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I 3 principi di elaborazione funzionano e si attivano in maniera automatica, dunque senza nemmeno rendercene conto, e regolano il
nostro comportamento. Partiamo dal fatto che per comprendere a pieno una persona bisogna sforzarsi a far valere il principio di
elaborazione della Profondità. Secondo Asch, la percezione totale di un’altra persona non è la semplice somma dei concetti utilizzati
per descriverla. Asch spiega che le persone elaborano un principio di coerenza, cioè tendono ad organizzare le informazioni
seguendo una schema formale ed emotivo coerente. In un suo esperimento, Asch fece mise davanti ai suoi studenti due liste di
aggettivi identiche tranne che per una parola che avrebbero potuto descrivere una persona: nella prima lista c’era scritto “intelligente,
abile, laborioso, caldo, pratico, prudente”, nella seconda lista al posto di caldo mise freddo. Questo singolo cambiamento produceva
una notevole differenza: le opinioni date dalla prima lista descrivevano una persona saggia, generosa e di buon carattere, mentre nella
seconda le opinioni diventarono negative. In un secondo esperimento notò anche che l’ordine con cui gli aggettivi erano messi a
disposizione degli alunni aveva un impatto fondamentale sulle conseguenti opinioni: notò che si prestava maggiore considerazione alla
prima parola dell’elenco (effetto primacy) o all’ultima (effetto recency), dimostrando che le persone non aspettano di avere in mano
tutte le informazioni prima di integrarle fra loro. Asch elabora anche il concetto di modello configurazionale: le persone elaborano
delle proprie teorie implicite di personalità insite in se stessi estendendole agli altri, dunque, uniscono fra loro le informazioni sociali
per poter formare un modello globale.
Cosa succede nella realtà?
Le informazioni non vengono trasmesse esclusivamente con le parole, ma anche tramite dati sensoriali (sguardi, suoni, odori), che
cambiano radicalmente le nostre impressioni e questi dati sensoriali hanno implicazioni dirette nella personalità.
Le prime impressioni
La formazione di un’impressione è un processo attraverso il quale organizziamo le informazioni relative ad un individuo in una
struttura coerente di conoscenze.
Le prime impressioni si basano su:
● l’aspetto fisico
● il modo di comportarsi
e crediamo che queste siano caratteristiche di personalità.
Riguardo le prime impressioni sull’aspetto fisico si creano delle convinzioni:
● ciò che è bello è anche buono
● ci si aspetta che le persone più attraenti siano più coriali, generose e socialmente dotate delle persone meno attraenti
● le persone più attraenti hanno più probabilità di essere aiutati da sconosciuti
● i maschi adulti con un viso più infantile sono considerati più cordiali e gentili rispetto agli uomini con una faccia più matura.
Inoltre, esiste anche la creazione di un comportamento coerente con l’impressione: la cosiddetta profezia che si autoavvera, processo
mediante il quale le aspettative che una persona nutre nei confronti di un’altra persona diventano realtà, in quanto sollecitano
atteggiamenti in grado di confermare:se gli insegnanti credono che un bambino sia meno dotato, lo tratteranno, anche inconsciamente,
in modo diverso dagli altri; il bambino interiorizzerà il giudizio e si comporterà di conseguenza; si instaura così un circolo vizioso per
cui il bambino tenderà a divenire nel tempo proprio come l'insegnante lo aveva immaginato. Succede a causa dell’etichettamento, che
fa si che la persona si comporti come l’etichetta che gli è stata posta.
Teoria dell’attribuzione causale
In un video di animazione della Pixar, i movimenti di due lampade da ufficio, una grande e una piccola, sono accompagnati da suoni
simili a voci. Sebbene siano oggetti di arredamento le azioni fanno pensare che la lampada più grande sia un genitore e quella più
piccola un figlio vivace, attribuendo a queste immagini una sfera umana ed emozionale. Questa è la teoria dell’attribuzione causale,
che fornisce un insieme di idee che fanno si che si creino inferenze riguardo alle cause di azioni in situazioni comuni in cui si è di
fronte a comportamenti umani e si occupa delle spiegazioni del nostro comportamento e di quello di altri. Per comprendere le ragioni
di un comportamento bisogna individuare qual è la natura della causalità distinguendo:
● cause interne o personali, cioè le caratteristiche interne alla persona, come i suoi atteggiamenti o le sue caratteristiche di
personalità
● cause ambientali o esterne, cioè fattori esterni, mutevoli e casuali
Teoria dell'inferenza corrispondente
Jones e Davis sostenevano che gli osservatori imparano molto dai comportamenti che forniscono informazioni riguardo le
caratteristiche personali degli attori. Hanno chiamato inferenza corrispondente il processo di supposizione delle disposizioni a
partire dal comportamento, poichè gli osservatori attribuiscono inferenze ad intenzioni che corrispondono alle caratteristiche del
comportamento: ad esempio, se un amico si compra una macchina fotografica, l'inferenza corrispondente che attribuiremo all’azione
di comprarsi la macchina fotografica è quella di attribuire al nostro amico la passione per la fotografia.
Quando l’inferenza corrispondente è giustificata
● quando il comportamento viene scelto liberamente dall’individuo, quindi la persona decide di mettere in atto un determinato
comportamento perché rispecchia la sua personalità
● il comportamento ha degli effetti che lo distinguono da altri corsi d’azione, quindi il comportamento avviene da una
caratteristica individuale
● il comportamento è imprevisto anziché previsto o tipico.
L’errore di corrispondenza (o bias)
E’ la tendenza ad attribuire inferenze su caratteristiche personali sulla base di un comportamento osservato anche quando l’inferenza è
ingiustificata, perché esistono altre possibili cause che possono spiegare quel comportamento, ad esempio fattori situazionali. Avviene
perché modificare un’inferenza iniziale, e quindi automatica, richiede sforzo cognitivo. Però i biase s di corrispondenza presentano dei
limiti:
● quando si ha una motivazione che ci spinge a raccogliere informazioni il bias di corrispondenza si riduce
● Il bias cambia anche in base alla cultura: ad esempio, è meno presente nelle culture orientali perchè sono più portati a pensare
che le azioni siano cause di motivazioni indipendenti dalla volontà personale
Sebbene la teoria dell’inferenza corrispondente sia stata pensata per applicarla a situazioni in cui gli attori sono liberi di agire, un
esperimento di Jones e Davis mise in dubbio tale assunto. Ad un gruppo di studenti americano fu chiesto di valutare l’opinione di uno
studente che scrisse un saggio filo castrista: a un gruppo di partecipanti fu detto che l’autore aveva scelto liberamente cosa scrivere,
mentre ad un altro gruppo fu chiesto esplicitamente di scrivere argomentazioni a favore di Castro. Secondo la teoria dell’inferenza
corrispondente, i partecipanti all’esperimento avrebbero dovuto ignorare il contenuto del saggio al momento di inferire gli
atteggiamenti dell’autore. Nonostante ciò, i partecipanti tendevano a concludere che gli atteggiamenti dell’autore fossero a favore di
Castro anche quando la posizione sostenuta nel saggio poteva essere spiegata da fattori situazionali e malgrado all’epoca dello studio
gli studenti americani fossero fortemente anticastristi. I ricercatori conclusero che le persone tendono a sovrastimare le cause personali
del comportamento e a sottostimare quelle situazionali, fenomeno definito bias di corrispondenza
Il bias attore-osservatore
Confronta le attribuzioni che le persone compiono su se stesse e sugli altri. Si è registrato che quando dobbiamo spiegare il nostro
comportamento tendiamo a giustificarlo prendendo in considerazione situazioni estreme o esterne alla nostra volontà; mentre, quando
si tratta degli altri tendiamo a considerare fattori interni alla persona. Vi sono due spiegazioni a questi atteggiamenti:
● quando si parla di noi stessi abbiamo una vasta gamma di informazioni che ci permettono di spiegare i nostri comportamenti
● quando si parla degli altri tendiamo a focalizzarci maggiormente sulla persona che sulla situazione
Il bias al servizio di sè
Rappresenta una distorsione degli avvenimenti, motivata dagli interessi personali del soggetto: invece di interpretare in maniera
neutrale l’evento, si tende a interpretarlo in termini favorevoli per noi o per il nostro gruppo, sperimentando gli avvenimenti in modo
più positivo. Ad esempio, se dopo aver sostenuto un esame questo viene superato brillantemente, si tenderà a concludere che il
risultato riflette le proprie abilità personali (bias di accrescimento del sé); al contrario, se invece l’esame va molto male si tenderà a
cercare la causa del fallimento per cause esterne alla propria possibilità (bias di protezione del sé).
