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INTRODUZIONE
Fin dalla sua nascita, la filosofia, ha avuto un ruolo centrale all’interno della società.
Tuttavia con lo sviluppo della “società della tecnica” il ruolo assunto dalla filosofia, e
conseguentemente, dal filosofo è diventato sempre più marginale, fin quasi a sparire
completamente, se si esclude l’ambito accademico, dove, tuttavia, la filosofia ha perso
ogni briciola di essenza vitalistica ed emancipatoria, per divenire, quasi interamente,
uno studio della storia della filosofia.
“Il filosofo non è un medico; il suo lavoro non è curare gli individui ma comprendere
il mondo nel quale vivono […]; un tale chiarimento può ben soddisfare un compito
terapeutico, e se la filosofia diventasse terapeutica, sarebbe giunta veramente a se
stessa!”1. Questa citazione appare nella prima parte dell’opera di Luca Nave e
Maddalena Bisollo2. Ovviamente Marcuse era totalmente estraneo al dibattito, attuale,
sulle pratiche filosofiche, tuttavia la sua frase, estrapolata da un contesto molto più
ampio e variegato rispetto a quello che andremo noi ad affrontare, ben sintetizza un
atteggiamento molto diffuso nella filosofia, fin dai suoi albori: il concetto di filosofia
1 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione: l’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi,
Torino 1967, p. 206.
2 L. Nave e M. Bisollo, Filosofia del benessere la cura dei pensieri e delle emozioni, Mimesis Edizioni,
Milano 2010.
1
intesa come disciplina dall’aspetto terapeutico.
Ovviamente la filosofia non pretende di curare le malattie, non prescrive farmaci o
miracolosi unguenti, ma cerca di creare le condizioni affinché il singolo abbia cura di
sé, ovvero rifletta sulla propria esistenza, decidendo autonomamente cosa vuole essere.
Al contrario della medicina, la filosofia non agisce solo in contesti di malattia, ma
combatte decisamente questo aspetto, a volte infatti, il termine malattia viene
ampiamente abusato. Soprattutto per quanto riguarda tutti gli aspetti che riguardano il
mondo psy. Tuttavia, è bene precisare, nessuno intende negare l’importanza dei farmaci
nella cura della salute e delle forme di disagio mentale quanto piuttosto evidenziare
come possano esistere molte altre forme di disagio, che potremmo definire in maniera
generica, e semplicistica forse, esistenziale che se vengono trattate come patologie
cliniche o psicologiche non verranno mai curate o superate, perché esse sono in realtà
problemi filosofici. La consulenza filosofica vuole proprio inserirsi in questo angusto
spazio che lo spettro delle scienze e della psicologia non riesce ad includere nel suo
campo di ricerca. Tuttavia la consulenza filosofica, proprio perché priva di quei caratteri
di “scientificità” che da Galileo in avanti segnano il passo per ogni ricerca , si pensi alle
“matematiche esperienze e sensate dimostrazioni”, è spesso inquadrata, all’interno della
comunità scientifica e soprattutto dalla psicologia, con la quale spesso la consulenza
filosofica è entrata in competizione, quasi come fosse un rimedio new age o una qualche
forma di animismo orientaleggiante. Noi riteniamo, invece, che sia proprio questa
caratteristica, l’a-scientificità, a poter essere la forza ed il valore di questa pratica.
