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La cura nella pratica filosofica

Casadei Flavio
Lia Maria Giovanna
Perego Veronica
Seri Lucia
Zese Michele

INTRODUZIONE

Fin dalla sua nascita, la filosofia, ha avuto un ruolo centrale all’interno della società.
Tuttavia con lo sviluppo della “società della tecnica” il ruolo assunto dalla filosofia, e
conseguentemente, dal filosofo è diventato sempre più marginale, fin quasi a sparire
completamente, se si esclude l’ambito accademico, dove, tuttavia, la filosofia ha perso
ogni briciola di essenza vitalistica ed emancipatoria, per divenire, quasi interamente,
uno studio della storia della filosofia.
“Il filosofo non è un medico; il suo lavoro non è curare gli individui ma comprendere
il mondo nel quale vivono […]; un tale chiarimento può ben soddisfare un compito
terapeutico, e se la filosofia diventasse terapeutica, sarebbe giunta veramente a se
stessa!”1. Questa citazione appare nella prima parte dell’opera di Luca Nave e
Maddalena Bisollo2. Ovviamente Marcuse era totalmente estraneo al dibattito, attuale,
sulle pratiche filosofiche, tuttavia la sua frase, estrapolata da un contesto molto più
ampio e variegato rispetto a quello che andremo noi ad affrontare, ben sintetizza un
atteggiamento molto diffuso nella filosofia, fin dai suoi albori: il concetto di filosofia

1 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione: l’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi,
Torino 1967, p. 206.
2 L. Nave e M. Bisollo, Filosofia del benessere la cura dei pensieri e delle emozioni, Mimesis Edizioni,
Milano 2010.
1
intesa come disciplina dall’aspetto terapeutico.
Ovviamente la filosofia non pretende di curare le malattie, non prescrive farmaci o
miracolosi unguenti, ma cerca di creare le condizioni affinché il singolo abbia cura di
sé, ovvero rifletta sulla propria esistenza, decidendo autonomamente cosa vuole essere.
Al contrario della medicina, la filosofia non agisce solo in contesti di malattia, ma
combatte decisamente questo aspetto, a volte infatti, il termine malattia viene
ampiamente abusato. Soprattutto per quanto riguarda tutti gli aspetti che riguardano il
mondo psy. Tuttavia, è bene precisare, nessuno intende negare l’importanza dei farmaci
nella cura della salute e delle forme di disagio mentale quanto piuttosto evidenziare
come possano esistere molte altre forme di disagio, che potremmo definire in maniera
generica, e semplicistica forse, esistenziale che se vengono trattate come patologie
cliniche o psicologiche non verranno mai curate o superate, perché esse sono in realtà
problemi filosofici. La consulenza filosofica vuole proprio inserirsi in questo angusto
spazio che lo spettro delle scienze e della psicologia non riesce ad includere nel suo
campo di ricerca. Tuttavia la consulenza filosofica, proprio perché priva di quei caratteri
di “scientificità” che da Galileo in avanti segnano il passo per ogni ricerca , si pensi alle
“matematiche esperienze e sensate dimostrazioni”, è spesso inquadrata, all’interno della
comunità scientifica e soprattutto dalla psicologia, con la quale spesso la consulenza
filosofica è entrata in competizione, quasi come fosse un rimedio new age o una qualche
forma di animismo orientaleggiante. Noi riteniamo, invece, che sia proprio questa
caratteristica, l’a-scientificità, a poter essere la forza ed il valore di questa pratica.

Il mito della cura

“ La Cura, mentre attraversava un fiume, scorse del fango argilloso, lo prese pensosa
e cominciò a modellare un uomo. Mentre considerava tra sé e sé che cosa avesse fatto,
sopraggiunse Giove; la Cura lo pregò di infondere lo spirito nell’uomo; Giove
acconsentì volentieri. Ma siccome la Cura pretendeva di dargli il proprio nome, Giove
glielo proibì e disse che invece bisognava dargli il suo. Mentre la Cura e Giove
disputavano sul nome, si fece avanti anche la Terra, e sosteneva che bisognava imporgli
il suo nome, dal momento che essa aveva fornito il proprio corpo per plasmarlo. Allora

2
presero come giudice Saturno, il quale comunicò ai contendenti tale giusta decisione: ‘
Tu, Giove, poiché infondesti lo spirito dopo la morte dell’uomo riceverai la sua anima;
tu, Terra, dato che fornisti la materia, riprenderai il suo corpo; ma poiché fu la Cura che
lo ha modellato per prima, lo possieda per tutta la vita. Per quanto concerne la
controversia sul nome, sia chiamato Homo, perché fu creato dall’humus.”3
Questo mito, narrato nel I secolo d.C. da Igino, poeta latino, è stata ripreso da molti
filosofi tra cui Herder ed Heidegger. Il mito appena citato evidenzia, a nostro parere
molto bene, come fosse considerata la cura nella classicità. È evidente, infatti, come la
cura fosse l’aspetto fondamentale per la vita dell’uomo e come il suo compito fosse
quello di occuparsi, nello stesso modo, del corpo e dello spirito dell’uomo. La salute
degli esseri umani era vista, infatti, dalle popolazioni della Grecia, strettamente
connessa all’equilibrio degli elementi interni ed esterni. L’evento come la malattia
veniva contestualizzato non soltanto come evento meramente biologico, ma inserito in
un contesto psicologico e sociale. Non bisogna leggere questo atteggiamento
semplicemente come una qualche forma di arcaismo, o di superstizione pre-scientifica,
infatti anche se forse in maniera non ancora compiuta o meglio, consapevole, si
collegava la malattia ad un disagio esistenziale. Alle origini della cultura occidentale
nasceva “l’antica alleanza tra filosofia e medicina”.

Nasceva l’idea che era impensabile essere buoni medici, ovvero esercitare in maniera
razionale l’arte della cura nella quale consisteva la loro antica missione, senza essere anche

buoni filosofi4

Il significato del termine “cura” ha prevalentemente tre ambiti semantici di


riferimento: il primo, derivante direttamente dal termine latino, significa farsi carico,
gestire, amministrare, in un senso pragmatico ( la casa, gli affari, il lavoro). Il secondo
si riferisce al termine greco therapeìa, ed è sinonimo di terapia, trattamento o
guarigione. Il terzo ambito semantico rimanda invece ad aspetti maggiormente emotivi e
sentimentali, riferendosi ai concetti di ansia, preoccupazione, attenzione nei confronti
degli altri. Nonostante queste diverse varianti etimologiche, tuttavia, durante l’evolversi
3 F. Arrigoni e L. Nave, Come in cielo così in terra. La cura tra medicina, filosofia e scienze umane,
Edizioni Unicopli, Milano 2013, p. 19.
4 Ivi, p. 40.
3
della storia occidentale, si sono imposti due modelli dominanti per quanto riguarda la
declinazione del termine cura: il “prendersi cura” di qualcuno o qualcosa, che rimanda
direttamente al significato di provvedere ai bisogni di qualcuno o alle sue esigenze,
anche stabilendo un legame più profondo che implica anche la possibilità di stare in
pena, in ansia ed è anche riconnesso intimamente con il concetto di responsabilità ( che
qui non analizzeremo per motivi di spazio).
Il secondo modello è quello della terapia o trattamento di un paziente. Questo
modello implica necessariamente la presenza di un aspetto medico-sanitario, di una
patologia, che può riguardare, indipendentemente l’aspetto fisico o psicologico, ma
raramente questi due aspetti vengono connessi. Ovviamente questi due modelli non
sono apparsi contemporaneamente, ed anche il loro sviluppo non è stato uguale. È
evidente quindi, come

l’idea di cura globale, che sta a fondamento del mito di Igino e che sarà fatta propria
dai medici e filosofi greci sottintende la visione dell’uomo quale composto di anima e
corpo […] mentre la nascita dell’idea di cura come terapia-trattamento di un corpo malato
in vista della guarigione non potrà che avere luogo in età moderna, allorquando la comunità
medica incontrerà la visione del mondo e della natura meccanicistica e deterministica
propria della scienza sperimentale, abbandonando l’antropologia e la cosmologia solistiche
e “fantasiose” degli antichi filosofi e medici.5

Questa lunga citazione dal libro di Arrigoni e Nave, ci introduce direttamente ad un


discorso sulla contemporaneità. Ovviamente questi due paradigmi, che sono stati
dominanti per lungo tempo, sono stati sostituiti da un nuovo paradigma, il cosiddetto
paradigma “bio-psico-sociale”. Tuttavia prima di affrontare questo argomento, è bene
soffermarsi ancora un attimo sulle scuole classiche ed ellenistiche, per non incorrere in
banali errori di mitizzazione del passato screditando, o cercando di screditare, la scienza
ed il progresso tecnico scientifico, soprattutto in campo medico. Cercare di riportare in
auge il mito di un fantomatico “stato di natura”, nel quale gli uomini vivevano in
armonia, comprendendo appieno il rapporto che intercorreva tra il loro spirito ed il loro
corpo, sarebbe, oltre che errato dal punto di vista storico e filosofico, anche ridicolo.
“Basterebbe riflettere solo un po’ per riconoscere che la nascita della tecnica ci ha fatti
5 Ivi, p. 25.
4
evadere dal nostro stato di natura probabilmente perché in esso non trovavamo tutto
quel benessere che ora vi potremmo rimpiangere”6. Sarebbe un errore stigmatizzare il
sapere tecnico-scientifico come se fosse un’entità consapevole e malvagia senza
considerare le enormi conquiste ed i numerosi miglioramenti che ha arrecato alle nostre
vite. Dall’altro canto, però, non sarebbe nemmeno corretto non assumere un
atteggiamento critico e lungimirante, proprio a causa di tutte le conquiste tecnologiche e
scientifiche.