Attribuzioni basate sulle informazioni di covarianza
Esistono anche attribuzioni basate sulle informazioni di covarianza: se una condizione si presenta ad un soggetto quando ha luogo un
certo evento e, al contrario, non si presenta quando non avviene l’evento, la persona tende a concludere che la condizione causa
l’evento, e avvengono secondo tre principi:
● regola della distintività, specificità del comportamento rispetto alla situazione
● regola del consenso, maggiore è il consenso rispetto a questo stimolo, maggiore è la causalità attribuitagli
● regola di coerenza, maggiore è la costanza con cui un certo stimolo produce una risposta, maggiore è la facilità con cui si
crede siano collegati
Attribuzioni basate sulle informazioni di covarianza
Col tempo diversi studi hanno dimostrato che le persone non tendono a raccogliere spontaneamente le informazioni anche quando
queste sono disponibili. Infatti, sono più portate a sapere quali aspetti dell’attore, della situazione o dell’oggetto hanno portato al
realizzarsi di un determinato evento.
Teoria delle attribuzioni
Si chiamano attribuzioni quei processi secondo i quali un individuo tende a voler dare una spiegazione o interpretare gli eventi e le
situazioni che lo circondano. Di conseguenza, si parla di autoattribuzioni quando l’individuo fornisce delle spiegazioni riguardo le
proprie azioni e in queste spiegazioni sono sottese una serie di concettualizzazioni riguardo se stessi e il rapporto con il mondo. Le
attribuzioni hanno delle dimensioni causali:
● locus interno o esterno a noi stessi a cui attribuiamo ciò che ci accade
● stabilità/instabilità, che dipende dal fatto che le cause possono essere temporanee o perduranti nel tempo
● controllabilità/incontrollabilità, cioè se possono essere modificate dalla nostra volontà o se sono cause incontrollabili
Tipi di stili attributivi
ATTRIBUZIONE stabile instabile
Lo stereotipo
E’una rappresentazione cognitiva o impressione di un gruppo sociale formata associando a quel gruppo sociale particolari
caratteristiche ed emozioni. Deriva dalla categorizzazione sociale, cioè il processo mediante il quale raggruppiamo cose o persone
sulla base di caratteristiche condivise. Ci serve per decodificare il mondo ed attribuirgli significato. Si attua quando le persone
vengono percepite come rappresentanti di gruppi sociali, anziché come individui a sé stanti. Può avere:
● vantaggi, perchè:
1. ci consente di padroneggiare il nostro ambiente e di funzionare in maniera efficiente nella società
2. ci consente di ignorare le informazioni irrilevanti
● limiti, perchè:
1. tende ad omologare le persone e le mie rende più simili di quanto non siano
2. si sopravvaluta l’uniformità dei componenti di un gruppo e si trascura la diversità
3. si esagera la differenza tra gruppi
Se l’attivazione è veramente un processo automatico, ciò significa che in qualsiasi momento la presenza di indizi appropriati dovrebbe
portare inevitabilmente all’attivazione del relativo stereotipo. Questo empiricamente accade nel cosiddetto paradigma di priming:
quando un costrutto è innescato in memoria e reso temporaneamente accessibile, il processo è chiamato priming e lo stimolo che lo ha
portato in memoria si chiama prime. Una volta che un costrutto è attivato, i concetti associati diventano maggiormente accessibili,
anche se non sono stati attivati direttamente dal prime. E’ da notare che alcuni concetti, come ad esempio idee politiche molto forti,
sono costantemente attivi (per esempio grazie alla continua esposizione di queste nella sfera mediatica), e trovandosi in uno stato
permanente di elevata attivazione sono abitualmente più accessibili e vengono chiamati concetti cronicamente accessibili.
Il processo spontaneo di codifica
Molti studi hanno confermato l’autenticità nell’attivazione degli stereotipi: diversi anni fa un noto giornale britannico (the guardian)
lanciò una campagna pubblicitaria in televisione in cui viene mostrato uno skinhead che corre a gran velocità verso un uomo d’affari.
Quale potrebbe essere la conclusione del video? A questa domanda la maggior parte delle persone risponderebbe che lo skinhead
aggredisce l’uomo d’affari, quando in realtà lo spinge prima che un ponteggio gli crolli addosso. Questo giungere a conclusioni
affrettate è dato dal processo spontaneo di codifica: si vede uno skinhead e subito si attiva il relativo stereotipo (violento, anarchico).
Il processo si riferisce al modo in cui traduciamo quello che vediamo in un formato pronto per essere conservato in memoria.
Da qui deduciamo che le caratteristiche portano alla formazione di uno stereotipo sono:
● l’aspetto fisico
● gli interessi
● le attività
● le occupazioni preferite
● gli obiettivi tipici
Euristiche cognitive
Sono scorciatoie mentali che utilizziamo per interagire con gli altri, partendo da alcune informazioni che sono particolarmente facili
da reperire e che nella nostra mente sono associati a particolari schemi o stereotipi. Sono:
● euristica della rappresentatività: una scorciatoia mentale basata sulla tipicità di un fatto esemplare che ci aiuta ad attribuire
velocemente un significato a una grande quantità di informazioni. Ad esempio, guardando una macchina costosa ci viene
molto semplice attribuire una grande ricchezza al guidatore. Dunque, la gente attribuisce ad ogni persona il ruolo stereotipico
che possiede. Uno dei fattori che influenza questo comportamento è la probabilità di base: la probabilità statisticamente che il
guidatore di una macchina costosa sia ricco ci induce a pensare che sia così. Provare a non farlo implica sforzo cognitivo
● euristica della disponibilità il giudizio si basa sulla facilità di richiamo delle informazioni. Pinker nel 2002 suggerisce che la
società di oggi è considerata più violenta rispetto a un tempo in quanto la sfera mediatica e le agenzie di stampa non fanno
altro che fornire immagini di violenza o di guerra e dunque a causa della continua esposizione a questo tipo di immagini si è
indotti a pensare ciò.
● euristica di ancoraggio/aggiustamento: si tratta di processi di stima di un qualche valore a partire da un valore iniziale,
rispetto al quale viene accomodato il nuovo esemplare.
Gli effetti del priming sul comportamento
Gli studi relativi al priming hanno dimostrato come l’attivazione degli stereotipi, in un contesto apparentemente scollegato, possa
persistere e avere effetti non intenzionali sull’interpretazione del comportamento. Bargh, Chen e Burrows propongono che questi
effetti si possono estendere anche alle risposte comportamentali vere e proprie. Hanno sottoposto a verifica in uno studio relativo
all’attivazione dello stereotipo dell’anziano. I partecipanti venivano sottoposti a un prime relativo alla categoria degli anziani (lettura
di parole che facevano riferimento all’anziano tipo “rughe” o “anziano”, ma senza fare riferimento alla lentezza) oppure a uno neutro,
e successivamente veniva misurata la velocità della loro camminata. Gli autori dell’esperimento ipotizzavano che i partecipanti per i
quali era stato attivato lo stereotipo avrebbero camminato più lentamente rispetto a quelli a cui era stato attivato un prime neutro.
