Sei sulla pagina 1di 33

Università degli studi di Torino

Corso di Etica Applicata

Philosophy for Children:


basi teoriche, sviluppi ed applicazioni

Giulia Dapero
Virginia Ghiara
Riccardo Rudellat

Anno accademico 2013/2014


1. Introduzione ai concetti chiave

La principale premessa che ha portato Lipman a fondare la sua pratica filosofica è


la distinzione tra le tre grandi istituzioni che egli individua all’interno del mondo
contemporaneo: la famiglia, lo Stato e la scuola. I legami alla base di queste sono
differenti: la famiglia permette di stabilire una connessione attraverso un legame di
sangue, lo Stato si fonda sull’accettazione delle leggi e il consenso comune, la scuola si
basa, invece, sul principio della razionalità vista come consapevolezza e ragionevolezza.
Lipman si concentra sul ruolo della scuola la quale, partecipando allo stesso tempo
alla sfera pubblica e a quella privata, ha il compito di formare i futuri cittadini, e la
possibilità quindi di influenzare il futuro della società stessa.
L’aspetto che Lipman ritiene centrale nell’educazione dei futuri cittadini è la
ragionevolezza intesa come “il risultato della combinazione di ragionamento e
giudizio”1, ovvero come la capacità di addurre ragioni valide alle proprie azioni e ai
propri pensieri. È infatti molto probabile, anche se non certo, nella visione di Lipman,
che adulti in grado di ricercare intenzionalmente ragioni e giustificazioni di idee e
comportamenti2, siano in grado di creare una società migliore e più giusta.
Per realizzare questo obiettivo Lipman ritiene necessaria una rivoluzione in campo
educativo, la quale si fonda principalmente su due elementi chiave: la complessità del
pensiero3 (con particolare riguardo per la dimensione riflessiva e critica di esso) e la
comunità di ricerca, da questi derivano una modifica del ruolo dell’insegnante e un
nuovo curriculum scolastico.

1.1 Tripartizione del pensiero

Basandosi sulla tripartizione del pensiero, egli inizia a focalizzare la propria attenzione
sul pensiero critico. Analizzando i primi anni di vita di ogni individuo nota che, non

1
M. LIPMAN, Thinking in Education (second edition), Press Syndicate of University of Cambridge,
Cambridge 20032; tr. it. di A. LEGHI, Vita e Pensiero, Milano 2005, p.297.
2
Cfr. M. SANTI, Ragionare con il discorso. Il pensiero argomentativo nelle discussioni in classe, La
Nuova Italia, Firenze 1995, p.66.
3
Con ciò si intende la teoria elaborata in campo psicologico che prevede la suddivisione del pensiero in:
critico, creativo e caring (o emotivo).

2
appena ne è fisicamente in grado, il bambino osserva con sguardo curioso ciò che lo
circonda cercando di analizzare gli elementi della realtà. Secondo Lipman questa
“vivacità e spontaneità” viene bruscamente interrotta non appena egli viene inserito nel
contesto scolastico, nel quale si ritrova a dover apprendere, in modo passivo,
conoscenze che gli vengono “imposte”. Contrapponendosi quindi al modello standard
di educazione, il filosofo americano ritiene importante permettere al bambino di
sviluppare, in modo quanto più autonomo possibile, le capacità di risolvere i problemi,
scegliere tra posizioni differenti, adottare una decisione e apprendere nuovi concetti,
ossia, appunto, di imparare a pensare criticamente. I tre elementi che risultano centrali
nella formazione di questo tipo di pensiero sono:

o LA FONDAZIONE SU CRITERI, i quali sono da intendersi come regole e principi a


cui si deve fare riferimento nella formulazione dei giudizi. Giudicare criticamente
significa quindi adottare dei criteri scelti in modo coerente e consapevole in base al
contesto d’azione;
o L’AUTO-CORRETTIVITÀ, non si deve essere solo in grado di riflettere e analizzare
il proprio pensiero, ma si deve anche acquisire la capacità di riscontrare le difficoltà e
gli errori presenti al suo interno e porne rimedio, anche grazie al confronto con le
opinioni e il lavoro altrui;
o LA SENSIBILITÀ AL CONTESTO, è necessario sapere individuare le irregolarità, le
eccezioni e i limiti di ogni situazione e formulare giudizi in base a ciò.

Giudicare criticamente non implica però escludere ogni carattere di creatività o


emotività, anzi, per Lipman, queste tre sfere (che poi corrispondono semplicemente ai
tre tipi di pensiero precedentemente menzionati) devono convivere e cooperare tra loro.
All’emergere dei problemi attraverso il metodo critico, seguirà infatti l’elaborazione di
soluzioni tipica del pensiero creativo, che si servirà allo stesso tempo, però, del pensiero
critico per stabilire i mezzi e le modalità migliori per realizzare il suo scopo.

3
La creazione di nuove prospettive, di nuovi valori, di nuovi rapporti, di nuovi
modi di organizzare il mondo è parte integrante di ogni buona ricerca.4

Gli elementi alla base del pensiero creativo non sono gli stessi che Lipman
riscontra all’interno del pensiero critico, in questo caso risultano infatti centrali:

1. l’originalità
2. la produttività
3. la fantasia
4. l’indipendenza
5. la sperimentazione
6. l’olismo
7. l’espressività
8. l’auto-trascendenza
9. la sorpresa
10. la generatività
11. la maieutica
12. l’inventiva

A queste caratteristiche segue la distinzione fra “imparare un mestiere” e “acquisire


un’arte”, mentre nel primo caso si dovrà quindi capire cosa è richiesto dagli altri e dal
contesto e agire secondo ciò, migliorando le proprie abilità con la pratica, nel secondo si
dovrà entrare in una sorta di relazione dialogica con l’altro per poter comunicare
qualcosa attraverso il nostro modo personale di produrre.
Infine, la dimensione caring del pensiero farà da sfondo in ogni occasione alle
prime due, poiché sarà sempre un interesse particolare e personale a spingere
l’individuo in primo luogo ad analizzare i problemi ed in secondo luogo ad agire per
risolverli.

4
AA.VV., Philosophy for Children: un curricolo per imparare a pensare, a cura di M. SANTI, Liguori,
Napoli 2005, p.36.

4
Il pensiero caring si realizza, infatti, come pensiero attento al valore, e per
questo è un pensiero impegnato nell’aver cura, attivo e normativo, attento a
conservare e migliorare; è un pensare premuroso e sollecito.5

Detto in altri termini, si tratta di quella dimensione affettiva e valutativa del


pensiero, in cui le emozioni, capaci di modellare i nostri pensieri e imprimere loro una
prospettiva, giocano un ruolo così importante da poter essere praticamente eguagliate al
pensiero stesso:

Credo che proviamo emozioni ogni volta che dobbiamo fare una scelta o
prendere una decisione e che tali scelte e decisioni siano i confini principali
del giudizio. In realtà, il ruolo dell’emozione è talmente importante per il
pensiero – il pensiero che conduce al giudizio e quello che allontana da esso –
che sarebbe difficile discernere l’una dall’altro. In effetti, essi possono essere
completamente indistinguibili; possono essere identici, nel qual caso sarebbe
perfettamente sensato affermare che l’emozione è la scelta, è la decisione, è il
giudizio. E’ questo il tipo di pensiero che, in riferimento a questioni
importanti, chiamiamo caring.6

1.2 La comunità di ricerca

Pierce immagina una similitudine che rende bene il rapporto che esiste tra
credenza, dubbio e ricerca: la credenza è come una nave nel porto; il dubbio
equivale all’essere pronti a salpare; la ricerca è la fatica e l’impegno del
navigare, che cessa solo quando un altro porto viene raggiunto.7

Alla concezione di Pierce può essere fatto risalire il fondamento della comunità di
ricerca proposta da Mead e successivamente da Lipman. Con questa espressione si
intende un gruppo di individui mossi da un interesse comune che decidono di
intraprendere un percorso di ricerca e analisi basato su criteri e regole condivise.

5
G. D’ADDELFIO, Filosofia per bambini ed educazione morale, La Scuola, Brescia 2011, p.9.
6
M. LIPMAN, Thinking in education, cit., p.294.
7
AA.VV., op. cit., p.87.