“ La Cura, mentre attraversava un fiume, scorse del fango argilloso, lo prese pensosa
e cominciò a modellare un uomo. Mentre considerava tra sé e sé che cosa avesse fatto,
sopraggiunse Giove; la Cura lo pregò di infondere lo spirito nell’uomo; Giove
acconsentì volentieri. Ma siccome la Cura pretendeva di dargli il proprio nome, Giove
glielo proibì e disse che invece bisognava dargli il suo. Mentre la Cura e Giove
disputavano sul nome, si fece avanti anche la Terra, e sosteneva che bisognava imporgli
il suo nome, dal momento che essa aveva fornito il proprio corpo per plasmarlo. Allora
2
presero come giudice Saturno, il quale comunicò ai contendenti tale giusta decisione: ‘
Tu, Giove, poiché infondesti lo spirito dopo la morte dell’uomo riceverai la sua anima;
tu, Terra, dato che fornisti la materia, riprenderai il suo corpo; ma poiché fu la Cura che
lo ha modellato per prima, lo possieda per tutta la vita. Per quanto concerne la
controversia sul nome, sia chiamato Homo, perché fu creato dall’humus.”3
Questo mito, narrato nel I secolo d.C. da Igino, poeta latino, è stata ripreso da molti
filosofi tra cui Herder ed Heidegger. Il mito appena citato evidenzia, a nostro parere
molto bene, come fosse considerata la cura nella classicità. È evidente, infatti, come la
cura fosse l’aspetto fondamentale per la vita dell’uomo e come il suo compito fosse
quello di occuparsi, nello stesso modo, del corpo e dello spirito dell’uomo. La salute
degli esseri umani era vista, infatti, dalle popolazioni della Grecia, strettamente
connessa all’equilibrio degli elementi interni ed esterni. L’evento come la malattia
veniva contestualizzato non soltanto come evento meramente biologico, ma inserito in
un contesto psicologico e sociale. Non bisogna leggere questo atteggiamento
semplicemente come una qualche forma di arcaismo, o di superstizione pre-scientifica,
infatti anche se forse in maniera non ancora compiuta o meglio, consapevole, si
collegava la malattia ad un disagio esistenziale. Alle origini della cultura occidentale
nasceva “l’antica alleanza tra filosofia e medicina”.
Nasceva l’idea che era impensabile essere buoni medici, ovvero esercitare in maniera
razionale l’arte della cura nella quale consisteva la loro antica missione, senza essere anche
buoni filosofi4
l’idea di cura globale, che sta a fondamento del mito di Igino e che sarà fatta propria
dai medici e filosofi greci sottintende la visione dell’uomo quale composto di anima e
corpo […] mentre la nascita dell’idea di cura come terapia-trattamento di un corpo malato
in vista della guarigione non potrà che avere luogo in età moderna, allorquando la comunità
medica incontrerà la visione del mondo e della natura meccanicistica e deterministica
propria della scienza sperimentale, abbandonando l’antropologia e la cosmologia solistiche
e “fantasiose” degli antichi filosofi e medici.5
Bio-psico sociale
6 L. Nave e M. Bisollo, Filosofia del benessere la cura dei pensieri e delle emozioni, cit, p. 21.
7 F. Arrigoni e L. Nave, Come in cielo così in terra, cit, p. 62.
5
All’inizio del novecento, infatti, mentre la medicina scientifico-tecnico-sperimentale e
le psicologie-psicoterapie nate sul culto della scientificità celebravano i propri trionfali
successi, una serie di voci anomale sembravano proporre, pur con diversi termini e variabili,
la questione relativa alla natura del benessere reso possibile dal connubio scienza-tecnica8.
Quello che Nave sembra qui indicare come un paradosso, ovvero come si possa
parlare di crisi delle scienze malgrado i loro continui successi, ci viene spiegato dalle
parole di Husserl, che nella Crisi delle scienze europee sostiene che non sia la “rigorosa
scientificità tecnico sperimentale delle scienze” ad essere in crisi, i progressi tecnologici
troppo evidenti, e i successi in campo medico, impediscono un’analisi in questo senso,
ma è ciò “ che le scienze in generale hanno significato e possono significare per
l’esistenza umana” e continua più avanti Husserl “[…] nella miseria della nostra vita –
si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio
quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati,
si sente in balia del destino”9
L’idea contemporanea della possibilità, e necessità, di passare al paradigma “bio-
psico-sociale” per la cura della persona nasce proprio in questo contesto di crisi e dalla
conseguente instabilità del precedente paradigma meccanicistico-deterministico. Non
sarà un cambiamento che nascerà solamente al di fuori della scienza, basti pensare allo
sconvolgimento che hanno portato le teorie di Marx, Nietzsche e Freud nel pensiero
occidentale del secolo scorso, ma sarà anche all’interno della stessa comunità scientifica
con le teorie di Einstein sulla relatività e di Heisenberg sull’indeterminazione che
dimostrarono l’infondatezza della pretesa di indagare la realtà, e lo stesso essere umano,
basandosi solo sulle leggi della meccanica.
La ricerca di un senso
La profezia nietzscheana della morte di Dio e del nichilismo che reca con sé, sembra
essersi avverata, conducendo il mondo, l’occidente quantomeno, alla scomparsa
dell’ottimismo teologico, lasciando spazio ad una teleologia tecnico-scientifica, che
8 L. Nave e M. Bisollo, Filosofia del benessere la cura dei pensieri e delle emozioni, cit, p. 23.
9 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la filosofia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 2008, p.