Questo dimostra che inizialmente abbiamo bisogno di un input (lettura di parole associate alla vecchiaia); a questo input corrisponde
un output (il programma motorio ci spinge a camminare più lentamente). Tra input e output emergono tre elementi chiave
responsabili della messa in atto del comportamento:
● i tratti, che sono aggettivi usati per descrivere classi di comportamento generali. Vengono solitamente appresi durante
l’infanzia quando veniamo lodati dai genitori per essere stati educati o puniti per aver fatto cattive azioni
● gli obiettivi, azioni dotate di uno scopo finale valutato positivamente e vengono appresi sperimentando le conseguenze delle
nostre azioni
● l’effetto di tratti e obiettivi è mediato dalle rappresentazioni comportamentali, l’innesco nella nostra mente dei
comportamenti dati dagli aggettivi (l’aggettivo “lento” produce effetti comportamentali concreti, come il perdere tempo)
Bloccare l’attivazione degli stereotipi
L’attivazione degli stereotipi può essere moderata da un’ampia gamma di fattori:
● le convinzioni individuali sul pregiudizio
● l’adesione a una visione egualitaria del mondo
● la capacità attentiva
Dunque, l’attivazione delle categorie sembra essere dipendente dagli scopi e dall’interazione tra fattori cognitivi, motivazionali e
biologici. In conclusione, possono affermare che esistono prove della possibilità di evitare gli stereotipi. Le persone sono in grado di
esercitare un certo controllo sugli stereotipi, ammesso che:
● siano consapevoli delle possibili influenze degli stereotipi
● che abbiano sufficienti risorse cognitive per esercitare questo controllo
● e che siano sufficientemente motivate a rispondere in modo non stereotipico
Per capire come si attivano gli stereotipi prendiamo in considerazione il modello del continuum: tutte le percezioni e valutazioni che
abbiamo degli altri ricadono all’interno del continuum della formazione delle impressioni, ai cui poli si trova da un lato le valutazioni
basate sulla categoria e dall’altro le valutazioni individualizzanti. Sulla base di ciò, il modello afferma che:
● le risposte basate sulla categoria hanno più effetti rispetto a quelle individualizzanti
● il movimento lungo el continuum in direzione delle risposte individualizzanti dipende da fattori motivazionali, attentivi e di
interpretazione
Secondo questo modello, quando una persona incontra una persona target, attiva una categorizzazione iniziale, spontanea, cioè la
categorizza come membro di un gruppo sociale. Si ha uno spostamento verso una categorizzazione individuale solo se il target ha una
particolare rilevanza per noi:
● il fatto di dipendere dal target
● se dobbiamo giustificare le nostre impressioni
● se ci viene data l’indicazione di essere più accurati
Sostituire i pensieri stereotipici con risposte egalitarie
Devine elaborò il modello dissociativo degli stereotipi, col quale ipotizzò che i processi automatici e quelli controllati potrebbero
essere dissociati, ovvero che l’attivazione automatica di uno stereotipo non porti inevitabilmente a risposte stereotipiche: quando le
persone sono motivate a non essere pregiudizievoli e il loro comportamento viola questi standard, si sentono in colpa, rivolgono
l’attenzione sul Sé e si sforzano di ridurre questa discrepanza, affinché non si ripeta.
La soppressione degli stereotipi
Quando cerchiamo di sopprimere un pensiero indesiderato, hanno luogo contemporaneamente due processi:
● processo operativo intenzionale, si inizia a cercare pensieri che possano distrarci da ide spiacevoli
● processo ironico di monitoraggio, si va alla ricerca di tracce di pensieri indesiderati
Gli stereotipi possono essere superati attraverso la correzione: se crediamo che i nostri pensieri siano stati influenzati dagli stereotipi si
possono correggere gli effetti.
Il legame tra percezione sociale e comportamento sociale non è inevitabile
● le ricerche più recenti sul ruolo che gli stereotipi hanno nell'attivazione di un comportamento ad essi connesso ci
permettono di avere una visione più bilanciata
● ad es. entrano in gioco come fattori moderatori sia fattori
interni alla persona che caratteristiche dell’ambiente
Perché e quando preferire gli stereotipi
● se il tempo non è sufficiente e bisogna prendere una decisione rapidamente
se le informazioni a nostra disposizione sono eccessivamente complesse per
essere elaborate adeguatamente
● l’eccessiva attivazione emotiva accresce la nostra dipendenza dagli stereotipi
● quasi tutto ciò che diminuisce la capacità cognitiva di una
persona può aumentare l'effetto degli stereotipi sul suo giudizio
IL SÉ (CAPITOLO 4)
Come formiamo un’opinione su noi stessi? Come arriviamo a pensare a che siamo o cosa vogliamo? Innanzitutto un concetto
fondamentale è quello di concetto di sé, cioè l’insieme delle condizioni che un individuo prova verso le proprie abilità personali; si
compone nel tempo e si basa sull’interpretazione di tanti tipi di informazioni). Gli stessi processi utilizzati per le impressioni sugli altri
valgono per quelle su se stessi.
Il sé si forma attraverso un processo di costruzione sociale attivo: non ci limitiamo ad assorbire il feedback sociale, ma lo
interpretiamo attivamente, e talvolta siamo noi a generarlo. Noi stessi creiamo le nostre realtà sociali decidendo com chi interagire,
stabilendo i nostri comportamenti e le condotte da tenere, i vestiti da indossare o cosa postare sui social, selezionando i gruppi cui
apparteniamo. Questo processo, particolarmente attivo durante l’adolescenza, quando tendiamo a sperimentare diverse identità o
gruppi di persone, diviene in seguito più sottile e, per la maggior parte del tempo, non n siamo consapevoli.
Fonti personali di conoscenza di sé: l’osservazione
introspezione e autoriflessione
Avviare un’introspezione significa riflettere sui propri stati interiori (mentali ed emotivi) e rappresenta uno dei modi principali per la
conoscenza di sé. Tuttavia questo sistema non è sempre attendibile, per varie ragioni:
● questo è dovuto dal fatto che gli individui elaborano simultaneamente tantissime informazioni, principalmente in maniera
inconsapevole; dunque spesso non sono consapevoli delle cause dei loro pensieri o comportamenti
● l’introspezione può persino ridurre l’accuratezza della conoscenza di sè. Diversi studi hanno dimostrato che nella maggior
parte degli individui abituati ad analizzare le cause delle loro sensazioni si nota una minore corrispondenza tra atteggiamenti e
comportamenti
● Un altro limite sta nel fatto che si è tendenti a voler dimenticare o comunque non analizzare a fondo i ricordi e i pensieri più
dolorosi. Nonostante ciò, questi pensieri soppressi continuano ad influenzare i loro comportamenti
● Inoltre qualsiasi individuo ha la tendenza a sopravvalutare le proprie qualità (in termini di aspetto fisico, carattere o
competenze), benché ovviamente ciò sia statisticamente impossibile.
Dunque l’introspezione è molto importante per la conoscenza di sé, ma fino ad un certo punto: ci aiuta a capire cosa pensiamo o
proviamo, ma contribuisce solo minimamente a spiegarci il perchè dei nostri pensieri o sensazioni, a causa della tendenza a negare
certe esperienze e a causa anche della quantità di informazioni elaborate sul piano inconsapevole.
Teoria dell’autopercezione
Questa teoria, elaborata da Bem, suggerisce che gli individui possano inferire i loro stati interiori, solitamente ambigui e difficili da
interpretare, esaminando il proprio comportamento come farebbe un osservatore esterno. Nel formulare tali inferenze è importante
tenere conto delle condizioni in cui il comportamento si verifica, attribuendolo a stati interiori solo se il contesto da solo non è
sufficiente a giustificarlo. Il fatto che gli individui prendano in considerazione le pressioni situazionali evidenzia un'importante
applicazione della teoria dell'autopercezione, collegata ai fattori motivazionali: le persone si impegnano in:
● attività estrinsecamente motivate, ovvero attività scelte principalmente per ricevere una ricompensa o per evitare una
punizione
● attività intrinsecamente motivate, ovvero attività scelte per divertimento o interesse fine a se stesso.
La teoria dell’autopercezione ci mette in guardia sull’ effetto sovragiustificazione: la motivazione intrinseca potrebbe finire perché
associata a una ricompensa esterna: se prendiamo una persona motivata intrinsecamente e utilizziamo un rinforzo estrinseco ulteriore
si indebolisce quello interno perchè dipendenti dallo stimolo esterno; dunque, se il sè reale viene sostituito dal sé sociale, l’opinione
sociale diventa l’unico scopo per auto dimostrarci valore.
Fonti di conoscenza di sé: il contributo degli altri
Processi di attaccamento
La prima relazione che il bambino stabilisce nella vita ‘ con la madre (o comunque il caregiver). Il senso della propria identità
comincia con queste prime interazioni nel corso dell’infanzia. Secondo la teoria dell’attaccamento l’individuo impara ad apprezzare se
stesso attraverso l'esperienza di essere accudito da un caregiver che risponde attivamente ai suoi bisogni: un concetto di sé positivo
può avvenire solo con una madre coerente e comprensiva. Al contrario, un bambino trascurato o maltrattato e accudito da una madre
con atteggiamento evitante crescerà con sempre meno fiducia nei confronti degli altri, gettando le basi per una concezione negativa di
sé e per una bassa autostima. Questi precoci modelli operativi si trasformano nella modalità con la quale interpretiamo le risposte
delle persone e agiamo di conseguenza.