Bio-psico sociale

La nascita e lo sviluppo della scienza e della biologia portarono, lentamente, ad una


diversa impostazione e attitudine nei confronti del termine cura, della malattia ma non
solo, anche nei confronti del mondo intero. Il motto baconiano “sapere è potere” va
proprio in questa direzione. Non più limitarsi ad una scienza descrittiva e contemplativa,
ma come sostiene Gadamer “il sapere della scienza moderna è teso al dominio”. Ma la
vera rivoluzione avviene con Julien Offray de La Metrie, il quale nella sua opera
L’homme Machine, fonde in maniera profonda il meccanicismo e l’anatomia. Egli
riprende l’analisi cartesiana, che si divideva in res cogitans e res extensa, e resosi conto
delle enormi difficoltà che nascevano nel far interagire la parte spirituale e la parte
fisica, eliminò, sulla scia di quello che tentò di fare Hobbes, la res cogitans. Tutti i
processi del corpo, i movimenti e le reazioni, non sono che proprietà intrinseche nella
materia stessa.
Dopo queste teorie, così rivoluzionarie di La Metrie, si diffuse l’idea che il medico
“debba […] esclusivamente riparare il guasto all’interno della macchina, senza
preoccuparsi delle manifestazioni dello spettro [anima n.d.r. ] che potrebbe abitarla”7. La
crisi e la messa in discussione del paradigma bio-meccanicistico avvenne dopo un lungo
periodo costellato da incessanti successi, e miglioramenti, tecnico scientifici, che
continuano tutt’ora. Tuttavia, nel periodo della modernità, si assistette a ciò che è stata
definita come crisi delle scienze.

6 L. Nave e M. Bisollo, Filosofia del benessere la cura dei pensieri e delle emozioni, cit, p. 21.
7 F. Arrigoni e L. Nave, Come in cielo così in terra, cit, p. 62.
5
All’inizio del novecento, infatti, mentre la medicina scientifico-tecnico-sperimentale e
le psicologie-psicoterapie nate sul culto della scientificità celebravano i propri trionfali
successi, una serie di voci anomale sembravano proporre, pur con diversi termini e variabili,

la questione relativa alla natura del benessere reso possibile dal connubio scienza-tecnica8.

Quello che Nave sembra qui indicare come un paradosso, ovvero come si possa
parlare di crisi delle scienze malgrado i loro continui successi, ci viene spiegato dalle
parole di Husserl, che nella Crisi delle scienze europee sostiene che non sia la “rigorosa
scientificità tecnico sperimentale delle scienze” ad essere in crisi, i progressi tecnologici
troppo evidenti, e i successi in campo medico, impediscono un’analisi in questo senso,
ma è ciò “ che le scienze in generale hanno significato e possono significare per
l’esistenza umana” e continua più avanti Husserl “[…] nella miseria della nostra vita –
si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio
quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati,
si sente in balia del destino”9
L’idea contemporanea della possibilità, e necessità, di passare al paradigma “bio-
psico-sociale” per la cura della persona nasce proprio in questo contesto di crisi e dalla
conseguente instabilità del precedente paradigma meccanicistico-deterministico. Non
sarà un cambiamento che nascerà solamente al di fuori della scienza, basti pensare allo
sconvolgimento che hanno portato le teorie di Marx, Nietzsche e Freud nel pensiero
occidentale del secolo scorso, ma sarà anche all’interno della stessa comunità scientifica
con le teorie di Einstein sulla relatività e di Heisenberg sull’indeterminazione che
dimostrarono l’infondatezza della pretesa di indagare la realtà, e lo stesso essere umano,
basandosi solo sulle leggi della meccanica.

La ricerca di un senso

La profezia nietzscheana della morte di Dio e del nichilismo che reca con sé, sembra
essersi avverata, conducendo il mondo, l’occidente quantomeno, alla scomparsa
dell’ottimismo teologico, lasciando spazio ad una teleologia tecnico-scientifica, che
8 L. Nave e M. Bisollo, Filosofia del benessere la cura dei pensieri e delle emozioni, cit, p. 23.
9 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2008, p.
33.
6
però, sembra, anch’essa aver tradito la sua missione. Il futuro come “promessa” è
mutato in futuro come “minaccia”. La cosa interessante è che è proprio il progresso, che
aveva assunto il ruolo di condurre al benessere globale l’intera umanità, quasi come se
la ricchezza, il possesso di beni, e la felicità, potessero fluire a profusione come una
cascata su tutti quanti, sembra ora rappresentare la catastrofe imminente, citando
Baumann “ Esso [il progresso n.d.r.] ora rappresenta la minaccia del cambiamento
inarrestabile e inevitabile, che non porta pace e sollievo, ma crisi e tensioni costanti,
senza neanche un attimo di pausa, in una sorta di gioco delle sedie in cui un attimo di
disattenzione si trasforma in sconfitta”10. Questa crisi porta all’evidenza che ci sono
aspetti, fondamentali, di cui le scienze, volutamente e per ragioni tecniche, non possono
occuparsi. Miguel Benasayag e Gèrard Schmit parlano della nostra età come “epoca
delle passioni tristi” dove il riferimento principale è, non tanto alla tristezza o al dolore,
quanto alla disgregazione ed alla mancanza di un senso che, a loro parere, fanno della
crisi attuale qualcosa di differente rispetto a tutto ciò che abbiamo affrontato in
precedenza. Permangono quindi aspetti che le scienze non riescono ad affrontare, ma
non solo, anche la psicologia sembra, spesso inadeguata ad affrontare questi temi,
avendo a lungo inseguito la precisione e la volontà di apparire come una scienza, si
pensi alla psicofisica di Wundt o la fondazione freudiana della psicanalisi sul modello
delle scienze di natura, ed usando quindi gli stessi modelli. (Un’analisi più approfondita
sul rapporto consulenza filosofica psicologia si avrà più avanti).
Diventa evidente quindi che esistano aspetti della realtà, sociale ma soprattutto
individuale, che non sono misurabili o calcolabili, e sono tutti aspetti che la scienza
tecnico-pratica, non solo non è in grado di comprendere, ma che non considera
nemmeno, semplicemente sembrano non esistere. È per questa ragione che sembra
essere necessario sostituire il dominante pensiero tecnico-calcolante con un pensiero
meditativo che analizzi tutti gli aspetti in-calcolabili.

Il pensiero calcolante induce alla fuga del pensiero, e dunque non pensa […] il calcolo,
assunto quale simbolo di questa razionalità tecnico-scientifico-strumentale […] non è
infatti un pensiero bensì piuttosto uno strumento[…] che punta all’esattezza anche laddove
la cartesiana “chiarezza e distinzione” non è affatto raggiungibile né auspicabile; è

10 Z. Baumann, Vita liquida, Laterza, Bari 2005, p.69.


7
qualcosa di assolutamente ripetibile, di standard, che implica e impone leggi11.

Gli aspetti non misurabili sono quelli che appartengono a quello che Nave definisce
il “mondo della vita” o per esprimersi in termini heideggerriani dell’Esserci (Dasein),
che per lungo tempo è sembrato cedere il passo al “mondo della tecnica”, lo stesso
Heidegger dice:

Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo


dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a
questo mutamento. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di
raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta
realmente emergendo nella nostra epoca12.

