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PSICOLOGIA SOCIALE

Definizione di psicologia sociale (Capitolo 1)


La psicologia sociale è una branca della psicologia che, con metodo scientifico, studia gli effetti sociali e cognitivi con cui gli
individui percepiscono gli altri, li influenzano e si pongono nei loro confronti tramite esperimenti che dimostrano le sue teorie. E’
proprio il metodo scientifico che differenzia le teorie dell’”uomo di strada” dallo scienziato.
Cosa studia
Studia il comportamento manifesto ma soprattutto i comportamenti impliciti. Per esempio, guardando una persona gridare la diagnosi
manifesta sarà quella dell’aggressività, ma implicitamente potrebbe essere paura o insicurezza, infatti il lavoro dello psicologo è di
inferenza: cioè, a partire dall’osservazione esplicita si collegano delle caratteristiche comportamentali implicite, date da processi
sociali e processi cognitivi.
Processi sociali
Sono i modi in cui i nostri pensieri e sentimenti e le nostre azioni vengono influenzate dagli input provenienti dalle persone e dai
gruppi che ci circondano.
Processi cognitivi
Sono i modi in cui i ricordi, le percezioni, i pensieri, le emozioni e le motivazioni influenzano la nostra comprensione del mondo e
guidano le nostre azioni.
Due assiomi fondamentali:
1. Le persone si costruiscono una loro realtà: la stessa realtà “oggettiva” varia in base alla percezione “soggettiva” di ogni
individuo che, di conseguenza, considera oggettiva la propria percezione della realtà che viene plasmata in parte da processi
sociali (gli input provenienti dagli altri individui, la cui presenza può essere effettiva o immaginaria) e in parte da processi
cognitivi (le modalità con cui la nostra mente elabora la realtà)
2. L’influenza sociale è pervasiva: ogni cosa che viene fatta o pensata è inevitabilmente influenzata dalle convenzioni sociali, di
fatto ’identificazione con determinati gruppi sociali e ciò che pensiamo su come gli altri reagiranno plasmano i nostri pensieri e
sentimenti più intimi, le nostre percezioni e motivazioni e persino il nostro senso di Sé'.
Tre principi motivazionali:
1. Acquisizione della padronanza: principio motivazionale in base al quale ogni individuo mette in atto dei comportamenti tali
da poter avere una padronanza dell’ambiente circostante cercando di capire o prevedere gli eventi del mondo sociale per
comprendere al meglio come comportarsi in base al contesto col quale è in contatto per assumere sicurezza, poterlo controllare
e ottenerne dei vantaggi.
2. La ricerca dell’affiliazione: principio motivazionale in base al quale ogni individuo ha un desiderio di interazione con altri
individui per avere delle relazioni sociali fondate da sentimenti reciproci di sostegno, stima e accettazione per il bisogno di
essere accettati dagli altri e di conformarsi con gli standard di gruppo
3. Valorizzazione di “me e il mio”: principio motivazionale in base al quale ogni individuo vede in sé una luce positiva e
qualsiasi cosa a sé connessa con la tendenza a considerare migliori i propri punti di vista rispetto a quelli degli altri; questo è
dato dalla scarsa valorizzazione del concetto di “realtà soggettiva”
Tre principi di elaborazione:
1. Conservatorismo: e’ il principio in base al quale la visione del mondo delle persone e’ lenta a cambiare e incline a perpetuare
se stessa in quanto modificarsi richiede uno sforzo mentale. Deriva dalla valorizzazione di me e il mio che, in maniera
esasperante, fa riferimento a precisi processi psicologici
2. Accessibilità: e’ il principio in base al quale l’informazione che piu’ prontamente disponibile esercita generalmente l’impatto
maggiore su pensieri, sentimenti e comportamenti
3. Superficialità o Profondità: principio in base al quale si dedica un’attenzione superficiale alle informazioni ricevute, mentre,
solo quando si è motivati a farlo, si dà una maggiore importanza a quest’ultime (profondità).
PERCEZIONE SOCIALE E ATTRIBUZIONE (CAPITOLO 2)

I 3 principi di elaborazione funzionano e si attivano in maniera automatica, dunque senza nemmeno rendercene conto, e regolano il
nostro comportamento. Partiamo dal fatto che per comprendere a pieno una persona bisogna sforzarsi a far valere il principio di
elaborazione della Profondità. Secondo Asch, la percezione totale di un’altra persona non è la semplice somma dei concetti utilizzati
per descriverla. Asch spiega che le persone elaborano un principio di coerenza, cioè tendono ad organizzare le informazioni
seguendo una schema formale ed emotivo coerente. In un suo esperimento, Asch fece mise davanti ai suoi studenti due liste di
aggettivi identiche tranne che per una parola che avrebbero potuto descrivere una persona: nella prima lista c’era scritto “intelligente,
abile, laborioso, caldo, pratico, prudente”, nella seconda lista al posto di caldo mise freddo. Questo singolo cambiamento produceva
una notevole differenza: le opinioni date dalla prima lista descrivevano una persona saggia, generosa e di buon carattere, mentre nella
seconda le opinioni diventarono negative. In un secondo esperimento notò anche che l’ordine con cui gli aggettivi erano messi a
disposizione degli alunni aveva un impatto fondamentale sulle conseguenti opinioni: notò che si prestava maggiore considerazione alla
prima parola dell’elenco (effetto primacy) o all’ultima (effetto recency), dimostrando che le persone non aspettano di avere in mano
tutte le informazioni prima di integrarle fra loro. Asch elabora anche il concetto di modello configurazionale: le persone elaborano
delle proprie teorie implicite di personalità insite in se stessi estendendole agli altri, dunque, uniscono fra loro le informazioni sociali
per poter formare un modello globale.
Cosa succede nella realtà?
Le informazioni non vengono trasmesse esclusivamente con le parole, ma anche tramite dati sensoriali (sguardi, suoni, odori), che
cambiano radicalmente le nostre impressioni e questi dati sensoriali hanno implicazioni dirette nella personalità.
Le prime impressioni
La formazione di un’impressione è un processo attraverso il quale organizziamo le informazioni relative ad un individuo in una
struttura coerente di conoscenze.
Le prime impressioni si basano su:
● l’aspetto fisico
● il modo di comportarsi
e crediamo che queste siano caratteristiche di personalità.
Riguardo le prime impressioni sull’aspetto fisico si creano delle convinzioni:
● ciò che è bello è anche buono
● ci si aspetta che le persone più attraenti siano più coriali, generose e socialmente dotate delle persone meno attraenti
● le persone più attraenti hanno più probabilità di essere aiutati da sconosciuti
● i maschi adulti con un viso più infantile sono considerati più cordiali e gentili rispetto agli uomini con una faccia più matura.
Inoltre, esiste anche la creazione di un comportamento coerente con l’impressione: la cosiddetta profezia che si autoavvera, processo
mediante il quale le aspettative che una persona nutre nei confronti di un’altra persona diventano realtà, in quanto sollecitano
atteggiamenti in grado di confermare:se gli insegnanti credono che un bambino sia meno dotato, lo tratteranno, anche inconsciamente,
in modo diverso dagli altri; il bambino interiorizzerà il giudizio e si comporterà di conseguenza; si instaura così un circolo vizioso per
cui il bambino tenderà a divenire nel tempo proprio come l'insegnante lo aveva immaginato. Succede a causa dell’etichettamento, che
fa si che la persona si comporti come l’etichetta che gli è stata posta.
Teoria dell’attribuzione causale
In un video di animazione della Pixar, i movimenti di due lampade da ufficio, una grande e una piccola, sono accompagnati da suoni
simili a voci. Sebbene siano oggetti di arredamento le azioni fanno pensare che la lampada più grande sia un genitore e quella più
piccola un figlio vivace, attribuendo a queste immagini una sfera umana ed emozionale. Questa è la teoria dell’attribuzione causale,
che fornisce un insieme di idee che fanno si che si creino inferenze riguardo alle cause di azioni in situazioni comuni in cui si è di
fronte a comportamenti umani e si occupa delle spiegazioni del nostro comportamento e di quello di altri. Per comprendere le ragioni
di un comportamento bisogna individuare qual è la natura della causalità distinguendo:
● cause interne o personali, cioè le caratteristiche interne alla persona, come i suoi atteggiamenti o le sue caratteristiche di
personalità
● cause ambientali o esterne, cioè fattori esterni, mutevoli e casuali
Teoria dell'inferenza corrispondente
Jones e Davis sostenevano che gli osservatori imparano molto dai comportamenti che forniscono informazioni riguardo le
caratteristiche personali degli attori. Hanno chiamato inferenza corrispondente il processo di supposizione delle disposizioni a
partire dal comportamento, poichè gli osservatori attribuiscono inferenze ad intenzioni che corrispondono alle caratteristiche del
comportamento: ad esempio, se un amico si compra una macchina fotografica, l'inferenza corrispondente che attribuiremo all’azione
di comprarsi la macchina fotografica è quella di attribuire al nostro amico la passione per la fotografia.
Quando l’inferenza corrispondente è giustificata
● quando il comportamento viene scelto liberamente dall’individuo, quindi la persona decide di mettere in atto un determinato
comportamento perché rispecchia la sua personalità
● il comportamento ha degli effetti che lo distinguono da altri corsi d’azione, quindi il comportamento avviene da una
caratteristica individuale
● il comportamento è imprevisto anziché previsto o tipico.
L’errore di corrispondenza (o bias)
E’ la tendenza ad attribuire inferenze su caratteristiche personali sulla base di un comportamento osservato anche quando l’inferenza è
ingiustificata, perché esistono altre possibili cause che possono spiegare quel comportamento, ad esempio fattori situazionali. Avviene
perché modificare un’inferenza iniziale, e quindi automatica, richiede sforzo cognitivo. Però i biase s di corrispondenza presentano dei
limiti:
● quando si ha una motivazione che ci spinge a raccogliere informazioni il bias di corrispondenza si riduce
● Il bias cambia anche in base alla cultura: ad esempio, è meno presente nelle culture orientali perchè sono più portati a pensare
che le azioni siano cause di motivazioni indipendenti dalla volontà personale
Sebbene la teoria dell’inferenza corrispondente sia stata pensata per applicarla a situazioni in cui gli attori sono liberi di agire, un
esperimento di Jones e Davis mise in dubbio tale assunto. Ad un gruppo di studenti americano fu chiesto di valutare l’opinione di uno
studente che scrisse un saggio filo castrista: a un gruppo di partecipanti fu detto che l’autore aveva scelto liberamente cosa scrivere,
mentre ad un altro gruppo fu chiesto esplicitamente di scrivere argomentazioni a favore di Castro. Secondo la teoria dell’inferenza
corrispondente, i partecipanti all’esperimento avrebbero dovuto ignorare il contenuto del saggio al momento di inferire gli
atteggiamenti dell’autore. Nonostante ciò, i partecipanti tendevano a concludere che gli atteggiamenti dell’autore fossero a favore di
Castro anche quando la posizione sostenuta nel saggio poteva essere spiegata da fattori situazionali e malgrado all’epoca dello studio
gli studenti americani fossero fortemente anticastristi. I ricercatori conclusero che le persone tendono a sovrastimare le cause personali
del comportamento e a sottostimare quelle situazionali, fenomeno definito bias di corrispondenza
Il bias attore-osservatore
Confronta le attribuzioni che le persone compiono su se stesse e sugli altri. Si è registrato che quando dobbiamo spiegare il nostro
comportamento tendiamo a giustificarlo prendendo in considerazione situazioni estreme o esterne alla nostra volontà; mentre, quando
si tratta degli altri tendiamo a considerare fattori interni alla persona. Vi sono due spiegazioni a questi atteggiamenti:
● quando si parla di noi stessi abbiamo una vasta gamma di informazioni che ci permettono di spiegare i nostri comportamenti
● quando si parla degli altri tendiamo a focalizzarci maggiormente sulla persona che sulla situazione
Il bias al servizio di sè
Rappresenta una distorsione degli avvenimenti, motivata dagli interessi personali del soggetto: invece di interpretare in maniera
neutrale l’evento, si tende a interpretarlo in termini favorevoli per noi o per il nostro gruppo, sperimentando gli avvenimenti in modo
più positivo. Ad esempio, se dopo aver sostenuto un esame questo viene superato brillantemente, si tenderà a concludere che il
risultato riflette le proprie abilità personali (bias di accrescimento del sé); al contrario, se invece l’esame va molto male si tenderà a
cercare la causa del fallimento per cause esterne alla propria possibilità (bias di protezione del sé).
Attribuzioni basate sulle informazioni di covarianza
Esistono anche attribuzioni basate sulle informazioni di covarianza: se una condizione si presenta ad un soggetto quando ha luogo un
certo evento e, al contrario, non si presenta quando non avviene l’evento, la persona tende a concludere che la condizione causa
l’evento, e avvengono secondo tre principi:
● regola della distintività, specificità del comportamento rispetto alla situazione
● regola del consenso, maggiore è il consenso rispetto a questo stimolo, maggiore è la causalità attribuitagli
● regola di coerenza, maggiore è la costanza con cui un certo stimolo produce una risposta, maggiore è la facilità con cui si
crede siano collegati
Attribuzioni basate sulle informazioni di covarianza
Col tempo diversi studi hanno dimostrato che le persone non tendono a raccogliere spontaneamente le informazioni anche quando
queste sono disponibili. Infatti, sono più portate a sapere quali aspetti dell’attore, della situazione o dell’oggetto hanno portato al
realizzarsi di un determinato evento.
Teoria delle attribuzioni
Si chiamano attribuzioni quei processi secondo i quali un individuo tende a voler dare una spiegazione o interpretare gli eventi e le
situazioni che lo circondano. Di conseguenza, si parla di autoattribuzioni quando l’individuo fornisce delle spiegazioni riguardo le
proprie azioni e in queste spiegazioni sono sottese una serie di concettualizzazioni riguardo se stessi e il rapporto con il mondo. Le
attribuzioni hanno delle dimensioni causali:
● locus interno o esterno a noi stessi a cui attribuiamo ciò che ci accade
● stabilità/instabilità, che dipende dal fatto che le cause possono essere temporanee o perduranti nel tempo
● controllabilità/incontrollabilità, cioè se possono essere modificate dalla nostra volontà o se sono cause incontrollabili
Tipi di stili attributivi
ATTRIBUZIONE stabile instabile

controllabile incontrollabile controllabile incontrollabil


e

interna padronanza disposizione impegno/sforzo umore

esterna risorse sociali facilità del risorse sociali caso/fortuna


continue (agganci) compito temporaneamente
disponibili (aiuti,
consigli)

Tipi di stili attributivi (emozioni)

ATTRIBUZIONE situazione di successo situazione di fallimento

impegno soddisfazione senso di colpa/vergogna

abilità fiducia in sé sfiducia/apatia/vergogna

difficoltà del compito sorpresa pietà

caso sorpresa sorpresa/pietà

aiuto di altri gratitudine rabbia

Teoria dell’impotenza appresa (nella depressione)


Si chiama helplessness e si riferisce all’atteggiamento rinunciatario e poco propenso al tentativo di modificare gli eventi (che sono
subiti passivamente) in seguito alla ripetuta esposizione a situazioni o eventi incontrollabili. Però non riguarda sempre la depressione:
alcuni individui depressi, infatti, attribuiscono a se stessi la causa di queste situazioni.
CONOSCENZA DELLE PERSONE (Capitolo 3)
Come elaboriamo le informazioni relative ai gruppi sociali
Cognizione sociale
Comprensione approfondita dei processi che sottostanno al comportamento sociale degli essere umani, analizzando i passaggi mentali
nella successione di pensieri verso le altre persone.
Questo porta a pensieri:
● veloce e incontrollato, quindi automatico, che avviene senza intenzionalità o consapevolezza
● misurato e preciso, quindi controllato, è intenzionale e avviene sotto il controllo e la volontà dell’individuo e richiede
consapevolezza
Nel campo della cognizione sociale, questa distinzione è nata come il contrasto tra processi automatici e controllati
Il pilota automatico interiore
Un padre e un figlio furono coinvolti in un incidente stradale. Il padre morì sul colpo e il figlio rimase gravemente ferito, così fu
portato in ambulanza in ospedale e fu trasferito immediatamente nella sala operatoria: quando il chirurgo lo vide esclamò: Oddio, è
mio figlio!
Come è possibile ciò che è successo? per rispondere a questa domanda gli studenti di questo esperimento rispondevano le cose più
disparate, ma semplicemente il chirurgo è la madre del ragazzo. Questo succede perché generalmente è difficile contrastare lo
stereotipo attivato automaticamente, cioè che i chirurghi sono uomini.