33.
6
però, sembra, anch’essa aver tradito la sua missione. Il futuro come “promessa” è
mutato in futuro come “minaccia”. La cosa interessante è che è proprio il progresso, che
aveva assunto il ruolo di condurre al benessere globale l’intera umanità, quasi come se
la ricchezza, il possesso di beni, e la felicità, potessero fluire a profusione come una
cascata su tutti quanti, sembra ora rappresentare la catastrofe imminente, citando
Baumann “ Esso [il progresso n.d.r.] ora rappresenta la minaccia del cambiamento
inarrestabile e inevitabile, che non porta pace e sollievo, ma crisi e tensioni costanti,
senza neanche un attimo di pausa, in una sorta di gioco delle sedie in cui un attimo di
disattenzione si trasforma in sconfitta”10. Questa crisi porta all’evidenza che ci sono
aspetti, fondamentali, di cui le scienze, volutamente e per ragioni tecniche, non possono
occuparsi. Miguel Benasayag e Gèrard Schmit parlano della nostra età come “epoca
delle passioni tristi” dove il riferimento principale è, non tanto alla tristezza o al dolore,
quanto alla disgregazione ed alla mancanza di un senso che, a loro parere, fanno della
crisi attuale qualcosa di differente rispetto a tutto ciò che abbiamo affrontato in
precedenza. Permangono quindi aspetti che le scienze non riescono ad affrontare, ma
non solo, anche la psicologia sembra, spesso inadeguata ad affrontare questi temi,
avendo a lungo inseguito la precisione e la volontà di apparire come una scienza, si
pensi alla psicofisica di Wundt o la fondazione freudiana della psicanalisi sul modello
delle scienze di natura, ed usando quindi gli stessi modelli. (Un’analisi più approfondita
sul rapporto consulenza filosofica psicologia si avrà più avanti).
Diventa evidente quindi che esistano aspetti della realtà, sociale ma soprattutto
individuale, che non sono misurabili o calcolabili, e sono tutti aspetti che la scienza
tecnico-pratica, non solo non è in grado di comprendere, ma che non considera
nemmeno, semplicemente sembrano non esistere. È per questa ragione che sembra
essere necessario sostituire il dominante pensiero tecnico-calcolante con un pensiero
meditativo che analizzi tutti gli aspetti in-calcolabili.
Il pensiero calcolante induce alla fuga del pensiero, e dunque non pensa […] il calcolo,
assunto quale simbolo di questa razionalità tecnico-scientifico-strumentale […] non è
infatti un pensiero bensì piuttosto uno strumento[…] che punta all’esattezza anche laddove
la cartesiana “chiarezza e distinzione” non è affatto raggiungibile né auspicabile; è
Gli aspetti non misurabili sono quelli che appartengono a quello che Nave definisce
il “mondo della vita” o per esprimersi in termini heideggerriani dell’Esserci (Dasein),
che per lungo tempo è sembrato cedere il passo al “mondo della tecnica”, lo stesso
Heidegger dice:
È, allora, proprio il dominio della tecnica che deve essere scardinato, per tentare di
restituire un senso, non solo al mondo e alla realtà, ma all’individuo stesso che deve
poter abbandonare il terreno della tecnica che “non tende ad uno scopo, non promuove
un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica
funziona”
Probabilmente la filosofia, tramite anche la consulenza filosofica, può essere in grado
di restituire un orizzonte di senso all’individuo. La filosofia è infatti in grado di
restituire importanza al concetto di cura, che grazie anche al pensiero meditativo assume
una valenza che va ben oltre il paradigma classico, sottinteso anche nella psicologia di
malattia-diagnosi-trattamento, ma si pone l’obiettivo di “fornire un esercizio costante, e
costantemente critico, nel mondo della vita[…]nessun consulente possa in alcun modo
trattare il soggetto passivo che ha dinnanzi sventolando l’idea di un soggetto guarito o
guaribile[corsivo nostro]”13
È utile ancora sottolineare un aspetto, che la cura filosofica non è una terapia nel
senso che comunemente si attribuisce a questo termine: il trattamento tecnico di una
patologia volto alla sua guarigione, previa classificazione dei sintomi e dei disturbi, “la
pratica terapeutica della filosofia non tratta le persone, non dispone di teorie
diagnostiche e di tecniche prognostiche indirizzate alla classificazione, alla cura del