È, allora, proprio il dominio della tecnica che deve essere scardinato, per tentare di
restituire un senso, non solo al mondo e alla realtà, ma all’individuo stesso che deve
poter abbandonare il terreno della tecnica che “non tende ad uno scopo, non promuove
un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica
funziona”
Probabilmente la filosofia, tramite anche la consulenza filosofica, può essere in grado
di restituire un orizzonte di senso all’individuo. La filosofia è infatti in grado di
restituire importanza al concetto di cura, che grazie anche al pensiero meditativo assume
una valenza che va ben oltre il paradigma classico, sottinteso anche nella psicologia di
malattia-diagnosi-trattamento, ma si pone l’obiettivo di “fornire un esercizio costante, e
costantemente critico, nel mondo della vita[…]nessun consulente possa in alcun modo
trattare il soggetto passivo che ha dinnanzi sventolando l’idea di un soggetto guarito o
guaribile[corsivo nostro]”13
È utile ancora sottolineare un aspetto, che la cura filosofica non è una terapia nel
senso che comunemente si attribuisce a questo termine: il trattamento tecnico di una
patologia volto alla sua guarigione, previa classificazione dei sintomi e dei disturbi, “la
pratica terapeutica della filosofia non tratta le persone, non dispone di teorie
diagnostiche e di tecniche prognostiche indirizzate alla classificazione, alla cura del
11 L. Nave e M. Bisollo, Filosofia del benessere la cura dei pensieri e delle emozioni, cit, p. 22.
12 M. Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1983, p. 36.
13 P. A. Rovatti, La filosofia può curare?, Cortina ed, Milano 2006, p. 39.
8
sintomo e alla guarigione dalla malattia” continua ancora la Bisollo “ una cura dunque
che non dispone di rimedi veloci, di teorie e di tecniche in pillole che possano
anestetizzare il nostro dolore”14
Potrebbe proprio essere questo aspetto, di incompiutezza e di emancipazione priva di
aspetti predeterminati, o per dirla con Baumann di liquidità, a rendere la filosofia adatta
alla cura.

LA CURA IN GALIMBERTI

Uno dei filosofi contemporanei che maggiormente si è interessato alla pratica


filosofica finalizzata alla cura dell’essere è Umberto Galimberti, il quale, in particolare,
si è occupato dei rapporti tra pratica filosofica e psicoterapia.
Secondo Galimberti, a differenza di come comunemente si è portati a pensare, tra
psicoanalisi e pratica filosofica non vi è alcun conflitto. Infatti mentre la prima ha come
obbiettivo la cura della patologia, la seconda non mira a guarire l’uomo, bensì a porlo in
una dimensione più consapevole di fronte all’esistenza umana. Il dolore nella
prospettiva della pratica filosofica è visto come parte integrante dell’esistenza, non
suscettibile quindi di guarigione, ma governabile con la cura di se.15 La
contrapposizione della psicoanalisi alla consulenza filosofica ha le sue radici in due
diversi modi di concepire la realtà che discendono da tradizioni diverse; la tradizione
giudaico-cristiana e quella greca.
Nella visione del mondo giudaico-cristiana il dolore è visto come la conseguenza di
una colpa originaria suscettibile di redenzione. Il dolore appare dunque come un
qualcosa di non ineluttabile, ma superabile, attraverso una buona condotta, in una vita
ultraterrena. Questa prospettiva che considera il dolore qualcosa di separato dalla vera
vita, quella dell’al di là, scredita la vita terrena e la considera vita in un mondo di
dolore. Secondo Galimberti la psicoanalisi nasce da questo terreno preparato proprio
dalla tradizione giudaico-cristiana. L’uomo nella visione della psicoanalisi è visto come
pato-logico “come colui che subisce e patisce le forze oscure dell’inconscio, cause della
14 L. Nave e M. Bisollo, Filosofia del benessere la cura dei pensieri e delle emozioni, cit, pp. 196-197.
15 U. Galimberti, La casa di psiche, Feltrinelli, Milano 2005, p. 12.
9
sua sofferenza e del suo disagio, da cui occorre liberarsi” 16. Se nel cristianesimo il
superamento del dolore avviene attraverso una buona condotta, nella psicoanalisi la
liberazione dal dolore avviene con la conoscenza, con il sapere scientifico. La
psicoanalisi rientra nell’orizzonte giudaico-cristiano proprio per questa concezione del
dolore che non è parte dell’esistenza umana ma qualcosa che deve essere curato
attraverso la pratica psicoanalitica, in un caso, o la pratica religiosa nell’altro.
Ben diversa è la concezione della tradizione greca che, come osserva Galimberti,
concepisce il dolore come parte integrante della vita. In particolare la tragedia greca,
che come ci ricorda Nietzsche non è un genere letterario ma la condizione
dell’esistenza, concepisce la morte e la sofferenza come fattori non solo intrinseci alla
vita, ma necessari alla vita stessa.

Qui i Greci infatti hanno colto l’essenza del tragico, che non sta nel semplice morire
e soffrire delle singole esistenze, ma nella necessità della loro morte affinché si
generi la vita17 .

La crudeltà della morte e della sofferenza non sono quindi conseguenze di una colpa
commessa, ma aspetti essenziali e promotori della vita stessa. Infatti in natura la morte
non solo è condizione per la nascita di nuova vita, ma svolge anche un ruolo
fondamentale nella vita dell’uomo, gli ricorda di essere una determinazione finita della
natura e di essere dunque un mortale. La morte e la sofferenza sono aspetti della vita
che riportano costantemente l’uomo alla consapevolezza di non essere un dio e al
compito di ricercare la giusta misura. L’uomo è portato a dimenticarsi in fretta di essere
un ente finito, è infatti espressione della natura che, in quanto espressione infinita di
vita, lo porta a perdere la consapevolezza della propria fine. Secondo Galimberti,
l’unica vera colpa che i greci concepiscono per l’uomo è proprio questa; quella di essere
tentato da una vita senza fine che è peculiare della natura stessa. Il termine hybris,
tracotanza, esprime questa colpa, ovvero la pretesa di oltrepassare i limiti costitutivi
dell’uomo. Per questi motivi diventa fondamentale per i greci il concetto di giusta
misura. La presunzione dell’uomo di oltrepassare i suoi limiti è ben rappresentata del
mito di Prometeo: il titano che cerca di emancipare gli uomini rubando il fuoco agli dei.
16 Ivi, p. 18.
17 Ivi, p. 22.
10
Prometeo non è punito perché dona qualcosa di troppo prezioso all’uomo, ma viene
punito perché distoglie l’attenzione degli uomini dal loro limite che è la morte, facendo
credere all’uomo di poter superare la distinzione tra uomo e dio.
La tradizione giudaico-cristiana ponendo la morte come conseguenza di una colpa, e
non come aspetto ineluttabile dell’esistenza, perde il senso della giusta misura. In questo
modo è possibile una teorizzazione del desiderio infinito. Il greco infatti sa che la natura
è vita infinita e crudeltà allo stesso tempo, sa che il dolore e la sofferenza fanno parte
dell’esistenza, e li accetta in quanto consapevole di essere solo una parte finita della
natura. A questa moderazione dell’uomo greco si sostituisce il desiderio infinto del
cristianesimo che non si accontenta della vita terrena ma spera di ottenere la salvezza da
ogni sofferenza in Dio.

Alla moderazione greca che si accontenta di ciò che ha, subentra, con il
cristianesimo, quel desiderio infinito che vuole ciò che non possiede, ma spera di
ottenere dall’amore di Dio, che non ha creato una natura “innocente e crudele”, ma,
come dice il “genesi” buona e, se pur attraversata dal dolore causato dalla colpa,
riscattabile proprio attraverso l’accettazione incondizionata del dolore. 18

Il motto dell’oracolo di Delfi, “conosci te stesso”, trovava il suo senso, secondo


Galimberti, nella funzione di ricordare all’uomo di conoscere, da una parte, la natura
dell’uomo, dall’altra, la natura del proprio modo di essere uomo. Se l’uomo è parte della
natura, quindi parte del ciclo di vita e di morte della natura, deve vivere con la
consapevolezza della morte. Questa consapevolezza tuttavia non ha sul greco un effetto
depressivo bensì propulsivo; nel momento in cui si è consapevoli che vi è una solo vita,
quella terrena, allora lo scopo sarà quello di conquistarsi una vita buona attraverso la
giusta misura.
Galimberti ci ricorda che tra l’uomo e l’animale c’è una distinzione fondamentale;
mentre il primo è governato dagli istinti, e può quindi non conoscere se stesso, l’uomo
trascende la semplice istintualità animale ed è quindi relegato alla cura di sé. La
mancanza di un istinto vincolante apre l’uomo allo scenario del possibile, scenario in
cui, se vuole evitare di perdere la vita prima che giunga la morte naturale, deve trovare