Lo stereotipo
E’una rappresentazione cognitiva o impressione di un gruppo sociale formata associando a quel gruppo sociale particolari
caratteristiche ed emozioni. Deriva dalla categorizzazione sociale, cioè il processo mediante il quale raggruppiamo cose o persone
sulla base di caratteristiche condivise. Ci serve per decodificare il mondo ed attribuirgli significato. Si attua quando le persone
vengono percepite come rappresentanti di gruppi sociali, anziché come individui a sé stanti. Può avere:
● vantaggi, perchè:
1. ci consente di padroneggiare il nostro ambiente e di funzionare in maniera efficiente nella società
2. ci consente di ignorare le informazioni irrilevanti
● limiti, perchè:
1. tende ad omologare le persone e le mie rende più simili di quanto non siano
2. si sopravvaluta l’uniformità dei componenti di un gruppo e si trascura la diversità
3. si esagera la differenza tra gruppi
Se l’attivazione è veramente un processo automatico, ciò significa che in qualsiasi momento la presenza di indizi appropriati dovrebbe
portare inevitabilmente all’attivazione del relativo stereotipo. Questo empiricamente accade nel cosiddetto paradigma di priming:
quando un costrutto è innescato in memoria e reso temporaneamente accessibile, il processo è chiamato priming e lo stimolo che lo ha
portato in memoria si chiama prime. Una volta che un costrutto è attivato, i concetti associati diventano maggiormente accessibili,
anche se non sono stati attivati direttamente dal prime. E’ da notare che alcuni concetti, come ad esempio idee politiche molto forti,
sono costantemente attivi (per esempio grazie alla continua esposizione di queste nella sfera mediatica), e trovandosi in uno stato
permanente di elevata attivazione sono abitualmente più accessibili e vengono chiamati concetti cronicamente accessibili.
Il processo spontaneo di codifica
Molti studi hanno confermato l’autenticità nell’attivazione degli stereotipi: diversi anni fa un noto giornale britannico (the guardian)
lanciò una campagna pubblicitaria in televisione in cui viene mostrato uno skinhead che corre a gran velocità verso un uomo d’affari.
Quale potrebbe essere la conclusione del video? A questa domanda la maggior parte delle persone risponderebbe che lo skinhead
aggredisce l’uomo d’affari, quando in realtà lo spinge prima che un ponteggio gli crolli addosso. Questo giungere a conclusioni
affrettate è dato dal processo spontaneo di codifica: si vede uno skinhead e subito si attiva il relativo stereotipo (violento, anarchico).
Il processo si riferisce al modo in cui traduciamo quello che vediamo in un formato pronto per essere conservato in memoria.
Da qui deduciamo che le caratteristiche portano alla formazione di uno stereotipo sono:
● l’aspetto fisico
● gli interessi
● le attività
● le occupazioni preferite
● gli obiettivi tipici
Euristiche cognitive
Sono scorciatoie mentali che utilizziamo per interagire con gli altri, partendo da alcune informazioni che sono particolarmente facili
da reperire e che nella nostra mente sono associati a particolari schemi o stereotipi. Sono:
● euristica della rappresentatività: una scorciatoia mentale basata sulla tipicità di un fatto esemplare che ci aiuta ad attribuire
velocemente un significato a una grande quantità di informazioni. Ad esempio, guardando una macchina costosa ci viene
molto semplice attribuire una grande ricchezza al guidatore. Dunque, la gente attribuisce ad ogni persona il ruolo stereotipico
che possiede. Uno dei fattori che influenza questo comportamento è la probabilità di base: la probabilità statisticamente che il
guidatore di una macchina costosa sia ricco ci induce a pensare che sia così. Provare a non farlo implica sforzo cognitivo
● euristica della disponibilità il giudizio si basa sulla facilità di richiamo delle informazioni. Pinker nel 2002 suggerisce che la
società di oggi è considerata più violenta rispetto a un tempo in quanto la sfera mediatica e le agenzie di stampa non fanno
altro che fornire immagini di violenza o di guerra e dunque a causa della continua esposizione a questo tipo di immagini si è
indotti a pensare ciò.
● euristica di ancoraggio/aggiustamento: si tratta di processi di stima di un qualche valore a partire da un valore iniziale,
rispetto al quale viene accomodato il nuovo esemplare.
Gli effetti del priming sul comportamento
Gli studi relativi al priming hanno dimostrato come l’attivazione degli stereotipi, in un contesto apparentemente scollegato, possa
persistere e avere effetti non intenzionali sull’interpretazione del comportamento. Bargh, Chen e Burrows propongono che questi
effetti si possono estendere anche alle risposte comportamentali vere e proprie. Hanno sottoposto a verifica in uno studio relativo
all’attivazione dello stereotipo dell’anziano. I partecipanti venivano sottoposti a un prime relativo alla categoria degli anziani (lettura
di parole che facevano riferimento all’anziano tipo “rughe” o “anziano”, ma senza fare riferimento alla lentezza) oppure a uno neutro,
e successivamente veniva misurata la velocità della loro camminata. Gli autori dell’esperimento ipotizzavano che i partecipanti per i
quali era stato attivato lo stereotipo avrebbero camminato più lentamente rispetto a quelli a cui era stato attivato un prime neutro.
Questo dimostra che inizialmente abbiamo bisogno di un input (lettura di parole associate alla vecchiaia); a questo input corrisponde
un output (il programma motorio ci spinge a camminare più lentamente). Tra input e output emergono tre elementi chiave
responsabili della messa in atto del comportamento:
● i tratti, che sono aggettivi usati per descrivere classi di comportamento generali. Vengono solitamente appresi durante
l’infanzia quando veniamo lodati dai genitori per essere stati educati o puniti per aver fatto cattive azioni
● gli obiettivi, azioni dotate di uno scopo finale valutato positivamente e vengono appresi sperimentando le conseguenze delle
nostre azioni
● l’effetto di tratti e obiettivi è mediato dalle rappresentazioni comportamentali, l’innesco nella nostra mente dei
comportamenti dati dagli aggettivi (l’aggettivo “lento” produce effetti comportamentali concreti, come il perdere tempo)
Bloccare l’attivazione degli stereotipi
L’attivazione degli stereotipi può essere moderata da un’ampia gamma di fattori:
● le convinzioni individuali sul pregiudizio
● l’adesione a una visione egualitaria del mondo
● la capacità attentiva
Dunque, l’attivazione delle categorie sembra essere dipendente dagli scopi e dall’interazione tra fattori cognitivi, motivazionali e
biologici. In conclusione, possono affermare che esistono prove della possibilità di evitare gli stereotipi. Le persone sono in grado di
esercitare un certo controllo sugli stereotipi, ammesso che:
● siano consapevoli delle possibili influenze degli stereotipi
● che abbiano sufficienti risorse cognitive per esercitare questo controllo
● e che siano sufficientemente motivate a rispondere in modo non stereotipico
Per capire come si attivano gli stereotipi prendiamo in considerazione il modello del continuum: tutte le percezioni e valutazioni che
abbiamo degli altri ricadono all’interno del continuum della formazione delle impressioni, ai cui poli si trova da un lato le valutazioni
basate sulla categoria e dall’altro le valutazioni individualizzanti. Sulla base di ciò, il modello afferma che:
● le risposte basate sulla categoria hanno più effetti rispetto a quelle individualizzanti
● il movimento lungo el continuum in direzione delle risposte individualizzanti dipende da fattori motivazionali, attentivi e di
interpretazione
Secondo questo modello, quando una persona incontra una persona target, attiva una categorizzazione iniziale, spontanea, cioè la
categorizza come membro di un gruppo sociale. Si ha uno spostamento verso una categorizzazione individuale solo se il target ha una
particolare rilevanza per noi:
● il fatto di dipendere dal target
● se dobbiamo giustificare le nostre impressioni
● se ci viene data l’indicazione di essere più accurati
Sostituire i pensieri stereotipici con risposte egalitarie
Devine elaborò il modello dissociativo degli stereotipi, col quale ipotizzò che i processi automatici e quelli controllati potrebbero
essere dissociati, ovvero che l’attivazione automatica di uno stereotipo non porti inevitabilmente a risposte stereotipiche: quando le
persone sono motivate a non essere pregiudizievoli e il loro comportamento viola questi standard, si sentono in colpa, rivolgono
l’attenzione sul Sé e si sforzano di ridurre questa discrepanza, affinché non si ripeta.
La soppressione degli stereotipi
Quando cerchiamo di sopprimere un pensiero indesiderato, hanno luogo contemporaneamente due processi:
● processo operativo intenzionale, si inizia a cercare pensieri che possano distrarci da ide spiacevoli
● processo ironico di monitoraggio, si va alla ricerca di tracce di pensieri indesiderati
Gli stereotipi possono essere superati attraverso la correzione: se crediamo che i nostri pensieri siano stati influenzati dagli stereotipi si
possono correggere gli effetti.
Il legame tra percezione sociale e comportamento sociale non è inevitabile
● le ricerche più recenti sul ruolo che gli stereotipi hanno nell'attivazione di un comportamento ad essi connesso ci
permettono di avere una visione più bilanciata
● ad es. entrano in gioco come fattori moderatori sia fattori
interni alla persona che caratteristiche dell’ambiente
Perché e quando preferire gli stereotipi
● se il tempo non è sufficiente e bisogna prendere una decisione rapidamente
se le informazioni a nostra disposizione sono eccessivamente complesse per
essere elaborate adeguatamente
● l’eccessiva attivazione emotiva accresce la nostra dipendenza dagli stereotipi
● quasi tutto ciò che diminuisce la capacità cognitiva di una
persona può aumentare l'effetto degli stereotipi sul suo giudizio
IL SÉ (CAPITOLO 4)
Come formiamo un’opinione su noi stessi? Come arriviamo a pensare a che siamo o cosa vogliamo? Innanzitutto un concetto
fondamentale è quello di concetto di sé, cioè l’insieme delle condizioni che un individuo prova verso le proprie abilità personali; si
compone nel tempo e si basa sull’interpretazione di tanti tipi di informazioni). Gli stessi processi utilizzati per le impressioni sugli altri
valgono per quelle su se stessi.
Il sé si forma attraverso un processo di costruzione sociale attivo: non ci limitiamo ad assorbire il feedback sociale, ma lo
interpretiamo attivamente, e talvolta siamo noi a generarlo. Noi stessi creiamo le nostre realtà sociali decidendo com chi interagire,
stabilendo i nostri comportamenti e le condotte da tenere, i vestiti da indossare o cosa postare sui social, selezionando i gruppi cui
apparteniamo. Questo processo, particolarmente attivo durante l’adolescenza, quando tendiamo a sperimentare diverse identità o
gruppi di persone, diviene in seguito più sottile e, per la maggior parte del tempo, non n siamo consapevoli.
Fonti personali di conoscenza di sé: l’osservazione
introspezione e autoriflessione
Avviare un’introspezione significa riflettere sui propri stati interiori (mentali ed emotivi) e rappresenta uno dei modi principali per la
conoscenza di sé. Tuttavia questo sistema non è sempre attendibile, per varie ragioni:
● questo è dovuto dal fatto che gli individui elaborano simultaneamente tantissime informazioni, principalmente in maniera
inconsapevole; dunque spesso non sono consapevoli delle cause dei loro pensieri o comportamenti
● l’introspezione può persino ridurre l’accuratezza della conoscenza di sè. Diversi studi hanno dimostrato che nella maggior
parte degli individui abituati ad analizzare le cause delle loro sensazioni si nota una minore corrispondenza tra atteggiamenti e
comportamenti
● Un altro limite sta nel fatto che si è tendenti a voler dimenticare o comunque non analizzare a fondo i ricordi e i pensieri più
dolorosi. Nonostante ciò, questi pensieri soppressi continuano ad influenzare i loro comportamenti
● Inoltre qualsiasi individuo ha la tendenza a sopravvalutare le proprie qualità (in termini di aspetto fisico, carattere o
competenze), benché ovviamente ciò sia statisticamente impossibile.
Dunque l’introspezione è molto importante per la conoscenza di sé, ma fino ad un certo punto: ci aiuta a capire cosa pensiamo o
proviamo, ma contribuisce solo minimamente a spiegarci il perchè dei nostri pensieri o sensazioni, a causa della tendenza a negare
certe esperienze e a causa anche della quantità di informazioni elaborate sul piano inconsapevole.
Teoria dell’autopercezione
Questa teoria, elaborata da Bem, suggerisce che gli individui possano inferire i loro stati interiori, solitamente ambigui e difficili da
interpretare, esaminando il proprio comportamento come farebbe un osservatore esterno. Nel formulare tali inferenze è importante
tenere conto delle condizioni in cui il comportamento si verifica, attribuendolo a stati interiori solo se il contesto da solo non è
sufficiente a giustificarlo. Il fatto che gli individui prendano in considerazione le pressioni situazionali evidenzia un'importante
applicazione della teoria dell'autopercezione, collegata ai fattori motivazionali: le persone si impegnano in:
● attività estrinsecamente motivate, ovvero attività scelte principalmente per ricevere una ricompensa o per evitare una
punizione
● attività intrinsecamente motivate, ovvero attività scelte per divertimento o interesse fine a se stesso.
La teoria dell’autopercezione ci mette in guardia sull’ effetto sovragiustificazione: la motivazione intrinseca potrebbe finire perché
associata a una ricompensa esterna: se prendiamo una persona motivata intrinsecamente e utilizziamo un rinforzo estrinseco ulteriore
si indebolisce quello interno perchè dipendenti dallo stimolo esterno; dunque, se il sè reale viene sostituito dal sé sociale, l’opinione
sociale diventa l’unico scopo per auto dimostrarci valore.
Fonti di conoscenza di sé: il contributo degli altri
Processi di attaccamento
La prima relazione che il bambino stabilisce nella vita ‘ con la madre (o comunque il caregiver). Il senso della propria identità
comincia con queste prime interazioni nel corso dell’infanzia. Secondo la teoria dell’attaccamento l’individuo impara ad apprezzare se
stesso attraverso l'esperienza di essere accudito da un caregiver che risponde attivamente ai suoi bisogni: un concetto di sé positivo
può avvenire solo con una madre coerente e comprensiva. Al contrario, un bambino trascurato o maltrattato e accudito da una madre
con atteggiamento evitante crescerà con sempre meno fiducia nei confronti degli altri, gettando le basi per una concezione negativa di
sé e per una bassa autostima. Questi precoci modelli operativi si trasformano nella modalità con la quale interpretiamo le risposte
delle persone e agiamo di conseguenza.
Secondo il sociologo Cooley, le reazioni degli altri funzionano come uno specchio che ci permette di cogliere un’immagine di se
stessi, e grazie a questo Sé riflesso riusciamo a cogliere il modo in cui gli altri ci vedono. Queste valutazioni riflesse funzionano
come la profezia che si autoavvera: se gli altri pensano qualcosa di noi ci riferiamo a quella caratteristica. Questo tipo di
autovalutazione avviene specialmente nei soggetti che non hanno un saldo concetto di sé. Inoltre, il rischio sta nel bias di conferma:
quando gli altri condividono le nostre visioni, prestiamo maggiore attenzione, tendendo a tralasciare eventuali contraddizioni.
Confronto sociale
La teoria del confronto sociale, elaborata da Festinger, suggerisce che, quando le persone non sono certe delle proprie capacità, e in
mancanza di parametri di valutazione oggettivi, le misurano in relazione del confronto con altri individui. Ciò ci consente di
sviluppare il nostro senso di unicità. L’importanza del confronto sociale è tale anche da farvi ricorso quando esistono dei parametri
oggettivi di valutazione: ad esempio, giudichiamo meglio la nostra capacità di migliorare quando otteniamo un punteggio basso ma
superiore alla media rispetto a quando otteniamo un punteggio elevato ma inferiore alla media; questo ci porta a confrontarci sempre
con persone che hanno abilità superiori o inferiori alle nostre, ma mai simili, e questo ci fa aumentare o diminuire la nostra autostima.
Il sé nelle relazioni interpersonali
Anche le interazioni con altri significativi contribuiscono al nostro senso di identità: le interazioni con individui per noi importanti ci
consentono di creare e memorizzare degli schemi relazionali, cioè modelli mentali riguardo gli scambi tipici e delle emozioni in tali
relazioni. Questi modelli hanno varie implicazioni, soprattutto perchè non riguardano solo quella persona specifica, ma tutto qualsiasi
caratteristica che la ricordi
Identità e identità sociale
Molto importante è il concetto di identità che, fondandosi sulle rappresentazioni del sé, include anche il senso di continuità della
propria persona: il raggiungimento dell’identità, diceva Erikson, è considerato la meta principale che ci accompagna dall’età infantile
al percorso di vita adolescenziale, ed è il momento in cui l'individuo cerca una nuova stabilità per assumere le decisioni nell’età adulta.
Secondo Erikson, l’identità è considerata come un sistema aperto che nasce da identificazioni infantili, dall’interazione tra presente e
futuro e dalle aspettative personali e degli altri.
Molto importante è anche il concetto di identità sociale: è un fattore di coesione sociale formata per contrapporsi ad altri gruppi. La
teoria dell’identità sociale, formulata da Tajfel e Turner, spiega in che modo l’individuo si relazioni con la sua rete sociale più ampia,
derivando informazioni sul proprio senso di sé e significati dall’appartenenza di gruppo. Le persone sentono il bisogno di avere
un’identità sociale positiva e dunque sono motivate a contrapporre il gruppo a cui si sentono di appartenere (ingroup) ai gruppi
estranei (outgroup). Questa tendenza può provocare due effetti:
● uno negativo, in quanto può portare alla discriminazione e ai conflitti intergruppi
● uno positivo, in quanto può provocare aumento di autostima e la difesa dalle discriminazioni esterne per gli individui di status
inferiore
Nella teoria della categorizzazione del sé di Turner, che parla dell’interazione fra identità sociale e identità personale, quest’ultima
si riferisce a tratti che definiscono l’identità dell’individuo nell’ambito del suo gruppo, mentre la prima riguarda le immagini di sé che
definiscono l’individuo in termini di similarità condivise con i membri del gruppo sociale di appartenenza in contrapposizione ai
gruppi estranei: a volte prevale la prima, talvolta la seconda, a seconda delle circostanze.
La natura del concetto di sé
Alcuni studiosi distinguono fra:
● concetto di sé, che implica una serie di convinzioni che ci riguardano
● schemi di sé, cioè strutture mentali che ci aiutano a organizzare le esperienze del passato e guidano l’elaborazione di nuove
informazioni rilevanti
l’effetto di autoreferenza
Le informazioni sul sé sono elaborate in maniera più approfondita e accurata rispetto ai dati di altro tipo, perciò sono più facili da
richiamare
Lo sviluppo del concetto di sé sui bambini
Sul piano empirico, la ricerca dello sviluppo del concetto di sé continua a essere focalizzata soprattutto sui bambini in età scolare e
sull’adolescenza, anche se si sta attenzionando anche riguardo i bambini molto piccoli. Infatti, soprattutto su questi ultimi si pongono
alcune riflessioni:
● la prima riguarda la dimensionalità del concetto di sé, di Bergh e De Rycke, rispetto alla quale gli studiosi sono in dibattito:
una prima valutazione, di Harter, riguarda l’indifferenziazione del concetto di sé prima degli 8 anni; altri studiosi, invece,
pensano più a una multidimensionalità del concetto di sé anche in età molto piccola, che va ad accrescere progressivamente
con il crescere dell’età
● la seconda riflessione riguarda invece il senso di valore personale dall’infanzia alla preadolescenza
E’ possibile comunque rintracciare alcuni principi generali comuni:
● self-report: l’autostima è considerata tanto una dimensione fenomenologica nella quale la persona è consapevole della
valutazione che dà a se stessa, quanto un processo riflessivo nel quale l’individuo percepisce le caratteristiche di sè. Tuttavia,
l’autovalutazione attraverso procedure di self-report pne alcune criticità: richiede competenza verbale, autoconsapevolezza ed
è potenzialmente influenzabile dallo stato emotivo della persona, dal desiderio di apparire competente e dal bisogni di sentirsi
accettata socialmente; nel caso dei bambini è influenzato dal processo di sviluppo
● focus sulla valutazione del self come “me”: generalmente si tende a descrivere il sé pubblico, pertanto la maggior parte delle
scale rileva questo tipo di dimensione
● focus sul concetto di sé in termini psicologici: molti autori considerano il sé come strutturato gerarchicamente: alla base vi
sono le azioni e i comportamenti, i quali sono considerati subordinati ai costrutti psicologici, che a lor volta sono subordinati
da costrutti più generali sovraordinati
● variabilità: trattandosi di un costrutto di personalità, può variare nel tempo
I sé possibili
Nella formulazione di Bandura il sistema del sé non è un agente psichico che controlla i nostri comportamenti, bensì è un insieme di
strutture cognitive che consentono l’autoregolazione dei comportamenti: auto-osservazione, autovalutazione, autorinforzo,
introspezione.
Esistono tanti tipi di sè:
● il sé ideale, che rappresenta i nostri desideri riguardo alla persona che vorremmo essere in futuro: rappresenta gli esiti positivi
che le persone cercano di conseguire e il mancato raggiungimento di tali esiti provoca depressione, tristezza o delusione
● il sé imperativo, che si riferisce a ciò che noi sentiamo di dover essere e implica una serie di obblighi e criteri da soddisfare
Una discrepanza fra questi tipi di sè influenza il nostro benessere personale e la nostra autostima
L’autostima
Per autostima si intende il giudizio globale riguardo le nostre qualità e il nostro valore. Una buona autostima viene associata a una
visione sana di sé: riconoscere di avere realisticamente carenze e difetti, ma senza essere ipercritici nel considerarli, e riconoscere al
tempo stesso le proprie qualità e sentirsi bene in relazione a queste: se un individuo è in gran parte soddisfatto di se stesso, ciò non
significa che non voglia essere altrimenti, al contrario, lavora sodo per migliorare le sue aree di debolezza e si perdona se talvolta non
riesce nel suo intento. Una persona con buona autostima non ha paura di cooperare con gli altri in quanto pensa che il confronto con
gli altri influenza positivamente se stesso.
Una persona con bassa autostima non ama mettersi in discussione, sminuisce gli altri, mostra troppa sicurezza in se stesso ed evita il
confronto con gli altri per paura del fallimento. Per capire meglio, la persona con alta autostima utilizza attribuzioni funzionali (es.
l’esame è andato male perchè non ho studiato abbastanza), mentre la persona con bassa autostima utilizza attribuzioni esterne (es
l’esame è andato male perchè la prof mi ha chiesto l’unica cosa che non ho studiato).
L’autostima non è innata: cresce grazie agli stimoli sociali e a quelli interni, spesso uno conseguenza dell’altro.
L’autostima nell’età evolutiva
E’ possibile considerare l’autostima nell’età evolutiva divisa in quattro ambiti:
● autostima sociale, che comprende i sentimenti del bambino riguardo se stesso come amico degli altri
● autostima scolastica, che riguarda il valore che il bambino attribuisce a se stesso come studente: se riesce a raggiungere i suoi
obiettivi scolastici allora l’autostima sarà più alta
● autostima familiare, che riflette i vissuti che il bambino prova come membro della sua famiglia
● autostima corporea, cioè la combinazione di aspetto fisico e capacità: consiste nella soddisfazione che il bambino prova
riguardo il come appare il suo corpo e alle prestazioni che riesce ad eseguire
L’autostima generale riguarda un apprezzamento globale di tutte le componenti della propria personalità.
Il senso di autoefficacia
Fa riferimento alle convinzioni che ognuno ha sulle proprie abilità di controllare il comportamento e quindi di determinare il successo
o il fallimento nelle varie prestazioni.
Un individuo con alta autoefficacia è come se dicesse: sono sicuro di farcela e di risolvere questo problema
Esistono delle differenze tra autostima ed autoefficacia:
● l’autostima riguarda i giudizi di valore personale
● l’autoefficacia riguarda giudizi di capacità personale
Non esiste però una correlazione definita del legame fra le due cose: ci si può giudicare irrimediabilmente inefficaci senza che questo
abbia impatto sull’autostima, se non investe tale attività del senso di valore personale. L’autoefficacia è una delle fonti dell’autostima,
insieme al possesso di attributi culturalmente investiti di valore positivo o negativo
Le fonti dell’autoefficacia
Le convinzioni delle persone riguardo la propria efficacia possono originare da quattro fonti principali:
● Le esperienze di gestione efficace, quelle in cui una persona affronta effettivamente con successo una determinata situazione:
i successi determinano una solida fiducia nella propria efficacia personale, i fallimenti, invece, la indeboliscono
● L’esperienza vicaria, fornita dall’osservazione di modelli: il fatto di vedere persone simili a sè raggiungere un obiettivo
attraverso l’impegno e l’azione personale incrementa nell’osservatore la convinzione di possedere le stesse potenzialità
● La persuasione, le persone che sono convinte verbalmente di avere le capacità per compiere efficacemente determinate
attività registreranno poi maggiore impegno e anche più prolungato rispetto a chi nutre dei dubbi su di sé e che restano passive
rispetto alle difficoltà
● Gli stati emotivi e fisiologici, spesso le reazioni di stress e la tensione vengono interpretati come segnali che fanno presagire
cattive prestazioni: migliorare le condizioni fisiche, ridurre la propensione allo stress e a emozioni negative può migliorare le
convinzioni di efficacia
Differenze culturali nel concetto di sé
North America Japanese
indipendenza autocritica
libertà autodisciplina
controllo individuale sforzo
responsabilità individuale perseveranza
espressione personale importanza degli altri
successo vergogna
felicità chiedere perdono
equilibrio e controllo delle emozioni