11 L. Nave e M. Bisollo, Filosofia del benessere la cura dei pensieri e delle emozioni, cit, p. 22.
12 M. Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1983, p. 36.
13 P. A. Rovatti, La filosofia può curare?, Cortina ed, Milano 2006, p. 39.
8
sintomo e alla guarigione dalla malattia” continua ancora la Bisollo “ una cura dunque
che non dispone di rimedi veloci, di teorie e di tecniche in pillole che possano
anestetizzare il nostro dolore”14
Potrebbe proprio essere questo aspetto, di incompiutezza e di emancipazione priva di
aspetti predeterminati, o per dirla con Baumann di liquidità, a rendere la filosofia adatta
alla cura.
LA CURA IN GALIMBERTI
Qui i Greci infatti hanno colto l’essenza del tragico, che non sta nel semplice morire
e soffrire delle singole esistenze, ma nella necessità della loro morte affinché si
generi la vita17 .
La crudeltà della morte e della sofferenza non sono quindi conseguenze di una colpa
commessa, ma aspetti essenziali e promotori della vita stessa. Infatti in natura la morte
non solo è condizione per la nascita di nuova vita, ma svolge anche un ruolo
fondamentale nella vita dell’uomo, gli ricorda di essere una determinazione finita della
natura e di essere dunque un mortale. La morte e la sofferenza sono aspetti della vita
che riportano costantemente l’uomo alla consapevolezza di non essere un dio e al
compito di ricercare la giusta misura. L’uomo è portato a dimenticarsi in fretta di essere
un ente finito, è infatti espressione della natura che, in quanto espressione infinita di
vita, lo porta a perdere la consapevolezza della propria fine. Secondo Galimberti,
l’unica vera colpa che i greci concepiscono per l’uomo è proprio questa; quella di essere
tentato da una vita senza fine che è peculiare della natura stessa. Il termine hybris,
tracotanza, esprime questa colpa, ovvero la pretesa di oltrepassare i limiti costitutivi
dell’uomo. Per questi motivi diventa fondamentale per i greci il concetto di giusta
misura. La presunzione dell’uomo di oltrepassare i suoi limiti è ben rappresentata del
mito di Prometeo: il titano che cerca di emancipare gli uomini rubando il fuoco agli dei.
16 Ivi, p. 18.
17 Ivi, p. 22.
10
Prometeo non è punito perché dona qualcosa di troppo prezioso all’uomo, ma viene
punito perché distoglie l’attenzione degli uomini dal loro limite che è la morte, facendo
credere all’uomo di poter superare la distinzione tra uomo e dio.
La tradizione giudaico-cristiana ponendo la morte come conseguenza di una colpa, e
non come aspetto ineluttabile dell’esistenza, perde il senso della giusta misura. In questo
modo è possibile una teorizzazione del desiderio infinito. Il greco infatti sa che la natura
è vita infinita e crudeltà allo stesso tempo, sa che il dolore e la sofferenza fanno parte
dell’esistenza, e li accetta in quanto consapevole di essere solo una parte finita della
natura. A questa moderazione dell’uomo greco si sostituisce il desiderio infinto del
cristianesimo che non si accontenta della vita terrena ma spera di ottenere la salvezza da
ogni sofferenza in Dio.
Alla moderazione greca che si accontenta di ciò che ha, subentra, con il
cristianesimo, quel desiderio infinito che vuole ciò che non possiede, ma spera di
ottenere dall’amore di Dio, che non ha creato una natura “innocente e crudele”, ma,
come dice il “genesi” buona e, se pur attraversata dal dolore causato dalla colpa,
riscattabile proprio attraverso l’accettazione incondizionata del dolore. 18
18Ivi, p. 387.