Secondo il sociologo Cooley, le reazioni degli altri funzionano come uno specchio che ci permette di cogliere un’immagine di se
stessi, e grazie a questo Sé riflesso riusciamo a cogliere il modo in cui gli altri ci vedono. Queste valutazioni riflesse funzionano
come la profezia che si autoavvera: se gli altri pensano qualcosa di noi ci riferiamo a quella caratteristica. Questo tipo di
autovalutazione avviene specialmente nei soggetti che non hanno un saldo concetto di sé. Inoltre, il rischio sta nel bias di conferma:
quando gli altri condividono le nostre visioni, prestiamo maggiore attenzione, tendendo a tralasciare eventuali contraddizioni.
Confronto sociale
La teoria del confronto sociale, elaborata da Festinger, suggerisce che, quando le persone non sono certe delle proprie capacità, e in
mancanza di parametri di valutazione oggettivi, le misurano in relazione del confronto con altri individui. Ciò ci consente di
sviluppare il nostro senso di unicità. L’importanza del confronto sociale è tale anche da farvi ricorso quando esistono dei parametri
oggettivi di valutazione: ad esempio, giudichiamo meglio la nostra capacità di migliorare quando otteniamo un punteggio basso ma
superiore alla media rispetto a quando otteniamo un punteggio elevato ma inferiore alla media; questo ci porta a confrontarci sempre
con persone che hanno abilità superiori o inferiori alle nostre, ma mai simili, e questo ci fa aumentare o diminuire la nostra autostima.
Il sé nelle relazioni interpersonali
Anche le interazioni con altri significativi contribuiscono al nostro senso di identità: le interazioni con individui per noi importanti ci
consentono di creare e memorizzare degli schemi relazionali, cioè modelli mentali riguardo gli scambi tipici e delle emozioni in tali
relazioni. Questi modelli hanno varie implicazioni, soprattutto perchè non riguardano solo quella persona specifica, ma tutto qualsiasi
caratteristica che la ricordi
Identità e identità sociale
Molto importante è il concetto di identità che, fondandosi sulle rappresentazioni del sé, include anche il senso di continuità della
propria persona: il raggiungimento dell’identità, diceva Erikson, è considerato la meta principale che ci accompagna dall’età infantile
al percorso di vita adolescenziale, ed è il momento in cui l'individuo cerca una nuova stabilità per assumere le decisioni nell’età adulta.
Secondo Erikson, l’identità è considerata come un sistema aperto che nasce da identificazioni infantili, dall’interazione tra presente e
futuro e dalle aspettative personali e degli altri.
Molto importante è anche il concetto di identità sociale: è un fattore di coesione sociale formata per contrapporsi ad altri gruppi. La
teoria dell’identità sociale, formulata da Tajfel e Turner, spiega in che modo l’individuo si relazioni con la sua rete sociale più ampia,
derivando informazioni sul proprio senso di sé e significati dall’appartenenza di gruppo. Le persone sentono il bisogno di avere
un’identità sociale positiva e dunque sono motivate a contrapporre il gruppo a cui si sentono di appartenere (ingroup) ai gruppi
estranei (outgroup). Questa tendenza può provocare due effetti:
● uno negativo, in quanto può portare alla discriminazione e ai conflitti intergruppi
● uno positivo, in quanto può provocare aumento di autostima e la difesa dalle discriminazioni esterne per gli individui di status
inferiore
Nella teoria della categorizzazione del sé di Turner, che parla dell’interazione fra identità sociale e identità personale, quest’ultima
si riferisce a tratti che definiscono l’identità dell’individuo nell’ambito del suo gruppo, mentre la prima riguarda le immagini di sé che
definiscono l’individuo in termini di similarità condivise con i membri del gruppo sociale di appartenenza in contrapposizione ai
gruppi estranei: a volte prevale la prima, talvolta la seconda, a seconda delle circostanze.
La natura del concetto di sé
Alcuni studiosi distinguono fra:
● concetto di sé, che implica una serie di convinzioni che ci riguardano
● schemi di sé, cioè strutture mentali che ci aiutano a organizzare le esperienze del passato e guidano l’elaborazione di nuove
informazioni rilevanti
l’effetto di autoreferenza
Le informazioni sul sé sono elaborate in maniera più approfondita e accurata rispetto ai dati di altro tipo, perciò sono più facili da
richiamare
Lo sviluppo del concetto di sé sui bambini
Sul piano empirico, la ricerca dello sviluppo del concetto di sé continua a essere focalizzata soprattutto sui bambini in età scolare e
sull’adolescenza, anche se si sta attenzionando anche riguardo i bambini molto piccoli. Infatti, soprattutto su questi ultimi si pongono
alcune riflessioni:
● la prima riguarda la dimensionalità del concetto di sé, di Bergh e De Rycke, rispetto alla quale gli studiosi sono in dibattito:
una prima valutazione, di Harter, riguarda l’indifferenziazione del concetto di sé prima degli 8 anni; altri studiosi, invece,
pensano più a una multidimensionalità del concetto di sé anche in età molto piccola, che va ad accrescere progressivamente
con il crescere dell’età
● la seconda riflessione riguarda invece il senso di valore personale dall’infanzia alla preadolescenza
E’ possibile comunque rintracciare alcuni principi generali comuni:
● self-report: l’autostima è considerata tanto una dimensione fenomenologica nella quale la persona è consapevole della
valutazione che dà a se stessa, quanto un processo riflessivo nel quale l’individuo percepisce le caratteristiche di sè. Tuttavia,
l’autovalutazione attraverso procedure di self-report pne alcune criticità: richiede competenza verbale, autoconsapevolezza ed
è potenzialmente influenzabile dallo stato emotivo della persona, dal desiderio di apparire competente e dal bisogni di sentirsi
accettata socialmente; nel caso dei bambini è influenzato dal processo di sviluppo
● focus sulla valutazione del self come “me”: generalmente si tende a descrivere il sé pubblico, pertanto la maggior parte delle
scale rileva questo tipo di dimensione
● focus sul concetto di sé in termini psicologici: molti autori considerano il sé come strutturato gerarchicamente: alla base vi
sono le azioni e i comportamenti, i quali sono considerati subordinati ai costrutti psicologici, che a lor volta sono subordinati
da costrutti più generali sovraordinati
● variabilità: trattandosi di un costrutto di personalità, può variare nel tempo
I sé possibili
Nella formulazione di Bandura il sistema del sé non è un agente psichico che controlla i nostri comportamenti, bensì è un insieme di
strutture cognitive che consentono l’autoregolazione dei comportamenti: auto-osservazione, autovalutazione, autorinforzo,
introspezione.
Esistono tanti tipi di sè:
● il sé ideale, che rappresenta i nostri desideri riguardo alla persona che vorremmo essere in futuro: rappresenta gli esiti positivi
che le persone cercano di conseguire e il mancato raggiungimento di tali esiti provoca depressione, tristezza o delusione
● il sé imperativo, che si riferisce a ciò che noi sentiamo di dover essere e implica una serie di obblighi e criteri da soddisfare
Una discrepanza fra questi tipi di sè influenza il nostro benessere personale e la nostra autostima
L’autostima
Per autostima si intende il giudizio globale riguardo le nostre qualità e il nostro valore. Una buona autostima viene associata a una
visione sana di sé: riconoscere di avere realisticamente carenze e difetti, ma senza essere ipercritici nel considerarli, e riconoscere al
tempo stesso le proprie qualità e sentirsi bene in relazione a queste: se un individuo è in gran parte soddisfatto di se stesso, ciò non
significa che non voglia essere altrimenti, al contrario, lavora sodo per migliorare le sue aree di debolezza e si perdona se talvolta non
riesce nel suo intento. Una persona con buona autostima non ha paura di cooperare con gli altri in quanto pensa che il confronto con
gli altri influenza positivamente se stesso.
Una persona con bassa autostima non ama mettersi in discussione, sminuisce gli altri, mostra troppa sicurezza in se stesso ed evita il
confronto con gli altri per paura del fallimento. Per capire meglio, la persona con alta autostima utilizza attribuzioni funzionali (es.
l’esame è andato male perchè non ho studiato abbastanza), mentre la persona con bassa autostima utilizza attribuzioni esterne (es
l’esame è andato male perchè la prof mi ha chiesto l’unica cosa che non ho studiato).
L’autostima non è innata: cresce grazie agli stimoli sociali e a quelli interni, spesso uno conseguenza dell’altro.