caratteristica cultura dipendente cultura interdipendente

definizione del sè individuo unico, separato dal contesto individuo connesso agli altri
sociale

struttura del sè unitaria e stabile; costante attraverso fluida e variabile; mutua da una
situazioni e rapporti situazione, o relazione, all’altra

caratteristiche importanti sè privato interiore sè esterno, pubblico

compiti significativi esprimere se stesso senso di appartenenza e di adattamento


promuovere i propri obiettivi agire in maniera appropriata promuovere
essere diretto obiettivi di gruppo
essere indiretto

Motivazione all’autoaccrescimento
Il rifuto di prendere atto delle prorpie debolezze è facilmente comprensibile nei termini della motivazione dell’autoaccrescimento:
E’ il desiderio di esaltare i nostri lati positivi e proteggere il nostro sé da informazioni negative. Infatti, il bisogno di autostima ci
induce a prestare maggiore attenzione alle informazioni favorevoli per il sè e ad evitare riscontri sfavorevoli.
Il bias al servizio di sè
L’importanza dell’autoaccrescimento è evidenziata dalla ricerca sull’autopresentazione, cioè le strategie che adottiamo per suscitare
impressioni positive sugli altri: motivazione a scegliere dei comportamenti volti a creare negli altri l’impressione di sè che si desidera,
ad accattivarsi il favore altrui e ad autopromuoversi, per ricavarne potere, influenza e approvazione
Automonitoraggio
L’automonitoraggio è la caratteristica di personalità definita come il grado di sensibilità alle richieste degli eventi sociali in base al
quale le persone confermano il loro comportamento a diverse situazioni
● chi ha uno scarso automonitoraggio ha la tendenza ad esprimere i propri atteggiamenti e le proprie inclinazioni (preferenza per
l’autoespressione)
● chi ha un elevato automonitoraggio ha la tendenza a conformare i propri comportamenti alle richieste delle persone e della
situazione (preferenza per l'autopresentazione)
Teoria dell’autodeterminazione
Questa teoria rileva l’importanza delle ragioni che spingono le persone a regolare il loro comportamento, ma possono avvenire due
situazioni diverse:
● se è motivata da pressioni esterne richiede molto sforzo, rischia di esurire le risorse psicologiche e può causare conflitti
● se viene scelta spontaneamente ed è compatibie coi propri bisogni e desideri allora è efficace
ATTEGGIAMENTI (CAPITOLO 5 E 6)
Che cosa sono gli atteggiamenti e perché si formano? Innanzitutto l’atteggiamento è una rappresentazione cognitiva che riassume la
valutazione da parte di un individuo di un oggetto di atteggiamento, sia esso come persona, gruppo, azione o idea. Un atteggiamento
può variare in modi rilevanti: gli atteggiamenti possono differire in:
● direzione, alcuni sono:
1. positivi (mi piace)
2. negativi (non mi piace)
3. neutri (non mi importa)
● intensità, possono essere moderati o estremi
Da questa definizione, e dalla prospettiva che ne scaturisce, sono nati vari modelli teorici, che ci dicono molto del contenuto degli
atteggiamenti, tra cui il modello multicomponenziale, secondo cui gli atteggiamenti sono valutazioni sommarie di un oggetto che
hanno componenti:
● cognitive, che fanno riferimento a credenze, pensieri e attributi che associamo ad un particolare oggetto. In molti casi,
l’atteggiamento di una persona può basarsi principalmente su una ponderazione degli attributi positivi o negativi di un oggetto
ed è ciò che si sa di un oggetto di atteggiamento, i fatti conosciuti e le convinzioni sviluppate su di esso
● affettive, che fanno riferimento a sentimenti ed emozioni associati ad un oggetto. Le componenti affettive influenzano molto
gli atteggiamenti in modo esplicito. E’ ciò che si prova per l’oggetto, i sentimenti e le emozioni che l’oggetto di atteggiamento
suscita
● comportamentali, che fanno riferimento alle condotte passate presenti o future con l’oggetto di atteggiamento. Generalmente i
comportamenti esprimono gli atteggiamenti di una persona. L’idea che le persone possano desumere i propri atteggiamenti
sulla base delle loro azioni precedenti è stata sviluppata da Bem con la teoria dell’autopercezione. Inoltre, con la teoria della
dissonanza cognitiva elaborata da Festinger, capiamo come possiamo cambiare i nostri atteggiamenti per renderli coerenti con
dei comportamenti che abbiamo messo in atto.
Ma come si sintetizzano i diversi tipi di informazione? Tramite bisogno di coerenza, in quanto generalmente gli atteggiamenti sono
coerenti con la maggior parte di ciò che sappiamo, proviamo e sperimentiamo. Infatti informazioni positive suscitano atteggiamenti
positivi e al contrario informazioni negative producono atteggiamenti negativi.
Oltre al contenuto degli atteggiamenti è importante capirne la struttura, cioè il modo in cui le valutazioni positive e negative sono in
relazione con le componenti affettive, cognitive o comportamentali.
● Solitamente si assume che l’esistenza di sentimenti, credenze e comportamenti positivi inibisca l’insorgere di quelli negativi.
Ma secondo la prospettiva unidimensionale degli atteggiamenti gli elementi positivi e negativi sono immagazzinati in
memoria ai poli opposti di una singola dimensione, e le persone si collocano lungo il continuum della dimensione,
posizionandosi agli estremi (molto negativo o molto positivo) oppure in punto intermedio tra i due (nè positivo nè negativo)
● La prospettiva unidimensionale si oppone alla prospettiva bidimensionale degli atteggiamenti, la quale suggerisce che gli
elementi positivi o negativi di un atteggiamento sono conservati lungo due dimensioni indipendenti: gli eventi positivi e gli
elementi negativi, in quantità diverse: le persone hanno nei loro atteggiamenti combinazioni differenti di queste quantità.
Questa prospettiva spiega molto meglio l’ambivalenza.
Gli individui possiedono gli atteggiamenti per diverse ragioni. I modelli principali delle funzioni degli atteggiamenti sono 5:
● funzione di valutazione o conoscitiva dell’oggetto, che serve ad organizzare o semplificare la nostra esperienza orientandoci
verso le caratteristiche importanti di un oggetto di atteggiamento
● funzione di identità sociale, che ci aiuta ad esprimere il nostro vero sé, a dare voce alle nostre convinzioni, a mostrare i valori
realmente importanti per noi
● funzione strumentale o utilitaristica, che ci indirizza verso gli oggetti ci aiuteranno a massimizzare le nostre ricompense e a
raggiungere obiettivi desiderati
● funzione valutativa, secondo cui gli atteggiamenti sono dei dispositivi di “risparmio di energia” perchè rendono i giudizi ad
essi collegati più veloci e semplici da formulare:
1. attegiamenti forti guidano giudizi e comportamenti rilevanti, atteggiamenti deboli hanno un effetto limitato
2. le persone che hanno un maggiore bisogno di “chiusura” tendono ad avere atteggiamenti più stabili e sono meno
motivati a modificarli
Facendo un confronto fra gli atteggiamenti utilitaristici e valoriali possiamo dire che:
● quelli utilitaristici classificano gli oggetti sulla base di quanto sono ingrado di promuovere gli interessi personali
● quelli valoriali manifestano le preoccupazioni circa l’immagine di sè e i valori personali
Alcuni oggetti elicitano atteggiamenti legati alla prima (es. condizionatori, caffè), altri elicitano atteggiamenti legati alla seconda (es.
cartoline di auguri). In secondo luogo, i messaggi che contengono argomentazioni corrispondenti alla funzione principale degli
atteggiamenti delle persone sono più persuasivi di quelli che non combaciano con tale funzione. Questo c'entra con
l’automonitoraggio, cioè il differente modo con cui le persone cambiano il proprio comportamento in situazioni sociali:
● le persone con alto automonitoraggio sono attente ai segnali situazionali e regolano il proprio comportamento sulla base di
quella situazione
● le persone con basso automonitoraggio tendono a comportarsi coerentemente con i propri valori.
Un’ altra questione fondamentale è la forza degli atteggiamenti. Krosnick e Petty hanno elaborato delle differenze fra atteggiamenti
forti e deboli:
● gli atteggiamenti forti sono più persistenti, cioè stabili nel tempo
● gli atteggiamenti forti sono più resistenti al cambiamento, anche di fronte a messaggi persuasivi
● gli atteggiamenti forti hanno maggiore probabilità di influenzare l’elaborazione delle informazioni
● gli atteggiamenti forti hanno maggiori probabilità di guidare il comportamento.
Gli atteggiamenti, inoltre, si possono:
● inferire, dal modo con cui le persone esprimono i loro pensieri e sentimenti e dal modo in cui si comportano
● misurare, attraverso autodescrizioni, scale di misurazione degli atteggiamenti e le osservazioni del comportamento.
Le tipologie di misura degli atteggiamenti si dividono in:
● misure esplicite, che richiedono l’attenzione cosciente del costrutto che si sta misurando
● misure implicite, che non richiedono attenzione cosciente e valutano un atteggiamento senza chiedere direttamente ai soggetti
un “resoconto verbale”
La differenza sta nel fatto che al contrario di quelle esplicite, le misure implicite non danno modo al soggetto di variare la propria
opinione in base a ciò che vuole far trasparire all’esterno, secondo bias di desiderabilità sociale.
Le misure esplicite degli atteggiamenti
Le misure esplicite degli atteggiamenti si possono misurare con:
● la scala Likert, dal nome del suo inventore, in cui viene attribuito un punteggio a ogni risposta: di solito, un punteggio basso
sta ad indicare un atteggiamento negativo e, al contrario, un punteggio alto sta ad indicare un atteggiamento positivo: quindi,
un individuo molto in disaccordo con l’affermazione riceverà un punteggio 1 e, al contrario, se è molto d’accordo con
l’affermazione riceverà un punteggio di 5.
ESEMPIO:
Esprima il suo grado di accordo tra le seguenti affermazioni assegnando un valore da 1 (per niente) a 5(molto)