11
la giusta misura19. Questa mancanza rende l’uomo in eccesso in ogni momento, per cui il
compito dell’uomo è quello di porsi dei limiti attraverso la giusta misura. Assume allora
importanza il concetto greco di arte di vivere; perché se l’uomo non è determinato dai
suoi istinti può dirsi a tutti gli effetti creatore di sé stesso. L’arte di vivere greca cerca un
equilibrio tra il dare piena esplicazione alle nostre potenzialità e non oltrepassare il
confine dei nostri limiti.
l’etica che scaturisce dall’arte di vivere non prevede la conformità ad una norma, ma
come vuole il significato originario di ethos, che, come ci ricorda Heidegger,
significa “soggiorno”, la capacità di abitare il mondo governando se stessi,
diventando legislatori di noi stessi. Ciò non significa che possiamo fare ciò che
vogliamo, ma che di volta in volta dobbiamo delimitare l’ambito di ciò che
possiamo fare e di ciò che non possiamo fare, per non incorrere nelle conseguenze
infauste e inattese che possono derivare dall’imponderabile a cui l’uomo è
inevitabilmente esposto, o dall’esercizio dissennato della sua libertà 20.
L’arte di vivere quando diventa abitudine si trasforma in una morale, intesa come
modo di stare al mondo (ethos), che l’individuo sceglie da sé. Una morale che viene
scelta di volta in volta, senza essere una scienza generale che si applica indistintamente
ad ogni individuo. La morale che è legge esterna all’individuo, che non sorge dalla
spontaneità ma viene imposta da una autorità altra, diventa quella che Nietzsche
chiamava “la morale degli schiavi”21. La grandezza dell’uomo sta dunque nella misura
in cui si è capaci a dar forma e se stessi; quando ciò non avviene si è condannati a subire
le leggi degli altri. Sarà allora essenziale la capacità di dar forma alla propria forza, ciò
che i greci chiamavano virtù (aretè), che non ha nulla a che fare con la virtus latina, con
la mortificazione e il sacrificio, ma che è la capacità di eccellere, di dominare gli istinti
e di essere impavidi di fronte al dolore. Ma anche qui, nell’applicazione della virtù, è
necessaria la misura (métron), perché senza questa anche il coraggio e la forza applicate
alla vita vanno incontro alla sconfitta.
Per Galimberti la pratica filosofica ha come obbiettivo quello di recuperare questa
antica saggezza greca, partendo da una visione dell’uomo concepito non come malato
19 Ivi, p. 403.
20 Ivi, p. 406.
21 F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1992.
12
bensì come tragico. Il suo compito dunque non è quello di guarire, bensì quello di
educare l’individuo, attraverso la cura di sé intesa in questo ampio senso che si è
descritto, all’accettazione dell’unica esistenza che abbiamo.
nostro interesse, è importante notare la metafora che Wittgenstein stesso utilizza. Egli infatti parla di
indicare alla mosca (intelletto) la via d'uscita della trappola nella quale si è posta da sé ponendo male
la questione. Questo carattere che indiscutibilmente contraddistingue la filosofia è importante anche
rispetto al nostro tema in quanto la consulenza filosofica è spesso stata vista come una diversa
modalità di rapportarsi al problema. Come afferma Pedra Von Morstein : il consulente filosofico «non
è necessariamente chiamato a rendere migliori le cose o ad aiutare ad eliminare i problemi, ma
piuttosto a renderli comprensibili nella loro complessità, così che l'altro possa vivere con essi,
piuttosto che contro o a dispetto di essi». Vd. M. Montanari (a cura di), La consulenza filosofica:
terapia o formazione?, Orecchio di Van Gogh, Ancona 2006, p.27.
27 A tal proposito è interessante quanto riporta Cervari in Strategie indecidibili riguardo a Veronica,
malata di depressione che, dopo il fallimento della psicoterapia si è rivolta alla consulenza filosofica.
Ciò sottolinea inoltre l'aspetto di problem solving caratteristico, già secondo Achenbach, della
consulenza che trova oggi d'accordo molti consulenti tra cui appunto anche Montanari e Cervari.
28 N. Pollastri, Un estraneo in famiglia, cit., p. 9.
29 Ivi, p.10
30 R. Lahav, Comprendere la vita, Apogeo, Milano 2004, p. 9.
15
Il rapporto tra consulente e consultante è paritetico. Questa pariteticità non comporta
però un livellamento sul piano tecnico. Essa riguarda solo la dignità di esseri
raziocinanti. Non solo infatti la visione del consultante viene posta in discussione ma
anche quella del consulente. Il consulente non deve imporre il proprio punto di vista al
consultante imponendogli un'identità dall'esterno. Non deve esserci indottrinamento.