5
All’interno della comunità di ricerca ogni individuo si riconosce come un membro
attivo del gruppo, non esistono gerarchie ed è essenziale il rispetto per ogni persona e
per ogni sua opinione.
Lo scopo della comunità di ricerca è la creazione di un prodotto, questo non deve
per forza essere generale e definitivo, l’obbiettivo è approfondire ed analizzare, non
pervenire a risposte certe e immutabili. Il metodo della comunità di ricerca è quello del
dialogo, non della semplice conversazione. All’interno di esso devono essere presenti
tutte le capacità di ragionamento prima menzionate, deve avere delle regole e delle
strutture logiche decise a priori e a cui ci si dovrà sempre rifare, ogni proposta ed ogni
affermazione deve essere adeguatamente argomentata e gli altri avranno il compito di
giudicarla attraverso il ragionamento critico. Questa struttura non rende però il dialogo
già orientato in partenza, saranno sempre le argomentazioni proposte da ciascun
partecipante a guidare il gruppo creando una relazione tra aspetti critici e creativi.

La dimensione dell’interlocutore è dunque essenziale. Impedisce al dialogo di


essere un esposizione teorica e dogmatica, e lo costringe ad essere un
esercizio concreto e pratico, precisamente perché non si tratta di esporre una
dottrina, ma di condurre un interlocutore a un determinato atteggiamento
mentale.8

Collegandosi a questa idea Lipman sottolinea come all’interno della comunità sia
necessario condividere esperienze personali, in quanto ciascuna di queste permetterà
una crescita dell’individuo. Egli rimarca anche il fatto che tra i partecipanti della
comunità non ci debba essere alcuna competizione, il clima dovrà infatti essere
amichevole e la valutazione collaborativa e mai accusatoria.

8
P. HADOT, exercices spirituels et philosophie antique, Etudes augustiniennes, Paris 1981; tr. it. di A. M.
MARIETTI, Einaudi, Torino 1988.

6
2. Proposte concrete

2.1 Il Curriculum

Partendo da questi presupposti teorici, Lipman fonda la sua pratica filosofica: la


Philosophy for Children. L’obbiettivo finale deve essere sia il raggiungimento di
soluzioni condivise dai più sia un miglioramento nelle capacità personali, in particolare:
atteggiamenti democratici, competenze comunicative, abilità di pensiero, attitudini,
disposizioni e atteggiamenti critici e creativi.9
L’educazione a cui pensa il filosofo si allontana dal metodo tradizionale in quanto
non è un semplice passaggio di informazioni da parte di un insegnante ad una classe
passiva, ma piuttosto un percorso che si basa sul ruolo estremamente importante della
comunità di ricerca.
Lipman propone del materiale da cui partire nel lavoro e delle linee guida da
seguire.

o L’OFFERTA DEL TESTO


Ogni ricerca della comunità deve servirsi di particolari testi narrativi10 che si
differenziano in base agli argomenti e all’età dei partecipanti. La lettura aiuta a spiegare
meglio, in forma generale, ciò che si conosce già in forma particolare attraverso le
proprie esperienze. Lipman ritiene essenziale l’uso dei testi poiché ciò permetterà al
bambino di immedesimarsi nei personaggi e di elaborare domande e argomentazioni
riguardo a quel particolare oggetto. Per questo ogni testo deve contenere un numero di
personaggi abbastanza elevato, ciascuno dei quali con caratteristiche proprie (si avrà
quindi un personaggio più logico, uno più creativo ecc.) in modo tale che ogni bambino
possa immedesimarsi in quello che più gli si avvicina o lo affascina. I concetti presenti
nel libro devono essere numerosi ma poco approfonditi per stimolare domande e
dibattiti su essi.

9
Cfr. M. SANTI, op. cit., p.113.
10
Tra questi si possono citare a titolo esemplificativo: M. LIPMAN, Pixie, IAPC, Upper Montclair, NJ
1981; M. LIPMAN, Kio and Gus, IAPC, Upper Montclair, NJ 1982; M. LIPMAN, Elfie, IAPC, Upper
Montclair, NJ 1987.

7
o LA COSTRUZIONE DELL’AGENDA
Una volta letto il testo insieme, attraverso un lavoro collaborativo, si devono
individuare gli elementi principali su cui poi si svilupperà il dibattito. Per semplificare
questo compito viene chiesto ai bambini di indicare quali sono a loro avviso i concetti
più problematici e una volta esposti, questi vengono segnati su una lavagna. Sarà
proprio da qui che partirà il momento centrale, ovvero quello del dibattito.

o CONSOLIDARE LA COMUNITÀ
Questo è il cuore della Philosophy for Children, una volta messi in luce gli aspetti
problematici il gruppo dovrà infatti intraprendere un percorso di analisi fondato sulle
esperienze personali e sviluppato sull’argomentazione delle loro posizioni, ormai facili
da esporre grazie alla precedente immedesimazione con i personaggi dei racconti
iniziali. All’interno del dibattito dovranno emergere: un ragionamento cooperativo, una
sensibilità per le sfumature cariche di significato, un’abilità di valutazione degli
argomenti altrui (sia dal punto di vista contenutistico sia da quello logico formale) e una
capacità autocritica e di autocorrezione. Il gruppo deve “cercare di spingersi fino a dove
lo conduce l’argomentazione”11.

o IMPEGNARE ESERCIZI E PIANI DI DISCUSSIONE


Successivamente al dibattito bisognerebbe cercare di formulare giudizi pratici a
partire da problemi specifici analizzati, in questo caso il ruolo dell’insegnante-
facilitatore sarà quello di avvicinare i bambini ad altre alternative filosofiche.

o INCORAGGIARE ULTERIORI RISPOSTE


Infine andrebbe operata una sintesi critica e creativa (quindi ragionata e produttiva)
dei concetti emersi nelle fasi precedenti.

Da quanto è stato mostrato si possono ravvisare gli elementi di grande differenza


fra la Philosophy for Children e il modello standard di insegnamento, ci è sembrato
utile, per una maggior chiarezza e comprensione, esplicitare questi principi innovativi.

11
M. LIPMAN, Thinking in education, cit., p.117.

8
Modello Standard Philosophy for Children

L’educazione è un passaggio unilaterale L’educazione è il risultato di un lavoro di


di informazioni tra loro separate da chi gruppo guidato da un insegnante, ciò che si
sa a chi ancora non sa. impara sono le abilità di pensiero critico e le
relazioni tra le cose.

La conoscenza è relativa al mondo ed è La necessità di riflettere sul mondo è data


certa e chiara. dall’ambiguità di molti elementi, la
conoscenza non sarà quindi certa e
immutabile.

Si insegnano varie discipline separate, Non si può raggiungere un sapere esaustivo e


conoscerle tutte significa avere un completo, le discipline si sovrappongono e
sapere esaustivo e completo. collaborano per ampliare le conoscenze.

L’insegnante si pone come superiore e La classe è un gruppo di ricerca dove non


infallibile, gli studenti devono imparare esistono gerarchie, tutti possono sbagliare e
passivamente. porre domande, ognuno ha il compito di
collaborare attivamente.

2.2 Il ruolo dell’insegnante

L’insegnante che partecipa al dibattito di una comunità di ricerca è un membro di questa


comunità così come tutti gli altri, ha però precise responsabilità rispetto all’avvio e al
controllo del dibattito. Egli deve:

1. riconoscere quando intervenire nella discussione;


2. essere particolarmente d’aiuto nella creazione dell’agenda, individuando i vari
punti di vista e le opinioni dei bambini;
3. aiutare gli studenti ad esprimere se stessi e indagare sui significati di ciò che
dicono;
4. favorire processi di interpretazione e di attribuzione di significato;

9
5. richiedere di formulare definizioni;
6. far emergere le assunzioni;
7. indicare le fallacie di natura logica o argomentativa;
8. richiedere ragioni (il dialogo infatti deve essere sempre argomentativo);
9. fare in modo che vengano sempre esaminate le alternative in modo che possa
scaturire il confronto;
10. non farsi prendere dalla preoccupazione di giungere a una conclusione.