18Ivi, p. 387.
11
la giusta misura19. Questa mancanza rende l’uomo in eccesso in ogni momento, per cui il
compito dell’uomo è quello di porsi dei limiti attraverso la giusta misura. Assume allora
importanza il concetto greco di arte di vivere; perché se l’uomo non è determinato dai
suoi istinti può dirsi a tutti gli effetti creatore di sé stesso. L’arte di vivere greca cerca un
equilibrio tra il dare piena esplicazione alle nostre potenzialità e non oltrepassare il
confine dei nostri limiti.

l’etica che scaturisce dall’arte di vivere non prevede la conformità ad una norma, ma
come vuole il significato originario di ethos, che, come ci ricorda Heidegger,
significa “soggiorno”, la capacità di abitare il mondo governando se stessi,
diventando legislatori di noi stessi. Ciò non significa che possiamo fare ciò che
vogliamo, ma che di volta in volta dobbiamo delimitare l’ambito di ciò che
possiamo fare e di ciò che non possiamo fare, per non incorrere nelle conseguenze
infauste e inattese che possono derivare dall’imponderabile a cui l’uomo è
inevitabilmente esposto, o dall’esercizio dissennato della sua libertà 20.

L’arte di vivere quando diventa abitudine si trasforma in una morale, intesa come
modo di stare al mondo (ethos), che l’individuo sceglie da sé. Una morale che viene
scelta di volta in volta, senza essere una scienza generale che si applica indistintamente
ad ogni individuo. La morale che è legge esterna all’individuo, che non sorge dalla
spontaneità ma viene imposta da una autorità altra, diventa quella che Nietzsche
chiamava “la morale degli schiavi”21. La grandezza dell’uomo sta dunque nella misura
in cui si è capaci a dar forma e se stessi; quando ciò non avviene si è condannati a subire
le leggi degli altri. Sarà allora essenziale la capacità di dar forma alla propria forza, ciò
che i greci chiamavano virtù (aretè), che non ha nulla a che fare con la virtus latina, con
la mortificazione e il sacrificio, ma che è la capacità di eccellere, di dominare gli istinti
e di essere impavidi di fronte al dolore. Ma anche qui, nell’applicazione della virtù, è
necessaria la misura (métron), perché senza questa anche il coraggio e la forza applicate
alla vita vanno incontro alla sconfitta.
Per Galimberti la pratica filosofica ha come obbiettivo quello di recuperare questa
antica saggezza greca, partendo da una visione dell’uomo concepito non come malato
19 Ivi, p. 403.
20 Ivi, p. 406.
21 F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1992.
12
bensì come tragico. Il suo compito dunque non è quello di guarire, bensì quello di
educare l’individuo, attraverso la cura di sé intesa in questo ampio senso che si è
descritto, all’accettazione dell’unica esistenza che abbiamo.

IL RAPPORTO TRA PSICOTERAPIE E CONSULENZA


FILOSOFICA

Oltre alla posizione di Galimberti ne esistono altre che possono riprenderla o


contraddirla, e questo a causa del fatto che non è facile determinare la relazione che
intercorre tra consulenza filosofica e psicoterapia. A tal proposito ogni consulente da
una propria interpretazione che nasce ovviamente dalla sua personale visione di
consulenza filosofica, dall'obiettivo che si prefigge e dalle modalità in cui essa viene
attuata. Tuttavia una definizione tanto della consulenza filosofica tanto del suo rapporto
con le psicoterapie è necessaria, se non altro per delimitare e comprendere l'ambito di
riferimento.
Barrientos Rastrojo identifica tre modi in cui il rapporto tra le due attività può
dispiegarsi: “armonia”, in cui esse si mantengono ben distinte ma si accetta un'apertura
collaborativa; “simbiosi”, in cui i metodi di una disciplina vengono innestati sull'altra e
viceversa; “separazione e superamento”, in cui le due attività vengono considerate prive
di ogni contatto.
Supportarti dalla lettura dei testi presenti in bibliografia e dai resoconti delle
pratiche filosofiche avvenute all'interno delle strutture sanitarie che abbiamo analizzato
e presenteremo successivamente, riteniamo il “rapporto armonico” (riferendosi alla
terminologia di Rastrojo) quello più consono per la descrizione del rapporto tra le due
discipline.
Sostenere una totale estraneità tra le due ci appare infatti assurdo sia sotto il punto di
vista pratico, in quanto i due professionisti si trovano spesso a lavorare con i medesimi
clienti e all'interno delle stesse strutture; sia sotto quello storico-formativo dal momento
che lo sviluppo delle due discipline e conseguentemente la formazione dei due
professionisti prevede una grande interazione tra le due materie (basti pensare
rispettivamente al ruolo di Schopenhauer, filosofo che per primo teorizza la
13
contrapposizione tra io e inconscio22, e al curriculum accademico di entrambi i
professionisti23).
Anche l'interpretazione che vede uno scambio metodologico tra le due attività ci
appare inadeguato: molti degli autori dei testi che abbiamo letto, infatti, individuano la
distanza tra le due discipline proprio in relazione ai metodi applicati nei rispettivi
ambiti.
Partendo proprio da queste differenze metodologiche proporremo adesso
un'interpretazione del rapporto tra psicoterapia (considerata nella sua accezione più
generale) e consulenza filosofica.
In Un estraneo in famiglia24, Neri Pollastri, elenca sei criteri di differenziazione tra
consulenza filosofica e psicoterapia, a cui poi Giacometti ne aggiunge un settimo
ricavato dalla lettura del saggio di Paolo Cervari Strategie indecidibili25. Come già
anticipato queste differenze vertono tutte più o meno direttamente attorno alla questione
metodologica. Analizzeremo quindi il rapporto tra consulenza filosofica e psicoterapia
proprio a partire da alcuni di questi criteri esplicitati da Pollastri.
Il primo criterio che egli individua è l'intenzionalità filosofica: nella consulenza
filosofica è indubbiamente esclusa la finalità terapeutica 26 sebbene, come afferma
22 U. Galimberti, La casa di psiche, cit, p. 43.
23 A tal proposito è stato osservato che all'interno dell'università italiana questa compenetrazione tra le
due discipline risulta in molti casi carente soprattutto nella formazione degli psicologi. Come afferma
Giorgio Blandino, gli psicologi sprovvisti delle basi filosofiche rischiano di diventare “badanti della
psiche”. Cfr. G. Blandino, Psicologi o badanti? Sulla necessità di una formazione storico-filosofica degli
psicologi, in G. Giacometti (a cura di), Sofia e psiche, Liguori, Napoli 2010, pp. 193- 208.
24 N. Pollastri, Un estraneo in famiglia. Sulla relazione tra consulenza filosofica e psicoanalisi, in G.
Giacometti, Sofia e psiche, cit., pp. 9-36.
I sei criteri identificati da Pollastri sono:
1. considerazione dell'inconscio e del fenomeno della rimozione;
2. la volontà di comprensione e non spiegazione che caratterizza la consulenza filosofica a
discapito della psicoterapia;
3. l'uso metodologico del transfert, inteso da Freud come strumento per far riemergere fenomeni
rimossi e che presuppone un rapporto affettivo tra analista e paziente. Nella consulenza
filosofica questo non è ammesso poiché innanzitutto, il dialogo che intercorre tra i due non si
concentra tra i due dialoganti ma sul logos che si sviluppa nel dialogo, in secondo luogo
perché tra consulente e consultante si instaura un rapporto dialogico paritetico;
4. diversa intenzionalità
5. volontà di uscire da sé per comprendere il mondo caratteristica della consulenza filosofica;
6. differenza di setting in cui si svolgono entrambe le attività.
25 P. Cervari, Stategie indecidibili. Ambigui incroci tra psicologia strategica e consulenza filosofica , in
G. Giacometti, Sofia e psiche, cit., pp. 167-192. A tal proposito occorre osservare che Cervari, ritiene
«del tutto incompatibili psicologia strategica e consulenza filosofica» Ivi, p. 176.
26 Secondo quanto riporta Moreno Montanari, Wittgenstein attribuirebbe una finalità terapeutica alla
filosofia il cui compito sarebbe quello di delimitare i pensieri che altrimenti sarebbero indistinti.
Sebbene ciò non sia propriamente riferibile al tema della consulenza filosofica, e quindi al campo di
14
Moreno Montanari in La consulenza filosofica: terapia o formazione? non si esclude
che possano essere raggiunti tali risultati 27. Nella condizione attuale, dove vige
l'egemonia del “paradigma terapeutico –versione che assume nell'ambito dell'uomo il
più generale paradigma tecnico-strumentale, atteggiamento della razionalità diretta allo
scopo che agisce in modo economico riducendo la complessità e operando sul piano
causale”28, la consulenza filosofica si sottrae da tutto ciò in quanto disciplina puramente
teoretica: ha per unico obiettivo la conoscenza, è quindi contraddistinta da “un agire
riflessivo e mai causale”29. La consulenza filosofica ha come obiettivo il recupero e il
rilancio dell'idea di assoluta normalità della sofferenza e delle difficoltà dell'esistenza.
Ha per oggetto «l'analisi e la rielaborazione delle visioni del mondo» 30 dei consultanti.
Questo spostamento dell'attenzione dal sé verso l'esterno (altri, mondo, realtà) fa della
consulenza filosofica, non un'esperienza “introspettiva” ma “intersoggettiva”. Si può
affermare che nella consulenza filosofica si ha una “razionalità dell'emozione” in quanto
si passa dalla visione del mondo pensata a quella sentita. La visione del mondo di cui è
portatore il consultante (ma anche il consulente) oltre a pensieri espliciti racchiude
sentimenti, emozioni e pulsioni. Per questo Lahav parla di “comprensione vissuta”.
Consulente e consultante operano quindi insieme sulle proprie visoni del mondo e ciò
mette luce su due aspetti importanti dal punto di vista filosofico: prima di tutto il fatto
che si prescinde da una concezione individualista, e in secondo luogo che la verità viene
considerata come intersoggettiva (ciò è possibile solo investendo gli altri di dignità e
questo è un tratto peculiare della consulenza filosofica che la contraddistingue dalla
psicoterapia).