Non si tratta quindi, di sostituire una visione del mondo scorretta con una corretta ma
piuttosto occorre passare da una visione del mondo conflittuale e problematica ad una
capace di farci vivere in armonia con noi stessi. L'approccio psicoanalitico tende ad
incentrare la propria interpretazione sul punto di vista del soggetto «come se questi
fosse una monade psichica astratta dal mondo che abita e che lo abita»31e a sottostimare
la natura sociale della sua umanità. Se quindi, la psicologia analitica risulta essere più
interessata al mondo interno dell'individuo rispetto alla sua relazione con il mondo
esterno, la consulenza filosofica, al contrario, parte dal presupposto che per
comprendere se stessi è necessario far riferimento al proprio modo di relazionarsi con il
mondo.
33 Questo sarebbe il vero fine della consulenza filosofica (e della filosofia) secondo autori quali
Montanari e Galimberti.
34 S. Zampieri, Una certa somiglianza di famiglia. Consulenza filosofica e psicologia umanistica, in G.
Giacometti (a cura di), Sofia e psiche, cit., pp. 113-140.
35 G. Giacometti, Il discorso dell'Altro. Consulenza filosofica e psicoanalisi lacaniana , in G.
Giacometti (a cura di), Sofia e psiche, cit., pp. 81- 112.
17
vi si sottoponga di esplorare la propria visione del mondo in modo lucido e distaccato,
arricchendo quindi la propria personalità.
Veniamo ora ad occuparci del ruolo che la consulenza filosofica può ricoprire in
contesti specificamente di cura: ospedali, centri di salute mentale e di recupero per
tossicodipendenti sono lo sfondo in cui si collocano le esperienze di pratica filosofica
che terremo in considerazione.
In questi ambiti si pone con maggior forza la domanda "la filosofia può curare?";
siamo ben consapevoli di non poter rispondere senza prima aver ripreso i chiarimenti
preliminari sulle sfumature del termine cura e soprattutto senza aver delineato con
precisione cosa può curare la filosofia.
Cura si può intendere in accezione positiva, in quanto premura, devozione ma anche
in senso negativo quale cruccio, pena, preoccupazione. Sarà bene tenere in mente questa
distinzione quando vedremo che la filosofia al contrario di offrire una risposta pronta e
preconfezionata spesso porta il soggetto ad una più profonda immersione nel problema e
molte volte addirittura ad una sua complicazione.
Sulla cura abbiamo ancora da dire che essa è parte ontologicamente costitutiva
dell'uomo, infatti è peculiare delle due relazioni di fondo per la vita umana: quella col
Sé e quella con l'Altro.
"La terapia filosofica dei mali dell'anima consiste nel curare le nostre
rappresentazioni dei beni e dei mali, per evitare che l'anima stessa si ammali, pensando
di sfuggire a mali che invece non sono tali". Da questo possiamo capire come il punto
principale della cura filosofica sia offrire un'interpretazione nuova di ciò che a primo
40 Ivi p.40
22
acchito viene considerato un male. I problemi principali che vengono affrontati sono
quelli legati alla morte e al dolore. La filosofia deve cercare di offrire una nuova
collocazione alla morte e al dolore nella vita del soggetto, il fine della cura filosofica è
mostrare l'inevitabilità della morte e del dolore in quanto componenti imprescindibili
della vita.
L'uomo è consapevole che la morte e il dolore sono elementi inevitabili della vita,
ma nonostante questo “cerchiamo soltanto di rimuoverne il pensiero o di sminuirne
l'importanza relegandolo a mero dato biologico”41, negandole l'importanza che le
appartiene in quanto oggetto di riflessione legato all'esistenza del soggetto. Riflettendo
sulla morte si riflette di conseguenza sulla vita, in quanto il pensiero della morte
permette di mettere in risalto il modo in cui consideriamo giusto vivere. Le esperienze
legate al problema della morte e del dolore sono “esperienze certo dolorose, ma pure
feconde, perché capaci di risvegliare l'amore per la vita che magari si era assopito” 42. È
in questa prospettiva che il filosofo cerca di far entrare l'individuo che soffre per il
proprio rapporto con l'idea della morte o il dolore: possiamo notare quindi come il
filosofo non cerca una soluzione al problema ma piuttosto invita l'individuo a prendere
coscienza fino in fondo della problematicità del tema preso in esame e a non fuggire di
fronte ad esso, dopodiché tale consapevolezza permetterà un'apertura alla vita che
permetterà il raggiungimento di una situazione di serenità. Ciò che la filosofia si
propone di fare è quindi destabilizzare il soggetto nel momento in cui le sue credenze
non mostrano più di essere efficaci e dopodiché creare un nuovo rapporto tra il soggetto
e la verità che determina il cambiamento di sé43.