L’autostima nell’età evolutiva
E’ possibile considerare l’autostima nell’età evolutiva divisa in quattro ambiti:
● autostima sociale, che comprende i sentimenti del bambino riguardo se stesso come amico degli altri
● autostima scolastica, che riguarda il valore che il bambino attribuisce a se stesso come studente: se riesce a raggiungere i suoi
obiettivi scolastici allora l’autostima sarà più alta
● autostima familiare, che riflette i vissuti che il bambino prova come membro della sua famiglia
● autostima corporea, cioè la combinazione di aspetto fisico e capacità: consiste nella soddisfazione che il bambino prova
riguardo il come appare il suo corpo e alle prestazioni che riesce ad eseguire
L’autostima generale riguarda un apprezzamento globale di tutte le componenti della propria personalità.
Il senso di autoefficacia
Fa riferimento alle convinzioni che ognuno ha sulle proprie abilità di controllare il comportamento e quindi di determinare il successo
o il fallimento nelle varie prestazioni.
Un individuo con alta autoefficacia è come se dicesse: sono sicuro di farcela e di risolvere questo problema
Esistono delle differenze tra autostima ed autoefficacia:
● l’autostima riguarda i giudizi di valore personale
● l’autoefficacia riguarda giudizi di capacità personale
Non esiste però una correlazione definita del legame fra le due cose: ci si può giudicare irrimediabilmente inefficaci senza che questo
abbia impatto sull’autostima, se non investe tale attività del senso di valore personale. L’autoefficacia è una delle fonti dell’autostima,
insieme al possesso di attributi culturalmente investiti di valore positivo o negativo
Le fonti dell’autoefficacia
Le convinzioni delle persone riguardo la propria efficacia possono originare da quattro fonti principali:
● Le esperienze di gestione efficace, quelle in cui una persona affronta effettivamente con successo una determinata situazione:
i successi determinano una solida fiducia nella propria efficacia personale, i fallimenti, invece, la indeboliscono
● L’esperienza vicaria, fornita dall’osservazione di modelli: il fatto di vedere persone simili a sè raggiungere un obiettivo
attraverso l’impegno e l’azione personale incrementa nell’osservatore la convinzione di possedere le stesse potenzialità
● La persuasione, le persone che sono convinte verbalmente di avere le capacità per compiere efficacemente determinate
attività registreranno poi maggiore impegno e anche più prolungato rispetto a chi nutre dei dubbi su di sé e che restano passive
rispetto alle difficoltà
● Gli stati emotivi e fisiologici, spesso le reazioni di stress e la tensione vengono interpretati come segnali che fanno presagire
cattive prestazioni: migliorare le condizioni fisiche, ridurre la propensione allo stress e a emozioni negative può migliorare le
convinzioni di efficacia
Differenze culturali nel concetto di sé
North America Japanese
indipendenza autocritica
libertà autodisciplina
controllo individuale sforzo
responsabilità individuale perseveranza
espressione personale importanza degli altri
successo vergogna
felicità chiedere perdono
equilibrio e controllo delle emozioni
definizione del sè individuo unico, separato dal contesto individuo connesso agli altri
sociale
struttura del sè unitaria e stabile; costante attraverso fluida e variabile; mutua da una
situazioni e rapporti situazione, o relazione, all’altra
Motivazione all’autoaccrescimento
Il rifuto di prendere atto delle prorpie debolezze è facilmente comprensibile nei termini della motivazione dell’autoaccrescimento:
E’ il desiderio di esaltare i nostri lati positivi e proteggere il nostro sé da informazioni negative. Infatti, il bisogno di autostima ci
induce a prestare maggiore attenzione alle informazioni favorevoli per il sè e ad evitare riscontri sfavorevoli.
Il bias al servizio di sè
L’importanza dell’autoaccrescimento è evidenziata dalla ricerca sull’autopresentazione, cioè le strategie che adottiamo per suscitare
impressioni positive sugli altri: motivazione a scegliere dei comportamenti volti a creare negli altri l’impressione di sè che si desidera,
ad accattivarsi il favore altrui e ad autopromuoversi, per ricavarne potere, influenza e approvazione
Automonitoraggio
L’automonitoraggio è la caratteristica di personalità definita come il grado di sensibilità alle richieste degli eventi sociali in base al
quale le persone confermano il loro comportamento a diverse situazioni
● chi ha uno scarso automonitoraggio ha la tendenza ad esprimere i propri atteggiamenti e le proprie inclinazioni (preferenza per
l’autoespressione)
● chi ha un elevato automonitoraggio ha la tendenza a conformare i propri comportamenti alle richieste delle persone e della
situazione (preferenza per l'autopresentazione)
Teoria dell’autodeterminazione
Questa teoria rileva l’importanza delle ragioni che spingono le persone a regolare il loro comportamento, ma possono avvenire due
situazioni diverse:
● se è motivata da pressioni esterne richiede molto sforzo, rischia di esurire le risorse psicologiche e può causare conflitti
● se viene scelta spontaneamente ed è compatibie coi propri bisogni e desideri allora è efficace
ATTEGGIAMENTI (CAPITOLO 5 E 6)
Che cosa sono gli atteggiamenti e perché si formano? Innanzitutto l’atteggiamento è una rappresentazione cognitiva che riassume la
valutazione da parte di un individuo di un oggetto di atteggiamento, sia esso come persona, gruppo, azione o idea. Un atteggiamento
può variare in modi rilevanti: gli atteggiamenti possono differire in:
● direzione, alcuni sono:
1. positivi (mi piace)
2. negativi (non mi piace)
3. neutri (non mi importa)
● intensità, possono essere moderati o estremi
Da questa definizione, e dalla prospettiva che ne scaturisce, sono nati vari modelli teorici, che ci dicono molto del contenuto degli
atteggiamenti, tra cui il modello multicomponenziale, secondo cui gli atteggiamenti sono valutazioni sommarie di un oggetto che
hanno componenti:
● cognitive, che fanno riferimento a credenze, pensieri e attributi che associamo ad un particolare oggetto. In molti casi,
l’atteggiamento di una persona può basarsi principalmente su una ponderazione degli attributi positivi o negativi di un oggetto
ed è ciò che si sa di un oggetto di atteggiamento, i fatti conosciuti e le convinzioni sviluppate su di esso
● affettive, che fanno riferimento a sentimenti ed emozioni associati ad un oggetto. Le componenti affettive influenzano molto
gli atteggiamenti in modo esplicito. E’ ciò che si prova per l’oggetto, i sentimenti e le emozioni che l’oggetto di atteggiamento
suscita
● comportamentali, che fanno riferimento alle condotte passate presenti o future con l’oggetto di atteggiamento. Generalmente i
comportamenti esprimono gli atteggiamenti di una persona. L’idea che le persone possano desumere i propri atteggiamenti
sulla base delle loro azioni precedenti è stata sviluppata da Bem con la teoria dell’autopercezione. Inoltre, con la teoria della
dissonanza cognitiva elaborata da Festinger, capiamo come possiamo cambiare i nostri atteggiamenti per renderli coerenti con
dei comportamenti che abbiamo messo in atto.
Ma come si sintetizzano i diversi tipi di informazione? Tramite bisogno di coerenza, in quanto generalmente gli atteggiamenti sono
coerenti con la maggior parte di ciò che sappiamo, proviamo e sperimentiamo. Infatti informazioni positive suscitano atteggiamenti
positivi e al contrario informazioni negative producono atteggiamenti negativi.
Oltre al contenuto degli atteggiamenti è importante capirne la struttura, cioè il modo in cui le valutazioni positive e negative sono in
relazione con le componenti affettive, cognitive o comportamentali.
● Solitamente si assume che l’esistenza di sentimenti, credenze e comportamenti positivi inibisca l’insorgere di quelli negativi.
Ma secondo la prospettiva unidimensionale degli atteggiamenti gli elementi positivi e negativi sono immagazzinati in
memoria ai poli opposti di una singola dimensione, e le persone si collocano lungo il continuum della dimensione,
posizionandosi agli estremi (molto negativo o molto positivo) oppure in punto intermedio tra i due (nè positivo nè negativo)
● La prospettiva unidimensionale si oppone alla prospettiva bidimensionale degli atteggiamenti, la quale suggerisce che gli
elementi positivi o negativi di un atteggiamento sono conservati lungo due dimensioni indipendenti: gli eventi positivi e gli
elementi negativi, in quantità diverse: le persone hanno nei loro atteggiamenti combinazioni differenti di queste quantità.