L’insegnante di cui parla Lipman è una guida che deve tendere a scomparire nella
classe, l’apprendimento deve infatti essere sempre collaborativo e reciproco, egli non
dovrà mai porsi come colui che detiene il sapere. Ovviamente non è facile svolgere un
ruolo del genere, specialmente se si è abituati a comportarsi secondo il metodo
standard. Una maestra di Padova descrive così la sua esperienza di Philosophy for
Children:

In fase di preparazione, l’attività della P4C mi sembrava di averla chiara in


testa, di averne colto gli aspetti fondamentali, capace di rendermi consapevole
degli scopi, delle finalità intrinseche, delle potenzialità da sviluppare con i
bambini. […] Invece poi, nel condurre la prima sessione, ho avuto
un’immediata sensazione di inadeguatezza, di confusione mentale. Per prima
cosa mi sono accorta che le mie aspettative riguardo al comportamento dei
bambini erano assolutamente distanti dalla realtà. Credevo, scioccamente,
che da subito loro avrebbero reagito come era successo tra noi adulti,
ponendo domande di un certo tipo. Quando, invece, le loro curiosità si sono
rivelate tutte legate al contesto letterario (avevamo letto l’introduzione di Kio
e Gus), ho provato una grande delusione e mi sono innervosita parecchio,
anche perché, a quel punto, mi si è posto davanti il dubbio: va bene così o
devo assumere in qualche modo un ruolo direttivo e far cambiare rotta al
gruppo?12

Il ruolo dell’educatore è dunque fondamentale affinché la classe possa instaurare


realmente un dialogo fondato sul ragionamento critico e creativo, per questo motivo è

12
AA.VV., op. cit., pp.339-340.

10
necessario concentrarsi non solo sull’educazione degli studenti, ma anche su quella dei
facilitatori. La proposta appoggiata dal maggior numero di filosofi e insegnanti sembra
essere a questo punto l’acquisizione delle competenze attraverso la stessa esperienza
dialogica del filosofare insieme: il facilitatore si forma grazie alla partecipazione ad una
comunità di ricerca, in questo modo sarà successivamente in grado di partecipare al
dibattito dando il giusto spazio ai pensieri dei bambini. Lipman stesso riconosce che le
difficoltà siano molteplici, ma afferma che l’insegnante che decide di consacrare la
propria vita professionale allo studio sul modo migliore per preparare gli allievi a
giudicare è “un esempio della dimensione del giudizio orientata verso il futuro” 13, è
proprio questo aspetto a gratificare e a compensare le fatiche dovute a tale impegno.

13
M. LIPMAN, Thinking in education, cit., p.317.

11
3. Il metodo di valutazione della pratica

Così come per le altre pratiche filosofiche, risulta difficile valutare gli effetti
dell’esperienza della Philosophy for Children. Inizialmente in America si è deciso di
adottare alcuni tra i test più noti e utilizzati nelle scuole, successivamente è stato invece
creato un test ad hoc in grado di rispondere a questa esigenza: il New Jersey Test of
Reasoning Skills. Esso presenta però alcuni aspetti problematici, come per ogni altro
test, infatti, è necessario selezionare i dati da considerare come evidenze del successo o
del fallimento della pratica. In questo caso si è deciso di analizzare le abilità di pensiero
dei bambini, ma i dati che si possono analizzare sono le capacità di ragionamento
specifiche e isolabili (ad esempio la capacità di ragionamento induttivo o di capire
relazioni simmetriche), e ciò pare in evidente contrasto con l’ideale di educazione al
pensiero complesso alla base della Philosophy for Children.
Per analizzare i miglioramenti della comunità di ricerca, si utilizza inoltre un
gruppo di controllo: il primo gruppo (la comunità) svolgerà la pratica, il secondo invece
non avrà questo impegno, all’inizio e al termine dello studio si chiederà ad ogni
bambino di rispondere al test, i risultati dei due gruppi verranno poi confrontati. In
questo modo però si rischia di non dare la stessa importanza ai dati provenienti dai due
gruppi, analizzando alcune ricerche Marina Santi arriva ad affermare che “spesso
l’analisi dei risultati nei gruppi di controllo manca di adeguatezza”14.
Bisognerebbe anche definire quale attività deve essere proposta al gruppo di
controllo in alternativa alla Philosophy for Children, se infatti non vengono forniti
stimoli alternativi, allora la qualità dell’apprendimento non potrà essere confrontabile.
Si è visto inoltre come il docente-facilitatore sia uno dei partecipanti alla comunità di
ricerca ma abbia allo stesso tempo un ruolo di guida, anche il suo metodo di gestire il
dibattito sarà quindi un fattore da tenere presente nel valutare gli esiti di questa pratica
filosofica. Infatti, se anche tutti gli insegnanti si formassero allo stesso modo, ciascuno
di essi svilupperebbe poi un modo personale di svolgere il ruolo di facilitatore e guida.
È quindi possibile chiedersi se una pratica come la Philosophy for Children possa
essere valutata attraverso un test. Lo stesso Lipman, così come Santi, ha sollevato molti
dubbi in merito ad un tale metodo valutativo.

14
M. SANTI, op. cit, p.149.

12
4. La proposta di G. D’Addelfio

4.1 Philosophy for Children ed educazione morale

Si è parlato sopra dell’importanza che riveste la figura dell’insegnante e dell’esigenza


che venga a sua volta educato. Ebbene, proprio a questa figura si rivolge il testo di
Giuseppina D’Addelfio intitolato Filosofia per bambini ed educazione morale, che in
realtà cerca di orientare verso un’autentica relazione educativa non solo gli insegnanti
della scuola primaria, ma anche ogni adulto che si trovi nella condizione di dover
assumere il ruolo di educatore nei confronti di un bambino. Si tratta di un’opera in cui le
proposte teoriche della Philosophy for Children elaborate da Lipman e dai suoi
collaboratori costituiscono il punto di partenza e lo sfondo costante, per una riflessione
pedagogica incentrata però su un’educazione che deve propriamente essere di tipo
morale. Per educazione morale l’autrice intende, in perfetta sintonia con le tesi di
Lipman, non una forma di insegnamento intesa in senso tradizionale, cioè finalizzata
alla trasmissione di determinati contenuti di argomento etico o alla persuasione della
validità di qualcosa, ma piuttosto una più ampia disposizione formativa che miri “alla
realizzazione delle più proprie possibilità umane”15, capace cioè di orientare l’educando
alla pienezza della sua umanità, sulla base dell’idea che la natura etica di ogni individuo
coincide con la sua struttura ontologica costitutiva ed essenziale.
In questo tentativo di approfondire il significato e le possibilità aperte dalla
Philosophy for Children per far emergere come essa “sia stata concepita anche, e non in
maniera accessoria, come programma di educazione morale”16, D’Addelfio adotta una
prospettiva di pedagogia fondamentale di stile fenomenologico-ermeneutico. Ossia,
compie un’indagine che mira a raggiungere i fondamenti e i tratti essenziali (o eidetici)
dei fenomeni educativi, a partire dall’esperienza di questi, ma sospendendo
l’atteggiamento naturale verso tali contenuti empirici, in quanto questo rimane
imbrigliato nei dati di fatto, nel contingente, nelle convinzioni partorite dal senso
comune. Infatti, l’autrice definisce la propria ricerca pedagogica come scienza eidetica,
ma al contempo pratica, poiché essa parte dall’esperienza (in questo caso dei fenomeni
educativi), la vivifica cogliendone i tratti essenziali, ovvero cerca di comprendere le

15
G. D’ADDELFIO, op. cit., p.9.
16
Ibi, p.64.

13
caratteristiche principali di questi fenomeni, per poi farvi ritorno, ormai arricchita e
capace di apportare cambiamenti. Secondo questo approccio fenomenologico, dunque,
D’Addelfio arriva a delineare nell’ultimo capitolo dell’opera un “profilo essenziale” di
tutte le istanze costitutive del fenomeno educativo, e, in seconda battuta, ad esplicitare,
in maniera del tutto parallela a queste istanze, le linee metodologiche da seguire per
operare interventi educativi che siano adeguati ai mondi concreti dell’educare.
Le istanze fondamentali del fenomeno educativo (e di pari passo le linee
metodologiche), diverse ma strettamente intrecciate tra loro, vengono rintracciate
attraverso una riflessione teorica che tiene conto allo stesso tempo delle ricerche
prodotte dalla psicologia17, degli spunti teorici offerti dalla Philosophy for Children, e
delle esigenze concrete dei bambini che entrano per la prima volta in una relazione
educativa, nonché in un mondo.
Proprio in questo primissimo ingresso nel mondo il bambino si trova in primo
luogo disorientato di fronte ad una realtà di cui ricerca un significato. Vi è in lui
l’esigenza di ricevere una “mappa chiara del mondo”, per selezionare in modo sensato
le informazioni che da questa realtà riceve, per comprenderla, per prendere posizione e
inserirsi adeguatamente e serenamente nel tessuto delle relazioni sociali. Di fronte ad un
simile bisogno, la responsabilità sta tutta nelle mani dell’educatore, il suo compito sarà
dare il via a questo accompagnamento del bambino nel mondo, offrendogli un punto di
partenza per una progettazione esistenziale. In altri termini, l’educando dovrà trovare di
fronte a sé una guida rassicurante, che sappia trovare la giusta via di mezzo tra una mera
trasmissione e imposizione di contenuti morali e l’assenza totale di una direzione, di cui
invece il bambino ha bisogno per compiere il proprio cammino morale. Infatti, se la
prima opzione ostacolerebbe l’esercizio del pensiero critico e creativo del bambino,
relegandolo in una completa passività, la seconda lo priverebbe di un’autorità educativa
per lui necessaria. A questo proposito D’Addelfio, ricollegandosi alla sua analisi della
condizione morale attuale dei bambini in Italia, compiuta nel primo capitolo18, si
sofferma a precisare il malinteso che ha portato ad una vera e propria crisi dell’autorità
degli educatori (tanto genitori, quanto insegnanti). Alla base di questa starebbe infatti
una visione distorta della libertà dei bambini, nonché, più in generale, della relazione