l’uomo e la donna hanno 1 2 3 4 5


le stesse opportunità
lavorative

ci sono attività più adatte 1 2 3 4 5


agli uomini che alle donne
e viceversa

i ruoli familiari devono 1 2 3 4 5


essere nettamente
dfferenziati tra uomo e
donna

● Differenziale semantico. Deriva dagli studi psicolinguistici di Osgood: si sottopone ai partecipanti una scelta di polarità e poi
di intensità, chiedendo di valutare un dato oggetto indicando la risposta che rappresenta meglio la loro opinione
ESEMPIO: Ti preghiamo di rispondere a ciascuna scala ponendo una X nello spazio che meglio rappresenta la tua opinione

cattiva buona

negativa positiva

spiacevole piacevole

Misure implicite degli atteggiamenti


Un esempio di misura implicita degli atteggiamenti è il priming valutativo: definisce l’atteggiamento come un’associazione in
memoria tra un oggetto e una valutazione sintetica. Tali associazioni, di forza variabile, determinano l’accessibilità di un
atteggiamento:
● più forte è il legame con l’atteggiamento più questo si presenta quando pensiamo all’oggetto di osservazione
● più forte è il legame più è probabile che l’atteggiamento diventi un comodo sostituto di ciò che sappiamo sull’oggetto di
atteggiamento
● più forte ‘ il legame tanto meno vulnerabile sarà l’atteggiamento rispetto all’influenza delle informazioni accessibili
La forza di queste associazioni dovrebbe influire sulla velocità con cui le persone rispondono a una parola che esprime una
valutazione dopo essere state esposte brevemente all’oggetto di atteggiamento. Fazio e colleghi hanno adottato questo tipo di misura
degli atteggiamenti riguardo i pregiudizi:
● viene detto a dei partecipanti bianchi che il loro compito era quello di indicare il significato di aggettivi positivi e negativi
● prima della presentazione di ciascun aggettivo ai partecipanti veniva mostrata una fotografia di una persona bianca o di colore
● tra i partecipanti bianchi la presentazione di un volto di colore produceva una maggiore velocità per gli aggettivi negativi e una
maggiore lentezza per gli aggettivi positivi
● l’atteggiamento positivo verso le persone di colore era rappresentato da un tempo maggiore impiegato per categorizzare gli
aggettivi positivi rispetto a quelli negativi dopo la presentazione di un volto di colore
Un altro esempio di misura esplicita degli atteggiamenti è l’implicit association test, di Greenwald e Schwaz in cui:
● i partecipanti sono seduti di fronte ad un computer e viene chiesto loro di classificare oggetti di atteggiamento e aggettivi
● lo studio è costituito da 5 blocchi separati:
1. nel blocco 1 si sottopone ai partecipanti una serie di fotografie di persone di razza bianca e di colore e viene chiesto
loro di fornire una risposta (per esempio premere il tasto S) quando vedono un volto di una persona bianca e di fornire
un’altra risposta (ad esempio premere il tasto K) quando vedono un volto di una persona di colore)
2. nel blocco 2 si sottopone una serie di aggettivi positivi e negativi. I partecipanti devono premere il tasto S quando
vedono un aggettivo positivo e il tasto K quando vedono un aggettivo negativo. Il compito di questi due blocchi è di
istruire i partecipanti a collegare una categoria ad una specifica risposta
3. nel blocco 3 si informano i partecipanti che sullo schermo potranno comparire volti o aggettivi: dovranno premere il
tasto S quando vedono un volto di razza bianca oppure un aggettivo positivo e premere il tasto K quando vedono un
volto di colore o un aggettivo negativo
4. nel blocco 4 si invertono le categorie del blocco 2: devono premere il tasto S quando vedono aggettivi negativi e il tasto
K quando vedono aggettivi negativi
5. nel blocco 5 si invertono le categorie del blocco 3: devono premere il tasto S quando vedono un volto bianco o un
aggettivo negativo e premere il tasto K quando vedono un volto di colore o un aggettivo positivo.
● l’atteggiamento viene rilevato misurando il tempo di risposta nei blocchi cruciali, cioè il 3 e il 5, che misurano la forza di
associazione tra l’oggetto di atteggiamento (in questo caso le categorie razziali) e la valutazione.
Gli atteggiamenti predicono il comportamento?
Il senso comune ci dice che gli atteggiamenti predicono il comportamento ma la ricerca scientifica ci dice che a volte lo predicono e
altre volte no
Nel 1969 Wicker condusse 40 studi sulla relazione fra comportamento e atteggiamento e notò che la relazione era di appena 0,15 e
dunque molto bassa. Ma Kraus nel 1995 condusse una ricerca su 100 studi e arrivò al risultato di 0,38 e quindi decisamento più alto.
Questo può essere spiegato dal fatto che nel tempo di Kraus le tecnologie e i metodi per capire la relazione fra comportamento e
atteggiamento erano più avanzate. Ma quando gli atteggiamenti predicono il comportamento? Ajzen e Fishbein hanno sostenuto che le
misure degli atteggiamenti devono corrispondere a 4 dimensioni:
● l’elemento azione che si riferisce al comportamento messo in atto
● l’elemento bersaglio che si riferisce al target del comportamento
● l’elemento contesto che si riferisce al luogo in cui avviene il comportamento (se siamo soli o se siamo alla vista di qualcuno
● l’elemento tempo che si riferisce all’arco temporale in cui il comportamento viene messo in atto.
Più avanti Davidson e Jaccard erano interessati a predire l’uso della pillola anticoncezionale da parte delle donne:
● alle partecipanti era chiesto di rispondere a delle domande, alcune molto generali (relative all’atteggiamento verso il controllo
delle nascite), altre più specifiche (sull’atteggiamento verso l’eventuale uso della pillola e dell’uso della pillola nei due anni
successivi)
● dopo due anni le donne furono ricontattate e fu chiesto di indicare se nel frattempo avevano utilizzato la pillola o meno
● hanno notato che la domanda generale di atteggiamento non era predittiva del comportamento (verso il controllo delle nascite
0,08)
● la domanda abbastanza specifica di atteggiamento era predittiva del comportamento (verso l’uso della pillola 0,32) (misura
corrispondente alla dimensione bersaglio)
● la domanda ancora più specifica corrispondeva ancora più precisamento al comportamento (verso l’uso della pillola 0,57)
(misura corrispondente alla dimensione obiettivo e tempo)
Il fatto che gli atteggiamenti siano predittivi del comportamento, dunque:
● dipende dalla forza dell’atteggiamento, atteggiamenti forti predicono con maggiore probabilità il comportamento rispetto a
quelli deboli
● dipende dalle differenze di personalità, atteggiamenti e comportamenti sono correlati in maniera differente nelle persone in
base al livello di automonitoraggio
● dipende dalle misure: le misure esplicite prevedono il comportamento deliberato e intenzionale, quelle implicite prevedono il
comportamento spontaneo e automatico
La teoria dell’azione ragionata
● gli atteggiamenti hanno direzione e forza
● influenzano il comportamento attraverso la loro relazione con l’intenzione di agire
● dunque il modo migliore per prevedere un comportamento è chiedere alle persone se sono intenzionate a farlo
● l’atteggiamenti da solo non è sufficiente alla spiegazione di un comportamento: emerge come variabile significativa nella
determinazione dell’intenzione di agire
● serve a predire il comportamento pianificato
Dunque, tramite l'osservazione dell’atteggiamento verso il comportamento (specifico e non generico), le norme soggettive
(percezioni individuali sulle aspettative altrui e motivazione individuale a conformarsi ad esse) e tramite il controllo
comportamentale percepito (la facilità con cui le persone credono di poter seguire quel determinato comportamento), si arriva
all’intenzione comportamentale, che si traduce nel comportamento.
Per capire come le intenzioni siano tradotte in comportamento è stata elaborata il concetto di implementazione delle intenzioni
Modello MODE (Motivation and Opportunity as DEterminants of behaviour)
In italiano “motivazione e opportunità come determinanti del comportamento” , questo modello suggerisce che se le persone hanno sia
motivazioni sia opportunità sufficienti possono basare il proprio comportamento sulla valutazione ragionata delle informazioni
disponibili e che, se però la motivazione o l’opportunità di prendere una decisione ragionata si riducono, saranno gli atteggiamenti
accessibili a predire un comportamento spontaneo.
CONOSCERE GLI ATTEGGIAMENTI PUO’ SERVIRE A MODIFICARE I COMPORTAMENTI?
La persuasione
La persuasione consiste nell’utilizzo della comunicazione per cambiare le credenze, gli atteggiamenti e i comportamenti altrui. Prima
del 1980 molte delle teorie relative alla persuasione e al cambiamento degli atteggiamenti ponevano la loro attenzione
sull'elaborazione sistematica: partivano dal fatto che il cambiamento degli atteggiamenti fosse mediato da una dettagliata
elaborazione degli argomenti persuasivi contenuti nella comunicazione da parte del ricevente del messaggio. Le due teorie
dell’elaborazione sistematica sono:
● il modello dell’elaborazione dell’informazione(Mcguire). Secondo questo modello, l’impatto persuasivo di un messaggio è il
prodotto di alcuni fattori:
1. esposizione al messaggio
2. attenzione, tramite motivazione
3. comprensione, cioè bisogna cercare di innescare il messaggio al sistema dei valori del ricevente
4. accettazione o rifiuto
5. persistenza del cambiamento
6. azione sulla base di nuove ipotesi
In questi due ultimi passaggi avviene la persuasione. Ad esempio, l’obiettivo dei politici nei loro discorsi televisivi è
quello di spingere gli elettori a votare il proprio partito. Se gli spettatori mostrano disattenzione l’appello non produrrà
alcuna modifica all’atteggiamento. La comunicazione ha scarsi risultati anche se gli argomenti sono considerati troppo
complessi (mancata comprensione) o se le sue conclusioni non vengono accolte (mancata accettazione); ma anche se il
politico riuscisse convincere il pubblico, non sarebbe di nessun aiuto se gli spettatori cambiassero prima di andare al
voto (mancata ritenzione) o se causa maltempo non riuscissero ad andare alle urne (mancata azione). Mcguire ha però
spiegato perché è molto difficile indurre un cambiamento comportamentale attraverso le campagne di informazione:
l’impatto di una comunicazione è tipicamente rilevato subito dopo l’esposizione al messaggio, dunque tendente a
considerare solo i primi 3 punti, anche se l’attenzione e la comprensione vengono spesso combinati in un unico punto,
diventando soltanto 2 i punti di riferimento. Quindi questo modello può essere ridotto a due punti, in cui si afferma che
la probabilità che una comunicazione porti a un cambiamento negli atteggiamenti e nelle opinioni è il prodotto
dell’unione fra ricezione e accettazione.
Ma non funziona tutto così linearmente: infatti, tra il messaggio e il comportamento vi sono delle variabili di
mediazione, che sono:
1. la percezione selettiva, cioè il fatto che non tutti i soggetti percepiscono allo stesso modo il messaggio ricevuto
2. gli stati d’animo del soggetto ricevente
3. il ruolo delle strutture cognitive, risulato spesso del conservatorismo che influenza la flessibilità delle strutture
cognitive
● il modello della risposta cognitiva. Questo modello afferma che la persuasione dipende dai meccanismi attraverso i quali il
messaggio è interpretato e dal modo in cui il rispondente reagisce, e ciò varia in relazione alle caratteristiche personali
dell’individuo, alla situazione di persuasione e al tipo di messaggio inviato.. Questo dipende dall’involvement, che influenza e
condiziona i processi di persuasione in maniera differente a seconda se chi riceve il messaggio pensa con convinzione ai
contenuti del messaggio oppure no: infatti, la qualità e la qualità delle risorse di pensiero dedicate alla presa in carico del
messaggio sono una variabile cruciale nel determinare l’accettazione della comunicazione e nel produrre un eventuale
cambiamento di atteggiamento del soggetto.
Teorie del processo duale di persuasione La persuasione avviene sol tramite processi di elaborazione sistematici? Le teorie
del processo duale di persuasione tentano di integrare i processi di elaborazione sistematici con i processi di
condizionamento persuasivo, l’autopersuasione e le modalità euristiche. I principali modelli di persuasione sono:
● il modello della probabilità di elaborazione. Quando le persone ricevono una comunicazione e si trovano nelle condizioni di
dover accettare o meno la posizione in essa presentata, cercheranno di formarsi un’opinione sulla sua validità. Infatti, la
persuasione è un processo intenzionale che ha l’obiettivo di cambiare gli atteggiamenti o i comportamenti di un individuo
senza l’uso della forza o dell’inganno, e avviene seguendo due percorsi differenti:
1. l’elaborazione centrale
2. l’elaborazione periferica
Queste due vie rappresentano gli estremi di un continuum che va da strategie ragionate a strategie decisamente poco
sistematiche: se gli individui sono particolarmente motivati o coinvolti nel prendere una decisione, di fronte ad un
messaggio probabilmente verrà attivato il loro percorso centrale; se invece gli individui non sono particolarmente
coinvolti o motivati nel prendere una determinata decisione attiveranno il loro percorso periferico, risparmiando
energia personale nell’analisi del messaggio. Quest’ultima via viene definita da Chaiken elaborazione euristica.