Questa prospettiva spiega molto meglio l’ambivalenza.
Gli individui possiedono gli atteggiamenti per diverse ragioni. I modelli principali delle funzioni degli atteggiamenti sono 5:
● funzione di valutazione o conoscitiva dell’oggetto, che serve ad organizzare o semplificare la nostra esperienza orientandoci
verso le caratteristiche importanti di un oggetto di atteggiamento
● funzione di identità sociale, che ci aiuta ad esprimere il nostro vero sé, a dare voce alle nostre convinzioni, a mostrare i valori
realmente importanti per noi
● funzione strumentale o utilitaristica, che ci indirizza verso gli oggetti ci aiuteranno a massimizzare le nostre ricompense e a
raggiungere obiettivi desiderati
● funzione valutativa, secondo cui gli atteggiamenti sono dei dispositivi di “risparmio di energia” perchè rendono i giudizi ad
essi collegati più veloci e semplici da formulare:
1. attegiamenti forti guidano giudizi e comportamenti rilevanti, atteggiamenti deboli hanno un effetto limitato
2. le persone che hanno un maggiore bisogno di “chiusura” tendono ad avere atteggiamenti più stabili e sono meno
motivati a modificarli
Facendo un confronto fra gli atteggiamenti utilitaristici e valoriali possiamo dire che:
● quelli utilitaristici classificano gli oggetti sulla base di quanto sono ingrado di promuovere gli interessi personali
● quelli valoriali manifestano le preoccupazioni circa l’immagine di sè e i valori personali
Alcuni oggetti elicitano atteggiamenti legati alla prima (es. condizionatori, caffè), altri elicitano atteggiamenti legati alla seconda (es.
cartoline di auguri). In secondo luogo, i messaggi che contengono argomentazioni corrispondenti alla funzione principale degli
atteggiamenti delle persone sono più persuasivi di quelli che non combaciano con tale funzione. Questo c'entra con
l’automonitoraggio, cioè il differente modo con cui le persone cambiano il proprio comportamento in situazioni sociali:
● le persone con alto automonitoraggio sono attente ai segnali situazionali e regolano il proprio comportamento sulla base di
quella situazione
● le persone con basso automonitoraggio tendono a comportarsi coerentemente con i propri valori.
Un’ altra questione fondamentale è la forza degli atteggiamenti. Krosnick e Petty hanno elaborato delle differenze fra atteggiamenti
forti e deboli:
● gli atteggiamenti forti sono più persistenti, cioè stabili nel tempo
● gli atteggiamenti forti sono più resistenti al cambiamento, anche di fronte a messaggi persuasivi
● gli atteggiamenti forti hanno maggiore probabilità di influenzare l’elaborazione delle informazioni
● gli atteggiamenti forti hanno maggiori probabilità di guidare il comportamento.
Gli atteggiamenti, inoltre, si possono:
● inferire, dal modo con cui le persone esprimono i loro pensieri e sentimenti e dal modo in cui si comportano
● misurare, attraverso autodescrizioni, scale di misurazione degli atteggiamenti e le osservazioni del comportamento.
Le tipologie di misura degli atteggiamenti si dividono in:
● misure esplicite, che richiedono l’attenzione cosciente del costrutto che si sta misurando
● misure implicite, che non richiedono attenzione cosciente e valutano un atteggiamento senza chiedere direttamente ai soggetti
un “resoconto verbale”
La differenza sta nel fatto che al contrario di quelle esplicite, le misure implicite non danno modo al soggetto di variare la propria
opinione in base a ciò che vuole far trasparire all’esterno, secondo bias di desiderabilità sociale.
Le misure esplicite degli atteggiamenti
Le misure esplicite degli atteggiamenti si possono misurare con:
● la scala Likert, dal nome del suo inventore, in cui viene attribuito un punteggio a ogni risposta: di solito, un punteggio basso
sta ad indicare un atteggiamento negativo e, al contrario, un punteggio alto sta ad indicare un atteggiamento positivo: quindi,
un individuo molto in disaccordo con l’affermazione riceverà un punteggio 1 e, al contrario, se è molto d’accordo con
l’affermazione riceverà un punteggio di 5.
ESEMPIO:
Esprima il suo grado di accordo tra le seguenti affermazioni assegnando un valore da 1 (per niente) a 5(molto)
● Differenziale semantico. Deriva dagli studi psicolinguistici di Osgood: si sottopone ai partecipanti una scelta di polarità e poi
di intensità, chiedendo di valutare un dato oggetto indicando la risposta che rappresenta meglio la loro opinione
ESEMPIO: Ti preghiamo di rispondere a ciascuna scala ponendo una X nello spazio che meglio rappresenta la tua opinione
cattiva buona
negativa positiva
spiacevole piacevole
si
si userà la via
centrale della
persuasione
L’AGGRESSIVITA’ (CAPITOLO 8)
Si può definire l’aggressione come qualsiasi forma di comportamento che ha lo scopo di arrecare danno o ferire un altro essere
vivente che è motivato ad evitare tale trattamento. Il termine danno invece fa riferimento a qualsiasi forma di trattamento indesiderato
che può causare una ferita fisica o psicologica, compromettere le relazioni sociali, sottrarre o rovinare beni posseduti dal target.
Inoltre, è da specificare che:
● il comportamento aggressivo è definito dalle sue intenzioni o motivazioni sottostanti, non dalle conseguenze. Se ad esempio un
colpo di pistola mancasse il bersaglio, la sola intenzione di voler sparare e averla messa in atto implica un comportamento
aggressivo
● l'intenzione di recare danno implica la capacità, da parte dell’attore, di comprendere che il comportamento può danneggiare o
ferire il destinatario. Al contrario, se le azioni di una persona danneggiano o feriscono un’altra persona ma l’attore non aveva
comprensione del fatto che la sua azione avrebbe recato danno, tale azione non è giudicabile aggressiva
● le azioni dannose messe in atto con il consenso del destinatario non sono considerate dannose.
Concetto importante è quello di violenza, che è un termine più ristretto e indica includono la violenza e la minaccia della forza fisica.
Tuttavia, non tutti i comportamenti aggressivi sono violenti (ad es. gridare contro qualcuno è un atto aggressivo ma non violento) ma
tutti i comportamenti violenti si qualificano come aggressioni.
Esistono varie tipologie di aggressione:
● dirette, che implicano un confronto faccia a faccia
● indirette (o relazionali), che indicano condotte che hanno lo scopo di danneggiare le relazioni sociali del target (ad es.
diffamazione o calunnia)
● strumentali, quando l’atto aggressivo serve a raggiungere un preciso scopo (ad es. prendere in ostaggio per ottenere un
riscatto)
● ostili, quando l’atto aggressivo è mosso dal desiderio di esprimere sentimenti negativi e l’obiettivo principale è far del male al
target.
Misura del comportamento aggressivo
Delle importanti fonti di misura del comportamento aggressivo sono:
● self-reports comportamentali, in cui le persone descrivono le proprie tendenze aggressive
● misure self-report standardizzate, che servono a valutare l’aggressività tramite resoconti personali, ad esempio con un
questionario di aggressività, o per valutare specifiche tendenze di dominio con un questionario sulle esperienze sessuali
● eterovalutazioni, cioè informazioni fornite da genitori o compagni di classe
● dati di archivio, come ad esempio le statistiche sul crimine, che potrebbero sembrare poco di aiuto per i singoli casi ma
sicuramente aiutano a dare una valutazione generale delle condotte aggressive.