17
A cui era stata dedicata un’ampia trattazione nel secondo capitolo, cfr. pp.87-142.
18
Cfr. G. D’ADDELFIO, op. cit., pp.60-85.

14
educativa. Infatti, ai bambini deve essere lasciata la libertà di progettare autonomamente
la propria esistenza, si deve insegnare loro a scegliere “con la propria testa ed in prima
persona” (per usare le parole di Lipman), ma questo non deve trasformarsi in una mera
e “vuota” capacità di scelta. Non si deve cioè pensare che la relazione che si istituisce
tra educatore ed educando sia di tipo contrattuale, e dunque che essi siano due partner
alla pari che possono ritirarsi quando lo desiderano dal rapporto, perché, si pensa, in fin
dei conti ogni azione e decisione può essere giustificata, dal momento che non esistono
valori e fini stabili e ciò che conta è solo la capacità di usare i mezzi adeguati per
raggiungere i propri personalissimi scopi. Per dirla con le parole di Lipman:

Il terreno di coltura dell’amoralità è la preparazione di tecnici i quali


presumono che i fini siano dati (o che non abbiano importanza), cosicché la
loro preoccupazione debba essere solo per i mezzi, la tattica, la tecnica. Se
ai bambini non viene data la possibilità di soppesare e discutere sia i fini,
sia i mezzi – e anche la loro interrelazione – essi probabilmente diverranno
cinici nei confronti di tutto tranne il loro benessere, e gli adulti prontamente
li condanneranno come “piccoli relativisti noncuranti.”19

Al contrario, educatore ed educando devono creare una sorta di alleanza nella


ricerca di un bene condiviso e di un obbiettivo comune. Se sul primo ricadrà la
responsabilità di testimoniare la capacità di credere in determinati contenuti morali, al
secondo spetterà, almeno in un momento iniziale, l’obbedienza nei confronti di questa
persona più esperta e sicura, che gli farà da guida nel raggiungimento dell’obbiettivo
che condividono. Presentarsi come testimone di un ideale in cui si crede non dovrà certo
significare l’imposizione di questo all’educando, ma sarà piuttosto da intendersi come
una consegna, cioè come il “dono di un’eredità”, in cui l’intenzione primaria deve
essere quella di stimolarlo a “credere in”.

Soprattutto per i giovani del nostro tempo, è già un incontro significativo


quello con persone che credono autenticamente in qualcosa e progettano la

19
M. LIPMAN, Pratica filosofica e riforma dell’educazione, disponibile su www.filosofare.org.

15
loro vita in una direzione, prima ancora che con contenuti assiologici
determinati.20

La proposta valoriale dell’educatore, poi, potrà anche non essere condivisa


dall’educando, ma quello sarà il punto di partenza per lui, il suo primo significativo
vissuto di autentica esperienza morale, sulla cui base potrà cominciare a sua volta a
credere in prima persona, realizzando il progetto che “ha da essere”.
In secondo luogo, l’educazione morale deve tenere presente un altro bisogno
fondamentale del bambino: oltre ad entrare in un mondo che non sia insensato, egli
necessita di vedere accolta la propria vita emotiva, di essere accettato
incondizionatamente nel suo valore personale, unico e irripetibile. La relazione
educativa, deve dunque essere anche “affettivamente calda e accogliente”, oltre che
portare significato, perché solo così potrà trasmettere quei sentimenti di fiducia e
speranza necessari per la fioritura di una persona, cioè per un’autentica esperienza etica.
Ciò che rende possibile all’educatore un simile approccio alla persona
dell’educando è, secondo D’Addelfio, proprio quella dimensione caring del pensiero,
così come descritta da Lipman in Educare al pensiero21. Il pensiero caring, infatti, di
cui Lipman rintraccia diversi tipi22, è anche un pensiero valutativo, capace di rivolgersi
con una particolare premura al suo oggetto, istituendo e riconoscendo differenze tra i
vari oggetti, dunque anche tra le persone. Così, dice Lipman, i genitori che si prendono
cura dei figli riconoscono di questi al contempo che, in quanto “esseri umani” non vi è
tra di loro, e rispetto agli altri uomini, una differenza di grado, ma, nonostante questo,
notano inevitabilmente che esistono differenze notevoli tra gli altri individui e i loro
figli, come tra un figlio e un altro, dando così a ciascuno la possibilità di sentirsi
apprezzato in modo unico ed irripetibile.
Il terzo elemento che in una relazione educativa non deve mai mancare, e che rende
a sua volta possibile il soddisfacimento dei due bisogni sopra menzionati, è “l’empatia”.
Essa deve essere però concepita in modo diverso da come è intesa in ambito
psicologico, non, quindi, come metodo terapeutico finalizzato al raggiungimento del
benessere psichico del paziente, ma come qualcosa di più ampio, che, oltre allo sviluppo

20
G. D’ADDELFIO, op. cit., p.199.
21
Cfr. M. LIPMAN, Thinking in education, cit., pp.283-294.
22
Tra questi: pensiero valutativo, affettivo, attivo, normativo, empatico.

16
psicologico, miri alla formazione globale della persona. Si tratta di quello strumento
fondamentale di cui l’educazione deve servirsi per permettere la fioritura e il benessere
esistenziale dell’individuo, dotato di un libero progettarsi, ma sempre e comunque
all’interno di un contesto interpersonale.
Dal punto di vista eidetico e pedagogico, dice D’Addelfio, l’empatia è da
considerarsi come una virtù, in quanto implica un lavoro su se stessi e una formazione
specifica del proprio intelletto e delle proprie emozioni. Inoltre, l’empatia autentica può
realizzarsi solo se si presentano contemporaneamente tre istanze fondamentali che la
costituiscono: una veritativa, una etica ed una spirituale.
L’istanza veritativa porta con sé la necessità di lasciare spazio all’altra persona,
riconoscendola per quello che è, permettendole di manifestarsi nella sua verità che è
assoluta novità per chi la incontra. Ciò implica il riconoscerne l’alterità irriducibile,
dunque l’impossibilità di oggettivarla e di identificarsi completamente:

Ed è proprio questa condizione di alterità che rende possibile autentica


empatia, che non è fusione con l’altro, né annullamento del sé nell’altro. La
vera empatia è rendersi conto di un’esperienza vissuta ma estranea; […]
tale vissuto, cognitivo e affettivo, storico e contestuale, rimane infatti
irriducibilmente personale, sempre velato da un segreto da rispettare e,
semmai, solo aiutare a scorgere: soprattutto quando l’altro verso il cui
mondo ci si muove è un bambino.23

L’istanza etica, permette invece di fare un passo in più rispetto alla prima, perché si
preoccupa di cogliere l’altro non solo per ciò che è già, che va percepito e accettato
nella sua verità, ma anche per quel “di più” che non è ancora, cioè per le sue possibilità
ideali e più autentiche, condividendo con lui la responsabilità della loro realizzazione.
Anche in questo caso, l’autrice recupera le riflessioni di Lipman sulla dimensione
caring del pensiero, mettendo in luce che esso è anche “pensiero normativo”, e dunque
fondamentale perché questa seconda istanza possa attuarsi. Il rilievo normativo del
pensiero caring implica che “prendendosi cura” di qualcuno ci si interessi anche alle