Un primo passo per far ciò può essere quello della narrazione del dolore nella fase
terminale della vita, di cui ci informa la consulente Ilaria Pellanda. Attraverso un
dialogo libero e senza schematismi si ricerca di fare apprendere delle di applicare un
lavoro razionale al discorso del consultante. Il consultante non viene sottoposto a
distinzioni categoriali quali: sano-malato; normale-anormale; per far ciò il consulente si
pone sul suo stesso piano; al contrario di quanto avviene nella relazione terapeutica.
Così si ottiene un'oggettivazione dell'io del consultante44. La consulenza filosofica non
41 M. Montanari, La filosofia come cura, Mursia, Milano 2012, p. 113.
42 Ivi, p. 117.
43 C. Piazzesi, La verità come trasformazione di sé, ETS, Pisa 2009.
44 I.Pellanda, Consulenza Filosofica e cure palliative: la narrazione del dolore, in Tra il dire e il fare,
p.198
23
viene incontro al bisogno, piuttosto aiuta a mettere in discussione le verità imposte.
Per Pellanda bisogna mettere in atto un metodo comprensivo, in cui è presente una
componente empatica all'interno del rapporto col paziente. Di seguito riportiamo alcuni
temi trattati durante le sedute di consulenza in Hospice:
•consapevolezza della morte-Nulla
•congedo dalle persone care
•aiuto a vivere gli ultimi giorni in modo cosciente
•confermare il valore del malato terminale come persona
•aiuto nella salvaguardia dei propri diritti e doveri
il lavoro fatto con i famigliari riguardava invece
•tema della perdita
•il senso di colpa
•insofferenza verso i medici
In che modo quindi la filosofia può intervenire negli ambienti e nelle problematiche
legate alla cura e quindi alla medicina e alla psicoterapia? Una prospettiva di intervento
filosofico in campo medico è offerta da Paolo Cattorini nel testo Bioetica clinica e
consulenza filosofica45. “La bioetica clinica è quella parte della bioetica dedicata ai
problemi che sorgono 'al letto del malato'” e “il bioeticista clinico è […] un consulente
filosofico, poiché aiuta operatori individuali, staff di reparto, o istituzioni sanitarie ad
approfondire dilemmi morali che incontrano e ad elaborarne, per quanto possibile, una
soluzione convincente”46. Da questa definizione offerta da Cattorini, possiamo dedurre
che il compito del filosofo che si occupa di bioetica clinica è simile a quello del
consulente filosofico anche se differisce da questo per alcuni aspetti. Innanzi tutto il
consulente filosofico che offre consulenze individuali si occupa di qualunque tema gli
venga proposto dal consultante, mentre il bioeticista clinico si occupa della cura e dei
problemi ad essa collegati, come il problema della morte, del dolore, della dignità della
47 Ivi, p. 55.
48 Ivi, p. 15.
25
compito del bioeticista clinico è quello di aiutare il consultante nella definizione di una
propria posizione filosofica circa problemi legati alla bioetica per raggiungere una
situazione di serenità.
Infine, Cattorini presenta un caso ipotetico in cui il bioeticista clinico, in veste di
consulente filosofico individuale, può curare un individuo che, oltre a problemi
psicologici, mostra problemi a livello esistenziale determinati da una visione della vita e
dell'etica che lo hanno portato a svalutare la propria persona e a punirsi. Il caso in
questione è “Il caso del Signor Sergio”49, soggetto con disturbi bipolari che tende a
colpevolizzarsi e a incanalare verso se la rabbia che prova nei confronti del mondo. Il
bioeticista clinico ritiene che la propria competenza possa essere utile al soggetto in
questione, in quanto oltre alla psicoterapia è necessaria una cura che non sia “volta a
minimizzare, a lenire, a dimenticare”50, ovvero una consulenza filosofica volta all'analisi
dei nodi esistenziali presenti nel soggetto e ad una loro chiarificazione ed accettazione.