Teorie sull’aggressività
Le teorie sull’aggressività forniscono due tipi di approcci:
● approcci biologici: tramite studi sull’evoluzionismo e della genetica, o del ruolo degli ormoni
1. prospettiva etologica, che spiega che il comportamento aggressivo di umani e animali è come guidato da un’energia
interna rilasciata da particolari stimoli(modello della caldaia a vapore): l’energia aggressiva è prodotta continuamente
nell’organismo fino a quando non viene rilasciata a causa do uno stimolo, come ad esempio la comparsi di un rivale e
dunque il comportamento aggressivo è il risultato di questa fonte di energia. Questa teoria però implica che una volta
scaricata l’energia non dovrebbe ripresentarsi la condotta aggressiva, non spiegando quindi gli atti continui di violenza
2. prospettiva genetica, che pensa che ci sia un collegamento tra condotte aggressive e patrimonio genetico, cercando di
dimostrare che le tendenze aggressive di persone geneticamente vicine sono più simili tra loro di persone non legate
geneticamente. Tuttavia, non si può escludere l'influenza della socializzazione nel corso dello sviluppo individuale
3. prospettiva ormonale, che ha indagato il ruolo degli ormoni, i particolare il testosterone, l’ormone sessuale maschile,
volendo dimostrare le differenze di genere nella condotta aggressiva. Il testosterone è collegato all’attivazione degli
impulsi di lotta e all’inibizione del comportamento di fuga o evitamento. Un altro correlato è il cortisolo (ormone dello
stress), infatti, ridotte quantità di cortisone sono associati al coraggio, alla tendenza a correre rischi e all’insensibilità
alla punizione
● approcci psicologici:
1. ipotesi frustrazione-aggressività. La frustrazione causa un’istigazione a diversi tipi di risposte, una delle quali è
l’aggressività. Tuttavia l’aggressività non è la sola risposta alla frustrazione: dipende dall’influenza di altre variabili
individuali o ambientali, quali la paura di essere puniti o la mancanza della fonte di frustrazione sono fattori inibenti
l’aggressività. A volte la frustrazione che non può essere espressa verso la fonte originale viene deviata attraverso un
bersaglio maggiormente disponibile. Inoltre, una variabile in grado di incrementare la probabilità di una risposta
aggressiva è la presenza di stimoli aggressivi, cioè aspetti della situazione che suggeriscono la possibilità di una
risposta aggressiva
2. neo-associazionismo cognitivo, che prevede un’estensione del modello precedente, aggiungendo l’ipotesi che la
frustrazione sia uno degli stimoli in grado di suscitare un’attivazione affettiva negativa, e che gli altri tipi di stimoli
avversivi, come il dolore o il rumore, possono portare a comportamenti aggressivi. L’evento spiacevole provoca
emozioni negative che danno una reazione associativa primaria:
● se causa pensieri, ricordi, risposte fisiologiche e motorie connesse all’aggressività si parla di rabbia
rudimentale e la conseguenza è quella dell’irritazione, del fastidio o della rabbia
● se causa pensieri, ricordi, risposte fisiologiche e motorie connesse alla fuga si parla di paura rudimentale e la
conseguenza è la paura
3. trasferimento dell’eccitazione, che dice che gli effetti della frustrazione possono essere incrementati dall’attivazione
fisiologica causata da una fonte neutrale o non legata all’aggressività: se l'attivazione fisiologica derivata dall’attività
neutra (ad es. fisica) è ancora presente quando la persona si arrabbia, la precedente attivazione fisiologica verrà
trasferita sulla nuova situazione ed erroneamente attribuita alla rabbia, amplificando ulteriormente la forza delle
risposte aggressive
4. apprendimento e aggressività: il comportamento aggressivo viene appreso attraverso esperienze di socializzazione e
di apprendimento:
● tramite rinforzo diretto: essere premiati per un comportamento aggressivo
● tramite modellamento, cioè l’apprendimento per imitazione: in un esperimento di Bandura, l’obiettivo
era mostrare come sia possibile apprendere dei comportamenti anche attraverso esperienze indirette per
imitazione o identificazione in un modello. Nell’esperimento della bambola Bobo Bandura fece vedere a
dei bambini dei comportamenti aggressivi contro il pupazzo, che veniva picchiato e maltrattato da un
suo collaboratore. Il risultato fu che i bambini che avevano assistito alla scena diventavano più inclini a
comportamenti aggressivi di quelli che non vi avevano assistito. Bandura dimostrò che il meccanismo di
apprendimento sociale si instaura più facilmente se modello e osservatore sono simili e se il modello
rappresenta una figura autorevole per l’osservatore è più probabile che questo imiti la condotta
aggressiva del modello.
5. modello generale dell’aggressività, che mette insieme tutte le teorie per spiegare meglio la causa dell’aggressività:
● disposizioni personali (es. rabbia di tratto) e stimoli esterni creano uno stato interiore caratterizzato da
cognizioni specifiche, scripts aggressivi (linee guida che ci dicono se mettere in atto o meno un
comportamento aggressivo) e da sintomi di attivazione
● a persone colleriche bastano minime preoccupazioni per attivare pensieri aggressivi
Differenze individuali:
● aggressività di tratto, che riguarda le differenze disposizionali o le tendenze a mostrare comportamenti aggressivi. Inoltre,
alcune persone hanno maggiore tendenza all'aggressività, altre meno. E’ un costrutto multidimensionale che comprende 4
componenti principali: aggressività fisica, verbale, rabbia, ostilità
● bias di attribuzione ostile, cioè la tendenza ad interpretare i comportamenti ambigui di un’altra persona come espressione di
intenti ostili: una metanalisi di 40 studi ha evidenziato una significativa relazione tra attribuzione di intenzioni ostili e
comportamento aggressivo in bambini e adolescenti. Questo bias si sviluppa attraverso l’esposizione a contenuti violenti e
attraverso il modellamento da parte della madre (ma questo influisce maggiormente sulle figlie femmine)
● differenze di genere. Gli uomini sono statisticamente più aggressivi delle donne (con un rapporto di 8:1); generalmente le
donne sono maggiormente coinvolte nella violenza relazionale
Influenze situazionali:
● alcol, infatti anche moderate quantità di alcol producono condotte aggressive, questo perché riveste molta importanza nei
crimini violenti: omicidi, violenza domestica, aggressione sessuale, percosse tra partner. L’alcol è un predittore significativo
del comportamento aggressivo ed ha anche un effetto indiretto, riducendo la capacità attentiva e quindi ostacolando la visione
globale della situazione (miopia alcolica)
● elevate temperature. Secondo l’ipotesi del calore le aggressioni aumentano con l’accrescere delle temperature. In tal senso,
sono stati sviluppati due paradigmi:
1. approccio delle regioni geografiche: legame fra climi caldi e indice di violenza
2. approccio dei periodi temporali: confronto tra i cambiamenti negli indici di violenza nella stessa regione in funzione
del cambiamento delle temperature
Gli effetti delle temperature possono essere spiegati attraverso il modello generale dell’aggressività, secondo cui il
calore suscita una sensazione di disagio che favorisce un’attivazione affettiva negativa, la quale influenza
l’elaborazione cognitiva degli stimoli sociali
● contenuti violenti nei mass media. Secondo Anderson la ricerca su film, televisione, giochi e musica violenti rappresenta una
prova inequivocabile che la violenza dei media incrementa la probabilità di comportamenti violenti e aggressivi sul breve e
lungo termine. Le fonti sono:
1. studi sperimentali con esposizione a contenuti violenti e non violenti per verificare successivamente gli effetti di questa
manipolazione su pensieri, sentimenti o comportamenti violenti
2. studi che correlano self reports sulla fruizione di contenuti violenti e messa in atto di comportamenti aggressivi
3. studi longitudinali che seguono la covariazione della fruizione di media violenti e dell’aggressività nel corso del tempo,
per dimostrare che una precoce esposizione alla violenza aumenta la probabilità di mettere in atto comportamenti
aggressivi
I meccanismi che si attivano sono:
1. l’esposizione della rappresentazione mediatica delle interazioni aggressive incrementa l’accessibilità di
sentimenti o pensieri aggressivi
2. l’esposizione all’aggressività può favorire processi di apprendimento sociale
3. l’esposizione a stimoli violenti suscita a breve termine più emozioni ostili e a lungo termine assuefazione,
riducendo l’empatia nei confronti della sofferenza delle vittime
4. promuove l’accettazione normativa dell’aggressività e lo sviluppo del bias di attribuzione ostilI
L’aggressività come problema sociale: la violenza domestica
Per violenza domestica si intende il perpetrare o minacciare atti di violenza fisica tra partner coinvolti in una relazione romantica o
coniugale. I dati ufficiali mostrano che il numero delle vittime donne è nettamente superiore rispetto a quello delle donne; tuttavia il
fenomeno è multisfaccettato ed è il risultato di dinamiche e contesti molto diversi. Direttamente collegato alla violenza domestica vi è
sicuramente il tema dell’aggressione sessuale, che include un’ampia gamma di pratiche sessuali imposte tramite l’uso di strategie
coercitive, come la minaccia, la forza fisica o lo sfruttamento dell’incapacità della vittima di resistere alla pressione verbale: include
anche molestie e stalking.
Le conseguenze che possono derivarne sono molto gravi, fino ad arrivare al disturbo post-traumatico da stress.