23
G. D’ADDELFIO, op. cit., p.213.

17
sue possibilità ideali, integrando così la propria considerazione di ciò che è ideale con
l’attenzione che si presta a ciò che accade in modo attuale.24
Infine, deve essere presente un’istanza spirituale, che implica la capacità di
ammettere che l’origine dei significati e del senso che ci costituiscono non vengono da
noi. Lo spirito, infatti, deve proprio essere inteso come “la capacità di accogliere dentro
di sé una storia e le persone che la costituiscono” e di riconoscere che la soggettività si
può costruire solo come risposta ad un appello che viene da altro, e che reclama una
risposta.
Se non mancherà nessuna di queste tre istanze, allora si potrà dire che l’educatore
ha messo in atto un’autentica empatia e, così, l’educando accolto in modo empatico
imparerà ad a sua volta ad essere capace di empatia verso se stesso e verso gli altri:

Se l’essere umano per esistere autenticamente deve trovare risposte al


proprio bisogno di riconoscimento, […] esistere autenticamente significa
dispiegare a propria volta la capacità di riconoscere e confermare l’altro
[…]. Nel riconoscere l’essere stati riconosciuti e accolti
incondizionatamente e senza merito, si apre lo spazio per la capacità di
riconoscere e accogliere a propria volta, facendosi edificatori non solo della
propria, ma anche fermento e condizione di possibilità dell’altrui vita
buona25.

Lo sviluppo di una sensibilità empatica, inoltre, è un ingrediente importante anche


per rispondere ad un ultimo bisogno fondamentale dei bambini di cui parla l’autrice:
l’esigenza di condivisione e di crescita comunitaria. Infatti, il bisogno affettivo di essere
accettati incondizionatamente di cui si è detto, può essere inteso anche, sotto un altro
aspetto, come l’esigenza di appartenere ad un gruppo di riferimento come membro
stimato, cioè di costruire autentiche relazioni di amicizia etica. Per rispondere quindi a
simili bisogni etici e affittivi, e a questa ricerca di comunità, D’Addelfio riconosce come
fondamentale uno dei principali elementi della Philosophy for Children: la comunità di
ricerca e il dialogo filosofico quale suo metodo privilegiato. Questi diventano così
importanti strumenti e luoghi di educazione morale, perché permettono ad ogni

24
Cfr. M. LIPMAN, Thinking in education, cit., pp.291-292.
25
G. D’ADDELFIO, op. cit., pp.216-217.

18
bambino di entrare in un gruppo di ricerca dove vige il rispetto per ciascuno, e dunque
dove potrà partecipare attivamente, sentendosi libero di comportarsi in modo autentico e
creativo. Il dialogo filosofico, inoltre, dà l’opportunità di entrare in una vera interazione
con gli altri, ascoltandone esperienze e punti di vista personali, permettendo
costantemente ai bambini di esercitarsi al decentramento e ad esprimere le proprie
emozioni in maniera sempre più articolata linguisticamente, imparando così
contemporaneamente a riconoscerle in modo migliore. La comunità impegnata in una
ricerca etica dovrà quindi partire dalla domanda “Quale è la vita buona?”, avendo come
obbiettivo un miglioramento, per ciascuno, della comprensione di sé, attraverso la
realizzazione di un passaggio da un orientamento individuale ad uno comunitario, resa
possibile, ancora una volta, dal pensiero caring. Infatti:

L’esercizio del pensiero affettivo rende capaci di affrontare il rapporto tra sé


e gli altri, imparando a mettere il proprio io in prospettiva, a comunicare, a
tradurre, a comprendere: in una parola, a dialogare.26

Il pensiero caring, dunque, è quello che rende possibile lo sviluppo della propria
coscienza relazionale. A questo proposito, è bene sottolineare come anche in queste
pagine l’autrice torni a mettere a confronto relazioni che prevedono vera condivisione
comunitaria, con relazioni di tipo contrattuale, focalizzandosi questa volta sul rapporto
che un individuo può stringere con la comunità. Infatti, un rapporto contrattuale tra un
singolo ed una comunità renderebbe il primo un semplice “utente” della seconda,
capace magari anche di cooperare con gli altri membri, ma per il perseguimento di scopi
che sono prima di tutto privati ed egoistici, per cui non sarebbe ancora una volta
presente quell’alleanza necessaria per raggiungere un bene condiviso. Inoltre, anche
qualora questo individuo decidesse di sacrificare i propri scopi, il legame con la
comunità rimarrebbe comunque secondario rispetto alla costruzione della sua identità e
alla comprensione che egli ha di sé. Al contrario, l’autrice si schiera a favore di una
posizione che riconosca la natura umana come profondamente intersoggettiva, e che
definisca pertanto le relazioni con gli altri come fondamentali per la costruzione stessa
della nostra identità:

26
G. D’ADDELFIO, op. cit., p.227.

19
Il nostro compimento personale è legato alla piena e consapevole
assunzione della costitutiva interdipendenza che ci lega agli altri esseri
umani, ad un’educazione morale che accolga la relazionalità che attraversa
il nostro io, non solo come un bisogno o un dato, ma come un compito.27

Dunque, soltanto a partire da simili fondamenta teoriche si può arrivare a


riconoscere e a valorizzare lo scambio comunicativo come strumento essenziale per il
nostro stesso sviluppo cognitivo e personale in generale. Ovvero, solo a partire da
questa visione si può capire che “non solo discutendo si impara, ma incontrando
autenticamente l’altro nel dialogo e così condividendo con lui esperienze significative,
si costruisce il sé.”28
In ultima analisi, è opportuno riportare anche alcuni altri strumenti che D’Addelfio
riconosce fondamentali per l’educazione del carattere dei bambini, sui quali si sofferma
nella riflessione metodologica che conclude il libro. Intendendo per carattere
quell’insieme di stati abituali affettivi e intellettuali congiunti in una persona, l’autrice
riconosce di enorme importanza in primo luogo l’uso di racconti, come previsto dalla
Philosophy for Children. Questi, infatti, fanno sì che il bambino si abitui ad
immedesimarsi nei protagonisti e a riflettere sulle questioni morali sottese, aiutandolo
così a sviluppare la propria sensibilità empatica, ma anche le proprie capacità di
ragionamento e di immaginazione morale. In secondo luogo, proprio il filosofare stesso
è strumento essenziale per i bambini (ma anche per gli insegnanti), in quanto permette
loro di sviluppare quella consapevolezza critica, creativa e orientata al valore che rende
possibile una crescita nell’autonomia della motivazione morale, “aiutando a scoprire
che il senso più pieno dell’autonomia è ricavare se stessi sullo sfondo di una tradizione,
interiorizzare e ricreare un ethos”.29 Infine, l’educatore non deve mai dimenticare di
essere egli stesso il primo “strumento” di educazione morale per il bambino, di doversi
prima di tutto prendere cura di se stesso, e solo poi dell’educando. In altri termini, si
deve riconoscere anche una causalità esemplare nell’educatore stesso, che ha la
responsabilità di essere modello di integrità, cioè di mostrare coerenza tra i propri
pensieri e le proprie azioni di fronte ai bambini, perché, dice D’Addelfio riprendendo

27
G. D’ADDELFIO, op. cit., p.229.
28
Ibi, p.230.
29
Ibi, p.261.

20
Aristotele, il comportamento ed il carattere di un uomo costituiscono l’argomentazione
più forte per condurre qualcun altro a seguire la medesima condotta.

