardo positivismo la psicoterapia si limitò a essere una mera tecnica terapeutica; funzione
politica che poi si ripresentò con irruenza nel secondo dopoguerra. Più recentemente il terapeuta tende a
essere considerato nuovamente come un tecnico-ricercatore che poco interviene sul contesto socio-
politico e che invece incarna il ruolo del professionista che fonda le sue pratiche sulla precisione della
diagnosi e sulla terapia evidente based. In tal senso, nella cultura contemporanea, si cercano le
cosiddette variabili del terapeuta con l'obiettivo di comprendere quali siano le sue caratteristiche
psicologiche che influenzano positivamente o negativamente la terapia.

In particolare sembrerebbe che, a prescindere dalle differenti terapie, le caratteristiche demografiche del
siano meno rilevanti di alcune caratteristiche psicologiche. Dunque la presenza del terapeuta nel qui e
ora dell'esperienza relazionale, l'empatia, l'autenticità, l'attenzione agli aspetti culturali della relazione,
l'atteggiamento positivo e la responsività intesa come il saper fare l'intervento giusto al momento giusto
sulla base di una serie di variabili contestuali pare siano fattori positivi importanti. Le capacità
relazionali, introspettive e riflessive del terapeuta sono inoltre le variabili maggiormente in grado di
promuovere il cambiamento nelle terapie psicodinamiche. In tal senso i clienti con disturbi lievi
sembrano meno influenzati dai fattori personali del terapeuta, i clienti più gravi per ottenere migliori
risultati terapeutici hanno invece maggiormente bisogno di un terapeuta in grado di non reagire
difensivamente e negativamente verso il cliente (controtransfert).

NODO 2. I pazienti costruiscono la storia delle terapie insieme al terapeuta.

Gli ipno-suggestionatori francesi, Freud, Watson, e gli altri, in contesti differenti, raccontarono casi
clinici specifici e con dovizia di particolari, determinando circolarmente l'evoluzione dei loro modelli di
intervento.

Non a caso una delle critiche che solitamente si muovono agli psicoterapeuti, e primo fra tutti a Freud,"
riguardava la riscrittura dei casi clinici che agli occhi degli scettici potevano addirittura sembrare
inventati. L'oggetto della psicoterapia, il paziente, si manifestava come un bersaglio mobile che
cambiava e si modificava, cambiando e modificando il punto di vista del suo stesso psicoterapeuta.

Il paziente era riscritto, interpretato, realizzato, modificato attraverso la lente di concetti terapeutici che
a un certo punto della storia apparivano, per poi modificarsi, essere ripresi da altri con altri nomi. Le
categorizzazioni psicopatologiche e psicoterapeutiche dei pazienti vincolavano per giunta gli stessi
pazienti a un contesto prognostico che ne determinava concretamente le possibilità di guarigione.

NODO 3. Integrazioni/ibridazioni delle diversità

Una questione che fu originariamente posta già da Jung riguarda il rapporto tra le diverse teorie
psicologiche e psicoterapeutiche, inteso non come coesistenza provvisoria di punti di vista alternativi,
ma di fatto necessario. Jung ipotizzò che ogni teorico fosse legato a un punto di vista determinato dal
proprio tipo psicologico e che il possibile successo di psicoterapie alternative fosse correlato alla
corrispondenza del tipo cui apparteneva il teorico con quello a cui apparteneva il paziente.
Jung auspicava inoltre un processo che conducesse a una psicologia complessa idea che non è stata
sviluppata in seguito e che rimase anche per Jung una sorta di "ideale regolativo": un obiettivo al quale
si dovrebbe tendere, indipendentemente dalla possibilità di raggiungerlo. Poca attenzione è stata
riservata anche a una possibile ipotesi alternativa sulla convivenza e l'efficacia comunque simile dei
diversi approcci, avanzata da Stern limitatamente alla psicoterapia madre-bambino.

Stern osservò che le psicoterapie volte a modificare le rappresentazioni materne influivano


positivamente sul comportamento materno di accudimento; le psicoterapie volte a modificare il
comportamento influivano positivamente sulle rappresentazioni. In tal modo l'intervento su un aspetto
del sistema costituito dalla diade madre-bambino modificava il sistema stesso in modo integrale.
Probabilmente la prospettiva potrebbe essere ampliata: il sistema da prendere in considerazione può
essere il singolo individuo, la coppia, la famiglia, il gruppo o addirittura la stessa società.