nostro interesse, è importante notare la metafora che Wittgenstein stesso utilizza. Egli infatti parla di
indicare alla mosca (intelletto) la via d'uscita della trappola nella quale si è posta da sé ponendo male
la questione. Questo carattere che indiscutibilmente contraddistingue la filosofia è importante anche
rispetto al nostro tema in quanto la consulenza filosofica è spesso stata vista come una diversa
modalità di rapportarsi al problema. Come afferma Pedra Von Morstein : il consulente filosofico «non
è necessariamente chiamato a rendere migliori le cose o ad aiutare ad eliminare i problemi, ma
piuttosto a renderli comprensibili nella loro complessità, così che l'altro possa vivere con essi,
piuttosto che contro o a dispetto di essi». Vd. M. Montanari (a cura di), La consulenza filosofica:
terapia o formazione?, Orecchio di Van Gogh, Ancona 2006, p.27.
27 A tal proposito è interessante quanto riporta Cervari in Strategie indecidibili riguardo a Veronica,
malata di depressione che, dopo il fallimento della psicoterapia si è rivolta alla consulenza filosofica.
Ciò sottolinea inoltre l'aspetto di problem solving caratteristico, già secondo Achenbach, della
consulenza che trova oggi d'accordo molti consulenti tra cui appunto anche Montanari e Cervari.
28 N. Pollastri, Un estraneo in famiglia, cit., p. 9.
29 Ivi, p.10
30 R. Lahav, Comprendere la vita, Apogeo, Milano 2004, p. 9.
15
Il rapporto tra consulente e consultante è paritetico. Questa pariteticità non comporta
però un livellamento sul piano tecnico. Essa riguarda solo la dignità di esseri
raziocinanti. Non solo infatti la visione del consultante viene posta in discussione ma
anche quella del consulente. Il consulente non deve imporre il proprio punto di vista al
consultante imponendogli un'identità dall'esterno. Non deve esserci indottrinamento.
Non si tratta quindi, di sostituire una visione del mondo scorretta con una corretta ma
piuttosto occorre passare da una visione del mondo conflittuale e problematica ad una
capace di farci vivere in armonia con noi stessi. L'approccio psicoanalitico tende ad
incentrare la propria interpretazione sul punto di vista del soggetto «come se questi
fosse una monade psichica astratta dal mondo che abita e che lo abita»31e a sottostimare
la natura sociale della sua umanità. Se quindi, la psicologia analitica risulta essere più
interessata al mondo interno dell'individuo rispetto alla sua relazione con il mondo
esterno, la consulenza filosofica, al contrario, parte dal presupposto che per
comprendere se stessi è necessario far riferimento al proprio modo di relazionarsi con il
mondo.

Una consulenza filosofica che tenesse fermo lo schema procedurale della


psicoanalisi, limitandosi a sostituire chiavi di lettura filosofiche a interpretazioni
psicoanalitiche, mancherebbe il bersaglio. Ma questo lo devono comprendere
innanzitutto gli psicoterapeuti che continuano a considerare l'approccio
consulenzial-filosofico come una semplice variante del loro modello mentre si tratta,
a tutti gli effetti di tutt'altra cosa32.

Attraverso la creazione di un setting intersoggettivo e anaffettivo, la consulenza


filosofica non impone quindi particolari visioni o addirittura metodi al consultante (a tal
proposito Cervari parla di “chiusura epistemologica” in quanto l'esercizio filosofico,
riprendendo Achenbach, è anche “meta-teoria praticante” ovvero un esercizio radicale
che può mettere in discussione anche i suoi presupposti epistemologici), a differenza di
quanto avviene nella psicoterapia. In quest'ultima, il terapeuta dirige il gioco, sa quali
sono gli obiettivi da raggiungere e come raggiungerli. Per questo le attività che propone
assumono a volte la forma di prescrizioni a cui il paziente sottostà spesso senza
31 M. Montanari, Jung precursore della consulenza filosofica? Visioni del mondo a confronto, in G.
Giacometti, Sofia e psiche, cit., p. 53.
32 Ivi, pp. 56-57.
16
comprendere. Nella consulenza filosofica invece il consulente aiuta (questa dimensione
di aiuto della consulenza filosofica viene negata da alcuni autori) il consultante a trovare
la propria strada per diventare ciò che è33.
In realtà sostenere il cliente al fine di fargli trovare in se stesso la forza per una
ristrutturazione interna non è caratteristica esclusiva della consulenza filosofica. Già la
psicologia umanistica (fondata nel 1962 negli USA da un gruppo di psicologi sotto la
guida di Abraham Maslow) lo prevedeva. Carl Rogers, uno dei massimi esponenti di
tale disciplina insieme a Maslow stesso e Rollo May, era un convinto sostenitore di ciò e
su questa base rifiutava la diagnosi a inizio terapia (rifiuto non condiviso da May).
Rogers parla infatti di “tendenza attualizzante” intendendo con questa espressione la
capacità che l'individuo ha in sé, almeno a livello latente, di comprendere se stesso e
conseguentemente di risolvere da solo i propri problemi a condizione che abbia intorno
a sé relazioni umane positive, non minacciose e in generale favorevoli a una
rivalutazione dell'io. Lo sviluppo umano andrebbe quindi nel senso dell'autonomia e
responsabilità. Il fine della terapia è il cambiamento, ovvero la trasformazione del modo
in cui il soggetto si vede. Pensare ciò presuppone ritenere l'uomo libero e padrone della
propria esistenza, capace di dirigerla verso una determinata direzione. La psicologia
umanistica opera quindi per riportare il campo dei valori all'esperienza del singolo in
quanto nella società contemporanea, l'individuo si affida più ai valori che gli
provengono dall'esterno rispetto a quelli suoi personali34.
Facendo riferimento a Giacometti35, si può concludere che la differenza
fondamentale tra la consulenza filosofica e la psicoterapia risieda nelle aspettative del
consulente che investono tanto la sua interpretazione (che “depsicanalizza e
dediagnosticizza” per usare un espressione usata da Scholmit Schuster nella
conversazione con Massimo Taormina avvenuta durante il seminario di studi
organizzato nell'anno 2003 presso l'Istituto freudiano a Rimini) tanto la sua
intenzionalità. La consulenza filosofica funziona quindi perché in primo luogo permette
di vivere un'autentica esperienza intersoggetiva; in secondo luogo, consente a chiunque

33 Questo sarebbe il vero fine della consulenza filosofica (e della filosofia) secondo autori quali
Montanari e Galimberti.
34 S. Zampieri, Una certa somiglianza di famiglia. Consulenza filosofica e psicologia umanistica, in G.
Giacometti (a cura di), Sofia e psiche, cit., pp. 113-140.
35 G. Giacometti, Il discorso dell'Altro. Consulenza filosofica e psicoanalisi lacaniana , in G.
Giacometti (a cura di), Sofia e psiche, cit., pp. 81- 112.
17
vi si sottoponga di esplorare la propria visione del mondo in modo lucido e distaccato,
arricchendo quindi la propria personalità.