4.2 Un’esperienza di ricerca e formazione

Nel terzo capitolo di Filosofia per bambini ed educazione morale, D’addelfio riporta i
risultati, contenuti in un proprio studio intitolato Emozioni ed educazione morale, di
un’esperienza di formazione da lei stessa condotta con il gruppo di ricerca legato alla
Cattedra di Pedagogia generale della Facoltà di Scienze della Formazione
dell’Università di Palermo, in due scuole primarie della città di Palermo, durante gli
anni scolastici 2009/2010 e 2010/2011. Si trattò di una ricerca-intervento, così definita
in quanto, attraverso questa esperienza fu al contempo compiuta, da D’addelfio e
collaboratori, una ricerca sull’educativo (dunque sui bambini), ma anche una ricerca
educativa, che coinvolse attivamente gli alunni (con e per i bambini).
Lo scopo fu quello di realizzare un percorso di educazione morale che avesse al
centro il dialogo sulla vita emotiva, servendosi dei metodi della Philosophy for
Children. L’obbiettivo fu dunque anche quello di vedere se quest’ultima potesse essere
un aiuto efficace al potenziamento di un vocabolario per descrivere le proprie emozioni,
alla maturazione nella propria vita di relazione e, in generale, alla crescita nella
dimensione caring del pensiero. In sostanza, quindi, il percorso cercò di orientarsi verso
l’approfondimento dell’aspetto secondo D’addelfio più caratterizzante della
Philosofophy for Children (intesa come programma di educazione morale): la
valorizzazione delle emozioni e, di pari passo, il lavoro sul vocabolario emotivo.
Quest’ultimo infatti, viene tenuto in grande considerazione tanto da Lipman quanto da
M. A. Sharp: il primo lo riconosce come elemento fondamentale perché i bambini
possano adeguatamente riflettere sulla propria vita emotiva30, mentre la seconda arriva
persino a definire il dare un nome alle emozioni come il primo passo dell’educazione
morale.31
La ricerca-intervento si articolò in diverse sessioni di dialogo filosofico compiute
con i bambini a partire da brani scelti tratti soprattutto da Pixie e da Nous, di argomento

30
Cfr. M. LIPMAN, Thinking in education, cit., p.152.
31
Cfr. G. D’ADDELFIO, op. cit., p.158.

21
specificatamente etico. A queste sessioni non vennero fatti partecipare gli insegnanti per
evitare che la loro presenza potesse imbrigliare i bambini nella logica “giusto o
sbagliato” riducendo la loro possibilità di aprirsi in modo fecondo in una discussione
filosofica. A questo proposito, risulta molto interessante il fatto, riportato da
D’Addelfio, che molti di questi bambini si stupirono inizialmente tanto di dover essere
loro a fare domande quanto di non dover necessariamente trovare delle risposte
definitive a queste, acquisendo gradualmente una sempre maggiore consapevolezza
della natura controversa (ma anche sempre più motivante per loro) delle questioni
filosofiche. Altro elemento significativo riportato è il fatto che la discussione di gruppo,
su concetti legati all’ambito dell’esperienza relazionale e morale, indusse molti di loro a
raccontare a ruota libera delle proprie esperienze. Da queste i ricercatori trassero dei
punti di partenza per costruire la discussione comune e per cercare di affrontare anche
alcuni problemi relazionali emersi tra i bambini. Tuttavia, cercarono di fare questo con
molta cautela, sia per evitare di rendere più vulnerabili i bambini, sia per non perdere di
vista l’obbiettivo di dialogare in vista della costruzione di un obbiettivo comune, visto
che, come afferma l’autrice stessa, “la Philosophy for Children intende essere un
dialogo disciplinato e non una conversazione, né tantomeno una forma di terapia: il
coinvolgimento personale non dev’essere mai troppo personale.”32
Infine, di grande importanza per una considerazione sull’efficacia dei metodi della
Philosophy for Children, furono le affermazioni fatte dai bambini, nelle sessioni
conclusive, sulla possibilità di provare i sentimenti di un’altra persona. L’autrice segnala
infatti come, con il procedere delle discussioni, molti tra i bambini divennero sempre
più dubbiosi sulla possibilità di provare effettivamente la medesima emozione di chi ha
subito, per esempio, una grava disgrazia, come dimostra il seguente dialogo sulla
differenza tra raccontare una storia dall’interno e dall’esterno, riportato nell’opera:

M.:… Uno può raccontare la storia che ha vissuto a un altro, ma se questo lo


racconta, a sua volta, a un altro, non è la stessa cosa…non ce l’ha dentro, non
l’ha vissuto, è difficile da spiegare…
R.: Per me dall’interno vuol dire che solo lui può dire quello che ha provato, e
gli altri possono solo dire quello che è successo.

32
G. D’ADDELFIO, op. cit., p.181.

22
C.: Ma chi lo sente raccontare può provare un’emozione simile, ma
minore…per chi l’ha vissuto è molto più forte.
L.: Se io racconto una cosa a G., lei lo può raccontare benissimo a un’altra
persona perché in origine gliel’ho raccontato io, G. è come se fossi io…o no?
Fac.: Non lo so…riflettiamo…cosa significa come se fossi io?
M.: G. non l’ha vissuto, non è L.
Fac.: infatti L. ha detto “è come se fossi io”, non “io sono G.” oppure “G. è
esattamente me.”
L.: Per me rimane molto diverso.
M.: Una cosa è raccontare, dire le cose, un’altra è dire i sentimenti.
C.: Se io mi rompo il braccio, io provo dolore
L.: …e non un altro.
G.: … e se racconti le emozioni a un’amica, la tua amica può pensarle ma non
può sentirle, almeno non come le senti tu.
R.:…e lo può immaginare…specie se le è successa una cosa simile…ma solo
un poco.
M.:…però questo poco serve a molto, serve anche ad avere sostegno.33

Questa e altre simili discussioni resero possibile mettere in luce una grande
consapevolezza acquisita dai bambini nel corso delle discussioni: la profonda esigenza
del rispetto dell’altro, come essere unico, dotato di una propria vita emotiva irripetibile,
di un proprio “segreto” che non deve mai essere violato. Ovvero, con queste
acquisizioni i bambini dimostrarono di aver colto appieno che cosa significhi quel
concetto di “empatia” nei termini in cui l’autrice stessa lo definisce nelle sue riflessioni
sull’essenza dei fenomeni educativi, che sono state riportate sopra.

33
Ibi, p.184.

23
5. Esempi di applicazioni pratiche

5.1 L’esperienza di G. Ferraro

5.1.1 Introduzione

In ambito italiano un lavoro fondato sui principi della Philosophy for Children è stato
svolto dal filosofo G. Ferraro. Va però sottolineato come i metodi e le idee di Ferraro,
per quanto ne siano ovviamente ispirati, si distanzino per alcuni fondamentali elementi
da quelli classici portati avanti da Lipman e i suoi collaboratori.
In primo luogo va evidenziato come le lezioni tenute dal filosofo non si svolsero in
orari e ambienti propriamente scolastici: furono infatti organizzati cinque incontri
pomeridiani a cadenza settimanale ai quali parteciparono volontariamente insegnanti e
alunni provenienti da diverse classi della scuola elementare San Felice di Cancello34,
nella periferia di Caserta. Ferraro rimarca più volte nel corso dell’opera, impostata
sottoforma di diario dell’esperienza, anche grazie ai contributi degli alunni e dei docenti
coinvolti, come questa diversità di età e sesso fu un elemento di assoluta importanza e
stimolo per il gruppo35 e come mai si ci si trovò davanti a situazioni di mancanza di
rispetto o a pretesa di superiorità di alcuni membri sugli altri36.
Altro elemento di differenza con il paradigma della Philosophy for Children risiede
nel fatto che l’esperienza non fu concepita come un nuovo modello da contrapporre a
quello tradizionale per condurre ad un miglioramento delle capacità critiche dei
bambini, bensì come un ulteriore stimolo da proporre ad allievi e docenti e da affiancare
al lavoro regolarmente svolto in classe, senza alcuna presunzione di sostituirsi ad esso.
Ferraro partì quindi dall’idea di presentare la filosofia ai bambini in termini e
modalità che potessero attrarli e invogliarli ad un ampliamento della loro concezione del

34
Più precisamente parteciparono le classi II, III, IV e V elementare e i rispettivi docenti e, per lo meno in
fase preliminare e organizzativa, il direttore scolastico.
35
Nel momento del dibattito e della produzione si notò come, ad esempio, uno stesso elemento veniva
visto come stimolante e tranquillizzante dalle bambine mentre creava paura nei bambini o viceversa.
36
Cfr. G. FERRARO, La filosofia spiegata ai bambini, Filema, Napoli 20002, pp.26-27.

24
mondo e della vita più in generale. Questo va collegato alla visione che l’autore ha della
filosofia stessa:

La filosofia non è quell’arte o disciplina dell’imparare a pensare, un esercizio


logico a prova d’identità e contraddizioni per approdare infine al “pensiero
critico”. La filosofia è imparare a vivere, la sua arte e il suo sapere sono
applicati a svolgere una logica materiale, una grammatica d’esistenza.37

Questo, unito alla voglia dei bambini di scoprire i significati di tutto ciò che li
circonda, portò Ferraro alla scelta dell’argomento su cui si sarebbero svolte le sue
lezioni: gli elementi naturali. L’interesse per gli elementi naturali è evidente fin dai
primi filosofi greci ma, secondo l’autore, questa attenzioni non è mai stata spinta da una
reale indagine sul principio primo e originario quanto piuttosto dalla ricerca di un
elemento capace di creare equilibrio all’interno del mondo. Alla luce di ciò, e con l’idea
di far coincidere l’inizio del percorso evolutivo della filosofia occidentale con l’inizio
della crescita personale dei bambini coinvolti, la scelta dell’argomento sembrò quasi
l’unica possibile.