Messaggio c’è motivazione ad no allora non ci sarà si userà la


elaborare nemmeno capacità via periferica
l’informazione? di elaborazione della
dell’informazione persuasione

si

allora c’è capacità


di elaborazione
dell’informazione

si userà la via
centrale della
persuasione

La via periferica della persuasione utilizza due modalità:


1. l’elaborazione euristica. E’ l’associazione tra indizi superficiali e valutazione positive o negative che consente alle persone di
valutare un oggetto velocemente e senza molta riflessione
2. il condizionamento classico. Se eventi positivi o negativi vengono associati ripetutamente ad un oggetto di atteggiamento,
questo finirà per sollecitare i sentimenti suscitati da quegli eventi. Un esempio potrebbe essere la musica di sottofondo durante
un evento o in un negozio che automaticamente diviene stimolo positivo da associare a quell’evento.
Euristica dell’attrattiva
Riguarda l’associazione tra un oggetto di atteggiamento e una figura popolare e avvenente. Ad esempio, chi ci piace può indurci a
cambiare opinione o atteggiamento, seguendo tutto il processo di riferimento, cioè le persone attraenti ci piacciono, concordiamo con
loro e crediamo che abbiano ragione.
Euristica delle emozioni
In questo caso l’informazione affettiva su un oggetto di atteggiamento, cioè come quell’oggetto ci fa sentire, è una componente
importante del nostro atteggiamento nei suoi confronti; infatti quando si valuta in maniera superficiale un messaggio persuasivo è
possibile che l’atteggiamento nei suoi confronti rispecchi le emozioni del momento piuttosto che qualsiasi altro tipo di informazione.
Un esempio lampante di questo tipo di euristica si ritrova nelle pubblicità, ad esempio della Nutella, dove fanno vedere un bambino
molto piccolo mangiare la Nutella ingolosito e questo automaticamente suscita le emozioni legate alla figura del bambino e ci induce a
comprare il prodotto; o nelle pubblicità in cui fanno vedere una famiglia che mangia insieme e sorridente che rimanda allo stimolo
emozionale del concetto stesso di famiglia.
Euristica dell’esperto
Processo attraverso cui accettiamo la validità di un'affermazione in virtù di chi la fa senza che ci soffermiamo ad analizzare
attentamente ciò che viene detto; questo avviene:
● se il comunicatore è competente, cioè se sono chiaramente dimostrabili il suo valore e il suo status
● se il comunicatore ha un eloquio spedito, perchè chi parla speditamente viene considerato obiettivo, intelligente e ben
informato
● se il comunicatore è affidabile, cioè credibile (ad esempio se presenta tutti gli aspetti di una questione, senza presentarne solo
gli aspetti positivi)
Euristica della lunghezza
I discorsi più lunghi appaiono più convincenti e validi di quelli più brevi
COME AVVIENE LA PERSUASIONE TRAMITE LA PUBBLICITA’?
Innanzitutto esistono due approcci alla realizzazione dei messaggi pubblicitari:
● un approccio razionale, che si basa sulla logica, punta ad evidenziare gli elementi positivi del prodotto razionali ed è infatti
efficace per prodotti “ragionati” (scegli questo prodotto perché è il migliore)
● un approccio emotivo, che cerca cioè di stimolare il registro dei sentimenti e delle suggestioni, punta ad enfatizzare i valori
positivi della marca ed è efficace per prodotti “emotivi” (scegli questo prodotto perchè sei il migliore)
Esistono infatti delle tecniche emozionali, che stimolano la percezione di sensazioni ed emozioni attraverso diversi canali che aiutano
il consumatore ad entrare in sintonia con il messaggio, tramite:
● emozioni positive, con l’uso della drammatizzazione (commedia) o di u registro sonoro (musica o silenzio) che stimola
tranquillità
● emozioni negative, con l’uso della paura o dell’ansia, trattando temi sensibili come malattie, patologie o lotta alla violenza
CAMBIAMENTO DEGLI ATTEGGIAMENTI ATTRAVERSO COMPORTAMENTI CONTROATTITUDINALI
Teoria della dissonanza cognitiva
Secondo questa teoria, quando le persone diventano consapevoli che i loro atteggiamenti sono incoerenti gli uni con gli altri, questa
consapevolezza provoca uno stato di tensione chiamato dissonanza cognitiva, stato piacevole che le porta a ridurre questa
discrepanza. Infatti, allo stesso modo di come si è tendenti ad eliminare stati fisiologici spiacevoli, come la fame o la sete, allo stesso
modo funziona il meccanismo di riduzione della dissonanza: quando gli atteggiamenti e i comportamenti sono incoerenti in maniera
sgradevole qualcosa deve cambiare; poiché il comportamento è scelto liberamente e le sue conseguenze sono difficili da eliminare, è
più facile ristabilire la coerenza modificando l’atteggiamento o addirittura giustificandolo. Ad esempio, quando una persona fuma sa
benissimo che fumare gli provoca malessere fisico e questa consapevolezza è in dissonanza però con l’atteggiamento di fumare,
dunque ci si giustifica dicendo che la quantità di sigarette giornaliere è così poca da non avere impatto con la salute. Questo riporta al
concetto di giustificazione delle decisioni, cioè quando ci si trova a dover decidere tra più opzioni rinunciamo a una di queste per
poter ottenere qualcos’altro perché ogni decisione provoca dissonanza. La dissonanza decisionale è dunque una tensione tra le
alternative prescelte e tutte le caratteristiche positive delle alternative a cui si è rinunciato, così si decide inconsciamente di rafforzare
le valutazioni positive sull’opzione prescelta, screditando le alternative scartate.
Teoria dell’autopercezione
Gli atteggiamenti vengono inferiti attraverso l’osservazione dei propri comportamenti e delle situazioni in cui questi si verificano. E’
una tecnica di influenza sociale che avviene spesso quando ad esempio i commercianti offrono campioni gratuiti di prodotti o quando
offrono prodotti per programmi televisivi a premi.

L’INFLUENZA SOCIALE (CAPITOLO 7)