Bullismo e Mobbing
E’ definito bullismo il fenomeno che denota degli atti aggressivi compiuti in contesti istituzionali verso le vittime che non possono
difendersi facilmente. Le tipologie di bullismo includono aggressioni verbali, fisiche e relazionali, quindi volti a danneggiare le
relazioni col gruppo dei pari. Il processo tecnologico ha condotto alla nascita di una nuova forma di abuso, chiamata cyberbullismo,
che implica un’umiliazione su larga scala messa in atto intenzionalmente mediante l’uso di computer, telefoni cellulari o altri
strumenti elettronici mediante social network. Le vittime sono bambini o adolescenti ansiosi, socialmente ritirati, isolati dal gruppo e
spesso fisicamente più deboli dei propri coetanei. Anche il bullo, con le sue aggressioni, vuole chiedere aiuto: il disagio psicologico
del bullo non va sottovalutato e la soluzione al problema non può essere solamente la punizione.
Il fenomeno del bullismo non si limita solo al contesto scolastico, ma emerge anche nei luoghi di lavoro e si riferisce a comportamenti
protratti nel tempo, mirati ad avvilire o danneggiare una persona, che non è in grado di difendersi a causa di uno squilibrio di potere:
tale tipologia di bullismo è definita mobbing. Il mobbing trova le sue origini soprattutto in una organizzazione disfunzionale del
lavoro, in cui prevale la competizione e non la cooperazione, e una persona con una particolare serietà all’interno del contesto
lavorativo e prettamente isolata è la principale tipologia di vittima.
Violenza intergruppi
I gruppi possono entrare in competizione per il conseguimento di obiettivi di potere o materiali, ma anche in assenza di conflitto di
interesse, la semplice categorizzazione sociale può essere fonte di ostilità, nel tentativo di promuovere un’immagine positiva
dell’ingroup e farlo apparire superiore .
Le aggressioni intergruppi possono essere:
● ostili, come gli atti di vandalismo dopo la sconfitta della propria squadra
● strumentali, come gli attacchi terroristici derivati da una causa politica.
Questa definizione include anche la violenza collettiva, cioè il ricorso strumentale alla violenza da parte di persone che si
identificano come membri del gruppo e si oppongono ad un altro gruppo. Ne fanno parte:
● i conflitti all’interno di nazioni
● la violenza dei genocidi e delle torture portate avanti da un governo
● il crimine organizzato
Questo è dovuto principalmente dalla cosiddetta prospettiva della deindividuazione, derivata dall’appartenenza al gruppo, promossa
da altre componenti quali l’anonimato, la diffusione di responsabilità, l’ampiezza del gruppo.
Un’altra prospettiva fondamentale è quella dell’identità sociale, secondo la quale l’aggressività intergruppi deriva principalmente dal
risultato del bisogno psicologico di stabilire e mantenere un'identità positiva. Inoltre, importante è anche la svalutazione
dell’outgroup, che promuove sentimenti di ostilità.
Violenza intergruppi
Per spiegare il perché della violenza intergruppi è stato elaborato da Moghaddam il modello a scala, che include diversi livelli di
approccio, individuale, di gruppo e di società. Il piano terra è occupato da tutti i membri della società, che valutano le proprie
condizioni in termini di giustizia ed equità, Chi percepisce le condizioni ingiuste salirà al primo piano, da dove valuterà le diverse
opzioni per cambiare la situazione. Chi ritiene ci sia un margine di miglioramento proseguirà la lotta con mezzi non violenti, gli altri
passeranno al secondo piano, dove cercheranno un nemico diretto (ad es il governo) o indiretto (ad es l’antiamericanismo). Quelli che
pensano di poter dirigere la loro aggressività verso a un nemico passano al terzo piano, sviluppando una propensione alla violenza a
cui le organizzazioni terroristiche possano offrire un impegno morale: le azioni violente sono considerate moralmente accettate e i
nuovi adepti abbracciano una nuova identità sociale. Al quarto piano il pensiero categoriale contrappone noi vs loro e gli adepti
vengono isolati dalle loro famiglie e dagli amici. Il passaggio al quinto piano è obbligatorio: l’inibizione di uccidere persone
innocenti viene superata attraverso due meccanismi:
● la categorizzazione, che evidenzia le differenze tra ingroup e outgroup
● il distanziamento, che esagera le divergenze tra ingroup e i potenziali target
consapevoleza bassa
nessuna emergenza
5. realizzare l’intervento scelto intervenire o meno. Qui si mette in gioco l’inibizione sociale
*1. diffusione di responsabilità: se siamo da soli, sappiamo che la responsabilità dell’intervento ricade solo su di noi. Se siamo con
altre persone, la responsabilità di aiuto è condivisa tra i vari spettatori, dunque ciascuno si sente un po 'meno obbligato a fare qualcosa.
*2 Altro fattore che condiziona in questa fase è l’ignoranza pluralistica: poiché le situazioni di emergenza sono eventi improvvisi,
imprevedibili e ambigui, quando ci ritroviamo in situazioni simili esitiamo per comprendere a fondo cosa sta succedendo. In presenza
di altre persone che assistono alla scena, le osserviamo per capire cosa fanno e questo ci rende modelli di inazione per gli altri, che a
loro volta sono osservatori del nostro comportamento.
*3 inibizione sociale: la presenza di altri attiva un’ansia da valutazione, che deriva dalla paura di poter fraintendere la situazione, che
magari non è una situazione di emergenza. Questo processo ci preserva dall'imbarazzo sociale. Il risultato di tutto ciò è il cosiddetto
effetto spettatore, secondo il quale la probabilità di intervento si riduce in funzione del numero di testimoni a una situazione di
emergenza. Tutto questo è presente in un intervento di Darley e Latanè, dove manipolarono sistematicamente il numero degliu
spettatori percepiti in una situazione di emergenza
Limiti dell’effetto spettatore
● non agisce nelle situazioni di emergenza
● se ne può limitare l’impatto fornendo alle persone informazioni sui suoi meccanismi
● poiché il processo di inibizione sociale è particolarmente potente quando i testimoni sentono di non avere le competenze
necessarie per fornire un aiuto adeguato, la partecipazione a training di vario tipo può contrastare l’effetto spettatore. Infatti, se
lo spettatore si ritiene competente, la presenza di altre persone può incoraggiare l’intervento.
Perchè le persone decidono di aiutare? Il modello costi-benefici
Prendendo ispirazione dai resoconti di circostanze di pericolo in cui gli osservatori non esitavano a rischiare la vita, Piliavin sviluppò
il modello costi-benefici. Il modello prevede due componenti:
● un costrutto motivazionale centrale, detto di attivazione vicaria, secondo la quale guardando negli altri la sofferenza si prova
un senso di disagio
● una componente cognitiva di decision making, che implica un calcolo costi-benefici delle azioni
costi osservatore benefici osservatore costi vittima che non benefici vittima
riceve aiuto che non riceve
aiuto
In degli esperimenti con simulazione di aggressione uomo-donna: nella condizione “marito moglie” gli interventi erano di meno
rispetto alla condizione “sconosciuti”.
Perché il volontariato?
Omoto e Snyder spiegarono il volontariato su diversi livelli:
● individuale, cioè decisioni personali riguardo al coinvolgimento nell'attività di volontariato e i processi psicologici individuali
● interpersonale, dinamiche della relazione tra volontari e le persone con cui entrano in contatto durante l’attività di
volontariato
● organizzativo, questioni collegate al reclutamento e al coordinamento dei volontari
● sociale, dinamiche collettive e relazioni tra volontari e strutture sociali più ampie
Studiando episodi di volontariato, si è visto quali sono i fattori che consentono di prevedere il coinvolgimento in attività di
volontariato, e possono essere messe in atto:
● fattori predisponenti, come
1. personalità e disposizioni caratteriali, come la preoccupazione empatica
2. fattori motivazionali, come il senso civico
3. circostanze di vita, come il livello di sostegno sociale
● fattori amplificanti, come
1. processi comunitari, in quanto positivo senso di comunità e legame di appartenenza danno senso di benessere
psicologico
Personalità prosociale
La personalità prosociale è un tipo di personalità con una tendenza consolidata a pensare al benessere e ai diritti delle altre persone ,
a provare preoccupazione ed empatia, e ad agire a vantaggio degli altri, e comprende due fattori:
● l’empatia orientata verso l'altro
● la disponibilità ad aiutare