Un approccio pragmatico al problema dell'esistenza di modelli diversi è stato quello dell'integrazione


delle psicoterapie, ovvero l'uso di concetti e soprattutto tecniche provenienti da varie fonti.
L'integrazione delle diverse psicoterapie è stata segnata, soprattutto in origine, da un eclettismo
empirico, piuttosto che dal tentativo di costruire un ponte teorico rigoroso tra i diversi modelli. Di fatto,
un'integrazione teoretica tra approcci fondati su presupposti del tutto incompatibili è estremamente
difficile, mentre più semplice appare un avvicinamento sul piano clinico. In questo senso uno
psicoanalista può utilizzare un concetto come quello di schemi cognitivi e utilizzare l'idea della
creazione e modifica di tali schemi nell'ambito della psicoterapia psicodinamica.

Nello stesso senso il movimento cognitivista ha assimilato quelli che in passato erano cavalli di battaglia
della psicoanalisi, come i sistemi motivazionali,56 i meccanismi di difesa o addirittura il
transfert/controtransfert. Prasko e collaboratori hanno sostenuto che in realtà i terapeuti CBT hanno
utilizzato l'idea della dinamica transfert/controtransfert in maniera forse più estesa di quanto non fossero
direttamente consapevoli di fare; Cartwright ha introdotto in ambito cognitivo la distinzione tra
controtransfert soggettivo e oggettivo.

Ancora più fluido è risultato l'atteggiamento verso singole tecniche specifiche, dato che nel repertorio
della psicoterapia contemporanea sono entrati elementi di meditazione orientale, ipnosi, suggestione. I
problemi di inconsistenza teorica sono stati spesso coperti da misurazioni dei risultati in apparenza
promettenti. D'altra parte alcuni temi definiti a partire dalla ricerca in psicoterapia sono diventati
progressivamente centrali nella riflessione teorica in ambiti molto diversi. Il filtro della ricerca sulla
psicoterapia ha anche imposto all'attenzione generale concetti nati originariamente in un contesto teorico
molto specifico.

NODO 4. La concezione della relazione fra organico e psichico determina i punti di vista terapeutici.
Le differenti culture terapeutiche del clinico possono portare a un uso implicito delle relazioni fra fattori
biologici e fattori psicologici. Un clinico formatosi alla psichiatria biologica tenderà così a considerare
le psicopa¬tologie un epifenomeno di fattori cerebrali reali o presupposti. Un clinico con una
formazione maggiormente critica e orientata alla psicodinamica o al cognitivismo tenderà invece a
elaborare modelli del mentale complessi e non riduttivi in cui fattori psicologici, biologici e sociali
interagiscono.

Il campo psicoterapeutico può essere quindi influenzato dalle attribuzioni alla mente o al corpo della
causa delle psicopatologie. Ogni terapeuta pone così l'accento su un diverso valore da assegnare alla
relazione men-te-corpo. Gli ultimi decenni hanno riproposto la questione in una sorta di neuro-complex
culturale. Le neuroscienze sono così rapidamente cresciute e hanno guidato il campo delle scienze "psi";
anche se sul terreno psicoterapeutico sono ancora largamente ignorate oppure utilizzate esclusivamente
per confermare i modelli clinici evidence based o l'esistenza nei circuiti nervosi di nozioni relative ai
concetti clinici.

Bentall, a partire da una revisione critica dei modelli neuropsichiatrici della schizofrenia, ha
sostanzialmente ridimensionato le possibilità della psichiatria organicista, che intendeva prima
descrivere le psicopatologie e poi correggerle con i farmaci. Per Bentall anche la ricerca contemporanea
dei marker genetici o dei siti neurologici delle psicopatologie mediante neuroimmagini ha dimostrato di
non essere utile dal punto di vista della terapia.

Per Bentall è facile dimostrare che, per esempio, le terapie cognitive sono riuscite a rendere i sintomi
psicopatologici tollerabili come per esempio con la partecipazione alle attività di reti di pazienti come
quella degli "uditori di voci" che affrontano i sintomi allucinatori della schizofrenia con approcci
differenti da quello meramente farmacologico e che dimostrano come tali sintomi possano divenire
compatibili con una esistenza normale.

Bentall ha così dimostrato che la medicalizzazione dei fenomeni mentali ha sollevato più problemi di
quanti ne abbia risolto, e che è più importante lavorare psicoterapeuticamente sui sintomi piuttosto che
classificare le sindromi con lo scopo di cercare cause biologiche univoche alla loro base. Se Bentall ha
utilizzato le meta-analisi a sostegno delle proprie posizioni epistemologiche, Nikolas Rose ha invece
analizzato la questione del rapporto fra psichico e organico su un piano sociologico ed epistemologico.
Rose ha cercato di smitizzare ulteriori aspetti delle scienze medico-psichiatriche. Rose ha dimostrato
che nelle scienze "psi" contemporanee alcuni concetti tradizionali sono definitivamente stati inscritti in
una nuova cornice biotecnologica.