I problemi legati alla pratica filosofica negli ambiti della cura sono simili alle
problematiche generali legate alla consulenza filosofica individuale, ovvero il rischo
dell'indottrinamento, ma anche la capacità del bioeticista clinico di riconoscere i confini
della propria disciplina e lasciare il campo, quando necessario, ad altri specialisti, come
per esempio nel caso di una consulenza filosofica con un paziente che presenta anche
problemi psicologici, oppure nella relazione con medici dei quali è indispensabile
riconoscere l'autorità in merito alla determinazione del tipo di cura biologica da adottare
nei confronti di un paziente.
49 Ivi, p. 97.
50 Ivi, p. 100.
26
medico: l'allineamento delle istituzioni al modello imprenditoriale delle Aziende
Sanitarie: ha causato vari problemi: dai troppi malati per un solo medico, alla
medicalizzazione dei disturbi dell'anima, scarsa attenzione per il lavoro degli operatori e
delle necessità del malato. Dato cio' la presenza di un consulente all'interno della
struttura puo' rivelarsi un utilissimo strumento volto ad individuare criticità e
problematiche che vengono da più di una figura.
La pratica filosofica si traduce in uno spazio concreto in cui il filosofo si prende la
responsabilità di prendersi cura dei diversi ordini che i discorsi umani producono 51, in
questo caso dei discorsi di paziente, medico ed operatore. Si tratta di instaurare una
Politica della soggettività in uno spazio medicalizzato, di Cura l'essere dell'esser-ci in
senso Heideggeriano , inteso come carattere esistenziale del rapporto che l'uomo ha col
mondo in cui è gettato52. La scelta metodologica della consulente è ovviamente quella
del dialogo. Rilevante la presenza dello psicologo del reparto psichiatrico, vera e propria
guida del gruppo nel quale la consulente aveva modo di inserirsi opportunamente,
l'obiettivo era quello di far esternare ai consultanti la propria visione del mondo e a
farne prendere coscienza.
La consulenza si è svolta attraverso colloqui con i pazienti-consultanti, incontri di
gruppo talvolta affiancati da colloqui individuali richiesti, come nel caso di Sara. Il
delirio psicotico della ragazza ha preso subito piede nel dialogo, ma la consulente riesce
a sedarlo grazie al consulto preliminare con lo psichiatra.
•Primo incontro: ascolto delle idee persecutorie della consultante;
•Secondo incontro: Sara è più concentrata a esporre il suo bisogno di parlare delle sue
paure riguardanti alcuni aspetti della sua terapia e del suo rapporto con la struttura;
•Terzo incontro: attenzione si sposta sulla riflessione sull'esistenza e sul rapporto di
fiducia.
La serie di incontri si interrompe a causa dell'esaurimento del numero di ore di
tirocinio, tuttavia la consulente ne traccia un resoconto molto positivo
Ulteriore aspetto del tirocinio consiste nel lavoro con gli operatori sanitari.
Dibitonto ha ricreato una community of inquiry: comunità di ricerca condivisa basata
sul reciproco riconoscimento dei vari contributi. Oggetto della ricerca: il dolore, più
51 D. Dibitonto, Un'esperienza filosofica con la follia. Pratica filosofica condotta presso il Centro di
Salute Mentale di Chieri, in Tra il dire e il fare, p. 64.
52 Ivi p. 64.
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individuale esperienza umana, è una sfida al senso dell'esistenza in se. Principale
obiettivo è stata la lotta al fenomeno burn-out53, attraverso la costruzione di uno spazio
di libertà e di presa di coscienza dei meccanismi in cui gli operatori sono
quotidianamente calati. Ci si rende conto della diversa concezione del dolore, di come
essa cambia nel corso del tempo a allo stesso tempo di quanto alcune esperienze
possano rivelarsi sempre attuali. Lo scambio di opinioni e l'ascolto sono stati
fondamentali anche per capire il punto di vista e le emozioni dei colleghi, molto spesso
fraintesi.
53 Burn-out syndrome: risposta individuale a una situazione lavorativa percepita come stressante, nella
quale l'individuo non dispone di risorse e strategie adeguate a fronteggiarle. Letteralmente sindrome
dell'essere bruciati, esauriti.
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BIBLIOGRAFIA
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umana, Apogeo, Milano 2006.
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scienze umane, Edizioni Unicopli, Milano 2013.
L. Nave e M. Bisollo, Filosofia del benessere la cura dei pensieri e delle emozioni,
Mimesis Edizioni, Milano 2010.
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