Innanzitutto si parte dall’assunto che l’influenza sociale è pervasiva: siamo influenzati dai nostri gruppi sociali in modo del tutto
inconsapevole fino addirittura a guidare i nostri comportamenti e indurci a comportamenti conformi al gruppo. Anche il contesto
sociale ci influenza considerevolmente: influenza il nostro modo di vestirci o di comportarci (influenza sociale accidentale), inoltre,
maggiore è il legame fra le persone dentro al gruppo maggiore sarà l’influenza che questo esercita. Infatti, sono soprattutto i gruppi
sociali ad avere un influsso pervasivo e anche i gruppi faccia a faccia esercitano una notevole influenza attraverso l’azione diretta sui
pensieri, sui sentimenti e sui comportamenti sull’altro (influenza sociale deliberata).
Si parla di:
● influenza sociale accidentale, quella in cui le persone sono influenzate dalla presenza, reale o implicita, di altri, anche se non
vi è stato un tentativo esplicito di influenzarle.
1. La facilitazione sociale. La presenza di una o più persone, anche se non stanno cercando in alcun modo di influenzarci,
ha impatto sul nostro comportamento. Questo fenomeno è dimostrato nella facilitazione sociale, in base al quale la
presenza di altri porta a prestazioni migliori (ad esempio negli sport di squadra o anche in quelli individuali, data la
presenza del pubblico).
2. la mera presenza. Zajonc suggerì che la mera presenza di altre persone porta a prestazioni migliori per compiti ben
noti o semplici (facilitazione sociale), ma a prestazioni peggiori per compiti ancora non ben appresi, dunque percepiti
come difficili o complessi, che inibisce le risposte o gli stimoli nuovi o complicati che gli individui non hanno mai
messo in atto prima (inibizione sociale) (come ad esempio quando si parla in pubblico).
3. Apprensione da valutazione. Secondo Cottrell la presenza di altri viene percepita ed associata ad una sorta di
valutazione delle prestazione, legata all’anticipazione di risultati positivi o negativi
4. Il conflitto di attenzione. Second Sanders, la presenza di altri rischia di produrre un conflitto tra l’esecuzione del
compito in sé e il prestare attenzione agli altri.
ANDARE NEL PARAGRAFO DELLE NORME SOCIALI
● influenza sociale deliberata, l’obiettivo di influenza diventa meno implicito.
Come nascono le norme sociali?
Il concetto fondamentale nello studio dell’influenza sociale è quello di norme sociali, cioè regole e standard condivisi dai membri di
un gruppo che costituiscono sistemi di credenze su come comportarsi o meno e riflettono le aspettative condivise dai membri del
gruppo stesso riguardo alle attività tipiche o desiderabili. La differenza fra le norme e gli atteggiamenti è la seguente:
● gli atteggiamenti rappresentano le valutazioni positive o negative date da un individuo
● le norme riflettono le valutazioni date dal gruppo riguardo a quello che è vero o falso, appropriato o inappropriato.
Le norme hanno un certo tipo di funzioni:
● aiutano a ridurre l’incertezza sul comportamento più appropriato
● aiutano a coordinare il comportamento individuale
● includono una componente valutativa: se conformarsi ad una norma non fa guadagnare nulla, trasgredire ad essa genera
risposte negative, in quanto trasgredire una norma rappresenta una minaccia, una devianza all’interno del gruppo.
Esistono due tipi di norme:
● le norme descrittive, che ci informano su come gli altri agiranno in situazioni simili
● le norme ingiuntive, che specificano quale comportamento dovrebbe essere attuato.
Poiché alcune norme appaiono arbitrarie o casuali i ricercatori si sono domandati come le norme si formino e si trasmettano. Le
principali modalità di trasmissione sono:
● attraverso istruzioni, dimostrazioni, rituali
● attraverso il comportamento non verbale
● attraverso la deduzione della norma a partire dal comportamento delle persone attorno a noi
L’esperimento di Sherif
Un esempio di ricerca a riguardo è quello dell’esperimento di Sherif, che ha condotto esperimenti utilizzando l'effetto autocinetico,
che prende il nome da un fenomeno ben noto per gli astronomi: fissando una stella luminosa nel cielo scuro, la si vede muoversi in
modo casuale in tutte le direzioni a causa dei movimenti saccadici dell’occhio, cioè tramite il movimento degli occhi si percepisce il
movimento della luce. Sherif mise i partecipanti, da soli o in gruppi di 2 o 3, in una stanza completamente oscurata. Fece vedere loro
un solo punto luminoso fermo a una distanza di 5 metri e chiede loro di fornire una stima del movimento del punto luminoso. Metà dei
partecipanti forniva quindi le informazioni prima da soli e poi in gruppo. Successivamente all’interno della stanza mise due o tre
persone: per questa metà di partecipanti la procedura avveniva in modo inverso: si sottoponevano prima alle sessioni di gruppo e poi a
quelle individuali. I partecipanti che prima emettevano i giudizi da soli sviluppavano una stima standard (norma personale) intorno
alla quale variavano i loro giudizi. Questa norma personale era stabile, ma variava molto da un individuo a un altro. Nelle fai di
gruppo dell’esperimento, che riunivano i partecipanti con norme personali diverse, i giudizi convergevano verso una posizione più o
meno comune (norma di gruppo). Questo esperimento mostra che:
● davanti ad uno stimolo ambiguo le persone sviluppano comunque una struttura di riferimento interna e stabile rispetto alla
quale valutano lo stimolo
● ma non appena si confrontano con giudizi diversi abbandonano la propria struttura di per conformarla agli standard di gruppo
Questo avviene grazie a due spinte motivazionali: relazionarsi con gli altri e capire il mondo sociale.
L’esperimento di Zimbardo
Lo psicologo Philip Zimbardo si pose un interrogativo fondamentale: come può una persona essenzialmente buona, considerata
normale, trasformarsi in un mostro capace degli atti più disumani? La risposta a questa domanda sta nel cosiddetto effetto lucifero,
che si concentra non sulla crudeltà delle persone, ma sulla malvagità che può introdursi in esse in determinate circostanze, e in
particolare la motivazione sta nell’esercizio del potere e quindi del potere di fare del male le persone psicologicamente e fisicamente,
non dovendo rispondere in prima persona delle proprie azioni: il fatto di avere una responsabilità di gruppo porta le persone a
commettere i crimini più disumani. Uno di questi esperimento è la cosiddetta terza onda, cioè l’esperimento carcerario di Stanford.
L’esperimento ha come fine quello di analizzare la psiche delle persone quando si trovano ad affrontare un forte potere, sia da parte di
chi lo esercita, sia da parte di chi lo subisce. Il professore mise un annuncio in cui voleva degli studenti per condurre l’esperimento e
vennero selezionati 24 ragazzi che non avevano mai avuto problemi di instabilità psicologica. A ciascuno di loro venne dato il ruolo di
carcerato o di guardia, mentre Zimbardo si diede il ruolo di responsabile del carcere.
Per rendere realistico l’esperimento coloro che rivestono i panni dei carcerati vengono arrestati e schedati e trasferiti in questo carcere.
Dopo ciò:
● ogni detenuto venne perquisito, denudato e spruzzato da uno spray
● gli venne consegnato un camice bianco che doveva indossare senza l’intimo sotto
● sul camice venne stampato un numero identificativo che dovevano imparare a memoria
Le guardie invece:
● indossavano delle divise gialle
● portavano fischietti, manganelli e occhiali scuri per non mostrare emozioni ai prigionieri
L’esperimento sarebbe dovuto durare 2 settimane ma venne sospeso dopo soli 6 giorni perchè presto la situazione preicipitò: nel
secondo giorno i detenuti iniziarono una rivolta: spinsero i materassi contro le porte e insultarono le guardie con pesanti insulti. Per
sedare la rivolta le guardie utilizzarono gli estintori, poi entrarono nelle celle, denudarono i detenuti e isolarono i responsabili negando
loro il cibo, negarono ai detenuti di andare in bagno. Già dopo 36 ore un detenuto abbandonò l’esperimento perchè accusava disagi
psicologici molto seri con eccesso di ira e pianti incontrollati. La situazione peggiorò ulteriormente quando costrinsero i detenuti a
pulire a mani nude i water. Il professore, per incitare i detenuti a parlare per ricevere informazioni, mandò loro un prete e i detenuti si
presentarono con il numero identificativo e non con il nome, affermando anche di non sapere la reale motivazione per la quale erano lì
e che sicuramente avevano commesso dei reati. i detenuti erano a pezzi, sia come gruppi, sia come invididuali e dunque l’esperimento
venne terminato, anche grazie al contributo da Cristina Maslach, dottoranda, che mostrò il suo disappunto riguardo l’esperimento.
Questo ci mostra degli assunti particolari:
● l’idea che il male sia frutto di inclinazioni personali è un errore di attribuzione, perchè la convinzione che gli uomini
scelgano di essere violenti è più facile da credere perchè ci rassicura riguardo l’eccezionalità del male, cioè che avviene solo in
certe persone o in certi ambienti. Questo permette di proiettare il male sull’altro e conservare una buona immagine di sé
● l’esperimento ha mostrato che l’effetto lucifero, cioè l’origine del male, è presente in ogni individuo e si manifesta con una
serie di condizioni:
1. la deindividuazione, la spersonalizzazione, cioè la perdita di personalità sia nelle vittime che nei carnefici
2. la deumanizzazione, cioè la riduzione della persona a cosa o animale. Nei campi di concentramento fascisti o nazisti
questa era rafforzata dal razzismo
3. la diffusione di responsabilità, cioè la condizione di gruppo in cui ognuno vede l’altro comportarsi in modo violento
così che il nostro comportamento non differisce da quello degli altri
4. l’obbedienza acritica all’autorità, cioè l’incapacità di mettere in discussione un ordine o un comando anche quando
viola i nostri principi e il nostro senso di umanità
5. l’eterodirezione, cioè la scarsa indipendenza di giudizio, la subordinazione ai comportamenti altrui
6. il conformismo, l’agire come gli altri senza chiedersi perchè
Secondo Zimbardo, la concezione situazionale del male può spiegare varie circostanze, come ad esempio la storia del nazismo e della
sua violenza, la violenza nelle carceri, con episodi come quello di Stefano Cucchi o le torture dei soldati americani nel carcere di Abu
Ghraib in Iraq.
Perchè ha luogo l’influenza sociale?
Deutsch e Gerard hanno proposto un’analisi dei motivi dell’influenza sociale, suggerendo che ci si relaziona con gli altri per:
● influenza informativa, che parte dall’assunto che se crediamo che le norme del gruppo siano corrette, conformarsi ad esse
soddisfa il nostro bisogno di padronanza, che ci dà elementi per capire che la fonte di informazione è valida; dunque
presuppone un bisogno di ridurre l’incertezza e implica l’accettazione delle informazioni provenienti dagli altri come prova
della realtà: il consenso riduce la possibilità di errore individuale (se persone diverse arrivano alla stessa conclusione attraverso
percorsi differenti è probabile che quella conclusione sia valida); il disaccordo invece indebolisce la fiducia che nutriamo nella
nostra concezione della realtà.
● influenza normativa, che presuppone un bisogno di approvazione sociale che ha luogo quando le persone si conformano alle
aspettative positive degli altri evitando di comportarsi in modi che porterebbero ad una punizione o alla disapprovazione
sociale, provando in questo ad avere una identità sociale positiva: si fa per non sentirsi devianti e deriva dal bisogno di ridurre
il disaccordo. Infatti, coloro che sostengono le norme del gruppo sono considerati spesso più intelligenti, competenti, fidati,
sinceri
Per integrare questi differenti approcci, bisogna capire quali sono le 4 spinte motivazionali dell’influenza sociale:
● azione efficace
● costruire e mantenere relazioni
● gestire il concetto di sé
● capire
L’influenza sociale deliberata
Questo tipo di influenza gioca con la comunicazione e si tratta di un’azione consapevole attivamente per modificare il comportamento
di una persona: le persone fanno ciò che gli altri facciano senza esserne convinti perchè lo stimolo esterno le fa sentire obbligate ad
assumere azioni o comportamenti, non seguirli provoca senso di colpa o inadeguatezza. L'attivazione del senso di colpa fa si che si
compi quella determinata azione
L’acquiescenza
E’ un particolare tipo di risposta attraverso cui il target di influenza acconsente ad una richiesta da parte della fonte di influenza, in
assenza di un reale cambiamento di atteggiamento. Le tre principali tecniche per indurre acquiescenza sono:
● la tecnica della porta in faccia: il richiedente fa una richiesta estrema che viene quasi sempre rifiutata, così il richiedente
ritratta e fa una richiesta più moderata: questo aumenta la probabilità che il destinatario acconsenta, avendo prima rifiutato.
Questa tecnica è particolarmente usata dai venditori e nelle raccolte fondi di beneficenza: dopo aver rifiutato una richiesta
eccessiva per una donazione le persone sono più inclini a dare un piccolo contributo
● la tecnica del piede nella porta. Questa tecnica è l’inverso della precedente, in cui il richiedente prima chiede un piccolo
favore, quasi certamente concesso, seguito poi da una richiesta di un favore più grande, collegato al primo. Il richiedente fa sì
che la persona target si impegni a comportarsi in modo coerente, e, come dimostrato, le persone tendono a cadere in questi
tranelli
● la tecnica del colpo basso. In questa tecnica l’acquiescenza a un primo tentativo è seguita da una diversa versione della stessa
richiesta, ma più costosa. Per esempio, un venditore potrebbe indurre il cliente a optare per un particolare tipo di auto,
offrendola a un prezzo basso o con possibilità di permuta del veicolo. Poi, dopo che la decisione è stata presa, il commerciante
viene meno all’accordo, adducendo qualche scusa per cui l’auto non è più disponibile al prezzo originario.
L’influenza della maggioranza e della minoranza
L’influenza:
● della maggioranza. Asch tentò di dimostrare che le persone non erano così suggestionabili come ritenuto da Sherif; e credeva
che l’adattamento alle norme mostrato nel suo esperimento potesse essere spiegato dalla natura ambigua degli stimoli
autocinetici: sosteneva che, con stimoli oggettivi, le persone sarebbero rimaste indipendenti dai giudizi del gruppo. Così anche
lui provò un esperimento: ai partecipanti, tutti complici dello sperimentatore eccetto uno, venivano mostrati due cartoncini. In
uno vi erano 3 linee di lunghezza differente, ciascuna indicata da un numero. Il secondo cartoncino conteneva una sola linea
che aveva la stessa lunghezza di una delle tre del primo cartoncino. Ai partecipanti fu detto di dire quale delle tre linee
corrispondeva a quella raffigurata. Tutti i complici fornivano risposte sbagliate e inoltre il partecipante oggetto
dell’esperimento (naif) si trovava a rispondere sempre per penultimo in modo tale da sentire parecchie risposte prima di dare la
sua. Nel 36,8% dei casi i partecipanti naif fornivano la stessa risposta sbagliata degli altri partecipanti. In una versione
alternativa dell’esperimento, la situazione fu organizzata in modo tale che il partecipante naif arrivasse in ritardo, per cui
poteva dare le sue risposte per iscritto, mentre gli altri partecipanti (complici) continuavano a rispondere a voce alta. La
percentuale di conformismo alla maggioranza scendeva al 12,3%. Questo tipo di influenza si chiama conformismo, cioè la
convergenza di pensieri, dei sentimenti e del comportamento degli individui verso una norma del gruppo. Esistono diversi tipi
di conformismo:
1. adesione interiore, cioè quando il giudizio del gruppo viene ritenuto un modello corretto e appropriato su cui basare le
proprie opinioni o azioni
2. conformismo pubblico, cioè quando le persone si comportano coerentemente con le norme del gruppo che
intimamente non accettano. Viene adottato per timore del giudizio del gruppo o di ritorsioni
I fattori che influenzano il livello di conformismo sono:
1. l’ampiezza del gruppo: il conformismo cresce drasticamente quando il numero dei membri della maggioranza
passa da uno a tre
2. i membri del gruppo devono essere visti come indipendenti tra di loro e non come “pecore”
3. i membri del gruppo sono dipendenti l’uno dall’altro, dal punto di vista cognitivo e sociale
4. il conformismo è legato al desiderio di essere apprezzati (influenza normativa) e di avere ragione (influenza
informativa)
● della minoranza. Sulla base della teoria della dipendenza, le minoranze non possiedono le risorse necessari per rendere i
membri della maggioranza indipendenti da loro: non hanno status e ampiezza numerica. Ma così non esisterebbe innovazione e
cambiamento. Secondo Moscovici, le posizione della minoranza viene respinta per evitare i conflitti, attribuendo ad ssa
caratteristiche di devianza e non desiderabilità. Per superare questa visione, la minoranza deve adottare un comportamento che
dimostri sicurezza e dedizione. Moscovici sottolinea in questo caso l’importanza della coerenza, cioè la necessità di rispondere
con lo stesso stimolo in tutte le prove.
La maggioranza induce al conformismo gli altri membri del gruppo tramite l'influenza normativa; la minoranza, invece, può
agire tramite l'influenza informativa, introducendo nel gruppo idee nuove ed informazioni impreviste, che lo costringono a
riesaminare la questione nel tentativo di comprenderla. Inoltre, poiché i membri di un gruppo non sono tendenti a seguire la
minoranza pubblicamente, la posizione minoritaria produce una conversione a livello privato.
Secondo la teoria della categorizzazione del sè:
1. l’influenza della minoranza ha luogo se la fonte è compatibile con un’identità sociale positiva
2. se la minoranza viene cateogrizzata come ingroup allora può produrre un’influenza sull’individuo
3. poichè gli atteggiamenti di una persona devono essere coerenti con la sua identità sociale, allora vengono adottate le
posizioni dell’ingroup per rifurre l’incertezza soggettiva
4. un disaccordo con altri categorizzati come simili a sè trasmette incertezza e motiva le persone a risolvere la discrepanza
attraverso l’influenza sociale reciproca.
Decisioni di gruppo
Polarizzazione di gruppo
Più comunemente una maggioranza è schierata fin dall’inizio su una particolare posizione. L’effetto di questa condizione si chiama
polarizzazione di gruppo e si riferisce alla tendenza a prendere decisioni che sono più estreme rispetto alla media delle posizioni
iniziali dei membri. Inoltre, l’effetto di polarizzazione agisce anche quando si prendono in considerazione alternative rischiose:
quando ci sono questioni rischiose all’intrno del gruppo si è tendenti a prendere la decisione più rischiosa insieme piuttosto che una
decisione più cauta individuale, per l’effetto della polarizzazione e per diffusion di responsabilità
Il compromesso di gruppo
Quando la discussione in un gruppo riesce a trovare un compromesso, la posizione finale risulterà più moderata rispetto alle opinioni
iniziali: questo effetto è chiamato depolarizzazione
Come si formano le norme polarizzate?
Le norme polarizzate possono formarsi attraverso dei fattori:
● argomentazioni persuasive: le informazioni che circolano in un gruppo possono esprimere:
1. un’opinione pro o contro una questione
2. contenere qualche elemento di novità
3. avere un valore persuasivo
Dunque, a portare argomentazioni a sostegno o contro la posizione del gruppo (approccio informativo)
● confronto sociale: secondo questa prospettiva, i membri di un gruppo tendono a confrontare se stessi con gli altri membri e
sentono i bisogno di vedersi in termini positivi e di guadagnarsi l’approvazione degli altri (approccio normativo)
● categorizzazione del sè: la polarizzazione si accentua quando è presente un confronto con un gruppo esterno: lo spostamento
verso la norma del gruppo significa spostarsi verso l’ingroup
● pensiero di gruppo: il pensiero di gruppo incoraggia i membri a raggiungere l’unanimità, a discapito di una valutazione
realistica di percorsi di azione alternativi; non origina necessariamente dalla polarizzazione ma è il risultato del fallimento
dello scambio di informazioni. Nasce in quelle situazioni in cui il desiderio di raggiungere un consenso interferisce con un
efficace processo decisionale e prevale la motivazione a raggiungere un consenso, indipendentemente da come è stato ottenuto.
Questo tipo di approccio è frequente gruppi coesi che si sentono pressati a prendere delle decisioni: è probabile che i membri
del gruppo impongano il conformismo, nascondano posizioni favorevoli a posizione dissenzienti, soffochino il pensiero
indipendente e giustifichino la loro posizione. Il consenso:
1. viene ottenuto senza prendere in considerazione tutte le informazioni disponibili
2. è contaminato perché i giudizi non sono indipendenti
3. viene ottenuto tramite conformismo pubblico
La conseguenza è un’illusione di unanimità.
L’obbedienza all’autorità
La ricerca sull’obbedienza all’autorità, che iniziò con l’esperimento di Milgram, tratta di un altro tipo di influenza, cioè il rispetto
degli ordini provenienti da una persona di status superiore.
Parlando ad esempio del regime nazista, cosa ha spinto i soldati all’obbedienza? La struttura caratteriale tipica delle persone inclini
all’antisemitismo e che determina una disposizione ad aderire a ideologie antidemocratiche:
● eccessivo conformismo
● tendenza a vedere pericoli ovunque
● ostilità nei confronti dei gruppi esterni o devianti
● marcata rigidità mentale
● atteggiamento sottomesso nei confronti dell’autorità
Willem Doise sottolinea come tutti i fenomeni i fenomeni sociali a cui assistiamo quotidianamente possono essere analizzati e spiegati
sulla base di 4 livelli di complessità differenti:
● livello interpersonale, in cui si studiano i processi psicologici attraverso cui l’individuo percepisce, valuta e agisce
nell’ambiente sociale.
● livello interindividuale, in cui si studia l’influenza che le interazioni tra gli individui possono avere sugli atteggiamenti e i
comportamenti del singolo;
● livello posizionale o intergruppi, in cui si considerano le posizioni occupate dagli individui nel sistema sociale. Il modo in cui
le persone agiscono in una determinata situazione è, infatti, determinato dalle proprie appartenenze di gruppo, dalla propria
posizione sociale, dal proprio vissuto ecc…
● livello culturale o ideologico, in cui si studia l’influenza che i sistemi di credenze, i valori e le norme sociali hanno sulla vita
mentale e sui comportamenti della persona. Le relazioni tra i gruppi sono infatti guidate da schemi culturali e norme sociali,
che forniscono gli strumenti per interpretare le situazioni di vita quotidiana.
Il concetto di autorità
Il concetto di autorità ha una doppia natura:
● relativa, perché chi rappresenta l’autorità in un dato momento dipende dal contesto sociale di riferimento. Ad esempio, se c’è
un medico in aereo dovrà rispondere all’autorità della hostess che gli chiede di allacciare le cinture in caso di turbolenza, ma la
hostess dovrà rispondere all’autorità del medico nel caso qualcuno si sentisse male in aereo
● razionale, in quanto si esercita sempre nei confronti di almeno una persona.
L’autorità, a sua volta, può essere:
● razionale, che è quella che contraddistingue il rapporto fra allievo e insegnante: è un’autorità sempre criticabile da parte delle
persone verso le quali è esercitata e ha lo scopo di favorire l’autonomia e la libertà della persona, attraverso l’insegnamento e il
passaggio di sapere ed esperienza. Questo tipo di autorità è detta promotrice, in quanto finalizzata a promuovere lo sviluppo
di tutte le parti dell’interazione
● irrazionale, che contraddistingue il rapporto tra servo e padrone: deriva da un potere imposto e si basa sul timore spesso
coercitivo esercitato dall’autorità. Si fonda pertanto su una disuguaglianza e su una pretesa di naturale superiorità di chi
possiede il possiede il potere rispetto a chi ne è soggetto. Questo tipo di autorità è detta inibitoria, poiché si basa sulla
coercizione e sul contenimento.
Obbedire e disobbedire all’autorità
L’azione di obbedire all’autorità non ha una connotazione valoriale di per sè, non è nè giusta nè sbagliata; l’eticità dell’obbedienza
dipende dalle disposizioni a cui si obbedisce e dal contesto entro cui si obbedisce. Bisogna infatti distinguere tra:
● obbedienza costruttiva, che garantisce l’armonia della vita sociale tramite il “prestare ascolto”
● obbedienza distruttiva o acritica, in cui la persona obbedisce all’autorità senza mettere in discussione la legittimità e la
moralità delle sue richieste e senza tenere conto delle conseguenze delle proprie azioni
Analogamente, il concetto di disobbedienza è altrettanto sfaccettato e non deve essere considerato solo come l'opposto all’obbedienza:
disobbedire, infatti, non significa solo “rifiutarsi di ascoltare”, ma è un comportamento complesso che si sviluppa come “autonomia di
pensiero”. L’analisi della disobbedienza come acquisizione di autonomia è evidenziata negli studi sullo sviluppo sociale di Spitz, che
vede la disobbedienza come affermazione della propria indipendenza nei confronti dei genitori.
Apprendimento delle norme e giudizio morale
Piaget in questo senso distingue fra:
● stadio dell’egocentrismo, in cui si ignorano le regole
● stadio realistico-eteronomo, in cui le regole provengono dall’autorità che è sacra e va sempre rispettata
● stadio autonomo, in cui la validità delle regole non è assoluta e non deriva dal potere degli adulti, ma scaturisce dall’accordo
di chi le adotta
Anche Kohlberg parla dello sviluppo morale visto sotto forma di una successione di livelli:
● livello preconvenzionale, in cui i problemi di natura morale vengono percepiti solo dalla propria prospettiva, che contiene due
stadi:
1. nel primo l’azione è sbagliata quando si riceve una punizione
2. nel secondo, le norme sono valutate in termini di vantaggio/svantaggio che esse comportano e dunque si obbedisce per
ricevere ricompense
● livello convenzionale, in cui i giudizi morali vengono elaborati sulla base delle norme dettate dal proprio gruppo di
appartenenza, e contiene:
1. il terzo stadio, in cui l’azione è giusta o sbagliata in base a ciò che è giusto o sbagliato secondo il proprio gruppo di
appartenenza
2. il quarto stadio, in cui si dà importanza alle leggi e alle autorità che le rappresentano
● livello postconvenzionale, in cui le norme morali sono riferite a principi astratti e a valori universali, che contiene:
1. il quinto stadio, in cui il fine ultimo è la costruzione di una società democratica e rispettosa dei diritti di ciascuna parte
2. il sesto stadio, in cui si ha un concetto di giustizia superiore imparziale basato sul rispetto di tutte le persone e su
principi etici universali che talvolta possono non essere scritti nelle leggi
L’esperimento di Milgram
Il processo a Eichmann
L’11 maggio 1960 ebbe luogo il processo a Eichmann, colui che diede inizio allo sterminio degli ebrei. La difesa sceglie la "negazione
di ogni responsabilità personale, asserendo di avere obbedito a ordini superiori pur non approvandoli”; tuttavia, il gerarca nazista
rivendicò di avere svolto con orgoglio il proprio lavoro. Le analisi storiche hanno tuttavia smentito l’ipotesi che lo sterminio di 6
milioni di ebrei fosse stato commesso da personalità sadiche: la maggior parte degli uomini delle ss era da ritenersi totalmente
“normali”. L’osservazione del processo fece riflettere Hannah Arendt, filosofa autrice di “banalità del male”, portandola a concludere
che l’uomo può incorrere facilmente nell’errore di considerare altri esseri umani come superflui, e Arendt definisce questo
atteggiamento male radicale,
Lo psicologo Stanley Milgram diede vita a un esperimento che fu la dimostrazione empirica delle intuizioni di Arendt. La situazione
sperimentale era stata studiata per osservare il comportamento di persone comuni all’interno di una relazione di autorità; e prevedeva
il coinvolgimento di due persone di cui uno era il soggetto sperimentale, l’altro un complice dello sperimentatore: al soggetto veniva
dato il ruolo di insegnante, all’attore quello di allievo. All’allievo veniva detto di memorizzare una coppia di parole (es scatola
azzurra), poi veniva fatto sedere alla sua postazione, dove veniva legato e gli venivano applicati degli elettrodi sulle braccia. Il
compito dell'insegnante era quello di leggere all’allievo il secondo termine della coppia di parole e l’allievo doveva rispondere con la
prima parola: qualora sbagliasse l'insegnante doveva inferirgli la scossa elettrica, via via più potente. Prima di tutto ciò però veniva
fatto provare all’insegnante l’intensità delle scosse, da un minimo di 15 volt a un massimo di 450. Milgram si aspettava che gli
insegnanti interrompessero l’esperimento dopo le prime scosse di intensità rilevante e allorché l’allievo chiedesse do fermare
l’esperimento (150 volt). In realtà i risultati empirici contraddissero le sue ipotesi in quanto ben il 65% dei soggetti sperimentali arrivò
ad impartire per ben 3 volte consecutive la scossa di 450 volt. Da questi risultati Milgram dedusse che l’individuo è portato ad
obbedire all’autorità, quando, entrando a far parte di un sistema gerarchico, viene a trovarsi nella condizione chiamata stato
eteronomico, cioè non si considera più come individuo autonomo e responsabile, ma come strumento per eseguire gli ordini impartiti
da un’autorità riconosciuta come legittima. Anche la distanza o vicinanza alla vittima è una caratteristica importante: Milgram notò
che il livello di obbedienza è aumentato proporzionalmente alla distanza alla vittima, cioè la consapevolezza del soggetto che sta
commettendo un crimine verso un altro essere umano sembra offuscata dalla distanza, soprattutto psicologica, della vittima.
Obbedienza e conformismo
Milgram distingue obbedienza e conformismo a partire da 4 aspetti salienti:
● gerarchia: l’obbedienza si manifesta nell’ambito di una struttura gerarchica; il conformismo regola il comportamento tra
persone con lo stesso status
● imitazione: il conformismo si basa sull’imitazione, ma nell’obbedienza manca, in quanto si ripete semplicemente un ordine
● chiarezza: nell’obbedienza gli ordini sono chiari ed espliciti; nel conformismo le pressioni a imitare il comportamento del
gruppo sono implicite e inespresse
● volontarismo: a posteriori le persone negano di essersi conformate, mentre riconoscono e spesso giustificano l’’aver obbedito
ad un’autorità.