5.1.2 Metodo

Ferraro decise di organizzare cinque lezioni pomeridiane, una ogni settimana; i classici
quattro elementi, ad ognuno dei quali fu associato un filosofo ad esso collegato38,
furono affrontati ognuno in un incontro differente; fu inoltre affidato ai docenti il
compito di allestire la sala dove si svolgevano tali incontri con materiali collegati
all’elemento del giorno (da oggetti concreti a filmati dove alle immagini si affiancavano
suoni di varia natura, a semplici disegni fatti dai bambini durante le normali lezioni).
L’elemento trattato nel quinto colloquio non fu rivelato né ai bambini né ai docenti da
parte del filosofo in modo da creare un interesse e una curiosità tali da portare l’intero
gruppo alla formulazione di ipotesi su quale esso potesse essere; solo dopo aver
ascoltato ed analizzato le opinioni di tutti su questo misterioso quinto elemento Ferraro

37
G. FERRARO, op. cit., p.13.
38
L’acqua fu quindi legata alla figura e alla filosofia di Talete, il fuoco a quella Eraclito, la terra a quella
di Empedocle e l’aria a quella di Anassimene.

25
decise di rivelare l’argomento che sarebbe stato trattato, ovvero l’essere, accompagnato,
ovviamente, da Parmenide.
Questi incontri seguirono sempre un metodo preciso basato su determinati passaggi
con l’obbiettivo di conoscere e fare proprio l’elemento trattato con un interesse che
potremmo definire filosofico nel senso più genuino del temine. All’inizio di ogni
riunione i bambini, precedentemente divisi in quattro gruppi, uno per ogni elemento,
venivano fatti entrare nella sala che, come detto, era stata adeguatamente preparata per
l’occasione, e iniziava così la scoperta dell’elemento attraverso l’osservazione di ciò che
li circondava. La preparazione dell’aula fu essenziale per stimolare negli studenti quello
stupore e quella curiosità che sono il cuore stesso della ricerca filosofica.
Ad ogni gruppo veniva poi assegnato un lato della stanza in modo tale da formare
un cerchio all’interno del quale stava il professore che, con un libro di filosofia in
mano39, svolgendo il ruolo del saggio, analizzava brevemente l’elemento con l’ausilio,
da un lato, della figura e delle parole del filosofo ad esso collegato (particolarmente
interessanti risultarono gli aforismi di Eraclito e la figura di Talete) e, dall’altro, del
ricorso a racconti e miti (esemplare è il mito di Prometeo riguardo l’elemento del fuco).
Finita questa breve quanto interessante spiegazione, durante la quale tutti i
partecipanti erano invitati ad esporre e confrontare dubbi, domande o considerazioni
personali, iniziava il momento del gioco: i quattro gruppi partecipavano a diversi
esercizi-giochi sull’elemento dell’incontro, quali, ad esempio, riconoscere i rumori che
venivano loro fatti ascoltare e collegarli al contesto reale (come ad esempio riconoscere
ed identificare il rumore del mare piuttosto che lo scoppiettare del fuoco in un camino).
Alla fine del gioco al gruppo con il punteggio migliore veniva assegnato l’elemento
della giornata (il tutto era organizzato in modo tale che ogni gruppo ricevesse uno e un
solo elemento, chi aveva già vinto partecipava comunque al momento del gioco ma
senza la possibile “ricompensa”); la “conquista mentale e conoscitiva” dell’elemento da
parte dei bambini aveva così una controparte più concreta e visibile per loro.
Si arrivava dunque all’ultima fase delle riunioni, quella produttiva. In questo
momento ogni studente aveva il compito di creare uno scritto, sotto forma di poesia o
breve racconto, sull’argomento trattato; non era richiesta una produzione scientifica e
argomentata poiché non era questo il tipo di conoscenza fornita, ma piuttosto un’opera
39
Ferraro tende a sottolineare come, nonostante l’uso reale del libro fu quasi nullo, il mostrare ai bambini
questo simbolo così forte e denso di significato fosse essenziale nel suscitare interesse e attenzione.

26
che legasse quell’elemento alle emozioni e ai sentimenti personali ed intimi che esso
suscitava in loro.

5.1.3 Conclusioni e valutazione dell’esperienza

Le reazioni a questa pratica furono unanimemente positive, i docenti da un lato e gli


allievi dall’altro videro subito sparire le iniziali preoccupazioni e ansie in favore di una
sensazione chiara e tangibile di crescita personale e collettiva grazie sia alla novità della
materia trattata sia ad un nuovo modo di relazionarsi tra loro e con l’educazione stessa.
Il modo migliore per mettere in luce tutto ciò ci è sembrato riproporre i pensieri che
i docenti che parteciparono a questa innovativa esperienza espressero nelle loro
relazioni sul lavoro svolto.

Gli incontri si rivelano interessanti, assisto ad una partecipazione più che


attiva di tutti (docenti e alunni), sembra svolgersi tutto in una grande armonia
e con grande dinamismo: l’alternarsi di voci e silenzi; musiche classiche e
non; ombre, penombre, luci; effetti sonori. Ascolto e produzioni mantengono
attivi i bambini e noi, tutto s’intreccia e si fonde a meraviglia. I bambini
eseguono alla lettera, rispondono ad ogni iniziativa con impegno ed
entusiasmo e, a dire il vero, con spigliatezza e precisione. (Nicolina Criscillo)
[…]
Invito alla filosofia: l’importanza di questa esperienza mi pare che non
consista solo in ciò che gli alunni hanno appreso di filosofia, quanto piuttosto
nell’aver suscitato nei bambini un clima di curiosità e di aspettativa
grandissime. […] Qualche genitore, alla fine del corso, ha mostrato un vivo
sollievo: «Non ne potevamo più. A casa non parlava d’altro!». (Maria Celeste
Zaccaria)
[…]
Nel momento in cui si era cominciato a parlare del “progetto filosofia” da
realizzare nel nostro plesso, io ero abbastanza scettica sul risultato che si
poteva conseguire, ma nel contempo ho subito accettato di parteciparvi spinta
forse più da curiosità che da vera convinzione.[…] La curiosità ha ceduto il

27
posto all’ansia per il nostro primo incontro. […] Negli incontri successivi
però, l’ansia svanì ed io mi sentivo sempre più coinvolta. (Clementina Speri)
[...]
I bambini, guidati dal professore, parteciparono a tutte le attività proposte
(visive, olfattive e auditive) con un interesse sorprendente riuscendo ad
esprimere sensazioni e riflessioni che sinceramente non immaginavo che
possedessero. (Angelina di Nuzzo)40

5.2 Il progetto P.E.C.A.

P.E.C.A. è la sigla che sta per Philosophy and European Contemporary Art, si tratta di
un progetto europeo che ha coinvolto tra il 1996 e il 1998 la Spagna, la Scozia, l’Italia e
il Belgio. Il progetto era finalizzato a promuovere un’educazione estetica che
avvicinasse gli studenti all’arte contemporanea, utilizzando la metodologia tipica della
Philosophy for Children. L’unica differenza rispetto all’impostazione classica di questa
pratica filosofica consisteva nell’uso di materiali diversi dai testi narrativi come stimolo
iniziale per il dibattito: in questo caso, infatti, furono utilizzati anche quadri o domande
proposte da bambini dei paesi partners su delle opere d’arte.
Attraverso il dibattito all’interno della comunità di ricerca si cercò di promuovere
nei bambini lo sviluppo di un pensiero critico sull’arte, lo scopo fu quello di stimolarli a
porsi di fronte all’opera in modo autonomo, riuscendo a cogliere e interpretare anche i
significati nascosti. Le nazioni coinvolte concordarono insieme le linee di lavoro
condivise (i fini e le metodologie da utilizzare durante gli incontri), ciascuna scuola
individuò poi un percorso specifico. Il percorso della scuola italiana41 fu intitolato
“Pensieriamo l’arte” e si concentrò sulla natura delle opere d’arte. Alle discussioni di
natura estetica seguirono dei laboratori in cui i bambini vissero esperienze dirette di
creazione artistica (a loro volta, le attività laboratoriali offrirono nuovi stimoli per il
dibattito).
La comunità di ricerca fu guidata da facilitatori e da coach: gli insegnanti che
parteciparono ad almeno tre o quattro sessioni di formazione poterono svolgere il ruolo
40
G. FERRARO, op. cit., pp.36-46.
41
Si trattava di una scuola elementare di Rovigo, che ha collaborato con le classi dell’ultimo anno del
liceo socio-psico-pedagogico della stessa città.