LA CONSULENZA FILOSOFICA IN AMBITO TERAPEUTICO

Veniamo ora ad occuparci del ruolo che la consulenza filosofica può ricoprire in
contesti specificamente di cura: ospedali, centri di salute mentale e di recupero per
tossicodipendenti sono lo sfondo in cui si collocano le esperienze di pratica filosofica
che terremo in considerazione.
In questi ambiti si pone con maggior forza la domanda "la filosofia può curare?";
siamo ben consapevoli di non poter rispondere senza prima aver ripreso i chiarimenti
preliminari sulle sfumature del termine cura e soprattutto senza aver delineato con
precisione cosa può curare la filosofia.
Cura si può intendere in accezione positiva, in quanto premura, devozione ma anche
in senso negativo quale cruccio, pena, preoccupazione. Sarà bene tenere in mente questa
distinzione quando vedremo che la filosofia al contrario di offrire una risposta pronta e
preconfezionata spesso porta il soggetto ad una più profonda immersione nel problema e
molte volte addirittura ad una sua complicazione.
Sulla cura abbiamo ancora da dire che essa è parte ontologicamente costitutiva
dell'uomo, infatti è peculiare delle due relazioni di fondo per la vita umana: quella col
Sé e quella con l'Altro.

Terapia, cura di sé e cura dell'altro

Cosa significa prendersi cura? Tralasciando i significati più generici soffermiamoci


su cosa vuol dire prendersi cura di soggetti come i nostri che vivono situazioni mediche
e riflettiamo se la consulenza filosofica può in qualche modo essere terapeutica.
Specificando la differenza di approccio con i metodi psy, autori come Neri Pollastri,
ma anche Rovatti reclamano con forza che la pratica filosofica deve essere un ostacolo
alla medicalizzazione della società e dei soggetti. Da questo punto di vista la consulenza
filosofica non è terapia in quanto non si verrebbe ad inserire nello schema
18
paradigmatico di crisi-cura-guarigione, non si tratta di un intervento tecnico che mira a
soddisfare delle richieste.
Un'altra dichiarazione che ci fa dubitare sull'utilità della consulenza filosofica in
ambiti sanitari è quella che chi si rivolge al consulente filosofico non è malato e che
anzi la filosofia rinnega la cultura medicalizzata e cerca di smascherarla. La cultura
terapeutica infatti presupporrebbe l'idea di un Homo psicologicus malato36, ovvero un
soggetto psicologicamente tanto fragile da non riuscire più a governare se stesso.
Sintomi di questa malattia collettiva sono sentimenti di inadeguatezza personale che
impediscono al soggetto di sostenere il peso di sé e dell'altro, portandolo esattamente al
di fuori dalla dimensione cura che gli è propria dal punto di vista ontologico, come
abbiamo visto poco prima. Di stampo foucoltiano è la proposta che la cura di sé in
questo caso sia proprio un atto di liberazione da questo contesto che rende
volontariamente i soggetti malati, per inserirli in un gioco di poteri.
Ritorniamo al dunque: la consulenza filosofica presuppone uno scardinamento di
questo paradigma terapeutico, fatto di diagnosi e guarigione. La cura che propone la
consulenza filosofica viene a configurarsi come un esercizio filosofico riguardante
l'esistenza nel suo complesso. Quale sarebbe dunque la specificità di un intervento di
consulenza filosofica in un contesto terapeutico? Proprio quella di tralasciare l'aspetto
patologico per riportare l'attenzione sull'apertura del pensiero.
A differenza della psicoterapia la filosofia si occupa dei mali dell'esistenza, e nel
nostro caso dei mali che derivano dalla condizione esistenziale determinata dalla
malattia, per questa regione non implica una medicalizzazione del soggetto.
Come abbiamo già visto, therapeia significa "servizio", "trattamento". Dal punto di
vista medico la terapia si somministra in caso di malattia, condizione che si accerta oggi
tramite strumentazione tecnica. Nella diagnosi non si tiene conto dell'ulteriore
dimensione coinvolta oltre quella biologica, quella esistenziale, l'uomo che soffre oltre
che a livello fisico anche a livello di un'impossibilità comunicativa e di interazione col
mondo esterno. La malattia comporta una sorta di disagio nel rapporto col mondo e un
calo di vitalità. Il malato non può agire con il mondo e diventa quindi egli stesso il
centro del mondo sia per se stesso che per i suoi cari che formano una sorta di cintura di

36 P.A. Rovatti, La filosofia può curare?, cit, p. 20.


19
protezione. Questo stato in cui il malato si cala è definito “stato di Geborgenheit37” e da
ciò possiamo cogliere alcuni aspetti filosofici, come la domanda sul senso del suo essere
nel mondo. In questo stato talvolta le parole delle persone vicine possono dare più
conforto dei farmaci.
In tempi passati , compito di prendersi cura delle anime era demandato ad istituzioni
religiose, guide spirituali in grado di instaurare una sorta di equilibrio tra il nostro
mondo interno e quello esterno. La consulenza filosofica può venir letta come una
forma laicizzata di questo consilium, in una tradizione completamente diversa
ovviamente.
Il concetto di Cura Sui consiste nella cura di sé e dei rapporti con sé e con l'altro;
qualche altro essere ci chiama e richiede le nostre attenzioni. Quando si parla di cura di
Sè si parla dell'esigenza di auto-coltivare l'essere, al dovere che abbiamo di prenderci
cura della nostra persona da più punti di vista: della sua crescita e della realizzazione
delle nostre potenzialità in quanto esseri umani. Il problema della cura di sé fa parte
della costituzione ontologica dell'uomo: egli è essere che soffre, conosce la morte, si
sente smarrito essere che problematizza il suo rapporto con il mondo, ma anche essere
capace di superare se stesso, di andare oltre. Il mondo trova nell'uomo l'organo della
propria autocoscienza38, nonostante ciò è partecipe in minima parte della sua infinitezza.
A causa di ciò il sentimento che sopraggiunge alla presa di coscienza che la sua vita è
effimera non può che essere quello dell'angoscia. Da qui l'uomo sente il bisogno di dare
un senso alla vita. Attraverso la vita teoretica l'uomo torna ad essere parte dell'essere.
Il problema della filosofia non è quello della salvezza dell'anima, più tipicamente
teologico, piuttosto quello dell'integrità umana, che si da solamente quando l'esistenza
non viene subita ma vissuta a pieno e con consapevolezza, una vita nella quale l'uomo
ritrova il proprio sè e lo faccia coincidere con la condotta della sua vita. Per far ciò è
necessaria una sorta di armonia tra le varie componenti dell'Sé, unità vivente formato da
corpo, impulsi ma anche di ragione e sentimenti; e del Sé con gli altri, è quindi
auspicabile un perfetto equilibrio tra bios, pshyche e nuos (vivere, sentire, pensare), che
si rifletta esternamente anche sulla società. Nella malattia questo equilibrio viene
spezzato, il paziente si trova di fronte all'apertura di uno spazio tra Sé e il suo vivere,
37 A.G. Balistreri, Prendersi cura di se stessi. Filosofia come terapeutica della condizione umana,
Apogeo, Milano 2006, p.23.
38 Ivi, p 41.
20
che prende una direzione diversa da quella voluta. Questo provoca una di male di
vivere, difficilmente sopportabile.
A determinare la funzione che la consulenza filosofica può avere in contesti
terapeutici entra in gioco il concetto di buona vita, differente da quello di
sopravvivenza, se la tecnica (in questo caso la medicina) serve a farci sopravvivere, ad
allungare i nostri giorni, la filosofia serve a farci vivere: inteso come ciò che può dare
senso alla nostra sopravvivenza. Sopravvivere è legato alla sfera dell'animalità, per
quanto raffinata e progredita, la dimensione dell'esistenza racchiude in sé un proprio
senso, che va svelato.
Esperienze come quella di Sacco alla guida di un gruppo di dialogo filosoficamente
orientato, per pazienti psicotici al dipartimento di salute mentale dell'ospedale di
Novara, ci fanno capire direttamente che chi ha bisogno dell'intervento di un consulente
filosofico sono coloro la cui sofferenza, pur essendo relegata ad una forma di pazzia
non sono soggetti a patologie. Un Dipartimento di Salute Mentale, aiuta solo in minima
parte pazienti che accusano problemi psichiatrici, si rivolgono per lo più a "cuori
spezzati". L'obiettivo specifico è quello di imparare a pensare per riappropriarsi di
quello spazio che sembra perduto, del dislivello tra se stessi e il corso della loro vita. In
questo modo coloro che hanno imparato a vedersi come pazienti si riscoprono agenti in
un contesto che offre loro la possibilità di un confronto e che soprattutto non li releghi
alla loro condizione patologica, molto brevemente la loro condizione di persone
psicotiche viene momentaneamente sospesa. Significativo è ciò che viene espresso dal
paziente Michele: si sente inaridito, le opinioni che lui si fa in solitudine molto spesso
gli sembrano sterili39. Sacco intitola la sua consulenza “Idia Phronesis, Xynos Logos” :
malato è il singolo idion che deve riprendere a partecipare al discorso che accomuna,
che riguarda tutti, di ciò che è condiviso. Comune è la ricerca del senso mentre l' esame
critico più possibile autonomo.
Si tratta in tutto e per tutto di un filosofare al di fuori dell'Accademia, un confronto
critico che parte da esperienze diverse ma che viene guidato. Si diventa Agenti
partecipando al dibattito regolato logicamente e linguisticamente. Prerogativa del
dialogo filosofico è quella di essere dialogo non terapeutico perché non si basa
39 A. Sacco, Idia Phronesis, Xynos logos, Il "gruppo di dialogo filosoficamente orientato" per i pazienti
psicotici del Dipartimento di Salute Mentale di Novara, in Galimberti, Perissinotto, Rossi, Tra il dire
e il fare, Mimesis, Milano 2011, p.52.
21
sull'esposizione dell'idion, ovvero del proprio dolore privato ma sposta l'attenzione sul
Koinon: discorso comune, che apre all'ascolto, alla condivisione in questo modo è
possibile rompere il cerchio di solitudine che si crea attorno al malato.
Gli psichiatri riscontrano richieste d'aiuto improprie, ovvero richieste che
provengono da soggetti non patologici. V'è difficoltà nell'attuale società medicalizzata a
distinguere tra un comportamento immorale, autolesionistico o non sociale e un
comportamento "patologico"40. Il medico della psiche ha il dovere di curare il disagio, il
turbamento, dell'anima, laddove si creda che esso sia una malattia.
Soffermiamoci ora sulla funzione che ha il dialogo nella consulenza filosofica.
Possiamo affermare che esso è lo strumento per eccellenza della consulenza e della
filosofia in generale. Abbiamo già detto che il compito del consulente è quello di fornire
lo spazio del dialogo e dell'ascolto, in questo modo la filosofia si prende cura e
producendo un linguaggio universale viene a ridurre l'angoscia.
Dal punto di vista esistenziale, l'uomo è sempre insoddisfatto di ciò che è: si
tormenta perché non è come vorrebbe essere, né come dovrebbe essere. L'angoscia è
una delle esperienze ontologiche che caratterizzano l'essere umano, quella
fondamentale. L'uomo prova angoscia perché riesce ad anticiparsi la sua morte, essa è
possibilità del nulla. L'uomo vuole sempre spingersi oltre, ciò che lo annienta è la noia.
L'uomo non è in pace neppure in Paradiso se la pace è uniformità. Mosso dal desiderio
l'uomo finisce pero' intrappolato nel groviglio delle sue aspirazioni.
Bisogna mantenere integro l'animo in tutte le circostanze della vita, curare le nostre
stesse reazioni ai mali, che sono inevitabili, in breve: reggere il peso della vita.
I mali dell'anima, secondo Platone, si curano con i discorsi che sono in grado di
sostituire alle passioni il logos, a patto che l'anima sia pronta per accogliere il discorso.