L’AGGRESSIVITA’ (CAPITOLO 8)
Si può definire l’aggressione come qualsiasi forma di comportamento che ha lo scopo di arrecare danno o ferire un altro essere
vivente che è motivato ad evitare tale trattamento. Il termine danno invece fa riferimento a qualsiasi forma di trattamento indesiderato
che può causare una ferita fisica o psicologica, compromettere le relazioni sociali, sottrarre o rovinare beni posseduti dal target.
Inoltre, è da specificare che:
● il comportamento aggressivo è definito dalle sue intenzioni o motivazioni sottostanti, non dalle conseguenze. Se ad esempio un
colpo di pistola mancasse il bersaglio, la sola intenzione di voler sparare e averla messa in atto implica un comportamento
aggressivo
● l'intenzione di recare danno implica la capacità, da parte dell’attore, di comprendere che il comportamento può danneggiare o
ferire il destinatario. Al contrario, se le azioni di una persona danneggiano o feriscono un’altra persona ma l’attore non aveva
comprensione del fatto che la sua azione avrebbe recato danno, tale azione non è giudicabile aggressiva
● le azioni dannose messe in atto con il consenso del destinatario non sono considerate dannose.
Concetto importante è quello di violenza, che è un termine più ristretto e indica includono la violenza e la minaccia della forza fisica.
Tuttavia, non tutti i comportamenti aggressivi sono violenti (ad es. gridare contro qualcuno è un atto aggressivo ma non violento) ma
tutti i comportamenti violenti si qualificano come aggressioni.
Esistono varie tipologie di aggressione:
● dirette, che implicano un confronto faccia a faccia
● indirette (o relazionali), che indicano condotte che hanno lo scopo di danneggiare le relazioni sociali del target (ad es.
diffamazione o calunnia)
● strumentali, quando l’atto aggressivo serve a raggiungere un preciso scopo (ad es. prendere in ostaggio per ottenere un
riscatto)
● ostili, quando l’atto aggressivo è mosso dal desiderio di esprimere sentimenti negativi e l’obiettivo principale è far del male al
target.
Misura del comportamento aggressivo
Delle importanti fonti di misura del comportamento aggressivo sono:
● self-reports comportamentali, in cui le persone descrivono le proprie tendenze aggressive
● misure self-report standardizzate, che servono a valutare l’aggressività tramite resoconti personali, ad esempio con un
questionario di aggressività, o per valutare specifiche tendenze di dominio con un questionario sulle esperienze sessuali
● eterovalutazioni, cioè informazioni fornite da genitori o compagni di classe
● dati di archivio, come ad esempio le statistiche sul crimine, che potrebbero sembrare poco di aiuto per i singoli casi ma
sicuramente aiutano a dare una valutazione generale delle condotte aggressive.
Teorie sull’aggressività
Le teorie sull’aggressività forniscono due tipi di approcci:
● approcci biologici: tramite studi sull’evoluzionismo e della genetica, o del ruolo degli ormoni
1. prospettiva etologica, che spiega che il comportamento aggressivo di umani e animali è come guidato da un’energia
interna rilasciata da particolari stimoli(modello della caldaia a vapore): l’energia aggressiva è prodotta continuamente
nell’organismo fino a quando non viene rilasciata a causa do uno stimolo, come ad esempio la comparsi di un rivale e
dunque il comportamento aggressivo è il risultato di questa fonte di energia. Questa teoria però implica che una volta
scaricata l’energia non dovrebbe ripresentarsi la condotta aggressiva, non spiegando quindi gli atti continui di violenza
2. prospettiva genetica, che pensa che ci sia un collegamento tra condotte aggressive e patrimonio genetico, cercando di
dimostrare che le tendenze aggressive di persone geneticamente vicine sono più simili tra loro di persone non legate
geneticamente. Tuttavia, non si può escludere l'influenza della socializzazione nel corso dello sviluppo individuale
3. prospettiva ormonale, che ha indagato il ruolo degli ormoni, i particolare il testosterone, l’ormone sessuale maschile,
volendo dimostrare le differenze di genere nella condotta aggressiva. Il testosterone è collegato all’attivazione degli
impulsi di lotta e all’inibizione del comportamento di fuga o evitamento. Un altro correlato è il cortisolo (ormone dello
stress), infatti, ridotte quantità di cortisone sono associati al coraggio, alla tendenza a correre rischi e all’insensibilità
alla punizione
● approcci psicologici:
1. ipotesi frustrazione-aggressività. La frustrazione causa un’istigazione a diversi tipi di risposte, una delle quali è
l’aggressività. Tuttavia l’aggressività non è la sola risposta alla frustrazione: dipende dall’influenza di altre variabili
individuali o ambientali, quali la paura di essere puniti o la mancanza della fonte di frustrazione sono fattori inibenti
l’aggressività. A volte la frustrazione che non può essere espressa verso la fonte originale viene deviata attraverso un
bersaglio maggiormente disponibile. Inoltre, una variabile in grado di incrementare la probabilità di una risposta
aggressiva è la presenza di stimoli aggressivi, cioè aspetti della situazione che suggeriscono la possibilità di una
risposta aggressiva
2. neo-associazionismo cognitivo, che prevede un’estensione del modello precedente, aggiungendo l’ipotesi che la
frustrazione sia uno degli stimoli in grado di suscitare un’attivazione affettiva negativa, e che gli altri tipi di stimoli
avversivi, come il dolore o il rumore, possono portare a comportamenti aggressivi. L’evento spiacevole provoca
emozioni negative che danno una reazione associativa primaria:
● se causa pensieri, ricordi, risposte fisiologiche e motorie connesse all’aggressività si parla di rabbia
rudimentale e la conseguenza è quella dell’irritazione, del fastidio o della rabbia
● se causa pensieri, ricordi, risposte fisiologiche e motorie connesse alla fuga si parla di paura rudimentale e la
conseguenza è la paura
3. trasferimento dell’eccitazione, che dice che gli effetti della frustrazione possono essere incrementati dall’attivazione
fisiologica causata da una fonte neutrale o non legata all’aggressività: se l'attivazione fisiologica derivata dall’attività
neutra (ad es. fisica) è ancora presente quando la persona si arrabbia, la precedente attivazione fisiologica verrà
trasferita sulla nuova situazione ed erroneamente attribuita alla rabbia, amplificando ulteriormente la forza delle
risposte aggressive
4. apprendimento e aggressività: il comportamento aggressivo viene appreso attraverso esperienze di socializzazione e
di apprendimento:
● tramite rinforzo diretto: essere premiati per un comportamento aggressivo
● tramite modellamento, cioè l’apprendimento per imitazione: in un esperimento di Bandura, l’obiettivo
era mostrare come sia possibile apprendere dei comportamenti anche attraverso esperienze indirette per
imitazione o identificazione in un modello. Nell’esperimento della bambola Bobo Bandura fece vedere a
dei bambini dei comportamenti aggressivi contro il pupazzo, che veniva picchiato e maltrattato da un
suo collaboratore. Il risultato fu che i bambini che avevano assistito alla scena diventavano più inclini a
comportamenti aggressivi di quelli che non vi avevano assistito. Bandura dimostrò che il meccanismo di
apprendimento sociale si instaura più facilmente se modello e osservatore sono simili e se il modello
rappresenta una figura autorevole per l’osservatore è più probabile che questo imiti la condotta
aggressiva del modello.
5. modello generale dell’aggressività, che mette insieme tutte le teorie per spiegare meglio la causa dell’aggressività:
● disposizioni personali (es. rabbia di tratto) e stimoli esterni creano uno stato interiore caratterizzato da
cognizioni specifiche, scripts aggressivi (linee guida che ci dicono se mettere in atto o meno un
comportamento aggressivo) e da sintomi di attivazione
● a persone colleriche bastano minime preoccupazioni per attivare pensieri aggressivi
Differenze individuali:
● aggressività di tratto, che riguarda le differenze disposizionali o le tendenze a mostrare comportamenti aggressivi. Inoltre,
alcune persone hanno maggiore tendenza all'aggressività, altre meno. E’ un costrutto multidimensionale che comprende 4
componenti principali: aggressività fisica, verbale, rabbia, ostilità
● bias di attribuzione ostile, cioè la tendenza ad interpretare i comportamenti ambigui di un’altra persona come espressione di
intenti ostili: una metanalisi di 40 studi ha evidenziato una significativa relazione tra attribuzione di intenzioni ostili e
comportamento aggressivo in bambini e adolescenti. Questo bias si sviluppa attraverso l’esposizione a contenuti violenti e
attraverso il modellamento da parte della madre (ma questo influisce maggiormente sulle figlie femmine)
● differenze di genere. Gli uomini sono statisticamente più aggressivi delle donne (con un rapporto di 8:1); generalmente le
donne sono maggiormente coinvolte nella violenza relazionale
Influenze situazionali:
● alcol, infatti anche moderate quantità di alcol producono condotte aggressive, questo perché riveste molta importanza nei
crimini violenti: omicidi, violenza domestica, aggressione sessuale, percosse tra partner. L’alcol è un predittore significativo
del comportamento aggressivo ed ha anche un effetto indiretto, riducendo la capacità attentiva e quindi ostacolando la visione
globale della situazione (miopia alcolica)
● elevate temperature. Secondo l’ipotesi del calore le aggressioni aumentano con l’accrescere delle temperature. In tal senso,
sono stati sviluppati due paradigmi:
1. approccio delle regioni geografiche: legame fra climi caldi e indice di violenza
2. approccio dei periodi temporali: confronto tra i cambiamenti negli indici di violenza nella stessa regione in funzione
del cambiamento delle temperature
Gli effetti delle temperature possono essere spiegati attraverso il modello generale dell’aggressività, secondo cui il
calore suscita una sensazione di disagio che favorisce un’attivazione affettiva negativa, la quale influenza
l’elaborazione cognitiva degli stimoli sociali
● contenuti violenti nei mass media. Secondo Anderson la ricerca su film, televisione, giochi e musica violenti rappresenta una
prova inequivocabile che la violenza dei media incrementa la probabilità di comportamenti violenti e aggressivi sul breve e
lungo termine. Le fonti sono:
1. studi sperimentali con esposizione a contenuti violenti e non violenti per verificare successivamente gli effetti di questa
manipolazione su pensieri, sentimenti o comportamenti violenti
2. studi che correlano self reports sulla fruizione di contenuti violenti e messa in atto di comportamenti aggressivi
3. studi longitudinali che seguono la covariazione della fruizione di media violenti e dell’aggressività nel corso del tempo,
per dimostrare che una precoce esposizione alla violenza aumenta la probabilità di mettere in atto comportamenti
aggressivi
I meccanismi che si attivano sono:
1. l’esposizione della rappresentazione mediatica delle interazioni aggressive incrementa l’accessibilità di
sentimenti o pensieri aggressivi
2. l’esposizione all’aggressività può favorire processi di apprendimento sociale
3. l’esposizione a stimoli violenti suscita a breve termine più emozioni ostili e a lungo termine assuefazione,
riducendo l’empatia nei confronti della sofferenza delle vittime
4. promuove l’accettazione normativa dell’aggressività e lo sviluppo del bias di attribuzione ostilI
L’aggressività come problema sociale: la violenza domestica
Per violenza domestica si intende il perpetrare o minacciare atti di violenza fisica tra partner coinvolti in una relazione romantica o
coniugale. I dati ufficiali mostrano che il numero delle vittime donne è nettamente superiore rispetto a quello delle donne; tuttavia il
fenomeno è multisfaccettato ed è il risultato di dinamiche e contesti molto diversi. Direttamente collegato alla violenza domestica vi è
sicuramente il tema dell’aggressione sessuale, che include un’ampia gamma di pratiche sessuali imposte tramite l’uso di strategie
coercitive, come la minaccia, la forza fisica o lo sfruttamento dell’incapacità della vittima di resistere alla pressione verbale: include
anche molestie e stalking.
Le conseguenze che possono derivarne sono molto gravi, fino ad arrivare al disturbo post-traumatico da stress.
Bullismo e Mobbing
E’ definito bullismo il fenomeno che denota degli atti aggressivi compiuti in contesti istituzionali verso le vittime che non possono
difendersi facilmente. Le tipologie di bullismo includono aggressioni verbali, fisiche e relazionali, quindi volti a danneggiare le
relazioni col gruppo dei pari. Il processo tecnologico ha condotto alla nascita di una nuova forma di abuso, chiamata cyberbullismo,
che implica un’umiliazione su larga scala messa in atto intenzionalmente mediante l’uso di computer, telefoni cellulari o altri
strumenti elettronici mediante social network. Le vittime sono bambini o adolescenti ansiosi, socialmente ritirati, isolati dal gruppo e
spesso fisicamente più deboli dei propri coetanei. Anche il bullo, con le sue aggressioni, vuole chiedere aiuto: il disagio psicologico
del bullo non va sottovalutato e la soluzione al problema non può essere solamente la punizione.
Il fenomeno del bullismo non si limita solo al contesto scolastico, ma emerge anche nei luoghi di lavoro e si riferisce a comportamenti
protratti nel tempo, mirati ad avvilire o danneggiare una persona, che non è in grado di difendersi a causa di uno squilibrio di potere:
tale tipologia di bullismo è definita mobbing. Il mobbing trova le sue origini soprattutto in una organizzazione disfunzionale del
lavoro, in cui prevale la competizione e non la cooperazione, e una persona con una particolare serietà all’interno del contesto
lavorativo e prettamente isolata è la principale tipologia di vittima.
Violenza intergruppi
I gruppi possono entrare in competizione per il conseguimento di obiettivi di potere o materiali, ma anche in assenza di conflitto di
interesse, la semplice categorizzazione sociale può essere fonte di ostilità, nel tentativo di promuovere un’immagine positiva
dell’ingroup e farlo apparire superiore .
Le aggressioni intergruppi possono essere:
● ostili, come gli atti di vandalismo dopo la sconfitta della propria squadra
● strumentali, come gli attacchi terroristici derivati da una causa politica.
Questa definizione include anche la violenza collettiva, cioè il ricorso strumentale alla violenza da parte di persone che si
identificano come membri del gruppo e si oppongono ad un altro gruppo. Ne fanno parte:
● i conflitti all’interno di nazioni
● la violenza dei genocidi e delle torture portate avanti da un governo
● il crimine organizzato
Questo è dovuto principalmente dalla cosiddetta prospettiva della deindividuazione, derivata dall’appartenenza al gruppo, promossa
da altre componenti quali l’anonimato, la diffusione di responsabilità, l’ampiezza del gruppo.
Un’altra prospettiva fondamentale è quella dell’identità sociale, secondo la quale l’aggressività intergruppi deriva principalmente dal
risultato del bisogno psicologico di stabilire e mantenere un'identità positiva. Inoltre, importante è anche la svalutazione
dell’outgroup, che promuove sentimenti di ostilità.
Violenza intergruppi
Per spiegare il perché della violenza intergruppi è stato elaborato da Moghaddam il modello a scala, che include diversi livelli di
approccio, individuale, di gruppo e di società. Il piano terra è occupato da tutti i membri della società, che valutano le proprie
condizioni in termini di giustizia ed equità, Chi percepisce le condizioni ingiuste salirà al primo piano, da dove valuterà le diverse
opzioni per cambiare la situazione. Chi ritiene ci sia un margine di miglioramento proseguirà la lotta con mezzi non violenti, gli altri
passeranno al secondo piano, dove cercheranno un nemico diretto (ad es il governo) o indiretto (ad es l’antiamericanismo). Quelli che
pensano di poter dirigere la loro aggressività verso a un nemico passano al terzo piano, sviluppando una propensione alla violenza a
cui le organizzazioni terroristiche possano offrire un impegno morale: le azioni violente sono considerate moralmente accettate e i
nuovi adepti abbracciano una nuova identità sociale. Al quarto piano il pensiero categoriale contrappone noi vs loro e gli adepti
vengono isolati dalle loro famiglie e dagli amici. Il passaggio al quinto piano è obbligatorio: l’inibizione di uccidere persone
innocenti viene superata attraverso due meccanismi:
● la categorizzazione, che evidenzia le differenze tra ingroup e outgroup
● il distanziamento, che esagera le divergenze tra ingroup e i potenziali target