28
di facilitatori, coloro che parteciparono ad almeno una sessione poterono proporsi come
coach, il cui compito era quello di organizzare il lavoro di discussione a livello teorico
svolgendo poi una funzione di controllo. La formazione, così come in molti altri casi,
riguardò non solo le basi teoriche della pratica filosofica, ma anche la possibilità di
sperimentare attivamente la partecipazione ad una comunità di ricerca.
Durante il primo anno del progetto gli studenti si concentrarono sul rapporto delle
opere pittoriche con la realtà: ai bambini fu assegnato il compito di riprodurre dipinti
famosi, individuare le opere che li colpivano maggiormente, partecipare ad alcune
mostre e proporre domande, problemi, riflessioni durante il dibattito in classe. Il
secondo anno, invece, la comunità di ricerca fu coinvolta in laboratori più lunghi e
frequenti, finalizzati all’ideazione e alla creazione di opere d’arte. Le discussioni furono
inserite all’interno dell’agenda di classe; ve ne riportiamo qui un esempio che ci è parso
particolarmente interessante per il nostro lavoro42:

Giacomo: Secondo me bisognerebbe chiedersi cosa c’è di reale nel quadro.


Andra: Un quadro sembra sempre un po’ reale e un po’ fantastico.
Elena: Per me è importante capire che cosa ti stupisce in un quadro.
Marco: In fondo non c’è niente di reale nel quadro, è sempre una fantasia del
pittore.
Paola: Lui vede la realtà sempre a modo suo.
Insegnante: Vorreste dire che è tutto fantastico?
Diego: Per me no. L’altra volta abbiamo visto un quadro che rifaceva la
realtà uguale.
Luca: Bisogna capire che cosa significa il quadro, che cosa voleva dire il
pittore.
Diego: Questo però è un altro discorso.
Giacomo: Invece secondo me si possono mettere insieme queste cose, perché
che cosa significa è legato a che cosa c’è di reale, di fantastico, di un po’
reale e un po’ fantastico.
Andrea: Sono d’accordo!

42
L’argomento di discussione riprende infatti in qualche modo quanto emerso durante il cafè philò del
31/10/2013.

29
Insegnante: Avete capito tutti la proposta di Giacomo, di mettere insieme le
cose? Se ho capito bene, per lui che cosa significa un quadro dipende da come
il pittore rappresenta le cose.
Marco: No, non sono d’accordo, perché il significato al quadro lo do io.
Diego: Non è mica vero, il significato vuol dire “che cosa è” e basta.
Giacomo: Anche per me.
Elena: Per me “che cosa significa” vuol dire, ad esempio, se vuoi dire
“paura”, oppure “speranza”, c’entra il sentimento…
Insegnante: A quanto pare ci sono diversi modi di intendere il significato di
un’opera…
Elena: Io ne avrei un altro, per me “cosa significa” vuol dire che cosa vuol
dire una cosa rispetto a un’altra, le relazioni che ci sono nel quadro e quelle
che faccio io.43

Dal dialogo sembra che i bambini siano riusciti a cogliere questioni filosofiche
rilevanti, rimanendo sempre disponibili nei confronti di posizioni diverse dalla propria.
L’insegnante aveva il ruolo di facilitare la discussione identificando i problemi, offrendo
spunti e provocazioni, promuovendo un atteggiamento democratico all’interno della
comunità di ricerca. All’interno del progetto fu inserita anche un’attività di
monitoraggio e valutazione. In questo caso furono individuati due gruppi: uno
sperimentale (36 bambini di una quarta elementare) e uno di controllo (100 bambini
provenienti da scuole e classi diverse). A tutti furono proposti pre-test e post-test relativi
ai livelli di comprensione estetica, alle competenze argomentative, al ruolo
dell’insegnante-facilitatore. I dati che riguardavano il livello di comprensione estetica
furono analizzati confrontando studenti di età e gradi scolastici diversi (per le
elementari è stato appunto considerato il gruppo sperimentale), la valutazione risultò
estremamente positiva.

I dati mostrano un incremento nella qualità delle concezioni possedute dai


bambini del gruppo sperimentale, addirittura per alcuni aspetti più avanzate

43
AA.VV., op. cit., p.321.

30
rispetto a quelle mostrate dai soggetti di scuola superiore, in particolare di
quelli frequentanti il liceo artistico.44

Per quanto riguarda le capacità di pensiero, si svolsero vere e proprie analisi


qualitative dei protocolli di discussione per evidenziare l’approfondimento delle
argomentazioni a favore delle teorie analizzate dalla comunità di ricerca.45 In questo
caso si arrivò alla conclusione che l’interazione raramente mostrava la forma semplice
“offerta-soddisfazione”, solitamente chi proponeva l’offerta era poi spinto a modificarla
alla luce delle considerazioni proposte dagli altri bambini: in questo modo si “co-
costruiva” criticamente una conoscenza attraverso il confronto democratico.
L’analisi del facilitatore portò inoltre a identificare alcuni ruoli da lui svolti46:

1. Facilitatore
2. Provocatore
3. Modulatore
4. Monitor
5. Supporto

Si cercò, infine, di monitorare l’attività italiana: ai bambini fu proposto un questionario


per verificarne il livello di consapevolezza, di soddisfazione del progetto e di interesse
per l’arte. Per quanto riguarda il dibattito, 10 bambini su 36 affermarono di non aver
apprezzato discutere; per quanto riguarda il laboratorio, 4 bambini su 36 si mostrarono
insoddisfatti; inoltre solamente 10 bambini su 36 dimostrarono di aver realmente
compreso l’importanza di discutere sull’arte.

44
Ibi, p.326.
45
Lo strumento utilizzato nello specifico è stato creato da Marina Santi unificando le modalità di analisi
del discorso del test di Toulmin e del test di Edmondson.
46
È auspicabile che poco alla volta siano i bambini stessi a ricoprire questi ruoli.

31
Bibliografia

 AA.VV., Philosophy for Children: un curricolo per imparare a pensare, a cura di


M. SANTI, Liguori, Napoli 2005.

 G. D’ADDELFIO, Filosofia per bambini ed educazione morale, La Scuola,


Brescia 2011.

 G. FERRARO, La filosofia spiegata ai bambini, Filema, Napoli 20002.

 P. HADOT, exercices spirituels et philosophie antique, Etudes augustiniennes,


Paris 1981; tr. it. di A. M. MARIETTI, Einaudi, Torino 1988.

 M. LIPMAN, Thinking in Education (second edition), Press Syndicate of


University of Cambridge, Cambridge 20032; tr. it. di A. LEGHI, Vita e Pensiero,
Milano 2005.

 M. Lipman, Pratica filosofica e riforma dell’educazione, disponibile su


www.filosofare.org.

 M. SANTI, Ragionare con il discorso. Il pensiero argomentativo nelle discussioni


in classe, La Nuova Italia, Firenze 1995.

32
Indice

1. Introduzione ai concetti chiave ................................................................................. 2


1.1 Tripartizione del pensiero ................................................................................... 2
1.2 La comunità di ricerca ........................................................................................ 5
2. Proposte concrete...................................................................................................... 7
2.1 Il Curriculum ...................................................................................................... 7
2.2 Il ruolo dell’insegnante ....................................................................................... 9
3. Il metodo di valutazione della pratica..................................................................... 12
4. La proposta di G. D’Addelfio ................................................................................. 13
4.1 Philosophy for Children ed educazione morale................................................ 13
4.2 Un’esperienza di ricerca e formazione ............................................................. 21
5. Esempi di applicazioni pratiche .............................................................................. 24
5.1 L’esperienza di G. Ferraro ................................................................................. 24
5.1.1 Introduzione ............................................................................................... 24
5.1.2 Metodo ....................................................................................................... 25
5.1.3 Conclusioni e valutazione dell’esperienza ................................................ 27
5.2 Il progetto P.E.C.A............................................................................................ 28
Bibliografia ..................................................................................................................... 32

33

Potrebbero piacerti anche