Paura della morte e paura del dolore: male di vivere

"La terapia filosofica dei mali dell'anima consiste nel curare le nostre
rappresentazioni dei beni e dei mali, per evitare che l'anima stessa si ammali, pensando
di sfuggire a mali che invece non sono tali". Da questo possiamo capire come il punto
principale della cura filosofica sia offrire un'interpretazione nuova di ciò che a primo
40 Ivi p.40
22
acchito viene considerato un male. I problemi principali che vengono affrontati sono
quelli legati alla morte e al dolore. La filosofia deve cercare di offrire una nuova
collocazione alla morte e al dolore nella vita del soggetto, il fine della cura filosofica è
mostrare l'inevitabilità della morte e del dolore in quanto componenti imprescindibili
della vita.
L'uomo è consapevole che la morte e il dolore sono elementi inevitabili della vita,
ma nonostante questo “cerchiamo soltanto di rimuoverne il pensiero o di sminuirne
l'importanza relegandolo a mero dato biologico”41, negandole l'importanza che le
appartiene in quanto oggetto di riflessione legato all'esistenza del soggetto. Riflettendo
sulla morte si riflette di conseguenza sulla vita, in quanto il pensiero della morte
permette di mettere in risalto il modo in cui consideriamo giusto vivere. Le esperienze
legate al problema della morte e del dolore sono “esperienze certo dolorose, ma pure
feconde, perché capaci di risvegliare l'amore per la vita che magari si era assopito” 42. È
in questa prospettiva che il filosofo cerca di far entrare l'individuo che soffre per il
proprio rapporto con l'idea della morte o il dolore: possiamo notare quindi come il
filosofo non cerca una soluzione al problema ma piuttosto invita l'individuo a prendere
coscienza fino in fondo della problematicità del tema preso in esame e a non fuggire di
fronte ad esso, dopodiché tale consapevolezza permetterà un'apertura alla vita che
permetterà il raggiungimento di una situazione di serenità. Ciò che la filosofia si
propone di fare è quindi destabilizzare il soggetto nel momento in cui le sue credenze
non mostrano più di essere efficaci e dopodiché creare un nuovo rapporto tra il soggetto
e la verità che determina il cambiamento di sé43.
Un primo passo per far ciò può essere quello della narrazione del dolore nella fase
terminale della vita, di cui ci informa la consulente Ilaria Pellanda. Attraverso un
dialogo libero e senza schematismi si ricerca di fare apprendere delle di applicare un
lavoro razionale al discorso del consultante. Il consultante non viene sottoposto a
distinzioni categoriali quali: sano-malato; normale-anormale; per far ciò il consulente si
pone sul suo stesso piano; al contrario di quanto avviene nella relazione terapeutica.
Così si ottiene un'oggettivazione dell'io del consultante44. La consulenza filosofica non
41 M. Montanari, La filosofia come cura, Mursia, Milano 2012, p. 113.
42 Ivi, p. 117.
43 C. Piazzesi, La verità come trasformazione di sé, ETS, Pisa 2009.
44 I.Pellanda, Consulenza Filosofica e cure palliative: la narrazione del dolore, in Tra il dire e il fare,
p.198
23
viene incontro al bisogno, piuttosto aiuta a mettere in discussione le verità imposte.
Per Pellanda bisogna mettere in atto un metodo comprensivo, in cui è presente una
componente empatica all'interno del rapporto col paziente. Di seguito riportiamo alcuni
temi trattati durante le sedute di consulenza in Hospice:
•consapevolezza della morte-Nulla
•congedo dalle persone care
•aiuto a vivere gli ultimi giorni in modo cosciente
•confermare il valore del malato terminale come persona
•aiuto nella salvaguardia dei propri diritti e doveri
il lavoro fatto con i famigliari riguardava invece
•tema della perdita
•il senso di colpa
•insofferenza verso i medici

Bioetica clinica e consulenza filosofica

In che modo quindi la filosofia può intervenire negli ambienti e nelle problematiche
legate alla cura e quindi alla medicina e alla psicoterapia? Una prospettiva di intervento
filosofico in campo medico è offerta da Paolo Cattorini nel testo Bioetica clinica e
consulenza filosofica45. “La bioetica clinica è quella parte della bioetica dedicata ai
problemi che sorgono 'al letto del malato'” e “il bioeticista clinico è […] un consulente
filosofico, poiché aiuta operatori individuali, staff di reparto, o istituzioni sanitarie ad
approfondire dilemmi morali che incontrano e ad elaborarne, per quanto possibile, una
soluzione convincente”46. Da questa definizione offerta da Cattorini, possiamo dedurre
che il compito del filosofo che si occupa di bioetica clinica è simile a quello del
consulente filosofico anche se differisce da questo per alcuni aspetti. Innanzi tutto il
consulente filosofico che offre consulenze individuali si occupa di qualunque tema gli
venga proposto dal consultante, mentre il bioeticista clinico si occupa della cura e dei
problemi ad essa collegati, come il problema della morte, del dolore, della dignità della