IL COMPORTAMENTO PROSOCIALE (CAPITOLO 9)


Il comportamento prosociale è un tipo di comportamento volto ad aiutare gli altri, di supporto. In tal senso bisogna fare una
distinzione fra varie definizioni:
● comportamento d’aiuto: azione che ha lo scopo di migliorare il benessere del destinatario o fornirgli un beneficio
● comportamento prosociale: è culturalmente determinato, perché è definito dalla società come benefico per le altre persone o
per il sistema sociale
● altruismo: comportamento a beneficio degli altri che avviene con disinteresse, cioè senza aspettarsi una particolare
ricompensa
Motivazioni altruistiche o egoistiche
La psicologia sociale si occupa anche di spiegare il perché le persone sono altruiste o egoiste. Tra i modelli che tentano di spiegarlo vi
è l’ipotesi empatia-altruismo, in cui l’altruismo, evocato da un sentimento di empatia, costituisce una potenziale motivazione:
empatia, infatti, viene dal greco e significa sofferenza, dunque vuol dire provare il dolore degli altri. Contrapposta a quest’ultimo vi è
il modello del sollievo dallo stato negativo di Cialdini, secondo il quale osservare una persona in difficoltà suscita un’emozione
spiacevole nell’osservatore, spingendolo ad agire; dunque, l’aiuto alla persona bisognosa deriverebbe dalla volontà di alleviare il
proprio disagio
Tipologie di comportamenti prosociali
Tra le tipologie di comportamento prosociale abbiamo:
● cooperazione: quando l’aiuto non è unidirezionale, ma implica l’azione congiunta di più persone che si aspettano di trarre
benefici
● altruismo totalmente disinteressato (selfless): quando chi aiuta corre gravi rischi
● volontariato: attività nelle quali il proprio tempo è messo a disposizione gratuitamente per il vantaggio di un’altra persona, un
gruppo o un’organizzazione
● intervento di emergenza: agire in risposta ad una situazione di rischio urgente o imprevista
● intervento dello spettatore: aiutare nelle situazioni di emergenza osservate
Perchè le persone decidono di aiutare? Il modello decisionale dello spettatore
E’ un modello sequenziale a 5 fasi, nel quale una decisione negativa porta al mancato intervento. L’elemento chiave che determina la
risposta individuale in situazioni di emergenza è la presenza o meno di testimoni, dunque entra in gioco l’influenza informativa e
normativa, insieme alla pressione sociale di non apparire deviante alla collettività.
EVENTO ESTERNO

1. notare l’evento se la consapevolezza dell’evento è alta passi al 2

consapevoleza bassa

2. capire se esiste un’emergenza *2 interpretazione dell’evento come emergenza: si passa al 3:


interviene l’ignoranza pluralistica

nessuna emergenza

3. stabilire il grado di responsabilità personale*1 responsabilità personale: si passa al 4 ma interviene la diffusione


di responsabilità

nessuna responsabilità personale

4. decidere in che modo intervenire se c’è possibilità di intervento si passa al 5

5. realizzare l’intervento scelto intervenire o meno. Qui si mette in gioco l’inibizione sociale

*1. diffusione di responsabilità: se siamo da soli, sappiamo che la responsabilità dell’intervento ricade solo su di noi. Se siamo con
altre persone, la responsabilità di aiuto è condivisa tra i vari spettatori, dunque ciascuno si sente un po 'meno obbligato a fare qualcosa.
*2 Altro fattore che condiziona in questa fase è l’ignoranza pluralistica: poiché le situazioni di emergenza sono eventi improvvisi,
imprevedibili e ambigui, quando ci ritroviamo in situazioni simili esitiamo per comprendere a fondo cosa sta succedendo. In presenza
di altre persone che assistono alla scena, le osserviamo per capire cosa fanno e questo ci rende modelli di inazione per gli altri, che a
loro volta sono osservatori del nostro comportamento.
*3 inibizione sociale: la presenza di altri attiva un’ansia da valutazione, che deriva dalla paura di poter fraintendere la situazione, che
magari non è una situazione di emergenza. Questo processo ci preserva dall'imbarazzo sociale. Il risultato di tutto ciò è il cosiddetto
effetto spettatore, secondo il quale la probabilità di intervento si riduce in funzione del numero di testimoni a una situazione di
emergenza. Tutto questo è presente in un intervento di Darley e Latanè, dove manipolarono sistematicamente il numero degliu
spettatori percepiti in una situazione di emergenza
Limiti dell’effetto spettatore
● non agisce nelle situazioni di emergenza
● se ne può limitare l’impatto fornendo alle persone informazioni sui suoi meccanismi
● poiché il processo di inibizione sociale è particolarmente potente quando i testimoni sentono di non avere le competenze
necessarie per fornire un aiuto adeguato, la partecipazione a training di vario tipo può contrastare l’effetto spettatore. Infatti, se
lo spettatore si ritiene competente, la presenza di altre persone può incoraggiare l’intervento.
Perchè le persone decidono di aiutare? Il modello costi-benefici
Prendendo ispirazione dai resoconti di circostanze di pericolo in cui gli osservatori non esitavano a rischiare la vita, Piliavin sviluppò
il modello costi-benefici. Il modello prevede due componenti:
● un costrutto motivazionale centrale, detto di attivazione vicaria, secondo la quale guardando negli altri la sofferenza si prova
un senso di disagio
● una componente cognitiva di decision making, che implica un calcolo costi-benefici delle azioni

costi osservatore benefici osservatore costi vittima che non benefici vittima
riceve aiuto che non riceve
aiuto

perdita di tempo aumento dell’autostima aumento continuare la


dell’attivazione propria attività
spiacevole

rischio della propria incolumità gratitudine della vittima autocolpevolizzazione

sforzo critiche dagli altri


A questi assunti vanno aggiunte altre variabili:
● caratteristiche dell’osservatore: competenza, norme personali, umore, attenzione
● caratteristiche della vittima: similarità con l’osservatore
Queste caratteristiche influiscono sulla capacità decisionale.
Inoltre, in situazioni di evidente emergenza, in particolare se l’osservatore conosce la vittima o si trova fisicamente vicino, è possibile
si verifichi una risposta impulsiva di aiuto, in cui l’attenzione dell’osservatore è incentrata solo sulla vittima, senza il calcolo dei
costi-benefici; mentre, se la vittima viene percepita all’ingroup prevale il senso del noi, in quanto la vicinanza relativa al gruppo
bypassa la considerazione dei costi-benefici.
Perchè le persone decidono di aiutare? Il ruolo dei processi di gruppo
Nel comportamento prosociale rientra anche il senso di appartenenza a un gruppo: tale identità può condurre a condotte antisociali, ma
talvolta può portare a comportamenti prosociali. Basandosi sul modello dell’identità dell’ingroup comune, gli studiosi hanno
evidenziato che, se le persone pensano di agire come membri di un gruppo, il comportamento viene determinato prioritariamente dalle
norme e dai valori del gruppo, in cui entra in gioco il favoritismo ingroup.
Inoltre, l’effetto spettatore viene influenzato dalla relazione sociale tra spettatore e vittima: se l’osservatore percepisce la vittima
come membro del proprio gruppo, il comportamento di aiuto viene promosso, anche se identità sociale e dimensioni del gruppo
influiscono nell’inibirlo o attivarlo. In situazioni di emergenza violente, l’effetto spettatore non è sufficiente a spiegare il
comportamento delle persone: in un esperimento sul tentativo di stupro, Harari notò che l’85% degli spettatori in gruppo interbeniva,
ma la percentuale si riduceva quando lo spettatore era solo (65%). Inoltre, in un episodio di violenza, un intervento aggressivo causa
un aumento ella violenza, interventi meno aggressivi la riducono.
In caso di osservazione di violenza su minori solo 1 su 4 intervenivano direttamente, ma a queste condizioni: certezza della natura
violenta e osservazione di precedenti esperienze. Un caso particolare fu quello di James Bulger, piccolo bambino smarrito alla madre
in un supermercato e ucciso lentamente da due bambini di circa 10 anni: nessuno interviene, questo per l’accostamento degli assassini
come figura di fratelli maggiori.

In degli esperimenti con simulazione di aggressione uomo-donna: nella condizione “marito moglie” gli interventi erano di meno
rispetto alla condizione “sconosciuti”.
Perché il volontariato?
Omoto e Snyder spiegarono il volontariato su diversi livelli:
● individuale, cioè decisioni personali riguardo al coinvolgimento nell'attività di volontariato e i processi psicologici individuali
● interpersonale, dinamiche della relazione tra volontari e le persone con cui entrano in contatto durante l’attività di
volontariato
● organizzativo, questioni collegate al reclutamento e al coordinamento dei volontari
● sociale, dinamiche collettive e relazioni tra volontari e strutture sociali più ampie
Studiando episodi di volontariato, si è visto quali sono i fattori che consentono di prevedere il coinvolgimento in attività di
volontariato, e possono essere messe in atto:
● fattori predisponenti, come
1. personalità e disposizioni caratteriali, come la preoccupazione empatica
2. fattori motivazionali, come il senso civico
3. circostanze di vita, come il livello di sostegno sociale
● fattori amplificanti, come
1. processi comunitari, in quanto positivo senso di comunità e legame di appartenenza danno senso di benessere
psicologico
Personalità prosociale
La personalità prosociale è un tipo di personalità con una tendenza consolidata a pensare al benessere e ai diritti delle altre persone ,
a provare preoccupazione ed empatia, e ad agire a vantaggio degli altri, e comprende due fattori:
● l’empatia orientata verso l'altro
● la disponibilità ad aiutare

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