Egli ha così sostenuto che la ricerca del benessere o, meglio, dell'ottimizzazione della vita è la cifra
della contemporaneità che conduce a istituire nuovi regimi terapeutici che a loro volta cambiano la
politica, la scienza e l'etica, secondo una concezione del potere non necessariamente legata a tematiche
repressive, quanto piuttosto alla microfisica foucaultiana del potere produttivo che può essere utile,
necessaria, positiva. Rose ha concepito, quindi, il biopotere come qualcosa di basato sul miglioramento
della vita, l'ottimizzazione della moralità e la costruzione di una biocittadinanza attiva.

Il nuovo secolo sarebbe destinato anzi a promuovere una nuova forma di cittadinanza, quella biologica,
in un nuovo scenario che dovrebbe tendere a ottimizzare la normalità. In questa visione, le scienze
umane sarebbero un faro proprio per le neuroscienze, che senza tenere presente in modo approfondito i
contesti sociali, culturali e mentali che influenzano i processi biologici produrrebbero una conoscenza
appiattita su un'idea semplificata e astratta della relazione fra mente e corpo. Di conseguenza, le
professioni psicologiche e mediche oggi svolgerebbero un ruolo chiave nel regolare la vita degli
individui al fine di migliorare la normalità con tutti gli ausili e le tecniche della scienza. Questo piano
strategico coinvolge una rete di scienziati, e Bentall e Rose rappresentano i maggiori critici
contemporanei della psichiatria organicista e delle neuroscienze.

CORREGGERE E RENDERE AUTONOMI

A nostro avviso correggere o rendere autonomi sono le nozioni che hanno rappresentato gli specifici
obiettivi dei differenti approcci psicoterapeutici. All'inizio dell'epoca moderna gli psicoterapeuti si
differenziavano poco dai pedagogisti correttivi, che concepivano l'essere umano come un animale da
migliorare e indirizzare concretamente verso l'incivilimento. Nel processo di correzione dei
comportamenti, la relazione era sempre asimmetrica. I processi di correzione attuati dagli psicoterapeuti
si spostarono prima sulle pratiche ipnosuggestive e poi sul piano simbolico delle pulsioni e dei
comportamenti da gestire e non più degli istinti da dominare con la volontà.

In tale processo la funzione che ha integrato le attività terapeutiche relative alla gestione delle pulsioni è
stata infine quella relativa al rifornire gli individui nel loro percorso di vita per mezzo di relazioni di
accudimento. Si è trattato quindi di rendere autonomi i pazienti per mezzo di tecniche psicologiche e
comportamentali. Ogni terapeuta oggi infatti tende a fornire al paziente una via d'uscita alle proprie
patologie attraverso metodi in cui più o meno direttamente entrano in gioco dinamiche di accudimento.
Migliorare la resistenza psicologica delle persone può implicare, quindi, varie tipologie di interventi, da
quelli lunghi a quelli veloci, da quelli individuali a quelli gruppali, da quelli espressivi a quelli
supportivi.

Nel corso del tempo si è assistito a un cambiamento profondo delle pratiche e anche a una crisi delle
tradizionali istituzioni psicoterapeutiche, spesso fondate su principi burocratici e rapporti di potere
inadatti alle dinamiche della contemporaneità. Del resto in un mercato in crisi da sovrapproduzione
delle merci con la ricerca di nuovi gusti, con la creazione di nuove categorie di consumatori, con la
pubblicità, con le culture dello slow food o del fast food. La terapia del mentale è cambiata in sintonia
con la società. Nel mercato alimentare, la qualità del cibo che una persona assume dipende da dinamiche
complesse di natura economica. Nel mercato delle psicoterapie ci si può permettere, per differenti
motivi (soldi, tempo libero, cultura), una psicoterapia standardizzata e più veloce oppure complessa e
più lenta.

Recentemente si è così arrivati a pensare che proprio la psicoanalisi relazionale sia un argine alla società
consumistica, prestazionale e neoliberista contemporanea. L'esperienza della psicoanalisi relazionale
rappresenterebbe infatti un'alternativa critica che favorisce lo scambio di idee su un piano orizzontale,
egualitario e di reciproco interesse fra terapeuta e paziente. In un contesto in cui merci e tecnologia
hanno condotto alla creazione di macchine intelligenti in grado di sollevare l'uomo dalle fatiche,
facendone le veci, ribaltando la nozione di lavoro, di tempo libero e di salario, la psicoanalisi relazionale
rappresenterebbe una sacca di resistenza che riumanizza l'individuo considerandolo comunque il
prodotto di processi mentali inconsci fondati sulla storicizzazione delle necessità che all'uomo derivano
dalla propria biologia.

L'analisi del controtransfert, insieme all'attenzione all'alleanza terapeutica, alla supervisione così come
alla capacità di monitoraggio delle proprie emozioni e cognizioni, sono divenute oggi le migliori alleate
del terapeuta che voglia evitare le terapie folli.

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