45 P. Cattorini, Bioetica clinica e consulenza filosofica, Apogeo, Milano 2008.


46 Ivi, p. 7.
24
vita, e degli ambienti in cui essa viene effettuata. Un'altra distinzione che possiamo fare
riguarda il modo in cui le due pratiche filosofiche vengono svolte: la consulenza
filosofica individuale è effettuata dal consulente che lavora singolarmente con il
consultante, mentre il bioeticista clinico in alcune occasioni si trova a collaborare con
altre figure professionali come per esempio medici e avvocati.
Un caso in cui il bioeticista clinico collabora con un'altra figura professionale può
essere il dialogo che si può venire a creare con un medico circa la definizione di concetti
utilizzati comunemente da lui, come la nozione di malattia, oppure il dialogo circa
problemi come l'aborto o l'eutanasia in cui il filosofo non ha competenze tecniche per
definire dal punto di vista biologico la nozione di morte o vita, e il medico tende a
semplificare tali concetti a meri processi biologici senza considerare le implicazioni a
livello esistenziale sul soggetto.
Un'altra figura professionale con cui il bioeticista clinico può confrontarsi è quella
dell'avvocato, come esemplifica Cattorini ne “Il caso dell'avvocato LoCodice” 47, in cui il
bioeticista clinico si trova a svolgere il ruolo di testimone mettendo a disposizione della
corte giuridica le proprie competenze filosofiche per individuare due diverse
applicazioni della chirurgia, ovvero con finalità mediche oppure culturali.
Negli esempi riportati il bioeticista clinico ha assunto un ruolo diverso da quello del
consulente filosofico individuale in quanto nel primo caso c'è stato uno scambio
paritetico di informazioni professionali per accrescere il proprio sapere, è quindi il
bioeticista clinico ad aver nello stesso tempo richiesto e dato una consulenza; nel
secondo esempio invece il bioeticista clinico ha messo le proprie competenze al servizio
dell'avvocato per raggiungere un fine che non era quello di aiutare l'avvocato a chiarire
propri problemi esistenziali e portarlo a una situazione di serenità, ma quello di fornire
una chiarificazione di senso per poter giudicare legalmente un imputato. Un esempio
invece in cui il bioeticista clinico pratica la sua professione secondo modalità simili a
quelle della consulenza filosofica individuale, è quello che Cattorini nomina “Il caso di
Milena”48. Questo esempio racconta di un caso in cui un consultante si reca dal
bioeticista clinico per essere aiutato a comprendere la propria posizione filosofica circa
il problema dell'eutanasia e dell'accanimento terapeutico. In questo caso quindi il

47 Ivi, p. 55.
48 Ivi, p. 15.
25
compito del bioeticista clinico è quello di aiutare il consultante nella definizione di una
propria posizione filosofica circa problemi legati alla bioetica per raggiungere una
situazione di serenità.
Infine, Cattorini presenta un caso ipotetico in cui il bioeticista clinico, in veste di
consulente filosofico individuale, può curare un individuo che, oltre a problemi
psicologici, mostra problemi a livello esistenziale determinati da una visione della vita e
dell'etica che lo hanno portato a svalutare la propria persona e a punirsi. Il caso in
questione è “Il caso del Signor Sergio”49, soggetto con disturbi bipolari che tende a
colpevolizzarsi e a incanalare verso se la rabbia che prova nei confronti del mondo. Il
bioeticista clinico ritiene che la propria competenza possa essere utile al soggetto in
questione, in quanto oltre alla psicoterapia è necessaria una cura che non sia “volta a
minimizzare, a lenire, a dimenticare”50, ovvero una consulenza filosofica volta all'analisi
dei nodi esistenziali presenti nel soggetto e ad una loro chiarificazione ed accettazione.
I problemi legati alla pratica filosofica negli ambiti della cura sono simili alle
problematiche generali legate alla consulenza filosofica individuale, ovvero il rischo
dell'indottrinamento, ma anche la capacità del bioeticista clinico di riconoscere i confini
della propria disciplina e lasciare il campo, quando necessario, ad altri specialisti, come
per esempio nel caso di una consulenza filosofica con un paziente che presenta anche
problemi psicologici, oppure nella relazione con medici dei quali è indispensabile
riconoscere l'autorità in merito alla determinazione del tipo di cura biologica da adottare
nei confronti di un paziente.

Una triplice strategia d'azione

Prendiamo adesso in considerazione un'esperienza diretta di consulenza filosofica,


quella della consulente Daria Dibitonto presso il Centro di Salute Mentale di Chieri.
Nell'esaminare il suo percorso, Dibitonto individua tre nuclei d'azione possibile: il
primo è il lavoro diretto con i pazienti, il secondo è quello con gli operatori sanitari, il
terzo invece riguarda la presenza del consulente filosofico all'interno della struttura
sanitaria. L'istituzione infatti apre lo spazio sia per l'uso che per l'abuso del potere

49 Ivi, p. 97.
50 Ivi, p. 100.
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medico: l'allineamento delle istituzioni al modello imprenditoriale delle Aziende
Sanitarie: ha causato vari problemi: dai troppi malati per un solo medico, alla
medicalizzazione dei disturbi dell'anima, scarsa attenzione per il lavoro degli operatori e
delle necessità del malato. Dato cio' la presenza di un consulente all'interno della
struttura puo' rivelarsi un utilissimo strumento volto ad individuare criticità e
problematiche che vengono da più di una figura.
La pratica filosofica si traduce in uno spazio concreto in cui il filosofo si prende la
responsabilità di prendersi cura dei diversi ordini che i discorsi umani producono 51, in
questo caso dei discorsi di paziente, medico ed operatore. Si tratta di instaurare una
Politica della soggettività in uno spazio medicalizzato, di Cura l'essere dell'esser-ci in
senso Heideggeriano , inteso come carattere esistenziale del rapporto che l'uomo ha col
mondo in cui è gettato52. La scelta metodologica della consulente è ovviamente quella
del dialogo. Rilevante la presenza dello psicologo del reparto psichiatrico, vera e propria
guida del gruppo nel quale la consulente aveva modo di inserirsi opportunamente,
l'obiettivo era quello di far esternare ai consultanti la propria visione del mondo e a
farne prendere coscienza.
La consulenza si è svolta attraverso colloqui con i pazienti-consultanti, incontri di
gruppo talvolta affiancati da colloqui individuali richiesti, come nel caso di Sara. Il
delirio psicotico della ragazza ha preso subito piede nel dialogo, ma la consulente riesce
a sedarlo grazie al consulto preliminare con lo psichiatra.
•Primo incontro: ascolto delle idee persecutorie della consultante;
•Secondo incontro: Sara è più concentrata a esporre il suo bisogno di parlare delle sue
paure riguardanti alcuni aspetti della sua terapia e del suo rapporto con la struttura;
•Terzo incontro: attenzione si sposta sulla riflessione sull'esistenza e sul rapporto di
fiducia.
La serie di incontri si interrompe a causa dell'esaurimento del numero di ore di
tirocinio, tuttavia la consulente ne traccia un resoconto molto positivo
Ulteriore aspetto del tirocinio consiste nel lavoro con gli operatori sanitari.
Dibitonto ha ricreato una community of inquiry: comunità di ricerca condivisa basata
sul reciproco riconoscimento dei vari contributi. Oggetto della ricerca: il dolore, più
51 D. Dibitonto, Un'esperienza filosofica con la follia. Pratica filosofica condotta presso il Centro di
Salute Mentale di Chieri, in Tra il dire e il fare, p. 64.
52 Ivi p. 64.
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individuale esperienza umana, è una sfida al senso dell'esistenza in se. Principale
obiettivo è stata la lotta al fenomeno burn-out53, attraverso la costruzione di uno spazio
di libertà e di presa di coscienza dei meccanismi in cui gli operatori sono
quotidianamente calati. Ci si rende conto della diversa concezione del dolore, di come
essa cambia nel corso del tempo a allo stesso tempo di quanto alcune esperienze
possano rivelarsi sempre attuali. Lo scambio di opinioni e l'ascolto sono stati
fondamentali anche per capire il punto di vista e le emozioni dei colleghi, molto spesso
fraintesi.

53 Burn-out syndrome: risposta individuale a una situazione lavorativa percepita come stressante, nella
quale l'individuo non dispone di risorse e strategie adeguate a fronteggiarle. Letteralmente sindrome
dell'essere bruciati, esauriti.
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